domenica 11 settembre 2011

l’Unità 11.9.11
Bersani a Pesaro «Con Sel, Idv, Verdi e Psi costruiamo il nuovo Ulivo»
«Noi figli della Carta e del 25 aprile. Il governo ha negato la crisi»
«Se il premier rimane lì porta l’Italia a fondo. Tocca a noi ricostruire»
Il leader del Pd alla Festa democratica di Pesaro: «L’Italia è umiliata sul piano internazionale». «Siamo un partito di patrioti, autonomisti e riformatori: è tempo di elezioni, ci vuole una riscossa dei progressisti»
di Simone Collini


L'emergenza e la forza, le menzogne e la responsabilità, l'umiliazione e l'orgoglio. L'Italia di oggi e l'Italia di domani. Pier Luigi Bersani chiude la Festa del Pd di Pesaro consapevole che per lui questo è il momento di massima pressione da quando è segretario, perché sono in corso sommari processi mediatici il cui obiettivo ormai è fin troppo chiaro, perché c'è chi soffia sul fuoco dell'antipolitica e «pifferai magici» pronti a passare all'incasso, perché chi dovrebbe collaborare alla costruzione di un'alleanza troppo spesso attacca per incassare uno zero virgola in più. Ma soprattutto perché c'è un governo da mandare a casa e il tempo a disposizione è poco. «Berlusconi deve togliersi di lì o ci porterà a fondo», scandisce nel microfono mentre Piazza del popolo esplode in uno sventolar di bandiere. «Non ci si insulti raccontandoci che si può andare avanti così fino al 2013. Questo sarebbe il disastro. Se non si è disposti a un percorso nuovo, si anticipi l'appuntamento elettorale. C'è un problema politico in questo Paese. Averlo negato ci ha portati sull'orlo del precipizio. Chi lo nega ancora si prende una gravissima responsabilità».
LE ACCUSE
Un messaggio al centrodestra che insiste con una manovra che «non ci mette in salvo» e che dovrebbe seriamente riflettere sulla proposta di «una transizione che sia affidata a un governo più credibile davanti all'opinione pubblica nazionale ed internazionale». Ma il messaggio è indirizzato anche a chiunque abbia «un ruolo di direzione o di orientamento nella società» e che in questi anni di crisi finanziaria col suo «conformismo è stato complice di chi ci ha portato fin qui». Qui, ovvero a un'Italia ridotta a «strapuntino dell'Europa e del mondo», la settima potenza industriale e fra le dieci nazioni più ricche «costretta a subire l'umiliazione di essere guardata come una zavorra, come un rischio per l'Europa»: «Li accusiamo di aver mentito agli italiani occultando ed ignorando la crisi e di aver aggravato la crisi con politiche dissennate. Li accusiamo di essersi occupati notte e giorno dei fatti loro e non dei fatti degli italiani. Li accusiamo di voler sopravvivere truccando le carte senza avere né la forza per governare né la fiducia degli italiani e di lasciare il Paese senza rotta e senza timone». E chi ha avallato tutto ciò col proprio silenzio? «Adesso almeno si prenda atto che il Pd ha sempre detto la verità e ha sempre avanzato le sue proposte alternative. Questo ci dà diritto di essere ascoltati come si ascolta una forza di governo».
MANIFESTAZIONE A ROMA
Applaude la piazza, applaude il gruppo dirigente seduto sul palco dietro il segretario, che anche nell’immagine dà il senso del rinnovamento a cui punta Bersani («la ruota girerà», assicura, lanciando una generazione «già sperimentata» e dicendo no a «faziosità e personalismi»): ci sono i membri della segreteria, i responsabili di dipartimento, alcuni presidenti di Regione, mentre la partecipazione dei big è limitata a chi ha ruoli ben precisi, dalla presidente Rosy Bindi al vicesegretario Enrico Letta ai capigruppo Anna Finocchiaro e Dario Franceschini. Bersani chiede a tutti un impegno ulteriore perché «tocca a noi – dice – ricostruire il Paese». L'annuncio che fa di nuovo esplodere la piazza è per una manifestazione nazionale che si terrà a Roma il 5 novembre, «a sostegno dell'Italia, delle nostre idee per l'Italia e della necessaria svolta politica». Una decisione presa nei giorni scorsi col ristretto gruppo dirigente, superando anche alcune pressioni a farla insieme anche a Idv e Sel. Bersani gioca la carta dell'orgoglio Pd, rivendicando la «forza e la responsabilità» di quello che «già oggi è il primo partito»: «Chi vuole veramente voltare pagina da Berlusconi e dalla Lega e aprire un cantiere di riforme non può pensare di prescindere dal Pd, sarebbe un'illusione».
Un messaggio indirizzato in più direzioni, visto che ormai è chiaro che c'è chi lavora per una politica che «si metta in coda al sedicente leader carismatico di turno che suona il peffero e non sai dove ti porta». A Di Pietro e Vendola, insieme all'offerta di «un patto politico e programmatico» ne aggiunge però un altro: «Dovrà avvenire fra soggetti che si rispettino. Non pensi di discutere con noi chi prendesse l'abitudine di punzecchiarci e attaccarci tutti i giorni pensando con qualche furbizia di guadagnare uno zero virgola». Altrimenti? «Chi intendesse applicare pratiche che già in passato hanno distrutto il centrosinistra, farà da solo perché qui non si scherza». Il patto però Bersani vorrebbe chiuderlo anche con l'Udc, e per questo rinnova dal palco di Pesaro un appello a «tutte le forze moderate che non si ritengono di centrosinsitra ma che intendono fare i conti con il modello plebiscitario e lavorare per una ricostruzione del paese su solide basi costituzionali».
CRITICHE SÌ, AGGRESSIONI NO
Ed è ancora giocando la carta dell’orgoglio che Bersani affronta la questione più spinosa, il coinvolgimento di Filippo Penati nelle inchieste sull'ex area Falck e sulla Serravalle. Il leader del Pd ci arriva dopo aver pronunciato il nome di Enrico Berlinguer, dopo aver detto che non vuole ricordarlo da qui solo con un applauso «ma con un impegno»: «Mai ci sarà da noi un diverso peso fra i diritti e le tutele di un politico, di un comune cittadino o di un immigrato, mai da noi un ostacolo al corretto svolgimento del compito della magistratura, che è quello di arrivare alla verità». Parte l'applauso, che poi si smorza quando spiega quasi nel dettaglio le modifiche allo statuto e le proposte di legge che il Pd presenterà per impedire i doppi incarichi e per garantire maggiore trasparenza sui costi delle campagne elettorali, e che poi torna a esplodere potente quando Bersani urla nel microfono: «È con la forza di questa assunzione di responsabilità e di questi comportamenti politici che diciamo attenzione! La critica la accettiamo, l'aggressione no. Non si facciano circolare contro di noi teoremi assurde, vere e proprie bufale o leggende metropolitane perché partono le denunce. Non passerà il tentativo di metterci tutti nel mucchio».
VA’ PENSIERO
Il sole è scomparso dietro il palazzo comunale, la camicia del leader Pd è ormai zuppa di sudore. «Riprendiamo il nostro cammino, riprendiamo la fiducia in noi stessi, riprendiamoci il futuro», scandisce Bersani chiudendo tra lo sventolio di bandiere. Abbraccia gli altri del gruppo dirigente, Carla Fracci che è voluta rimanere un giorno in più a Pesaro per ascoltare questo intervento. Parte la canzone «Cambierà», di Neffa. Un auspicio, una necessità. Il pomeriggio era invece iniziato sulle note del «Va’ pensiero». Dal pubblico non è stato immediata la comprensione del perché della scelta di un motivo di cui si è appropriata la Lega e qualcuno ha rumoreggiato. Ci pensa Bersani, poco dopo, a spiegarlo, dicendo che la sinistra non si farà più «sequestrare» le parole, «la paro-
la del 25 aprile, data sacra che abbiamo difeso e che nessuno cancellerà mai», o parole come libertà. «E non ci sequestreranno più canti, come Va’ pensiero. Basta, ce lo riprendiamo quel canto e lo riconsegniamo a tutti gli italiani».
Chiude, scende dal palco per stringere le mani delle prime file, per autografare le magliette con su scritto «o ragassi, siam mica qui a pettinar Bersani». Poi corre via, senza che la mamma di Valentino Rossi che è venuta fin qui per regalargli un cappelletto e una maglietta del figlio riesca a raggiungerlo.

l’Unità 11.9.11
Il comizio al sabato: oggi Bersani va da Benedetto XVI
Comizio di chiusura anticipato di un giorno: Oggi Bersani sarà ad Ancona per la messa di Benedetto XVI, a chiusura di un Congresso eucaristico dedicato ai temi del lavoro. Il leader Pd: «Con questo Papa si può interloquire».
di Simone Collini


E alla fine, quando su Pesaro cala il buio, si capisce anche perché per la prima volta il segretario fa il comizio di chiusura di sabato e non di domenica, come è sempre stata tradizione per le Feste dell'Unità prima e per quelle Democratiche poi. Quand'è sera, dopo il comizio in Piazza del Popolo e dopo il bagno di folla giù dal palco, Pier Luigi Bersani va in albergo a cambiarsi la camicia bianca che gronda sudore e poi si infila in macchina. La destinazione è a non molti chilometri: Ancona, dove questa mattina assisterà alla messa che Benedetto XVI celebrerà nell'area Fincantieri, al porto.
NON SOLO TRAFFICO...
Inizialmente la decisione di chiudere di sabato è stata presa per evitare di ingolfare le strade delle Marche con pullman di militanti de Pd che sarebbero andati ad aggiungersi alle almeno 70 mila persone (stima della Questura dorica) che oggi arriveranno per assistere alla chiusura del venticinquesimo Congresso eucaristico. Ma via via che si sono saputi tutti i dettagli di questa giornata fortemente caratterizzata dall'attenzione e la vicinanza al mondo del lavoro (tra le altre cose Joseph Ratzinger pranzerà con operai precari e cassintegrati della Merloni di Fabriano, della stessa Fincantieri e di altre realtà in crisi della zona) Bersani ha deciso di andare lui stesso ad assistere alla messa di un Papa che non ha mai nascosto di stimare. E di cui ha molto apprezzato la scelta simbolica dell'invito a pranzo di alcuni operai che hanno perso il lavoro, che come dice l'arcivescovo di Ancona, monsignor Edoardo Menichelli, in un'intervista all'Osservatore Romano, «è un segno di vicinanza e di attenta sensibilità».
Di Benedetto XVI Bersani parla anche nel libro intervista scritto con Claudio Sardo e Miguel Gotor (Per una buona ragione, Laterza), dicendo che «a dispetto di qualche luogo comune e di qualche valutazione superficiale» Ratzinger ha «validi strumenti per mettersi in contatto con la modernità, in modo amichevole e al tempo stesso sfidante»: «Benedetto XVI invoca una ragione che non si autoriduca a ciò che è sperimentabile e un diritto naturale che non accetti il perimetro definito da scienziati e biologi. È un' impostazione con la quale non si fatica a interloquire». Bersani, che non crede al ritorno all'unità politica dei cattolici e ritiene invece «ineludibile» per un partito riformista il confronto con la dottrina sociale della Chiesa, dice anche che questa stessa dottrina sociale, «dalla Rerum novarum di Leone XIII alla Caritas in veritate di Benedetto XVI ha sempre avuto ambizioni molto più grandi che non quelle di ispirare un partito: è stato il terreno del confronto con la modernità e il divenire storico, è stato il modo per entrare nel vivo della dialettica sociale e offrire orientamenti non solo ai credenti».
IL LIBRO IN VATICANO
Una copia del libro, nelle scorse settimane, è stata anche fatta arrivare in Vaticano e Joseph Ratzinger ha fatto sapere con un biglietto recapitato al segretario del Pd di aver avuto modo di sfogliarlo e di apprezzare diversi passaggi.
Oggi, nelle dieci ore che Benedetto XVI passerà ad Ancona, contatti diretti non dovrebbero esserci. E del resto non è questo che cerca Bersani, assicura chi sapeva del viaggio deciso all'ultimo minuto dal segretario. Il leader del Pd andrà lì per ascoltare, viene spiegato. Ma è chiaro che la sua presenza ad Ancona costituisce anche un messaggio lanciato dall'altra parte.

Repubblica 11.9.11
L’arte della fuga
di Concita de Gregorio


Non può ricevere i pm a palazzo Chigi, perché deve andare a Strasburgo. È stata una ricerca frenetica, venerdì sera, a Palazzo Grazioli: tutti lì a cercare fra la posta già buttata le mail cancellate gli inviti nemmeno aperti.
Ci sarà pure un invito istituzionale, no? Trovatelo, guardate anche nel cestino. Eccolo presidente, ci sarebbero Barroso e Van Rompuy disponibili. Chi? Van Rompuy, il presidente del Consiglio europeo. Va bene, funziona. Prendete appuntamento con questo. Preparatemi una scheda personale. "Van Rompuy, fiammingo, cultore di poesia ed esperto di Haiku giapponesi, amante dell´ornitologia, nel tempo libero solito ritirarsi in preghiera in un´abbazia benedettina". Sarebbe bello assistere al colloquio riservato, sì. Caldamente sconsigliate battute ornitologiche. Meglio, nel caso, la zia suora.
Meglio improvvisare un haiku piuttosto che spiegare ai due magistrati napoletani perché tiene a libro paga due ceffi del calibro di Lavitola e Tarantini. Parte offesa, certo. In questo caso Silvio B. è la vittima: ricattato, si suppone. Ma la figura del ricattato in giurisprudenza, glielo avrà spiegato Ghedini, è diversa da quella del concusso. È una tipologia precisa e di confine. Un ricatto si esercita su qualcuno che sa di essere ricattabile: si chiede a chi si sa che dovrà dare, per qualche motivo noto ad entrambi. Infatti il ricattato dà: paga. In caso contrario, se non ha niente da temere, denuncia il tentativo e fa arrestare i malfattori proclamando la sua estraneità al motivo del ricatto. Questo non è avvenuto, assolutamente no. Al contrario: i due stipendiati avevano con lui un filo diretto, accesso continuo al suo numero di telefono privato del resto in possesso di moltitudini di transessuali brasiliane e giovani bisognose di aiuto di varie nazionalità. Al contrario, all´impressionante direttore dell´Avanti! già visto in azione nel reperimento di carte sul conto di Fini e assai spesso in viaggio di lavoro per conto della vittima del ricatto medesimo, ha detto proprio al telefono: "Resta dove sei". Non tornare in Italia, ti stanno per arrestare, non hai letto Panorama? Te lo dico io: resta lì, lontano da questo "Paese di merda".
Il telefono, che dannazione. Si convochi subito una riunione a Palazzo per scrivere questa maledetta legge bavaglio. Presto, Verdini. Presto Lupi, Alfano, che vi ho nominati a fare? Vogliamo smetterla di leggere sui giornali quel che dico? Sono due anni che ve lo chiedo, e allora? Perché vedete, se uno è parte lesa – vittima di un ricatto, appunto – non rischia nulla in teoria ma c´è sempre la possibilità che cada in contraddizione durante il racconto, che so?, che non sappia spiegare bene perché Marinella dava i soldi a quel tipo o perché gli ha detto di non tornare, appunto, se era vittima di un sopruso. E allora, in flagranza di reato, ti arrestano. Scoprono che menti, e non ci sono immunità che tengano. E´ automatico, proprio. Meglio non rischiare. Meglio gli uccelli di Van Rompuy.
Sarebbe grottesco, tutto questo, se non fosse tragico. Tragica l´indifferenza degli italiani cullati nel sonno dagli editoriali del Tg1 per cui l´arte della fuga si declina solo in musica, altrimenti è una parola tabù. Silvio B. è un uomo in fuga, invece. L´Italia ha un presidente del consiglio che molto probabilmente un giorno sparirà. Se falliranno scudi, legittimi impedimenti, lasciapassare concordati con le opposizioni – sottovoce da tempo se ne parla – un giorno fuggirà. Il referendum di maggio è stato un segnale ignorato. C´è una parte del Paese che lo sa. Come diciamo da tempo, oltre e prima che politico il danno devastante di questo esempio di condotta è culturale. Noi qui a convincere i nostri figli che la decisione dei professori non si discute, che se in greco o in disegno ti bocciano non si fa ricorso ma si studia di più, che se ti fanno la multa perché hai parcheggiato in terza fila la devi pagare, che le regole si rispettano, che non si salta la coda con un trucco e non importa se gli altri lo fanno. Che le decisioni delle autorità si rispettano. Un lavoro di resistenza improbo, nel mondo dei Lavitola. Facciamolo per i nostri figli, per il tempo che verrà: resterà traccia, sappiatelo, di chi ha detto di no. Mandiamo una mail a Van Rompuy, che a Berlusconi martedì una domanda la faccia anche lui: what about Tarantini, mr. president?

La Stampa 11.9.11
La scuola dei tagli a rischio “implosione”
La cura Tremonti-Gelmini, l’esercito di precari in attesa di un posto, istituti accorpati e risorse all’osso: il sistema è vicino al collasso
di Michele Brambilla


Domani le insegnanti della scuola elementare Aristide Gabelli di Torino riceveranno un testo di Roberto Benigni. S’intitola «Amare il proprio lavoro». È il regalo di primo giorno di scuola della loro direttrice, Nunzia Del Vento, che spiega: «L’ho scelto perché noi insegnanti possiamo continuare solo se c’è quello: l’amore per il nostro lavoro. Non ci rimane altro».
L’anno scolastico che sta per partire è il primo dopo la serie di cure - qualcuna da cavallo - somministrate da almeno tre ministri - Moratti, Fioroni e Gelmini - con l’ausilio di uno specialista, il dottor Tremonti. Tagli e ristrutturazioni: tutto per far quadrare i conti che non tornano. «La cura è finita e la scuola è depressa», dice Nunzia Del Vento, che oltre che dirigere la Gabelli e altre tre scuole è vicepresidente dell’Asapi, l’associazione delle scuole autonome della sua regione. «In Piemonte», dice tanto per fare un esempio, «mancano 182 dirigenti su 650 scuole». È l’effetto della manovra economica di luglio: sono stati decisi gli accorpamenti di molte scuole, così parecchi direttori o presidi ne avranno più di una da gestire.
Classi ridotte
Se ci mettiamo a spiegare nel dettaglio provvedimenti e interventi delle varie riforme che ora arrivano tutte a regime, non ne usciamo più. Troppo complicato: roba da specialisti. La sintesi è che molto è stato tagliato, per cui per forza di cose il «prodotto» offerto dalla scuola non può essere migliorato. Anzi. «Lei mi chiede quali sono i motivi di sofferenza che ci si presentano quest’anno?», dice il professor Roberto Pellegatta, presidente nazionale DiSal (dirigenti scuole autonome e libere). «Ma il suo giornale non basterebbe a contenerli tutti!». E comincia il cahiers de doléances: «I tagli sono stati fatti in modo indiscriminato: come se un giardiniere tagliasse tutto alla stessa altezza, senza tenere conto che oltre all’erba ci sono le rose e i gerani. Hanno ridotto le ore di lezione. Hanno aumentato il numero di alunni per classe per ridurre il numero delle classi. Hanno ridotto il numero dei dirigenti: un terzo delle scuole italiane non avrà un preside a tempo pieno. Tutto questo cambierà le relazioni interne alle scuole, che da comunità educative diventeranno apparati burocratici. La didattica ne risentirà».
Ricambio mancato
Eppure questo è l’anno in cui il ministero ha cominciato davvero a mettere a posto i precari, trasformandoli in insegnanti di ruolo. «Sì - dice Pellegatta - ma il numero dei messi in regola corrisponde a quello di coloro che sono andati in pensione, anzi il saldo del turn over è negativo. In Italia 137.000 cattedre restano coperte da precari. Vuole un esempio concreto? Io sono preside di un istituto professionale, il Meroni di Lissone: su 102 insegnanti, 42 sono supplenti. È come se un’azienda cambiasse ogni anno un terzo del suo personale. Che qualità potrebbe garantire un’azienda del genere?». Il Berchet è uno dei due (l’altro è il Parini) licei classici più noti di Milano. «La triste verità - dice il preside, Innocente Pessina - è che tutti gli interventi fatti in questi ultimi anni sulla scuola hanno avuto una sola finalità: tagliare i costi. Nessuna decisione è stata presa per una preoccupazione pedagogica». Taglia di qua e taglia di là, la scuola statale sta sempre più diventando, secondo il professor Pessina, come una scuola privata: «Nel senso che se lo studente vuole un servizio, deve pagarlo. Prima ad esempio avevamo una psicologa, e le assicuro che gli studenti che hanno bisogno di un’assistenza di quel tipo sono tantissimi: bene, adesso la psicologa ce la dobbiamo pagare. Dobbiamo chiedere agli studenti contributi per servizi che un tempo riuscivamo a far rientrare nel budget: come il gruppo teatrale. E ormai dobbiamo chiedere un contributo volontario - 125 euro all’anno - anche per coprire i costi di gestione ordinaria». E beato lui che se lo può permettere perché sta in centro a Milano, pensa Nunzia Del Vento. La sua scuola Aristide Gabelli è a Barriera Milano, uno dei quartieri più difficili di Torino, da sempre popolato da immigrati: prima quelli che venivano dalle campagne, poi quelli del Veneto, poi quelli del Mezzogiorno. Adesso arrivano da tutto il mondo. «Io certo non possono chiedere 125 euro all’anno di contributo volontario. Due anni fa ne chiesi 13 e quasi mi crocifiggevano, metà delle famiglie non pagò, e ora non chiedo più niente».
Ricchi e poveri
Le varie riforme, dice, hanno acuito il divario tra zone ricche e zone povere. «Io per fare il tempo pieno avrei bisogno di 60 insegnanti, e ne ho 58: sembra una piccola differenza, ma due in meno fanno saltare tutto. Tre anni fa avevo 108 insegnanti nei miei quattro plessi, ora ne ho cento. Stanno saltando i modelli pedagogici, presto le famiglie avvertiranno il calo del servizio». Enzo Pappalettera è il responsabile della scuola per la Cisl piemontese. Prevede una grossa delusione da parte dei lavoratori della scuola: «C’è l’idea, sbagliata, che la situazione si sia ormai assestata perché i tagli sono finiti. Ma ci si accorgerà presto che l’effetto delle “cure” degli anni scorsi si sta allargando a tutte le classi. Ad esempio, alle elementari non ci sono più i numeri per fare come prima né il tempo pieno né il tempo normale. Prima c’era un insegnante per le materie letterarie, uno per quelle scientifiche e uno per quelle artistiche. Adesso quasi tutti devono fare quasi tutto, e si perde qualità dell’insegnamento». Molte scuole dovranno accorparsi perché per mantenere l’autonomia (che vuol dire: avere un preside e un bilancio proprio) dovranno diventare istituti comprensivi di medie e di elementari, e avere almeno mille studenti. «Sarà come comporre un puzzle - dice Pappalettera -, molte scuole per accorparsi dovranno prima smembrarsi. Insomma partirà un taglia e cuci che provocherà un caos pazzesco. E ci sono solo quattro mesi di tempo per fare tutti gli accorpamenti».
Protesta continua
Sarà un anno di grandi proteste? Un nuovo Sessantotto? «Temo che più che una ribellione ci sarà un’implosione», dice Pessina, il preside del Berchet di Milano. Eppure, tagliare bisognava. La scuola era diventata, come si dice spesso, un ammortizzatore sociale. «Sì, gli sprechi c’erano - dice Pessina -, ma non sono stati tagliati gli sprechi, sono stati tagliati i servizi. Ed è un grave errore di prospettiva, perché la scuola non può essere considerata solo un capitolo di spesa». Dice che la scuola è invece il miglior investimento per il futuro di un Paese, e lo dicono un po’ tutti, ma sembra che non ci creda più nessuno.

Repubblica Roma 11.9.11
"I giovani che hanno sdoganato la perversione"
La psicologa Oliverio Ferraris: "Sembrano coraggiosi ma sono persone fragili"
intervista di Cecilia Gentile


Chi fa questo ha bisogno di prescrizioni, di avere un libretto di istruzioni anche nel sesso. Sono subalterni e passivi
Vorrei sapere come si fa a definire "scuole" quelle di bondage Se insegnano il suicidio andrebbero chiuse

Professoressa Ferraris, che un quarantenne o un cinquantenne decidano di praticare sesso estremo ormai lascia quasi indifferente l´opinione pubblica, ma che lo facciano ragazzi ventenni, fino a morirne, questo fa effetto. Come interpreta il fenomeno?
«Questi giovani sono vittime di tutto quello che arriva in rete. E in rete, come nei film che adesso circolano, ci sono sempre situazioni estreme, anche nelle pratiche erotiche. Molti hanno l´idea di dover provare tutto, come se altrimenti perdessero qualcosa. È un atteggiamento che rivela una grande fragilità psicologica. Questi ragazzi sono incapaci di dire no, di scegliere, non sanno o non vogliono accettare i propri limiti». Una vita da spettatori, con gli spettatori che si illudono di essere protagonisti mettendo a rischio la propria vita, non sottraendosi. Per Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza, quello che sembra coraggio è in realtà una grave forma di subalternità e di passività.
Perché professoressa?
«Queste persone hanno bisogno di prescrizioni, di avere un libretto di istruzioni, anche nel sesso. Sono incapaci di divertirsi in modo semplice, probabilmente sono cresciuti davanti agli schermi, hanno fatto vita sedentaria, non hanno provato il piacere di organizzare giochi insieme agli altri».
La ragazza morta era una studentessa fuori sede di Lecce, andava all´università.
«Non significa niente. Ormai è pieno di persone scolarizzate, ma non culturalizzate. Una persona semplicemente scolarizzata può essere impermeabile alla cultura, che vuol dire anche possedere una scala di valori».
Una scala di valori che non esiste più?
«Sì, pensiamo soltanto alla definizione di questa pratica sessuale estrema. Viene chiamata gioco erotico. Un tempo si sarebbe chiamata perversione. Per me è ancora perversione. Io voglio chiamarla così. Il cambio del linguaggio è sintomatico. Usando la parola gioco, e non perversione, si dà il via libera, si sdogana questa pratica, si fa in modo che sia una cosa assolutamente normale, ogni reazione viene neutralizzata».
Le scuole di bondage stanno crescendo. Le due ragazze e l´ingegnere che lo stavano praticando nel garage di Settebagni frequentavano a Roma la stessa "comunità".
«Vorrei sapere come si fa a chiamarle scuole... Dovrebbero esserci controlli su queste attività. Se le scuole insegnano a suicidarsi bisognerebbe chiuderle».
I genitori della ragazza morta sono insegnanti, il fratello lavora in polizia, la mamma è nell´Azione cattolica.
«Per questa famiglia provo solo una gran pena. Non mi sento di accusarli di niente. A volte, nonostante tutti gli sforzi della famiglia, il contesto, la vita, le scelte personali portano da un´altra parte. Il problema è che molto spesso tutta questa messe di informazioni veicolate arrivano a persone assolutamente impreparate a gestirle. Non tutti hanno la maturità di distinguere, la coscienza dei propri limiti, che è anche una grande prova di maturità. Ormai manca una formazione umana, etica, civile. Tutto questo va insegnato in famiglia, a scuola e nella società, le tre agenzie educative che non funzionano più».

l’Unità 11.9.11
Tre persone uccise e mille feriti nell’attacco dell’altra notte. Ambasciatore e funzionari in salvo
La giunta militare evoca il pugno di ferro mentre per lo Stato ebraico scatta l’allarme rosso
Si agita il Nemico sionista per affossare la «Primavera araba»
Per gli ispiratori dell’assalto alla sede diplomatica israeliana la vera minaccia è lo sviluppo del processo democratico. Per contrastarlo puntano a innescare lo scontro con Tel Aviv
di Umberto De Giovannangeli


Vogliono trasformare Piazza Tahrir, la piazza delle libertà, nella piazza dell’odio. Non più dando in pasto alla folla un «faraone» morente ma ora resuscitando «il Nemico» esterno, quello che nei momenti di crisi è servito come collante interno: lo Stato ebraico. L’assalto all’ambasciata israeliana al Cairo è anche l’assalto contro la «Primavera araba», contro la sua agenda politica che mai, nei 18 giorni che hanno cambiato il corso della storia nel Paese chiave del Medio Oriente, ha avuto al suo centro il vecchio armamentario anti sionista o anti americano. A bruciare non sono solo le bandiere con la Stella di Davide; a bruciare rischia di essere quella speranza di cambiamento che è stata alla base della rivoluzione «jasmine» in Tunisia come della rivolta popolare che ha determinato il crollo del trentennale regime di Hosni Mubarak. La leadership israeliana non ha fatto nulla per interagire positivamente con la «Primavera araba», percependola come un problema e non come una risorsa con cui interagire. Ma questa miopia politica è stata sfruttata cinicamente da quanti, nel mondo arabo, puntano sulla destabilizzazione del Medio Oriente: la guerra, in questa logica devastante, è sempre meglio di dover pagare il prezzo della democrazia. L’assalto alla sede diplomatica israeliana ha molto a che fare con le vicende interne, e segna pesantemente il clima di attesa e di tensione col quale l'Egitto guarda a due avvenimenti imminenti: la deposizione oggi i al processo Mubarak di Hussein Tantawi, capo del consiglio supremo delle forze armate la giunta militare che regge il Paese dalla deposizione dell'ex raìs l'11 febbraio scorso e l'arrivo domani del premier turco Recep Tayyip Erdogan, considerato da molti come un esempio da seguire per la linea dura che ha adottato nei confronti di Israele. Già da giorni si temeva che la manifestazione in piazza Tahrir indetta, come di consueto, nel giorno della preghiera del venerdì, avrebbe costituito l’occasione per nuove proteste davanti all'ambasciata israeliana, dove si erano già tenute manifestazioni contro l'uccisione di cinque guardie di frontiera egiziane, dopo l'attentato a Eilat, oltre confine, a fine agosto. A rendere ancora più tesa la situazione era venuta la decisione delle autorità egiziane di costruire un muro di protezione davanti alla sede diplomatica, solo qualche giorno dopo la decisione della Turchia di allontanare l'ambasciatore israeliano per il rifiuto di scusarsi per l'assalto alla Mavi Marmara, la nave turca della Freedom Flottilla per Gaza, nel maggio del 2010. Una mossa, quella del muro, bollata come inopportuna da molti egiziani, che l'hanno vista come il segno tangibile di un approccio troppo morbido nei confronti di Israele. In questo quadro si è inserita, a sorpresa, la decisione della Corte che processa Hosni Mubarak per le violenze contro i manifestanti, di ascoltare i vertici militari e politici attuali e precedenti, a partire dal capo della consiglio militare, per venti anni ministro della Difesa di Mubarak. Tantawi è già da tempo nel mirino dei manifestanti, che anche venerdì hanno chiesto di accelerare la transizione ad un regime democratico retto da civili. La sua testimonianza, anche se il presidente della Corte Ahmed Rifaat ha detto che dovrà rimanere assolutamente top secret, è attesa per sapere quale sarà la sua versione dei fatti e se contribuirà o meno a scagionare l'ex presidente egiziano dall'accusa di essere coinvolto nella repressione che ha provocato la morte di oltre ottocento manifestanti. In questo clima di incertezza, agitare il Nemico esterno può servire a stornare l’attenzione dalla vera posta in gioco: realizzare in Egitto un sistema realmente democratico, effettivamente pluralista, qualcosa di altro e di più di una sorta di «mubarakismo senza Mubarak», fondato su un patto di potere tra il vecchio establishment economico-militare e i Fratelli musulmani. In questa chiave, l’irrisolta «questione palestinese» viene piegata, come spesso è accaduto nei corso degli anni, a fini di potere interno e regionale a cui sacrificare il diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente. I «piromani» mediorientali vogliono mettere il loro marchio sul dibattito che si aprirà all’Onu, tra dieci giorni, sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Far deragliare quel dibattito, insanguinarlo, è uno dei loro obiettivi. L’altro obiettivo non è meno significativo: è la «Primavera araba», entrata nella sua fase più delicata, quella della costruzione della democrazia. Per un potere che vuole perpetuarsi, è questa la minaccia mortale.

La Stampa 11.9.11
I giovani delusi di piazza Tahrir “Ma noi vogliamo pane e libertà”
di Francesca Paci


Il day after l’attacco all’ambasciata israeliana del Cairo il popolo di piazza Tahrir è lì a chiedersi come sia stato possibile che il blitz di poche centinaia di esagitati oscurasse mediaticamente la grande manifestazione per una transizione rapida alla democrazia. Non che qualcuno solidarizzi con l’aggredito, giammai: malgrado Camp David, l’antipatia egiziana per Israele è viscerale. Il muro contro muro però è un’altra cosa, figuriamoci l’ipotesi d’una guerra diplomatica o addirittura reale.
«Israele non è un nostro problema, bastava guardare i giovani poveri e ignoranti all’assalto dell’ambasciata per capire che piazza Tahrir non c’entra» osserva l’architetto trentenne Asma M., rivoluzionaria della prima ora. Il complottismo è l’eredità del passato che gli egiziani faticheranno di più a scrollarsi di dosso. Chi ha interesse a sfidare Tel Aviv? Asma non ha dubbi: «E’ chiaro da giorni che l’esercito vuol rinegoziare il trattato del ’79 a vantaggio dell’Egitto in modo da recuperare la stima della gente. Nessuna rottura, no. Gli basterebbe aumentare la propria presenza nel Sinai per mostrare i muscoli e controllare al tempo stesso gli islamisti».
L’esercito, già. L’eroico alleato del 25 gennaio mutatosi in breve in avversario di cui diffidare. Così gli slogan usati all’inizio contro il Faraone sono stati prontamente riadattati al nuovo nemico e ieri invece di «iascott iascott Hosni Mubarak» piazza Tharir intonava «iascott iascott hukmet el aaskary» (via via il consiglio militare».
«Siamo cofusi dopo i fatti di venerdì all’ambasciata, il punto è che soldati e poliziotti sono ovunque e siamo diventati sospettosi di tutti, in piazza si parla meno di strategia politica e qualcuno prende iniziative tattiche di testa sua», ammette Ali Abdelkader, 27 anni, antropologo. La sua coetanea avvocato Nermine condivide, anche se non auspica lo scisma con l’esercito: «Sarebbe la fine della rivoluzione, dobbiamo premere ma non rompere». Nelle ultime settimane però, gli studenti pionieri del 25 gennaio si sono un po’ ritirati da Tahrir lasciando il campo ai poveracci che con la nuova libertà non riescono a sfamare la famiglia. Gente come Huda Zahr, 39 anni, casalinga, 5 figli di cui due militari che portano a casa insieme 300 lire egiziane al mese (circa 40 euro): se un chilo di carne costa 60 lire, quanta ne mangiano in casa Zahr?
«Non s’è udito uno slogan politico all’ambasciata israeliana, ad attaccare sono stati gli stessi giovani e diseredati che prima e dopo hanno assaltato il ministero dell’Interno e l’ambasciata saudita», spiega Hisham Kassem, intellettuale ed ex editor del giornale Masri al Youm. È convinto che la via per la democrazia sia accidentata ma tutto sommato in vista: «L’alleanza con Israele è solida e non traballerà. Bisogna capire però che questo è un popolo frustrato, emerso da 30 anni di oppressione e per il 40% costretto a vivere sotto la soglia di povertà. Mubarak usava mostrarsi amico d’Israele all’esterno ma i suoi media propagandavano l’antisionismo in modo da fomentare i radicali e rendersi così indispensabile a controllarli. Ci vorrà tempo per eliminare i frutti di quella semina».
La parola d’ordine è tempo. Ma non ce n’è tantissimo. Il G7/G8 di Marsiglia ha destinato 80 miliardi di dollari ai Paesi della primavera araba, Egitto compreso, ma si attende collaborazione. E anche Washington chiede rassicurazioni in cambio del solito miliardo di dollari versato ogni anno all’esercito egiziano. Le elezioni incombono e la prevedibile vittoria dei Fratelli Musulmani lascia aperte molte domande. Il vento antisraeliano della strada anticipa la svolta islamista? Gli analisti nicchiano: che interesse avrebbero i Fratelli a soffiare sul fuoco prima del voto?
Il rapporto con Israele è come il cerino incandescente che nessuno vuole in mano. «Abbiamo il processo di Mubarak a cui pensare» taglia corto il pasionario trentunenne Ahmed. Oggi depone l’ex braccio destro del raiss Tantawi, attuale capo del consiglio militare alla guida del Paese. Tutte le orecchie saranno per lui almeno fino a domani, quando arriverà al Cairo il premier turco Erdogan: gli egiziani, sotto sotto, sperano di passare il cerino a lui.
L’assalto all’ambasciata ha oscurato le proteste contro la giunta militare sempre più impopolare

Repubblica 11.9.11
Stato ebraico in isolamento
I "falchi" della destra hanno alienato anche l’alleato americano
Non c’era mai stata un´incrinatura tanto seria dei rapporti di amicizia con la Casa Bianca
Il trattato di pace era stato per un trentennio l´architrave della sicurezza israeliana
di Sandro Viola


I giornali israeliani paragonano l´invasione d´una folla inferocita nell´ambasciata di Israele al Cairo, ad uno "tsunami politico". Nell´espressione c´è un po´ d´enfasi.
Ma è vero che l´assalto ad un´ambasciata (tre morti e mille feriti tra i manifestanti), la fuga dell´ambasciatore con la famiglia e i collaboratori, non è un avvenimento di tutti i giorni. E in più, i fatti accaduti la notte tra venerdì e sabato nella capitale egiziana sembrano delineare una svolta grave: il deterioramento, e in prospettiva la possibile rottura, del trattato di pace del ‘79 tra Egitto e Israele, che era stato per un trentennio l´architrave della sicurezza israeliana.
Lo Stato ebraico non aveva conosciuto sinora un isolamento così profondo e rischioso come quello che sta vivendo. In un paio di mesi, sono infatti intervenute modifiche assai rilevanti della situazione d´Israele nel contesto regionale. La rottura con la Turchia, che era stata per vari anni un alleato strategico e una fonte di cospicui rapporti economici. La porosità della lunghissima frontiera del Sinai, un tempo presidiata oculatamente da Hosni Mubarak e oggi aperta, invece, al contrabbando d´armi destinate ad Hamas, e alle infiltrazioni terroristiche. Il caos siriano, che ha già prodotto due tumultuosi attacchi di profughi palestinesi in Siria contro le postazioni israeliane sul Golan. Una quasi totale interruzione dei rapporti con l´Autorità palestinese in Cisgiordania. Mentre sul fronte settentrionale, la frontiera libanese è sempre più controllata dagli Hezbollah.
Certo, gli Stati Uniti non vogliono e non possono voltare le spalle a Israele. Ma il pessimo rapporto che s´è da tempo instaurato tra il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente Obama, contribuisce anch´esso all´isolamento. Così, salvo che si presenti un pericolo concreto per la sicurezza d´Israele, è difficile che da Washington arrivino segni di amicizia e solidarietà così calorosi e convincenti come in passato. E´ più d´un anno, infatti, che l´amministrazione Obama si è convinta che la politica del governo Netanyahu stia mettendo a rischio gli interessi degli Stati Uniti nella regione.
Il maggiore responsabile di questo isolamento d´Israele, scriveva giorni fa Roger Cohen sul New York Times, è stato Israele stesso. Cohen attribuiva ad una inguaribile "arrogance" israeliana, tutti i gesti che hanno man mano danneggiato i rapporti con i paesi che nei decenni scorsi erano stati a fianco dello Stato ebraico. Le nuove costruzioni nelle colonie in Cisgiordania, e nello stesso tempo il sostanziale rifiuto di negoziare con i palestinesi. Il rifiuto di scuse formali alla Turchia per l´abbordaggio, l´anno scorso, d´una nave carica di pacifisti, che fece nove morti di nazionalità turca. Gli atteggiamenti di sovrana indifferenza nei confronti delle critiche dell´Unione europea. La sistematicità delle reazioni eccessive, troppo spesso assai sanguinose (come l´uccisione di cinque militari egiziani a metà agosto), contro ogni sia pur vaga minaccia alla sicurezza israeliana. E infine la seria incrinatura del rapporto di tradizionale amicizia con la presidenza degli Stati Uniti, qualcosa che non era mai avvenuto dalla fondazione d´Israele sino ad oggi.
La spiegazione degli strappi israeliani, è sin troppo semplice. Netanyahu vuole che il suo governo duri, e per questo non s´è mai opposto al suo maggiore partner nella coalizione, il leader della destra (se non si deve dire estrema destra) Avigdor Lieberman. Lieberman non vuole il negoziato con i palestinesi, ritiene che la Cisgiordania debba restare ad Israele, riceve l´ambasciatore turco ma lo lascia in piedi per tutta la durata del colloquio, e quando è scoppiata la rivolta egiziana ha proposto, perché il nuovo regime capisca di non poter osare azioni di forza contro Israele, il bombardamento della diga di Assuan. Così, invece di mettere a fuoco una strategia geopolitica con cui fronteggiare le novità intervenute nel quadro regionale (le rivolte arabe soprattutto), Netanyahu non ha fatto che aggravare l´isolamento.
E questo mentre Israele vive una vigilia molto aspra e pericolosa. Il 20 settembre, infatti, i palestinesi presenteranno all´Assemblea generale dell´Onu la richiesta di costituire uno Stato indipendente della Palestina. In pratica, dunque, i due Stati di cui si parla da anni: Israele e la Palestina. Lo stato maggiore dell´esercito e i vertici della polizia s´attendono grandi e tumultuose manifestazioni della folla palestinese in appoggio alla richiesta. Sono già stati distribuiti lacrimogeni e bombe carta ai coloni, sono pronte autoblindo con gli idranti che scaricheranno sulla folla 2000 litri di liquidi puzzolenti, e l´esercito ha previsto vari spostamenti di truppe.
Intendiamoci: il voto dell´Assemblea generale conta, ma molto di più conta quello del Consiglio di sicurezza. E nonostante abbia detto più volte di guardare alla formula dei "due Stati" come la sola via d´uscita possibile dal conflitto israelo-palestinese, il governo americano si opporrà nel voto al Consiglio di sicurezza alla richiesta dei palestinesi. In altre parole, gli Stati Uniti non negheranno neppure in questa circostanza la loro protezione ad Israele. Ma all´Assemblea generale sembra molto probabile, invece, che i palestinesi ce la faranno, ottenendo il voto favorevole d´una maggioranza dei paesi membri dell´Onu. Un voto senza conseguenze politiche immediate, è vero, ma di vasta risonanza e con un enorme valore simbolico.
Netanyahu ha parlato ieri sera al paese. Ha espresso la sua gratitudine agli americani per essere intervenuti sul governo egiziano chiedendo l´invio di grosse forze di polizia a sedare i tumulti attorno all´ambasciata. E ha aggiunto che malgrado «i fatti gravissimi» avvenuti al Cairo, Israele vuole mantenere con l´Egitto gli stessi buoni rapporti degli anni scorsi: e per questo l´ambasciatore israeliano tornerà appena possibile nei suoi uffici. Un discorso, insomma, conciliante. Ma che certo non basta a dissipare l´inquietudine che in Israele avevano avvertito già all´inizio della cosiddetta "primavera araba". I "media" americani ed europei applaudivano entusiasti, in quei giorni, la fine delle dittature e l´avvio delle democrazie. Ma gli israeliani no, non applaudivano. Avevano subito capito che per loro si stavano preparando tempi difficili.

Il Fatto 11.9.11
Frattini, il liberatore della Libia
di Furio Colombo


Pare che sia Franco Frattini, e non tutta la messa in scena dei ribelli libici e della Nato, il vero liberatore della Libia. Se lo state ad ascoltare nell’assemblea delle Commissioni Esteri della Camera e del Senato, lo scorso mercoledì 7 settembre, ecco che cosa vi annuncia. Vi annuncia che l'Ambasciata italiana a Tripoli (un edificio bruciato dalle cantine al tetto) è aperta, funziona, con il tricolore che sventola non si sa da quale pinnacolo. Non esistono prove o fotografie del glorioso evento, ma l'annuncio è sempre stato il pezzo forte (e l'unico) di questo governo. Vi annuncia che l'Italia ha ricostruito tutte le condotte di acqua potabile di Tripoli, rendendo possibile il ritorno della vita normale. Vi annuncia (cito) che “l'Italia sostiene tutti i tentativi in corso negoziando con tutte le tribù”, benché non vi sia traccia né notizia di tale negoziati e neppure di contatti con entità diverse che finora non si sono ancora coalizzate.
STRANAMENTE il ministro Frattini, che pure è – ci garantisce – il vero deus ex machina della nuova Libia, non ci dice nulla delle carceri di Gheddafi, se siano state aperte, se siano state svuotate, se siano usate per rinchiudere i mercenari (veri o presunti) e collaborazionisti, e sotto quale autorità, e con quali garanzie. Eppure era stato lui ad annunciarci, in piena guerra, che Gheddafi stava aprendo le sue prigioni per riversare sull'Italia i suoi peggiori criminali. Ci ha detto di avere “fonti di servizi segreti” sull'argomento. Alle Commissioni riunite Frattini ha detto (giuro) che è merito dell'Italia e del governo italiano se questo non è avvenuto, ovvero se una sua affermazione falsa si è rivelata falsa. Poi ci ha assicurato che (cito) “l'Italia è in testa” fin da maggio affinché si realizzi l’accordo di associazione tra Unione europea e Libia, e sia convocata entro nove mesi (avete letto bene, nove mesi) l’Assemblea costituente che darà alla Libia libera una nuova Costituzione e chiamerà il popolo libico alle urne.
Ma niente paura, questa non è un’iniziativa o un piano politico. Solo annuncio. Dentro l'Italia, se quegli impiccioni dei mercati non disturbassero, funzionerebbe ancora , data la benevola condiscendenza del sistema di informazione italiano e delle opposizioni, gentilissime, al governo di Arcore. Per essere utile e preciso, il ministro Frattini ha voluto annunciare anche “le priorità”, tanto non costa niente, è solo un annuncio. Però rivelatore. Ecco: primo, il controllo delle frontiere; secondo, bloccare “il traffico di esseri umani” (strana definizione per il fiume di disperati che fugge dallo sterminio e dalla fame del Corno d'Africa; eppure persino il ministro degli Esteri Frattini dovrebbe sapere della guerra ventennale e della spaventosa carestia che tormentano Somalia, Eritrea, Etiopia). Ma tutto ciò serve per introdurre alla frase detta, quasi con candore, da un uomo la cui faccia tosta deriva anche da questa qualità rara in politica, il candore. Ha detto, il 7 settembre 2011 il ministro degli Esteri Frattini: “Il Trattato di amicizia e partenariato con la Libia (nel trattato originale era “la grande Jamahirya libica”) sarà riattivato. Pensate che è la stessa persona che, all'inizio dell’operazione franco-inglese, non ancora Nato, a cui l'Italia aveva offerto le basi ma non gli aerei, aveva detto alla Camera che “il trattato è sospeso”. Dopo l'inizio dei bombardamenti Nato con partecipazione italiana aveva spiegato: “Un trattato è fra governi. Non c'e più quel governo, non c'è più il trattato”. E infine aveva assicurato che il voto del Consiglio di sicurezza che aveva autorizzato i voli Nato, ha annullato (ha proprio detto annullato) contestualmente il trattato. Non era vero niente, parola di Frattini. Il trattato italo-libico contestato in quasi ogni articolo dalle Nazioni Unite, dall’Agenzia dei Rifugiati, dall'Unicef, da Right Watch, da Amnesty International e da ogni organizzazione umanitaria del mondo civile, è vivo e opera assieme a noi.
DA UN LATO distribuisce ricchezza (ricordate? Ci costa 20 miliardi di dollari in cinque anni, questi cinque anni) dall'altro controlla le frontiere degli altri, usa le motovedette italiane, spara a vista e affonda gli emigranti proprio come Gheddafi. Si può capire che la lunga esposizione al potere porti un po' di cinismo. Ma come si fa ad augurarsi che il prossimo governo libico sia composto di canaglie a pagamento come quello, non ancora del tutto scomparso, di Gheddafi? E come mai, nell'aula delle commissioni Esteri, Camera e Senato riunite, nessuno ha fatto una piega, tranne i radicali Me-cacci e Perduca e, non saprei dire a nome di chi, dato il silenzio, chi scrive?

La Stampa 11.9.11
Anche gli inglesi dietro le torture del raiss
Il dissidente Abu Munthir riconsegnato al regime nel 2004 grazie all’aiuto degli 007 britannici
di Andrea Malaguti


Ordinary rendition. Quanto erano profondi i legami tra la Cia, l’MI6 (i servizi segreti britannici) e il regime di Muammar Gheddafi a cavallo tra il 2003 e il 2004? Molto, secondo le centinaia di documenti ritrovati a Tripoli nell’ufficio abbandonato di Moussa Koussa, ex braccio destro del raiss fuggito a Londra all’inizio della guerra civile. Una collaborazione strutturale, continua, senza alcun rispetto della legalità. Almeno stando alle rivelazioni del «Guardian», che oltre ad avere avuto accesso alle carte ha raccolto la testimonianza del leader mujahidin Abu Munthir, nome di guerra del libico Sami al Saadi, che ora è pronto a fare causa al governo di Sua Maestà.
Nel 2004 Abu Munthir era fuggito in Cina. Sposato, padre di quattro figli, decise di chiedere asilo all’Inghilterra, dove aveva già vissuto per tre anni. I suoi intermiediari gli assicurarono che non c’erano problema. «Mi dissero che sarei dovuto passare dall’ambasciata britannica di Hong Kong. Partii con la famiglia, ma all’ambasciata non arrivammo mai». Le guardie di frontiera cinesi lo espulsero accusandolo di avere un passaporto irregolare. Lo spedirono alle Maldive. E da lì in Libia. «Per me è sempre stato chiaro che dietro questa operazione ci fossero gli inglesi. In volo ci misero le manette. A me e a mia moglie. I bambini piangevano. Ci dissero che ci avrebbero torturati con l’elettrochoc. In effetti fu così. Arrivati in Libia fummo rinchiusi in due celle diverse». Il primo ad andarlo a trovare fu proprio Moussa Koussa. Gli diede una mano molle come una spunga. Aveva un ghigno sinistro. «Mi disse: cercavi di scappare da noi, ma per te non esiste un rifugio possibile sulla terra. Dopo l’11 settembre mi basta alzare il telefono e chiamare la Cia o l’MI6 per avere tutte le informazioni che voglio». Lo odiò con tutti gli atomi del suo corpo e gli venne in mente che se i serpenti avessero parlato avrebbero avuto una voce sibilante come quella. «Mio figlio più piccolo aveva solo 6 anni». Menzogne?
I documenti sono inequivocabili. Il 23 marzo del 2004 la Cia invia un fax a Tripoli - catalogato come «Secret/ Us Only/Except Libya» - in cui comunica ai servizi del raiss di essere a conoscenza dell’«operazione Abu Munthir» organizzata dall’MI6. E chiarisce di attendere «con impazienza» un coinvolgimento.
Due giorni più tardi il primo ministro britannico Tony Blair andrà per la prima volta in visita ufficiale a Tripoli. Stringerà la mano a Gheddafi, dichiarerà che le due nazioni sono unite nella battaglia contro il terrorismo e annuncerà la firma di un accordo da 550 milioni per consentire al colosso anglo-olandese Shell di sfruttare il gas libico. Il 28 marzo il mujahidin Abu Munthir e la sua famiglia saranno consegnati al regime. «Eravamo noi il regalo degli inglesi al raiss».

La Stampa 11.9.11
Intervista
Perché il pensiero debole è sempre più debole
Alain Finkielkraut: “Sostenere che ci siano solo interpretazioni e non fatti non regge alla prova della realtà. L’ho capito di fronte a chi nega la Shoah”
Se ogni punto di vista è legittimo, spariscono proprio le possibilità di comunicazione, di dialogo, di discussione In letteratura la critica strutturalista metteva tra parentesi la questione del valore. Ma credo che la letteratura senza valori sia appunto senza valore
di Mario Baudino


Oggi al Festival di Mantova Il Festivaletteratura si conclude oggi, con bilanci che ancora una volta dovrebbero essere da record in termini di partecipazione dei lettori. Per la giornata finale, tra gli ospiti più attesi, oltre a Finkielkraut sono previsti l’israeliano Yehoshua Kenaz, il meno noto in Italia fra i grandi autori di quel Paese, l’olandese Hermann Koch, che presenta l’ultimo romanzo, Villetta con piscina , appena tradotto da Neri Pozza, e Stefano Benni, che parlerà con Piero Dorfles del suo recente libro - non comico - La traccia dell’angelo (Feltrinelli). Il teologo Vito Mancuso discute con Gad Lerner sul tema «Il pensiero di Dio», Simonetta Anello Hornby e Giuseppina Torregrossa parlano di Sicilia e letteratura, lo psicanalista Luigi Zoia incontra i lettori sui temi del suo recente libo Paranoia, la follia che fa la storia (Bollati-Boringhieri), dove elegge a simbolo negativo del nostro tempo Iago, il calunniatore shakesperiano. L’anniversario dell’11 settembre, che è ovviamente uno dei temi cruciali ne libro di Zoja, sarà anche argomento dell’ultimo incontro del festival: quello con l’americano William Langewiesche, che alla guerra in Afghanistan - quella combattita da lontano, quella dei droni e dei tiratori scelti - ha dedicato il suo recente libro-reportage Esecuzioni a distanza (Adelphi).

Filosofo e giornalista Alain Finkielkraut, nato a Parigi nel 1949, è filosofo e giornalista. Insegna Cultura generale e Storia delle idee al dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell'École Polytechnique. È fondatore del Centro di Studi Levinassiani di Gerusalemme, ed è apprezzato conduttore di trasmissioni radiofoniche per la rete France Culture. Nel 1994 è stato nominato Cavaliere della Legione d'Onore. Il suo ultimo libro tradotto in Italia è Un cuore intelligente , pubblicato nel 2011 per Adelphi.

Il punto d’arrivo di un Cuore intelligente (Adelphi), ultimo libro di Alain Finkielkraut è che la letteratura va vista come qualcosa che custodisce la pluralità umana, contro tutte le ideologizzazioni e contro quelle che Lyotard chiamava le «grandi narrazioni» della filosofia. Oggi il termine è un po’ logoro e abusato; non si fa altro che proclamare la fine, appunto, delle «grandi narrazioni». Ma il filosofo francese non è affatto sicuro che sia davvero così. Oggi al Festival di Mantova, nella giornata conclusiva della manifestazione, leggerà Milan Kundera e parlerà proprio di quel «sapere imperfetto» rappresentato dalla letteratura, e di quanto ci sia necessario. Soprattutto nel momento attuale. Per certi versi, soprattutto in Europa.
Ma perché proprio i romanzieri, per uno studioso che è partito da Martin Heidegger? La filosofia non ha più risposte?


«Non vedo in competizione letteratura e filosofia, né dico che la prima sia la via d’accesso alla realtà, e la seconda no. C’è però un momento nella storia del pensiero in cui la filosofia ha preso quella che chiamerei una direzione romanzesca, facendosi filosofia della storia. Con Hegel e Marx la storia è diventata il luogo dove si consuma il dramma della ragione, lo spazio della sua realizzazione. E sono cominciate appunto le "grandi narrazioni". In Marx, poi, con una piega melodrammatica: quando la storia è diventata storia della lotta di classe. In questo senso la letteratura è una forma di contestazione critica di una certa "filosofizzazione" della realtà. Quando la filosofia diventa una grande narrazione, la narrazione letteraria diventa critica della filosofia».
Il tema della realtà è al centro di un dibattito che si sta sviluppando in Italia, tra filosofi. Si è parlato di un autunno del "pensiero debole", la teoria basata sull’idea che non ci siano in sostanza "fatti", ma solo interpretazioni. C’è chi, come Maurizio Ferraris, oppone ad essa la necessità di riscoprire la realtà».
«Non ho seguito la discussione».
Però i termini le sono ben noti.
«Certamente. Come Gianni Vattimo, anch’io sono partito da Heidegger, anche se ne ho tratto conclusioni molto diverse. Una è che ci sono dei "fatti" irriducibili allo sviluppo delle ragioni storiche. L’idea che esistano solo interpretazioni vede la mia ferma opposizione da molto tempo».
Quanto tempo?
«Ho capito la debolezza del pensiero debole - se mi consente un gioco di parole - all’inizio degli Anni ‘80.»
Da subito quindi.
«Sì. E’ accaduto quando ho dovuto confrontarmi col negazionismo».
Che dovrebbe essere mille miglia lontano da una teoria filosofica nata anche con l’intento di una maggiore democratizzazione del sapere e della società.
«Fu a Parigi. Un gruppuscolo di sinistra distribuiva volantini in cui si spiegava che le camere a gas non erano mai esistite. Sinistra, badi. L’argomento faceva parte di una revisione paranoica della storia del mondo, dove il solo male è rappresentato dal capitalismo. Un sillogismo: niente camere a gas, niente mostruosità hitleriana. Quindi il vero mostro è il capitalismo. Se ne discusse parecchio, fece scandalo. Ma i partigiani di queste tesi si appellarono alla libertà d’espressione, e la cosa creò un certo turbamento nel mondo intellettuale. Del resto, se non ci sono fatti ma solo interpretazioni, perché non ammettere anche quel che diceva il volantino negazionista?».
Le camere a gas sono ovviamente un fatto al di là di ogni interpretazione.
«Mi è sempre parsa convincente l’idea di Hannah Arendt, secondo cui solo le realtà fattuali rendono l’interpretazione possibile. Se invece ogni punto di vista è legittimo, spariscono proprio le possibilità di comunicazione, di dialogo, discussione».
La letteratura è una di queste verità fattuali?
«Siamo su un altro registro. Il romanzo si sviluppa nello spazio della finzione, ma come ad esempio mostra bene Kundera; ha senso solo come scoperta, esplorazione, investigazione. La teoria letteraria in cui sono cresciuto, fra strutturalismo e post-strutturalismo, riduceva l’estetica alla linguistica, separava drasticamente letteratura e realtà, mettendo quindi molto tra parentesi la questione del valore. Ma la letteratura senza valori è appunto senza valore. Come faremmo infatti a distinguere un buon libro da uno cattivo, se non partendo da un criterio di conoscenza? Un buon libro mostra la nostra conoscenza del mondo e del cuore umano».
Kundera potrebbe essere considerato il prototipo dello scrittore europeo?
«Direi che che porta un’idea d’Europa ormai dimenticata all’Europa stessa. I suoi testi degli Anni Novanta, per esempi i saggi sull’Europa centrale, prendono in contropiede una cultura, come la nostra, che ha identificato l’Occidente con l’oppressione. Kundera spiega che non è sempre così, ma non sono affatto sicuro che questo messaggio sia stato inteso. L’Europa rimane preda del senso di colpa, ed è questa l’idea che prevale. Affermare la nostra identità in quanto europei è visto come un processo di esclusione o discriminazione. Non ha senso il dogma di dare sempre più spazio all’identità degli altri. Il problema è complesso, ma se vogliamo veramente sostenere un principio anti-razzista, dobbiamo evitare esattamente questo, e cioè chiudere ciascuno nella propria identità»
Ma qual è l’identità europea?
«Una moltitudine di identità, ma non tutte. Per esempio è assurdo dire che l’Europa è sempre stata “meticcia”. O, come ha proclamato Chirac una volta, che l’Islam ne fa parte. L’identità deve restare un concetto aperto. Noi abbiamo una storia, che si può imparare, e di cui altri possono diventare parte. Ogni patria deve poter essere una patria adottiva».
In questo la letteratura può esserci più utile della filosofia?
«Ciò che chiedo per la letteratura è una considerazione uguale a quella della filosofia e della scienza. Diceva Charles Peguy che il vero della scienza non è il solo vero del reale. Ci sono forme diverse di verità».
Sembra quasi una concessione al pensiero debole.
«Badi, non sono certo per la restaurazione del pensiero metafisico. Non è quello il problema, oggi. E poi, almeno sul piano politico, ci può essere una certa ferocia dogmatica che viene proprio dal pensiero debole: penso a molte posizioni sul Medio Oriente. Non è sempre un pensiero dolce. E io sono per la dolcezza».

Repubblica 11.9.11
FestivalFilosofia. Uomo & Natura
Una sfida infinita di amore e minacce
di Michele Smargiassi


In programma un pacchetto multimedialedi spettacoli, retrospettive, concerti, incontri, tutti gratuiti
"È diventato un argomento profondamente politico", spiega Bodei, ideatore della decennale manifestazione
Venerdì inaugura a Modena, Carpi e Sassuolo l´appuntamentopiù importante dedicato al pensiero speculativo.Tema di quest´anno, la madre-matrigna di sempre. Affrontato per tre giorni sotto ogni punto di vista

Una forma smisurata di donna seduta in terra", dal volto "mezzo tra bello e terribile": una matrigna crudele e sprezzante, così la Natura appare allo sfortunato Islandese nel celebre dialogo di Leopardi che fonda la nostra modernità. Meno di un secolo prima, Voltaire si era ribellato al terremoto di Lisbona, evento tremendamente naturale, in nome della Ragione. No, non è mai stato piacevole per i filosofi maneggiare questo concetto che all´uomo della strada evoca invece idee di relax, pace, benessere. Dev´essere per questo che il FestivalFilosofia di Modena ha atteso dieci anni prima di scegliere questa parola bella e terribile come tema della sua undicesima edizione.
Ma non si poteva attendere oltre: possiamo non occuparci della natura, ma la Natura si occupa di noi, fin nel profondo, sempre di più. «È diventato un argomento profondamente politico», spiega Remo Bodei, ideatore e responsabile scientifico del più importante appuntamento dedicato al pensiero speculativo. Minacciata e fragile nel suo equilibrio ecologico, minacciosa e aggressiva nelle sue manifestazioni catastrofiche (tsunami, terremoti, uragani), la Natura sembra invocare o pretendere qualcosa dall´uomo: «Le cose inanimate sembrano sempre più godere di diritti, e li reclamano». Crolla l´opposizione classica fra natura e cultura, l´imprevista competitiva alleanza tra physis e technè profana il confine sacro del corpo umano e rende fluidi e labili concetti naturali come la vita e la morte. Certo, è giunto il tempo che il festival affronti finalmente, faccia a faccia, come l´Islandese di Leopardi, quell´enorme inquietante figura.
Del resto, non è la prima volta che l´adunata di fine estate dei filosofi deve misurarsi con la ribellione e la sfida dei concetti che di volta in volta evoca. Nacque sotto una stella terribile, il festival, nel settembre 2001. Si inaugurò pochi giorni dopo l´attentato alle Twin Towers, e il tema allora apparve stridente: Felicità; fu la politica del terrore, insomma, a incaricarsi di contraddire l´ottimismo apparente di quel debutto. Oggi sembra accadere l´inverso: è un approccio politico ed etico alla Natura che tenta di aprire le porte a una possibile riconciliazione. Non sarà comunque un festival ottimista, perché la Natura, per quanto "da matrigna crudele ora ci appaia piuttosto come una mater dolorosa violata", resta imprevedibile, ma la scelta del tema di quest´anno sembra avvertire il vento della riscossa realista dopo qualche decennio di postmodernismo e di "letture strapazzate di quella frase di Nietzsche per cui non esisterebbero fatti, ma solo interpretazioni".
Tema concreto, quasi facile, ma proprio per questo sterminato. Non basteranno forse a esaurirlo i duecento eventi, tutti gratuiti, tutti in piazza, e i cinquanta e passa relatori (distribuiti nelle tre location tradizionali dell´appuntamento diretto da Michelina Borsari: Modena), alcuni molto assidui (Bauman, Cacciari, Nancy, Bianchi, Severino, Augé, Galimberti, Rodotà, Givone, Galli...), altri alla loro prima visita (Duque, Settis); ma ci si proverà secondo uno schema ormai collaudato: le lezioni sui classici, per scandagliare la genesi e l´evoluzione storica del concetto filosofico di Natura secondo due tradizioni fondamentali. Quella che, dalla Bibbia a Bacon, la vuole soggetta al dominio dell´uomo, e quella, da san Francesco all´ecologia moderna, che viceversa fa dell´uomo una semplice parte del suo regno. Poi le lezioni magistrali, per esplorare le latitudini odierne dell´idea, tenute da vari relatori, tra cui architetti, giuristi, scienziati, ecologisti.
Attorno, secondo la formula fortunata e popolare del festival (oltre un milione di visitatori in questi dieci anni), un pacchetto multimediale di mostre, spettacoli, laboratori per bambini e adulti. Compito apparentemente più semplice del consueto, infine, anche per Tullio Gregory, filosofo e chef del festival: i suoi menu filosofici saranno ovviamente la versione culinaria dell´impresa prometeica dell´homo faber, per scoprire quanto innaturali siano, nonostante tutto, le gioie umane del palato.

Il programma di Festivalfilosofia a Modena Carpi Sassuolo, dal 16 settembre, qui
http://www.scribd.com/doc/64546580

Corriere della Sera 11.9.11
Il poeta moriva il 12 settembre 1981. Fin dalle prime opere le sue liriche assumono un significato esistenziale
Montale trent’anni dopo. L’ultimo dei classici
di Jonathan Galassi

qui
http://www.scribd.com/doc/64550922

il Riformista 11.9.11
Montale, il poeta che lasciò il segno anche nella prosa
di Andrea Di Consoli

qui
http://www.scribd.com/doc/64554851

Repubblica 11.9.11
Maestri. Salvatore Accardo
Incontro di Giuseppe Videtti


"Ho imparato a essere severo innanzitutto con me stesso E poi l´umiltà davanti alla partitura, perché è il compositore ad avere sempre ragione"
Ha una giovane moglie che lo adora e due gemelline nate appena tre anni fa "Vivo una vita che non m´aspettavo più" sussurra alla vigilia dei settant´anni il grande violinista nella sua casa milanese in cui tutto parla di Napoli. E di una carriera sfolgorante iniziata con una chitarra di cartone "Nel dopoguerra tutto era difficile, eppure se sapevi suonare andavi avanti. Dovessi cominciare oggi sarei di certo un cervello in fuga"
Una giornata perfetta. Lou Reed ci scriverebbe su un´altra Perfect day. Leoncavallo un´altra Mattinata. Gli uccelli cinguettano tra le foglie degli alberi del viale, il cielo è limpido, le gemelline chiassose rientrano dalla passeggiata, la domestica è intenta a lustrare l´appartamento, i tacchi della signora Laura che si appresta ad uscire picchiano allegri sul parquet della stanza accanto, il persiano tosato come un pechinese fa le fusa tra i piedi del padrone di casa. «Sto vivendo una vita che non mi aspettavo più», mormora Salvatore Accardo, violinista sublime. «Non immaginavo di diventare padre a quasi settant´anni. Ma l´amore non ha età. Ho incontrato mia moglie, una mia allieva, a 56 anni. A 60 è scoppiata questa cosa straordinaria che mi ha dato una grande felicità e soprattutto una serenità che non ha prezzo. Infine la nascita delle gemelle, che hanno compiuto tre anni il 25 agosto, mi ha riempito di una gioia nuova. Per me, che vengo da una famiglia non bigotta ma credente, è stato un dono del cielo».
Settant´anni li compie il 26 settembre, e non ha solo il compleanno da festeggiare. Ha una giovane moglie che lo adora, due tesori di bambine, una carriera da numero uno che non ha conosciuto battute d´arresto da quando diciassettenne, a Genova, ricevette il premio Paganini e per la prima volta incontrò David Oistrakh. Uno pensa che nella vita di un artista, soprattutto quando ha raggiunto questi livelli, tutto sia ormai scritto, tutto debba andare in una certa direzione. «Invece ti accorgi di non sapere molte cose», interrompe Accardo. «Sui bambini, ad esempio. Conoscere i figli degli altri non è la stessa cosa, perché non ci vivi mai a contatto ventiquattr´ore al giorno. Hanno un orecchio musicale straordinario. L´ho notato anche invitando classi elementari alle prove che facciamo al Festival di Vicenza e prima ancora durante le Settimane musicali di Napoli. I bambini sono aperti a tutto, si emozionano con cose che secondo gli adulti non sono in grado di apprendere o capire, spesso siamo noi a rovinarli. Suonavamo Verklärte Nacht di Schönberg, sicuramente una composizione emozionante ma per ascoltatori che hanno una certa esperienza, e durante la prova aperta ai giovani ero un po´ titubante, credevo che le classi elementari non avrebbero resistito mezz´ora. Invece non volava una mosca e molti di loro avevano le lacrime agli occhi. Le orchestre giovanili del maestro Abreu, in Venezuela, hanno salvato centinaia di minori dalla strada, dalla prostituzione, dalla droga. Questo vuol dire che la musica non è solo delizia per le orecchie, ma aiuta a vivere, è nutrimento dell´anima. Insegno da quarant´anni, ho avuto nelle mie classi giovani violinisti di tutto il mondo, e le assicuro: non mi sono mai imbattuto in un caso di tossicodipendenza».
Nella casa milanese tutto parla di Napoli, Torre del Greco per l´esattezza. Non solo per i frequenti riferimenti del maestro alla cultura partenopea, ma anche per i cimeli conservati in una vetrinetta accanto all´ingresso. Il primo violino, il secondo, i cammei incisi dal padre Vincenzo. «Ebbi tra le mani il primo vero strumento a tre anni. Prima giocavo con delle chitarrine di cartone. Poi mi costruii un violino con dei pezzi di legno e degli elastici e cercavo di imitare quel che ascoltavo alla radio. Infine chiesi a mio padre di comprarmene uno, e lui mi portò questo piccolo strumento fatto da un liutaio», racconta estraendo dal mobile un perfetto esemplare in miniatura. «Una cosa rara, era il 1944, anni difficili. Abitavamo a Torre del Greco, mio padre era incisore di cammei, andò a Napoli e stette tutta la giornata fuori per trovarmi un violino di queste dimensioni. Lo portò a casa che stavo già dormendo. Mi svegliai e lo trovai sul letto, aprii l´astuccio e cominciai a suonare Lili Marlene. Mia mamma pensava che ci fosse la radio accesa, mia sorella e mio cugino mi guardavano sbigottiti. Io non capivo la ragione di tutto quello stupore, per me era la cosa più semplice del mondo».
I ricordi saltano fuori dalla vetrinetta aperta con due Stradivari in bella mostra. Salvatore era l´orgoglio della famiglia. La musica, con un padre melomane, era più di un hobby in casa Accardo. «Quando avevo quattro anni papà cominciò a preoccuparsi della mia educazione musicale», racconta. «Seppe che il miglior insegnante in città era il maestro Luigi D´Ambrosio. Non indugiò, si recò al Conservatorio per incontrarlo. Era un entusiasta mio padre, il Totò della situazione, appassionato di musica, violinista dilettante. Ma con estremo disappunto il maestro, che aveva già passato i sessanta, gli disse che non era interessato ai bambini. Mio padre insistette, e quello stremato: "Me lo porti martedì, a mezzogiorno". Arrivammo e il maestro non c´era. Si era scordato. La domestica c´invitò a tornare un´altra volta. Ma mio padre irremovibile: "Tornerà pure per pranzo, noi da qui non ci muoviamo". Quando arrivò, D´Ambrosio fece una smorfia come a farci capire che non era esattamente contento di vederci. Mio padre aveva portato una borsa piena di spartiti. Lui li ignorò, e mi intimò: "Fammi una scala"; io, mai fatta una scala in vita mia, suonai quattro note in successione. E lui: "Lo accetto!". Mio padre, invece di essere contento, obiettò: "Maestro, ma come, lui si è preparato tutte queste cose e lei non ascolta nulla?". "Ma non voleva che lo prendessi? Bene, lo prendo! Ora andate", ribatté lui. E non finirò mai di ringraziarlo per la sua inflessibile severità. In tanti anni non mi ha mai detto bravo. Mi ha fatto sempre fare delle cose meno difficili di quelle che avrei potuto fare, tant´è vero che a un certo punto papà, col consueto entusiasmo, pretendeva che mi facesse suonare i Capricci di Paganini - allora avevo nove anni - e D´Ambrosio: "Lo so che li può fare, ma non è il momento. Lei cosa vuole che suo figlio suoni fino a ottant´anni o fino a vent´anni?". "Sì, certo, fino a ottant´anni". "E allora stia tranquillo", furono le ultime parole del maestro. E aveva ragione. D´Ambrosio mi ha insegnato a essere severo con me stesso, prima che con i miei allievi, e l´umiltà nei confronti della partitura. Diceva: "Il compositore ha sempre ragione"». E scongiurò il pericolo che il piccolo Salvatore si bruciasse come tanti enfant prodige. «Non lo sono mai stato, neanche da bambino», precisa Accardo. «Ho fatto tutto in fretta, questo sì, mi sono diplomato a tredici anni anziché a venti. Sono solo uno che ha fatto le cose più in fretta degli altri».
Il risultato di tanto lavoro, della disciplina, degli incontri, delle collaborazioni con le più grandi orchestre del mondo, dei sacrifici e dei trionfi è ora raccolto in un cofanetto di otto cd ("L´arte di Salvatore Accardo - Una vita per il violino", Ed. Deutsche Grammophon) con musiche di Bach, Bruch, Dvorak, Mendelssohn, Paganini, Sibelius, Tchaikovsky, Vitali e Vivaldi. Lo gira tra le mani. «Leggendo i titoli, la prima cosa che salta agli occhi è che sto invecchiando», sospira. «Però è sempre bello essere celebrati. Ho rispolverato cose che non ascoltavo da anni e quel che più mi ha emozionato è il ricordo di alcuni incontri, che per la crescita di noi musicisti sono fondamentali. Non necessariamente con altri violinisti. Io ho appreso moltissimo da Michelangeli, Celibidache, Segovia, Casals, Cortot e Fournier. Poi naturalmente da Oistrakh e Stern. La musica è una. L´approccio alla partitura è uno. L´umiltà, la fedeltà e la serietà nell´affrontare una partitura, la stessa. Il fraseggio l´ho appreso da Michelangeli. Il modo in cui lui affrontava il rubato - che in musica è qualcosa che non è perfettamente in tempo - era unico e meraviglioso. Il cofanetto mi ha anche riportato alla mente le prime volte che suonai col grande direttore Kurt Mazur, o con Colin Davis... esperienze dal punto di vista musicale e umano... non solo le ore di lavoro con le orchestre ma tutte le serate che abbiamo passato insieme e quelle interminabili cene a parlare di musica... un arricchimento incredibile».
Lo ferisce che oggi tutto questo patrimonio sia considerato dalle istituzioni un accessorio costoso e superfluo. «Vede, nel dopoguerra era tutto difficile, ma almeno la meritocrazia pagava. Se sapevi suonare andavi avanti. Oggi ci sono musicisti che non hanno grandi qualità e fanno molto di più di talenti che per una ragione o per l´altra restano impantanati in mille difficoltà. L´educazione musicale in Italia è inesistente da decenni», lamenta. «E non solo quella musicale, diciamoci la verità. Non esiste più neanche l´educazione civica. Ho guardato l´ultimo Sanremo, non volevo perdermi Benigni, e lì qualcuno ha chiamato il Va, pensiero "una canzone di Verdi", e allora mi sono cadute le braccia». Se fosse un giovane violinista sarebbe un cervello in fuga? «Sicuramente, perché non c´è la possibilità di restare. In Italia sono state chiuse più di cento istituzioni concertistiche, comprese la Scarlatti e tre orchestre della Rai tra le più prestigiose, che hanno avuto tra i loro leggii maestri come Gazzelloni, Asciolla, Brengola, Selmi, Ceccarossi e Petracchi; e direttori come von Karajan, Furtwängler, Abbado e Muti. I giovani oggi fuggono in Spagna, in Germania, in Inghilterra. Lo dico sempre a mia moglie: in questa situazione forse sarebbe il caso di... Ma l´amore per l´Italia è troppo forte. Non so... vediamo... se si apriranno degli spiragli… Certo, mettere al mondo dei bambini oggi è una responsabilità enorme», conclude guardando le gemelline che si rincorrono da una stanza all´altra. «Ha ragione Muti quando dice che noi non siamo più il paese della musica ma della storia della musica».

Repubblica Lettere 11.9.11
«Per i bimbi migranti divieto di andare al mare»

di Paolo Izzo

I migranti a Lampedusa sono rinchiusi in centri di cosiddetta accoglienza, controllati dalle forze dell'ordine affinché non ne escano, soprattutto per non «turbare» i villeggianti. Vivono in vere e proprie gabbie da cui, talvolta, tentano di uscire. Proprio come l'altro giorno quando sono "fuggiti" dei migranti bambini per fare il bagno in mare, attorniati da forze dell'ordine in tenuta antisommossa che intimavano loro di uscire immediatamente dall'acqua. Ma con tutta questa dovizia di forze dell'ordine che li controlla, non si potrebbe organizzare ogni giorno che i bambini invisibili di Lampedusa sperimentassero la libertà di andare al mare?

sabato 10 settembre 2011

l’Unità 10.9.11
«Basta autolesionismo
Solo un Pd unito può battere la destra»
Appello di dirigenti e amministratori locali del Partito democratico a sostegno del segretario. «Necessario essere determinati, di fronte a un governo tanto irresponsabile»


Alcuni dirigenti locali e amministratori del Pd hanno promosso questa lettera aperta, indirizzata al gruppo dirigente del partito. La lettera, già sottoscritta da oltre 250 persone, è stata pubblicata on line con il titolo: “Non siamo mica qui a pettinar Bersani”.
Abbiamo a cuore il Partito Democratico. Alcuni di noi sono semplici iscritti o militanti, altri dirigenti locali, altri ancora amministratori. Abbiamo età diverse: “siamo solo noi”, col nostro bagaglio di passioni, speranze, idee e progetti. Orgogliosamente, gente del Pd.
Riteniamo che in una fase drammatica come quella che sta vivendo il Paese, a fronte di un Governo incapace e irresponsabile, si accresca la necessità di un Pd unito e determinato in grado di mostrarsi forte verso quelle "cricche" della società che godono nell’illustrare il Pd come forza labile, consapevoli che il vivacchiare di un governo debole e incapace sia il miglior modo di sopravvivere politicamente e che trovano come fantastici alleati tutti quelli che minano l’unità, e quindi la forza, della principale alternativa di governo.
Per questo ci sconcerta e sorprende l’atteggiamento di chi ogni giorno privilegiando la propria visibilità personale mette in discussione, con distinguo rispetto alla linea condivisa, il progetto del Pd, senza rendersi conto che si fa involontariamente complice di chi punta a indebolirci..
La democrazia in genere ha delle proprie sedi di confronto, che non sono le pagine dei giornali (sulle quali solo i nomi noti possono trovare spazio). Le discussioni politiche, in un partito “democratico”, si svolgono all’interno degli organismi dirigenti eletti da tutta la base del partito, è quello il luogo naturale in cui si manifestano differenze culturali e di pensiero che sono elemento vitale di una organizzazione politica, ma che in quello stesso luogo devono trovare un momento di sintesi e di condivisione.
È quello il luogo in cui cimentarsi nel merito delle questioni. Parliamo di merito perché sentiamo la necessità che il nostro progetto politico sia sostenuto dalla conoscenza. Per fare esempi concreti, vogliamo riferirci alle difficoltà che abbiamo incontrato nella campagna referendaria e nella discussione intorno al riassetto istituzionale dello Stato, in cui spesso è prevalso il rincorrere le sensazioni e gli umori a scapito del ragionamento e anche del sostegno alle proposte del Pd approvate in direzione e presentate in Parlamento.
La linea di Bersani, che ha saputo miscelare ciò che alle primarie era diviso, mettendo in primo piano i progetti e i programmi per l’Italia, ha fatto crescere inequivocabilmente il Pd, portandolo a importanti successi amministrativi e proponendosi come forza in grado di scardinare le incrostazioni che hanno portato il Paese a scivolare così in basso. Abbiamo finalmente un segretario che dimostra di voler interpretare il proprio ruolo di leader come coordinatore di un collettivo, solerte e scrupoloso, senza manie di protagonismo.
È un atteggiamento conservatore? È vecchio? Superato? A noi risulta soprattutto che sia vincente. E siccome a noi un Pd vincente piace, abbiamo deciso di dire basta. Che non siam mica qui a pettinar Bersani! Ma a tendergli la mano per tornare al governo insieme.
Firmatari: Gessica Allegni Elena Belletti Maria Grazia Bonicelli Ilaria Visani Seguono altre 254 firme

l’Unità 10.9.11
Pd, regole più dure Stretta sui tre mandati e no ai doppi incarichi
Sanzioni per chi non si dimette da incarichi giudicati incompatibili e stretta sul limite dei tre mandati sono alcune delle proposte di modifica allo Statuto e al Codice etico del Pd ipotizzate dalle commissioni garanzia riunite ieri a Pesaro.
di Simone Collini


Sanzioni per chi ricopre più incarichi, incompatibilità tra ruoli dirigenziali nel partito e in enti pubblici, stretta alle deroghe per i tre mandati, precisi limiti e nuove regole per garantire la trasparenza nelle spese per le campagne elettorali, nonché norme più stringenti per far rispettare quelle già vigenti. Pena, di nuovo, sanzioni che vanno dalla censura, alla sospensione dai gruppi, a quella dal partito. Sono alcune tra le ipotesi di modifica allo Statuto e al Codice etico che le commissioni di garanzia del Pd (la nazionale e le locali) hanno discusso ieri. E che se il confronto proseguirà sulla linea tracciata si tramuteranno in proposte da presentare alla Conferenza sul partito che Bersani convocherà a novembre.
«Non siamo un partito di francescani», dice Luigi Berlinguer con un sorriso dopo quattro ore di discussione a porte chiuse. «Abbiamo delle norme, nello Statuto e nel Codice etico, severe, robuste, come non le ha nessun altro partito. Ma qui ci siamo detti che non basta, che vanno migliora-
te». È appena finita una riunione fiume a cui hanno partecipato i membri della Commissione di garanzia nazionale insieme a quelli di analoghi organismi regionali e provinciali. L'incontro è servito a fare il punto sulle misure disciplinari di cui si è dotato il Pd, un confronto con accenti anche problematici perché si è trattato di valutare se finora si siano dimostrate sufficienti ad intervenire con efficacia nei confronti di persone coinvolte in vicende che riguardano la moralità pubblica. E la conclusione, condivisa da un po' tutti quelli che ora escono dalla sala consigliare del Comune di Pesaro e si vanno a disperdere tra le vie della Festa democratica, è che no, non si sono dimostrate sufficienti. E quindi verranno presentate una serie di modifiche allo Statuto e al Codice etico che poi chiederanno di approvare alla Conferenza sul partito che, salvo scenari eclatanti (leggi la caduta del governo), si terrà a Roma tra un paio di mesi.
Paradossalmente il caso più spinoso di tutti quelli discussi nel corso della riunione – il coinvolgimento di Filippo Penati nelle inchieste per la ex area Falck e per la Serravalle – è stato giudicato quello meno problematico, dal loro punto di vista. «Lo abbiamo risolto”, dice Berlinguer facendo riferimento all'espulsione e alla cancellazione dall'Albo degli iscritti per l'ex presidente della Provincia di Milano. «Il nostro compito è quello di difendere il partito», dice il presidente della Commissione di garanzia del Pd sottolineando comunque che questo incontro è stato convocato ben prima che si scatenasse la vicenda Penati. «Noi crediamo nella magistratura, al contrario di altri che invece fanno di tutto per eludere la giustizia, aspettiamo di ascoltare il giudice, ma attraverso la norma molto seria della sospensione manteniamo la singola persona distinta dal partito per tutto il periodo del procedimento processuale». Da questo punto di vista, per i Democratici che hanno partecipato alla riunione, non servirebbe neanche una stretta e l'espulsione dovrebbe essere mantenuta per i casi di sentenza definitiva, patteggiamento (perché equivarrebbe a un'ammissione di colpa, viene spiegato) o per accuse di particolare gravità (mafia, criminalità organizzata).
LE PROPOSTE DI MODIFICA
I membri delle commissioni di garanzia, nazionale e regionali, giudicano invece necessarie delle modifiche allo Statuto e al Codice etico sul fronte delle incompatibilità, del limite dei mandati e della trasparenza per le spese elettorali. Non tanto per inserire nuove norme, ma per rendere più stringenti quelle esistenti. Così hanno ragionato sull'opportunità di prevedere delle sanzioni per chi non si dimette da incarichi giudicati incompatibili nelle istituzioni (ad esempio parlamentari e presidenti di provincia) o ruoli dirigenziali nel partito e fuori (tipo le società partecipate dagli enti locali), così come hanno ragionati sull' ipotesi di dare una stretta al limite dei tre mandati (potrebbero essere conteggiate non solo le legislature in Parlamento ma anche l'elezione in organi di rappresentanza locale) e anche alla percentuale di deroghe consentite (oggi è fissata dallo Statuto “al 10% degli eletti del Pd nella corrispondente tornata elettorale precedente”). Una misura che rientra nel capitolo rinnovamento, mentre è del tutto attinente alla questione moralità pubblica quella ipotizzata per fissare precisi limiti e garantire maggiore trasparenza alle spese per le campagne elettorali. Anche in questo caso, per chi non presenta un bilancio consuntivo delle entrate e delle spese, sarebbe prevista una sanzione come l'esclusione dai gruppi del Pd e dall'Anagrafe degli iscritti.
a cura di Fabio Luppino

Corriere della Sera 10.9.11
Conservatori e immobilisti
di Ernesto Galli della Loggia


Sì, Berlusconi si sta rivelando un pessimo presidente del Consiglio, non si sa come mandarlo via e di fronte alla crisi economica il governo si è mostrato di una pochezza e una goffaggine uniche. Sì, l'opposizione riesce solo a balbettare ma non è capace di nessuna proposta alternativa seria. Sì, la maggioranza è spaccata e l'opposizione è divisa. E per finire c'è l'abominevole casta che tutti ci sentiamo così bravi e onesti a detestare. È tutto vero, sì, l'Italia è tutto questo.
Ma chi cerca di non fermarsi alla superficie sa che nessuno di quelli ora detti è il problema vero del Paese. Il problema vero, profondo, strutturale dell'Italia sta altrove. Sta nell'esistenza di un immane blocco sociale conservatore il cui obiettivo è la sopravvivenza e l'immobilità. Nulla deve cambiare. È questo il macigno che ci schiaccia e oscura il nostro futuro. Il blocco conservatore-immobilista italiano è un aggregato variegatissimo. Ne fanno parte ceti professionali vasti e ferreamente organizzati intorno ai rispettivi ordini, gli statali sindacalizzati, gli alti burocrati collegati con la politica, i commercianti evasori, i pensionati nel fiore degli anni, i finti invalidi, gli addetti a un ordine giudiziario intoccabile, i tassisti a numero chiuso, i farmacisti contingentati, i concessionari pubblici a tariffe di favore, il milione circa di precari organizzati, gli impiegati e gli amministratori parassitari delle spa degli enti locali, gli imprenditori in nero, i cooperatori fiscalmente privilegiati, i patiti delle feste nazionali, i nostalgici della contrattazione collettiva sempre e comunque, le schiere di elusori fiscali, gli imprenditori in nero, gli aspiranti a ope legis e a condoni, quelli che non vogliono che nel loro territorio ci sia una discarica, una linea Tav, una centrale termica, nucleare o che altro. E così via per infiniti altri segmenti sociali, per mille altri settori ed ambiti del Paese. In totale, una massa imponente di elettorato.
Un elettorato ormai drogato, abituato a trarre la vita, o a sperare il proprio avvenire, dal piccolo o grande privilegio, dall'eccezione, dalla propria singola, particolare condizione di favore. Avendo scritto un paio di settimane fa che abbiamo bisogno di una politica capace di parlare «con verità», Emanuele Severino — con tipico massimalismo filosofico, me lo lasci dire — mi ha chiesto polemicamente «che cosa significhi verità». Ecco, caro Severino, significa per esempio una politica capace di dire le cose banali ma vere di cui sopra, di dire questa verità, che la società italiana è questa qui. Invece tra la politica e il blocco conservatore-immobilista si è da tempo stabilito un rapporto di assoluta complicità.
Forte della debolezza della politica, delle sue pessime prove, sempre più spesso la società italiana sembra non voler riconoscere più alcun potere di direzione alla politica stessa, ma di cercarne solo l'appoggio necessario per la sua sopravvivenza spicciola. E domani capiti quel che può capitare. Essa si muove in questa ricerca con consumata spregiudicatezza, tanto a destra come a sinistra, utilizzando per i propri interessi tutto l'arco della rappresentanza parlamentare.
Ogni gruppo sociale appena importante, ogni interesse e segmento professionale sa di poter contare sui suoi deputati e senatori di riferimento (particolarmente rilevante il caso dei magistrati e degli avvocati che hanno a disposizione un vero e proprio partito ombra), i quali intervengono puntualmente a difendere i propri tutelati contro la destra, contro la sinistra, contro tutti. Come si è visto drammaticamente proprio in queste settimane: quando il governo, la maggioranza, e in modo solo meno diretto anche l'opposizione, si sono mostrati incapaci di esprimere indirizzi rapidi, incisivi e coerenti, di sostenere scelte dure, perché di fatto totalmente in balia del blocco conservatore-immobilista, perché ricattati e minacciati dai milioni e milioni di cittadini impegnati allo spasimo perché tutto resti com'è.
In Italia non sembra più ormai possibile fare nulla, cambiare nulla, perché c'è sempre qualcuno dotato di un potere d'interdizione che dice di no. Anche per questo siamo un Paese che dà sempre di più l'impressione soffocante di un Paese vecchio, immobile, paralizzato. Dove perfino i discorsi, i pensieri, le conversazioni si susseguono sempre eguali. Un Paese prigioniero del suo passato, nel quale troppi hanno costruito la propria esistenza sfruttando rendite di posizione, contingenze favorevoli irrepetibili, trincerandosi in ben muniti fortini corporativi. Un Paese che fino a ieri poteva forse credere di essere una sicura Fortezza Bastiani, ma che oggi, quando il tempo dei barbari è forse arrivato, assomiglia sempre di più a un disperato Forte Alamo.

l’Unità 10.9.11
il Dossier
L’anno che verrà. La scuola
Istruzione, orizzonti perduti

il pdf di 6 pagine qui

Repubblica 10.9.11
Le nostre scuole sono soprattutto raccoglitori di aule. Molto di quello che diciamo importante non c´è nella simbolica degli spazi: riceviamo i genitori in piedi
Dalle aule finlandesi ai maestri di Napoli quelle lezioni da mandare a memoria
di Mariapia Veladiano


Colpita dai tagli, stremata da continue riforme che le hanno tolto centralità e ruolo, la scuola resta decisiva per il futuro del Paese. Così nonostante le difficoltà, alla vigilia del ritorno in classe, è bello immaginare come insegnanti, ragazzi e genitori possano provare a salvarla. Copiando esperienze importanti, dalla Finlandia a Napoli, o rinnovando modelli perduti. Perché la scuola è di tutti: dall´impegno dei maestri precari ai desideri degli studenti, è ancora possibile trovare energie e passioni da spendere in un progetto di rinnovamento.
Lo scenario attuale è scoraggiante, eppure vale la pena cercare idee per ripensare i programmi, ricostruire il rapporto con le nuove generazioni, progettare spazi diversi da quelli burocratici. Dalle bocciature al voto di condotta, dalle letture in classe al rapporto con i genitori fino alla costruzione di un archivio di storie della scuola fatte dai ragazzi, ecco alcune proposte per una buona educazione.

Non può rinunciare a essere il luogo delle opportunità per tutti Non si può bocciare uno studente per una o due materie. Meglio un sistema di crediti

La scuola è nostra. Di tutti noi. Non mia, non loro. È di chi non ha figli nelle aule e di chi ce li ha, di chi la frequenta e di chi insegna, di chi se ne occupa e di chi non ne sa niente. È il nostro bene comune. Non si buttano pietre contro il nostro bene. Che cosa vogliamo dalla scuola?
Oggi l´infelice fastello di norme-dispositivi-razionalizzazioni, in effetti solo tagli e ancora tagli, che ci si ostina a chiamare riforma della scuola, sta andando "a regime", come si dice con una metafora vagamente minacciosa nella sua statica definitività. E allora: che cosa possiamo fare?
Ora che la scuola è più povera di persone e risorse, più mortificata nel prestigio di cui ha bisogno, con gli studenti e nella società, più attaccata, più sola?
La moltiplicazione delle esperienze. Bisogna impedire l´incosciente dissipazione delle esperienze positive che i tagli vorrebbero cancellare. Così a Napoli è stata fatta morire la storia di Chance, la scuola dei maestri di strada. Cercava, inseguiva e dava un´altra opportunità a ragazzi bocciatissimi delle scuole del regno. Gli insegnanti che ci lavoravano hanno trovato piccoli finanziamenti privati e hanno disseminato l´esperienza: ora undici istituti collaborano fra loro per conservare il buono già messo da parte. «È morta una scuola e ne sono nate undici», ha scritto Cesare Moreno, maestro di strada, rispondendo a un ex studente di Chance. Così quel che prima viveva una separatezza sospettosa, quasi Chance fosse una scuola dei privilegi, è diventato condivisione capace di moltiplicare il bene.
Una scuola del patto. La scuola può stringere patti. Fra studente e docente, scuola e famiglia, scuola e società. Tutte le indagini ci dicono che la fiducia delle famiglie verso la scuola tiene, sorprendentemente. È inutile rimpiangere la stagione della rappresentanza, che è in crisi ovunque. I genitori oggi devono partecipare direttamente alla vita della scuola in un´alleanza di trasparenze che non lasci spazio al sospetto. Credo che la scuola abbia il compito di smascherare ogni "gerarchia nascosta delle relazioni". I problemi, le difficoltà, i disagi non vanno "comunicati" ai genitori, ma condivisi con loro e i figli. Dal bullismo al cattivo risultato scolastico, ci si trova, insieme, seduti intorno a un banco, si stende un impegno in pochi punti, sottoscritto dal ragazzo (che ripara il danno nella forma del servizio, oppure recupera le insufficienze attraverso un impegno scandito da tappe condivise), dal genitore (che si impegna a seguire giorno per giorno e a firmare il calendario degli impegni assunti), dal docente (che accompagna, verifica passo passo, riconosce i progressi e li mette in comune). Lo si fa da anni in molte scuole. Ciascuno esce dalla solitudine del suo ruolo, si condivide il successo. E anche l´insuccesso, che non può più essere buttato addosso all´uno o all´altro.
Il patto più efficace è quello con gli studenti. Perché li riconosce, è fra pari, dà fiducia davvero. E non può avere la forma rituale, all´inizio dell´anno, di una firma in fondo a un elenco altrettanto rituale di impegni. Deve essere di volta in volta, preciso, condiviso, scritto insieme (per quale risultato ci accordiamo? cosa fai tu? cosa fa la scuola? quanto tempo ci diamo? come verifichiamo?).
Lo spazio simbolico. Le nostre scuole sono soprattutto raccoglitori d´aule. E che aule. Molto di quello che diciamo importante non si ritrova nella "simbolica" degli spazi: i genitori devono partecipare, ma li riceviamo in piedi nei corridoi; i ragazzi devono leggere, ma i libri sono nascosti in armadi chiusi, nelle aule meno appetibili; i ragazzi devono studiare, ma quante scuole hanno spazi adatti? I confronti con l´Europa e con il mondo non possono riguardare solo i risultati, ma anche le risorse. Le scuole finlandesi hanno la struttura del campus: poche ore di lezione, laboratori, mensa, aule per lo studio, biblioteche, impianti sportivi. Le aule sono attrezzate con videoproiettore, collegamento Internet, biblioteca essenziale della disciplina. I ragazzi si spostano da un edificio all´altro dentro lo spazio della scuola. Scuola e vita si mescolano.
Il potere delle parole. Ci servono parole condivise che dicano le verità della scuola. La famigerata "condotta" che ha fatto da catalizzatore demagogico di tante discussioni, nella legge trentina sulla scuola si chiama invece "capacità relazionale". La metafora militare lascia il posto a una costellazione di significati che riconoscono lo studente e i suoi comportamenti dentro un rapporto. Se la relazione è cattiva, la colpa non sta mai da una sola parte. E restituisce, questa espressione felice, la dimensione della responsabilità di tutti. E così, sempre a Trento, la disabilità è ricompresa, come insegna l´Europa, entro l´espressione "bisogni educativi speciali". Che ha più declinazioni, che non richiedono tutte necessariamente la certificazione. Si tratta di misure integrative e compensative che possono riguardare per un certo periodo molti ragazzi. L´effetto è sfumare il confine fra normalità e disabilità, in un accordo con le famiglie che faccia uscire dalla guerra per le risorse (le ore di sostegno) e liberi le energie per arrivare agli obiettivi.
Un mondo di storie. La scuola può raccontarsi, per smontare pezzo dopo pezzo il cliché deresponsabilizzante dello sfascio educativo. Deve trovare la misura di un´immagine. Una strada può essere quella di usare i siti delle scuole: accanto ai link di servizio, farne trovare altri di storie vere, divertenti, struggenti. Raccontare: negli incontri con i genitori, nei Consigli di istituto, durante gli open day, sui giornali di scuola e no. Storie di vita d´aula che regalino un immaginario collettivo dei giorni, della convivenza, dello studio. Oggi la letteratura, il cinema, il teatro non frequentano molto la scuola e manca un´"epica dell´insegnamento" paragonabile a quella che proprio i romanzi hanno saputo creare per il mondo degli ospedali, ad esempio, oppure dei tribunali.
Le opportunità. La scuola non può rinunciare ad essere il luogo delle opportunità per tutti. Legare il prestigio della scuola alla selettività, alla bocciatura, è facile, demagogico e indecente. Bisogna dire ai genitori, ai ragazzi, alla società che il voto di condotta che fa media ha prodotto situazioni di intollerabile iniquità perché di fatto rischia di alzare il profitto dei "buoni" mediocri e di mortificare i "cattivi" capaci. Ma la scuola dovrebbe invece riconoscere e trovare un modo per accogliere e valorizzare intelligenze e personalità originali, divergenti, non allineate. Invece arriviamo a nascondere un´ingiustizia persino nell´attuale normativa sui recuperi di settembre e sull´ammissione all´esame di stato "con la sufficienza in tutte le discipline". Di fatto non si può bocciare uno studente per una o due materie, anche se si tratta di insufficienze gravi: vorrebbe dire dissipare un anno a ripetere insieme alle materie insufficienti anche le altre. Dietro ai sei di tante pagelle ci sono voragini invisibili e ingiuste rispetto ai tanti sei conquistati con fatica. Non va bene. Cosa ci vuole a fare un sistema di crediti come all´università, che permetta di andare avanti nello studio ma con l´obbligo di avere alla fine davvero tutte le discipline sufficienti?
E poi: una scuola più povera è sempre anche più iniqua. Soprattutto in tempo di crisi. Vogliamo rassegnarci davvero?
Gli insegnanti. All´ultimo atto della riforma ci si può contrapporre solo con iniziative vitali, concrete. È un´azione prima di resistenza e poi di alleanza con chi si sente responsabile. E soprattutto conosce ciò di cui parla. Non si può fare una riforma della scuola senza la sapienza dei docenti. «Non si può costruire una resistente (oltre che bella) cupola o sinfonia, senza conoscere certe regole della statica o dell´acustica». Questo ha scritto Giorgio Caproni, ed era un poeta.

Repubblica 10.9.11
Perché la storia dell´arte può offrire lo spunto per inventare la didattica futura E fondare così una "paideia" del XXI secolo da contrapporre al mercato dei gadget
Creiamo un regno delle immagini come gli umanisti del Quattrocento
di Marc Fumaroli


l maestro di color che sanno, Aristotele, chiama schole, scuola, il periodo di vacatio che viene concesso all´infanzia e all´adolescenza degli uomini liberi prima dell´inizio della vita attiva, e durante gli anni in cui le giovani facoltà sono più ricettive. È allora che bisogna seminare il buon grano che lieviterà per tutta la vita e che verrà raccolto in una vecchiaia felice. Spetta dunque alla scuola gettare le basi della maturità libera e civilizzata. Dal Medioevo di Alcuino al Novecento di Alain, questa definizione aristotelica della scuola non è mai stata smentita.
La democrazia moderna ha voluto estendere a tutti i cittadini la possibilità di godere del privilegio ateniese della schole. Oggi questa logica generosa non è più oggetto di un´adesione unanime ed entusiastica. Qualcuno ormai vede nella schole aristotelica o nell´Università del cardinale Newman (l´idea è la stessa) solo un lusso inutile. La scuola utilitaria, al servizio del mercato, serve a procurare un lavoro, non a formare uno spirito libero e critico, a educare un gusto, a risvegliare delle doti. Altri farebbero volentieri a meno di qualsiasi a scuola, utile o meno: sono i padroni di un mercato onnipresente, le cui immagini e i cui gadget, rinnovati costantemente, hanno i bambini e gli adolescenti per clientela e per target. Così è la scuola di oggi e di domani: è ovunque e da nessuna parte. A che serve, ci si domanda, la scuola arcaica? In questa nuova scuola non si inseminano le facoltà naturali, le si rimpiazza con una memoria, un´immaginazione, un´intelligenza artificiali. I videogiochi di guerra si prendono perfino la briga di sostituire il senso morale elementare con un´indifferenza calcolata nei confronti della sofferenza e della morte di altre persone. Sì, sono questi i barbari, numerosi, miliardari, che prosperano fra di noi.
Dunque il problema della scuola non è mai stato tanto scottante. La sfida è gigantesca. Come gli umanisti del Quattrocento, ma con ben altra urgenza e con nemici ben più attrezzati, abbiamo il dovere di inventare, contro gli utilitaristi e contro gli stregoni, la schole, l´università e le scienze umanistiche di oggi e di domani. Dobbiamo ritorcere contro i barbari le loro stesse armi. Hanno conquistato l´impero delle immagini? Dobbiamo contrapporgli i regni dell´immagine! A mio parere sarà intorno alla storia dell´arte, capace di unire tutte le scienze umanistiche, che dovrà emergere questa paideia novantica (nuova e antica insieme, n.d.r.) di cui oggi sentiamo tanto crudelmente la mancanza. L´Italia è nella posizione adatta per ricominciare in circostanze nuove l´avventura della Villa Giocosa e delle Accademie fiorentine.
(Traduzione  di Fabio Galimberti)

l’Unità 10.9.11
Occasione da non perdere
di Moni Ovadia


Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, il 21 settembre, parlerà alle Nazioni Unite in seduta plenaria per chiedere il riconoscimento formale dello Stato palestinese.
La comunità internazionale ha un'opportunità preziosa per riparare ad uno dei più gravi torti commessi nella seconda metà del Novecento nei confronti di un piccolo popolo esemplare nella sua dignità e nel suo coraggio, il popolo palestinese che vive sotto occupazione militare israeliana da quasi cinquant'anni, con milioni dei suoi figli dispersi nell' esilio, espulsi dalle loro terre, con la sua gente privata di ogni diritto, vessata quotidianamente da una colonizzazione perversa ed espropriatrice.
La comunità internazionale non può perdere l'occasione di dare avvio ad un processo riparatore dei guasti e delle devastazioni del colonialismo che sono state all'origine del dramma mediorientale.
La decisione di accogliere lo Stato di Palestina nella comunità delle nazioni non potrà non mettere alle corde la politica del governo Netanyahu che mira alla strisciante e progressiva espropriazione dell'identità palestinese attraverso la compressione dei suoi spazi di esistenza e di cultura fino a ridurla ad una marginalità impotente.
Proprio in questi giorni un milione di israeliani chiedono giustizia sociale, sono gli indignados. Costoro, in risonanza con le primavere arabe potrebbero rimettere in moto un'energia virtuosa che faccia uscire gli israeliani dalla palude del discredito e dell'isolamento al quale li condannano il reaganiano Bibi e il razzista Lieberman, per farli entrare in un futuro migliore di quello del «ghetto» supermilitarizzato.

l’Unità 10.9.11
Israele ha innalzato in questi giorni al massimo il livello di allerta e sigillato le frontiere
Favorevoli alla proposta le potenze emergenti India, Cina, Brasile e molti stati europei
È intifada diplomatica per il riconoscimento dello Stato di Palestina
L’Olp prosegue la campagna per l’ingresso dello Stato di Palestina, come 194 ̊ membro, nelle Nazioni Unite. Nonostante il veto annunciato dagli Usa, potrebbe ottenere il sì di 2/3 dell’Assemblea generale
Il voto all’Assemblea Onu sarà tra 10 giorni Già 118 Stati per il sì
di Umberto De Giovannangeli


Indietro non si ritorna. La terza Intifada è alle porte ma usa l’arma della politica e ha una data d’inizio: il 20 settembre. Il giorno in cui un intero popolo avrà gli occhi puntati sul Palazzo di Vetro. L’Intifada diplomatica ha un obiettivo dichiarato: ottenere i due terzi dei consensi dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla richiesta ufficiale di adesione all’Onu dello Stato di Palestina, indipendente e sovrano accanto ad un Israele confinato alle frontiere del 1967. L’attesa nei Territori cresce con l’avvicinarsi della data fatidica. I palestinesi rilanciano, gli Stati Uniti fanno muro. Il «no» ribadito dall’amministrazione Usa, su questo punto cruciale decisamente schierata con Israele, non ha incrinato la determinazione della leadership palestinese. Nei giorni scorsi il Comitato esecutivo dell'Olp si è riunito insieme ai capi di tutte le componenti palestinesi a Ramallah con il presidente dell'Anp, Abu Mazen, ribadendo la propria decisione di chiedere per la Palestina lo status di «194 ̊ Stato membro delle Nazioni Unite», limitato dai confini del 4 giugno 1967 e con Gerusalemme Est come capitale. Una scelta, afferma un dirigente dell'Olp, Azzam al-Ahmed, «definitiva e irreversibile». Nella convinzione, dice a l’Unità il segretario generale dell'Olp, Yasser Abdel Rabbo, che «arrivare a questo obiettivo favorirà il rilancio di un processo di pace serio e di nuovi negoziati, con il chiaro obiettivo di una soluzione con due Stati sulle frontiere del 1967. Ma c'è il muro di Washington: la nascita di uno Stato palestinese, rimarca la portavoce del Dipartimento di Stato Usa Victoria Nuland, «può avvenire solo attraverso negoziati» e non con un'iniziativa unilaterale. Pertanto, a «qualunque» iniziativa in tal senso che venisse sottoposta al Consiglio di sicurezza, «gli Stati Uniti opporranno il veto», taglia corto la portavoce, aggiungendo che la cosa «non dovrebbe sorprendere». Un muro che rischia ora di creare un'ondata di indignazione in tutto il mondo arabo.A supporto del gesto unilaterale davanti all'Assemblea dell'Onu la leadership palestinese ha chiesto «una vasta mobilitazione in Palestina, nei campi profughi, nel mondo arabo e in tutti i Paesi del mondo per sostenere il passo alle Nazioni Unite. Tanto che in quei giorni “caldissimi”, Israele intende sigillare i Territori e decretare lo stato di massima allerta su tutto il territorio nazionale.
Mentre il Consiglio dell'Olp era riunito, un centinaio di palestinesi con bandiere e cartelli ha sfilato per le strade di Ramallah fino al quartier generale delle Nazioni Unite, dove è stata consegnata la lettera con la richiesta di adesione indirizzata al segretario generale Onu, Ban Ki-moon. A consegnarla è stata Latifa Abu Hamed, 60 anni, rifugiata del vicino campo di Al-Amari, che ha avuto un figlio ucciso dagli israeliani e altri quattro detenuti nello Stato ebraico. «Rivolgo questo messaggio all'Onu per dire che noi abbiamo diritto ad avere il nostro Stato come tutti nel mondo e abbiamo diritto alla fine dell'occupazione».
IL ROUND FINALE
«Al momento possiamo contare sul voto favorevole di almeno 118 Stati membri delle Nazioni Unite, ma riteniamo di arrivare ad oltre 140 superando così i 2/3», degli Stati membri dell’Onu, dice Nabil Abu Rudeinah, raggiunto telefonicamente alla Muqata, il quartier generale dell’Anp a Ramallah. La risoluzione può contare sul sostegno di potenze globali come Cina, Brasile, Sud Africa, India. A sostegno si schierano, compatti, i Paesi arabi e musulmani, dal Pakistan all’Iran, dall’Egitto post-Mubarak alla Turchia di Erdogan. Quel voto è invece destinato a spaccare l’Europa: a favore si sono già dichiarati la Spagna, i Paesi scandinavi, verso il sì sembrano orientarsi la Francia, il Belgio, l’Irlanda e il Lussemburgo, incerta resta la Gran Bretagna, contrari la Germania, la Polonia, l’Olanda. L’Italia, ultima ruota del carro europeo anche stavolta: l’orientamento è verso il no, ma senza sbandierarlo troppo. Un no a bassa voce. Il tono che più si addice al profilo undergronud del Cavaliere nello scenario internazionale.

l’Unità 10.9.11
Turchia
Il premier Erdogan: «Scorteremo le flottiglie per Gaza»


La marina militare turca ha ricevuto mandato di proteggere e scortare le navi cariche di aiuti umanitari destinate alla Striscia di Gaza. Lo ha annunciato ieri il premier turco Recep Tayyip Erdogan all’emittente satellitare Al Jazeera. «D’ora in poi ha dichiarato Erdogan , che ha rinunciato alla visita a Gaza non lasceremo che queste navi vengano attaccate da Israele come avvenne con la Freedom Flottilla». Non si placa la crisi diplomatica scaturita tra Turchia e Israele, che per bocca del suo ministro dell’informazione ha giudicato «gravi e difficili» le parole del primo ministro turco. Il premier israeliano Benyamin Netanyahu invita entrambi i paesi ad una maggiore responsabilità. Ma non sembra intenzionato a porre scuse ufficiali per le 9 vittime turche causate dall’arrembaggio del convoglio umanitario del 2010.

l’Unità 10.9.11
Lacrime e standing ovation per Bellocchio e Bertolucci


Maestri. Marco Bellocchio riceve dalle mani di Bernardo Bertolucci il Leone d'oro alla carriera e si commuove. «Le nostre vite si sono sfiorate», afferma il regista di «Ultimo tango a Parigi». Poi prende la parola Bellocchio: « Credo nella libertà, la cosa più preziosa per un artista. Non la libertà civile che è garantita in questo paese, ma la libertà d'immaginazione. Il “devo” o il “non devo” paralizza l'artista. che ha bisogno di libertà e questo premio è il riconoscimento della mia libertà». È standing ovation.

Alberto Crespi:
Oggi è il giorno dei premi, ma nessun possibile vincitore eguaglierà in talento e in commozione il duo che si è esibito ieri sera sul palco del Palazzo del cinema. Marco Bellocchio ha ricevuto il Leone alla carriera dalle mani di Bernardo Bertolucci. Quest’ultimo ha raccontato che un po’ di anni fa, all’Accademia di Brera di Milano, un ammiratore gli disse: «La seguo da quando ha girato I pugni in tasca» che come è noto è il film d’esordio di Bellocchio. «Magari avessi girato io I pugni in tasca», ha concluso Bertolucci.
Bellocchio ha tenuto un bellissimo discorso, molto applaudito: «Non sono più il rivoluzionario e il ribelle di I pugni in tasca ha detto -, i protagonisti delle mie storie non sono più assassini o suicidi, la mia vita è cambiata. Ciò che non cambia è la voglia di stare dalla parte degli oppressi, di chi è vittima della violenza. Credo nella libertà, la cosa più preziosa per un artista». E ha annunciato il ritorno al progetto su Eluana Englaro, a suo tempo accantonato. Si intitolerà Bella addormentata, sarà il suo prossimo film. Farà discutere. E noi ci saremo, a difendere se necessario la libertà di cui sopra.

Il Fatto 10.9.11
Quei Pugni in tasca che restano nel tempo

“Ricorrente è la domanda: Ma la tua rabbia dei Pugni in tasca, dove è finita? Da allora le mie immagini sono cambiate, perché la mia vita è cambiata. Ciò che non è cambiato è una naturale inclinazione a stare dalla parte di chi è oppresso, di chi è vittima di qualsiasi violenza, di chi accetta passivamente la sconfitta e predica la rassegnazione”. E ancora: “Questo premio alla carriera non è una riconciliazione istituzionale, ma il riconoscimento di una coerenza che in tutti questi anni ho cercato sempre di difendere”. Così parlò Marco Bellocchio ritirando ieri il Leone d’oro. Oltre al discorso ufficiale, il regista ha parlato del suo prossimo film su Eluana Englaro (titolo provvisorio, La bella addormentata) e dei giovani che vogliono fare i registi. “Li scoraggerei – ha detto – oggi è diverso da quando ho iniziato io”. E del cinema italiano dice: “È povero e misero. Tutti si buttano sulla commedia perché ha successo, mentre bisogna cercare strade nuove”.

La Stampa 10.9.11
Bellocchio cuor di Leone
Standing ovation per il regista premiato da Bertolucci: “Resto un ribelle non smetto di stare dalla parte dei deboli. Girerò un film su Eluana Englaro”
di Fulvia Caprara

il pdf della pagina qui

«Lui amava il free cinema io la nouvelle vague, siamo coetanei e conterranei ci siamo sfiorati, provando gli stessi brividi psicanalitici» Bernardo Bertolucci

Sono i due grandi rivoluzionari del cinema italiano, maestri della contestazione a suon di immagini e di storie, un tempo amici-nemici, oggi solidali perché, certe volte, gli anni non passano inutilmente: «Tra noi c’è sempre stata una vicinanza di affetti, abbiamo avuto tante cose in comune, amici come Pasolini, Moravia, la Betti, ma anche tante differenze. Negli Anni Settanta ci fu anche rivalità, e invidia, lui firmava grandi film di successo come Ultimo tango Parigi , io invece avevo problemi a girare. Con il passare del tempo ci siamo ritrovati, e il fatto che oggi sia lui a darmi questo premio, mi commuove».
Bernardo Bertolucci consegna il Leone d’oro alla carriera a Marco Bellocchio, la platea della Sala Grande scatta in piedi e ci resta per molto tempo, mentre in alto ondeggia uno striscione che gioca con il titolo dell’ultimo film del premiato: «Sorelle mai, amici sempre». Il Leone non è il segno di una riparazione, e non vuol dire che il regista dei Pugni in tasca abbia fatto un passo indietro nel suo cammino, sempre dissacrante, sempre provocatorio: «Non è una riconciliazione istituzionale, né un risarcimento, ma il riconoscimento di una libertà e di una coerenza che vanno sempre riconquistate». Bertolucci ascolta e annuisce: «Magari avessi fatto io I pugni in tasca , magari avessi avuto io quella rabbia». Bellocchio gli ha portato in dono uno schizzo con dei suoi pensieri, un inno alla «libertà d’immaginazione, bene prezioso per ogni artista». Ha gli occhi rossi, il maestro nato a Piacenza, pochi chilometri di distanza da Parma, patria di Bertolucci, che ricorda: «Siamo nati in due città vicine, e negli stessi anni, per tanto tempo le nostre vite si sono sfiorate, ci incontravamo, e siamo anche stati percorsi entrambi da brividi psicanalitici, lui amava il free cinema inglese, io la nouvelle vague francese...».
Adesso, per tutti e due, è l’ora di tornare dietro la macchina da presa, curiosa coincidenza anche questa. Bertolucci dirigerà Io e te , Bellocchio, a gennaio, inizierà la lavorazione di un film che ruota intorno alla vicenda di Eluana Englaro: «Ho trovato una chiave che m’interessa, con personaggi in crisi di coscienza, scontri, e storie che si relazionano con il dramma centrale». In quei giorni terribili il padre di Eluana non rilasciò interviste: «Ci siamo incontrati e parlati a lungo, è una persona che stimo enormemente, sono dalla sua parte, e lui ha approvato il mio progetto».
Nel film scorreranno immagini di repertorio, anche materiali ritrovati su Youtube, ma nessuna attrice interpreterà Eluana: «Ci sarà soprattutto la cronaca di quei giorni cruciali, ricostruita attraverso i media e i personaggi in lotta fra loro». Ancora una volta, una presa di posizione netta, che farà sicuramente discutere: «Raccontare per immagini mi viene naturale», dice Bellocchio, la forma cinematografica non si esaurisce, anche se c’è «superficialità», e anche se certi giovani «imitano i padri, girando commedie, che, in questa povertà, finiscono per essere la brutta copia di quelle che facevano Risi e Monicelli». Pessimista? No, anzi. Le moderne tecnologie, dice l’autore, «consentono di lavorare con poco e questo è un gran vantaggio. Oggi si può girare con oggetti piccoli, leggeri, vicini allo sguardo umano». Quello che dispiace è l’assenza di «scapigliatura, la mancanza di immaginazione, il cinema di denuncia è finito». Ai ragazzi che sognano di diventare registi, Bellocchio raccomanda la ricerca di «strade nuove. Per prima cosa tendo a scoraggiarli, a spiegare loro che questo è un lavoro faticoso, dove pochi riescono davvero».
Guardandolo, però, viene in mente tutt’altro, Bellocchio è un giovane settantenne animato dall’energia della coerenza: «Il presente non ha tradito il passato, ho cercato di restare fedele alle mie idee, anche se credo nel cambiamento e, ovviamente, non sono lo stesso di quando ho girato In nome del padre ». Del film, ieri sera, è stata proiettata la nuova versione, sforbiciata rispetto alla prima (uscita in sala nel 1971) 90 minuti contro gli iniziali 105: «Non è una rilettura ammorbidita, è stato fatto, invece, un lavoro di liberazione dell’immagine, direi che oggi il film, che allora non aveva conquistato il grande pubblico, corre molto di più».
Nessun cambio di rotta. Quando qualcuno chiede a Marco Bellocchio se si definisce ancora «di sinistra» lui prima ridacchia e poi gentilmente replica: «Sono ancora di sinistra, non sono berlusconiano, ma sono diventato molto più tollerante, un tempo, a questa sua domanda, avrei risposto mandandola a quel paese».

Corriere della Sera 10.9.11
Bellocchio e i giovani registi: troppe brutte copie di Monicelli
«Spesso pigri, si buttano sulle commedie miseramente»
di Giuseppina Manin


VENEZIA — «Ho sempre cercato di restare fedele alle mie idee, alle mie immagini. Ma con il tempo si cambia. E oggi non sono più lo stesso che ha fatto I pugni in tasca o Nel nome del padre. Sono diventato più tollerante. Non mi sono ancora riconciliato con il mondo, ma verso l'antica rabbia provo una certa diffidenza». Marco Bellocchio ragiona su se stesso, su una lunga militanza di vita e di cinema.
Ieri, a 71 anni, il regista piacentino ha ricevuto il suo primo Leone, direttamente alla carriera pur essendo stato alla Mostra 11 volte, due in gara, nel 1982 con Gli occhi, la bocca, nel 2003 con Buongiorno notte. «Un riconoscimento sì, un risarcimento no — avverte —. Non ho rancori né rimpianti. Forse non sono un rivoluzionario, ma il potere e le istituzioni non mi sono mai piaciuti. Logico che mi abbiano ripagato con la stessa moneta».
Dice che è cambiato. Non è più di sinistra? E questo premio allude a una sua prossima pensione? chiede un giornalista. «In altri tempi l'avrei mandata a quel paese — lo folgora Bellocchio —. Ma visto che sono più tollerante, rispondo: sono di sinistra e antiberlusconiano. Anche se essere di sinistra non è lo stesso di 40-50 anni fa. Quanto alla pensione… voglio fare tanti altri film. Questo Leone lo considero un auspicio per un lungo futuro di cinema».
Cosa direbbe a un ragazzo che oggi volesse fare il regista? «Tenterei di scoraggiarlo. È un lavoro faticosissimo, pochi riescono, tanti s'arrabattano».
E se insistesse? «Il vantaggio è che oggi si può fare cinema con poco. Quando ho cominciato io si usavano macchinari pesanti, adesso sono diventati leggeri, piccoli, a portata di sguardo. Una straordinaria libertà tecnica che dovrebbe andare di pari passo con una scapigliatura dell'immaginazione. Invece i giovani finiscono spesso per ricalcare pigramente le orme altrui. Si buttano sulle commedie poveramente, miseramente. I loro film non saranno mai all'altezza dei Risi e Monicelli. Non è necessario uccidere i padri, ma staccarsi da loro sì».
Lui però i padri li ha uccisi davvero. Metaforicamente e realmente sullo schermo. Basta rivedere Nel nome del padre, del 1972, qui ripresentato nella nuova versione 2011, finanziata dall'Istituto Luce. «Una ventina di minuti in meno, ho tagliato la parte più ideologica, legata all'epoca. Ma non ho ammorbidito nulla, resta intatta la carica provocatoria, la disperata ribellione».
A consegnargli il Leone, un altro maestro del cinema, amico da sempre e da sempre «rivale», Bernardo Bertolucci, premiato a Cannes con l'analogo riconoscimento alla carriera. Accolti da applausi lunghissimi e standing ovation i due registi si sono abbracciati scambiandosi ricordi e affetti. Marco ha regalato a Bernardo un suo disegno con un inno alla libertà.
«Per un artista la cosa più preziosa, non la libertà dei diritti civili, che pure ci sono nel nostro Paese, ma quella dell'immaginazione». E Bertolucci: «Il destino ha voluto che nascessimo in due città vicine, Piacenza e Parma, e negli stessi anni. Per tanto tempo le nostre vite si sono sfiorate e siamo stati entrambi percorsi da brividi psicanalitici». «Avevamo grandi amici comuni, Moravia, Pasolini, Laura Betti — riprende Bellocchio —. Bernardo ha sempre avuto un impatto più internazionale, io più legato all'Italia. Nello stesso anno di Nel nome del padre lui è diventato famoso nel mondo con Ultimo tango a Parigi. Oggi lo sento misteriosamente più vicino. Ricevere questo Leone da lui mi onora e mi commuove».
Infine, entrambi stanno per partire con un nuovo film. Bertolucci farà Io e te, da Ammaniti, Bellocchio Bella Addormentata sul caso Englaro.
«Ho trovato la chiave, raccontare i suoi ultimi sette giorni di vita attraverso l'ossessiva invasione della tv, mentre in parlamento si faceva la corsa per bloccare la sentenza del giudice. Tre storie si intrecceranno, tra cui quella di un onorevole socialista passato alle file berlusconiane e lacerato tra la sua coscienza laica e la linea del partito. Inizierò a gennaio, riprese a Udine, alla clinica dov'era ricoverata Eluana. Nessuna attrice per interpretarla, solo materiali di repertorio». E il progetto Italia mia? «Rimandato sine die. Doveva essere un burlesque sul presidente del consiglio. Tutti i produttori si sono ritirati».

Repubblica 10.9.11
Bertolucci incorona Bellocchio "Sono un ribelle ma moderato"
Leone alla carriera per l´autore di "Nel nome del padre"
Il potere continua a non piacermi e penso di essere ricambiato. E a molti non piacerà il mio prossimo film sul caso Englaro
di Maria Pia Fusco


Bellocchio bacia sulla testa Bertolucci sulla sedia a rotelle: è l´immagine più bella ed emozionante della Mostra 68, un´immagine da storia del cinema. Il pubblico della Sala Grande gremita applaude in piedi per una decina di minuti. Una scelta felice quella di Bertolucci per la consegna del Leone d´oro alla carriera a Bellocchio. «Siamo nati a poca distanza, io a Parma lui a Piacenza, abbiamo cominciato negli anni 60, siamo andati avanti in parallelo, entrambi percorsi da brividi psicanalitici», dice Bertolucci e racconta di quando, laureato ad honorem a Brera, un signore lo avvicinò. «"Adoro il suo cinema, la seguo fin da I pugni in tasca". "Magari lo avessi fatto io", risposi».
Bellocchio è emozionato, perciò legge i ringraziamenti e subito tocca il tema che gli sta a cuore, il cambiamento. «Ho perso la rabbia, ora sono rivoluzionario moderato, un ribelle che ha rinunciato alla violenza. Ma non sono pacificato, non ho perso la naturale inclinazione a stare dalla parte di chi subisce la violenza - non dei rassegnati - e la libertà di immaginazione che va sempre conquistata, mi ha permesso un falso storico clamoroso, Aldo Moro che passeggia sorridendo». Su quella sequenza, interviene Bertolucci: «Mi ha sollevato dai sensi di colpa che provavo per Moro».
Alla fine della cerimonia Bellocchio lo abbraccia e gli consegna un suo disegno: due pagliacci. «Lo farò incorniciare». Ancora un´ondata di applausi, poi comincia la proiezione del film Nel nome del padre nel nuovo montaggio di Francesca Calvelli. Curata dall´Istituto Luce, la versione 2011 del film sarà presentata in vari eventi e distribuita in diverse sale italiane. «C´è un taglio di circa 20 minuti, ma lo spirito è rimasto lo stesso», dice Bellocchio e ricorda che il film nel ‘72 fu a Venezia «non nella Mostra di Rondi come voleva il produttore Cristaldi, ma nell´antifestival dell´Anac, che allora era legata al Pci. Erano tempi complicati, la politica era importante, di quei decenni non è rimasto nulla, io sono ancora di sinistra, ma è cambiato l´impegno». In quegli anni «c´era rivalità con Bernardo, e un po´ di invidia, lui con il suo successo nel mondo con Ultimo tango, io che faticavo a trovare i soldi per Nel nome del padre. Oggi lo sento molto vicino, una vicinanza di affetti».
Il Leone per Bellocchio «non è un risarcimento, implica un risentimento che non ho, lo vedo come un premo alla coerenza e alla fedeltà ai miei principi. Non sono più un rivoluzionario ma il Potere non mi piace e penso di essere ricambiato». E se ha rinviato il progetto "Italia mia" su Berlusconi - «ho bisogno di una maggiore distanza» - parla a lungo di "Bella addormentata", «il prossimo film che girerò, raccontando tre storie legate al caso Englaro. E non sarà un film che piacerà al Potere».

Repubblica 10.9.11
Il giorno di Panahi
Io, regista fantasma vi porto il sogno dell´Iran
di Maurizio Braucci


Il regista è stato incarcerato dal regime di Teheran Oggi è fuori in attesa d´appello
Mi accusano di aver tramato contro la repubblica islamica e sono sicuro che mi faranno tornare in carcere dopo il nuovo processo
Sono sceso in piazza durante le proteste proprio perché sono un regista, non potevo chiudere gli occhi, era un mio dovere
Ho già tre sceneggiature pronte, ma i miei film li voglio fare qui, mi sembrerebbe una menzogna raccontare l´Iran da fuori

Finalmente arrivo ad Elahiyè, la zona residenziale a nord di Teheran dove, prima di essere scacciato dalla rivoluzione del 1979, lo scià Mohammad Reza viveva circondato dalle proprie passioni per l´Occidente e per lo sfarzo. Sono qui per incontrare nella sua abitazione Jafar Panahi.
È il regista di Il Cerchio e di Il palloncino bianco, ed è stato arrestato nel 2010 per aver progettato un film sulle manifestazioni antigovernative e condannato a 6 anni di reclusione e a 20 di interdizione dal fare film. Panahi ha da poco ottenuto la libertà su cauzione, ma è una libertà vigilata o meglio: spiata. Malgrado la condanna, al Museo del Cinema di Teheran c´è una grande teca dedicata a lui. Il giorno prima al telefono, per non insospettire le autorità, ho finto di essere un suo ammiratore, sotto il regime di Ahmadinejad la parola scrittore è pericolosa, specie se vieni dall´Occidente, specialmente dopo le violente repressioni di piazza del 2009 e 2011. La verità è che sono qui per intervistare Panahi e consegnargli un premio, quello della rivista "Lo Straniero".
Una voce al citofono mi dice in inglese di salire, ho sottobraccio il disegno di Toccafondo con cui premierò Panahi, entro così nella rete di controlli che il regime iraniano ha steso intorno a questo artista coraggioso e disperato. Nel caso mi arrestassero, sarà Cristina, la mia compagna rimasta in albergo, ad avvertire l´ambasciata italiana. Jafar mi accoglie con un sorriso, parla solo iraniano ma per capirci ci aiuterà un traduttore, la casa è elegante e luminosa, non potendo più lavorare, il regista ha ristrutturato il soggiorno con le proprie mani, lo racconta This is not a film il suo lungometraggio fatto uscire clandestinamente dall´Iran pochi mesi fa e che, dopo Cannes, verrà presentato oggi alla Mostra di Venezia. E ancora una volta, Panahi sarà un "regista fantasma", perché le autorità iraniane gli proibiscono di lasciare il paese.
Panahi fa sparire i nostri cellulari in un´altra stanza «Attraverso questi ci intercettano», dice. «Posso parlare liberamente adesso?» chiedo, lui mi fa segno di no, in casa ci sono delle microspie, mi porta in cucina dove sembra più sicuro, ma per l´intervista ci dobbiamo spostare su un terrazzino, conversando a bassa voce, come se ci confidassimo con le vicine montagne dell´Alborz.
Di cosa l´accusano?
«Di due cose: di aver tramato contro la Repubblica Islamica e di aver messo in pericolo il popolo iraniano. Dopo 3 mesi di reclusione ho iniziato lo sciopero della fame e ho costretto le autorità a concedermi la libertà su cauzione, posso muovermi liberamente in Iran ma non espatriare. Tra due mesi ci sarà l´appello ma sono quasi sicuro che mi faranno tornare in carcere, ho poche possibilità».
Avrebbe potuto fare qualcosa per evitare l´arresto?
«Non intendevo fare delle denunce politiche, sono sceso in strada durante le manifestazioni perché era mio dovere, non potevo chiudere gli occhi, sono un regista. Da allora mi perseguitano, sono sotto pressione psicologica, ogni mia azione o parola può diventare un pretesto per accusarmi. Questa è la sorte di tutti quelli che erano in piazza in quei giorni, o il carcere o la caduta in uno stato di depressione e di incertezza».
L´aiuta la solidarietà che riceve dall´estero?
«Sì e ringrazio tutti coloro che mi hanno dimostrato la loro amicizia. Quando Bernando Bertolucci ha letto pubblicamente la mia lettera a Roma, quelle immagini sono arrivate alla popolazione iraniana attraverso la tv satellitare, è importante perché la mia vicenda viene tenuta nascosta all´opinione pubblica locale».
Qual è stata la reazione del governo a This is not a film che ha girato insieme a Mojtaba Mirtahmasb?
«Nessuna reazione, silenzio, ma sono certo che il film verrà allegato ai capi d´accusa durante il processo d´appello».
Se la liberassero quale sarebbe la prima cosa che farebbe?
«Un film, ho tre sceneggiature già pronte, il cinema è la mia vita. Ma lo farei qui, nel mio paese, raccontare l´Iran da fuori mi sembrerebbe una menzogna. Non sono d´accordo con chi se ne va. Nel 2001 ero in transito negli USA diretto in Argentina, lì volevano prendermi le impronte digitali ma io mi sono rifiutato, così sono stato costretto a tornarmene indietro. Non riuscirei vivere in un paese che ti obbliga a cose del genere. Sono legato all´Iran, alla sua gente, ho una grande curiosità per il mio paese, per le storie che vi si annidano».
In Iran non c´è solo la segregazione per i due sessi, la gente non può ballare o suonare liberamente, alle donne è proibito cantare.
«La gente non condivide il modo in cui è costretta a vivere ma tace per paura, nel privato fa cose che in pubblico non potrebbe, il modo in cui parla, si veste, si relaziona, viene costretta ad una doppia vita, come se vivesse in guerra, nascondendosi da un nemico. Quello che sta facendo il governo di Ahmadinejad non può durare a lungo perché è incompatibile con la vita moderna, ma gli attuali governanti tireranno avanti finchè potranno. Alcuni di loro credono davvero nelle leggi del Corano, altri invece le usano solo per il loro potere personale. Da alcuni mesi i capi religiosi sono entrati in conflitto con il governo, nel Paese c´è insoddisfazione, Ahmadinejad era stato eletto per le sue promesse soprattutto verso i più poveri ma ora è chiaro a tutti che non le manterrà. Il suo gioco è diventato quello di creare situazioni complicate, di fare dichiarazioni roboanti per poterne poi gestire gli effetti mediatici e celare il fallimento delle politiche economiche e sociali».
Cosa accadrà nei mesi a venire?
«Il futuro è imprevedibile. L´Iran ha una situazione etnica molto complessa, ci sono azeri, curdi, arabi, turkmeni etc... e tanti conflitti latenti tra loro. Io mi auspico per il mio Paese una soluzione democratica, graduale ma profonda. Siamo una nazione piena di giovani e tanti di essi nutrono speranza per il futuro, la loro speranza è la speranza del nostro Paese».
*scrittore, collaboratore della rivista "Lo Straniero"


La Stampa TuttoLibri 10.9.11
Foucault, la follia che canta nelle ossa
Storia. A cinquant’anni dalla prima edizione, una nuova versione italiana (integrale) del classico, ripristinata la «Préface» del 1961
di Mario Galzigna

il pdf della pagina è qui: http://www.scribd.com/doc/64464622

Il filosofo francese Michel Foucault: studiò la storia della follia, del crimine e della sessualità

Michel Foucault  STORIA DELLA FOLLIA nuova edizione a cura di Mario Galzigna Rizzoli-BUR, pp. 809, 12,90
Michel Foucault, nato nel 1926 a Poitiers, studiò filosofia e psicologia all'Ecole Normale Supèrieure di Parigi. Nel 1970 fu nominato professore di storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. Morì a Parigi nel 1984. Tra le sue opere: «Sorvegliare e punire. Nascita della prigione» (Einaudi), «La prosa del mondo» (Bur), «La vita degli uomini infami» (Il Mulino).

È ora in libreria, a cinquant'anni dalla sua prima edizione francese (Plon, Paris 1961), una nuova versione italiana integrale della Storia della follia (ST) che Michel Foucault pubblicò come tesi di dottorato all'età di 35 anni. Un libro - oramai un classico - che finalmente il lettore italiano potrà ora leggere integralmente. La prima traduzione italiana, uscita da Rizzoli, risale al 1963. Questa traduzione venne ristampata nel 1976, dopo la seconda edizione francese del 1972, dalla quale, per volontà dello stesso Foucault, la Préface del 1961 era stata eliminata e sostituita con una nuova e breve prefazione di due pagine, in cui si polemizza contro la «monarchia dell'autore»: contro ogni sua inaccettabile pretesa di «donner la loi» (di dare la legge) ai lettori del libro. La nuova edizione italiana ripropone al lettore la versione italiana della Préface del 1961, presente solo nella prima traduzione italiana del 1963, ora introvabile. Sono stati inoltre tradotti i numerosi passaggi omessi nella prima traduzione italiana e, assieme a questi, due capitoli importanti del libro («Il folle nel giardino delle specie» e «Isteria e ipocondria»).
Tra le parti omesse, molte riguardano il confronto di Foucault con le fonti mediche del ’600 e del ’700. Un confronto serrato, che mostra, in maniera problematica, sia l'affermarsi di un punto di vista psicologico sulla follia già all'interno del discorso medico, sia l'irriducibile dimensione storica e culturale delle «esperienze» che, in vario modo, mettono in scena le figure moderne dell'alienazione. Lo scarto tra la follia e la sua confisca medica, e quindi la curvatura storico-sociale di ogni psicopatologia: è questo il solco entro il quale si muove la ricerca di Foucault nei primi Anni 60: in particolar modo in ST , ma anche in Maladie mentale et psychologie (1962), che rielabora e rinnova un testo del 1954 ( Maladie mentale et personnalité ), facendo già emergere un tema molto presente in ST e nelle opere successive: il tema del rapporto fondamentale che la follia intrattiene con la verità.
Nell'Introduzione si è cercato di soffermarsi criticamente sulla struttura interna del libro. In particolar modo sulla presenza e sull'importanza della letteratura, molto evidente nella Préface del 1961. La letteratura è un luogo privilegiato (assieme alla pittura: frequenti sono infatti i richiami a Van Gogh) in cui, attorno ad esperienze estreme come quella di Artaud, la follia si afferma al di là del «lungo silenzio classico» prodotto dalla confisca medico-patologica; un luogo in cui la follia si presenta come esperienza-limite, che lavora al di sotto e ai margini della storia ma che al tempo stesso la rende possibile. La struttura dell'esperienza della follia «appartiene interamente alla storia», ma «sta ai suoi confini» ed è lì che «essa si decide». Ed ancora: lo «studio strutturale» della follia «deve risalire verso la decisione che lega e insieme separa ragione e follia; esso deve tendere a scoprire lo scambio perpetuo, l'oscura radice comune, il fronteggiarsi originario che dà senso all' unità, come all'opposizione, del sensato e dell'insensato. Così potrà riapparire la decisione folgorante, eterogenea al tempo della storia ma inafferrabile al di fuori di esso, che separa dal linguaggio della ragione e dalle promesse del tempo questo mormorio di insetti oscuri». Questa citazione mette in evidenza un'importante cifra espressiva di ST : quella che ci piace definire cifra lirica, ovvero stile lirico-poetico. Il lirismo, d'altro canto, è anche, per Foucault, un momento essenziale e irriducibile della follia concepita - al di là della sua dimensione costruita e indotta di «cosa medica» - come «esperienza-limite», come «tema di riconoscimento» (un' espressione che rinvia, implicitamente, alla Fenomenologia di Hegel).
Nella Préface del 1961 una posizione privilegiata viene assegnata al discorso poetico. Viene citato esplicitamente, con una nota a fondo pagina, il poeta ed amico René Char. Altre tre citazioni poetiche attraversano il testo, senza che tuttavia Foucault ne menzioni l'autore. Queste presenze senza nome, lo si sa, sono René Char e Yves Bonnefoy, che il Foucault degli anni che precedono ST conosceva e utilizzava. Lo stile - l'atmosfera, la stimmung - dei versi citati si rivela, ad un lettore attento, molto omogenea, molto «risonante», potremmo dire, con lo stile e con la stimmung della Préface. Per questa ragione, è quasi irrilevante l'attribuzione di identità al soggetto dell'enunciazione poetica: i versi realizzano infatti una continuità con la tonalità espressiva della pagina foucaultiana e con il suo contenuto ideativo. Significativo, al proposito, il finale della Préface, ritmato da un folgorante passaggio tratto da Fureur et mystère , di René Char: «Compagni patetici che a pena sussurrate, andate con la lampada spenta e restituite i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza». Versi, come ha ben detto un critico americano, che potrebbero funzionare efficacemente come epigrafe dell'intero percorso di Michel Foucault.
Tra le parti che furono omesse molte riguardano il confronto con le fonti mediche del ’600 e del ’700 Un ruolo privilegiato ha la letteratura (con la pittura: frequenti sono i richiami a Van Gogh)

La Stampa TuttoLibri 10.9.11
Se l’evoluzione è una catastrofe
Pievani contrasta il «disegno intelligente»
di Federico Vercellone


Telmo Pievani LA VITA INASPETTATA. IL FASCINO DI UN'EVOLUZIONE CHE NON CI AVEVA PREVISTO Raffaello Cortina, pp. 254, 21

L’ universo è stato creato in vista della nostra comparsa? L'uomo corona il creato come sembra annunciare il libro della Genesi? Scienziati, teologi e filosofi si sono accaniti nei secoli ad inseguire questo sogno. E'apparsa l'unica ipotesi in grado di garantire un senso all'esistenza umana. E' un ipotesi che è stata rinnovata in tempi abbastanza recenti, in chiave fraudolenta e pseudoscientifica, negli Stati Uniti dove si è tentato, per fortuna senza grande successo, di propagandare l'idea di un «intelligent design», di un orientamento finalistico che costituisce il termine ultimo cui il creato sarebbe nel suo complesso rivolto. L'ultimo libro di Telmo Pievani, filosofo della scienza a Milano-Bicocca, La vita inaspettata , è molto significativo a questo proposito. Pievani ci mostra, in modo affascinante e del tutto persuasivo, che non ci è consentito fare alcuna inferenza per individuare sul piano scientifico un senso ulteriore del mondo. La vita inaspettata ci fornisce così nella prima parte un'appassionante e molto documentata prospettiva sull'evoluzione della vita e dell'uomo. Qui apprendiamo che il modello darwiniano originariofondato sull'idea che sia il più adatto ad affermarsi nella competizioneper la sopravvivenza, pur valido, richiede di essere integrato in una visione «pluralista» che riconosce anche altre cause determinanti dell'evoluzione. Non è invece fondata l’idea di un’evoluzione che procede linearmente e senza discontinuità. A questa luce non ha neppure senso andare alla ricerca dell'«anello mancante» tra gli ominidi e la specie umana nella sua forma attuale. In realtà varie specie di ominidi hanno vissuto sulla terra prima e accanto a noi, e nulla prova che fossimo proprio noi i più adatti a sopravvivere. Un evento del tutto imprevedibile a priori, un'enorme catastrofe naturale fece probabilmentesì che le altre specie umane andassero distrutte e la nostra, del tutto inopinatamente, sia sopravvissuta. L'evoluzione non percorre dunque affatto un cammino precostituito, ma è figlia di contingenze che, a priori, non si potevano pronosticare e sono ricostruibili solo a posteriori. Questo tuttavia non significa che ogni nostro agire sia vano e privo di senso. Pievani sottolinea, a questo proposito, che la riflessione di natura etica e filosofica deve fondarsi sul sapere scientifico e non discostarsi da questo nelle sue prospettive. E' un «naturalismo critico». Qui si affaccia a mio avviso qualche problema. In quanto figli della contingenza, secondo Pievani dobbiamo darci un'etica fondata sulla responsabilità e non su orientamenti metafisici o fideistici. Tutto bene. Ma se la natura non fosse aperta al possibile e fosse invece inesorabilmente votata alla distruzione e al male, dovremmo invece comportarci come delinquenziali figli del fato? In questo quadro l'etica non ha alcuna autonomia e dunque neppure una fondazione sufficiente.
Una prospettiva di questo tipo priva inoltre, agli occhi di Pievani, di ogni significato positivo anche il discorso religioso che ha, in quest' ottica, più o meno lo stesso significato della fede nei dischi volanti o in creature immaginarie come fate e ippogrifi. Su questa via Pievani, che ha ragioni da vendere nei confronti dell'intelligent design e nei riguardi dell'atteggiamento invadente della gerarchia cattolica nelle questioni etiche, rischia nondimeno di trascurare molte posizioni che hanno animato il dibattito teologico novecentesco e quello contemporaneo.

La Stampa TuttoLibri 10.9.11
Vecchioni: “Sartre mi serve per vivere non per pensare”
di Bruno Quaranta


Una vita «di parola»: dalla cattedra liceale al trionfo di Sanremo, alla narrativa, sempre dalla parte di chi difende «un libro vero»

Qualche ruga di ridente nostalgia si allunga sul viso. E forse non solo «qualche». Ma non è stanco il bandolero, il nordico scugnizzo, Vecchioni. Bandolero, sì, sempre, irriducibilmente, insofferente di questa o di quella main street, calamitato da altre vie, le vie del cuore, dove sale il vento, dove non ristagnano i luoghi comuni, i logori copioni, i discorsi comme il faut .
Stanno riaprendo le scuole, ma il professor Vecchioni, non da oggi, va su e giù lungo altre predelle, inanellando un’Italia (una certa Italia, sempre più vasta) che si è scrollata di dosso gli evirati cantori o - come sferzava Faber - «voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio».
«Chiamami ancora amore / Chiamami sempre amore / Che questa maledetta notte / dovrà pur finire / perché la riempiremo noi da qui di musica e di parole...»: di concerto in concerto, ininterrottamente, dopo il trionfo sanremese. Perché l’esperienza del verbum e del logos (latino e greco, le lingue insegnate da Roberto Vecchioni) sfarina lo slogan, lo strafalcione, il greve refuso, il turpiloquio. Perché il canto (Orfeo docet) è un antidoto contro le sirene, nei secoli dei secoli, fino alle vestali, così incartapecorite, di questo nostro Paese da bere, di ciò che vi resta.
Aosta è fra le stazioni del tour. I tecnici «accordano» il palco, in piazza Chanoux. La notte è vicina. Le luci risplenderanno. Le luci inesauribili. Luci a San Siro... Rievocare il capo d’opera può, potrebbe, risultare uggioso a Vecchioni? Ma perché? Ogni artista - come rammentava Montale, scomparso giusto trent’anni fa nella capitale “morale” del letterato cantautore - non ha forse la sua «Cavalleria rusticana», l’intramontabile leitmotiv?
Piuttosto, si passi finalmente in cavalleria, con il professor Roberto Vecchioni, almeno, la logora questione canzone-poesia, se la canzone è poesia, riandando alle origini, alle radici, all’etimo, lyrikós ogni canto eseguito con l’accompagnamento della lira.
Canzone-poesia, sottobraccio al premio Montale, assegnato, fra gli altri, a Conte e a Dylan. Trent’anni fa se ne andava il signore degli «Ossi».
«Un grande artefice di parole momentanee. Componeva ovunque - vi ripensavo nelle visite ad Alda Merini, il mio Nobel -: sui fazzoletti, sui tovaglioli, sulle scatole di fiammiferi, una costruzione logica del pensiero immediata e istintiva. Era la sua terra, la Liguria dei calanchi, il mare che si vede attraverso i buchi, la verità che si afferra di là delle feritoie. Come non accostare Eusebio al Pascoli del Lampo , la casa che nella notte nera apparì sparì d’un tratto...?».
Montale, un vertice, fra i vertici del Novecento.
«Tra i miei primi libri, l’antologia Guanda di Giacinto Spagnoletti sulla poesia italiana del secolo scorso. Mi si rivelò la poesia come libertà, smentendo, o scalfendo, come dire?, la patina scientifica che la ipotecava, propria della lezione liceale».
Montale...
«E un ulteriore, straordinario ligure, Italo Calvino. Ne abbraccio l’opera omnia, dal Sentiero dei nidi di ragno alle Lezioni americane , alle Città invisibili . Va - eccone la pregiata costante - oltre le invenzioni dell’uomo, crea, prefigura, scenari che non ci sono, dove, se non la felicità, si potrà gustare la serenità».
Le «Lezioni americane» sono un continuo vis-à-vis con i classici, a cominciare dagli antichi, i suoi ferri del mestiere, dalla lontana università all’insegnamento nei licei.
«Mi laureai in letteratura latina alla Cattolica nel 1968 con monsignor Benedetto Riposati. Discussi una tesi su Tibullo, in particolare approfondendo il quarto libro del corpus tibulliano, il più incerto circa la paternità. Lo attribuii a Properzio. Riposati, da parte sua, non voleva attribuire a me il lavoro che gli presentai. Di lì a un’ora tornai con tutte le carte autografe: “La calligrafia è la mia!”».
Romain Rolland, dei classici, diceva: «Sono la mia famiglia». Quale il suo albero genealogico, chi riconosce, per esempio, come padre?
«In primis, i tragici greci. Eschilo: il padre della tradizione ancestrale, immensa, anche spaventosa. Sofocle: il padre del diritto di dubitare, suprema Antigone. Euripide: il padre delle donne, del sentimento, va oltre la tragedia, è una voce che si riverbererà nel romanticismo».
Il liceo, come luogo dove si leggono i classici...
«Come accostare i giovani ai classici? Come fargliene sentire la necessità? Non mettendoli sotto vuoto, ma calandoli, radicandoli, innestandoli nella vita quotidiana. Conoscerli è salvifico, impedisce i passi falsi. Ci si soffermi, per esempio, sull’epistola in cui Orazio sollecita: “... torna indietro quando ti accorgi che le cose desiderate valgono meno di quelle perdute”».
Vecchioni, una «vita di parola». Come insegnante, come cantaprofessore, secondo la definizione di Michele Serra, come scrittore, «Scacco a Dio» l’ultimo, per ora, titolo.
«Sto lavorando a un romanzo epistolare. Un genere che, come il diario, prediligo».
Einaudi è il suo editore, la casa di Pavese. A Pavese rende omaggio con una canzone: «Verrà la notte e avrà i tuoi occhi».
«I porti sicuri che sono i piemontesi. Da Fenoglio ad Arpino, a Pavese. Il Pavese di Dialoghi con Leucò . Ne apprezzo l’interpretazione del mito. Non separato dagli uomini, ma assiso, fermentante, in loro. Junghianamente. E, con i Dialoghi , Il mestiere di vivere , là dove, a risaltare, sono una grande disperazione e una grande sincerità. Un sicuro modello».
Non c’è compositore che, come lei, conversi con la letteratura. Il suo canzoniere è affollato di carissime ombre, da Saffo a Rimbaud, da Thomas Mann alla Merini, a Dante Alighieri, l’Alighieri che “troneggia”».
«Sì, la Firenze di Cacciaguida e antecedente. Dove si potevano lasciare gli usci aperti, dove le donne non venivano importunate, dove si poteva girare con un saio, perché contava essere, non apparire. Una città sobria e pudica, finché non arrivò Sardanapalo, ossia l’immondo che di erede in erede si è sin qui, in questa Italia, perpetuato».
Risaltano nel suo salotto letterario Sartre, Baudelaire, Jarry, un trio che le detta il verso: “... è tempo di riaccendere le stelle consigliere”». Anche Sartre, ancora Sartre?
«For ever Sartre. Mi serve per vivere, non per pensare. La paura di vivere, in che modo superarla, o convivervi, non rifugiandosi in una divinità».
Ma forse l’apice è Fernando Pessoa, a cui «sfuggì che il senso delle stelle / non è quello di un uomo, / e si rivide nella pena di quel brillare inutile, / di quel brillare lontano...».
«Pessoa è il compendio del Novecento. Il buio, il dolore, l’assurdità, la fede che va e che viene, l’egoespressionismo. Un pessimismo infinito, una sofferenza che si riteneva inimmaginabile dopo Leopardi. No, non credo al dolore infinito, ma alla buona fede del maggiore portoghese, sì».
I libri. Il suo libraio, «Il libraio di Selinunte», non li vende, ma li legge ad alta voce. Un elogio dell’oralità...
«L’oralità, la forma di comunicazione degli aedi. Chi ascolta deve essere fantasticamente dotato, capace di immaginare (di tradurre in visioni) ciò che sente». Il concerto si avvicina. Roberto Vecchioni è un crogiuolo di eteronimi. Gli occhiali cerchiati di Fernando Pessoa («... chiese gli occhiali / e si addormentò / e quelli che scrivevano per lui / lo lasciarono solo / finalmente solo...»). Il sigaro, forse un montaliano sigaro di Brissago (il «volubile fumo dei miei sigari di Brissago...»). Lo sguardo febbrile, febbrilmente vagabondo, sconfinato, dell’angelo di Charleville («... ricordo a malapena quale nome ho: / Arthur Rimbaud, Arthur Rimbaud, / Arthur Rimbaud...»). L’antico ragazzo che è Vecchioni, il professore di «tutti i ragazzi e le ragazze / che difendono un libro, un libro vero». Scoprendo, accudendo, inventando, sillabando parole che vogliano smisuratamente dire «vivere, vivere».
«Montale, come la mia Marini, artefice di parole istantanee, il mare (la verità) vista attraverso i buchi» «Calvino va oltre le invenzioni dell’uomo, prefigura scenari dove gustare la serenità, se non la felicità» «Sono i tragici greci i miei padri, Euripide in particolare, il padre delle donne, dei sentimenti» «L’apice è Pessoa: un compendio del Novecento, c’è il buio, il dolore, l’assurdità, la fede che va e viene»

La Stampa TuttoLibri 10.9.11
Il caso. Rebecca Skloot
La “cavia” Henrietta costretta all’immortalità
di Claudio Gorlier


Henrietta Lacks morì nel 1951 ma le sue cellule sono state manipolate dall’industria scientifica milionaria

E’ il 29 gennaio 1951, e in un celebrato ospedale americano viene ricoverata una donna tormentata da dolori addominali che le fanno pensare di essere incinta. Si chiama Henrietta Lacks, nata Pleasant nel 1920. Attenzione: nata in Virginia, Henrietta è africano-americana, o, come si diceva allora, «negra» ( nigger ). E allora, dal momento che la desegregazione non era stata ancora ufficialmente sancita - avvenne l’anno successivo, con la presidenza Eisenhower Henrietta dovette subire tutte le pratiche umilianti destinate ai colored , che mi è toccato di studiare tristemente in prima persona.
Henrietta era una donna minuta, dotata di una grazia modesta, e lo possiamo constatare in una sua fotografia che letteralmente apre il volume dedicatole da una autorevole e brillante giornalista americana, Rebecca Skloot, La vita immortale di Henrietta Lacks . Fine scrittrice, la Skloot ha scelto questo titolo emblematico perché la vicenda di Henrietta Lacks, nella sua drammatica intensità, sembra davvero trascendere la pura e semplice esistenza. L’immortalità acquista nel corso del libro almeno due livelli. Il primo investe la scienza, o se si vuole una manipolazione persino criminale della scienza. Infatti, quando a Henrietta viene diagnosticato in ospedale un tumore, medici di nessuno scrupolo, paragonati qui addirittura a sperimentatori nazisti, si avvalgono delle cellule estratte all’inferma per servirsene ai propri fini. Sono le emblematiche HeLa, chiamate così dalle iniziali dell’inferma, e soltanto molti anni dopo i responsabili dovranno rispondere alla giustizia delle loro manipolazioni. Il secondo, decisivo livello, proietta la realtà concreta della scienza a un livello quasi metafisico. Lo apprendiamo dalla morte quasi mistica di Henrietta, ma soprattutto dalla vita e essa pure dalla morte della figlia Deborah, a sua volta protagonista di un’esistenza travagliata ma risoluta a scrutare a fondo in una vicenda oscura e a porre le domande cruciali che la rendono quasi tragicamente esemplare. E’ questo, forse, il segreto misterioso dell’immortalità. Una scrittrice inequivocabilmente bianca si affaccia sulla storia alternativa di donne «altre», e da loro impara una lezione, riceve un messaggio quasi lapidario affidatole da Deborah prima della sua morte repentina: «Sei pronta a lavarti l’anima?».

La Stampa 10.9.11
Il ministero agli archeologi: “Andate a scavare in tram”
Stop retroattivo ai rimborsi benzina: ispezioni paralizzate
di Giuseppe Salvaggiulo


Il funzionario della soprintendenza deve andare a fare un sopralluogo sull’Appia Antica, a decine di chilometri dal centro di Roma e ben oltre il Grande Raccordo Anulare? Che ci vada in tram. O in autobus, se preferisce. Peccato che gli antichi romani, ignari del declino civile dei discendenti italici, costruendo la Regina Viarum 2250 anni fa non pensarono di affiancare alle basole in pietra rotaie per tram e corsie preferenziali per autobus. Al ministero dei Beni culturali non importa. Bisogna risparmiare e non è il caso di andare per il sottile: ispettori, funzionari, archeologi in giro per l’Italia a bordo della propria auto non si vedranno più rimborsate le spese di benzina. Se le paghino da sole, come mecenati o volontari, oppure si arrangino con i mezzi pubblici.
Tutti in tram, dunque. Anche se la missione sui cantieri comporta il trasporto di pesanti zaini con attrezzature e vestiti di ricambio. Anche dove i mezzi di trasporto pubblico non arrivano, come in genere capita sulle rovine di civiltà antiche. Anche se la località da raggiungere dista centinaia di chilometri, con due o tre cambi di treno e diverse ore di viaggio, quando in autostrada basterebbe mezz’ora. Anche se la missione richiede più spostamenti in una giornata, incompatibili con le coincidenze dei bus locali. Il risultato, come paventato in un’assemblea di funzionari a Roma, è la paralisi. Ieri qualcuno ha già annullato missioni programmate da tempo per l’impossibilità di raggiungere la destinazione.
Le nuove disposizioni nascono da una norma della manovra finanziaria del 2010 che vieta i rimborsi delle missioni. Il ministero aveva cercato di eluderla, ma esponendosi alla scure della Corte dei Conti, che ad aprile ha interpretato la regola senza eccezioni. Il ministero si è adeguato con una circolare rivolta a tutte le soprintendenze, gli organi sul territorio che tutelano quelle bellezze archeologiche, paesaggistiche e architettoniche di cui lo stesso governo si vanta negli spot televisivi.
I soprintendenti, a loro volta, devono obbedire per non esporsi a processi davanti alla Corte dei Conti per danno erariale. Anna Maria Moretti, capo della Soprintendenza archeologica di Roma, l’ha fatto con una laconica nota che ha lasciato sbigottiti gli archeologi che ogni giorni macinano chilometri per raggiungere musei, ruderi, scavi: «Si comunica a tutto il personale che a decorrere dal 5 aprile 2011 non potrà essere riconosciuto il rimborso per l’utilizzo del mezzo proprio». Al massimo, un euro: il costo del biglietto integrato a tempo da 75 minuti dell’Atac. La disposizione è retroattiva: per le spese sostenute dal 5 aprile a oggi, regolarmente autorizzate, vale la strofa della tarantella napoletana: «Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdámmoce ‘o ppassato...».
Oltre al danno, la beffa. Non solo le soprintendenze, prive di quell’autonomia che consentirebbe di aumentare gli introiti promuovendo le gestioni virtuose, vengono strangolate dai tagli lineari (20/30% ogni anno) e, cancellando i rimborsi, ai tecnici viene impedito di svolgere metà delle funzioni di salvaguardia del patrimonio culturale. Il governo che non vuole imporre un balzello agli evasori che hanno beneficiato dello scudo fiscale perché «lo Stato violerebbe il patto di lealtà», rifiuta di rimborsare ai suoi dipendenti spese già effettuate nel suo interesse, violando il patto con cui aveva garantito il ristoro.
Cose che capitano, perché come spiegano al ministero «alla fine i tagli incidono sulla carne di chi lavora». I numeri sono implacabili, in un settore che ha il record di siti Unesco, produce oltre 40 miliardi di euro l’anno con 550 mila lavoratori. In un decennio, il budget culturale ha perso 500 milioni di euro su 2 miliardi, riducendosi dal già esiguo 0,39% del bilancio statale al misero 0,21%. Un decimo di quanto spendono Francia, Gran Bretagna e Germania. Senza l’Appia Antica da raggiungere in tram.

Il Fatto 10.9.11
La Disneyland dell’arte
di Tomaso Montanari


À Rome, c’est Le Bernin qu’on assassine”. L’enfasi drammatica del titolo di Le Figaro (“A Roma si uccide Bernini”) può dare un’idea dell’emozione suscitata in tutta Europa dall’atto vandalico di Piazza Navona, una settimana fa. Un’emozione che appare tuttavia fuori luogo, o almeno assai curiosamente indirizzata. E non solo perché Bernini, in verità, c’entra poco (il mascherone colpito è infatti una copia ottocentesca di un originale che preesisteva alla risistemazione berniniana della fontana): ma perché ogni giorno il nostro patrimonio artistico subisce attacchi infinitamente più gravi di quelli provocati dal povero romano senza fissa dimora.
CI SONO, innanzitutto, i danni veri e propri. Basta citare i furti e i crolli che quotidianamente cancellano per sempre interi brani delle chiese del centro di Napoli: e ognuna di queste perdite vale, da sola, mille volte quella romana. Ma di fronte agli occhi scorrono le immagini desolanti dell’abbandono della mirabile Catania barocca o di Cosenza vecchia, del centro de L’Aquila che rischia di non sopravvivere alla sua ricostruzione, dei crolli della Domus Aurea e delle Mura Aureliane a Roma, dell’antico Tempio di Mitra a Marino allagato dai liquami durante lavori che minacciano di distruggerlo, della chiesa di Orbetello venduta a privati e lasciata andare in rovina, del degrado della pisana Certosa di Calci e mille altri ancora: un rosario di gravissimi lutti artistici che non trovano sulla stampa nemmeno un centesimo dell’eco che ha avuto il folle di Piazza Navona. Intendiamoci, è vitale innanzitutto prevenire e quindi punire severamente qualunque atto vandalico contro il patrimonio: ma è incomprensibile che l’atto isolato di un folle conquisti pagine e pagine e muova le penne degli editorialisti più fini, mentre quegli stessi giornali fanno un’enorme fatica a coprire, raccontare e interpretare i danni perpetrati sistematicamente dall’interesse venale o dall’ignoranza di migliaia di nostri concittadini tutt’altro che folli.
Per non parlare della diffusa incapacità di comprendere il potenziale distruttivo di una politica di tutela inadeguata, o peggio dolosamente passiva: quasi non si vedesse che varare un condono edilizio, tagliare i fondi del ministero per i Beni culturali, bloccare le assunzioni del personale di soprintendenza, o alienare indiscriminatamente gli immobili pubblici equivale a infliggere al patrimonio danni sideralmente superiori alla somma di tutti quelli causati da tutti gli atti vandalici dell’ultimo secolo. Ma questo vandalismo politico e culturale incontra esegeti molto meno numerosi e acuti.
La vicenda di Piazza Navona un lato educativo, tuttavia, ce l’ha. Molti italiani si sono quasi sentiti traditi apprendendo che l’opera danneggiata era “solo” una copia. In effetti, alcune delle più importanti sculture nate per vivere nelle nostre strade sono state trasferite al chiuso e sostituite da copie: a cominciare dal San Giorgio di Donatello e dal David di Michelangelo, musealizzati già nel-l’Ottocento. A Roma il vero Marc’Aurelio ondeggia su un orribile trampolino nei nuovi Musei Capitolini, mentre sul piedistallo disegnato da Michelangelo poggia una copia imbarazzante. I veri Cavalli di San Marco non sono quelli che si vedono sulla facciata della basilica veneziana, e le statue dei santi patroni che sovrastano la folla dei turisti dalle nicchie della fiorentina Orsanmichele sono cloni moderni di superbi originali chiusi in un museo quasi sconosciuto. Proprio a Firenze si raggiungono vette di particolare perversione: le riproduzioni dei battenti della Porta del Paradiso sono incorniciate tra gli stipiti e l’architrave originali di Lorenzo Ghiberti, e il vero Perseo di Benvenuto Cellini sormonta una copia assai malriuscita del piedistallo, sempre celliniano, che sta ormai al Museo del Bargello. Tutte queste sostituzioni sono motivate da ragioni di conservazione: in alcuni casi cogenti, in altri invece (come per il Mar-c’Aurelio) assai meno. Il risultato, in ogni caso, è assai triste: le grandi opere d’arte del passato escono dalla nostra vita quotidiana, confinandosi in uno spazio artificiale e lasciando che le nostre città assomiglino sempre di più a una Disneyland della storia dell’arte. Ma esiste una soluzione, almeno in prospettiva, ed è quella conservazione programmata per molto tempo propugnata invano da Giovanni Urbani (1925-1994), un funzionario dei Beni culturali così intelligente e morale da essere prima emarginato e poi costretto alle dimissioni.
URBANI non pensava il restauro come un intervento volto a migliorare la percezione estetica di un singolo oggetto, ma come una strategia, insieme culturale e operativa, che assicurasse la conservazione della presenza materiale, e contemporaneamente del ruolo morale, dell’arte del passato nel mondo di oggi. Se un Paese come l’Italia si decidesse a investire seriamente nella ricerca scientifica e tecnologica relativa al restauro, l’obiettivo di conservare le sculture nei luoghi pubblici e nella funzione civile per cui sono nate non sarebbe certo irraggiungibile. Ma occorrerebbero una volontà politica, una prospettiva culturale e un’opinione pubblica educata a conoscere davvero la storia dell’arte: tutte cose assai meno comode del rassicurante pensiero che ad “assassinare Bernini” sia il povero squilibrato di Piazza Navona.