lunedì 12 settembre 2011

l’Unità 12.9.11
La scuola ha costruito il Paese. Ora può renderlo multiculturale
Un saggio ci riporta a quel che siamo stati e a quel che siamo. Oggi la sfida è l’integrazione L’istruzione pubblica ha un ruolo fondamentale nella crescita. Ha già fatto moltissimo, anche se spesso non ne è consapevole. Adesso però bisognerebbe investire di più e meglio
di Tullio De Mauro


Un geniale architetto e urbanista italiano, Luigi Piccinato, per sdrammatizzare il contrasto tra città e campagna ripeteva un bon mot: «Tutte le città sono nate in campagna». Quando si parla di alieni, forestieri, migranti, meticci, vale la pena ricordare che siamo tutti alieni e forestieri per qualcuno, tutti abbiamo il dna di qualcuno venuto da fuori, foresto, nel luogo in cui siamo e dunque tutti siamo un po’ meticci, basta risalire a volte anche poco nel tempo e nelle generazioni.
La bimbetta che con aria solenne dice: «Noi a casa nostra facciamo così» e si riferisce a qualche azione assolutamente comune, ma poi è attenta e curiosa al nuovo e all’ignoto, o il grande, famoso discorso con cui, secondo Tucidide, Pericle esaltava l’orgoglio di essere ateniesi perché cittadini di una città sempre pronta a ospitare gli altri venuti da fuori, riflettono l’ambivalenza che ci accompagna. Siamo noi perché altri, anche assai diversi da noi, ci hanno fatto e fanno così come siamo: vale per le singole persone e per i grandi gruppi umani.
Le mille e mille lingue del mondo riflettono questa ambivalenza. Chi viene da fuori fu, per i Latini, partendo dalla stessa etimologia, hospes e hostis, «ospite» e «nemico». L’estraneo fu ekhthròs e xénos, «esterno» per i Greci, ma poi si dicevano xénia i regali, tipicamente da destinare inizialmente a chi veniva da fuori. Nella Roma primitiva, quelli di fuori porta, stanziati al di là dell’originaria cinta muraria, in opposizione ai nativi interni, gli inquilini, furono detti exquilini. Ma poi le mura si ampliarono e l’Esquilino divenne uno dei sacri Sette Colli. Del resto, sta nei miti delle origini di Roma il deliberato meticciato. E nella parola italiana ospite, «ospitante» e «ospitato», vive ancora un’antica e non rara ambivalenza etimologica altrettanto presente in altre lingue: sembra certo che in latino hospes sia stato dapprima il «padrone di casa che accoglie gli hostes stranieri», l’ospitante, e solo poi l’ospitato.
Se le migrazioni non segnassero la storia del genere umano saremmo ancora arrampicati sugli alberi di una savana nel centro dell’Africa, incerti se scendere e camminare dritti sul suolo. Alcuni milioni di anni fa scegliemmo – scelsero per noi da allora le generazioni suc-
cessive di ominidi, ormai bipedi deambulanti, a ondate successive lasciarono il cuore dell’Africa per diffondersi nei continenti. Ultimi, un po’ più di duecentomila anni fa – già il fuoco veniva acceso e sfruttato e spento e riacceso in Asia ed Europa, già vi erano tecniche sofisticate per costruire strumenti preziosi al vivere, già tutti gli altri ominidi sapevano comunicare e istruire per segni – gli homines sapientes sapientes, quali noi dovremmo onorarci di essere; attraverso il Sinai, intorno a centomila anni fa passarono in Asia e in Europa, in tempi più recenti, attraverso le Aleutine, si spinsero nel continente americano. E sempre conservarono l’ambivalenza: formavano gruppi diversi per sopperire solidalmente alle necessità del vivere e ciascun gruppo, nato da altri, tornava ad aprirsi e fondersi con altri ancora; costruivano lingue diverse per parlare tra loro nel gruppo, ma ogni lingua era ed è la chiave per entrare in ogni altra e capirla, e dalle altre lingue trae ricchezza di espressioni e di nuovi significati.
Questa storia naturale del migrare sta scritta nella struttura più profonda della nostra specie e nella lunga storia di cui siamo figlie e figli. Non dovremmo mai dimenticarlo. Qua e là nell’Europa di oggi c’è chi cerca di dimenticarlo e farlo dimenticare. C’è chi alimenta la paura di altri nuovi e la sfrutta per carpire qualche voto. Capita perfino in Paesi che sono stati e sono Paesi di larga e civile ospitalità, dalla Francia ai Paesi scandinavi. E capita in Italia. Ma non capita in generale nelle nostre scuole.
Bisogna, per la verità, dire che lo sfruttamento a fini elettorali delle paure è cominciato in Italia relativamente tardi. Mattarella, ministro dell’Istruzione del sesto governo Andreotti, tra il 1989 e il 1991, mentre era ormai chiaro ai più attenti che l’Italia, antico Paese di emigrazione, stava diventando, anzi era diventata terra di immigrazione, emanò un primo testo normativo, una «circolare», indirizzata alle scuole perché predisponessero quanto era necessario all’accoglienza dei bimbi e ragazzi immigrati o figli di immigrati. Le scuole già erano su questa lunghezza d’onda e, anche se forse più nessuno ricorda quel benemerito atto, lo sono rimaste. E un altro tratto importante del ceto dirigente è il comportamento delle università, che dagli anni Novanta, e in qualche caso già anni prima, si sono attrezzate per studiare sistematicamente gli aspetti demografici, sociologici, linguistici e educativi della crescente immigrazione, da Pavia a Siena (l’Università per Stranieri), da Bergamo e Venezia (Università Ca’ Foscari) a Napoli e «Roma Tre», da Palermo all’udinese Centro per il Plurilinguismo, per ricordare almeno alcuni dei centri più attivi.
Vinicio Ongini va al concreto e viaggia attraverso le scuole italiane documentando difficoltà, scacchi e successi della scuola multiculturale. Chi, dall’informazione corrente, è frastornato da notizie di casi di xenofobia faebbe bene a seguirlo nel suo viaggio, a leggere i suoi concreti e suggestivi «casi di studio». Non è l’unico aspetto per cui la scuola non si può dire che rifletta meccanicamente tendenze e umori appariscenti nella società o, per dir meglio, se riflette la società è capace di espungere e spurgare quanto c’è in essa di deteriore. Prendete il caso della lettura. Ormai dagli anni Sessanta possiamo seguire i progressi (lenti, è vero) dell’abitudine alla lettura nel nostro Paese. E a ogni indagine si verifica che bambini e giovani leggono assai più delle generazioni anziane. Le alte percentuali, quasi europee, di lettura di libri non scolastici tra ragazze e ragazzi declinano tra gli adulti che hanno varcato la soglia dei trent’anni. Queste percentuali positive non possono avere altra matrice che l’impegno educativo delle scuole. Oppure prendete il caso della comprensione dei testi. Fanno notizia, ma danno luogo a sciocchezze (anche di qualche ministro), i dati periodici che l’Ocse accerta e diffonde ogni tre anni sulle capacità di comprensione di testi tra i quindicenni. Alti lai perché il 40% dei ragazzi mostra difficoltà di comprensione. Certo, bisognerà che migliorino. Ma attenzione: gli adulti con analoghe difficoltà, tra i 18 e i 65 anni, non sono il 40%, sono una percentuale che, secondo l’ultima indagine comparativa internazionale, raggiunge e supera l’80%. Il doppio dei ragazzi a scuola. Se la scuola registrasse meccanicamente le (in)competenze degli adulti dealfabetizzati e non leggenti, le percentuali Ocse dovrebbero darci l’80% di ragazzi in difficoltà. Il 40% di scarto esprime l’enorme lavoro in salita che la nostra scuola sa fare e fa. Potrebbe aumentare se ci decidessimo a investire di più nella e per la scuola: di più in termini di finanziamento e di più in termini di attenzione simpatetica, circostanziata e fattiva come quella, esemplare, di Vinicio Ongini.
Se un rimprovero si può muovere alla nostra scuola è che non sempre essa è ben consapevole di quanto ha fatto, sa fare e fa per l’intero Paese. Il libro di Ongini, tra gli altri meriti, può essere d’aiuto, può stimolare il giusto orgoglio della nostra scuola pubblica.

l’Unità 12.9.11
Il leader Pd a causa del viaggio non sarà alla festa Idv con Di Pietro e Vendola
Polemico l’ex pm: non cambia programma e lascia una sedia vuota sul palco
Bersani vola a Berlino
Un patto per l’Europa con Spd e Ps francese
Bersani fissa una serie di incontri con i leader progressisti europei per arrivare alla definizione di una «piattaforma programmatica comune». Venerdì sarà a Berlino e non alla festa dell’Idv con Di Pietro e Vendola.
di Simone Collini


Se Berlusconi usa Bruxelles come scappatoia per evitare di essere interrogato domani dai pm di Napoli sul caso Tarantini, Bersani sta lavorando per far passare anche per l’Unione europea la costruzione di un’alternativa alle politiche della destra. Mentre in Italia continuerà a muoversi sul doppio binario del Nuovo Ulivo e della convergenza con l’Udc stando bene attento a non imprimere sul primo fronte accelerazioni che rischierebbero di impedire la seconda parte dell’operazione (e infatti venerdì non sarà alla festa dell’Idv di Vasto, dove è previsto un confronto a tre con Di Pietro e Vendola) il segretario del Pd ha fissato in agenda una serie di incontri con i leader dei principali partiti progressisti degli altri paesi comunitari per avviare un confronto che dovrebbe poi concludersi con la definizione di «una piattaforma comune dei progressisti che rilanci il sogno europeo».
L’operazione è ambiziosa quanto complicata ma anche, per Bersani, necessaria. Servirebbe ad evitare quel «ripiegamento» che gioca tutto a favore delle forze conservatrici e anche quello che in questa fase di crisi economica rischia di diventare un destino ineluttabile: «Divisi non contiamo nulla e a uno a uno finiremo nelle retrovie del mondo nuovo», è stato il rischio evocato nel comizio di chiusura della Festa di Pesaro. Nei prossimi dodici mesi si voterà in Spagna, Francia, Svizzera, Danimarca, Polonia, Romania, Slovenia, Serbia, Croazia, Lettonia e dopo pochi mesi in Germania. E il Pd, per Bersani, dovrà contribuire al formarsi di un’onda della «riscossa progressista», e starvi dentro quando finalmente anche da noi si tornerà alle urne (il leader dei Democratici non esclude affatto un appuntamento elettorale per la primavera 2012).
Dopo i primi contatti, a giugno, a Bruxelles con il leader dei laburisti britannici Ed Milliband e a Torino con la socialista francese Martine Aubry, venerdì il segretario Pd sarà a Berlino per continuare il discorso con il leader dell’Spd Sigmar Gabriel. Dopo il 9 ottobre, data delle primarie d’Oltralpe, avrà invece un bilaterale con il prossimo sfidante di Sarkozy (al momento in testa ai sondaggi c’è François Hollande), mentre la Feps, la Fondazione di studi progressisti europei di cui un anno fa è stato eletto presidente Massimo D’Alema, organizzerà un convegno a cui parteciperanno tutte le principali fondazioni dei partiti di centrosinistra dei paesi comunitari.
L’incontro a Berlino impedirà a Bersani di essere all’apertura della festa dell’Idv a Vasto, dov’era previsto un confronto a tre con Di Pietro e Vendola. L’ex pm, che pure ha saputo per via ufficiosa che il leader del Pd non ci sarà, non ha ancora modificato il programma e fa sapere che non accetterà «sostituti» ed è pronto a fare il confronto con il leader di Sel tenendo polemicamente sul palco una sedia vuota. Quando ci saranno le primarie, assicura Di Pietro, si candiderà e intanto critica il Pd perché «sembra che attenda la madonna dell’Udc» quando «ormai è chiaro lo scenario che si dovrebbe delineare dice una coalizione di centrodestra, una coalizione con Pd-Idv-Sel, e il terzo polo da solo».
Ma è proprio questo che Bersani vuole evitare, e anche la scelta di organizzare una manifestazione «del Pd», a Roma il 5 novembre, non è casuale. Il leader dei Democratici vuole lavorare al Nuovo Ulivo facendo poi però partire da qui «un messaggio a tutte le forze di centro, a cominciare dall’Udc, per una convergenza». Con Casini il dialogo non si deve interrompere e ieri i due si sono parlati anche prima della messa di Benedetto XVI ai cantieri navali di Ancona (Bersani ha definito «doverosa» la sua presenza e «un discorso importante» quello dedicato al lavoro dal Papa). Il leader dell’Udc continua a non scoprirsi, ma il fatto che ancora non abbia chiuso la porta e anzi si sia detto «interessato a perseguire» il confronto sul modello Marche (dove governano insieme Pd, Udc e Idv), consiglia a Bersani di non accelerare verso un’alleanza ristretta a Di Pietro e Vendola.

l’Unità 12.9.11
da Intervista a Nichi Vendola, su l’Unità, pagina 5

C’è chi dice che anche il suo leaderismo carismatico sia una forma di berlusconismo di sinistra.
«Quando parlo di contagio, mi riferisco a culture profonde, a partire dalla delegittimazione della nozione di pubblico. O ancora: dalla demenziale proposta del pareggio di bilancio in Costituzione. O dalle tante timidezze verso l’idea della patrimoniale. Non basta cambiare il guidatore se la macchina e il percorso restano immutati. O siamo in grado di capovolgere i capisaldi culturali di questa destra, a partire dal lavoro e dai suoi diritti, dall’articolo 8, oppure rischiamo di finire travolti».
E il suo “berlusconismo rosso”?
«Sono mistificazioni. Un leader populista manipola i bisogni del popolo, costruisce pulsioni regressive, cerca ossessivamente il capro espiatorio. Io sono quello che in piazza a Milano ha parlato dei fratelli rom e musulmani, il contrario esatto di una furbata populista.

da l’Unità pag 8
Benedetto XVI conclude il congresso ecauristico ad Ancona. Alle messa decine di migliaia di persone
«Pietre date al posto del pane»
Il Papa si rivolge agli operai

Ma è fondamentale non «prescindere da Dio», perché chi si è posto l’obiettivo di «assicurare a tutti sviluppo, benessere materiale e pace prescindendo da Dio e dalla sua rivelazione» ha finito con «il dare agli uomini pietre al posto del pane». La definisce una «illusione che non tarda a volgersi in delusione, generando inquietudine e paura».

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Per questo occorre non confondere «la libertà con l’assenza di vincoli, con la convinzione di poter fare da soli, senza Dio, visto come un limite alla libertà».

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«Un discorso importante, un invito a riflettere sulle difficoltà del Paese, e soprattutto del lavoro, un tema di cui dovremo tutti occuparci di più» è stato il commento del segretario del Pd Pier Luigi Bersani, giunto ad Ancona per ascoltare il pontefice. Molti i politici presenti, da Francesco Rutelli a Pier Ferdinando Casini, a Rosy Bindi al sottosegretario alla presidenza del consiglio, Gianni Letta.

l’Unità 12.9.11
Dolori italiani tra Spinoza e psicanalisi
di Bruno Ugolini


Mi è capitato di assistere a un incontro singolare tra esponenti della Spi (Società Psicanalitica Italiana) e i protagonisti di un Blog dissacrante caro soprattutto ai giovani e intitolato a Spinoza (www.spinoza.it). Il tutto nell’ambito di un festival tenutosi a Vittorio Veneto, (“Comoda-Mente”) dedicato al tema della fedeltà, con contributi di personalità della cultura e della società civile, a cominciare da Stefano Bolognini (da poco eletto presidente dell'International Psychoanalytic Association), per continuare con Gerardo Colombo, Riccardo Illy, Sergio Nava, Antonia Arslan, Khaled Fuad Allam e molti altri. Tra questi gli “spinoziani”, un team coordinato da Stefano Andreoli e Alessandro Bonino, nato nel 2005, con centinaia di collaboratori sparsi in tutta Italia. Tutti intenti a coniare quotidiane e fulminanti battute che poi percorrono anche le strade di Facebook e di Twitter. Senza discriminazioni. Ce n’è per Berlusconi ma anche per Bersani. Ecco qualche esempio: “C'è chi si iscrive a Facebook per cercare lavoro. E per poi stare su Facebook tutto il giorno”. Oppure: “Il ministro Sacconi parla appeso a un filo. È la metafora del governo”. Il ministro partecipava a una delle iniziative del Festival e loro commentano: “Il dibattito si svolge in una fabbrica abbandonata. Giusto per abituarsi”. Non sono dei professionisti, ciascuno di loro ha un’occupazione privata diversa. Hanno un crescente esercito di seguaci e tanta popolarità nasce dal fatto che in questi tempi difficili interpretano lo stato d’animo degli italiani. O, meglio le problematiche degli italiani. E qui s’inserisce il singolare incontro con la Spi, ovvero con chi ogni giorno incontra le sofferenze più diverse e le analizza. E che hanno confrontato, nel corso di interviste e discussioni, le proprie esperienze con quelle di altri. Leggo, a questo proposito sul loro sito (www.spiweb.it) delle iniziative al Festival di Vittorio Veneto: “Sapendo quanto spesso abbiamo incontrato il dolore dei giovani quando non sentono di avere un futuro, abbiamo chiesto sull'esodo dei cervelli, sulle nuove comunità che si creano, sul ‘saldo’ tra chi viene e chi va e quindi sui nuovi migranti. Abbiamo sentito parlare anche del mancato riconoscimento dei ‘cervelli’ e del conseguente bisogno, da parte dei molti non riconosciuti, di creare e cercare miti, passioni, filosofie e sistemi di pensiero...”. Tematiche emerse anche nell’incontro-intervista con i satirici. Due modi diversi, certo, di guardare la realtà umana. Ma che possono servire, potrebbero servire. I primi, magari, per dare, ridendo, un momentaneo sollievo, attraverso un nuovo metodo apparentemente caotico per sviluppare un pensiero critico. I secondi per capire meglio le cause più profonde delle nostre sofferenze. Alla ricerca di “rimedi per i singoli, ma anche per tutti noi. http://ugolini.blogspot.com

l’Unità 12.9.11
Questa manovra colpisce soprattutto le donne
di Susanna Cenni


In questa estate segnata dal precipitare della crisi e dal susseguirsi delle manovre, ho letto l'ultimo bel libro di Gioconda Belli, "Nel paese delle donne", che racconta di un immaginario paese del Centroamerica in cui le donne riescono ad arrivare al potere con un loro partito il partito della sinistra erotica, e con un programma riformatore ‘tirano a lucido il loro Paese’. Riescono a rivoluzionare l’economia, a cambiare il volto delle città, a stravolgere i tempi di vita e le regole della democrazia e della partecipazione. Si costruiscono asili nido sul posto di lavoro, tutte le donne hanno un’occupazione e, di conseguenza il prodotto interno lordo cresce. Purtroppo è solo un romanzo. Noi viviamo, al contrario, in un paese del Sud Europa, dove un pezzo pesante della crisi rischia di gravare sulle spalle delle donne e dove i ministri del lavoro, adeguandosi allo stile del capo, per spiegare la parte della manovra che fa macelleria sui diritti dei lavoratori, fanno battute sulle suore e sugli stupri. E questo non è un romanzo.
La scorsa settimana sono state tante le donne scese in piazza con la Cgil, erano tantissime quelle che a luglio si sono riunite a Siena nell’appuntamento di 'Se Non Ora Quando?', come molte sono scese in piazza il 13 febbraio. Ma non basterà. Lo slittamento dell’età pensionabile anche nel settore privato, senza prevedere alcuna azione di sostegno alla conciliazione della vita lavorativa con quella familiare, è una scelta ingiusta. Ma è chiaro che i tagli su Regioni ed enti locali, quelli su reversibilità, categorie deboli, la stretta sul pubblico impiego, graveranno tutti sulle spalle delle donne, così come è avvenuto con il vergognoso fenomeno delle dimissioni in bianco.
Le senatrici del Pd hanno presentato numerosi emendamenti tesi a bloccare o almeno attutire la pesantezza della manovra per le donne: hanno chiesto di bloccare lo slittamento a 65 anni dell’età pensionabile, o se non altro, che i risparmi derivanti da questo innalzamento siano destinati a interventi dedicati a politiche sociali e familiari, con particolare attenzione alla non autosufficienza e alla conciliazione della vita lavorativa e familiare delle donne, nonostante lo scippo già avvenuto sul pubblico impiego. Hanno riproposto il divieto della pratica delle dimissioni in bianco e il ripristino delle risorse per i centri antiviolenza. Solo la proposta di lasciare 90 giorni di tempo ai genitori che devono restituire il bonus bebè, senza incorrere in sanzioni amministrative o penali è stata raccolta. Ci proveremo di nuovo alla Camera, ma già sappiamo che la scure della fiducia blinderà questo provvedimento e che la voce delle opposizioni e delle donne, certo non numerose, passerà sotto silenzio.
Non possiamo fermarci, occorre che la forza che le donne italiane hanno dimostrato di avere in tutto il paese con la mobilitazione vada avanti e che le idee che sono state messe in campo finora circolino e tornino a farsi sentire. Ne ha bisogno la sinistra, ne ha bisogno questo paese immobile, un paese che ha ampiamente necessità di essere tirato a lucido”.

Repubblica 12.9.11
Le nostre metamorfosi
di Barbara Spinelli


Giovedì, in una discussione su La7 che ha fatto seguito al film di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, "Silvio Forever", il direttore del Foglio ha detto una cosa importante.
Ha detto che, grazie agli anni che portano l´impronta di Berlusconi, l´Italia avrebbe vissuto una «liberazione psicologica». Si è sbarazzata di vecchie incrostazioni moraliste, di una democrazia con troppe regole, di tendenze micragnose, formalistiche. L´ora dei consuntivi sta arrivando, e nella valutazione dei diciassette anni passati c´è anche questo giudizio sull´avventura berlusconiana, imperturbabilmente positivo: quali che siano i loro esiti, vi sono fenomeni grandiosamente anomali che fanno magnifica la storia, in Italia e altrove.
È significativo che negli stessi giorni si celebri il decimo anniversario dell´11 settembre, perché anche qui fu un fenomeno prodigiosamente anomalo a trasfigurare la storia. I rivoluzionari amano questi prodigi, sia quando li incensano sia quando li demonizzano, perché il Grande Fenomeno fa tabula rasa, crea nuove classi dirigenti, interrompe quel che nella democrazia è lento e monotono, formalistico e incastonato in regole. Il tempo d´un tratto s´arresta, il rivoluzionario prova l´estasi dell´istante liberatorio. Il musicista Karlheinz Stockhausen s´estasiò, il 16 settembre 2001, davanti alla «più grandiosa opera d´arte nella storia cosmica».
Nella discussione diretta da Enrico Mentana, spiccava la figura di Eugenio Scalfari. L’anomalia berlusconiana non gli appariva affatto grandiosa. Il giudizio era gelido, non magato neppure nelle pieghe, allergico all´inconcreto. Faceva impressione la sua presenza perché lo sguardo sul presente era ben più lungo dello sguardo dei colleghi. Il fenomeno Berlusconi (ma avrebbe potuto parlare anche dell´11 settembre, o della crisi economica) non era descritto come un botto improvviso, che fa piazza pulita e crea nuovi mondi. S´iscriveva in una storia lunga, che ancora ci tocca esplorare e che lui scruta dai tempi della prima repubblica con penna precisa. Mi sono chiesta come mai un giornalista con tanti anni di vita e d´esperienza sembrasse non solo il più acuto osservatore del presente, ma il più giovane.
La chiave penso sia la sua curiosità. Il curioso, lo dice l´etimologia, ha cura di quel che a prima vista pare enigmatico. Non gli basta vedere la pelle delle cose, ha brama di investigare, di tuffarsi molto a fondo, immergendosi con la testa come la balena narrata da Melville. Non si accontenta, e in genere usa poco questo tiepido aggettivo: contento. Il suo modo d´essere gli consente di intuire, nelle parole e negli eventi, quel che è altro dalla parola o dall´evento subito percepibili. Heidegger scrive cose simili, sulla tecnica: «L´essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico. Non apprenderemo mai la nostra relazione con la sua essenza, fino a quando rappresenteremo e praticheremo solo la tecnica. Sempre rimarremo, non liberi, incatenati alla tecnica: sia che l´approviamo con entusiasmo, sia che la neghiamo».
Nel raccontare l´epoca che abbiamo alle spalle, Scalfari ragionava allo stesso modo: «La questione davvero importante non è Berlusconi. È come l´Italia abbia potuto sopportare un personaggio così per 17 anni. Chi siamo noi è la questione». L´essenza di Berlusconi non è Berlusconi, così come l´essenza dell´11 settembre non è l´11 settembre ma la risposta che all´attentato venne data e la torpida genealogia dell´accadimento. In Italia l´essenza è la misteriosa, sempre ambigua metamorfosi dell´uomo e del suo mondo: il mondo che egli crea e quello che da fuori lo pigia e lo mette alla prova. Che lo spaventa anche, inducendolo a bendarsi gli occhi e seguire chimere per non vedere i precipizi verso cui sta correndo.
Se cito Scalfari a proposito dei bilanci che si stanno facendo (del berlusconismo, dell´11 settembre) è perché la metamorfosi è parte centrale del suo ultimo libro (Scuote l´anima mia Eros, Einaudi 2011) e perché i concetti di cui il testo è disseminato aiutano a capire la crisi che viviamo: la metamorfosi in primis ma anche la guerra fra gli istinti, l´amore di sé e dell´altro, la morte che impronta la vita e dunque viene prima della vita. E l´avarizia infine, una parola che mi ha colpito perché stranamente si è diradata nel dialogo fra le persone. Nel libro è evocata almeno tre volte. Una prima volta quando l´autore s´interroga sul segno («più lieve della traccia che una lepre fuggitiva lascia sulla neve») che resta delle singole vicende umane. Proprio perché la nostra è una «piccola vita circondata dal sonno», scrive citando Shakespeare: «Non dilapidatela, non difendetela con avarizia (...) Vivetela con intensa passione, con speranza ed allegria». Queste cose si imparano nell´adolescenza, quando sei in trasformazione e provi a cambiare in meglio il tuo Io. S´imparano anche in vecchiaia: se vissuta bene, è anch´essa metamorfosi. Ricordo il bellissimo disegno di Goya, al Prado. Un vecchio cammina appoggiato a due faticosi bastoni e sotto è scritto: Aùn aprendo, Ancora sto imparando.
Il secondo accenno all´avarizia è quando i mortali sono descritti come centauri, metà bestie metà uomini, sempre esposti al sopravvento del cavallo. L´avarizia di sé è figlia di questo rachitismo spirituale: dimentichi quel che fa dell´uomo un uomo, sei sopraffatto, rattrappisci. C´è infine un terzo passaggio, in cui ingeneroso è chi crede in una sola verità, e diviene avaro di sé.
L´avaro somiglia molto all´incurioso, che si fascia gli occhi per paura di disperdere quel che ammonticchia per sé. Anch´egli non ha cura dell´altro. Quando gli va incontro, è uno specchio che cerca: dunque vede solo se stesso. Giustamente è stato evocato, nella discussione, il narcisismo che affligge Berlusconi e l´Italia che l´ha scelto come modello. L´avaro incurioso vede l´Uno (la propria verità); al Due non arriva. Quando erano più sferzanti, i critici americani di G.W.Bush lo chiamavano incurious.
Non che sia mancata, subito dopo l´11 settembre, la sete di sapere. «Perché ci odiano?», ripetevano sgomenti i politici Usa. Ma la domanda non era mai rivolta a se stessi, il male assurdo era sempre fuori. Anche Berlusconi chiede, di continuo: «Perché mi odiano?», come se la sua persona fosse satanicamente osteggiata per motivi estranei a quel che lui è e fa. Anche qui è elusa la vera domanda: come avviene la seduzione? Cosa ha prodotto? E in America: come è potuto accadere che la guerra totale al terrore, lanciata caoticamente nel 2001, stia accelerando il crollo della potenza americana?
Dice Scalfari che gli italiani hanno un terzo istinto, oltre a quello buono e cattivo: un istinto anarcoide, antipolitico. Credo non sia un vizio solo italiano: penso alle civiltà suicide descritte da Jared Diamond nel libro Collasso, agli abitanti dell´isola di Pasqua, allo spirito anarcoide con cui distrussero tutti gli alberi fino a non poter costruire una sola barca per andare a pescare e nutrirsi.
In Italia come in America, l´evento cui abbiamo assistito è la morte della politica, il trionfo di poteri paralleli e sommersi che nemmeno Obama riesce a frenare. E la storia di questo trionfo è molto più lunga dei dieci anni che ci separano dall´11 settembre, o dei diciassette che ci separano dal Berlusconi politico. Negli Stati Uniti la dismisura, la hybris, culminò nel Progetto per il nuovo secolo americano, che i neoconservatori scrissero nel ´97, in collaborazione con l´industria militare: finita la guerra fredda l´America doveva trasformarsi in unica superpotenza, senza più rivali. L´orrore omicida dell´11 settembre permise al progetto di affermarsi. In Italia la hybris è radicata nella storia della P2, che ebbe il Premier tra i suoi affiliati. I fenomeni grandiosamente anomali hanno tutto un pedigree, e non solo: hanno effetti - sulla vita dei cittadini e sul futuro - che il giudizio finale deve incorporare. L´effetto in America è stato il collasso del potere mondiale. Quanto all´Italia, cosa ha prodotto la talentuosa conquista berlusconiana dei consensi? È ancora Scalfari che parla: «Il risultato lo si vede: siamo ridotti in mutande».
Ascoltiamo quel che disse della P2 Tina Anselmi, il 9 gennaio ´86 in una Camera semivuota: «Ciò che dobbiamo chiederci è se accanto alla politica ufficiale, gestita nei modi e nelle forme che l´ordinamento consente, possa esistere una politica sommersa. Se (...) possa esistere un versante occulto, nel quale programmi e azioni destinate a incidere nella vita della collettività vengono elaborati al di fuori, non dico di ogni controllo ma della stessa conoscenza dell´opinione pubblica (...) Se sia possibile coltivare l´illusione di una correzione del sistema democratico attraverso meccanismi compensativi che, operando in maniera occulta o riservata, sarebbero in grado di assicurargli la necessaria stabilità» (Anna Vinci, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere 2011). Sotto forme diverse (P2, P3, P4) la politica sommersa continua.
Chi siamo noi è la questione. È la sola che conti. Non si tratta di dividersi tra benpensanti e malpensanti. Qui c´è bisogno di pensanti, tout court. Di trasformatori, consapevoli con Nietzsche che «Noi, cercatori della conoscenza, siamo a noi stessi degli sconosciuti, per il semplice motivo che non ci siamo mai cercati».

La Stampa 12.9.11
La denuncia delle associazioni di consumatori Casper
Potere d’acquisto -40% con l’euro
Il bilancio di 10 anni senza lire
di Luigi Grassia


Vi ricordate quando c’è stata la conversione dalla lira all’euro, più o meno al cambio di duemila a uno, ma i prezzi di certi beni di consumo sembrava che si adeguassero mille a uno? In quei giorni, con la memoria fresca dei precedenti cartellini in lire, alcuni rincari erano un pugno in un occhio. Poi la valanga non si è fermata e a questo si è aggiunta l’amarezza di quanto poco gli aumenti trovassero riscontro nel tasso ufficiale d’inflazione, che nei dieci anni passati da allora è sempre rimasto un po’ al di sopra o un po’ al di sotto del 2% (a volte anche molto al di sotto); i giornali nell’anno X riportavano una tariffa +15%, un prezzo +12%, e magari la media faceva +1%. Si è parlato di inflazione percepita attribuendo il fenomeno a un abbaglio dei consumatori. Adesso il Comitato contro le speculazioni e per il risparmio (Casper), che riunisce le associazioni Adoc, Codacons, Movimento difesa del cittadino e Unione nazionale consumatori, tira le somme di quello che è successo nel decennio, e dice che gli aumenti medi dei prezzi sono stati del 53,7% e che questo ha ridotto il potere d’acquisto delle famiglie di quasi il 40% (39,7%).
Ci sono delle punte ben al di sopra: si va dall’aumento del 93,5% della pizza margherita a quello del 192,2% del tramezzino al bar, dal +159,7% del cono gelato al +207,7% della penna a sfera. Il Casper ha organizzato una protesta in piazza giovedì 15 con altre associazioni «per far sentire la voce delle famiglie massacrate e impoverite dal carovita».
Il dossier del Casper sui prezzi nel decennio copre un’arco temporale che comincia dal settembre 2001 (quando i listini già cominciavano a essere espressi in doppia valuta, poi arrivata in pompa magna nel dicembre 2002) e riguarda un paniere di beni fortemente rappresentativo dei consumi quotidiani dei cittadini.
«Il risultato - denunciano affermano le quattro sigle del Casper - è sbalorditivo. I rincari sono sempre a due cifre e raggiungono una media del 53,7%, tenuta alta da prodotti i cui prezzi sono letteralmente schizzati (come il cono gelato, la penna a sfera, il tramezzino al bar, i biscotti, la lavanderia, il caffè o il supplì)» spiega il Casper. Vi è poi tutta una serie di beni e servizi che hanno registrato un raddoppio (o quasi) dei prezzi: dalla pizza margherita ai jeans, dalla giocata minima del Lotto ai pomodori pelati, al biglietto dell’autobus a Milano. E come pena accessoria, nota il Casper, per una specie di effetto naturale di trascinamento sono raddoppiati anche «il balzello da pagare al parcheggiatore abusivo e la mancia al ristorante».
Peraltro, «l’ondata dei rincari non è finita» denuncia il Casper, e non solo per il recente scatto dell’aliquota Iva dal 20 al 21% deciso dal governo, che è destinato a produrre un ulteriore incremento dei listini al dettaglio. Secondo Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti, presidenti di Federconsumatori e Adusbef, il complesso delle misure della manovra economica porterà a «una caduta del potere di acquisto di 2.031 euro annui a famiglia, senza contare la stangata di prezzi e tariffe di oltre 1.521 euro nel 2011. Tutto questo non potrà che avere ricadute negative sull’intera economia, con un’ulteriore contrazione dei consumi, quindi della produzione industriale e nel campo dei servizi».

La Stampa 12.9.11
La Primavera araba
Erdogan parte alla conquista del Medio Oriente
Oggi il premier turco è al Cairo. Poi Libia e Tunisia. Obiettivo: fare della Turchia il Paese di riferimento
di Marta ottaviani


Per il premier turco Recep Tayyip Erdogan è il viaggio della consacrazione. Oggi inizia un tour delicato, che molti nel Paese hanno già battezzato «il tour della Primavera Araba» e che in quattro giorni toccherà Egitto, Tunisia e Libia. Tre Paesi che nel giro di otto mesi hanno rovesciato regimi decennali, apparentemente inattaccabili. Uno scossone che Ankara tenta di sfruttare a suo favore, proponendosi come Paese di riferimento per le nuove classi dirigenti, in competizione con Europa e Stati Uniti.
Erdogan in realtà aveva espresso anche il forte desiderio di andare a Gaza, ma è ormai quasi certo che non sarà accontentato. Fino a metà della settimana scorsa si erano ricorsi rumours di contatti fra Ankara e Il Cairo per consentire a Erdogan di atterrare a Gaza City, dove è venerato come un eroe e dove il nome più ricorrente per i neonati è Tayyip. Ma poi venerdì l’ipotesi Gaza è sfumata quasi completamente, a meno di improvvisi colpi di scena.
Il premier si muoverà insieme con il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, il ministro dell’Economia, Zafer Caglayan e decine di uomini d’affari fra i più potenti del Paese. Il viaggio per il primo ministro ha due finalità. La prima è mostrarsi di persona a Paesi che durante i mesi scorsi hanno più volte invocato la Turchia, Stato musulmano ma laico, come un modello per tutto il Medio Oriente e lui come il premier ideale: forte, determinato, riformatore. Il secondo è quello di consolidare o aumentare la presenza economica e commerciale in questi tre Paesi, dove gli equilibri politici sono cambiati radicalmente negli ultimi mesi e dove la Turchia si è costruita posizioni di tutto rispetto.
Erdogan porta in dote un Paese che ha tutte le carte in regola per diventare leader del mondo musulmano. Un assetto più spostato a Oriente nel Mediterraneo, anche grazie alla frattura sempre più profonda con Israele, aggravatasi settimana scorsa, una crescita economica che sta rendendo la Turchia uno dei Paesi in via di sviluppo più interessanti. Un’altra carta nelle mani del premier è la grande stabilità interna e un potere solido, garantito dal risultato di elezioni democratiche dove il partito del primo ministro ha conquistato il 49,9% dei consensi.
Il momento più importante del tour sarà oggi, quando il premier Erdogan terrà un discorso all’Università del Cairo, dove detterà le linee guida di questa sua missione e imporrà definitivamente la Turchia all’attenzione mondiale. Il viaggio di Recep Tayyip Erdogan arriva a pochi giorni dalla rottura con Israele e a poche ore dall’attacco all’ambasciata israeliana al Cairo.
E Israele è forse lo spettatore più interessato al tour di Erdogan. Il 20 settembre all’assemblea delle Nazioni Unite verrà chiesto il riconoscimento ufficiale della Palestina e in molti pensano che dietro questa operazione ci sia la diplomazia della Mezzaluna. Il rischio è quello di una Turchia vista dalla primavera araba non solo come un modello di governo, ma anche come un esempio di ribellione.

Corriere della Sera 12.9.11
la Vera Sfida ora è con la Cina

Joseph Nye: «L'America è in crisi, ma resta più attraente degli altri Paesi»
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «Due guerre — una delle quali sicuramente non necessaria — che, insieme alla scriteriata politica di sgravi fiscali decisi da Bush durante il suo primo mandato presidenziale, hanno aperto una voragine di debiti diventata, con l'amplificazione prodotta dalla crisi finanziaria del 2008, la palla al piede degli Stati Uniti. E un'attenzione comprensibilmente ma esasperatamente concentrata sui rapporti col mondo islamico, con la conseguenza di trascurare per un intero decennio la vera sfida: quella con la Cina».
Il rogo delle Torri Gemelle ha aperto un decennio di instabilità, incertezza, paura. Ma per il politologo americano Joseph Nye, il docente di Harvard teorico del «soft power», la vulnerabilità economica in cui l'America è caduta per le scelte fatte dopo quell'11 Settembre è perfino più grave della vulnerabilità agli attacchi di Al Qaeda e dei suoi emuli.
Dopo quell'11 Settembre di 10 anni fa nessuno pensava al debito federale né alla Cina: sembrava che l'America e il mondo potessero precipitare in una spirale di attacchi terroristici, in un conflitto di civiltà col mondo islamico.
«E' vero: allora il bilancio federale era addirittura in attivo. E a Bush, che ha colpe enormi avendo scatenato conflitti dannosi per gli Usa e avendo demolito la sana politica fiscale di Clinton, va dato comunque atto di aver agito saggiamente per scongiurare il clash of civilizations, lo scontro di civiltà: ha detto e ripetuto sempre con forza che le sue non erano guerre contro l'Islam, e ha invitato rappresentanze del mondo musulmano alla Casa Bianca. Capo di un'amministrazione vulnerabile e impreparata davanti agli attacchi, a Bush va anche il merito di aver migliorato l'efficienza delle strutture di intelligence e antiterrorismo. Un lavoro che, continuato da Obama, ha consentito di bloccare tutti gli attacchi concepiti da allora in America, evitando un altro 11 Settembre. Questo non lo dobbiamo mai dimenticare».
Nel suo ultimo libro, «The Future of Power», di pochi mesi fa, lei parla di due grandi mutamenti: uno spostamento del potere dall'Occidente verso l'Asia che, peraltro, ancora non si sarebbe verificato pienamente anche grazie alla buona tenuta del «soft power» Usa e l'imporsi di nuovi fenomeni — dalla rivoluzione informatica all'ascesa delle entità non governative. Qual è il peso dell'11/9 su questi fenomeni?
«Quando penso a come è cambiata la distribuzione del potere nel mondo immagino una scacchiera tridimensionale. Nella quale il primo livello è quello della forza militare. E qui quella degli Stati Uniti, ancora unica superpotenza globale, resterà preponderante almeno per vent'anni. Il secondo livello è il potere economico, la cui distribuzione è molto cambiata con la globalizzazione: viviamo in un mondo complesso, multipolare. Con l'Occidente in grande difficoltà. Ma la vera complessità, le maggiori incognite sono al terzo livello: quello determinato dalla rivoluzione delle tecnologie digitali e dal moltiplicarsi dei poteri che operano fuori dal controllo dei governi, dalle Ong alle centrali del terrorismo».
Dieci anni fa l'America era l'unica superpotenza globale. Lo è ancora, ma è molto più vulnerabile ed è insidiata dalla Cina.
«E' forse l'eredità dell'11 Settembre più dura da metabolizzare. Non solo l'America si è dissanguata umanamente e finanziariamente in guerre inutili, costate oltre mille miliardi di dollari, che non l'hanno resa più sicura e hanno cancellato quella reazione di simpatia che tutto il mondo aveva avuto verso gli Usa dopo l'attacco di Al Qaeda. Quella crisi ha avuto anche quello che io chiamo un "opportunity cost": ci è costato caro l'errore di non esserci concentrati sul nostro principale problema — la crescita tumultuosa dell'Asia orientale e lo spostamento di ricchezza e potere verso quest'area — distratti dal terrorismo, dai problemi nel Golfo e in Medio Oriente, dai rapporti col mondo islamico».
E' cominciato lì il declino americano?
«Sì, ma è un declino relativo, non assoluto. Nonostante le difficoltà economiche, gli Stati Uni restano non solo il Paese militarmente più forte, ma anche il più attraente: il "soft power" funziona ancora molto bene, come dimostra un recente sondaggio della Bbc sui Paesi che piacciono di più. Gli Usa vincono, mentre la Cina è molto indietro. Siamo ancora il Paese della libertà e dell'innovazione, con maggiore capacità di catturare cervelli. E un Paese che attira intelligenze ha più capacità di rinnovarsi. Che il "soft power" sia importante lo sanno anche i cinesi. Dal 2007, quando Hu Jintao fissò questo obiettivo, Pechino investe massicciamente in questo campo, cercando di mostrare una faccia dialogante, diffondendo la sua cultura nel mondo attraverso gli Istituti Confucio. La tendenza c'è, ma il trasferimento di potere all'Asia non si è ancora manifestato in misura consistente».
Più che dalla crisi economica, lei si è detto allarmato dall'estrema polarizzazione del dibattito politico negli Usa, che sta avendo effetti paralizzanti sull'attività di governo. C'entrano, anche qui, i mutamenti genetici subiti dopo l'11/9?
«No, le origini della radicalizzazione sono precedenti: risalgono a metà degli anni 90 quando i repubblicani di Newt Gingrich misero sotto assedio la Casa Bianca di Clinton. Me ne ricordo perché facevo parte dell'amministrazione. Certo, poi c'è stato il radicalismo dei neocon che hanno spinto Bush a impugnare le armi, ma quelli erano ottimisti, non pessimisti: pensavano di poter esportare ovunque, magari con l'uso della forza, la democrazia. Evidentemente sbagliavano».

La Stampa 12.9.11
“Io, da docente a preside per valorizzare i talenti dei ragazzi”
La scrittrice Veladiano: coltivo la fiducia nel futuro
di Mario Baudino


Mariapia Veladiano è preside da 12 giorni. La scrittrice vicentina di La vita accanto (Einaudi), esordio letterario accolto con molto favore e approdato nella cinquina del premio Strega, affronta dopo anni di insegnamento la nuova sfida nella scuola dei tagli, al tempo della crisi.
Per un docente è un passo decisivo. Si cambia ruolo, si cambia marcia. Emozionata?
«Nei primi giorni, forse nelle prime settimane anche, si tratta soprattutto di stare in ascolto di un mondo di iniziative che già c’è, che esiste. Si vive una specie di sospensione di sé, per accogliere e mettersi in relazione. Quasi non c’è spazio per emozioni proprie».
Quella del preside è una figura altamente simbolica, un organizzatore del sapere ma anche della logistica, un manager che non può scordare di essere un educatore. Per lei, che significato ha questo ruolo?
«Significa innanzi tutto credere nella scuola e nella possibilità di che sia un’esperienza in cui i ragazzi possono stare bene e valorizzare i loro talenti. Studiare è anche fatica e disciplina. Solo l’interesse e la passione possono rendere leggera la fatica. Quindi bisogna credere che c’è la possibilità che la scuola sia "bella", appassionante. Significa anche far di tutto per vedere uno ad uno i ragazzi, per quanto possibile, "inseguendo" strenuamente chi è in difficoltà, perché non rinunci, e creando lo spazio ai talenti speciali. Quanto sappiamo riconoscere talenti speciali nelle nostre scuole? Significa lavorare perché la scuola sia un vero laboratorio di integrazione. Questo lo fanno gli insegnanti. Perciò credo che il preside abbia il compito, tutto sommato nascosto, di favorire il loro lavoro, semplicemente. E un po’ oggi serve anche che abbia una certa capacità di resistere alle difficoltà oggettive - poche risorse, molte attese - mantenendo lucidità e fiducia negli insegnanti e nei ragazzi».
Quanto pesa la scarsità di risorse?
«La scuola è la nostra vera risorsa di fronte alla incertezza sul futuro. Tito Boeri all’inizio di questa crisi economica scrisse che in tempi di crisi il vero investimento è sulla cultura e l’istruzione. Credo che sia verissimo».
Perché una docente decide di misurarsi col ruolo di preside?
«Ho fatto il concorso nel Trentino perché c’è una legislazione scolastica per alcuni aspetti straordinaria. Il Trentino crede nella scuola, vive di un preciso di patto con il territorio, nelle vallate le scuole sono centri di promozione culturale. A Trento c’è uno splendido istituto di ricerca sulla didattica, l’Iprase, che sostiene il lavoro degli insegnanti. Da anni ci sono iniziative sulle lingue, sulla scrittura creativa nelle scuole. Visitare il sito è fare un bel viaggio in una scuola che ha un progetto».
Lei che cosa si aspetta, adesso? O meglio, che cosa ritiene ragionevole aspettarsi?
«E’ ragionevole creare alleanze con chi crede nella scuola. Soprattutto con i genitori. Poi con le amministrazioni, i musei, le biblioteche. E anche con i privati, perché averne paura? Nella scuola in cui ho insegnato più di vent’anni, nel Veneto, abbiamo avuto esperienze meravigliose di collaborazioni con aziende che hanno finanziato nostri progetti. Un bel progetto di educazione stradale, ad esempio, che mai avremmo potuto fare con le nostre risorse».
Qual è invece il sogno, l’utopia di cui si nutre questo lavoro?
«Conosco il mio sogno. È una scuola culturalmente preparata e che dà e chiede molto ai ragazzi. Che coltiva l’equità, ovvero che è il luogo delle opportunità per tutti. Che in nessun caso fa da moltiplicatore della disuguaglianza. Che crea un ambiente di forte appartenenza, per i ragazzi e anche per gli insegnanti. E’ facile lavorare per il successo di qualcosa che si sente proprio. E’ una scuola che rispetta la varietà degli stili di insegnamento e delle pratiche perché nella varietà i ragazzi possono trovare la voce giusta che li appassiona alla cultura. E’ anche una scuola che coltiva la fiducia nel futuro e che crede nei ragazzi e li ascolta davvero: se lasciamo loro lo spazio e diamo loro gli strumenti, possono costruire un mondo migliore di quello in cui noi li stiamo facendo vivere».

La Stampa 12.9.11
Come sostenere i docenti di sostegno
di Andrea Gavosto


Affrontare i problemi degli allievi disabili con logica burocratica tradisce i principi dell'integrazione e, quel che è peggio, danneggia i ragazzi. Purtroppo, ciò avviene sempre più spesso nella scuola italiana, come ci segnala il caso scoppiato a Torino pochi giorni fa. Al momento delle assegnazioni di circa 300 posti di sostegno, si è scoperto che oltre due terzi erano stati attribuiti a docenti «soprannumerari», vale a dire insegnanti curricolari di ruolo che, non potendo più insegnare nella loro scuola a causa della riduzione del monte ore della loro materia, della diminuzione delle classi o dell'arrivo di un collega con maggiore anzianità di servizio, avrebbero accettato una posizione di sostegno nello stesso istituto invece del trasferimento in un'altra scuola. Peccato che la quasi totalità di costoro non avesse la qualificazione per lavorare con i ragazzi con disabilità. Dopo molte polemiche, c'è stata una parziale marcia indietro.
L'idea di assegnare al sostegno docenti senza una preparazione specifica è sbagliata, doppiamente sbagliata. Da un lato, poiché nessuno penserebbe mai di fare insegnare matematica a chi fino a ieri ha insegnato latino, stupisce che un docente abbia così poca considerazione della sua professionalità da rinunciare alla sua disciplina, pur di non trasferirsi di qualche chilometro. Dall'altro - ed è l'aspetto più preoccupante - la vicenda conferma come il sostegno sia spesso considerato dall'amministrazione scolastica (e dai sindacati) un impiego di serie B, al punto da assegnarlo a chi non è qualificato a farlo, perdendo di vista che l'alunno con disabilità richiede competenze e metodologie didattiche particolari, formazione specifica ed esperienza.
In questo, come in altri campi, nel nostro Paese c'è un conflitto fra principi e pratica. Nei principi, il modello di integrazione è probabilmente fra i più avanzati al mondo: prevede infatti che i ragazzi con bisogni educativi speciali siano pienamente inseriti nella vita quotidiana - non solo didattica, ma anche di relazione - della classe, con l'aiuto dell'insegnante di sostegno. In molti Paesi, come Francia e Germania, esistono invece ancora scuole e classi differenziali. Nella pratica, però, le cose non funzionano bene, come emerge da un recente studio di Associazione Treellle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli. Il sostegno si trasforma spesso in una trafila burocratica, che traduce meccanicamente la certificazione di disabilità delle Asl in ore di sostegno, senza una vera lettura dei bisogni dei ragazzi; gli altri insegnanti tendono a delegare in toto l'integrazione scolastica del disabile al docente di sostegno; è ormai pratica frequente che gli insegnanti acquisiscano la specializzazione sul sostegno per accelerare il passaggio in ruolo, salvo poi rientrare nei ranghi «normali» appena possibile, con grande spreco di risorse; infine, il turn-over sul sostegno è perfino più elevato di quello degli altri insegnanti: se la mancanza di continuità didattica è un danno per qualsiasi studente, figuriamoci per uno con disabilità. Insomma, si privilegiano gli aspetti organizzativi della professione insegnante all'aiuto effettivo alle famiglie e ai ragazzi.
Come ritornare allo spirito originario della legge? La nostra proposta è l'opposto di quanto stava per accadere a Torino: invece di assegnare il sostegno a persone non qualificate, tutti gli insegnanti della classe vanno qualificati e coinvolti nell'educazione del ragazzo con bisogni speciali (il disabile, ma anche chi soffre di disturbi specifici dell'apprendimento, come la dislessia, o lo straniero con problemi di lingua), eliminando progressivamente la figura del docente di sostegno. Naturalmente, perché questo si realizzi occorre che gli insegnanti normali ricevano un'adeguata formazione. Inoltre, servirebbero su base territoriale nuclei di esperti altamente specializzati nella pedagogia speciale, che supportino scuole e famiglie nella lettura dei bisogni e nella fatica quotidiana. Lo sappiamo: non è cosa che si faccia dall'oggi al domani. Ma si deve cominciare subito a preparare questa prospettiva, prima che il modello d'integrazione collassi, soffocato dall'effetto congiunto di risorse in calo e aumento degli allievi con bisogni educativi speciali.
La scuola italiana inizia il nuovo anno con il consueto bagaglio di sfide e problemi, inclusa la piena integrazione dei ragazzi disabili. In questo campo l'Italia vanta un primato di civiltà: sarebbe davvero vergognoso se, per esigenze di bilancio, inerzia burocratica o interessi corporativi, la scuola facesse un passo indietro.

Corriere della Sera 12.9.11
Cartagine, eterno prototipo per un «nemico perfetto»
Dall'Antica Roma all'ultimo conflitto in Libia
di Luciano Canfora


Il conflitto più lungo e più pericoloso che Roma abbia affrontato per assurgere alle dimensioni di potenza imperiale fu quello con Cartagine. Esso si sviluppò in due fasi nell'arco di oltre sessant'anni (264-201 a.C.) ed ebbe però un epilogo ritardato (149-146 a.C.) quando Roma, conquistato anche il Mediterraneo orientale, cercò daccapo lo scontro con Cartagine e decise di estirparla. Il che avvenne con la distruzione della gloriosa metropoli e l'asservimento degli abitanti nel 146 a.C. Se si considera che il controllo del Mediterraneo occidentale era la premessa necessaria per l'espansione imperiale a Oriente, ben si comprende l'importanza epocale della partita giocatasi tra Roma e Cartagine, la sua durata, la sua ferocia, la totale mancanza di mediazioni.
La conseguenza di questo stato di cose fu che Cartagine divenne sul piano ideologico, e quindi propagandistico e storiografico, il nemico perfetto: portatore di ferocia, slealtà, aridità culturale; e la guerra contro tale nemico divenne il prototipo della «guerra giusta»; e la condotta romana il prototipo della moderazione, dell'equilibrio, della lealtà. Questo si può osservare sia nel racconto di Tito Livio della guerra contro Annibale (libri XXI e seguenti), il quale scriveva sotto Augusto, sia nei Punica di Silio Italico (oltre dodicimila versi!), ricco senatore col capriccio della poesia, attivo nella seconda metà del I secolo d.C. L'invenzione della leggenda di Attilio Regolo corrisponde perfettamente a questo cliché, come nota efficacemente Richard Miles nel saggio Carthago delenda est appena uscito nelle «Scie» Mondadori.
L'invenzione del nemico, nel senso della capacità di imporre un'immagine demonizzante di esso (che funzioni sia durante la lotta sia dopo la vittoria), è una delle armi più importanti nei conflitti di potenza. Basti pensare, per fare un esempio che ha segnato di sé il secolo XX e di cui, tra breve, invece nessuno più serberà memoria, alla demonizzazione dell'Urss da parte del cosiddetto «mondo libero». Quel Paese svolse il ruolo di nemico perfetto, intorno a cui costruire una sorta di leggenda nera. Oggi quel cumulo di falsità ha vinto sul piano sia della mezza cultura sia della propaganda, mentre i superstiti del naufragio comunista sono i più (inutilmente) zelanti nel dar mano alla demonizzazione retroattiva.
Nel caso di Cartagine, la vicenda più desolante fu proprio la finale decisione romana di creare comunque un incidente per procedere alla estirpazione del nemico. Miles apre giustamente il suo libro per l'appunto con un efficace capitolo che descrive le fasi finali della lotta e la ferocia dell'assedio e della repressione romana.
Della creazione del nemico perfetto fa parte, anzi è parte essenziale, la svalutazione della sua civiltà, onde presentare la prevalenza del vincitore come il compimento della marcia trionfale del «bene» sul «male», della civiltà sulla barbarie etc. Se — come è il caso di Cartagine — il nemico fu «semitico» e «africano», il meccanismo demolitorio scatta con ancora maggiore facilità. Grande fu la sorpresa (o, a seconda dei casi, l'imbarazzo) quando, nel 1964, svariati anni dopo la sua morte, apparve postumo l'ultimo volume della Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis e si poté leggere la pagina in cui il grande storico italiano chiosava, pur consapevole della ferocia della procedura adottata, la distruzione di Cartagine come eliminazione di un «peso morto» nella storia dell'umanità. E ribadiva che «solo liberata da questo peso morto» l'Africa aveva potuto «entrare nello sviluppo civile dell'antichità». Per lui «la scomparsa di Cartagine era una profonda esigenza storica»!
Quella pagina fu scritta dallo storico cattolico che tutti ammiriamo per il rifiuto, con danno personale, di giurare fedeltà al fascismo, mentre finiva la Seconda guerra mondiale. Circa nello stesso tempo (1943) uno storico tedesco, Joseph Vogt, che è stato oggetto nel dopoguerra di smisurata venerazione, promuoveva un'opera collettiva Roma e Cartagine che si apriva con un intervento dello stesso Vogt che impostava la questione su cui tutti gli altri accademici convenuti dottamente discettano: il conflitto tra Roma e Cartagine è stato finora impostato in termini militari, «ma per l'odierna ricerca balza in primo piano una questione, se sia stato decisivo il fattore dell'eredità razziale (Blutserbe) dei rispettivi popoli». Era una dotta conventicola che sviluppava l'asserto proferito da Alfred Rosenberg al congresso del partito nazista del settembre 1937: «Fu merito di Roma avere assestato il colpo mortale allo Stato semita di Cartagine».
Qui siamo, beninteso, su di un piano più propriamente animalesco, ma colpisce spiacevolmente che la trasposizione in termini «culturali» di queste premesse razziali riemergesse nella pagina di un autorevole storico cattolico come Gaetano De Sanctis. Non era una uscita isolata se si considera che nel gennaio del 1947, l'allora ministro dell'Istruzione Guido Gonella inaugurando all'Istituto di studi romani l'anno accademico dei corsi superiori con una prolusione intitolata «Pace romana e pace cartaginese» (metafora per contestare le dure clausole della pace imposta all'Italia dai vincitori), evocasse ancora una volta il mito della perfidia e dell'inferiorità punica. Da Cartagine — egli scriveva — non è venuta al mondo antico alcuna forma spirituale durevole, «non voci di pensatori né canti di poeti, ma solo le pratiche e aride formulazioni del trattato di agricoltura di Magone» (che peraltro — converrebbe ricordare — i Romani si affrettarono a tradurre, studiare e mettere a frutto). Non era una ragione sufficiente, ammesso che fosse vero, per fare piazza pulita del nemico.
L'ironia della storia ha voluto che in quest'ultimo tempo della tormentata storia del Nordafrica la vicenda si ripetesse, negli stessi luoghi, o quasi, in cui avvenne l'antico sterminio: il rapace Sarkozy che «libera» la Libia rassomiglia, in caricatura, a Scipione Emiliano, detto Africano minore, che assedia e distrugge Cartagine nel nome della «libertà» e attraverso una «guerra giusta».
Questo genere di riflessioni non dev'essere frainteso nel senso del banale capovolgimento dei ruoli, grazie al quale i vinti diventano automaticamente i buoni. Ove vincitori, avrebbero trattato gli avversari alla stessa maniera. Riflettendo sui conflitti di potenza che innervano l'intera vicenda storica del mondo antico si può osservare che il presupposto di tali conflitti è che l'obiettivo restava sempre quello della totale distruzione (prima o poi) dell'avversario. Le paci erano soltanto tregue. Ma il nostro civilizzato presente, non offre, a ben vedere, analogo scenario?

Repubblica 12.9.11
Sokurov: "Sì, il mio film l´ha voluto Putin anche se racconta gli orrori del potere"
di Mario Serenellini


Il regista russo Leone d´oro alla Mostra di Venezia parla della sua ossessione per i dittatori e del rapporto con il premier russo che lo ha sostenuto nei finanziamenti
Ho subìto anch´io umiliazioni. Prima della perestrojka la mia opera in Russia era congelata Ma non ho capitolato
Mi batto per salvare San Pietroburgo dalla speculazione. Fare film sul passato non è allontanarsi dal presente

La prima telefonata, non appena ha saputo del Leone d´oro a Venezia, è stata a Vladimir Putin. «Per ricordargli ancora che i politici, lo Stato, devono sostenere il cinema», spiega Aleksander Sokurov. La telefonata ha anche il sapore di "grazie" al mecenate del film: perchè Faust, trionfo del regista più censurato negli anni pre-perestrojka, è stato sponsorizzato dal premier russo. Ci sarebbe di che restarne sorpresi, se il cineasta russo – oggi il più grande e popolare maestro del cinema russo, insieme con l´amico Nikita Michalkov – non fosse una roccia di coerenza, politica e artistica, ribadita da una quarantina di film in oltre trent´anni. Sokurov per primo s´affretta a allontanare ombre d´ingerenza ideologica dal suo film prodotto dalla Proline Film di San Pietroburgo con un budget di 8 milioni, che Putin in persona ha pilotato tra fondo di sostegno e mass media di casa, foraggiati da banche private: «Il film è intriso di cultura russa. Per Putin questo è importante. La Russia non è solo una potenza militare o una riserva di petrolio e gas. Gode d´una eredità culturale enorme: il nostro cinema può promuoverla».
Sokurov, Faust però è un perno della cultura tedesca.
«In Faust c´è tutto, anche la Russia d´oggi. I politici dovrebbero farne il loro livre de chevet, il libro sul comodino. La mia è una reinterpretazione radicale del mito dello scienziato che vende l´anima al diavolo per un sapere onnipotente. Faust è un pensatore, un ribelle, un pioniere, ma è un essere umano, fatto di carne e sangue, guidato da istinti d´avarizia e avidità. Mi sono ispirato a Goethe e Thomas Mann, facendo convergere nel film i temi dei miei lavori precedenti su tre personaggi storici, Hitler (Moloch, 1999), Lenin (Taurus, 2001) e Hirohito, ultimo imperatore del Giappone (Il sole, 2005). Faust chiude la mia tetralogia sugli effetti corrosivi e devastanti del potere e, insieme, esorcizza la mia ossessione per i dittatori».
Dov´è il legame di Faust con i dittatori della storia?
«Nella rappresentazione della tragedia personale di un uomo di potere quando deve affrontare la catastrofe da lui provocata. Anche in Faust c´è un dio, o semidio, al tramonto: la sua caduta ci sprofonda nella faccia nascosta dell´essere umano. La storia stavolta non riguarda picchi epocali del secolo scorso, si svolge all´alba dell´800, ma approfondisce la mia riflessione sull´uomo di potere d´ogni tempo».
C´entra la Russia di oggi?
«Mi hanno definito il cantore della Russia. In una dozzina di film, tra finzione e documentario, da oltre vent´anni esprimo il mio amore per i paesaggi russi, le campagne, le città, il modo d´essere dei compatrioti, molto pragmatici ma anche sentimentali, riconoscenti verso la natura, il vento, i cespugli, l´acqua, la vita. Con questo film, esalto i nostri valori culturali, in particolare, la mia ammirazione per un popolo di coraggio. Noi russi siamo capaci di sopportare i fardelli più pesanti e di resistere con tenacia, com´è successo contro i nazisti durante l´assedio di Leningrado».
Sono proprio questi suoi accenti patriottici a sdoganare film spesso impietosi nell´analisi del potere?
«Nel quotidiano, spesso, siamo costretti all´umiliazione. Ho personali esperienze. Tra il 1978 e il 1987, ho girato due lungometraggi, corti di finzione e sei documentari. Mai nessuno proiettato, per il veto della censura governativa. La perestrojka li ha quasi tutti scongelati. Ma quei dieci anni di quarantena sono stati per me un´esperienza terribile: in nessun modo, però, m´hanno indotto a capitolare. In questo mi sento russo, uno dei tantissimi d´un popolo di coraggio, che combattono, giorno dopo giorno, contro l´assenza di comprensione, o di pietà. Da noi, l´individuo singolo – l´uomo – non ha valore».
La fama mondiale le dà oggi più libertà di affrontare di petto i temi politici più spinosi?
«In Russia sono un autore riconosciuto, anche fuori del milieu cinèfilo, ma le mie posizioni politiche non sono esenti da noie. Sono nato 60 anni fa in un paesino in Siberia, che oggi è sott´acqua, sommerso dall´ennesimo bacino artificiale per un impianto idroelettrico. Ho maturato fin da piccolo una coscienza sociale e ecologica. Da tempo milito per la salvaguardia del patrimonio di San Pietroburgo: ho dato vita a un comitato di difesa dell´eredità architettonica, ora massacrata dall´aggressione immobiliare, e di salvaguardia dei quartieri popolari, svuotati dei loro abitanti dalla speculazione. Girare film, anche su altre epoche, non va disgiunto da uno sguardo lucido e responsabile sul presente. Il buon cinema esprime sempre un Paese idealmente sano».

Repubblica 12.9.11
Così le favole lette ai neonati svelano l’istinto della parola
di Elena Dusi


Sensibili da subito a tutte le variazioni dell´intonazione della voce

Un test degli scienziati del San Raffaele dimostra che il cervello di un bimbo "parla fin dalla nascita" L´ascolto di una fiaba, ad appena 48 ore dal parto, attiva nei piccoli le zone neuronali del linguaggio

Siamo nati per parlare. Forse nulla è più inverosimile di un bambino che comprende una favola a due giorni dalla nascita. Ma le immagini ottenute dai neuroscienziati del San Raffaele di Milano sul cervello dei neonati, durante la lettura di una storia di Riccioli d´oro, dimostrano che quello del linguaggio è un motore che corre a pieni giri fin dal primo momento. Le aree dedicate alla comprensione e all´elaborazione delle parole sono ancora prive di elementi e le connessioni fra i neuroni povere, dato che il vocabolario è fatto di pagine bianche. Ma il ciak è già scattato, e ci penserà il film del mondo a riempire di contenuti un recipiente che fin dal primo giorno è già dotato di forma compiuta. «Le strutture neurali legate al linguaggio sono perfettamente attive a due giorni di vita in entrambi gli emisferi» spiega Daniela Perani, professoressa di neuroscienze all´università Vita-Salute San Raffaele e autrice dello studio appena pubblicato su Pnas. I ricercatori hanno sottoposto a varie tecniche di neuroimaging 15 bambini nati da 48 ore nell´ospedale milanese. «Però si tratta di strutture ancora molto immature. Ci sono infatti forti connessioni solo fra i due emisferi cerebrali, mentre negli adulti l´attivazione del linguaggio è concentrata nell´emisfero sinistro».
Appurato che il cervello di un bambino "parla" e "ascolta" fin dalla nascita, la domanda successiva riguarda il contenuto di quei primi discorsi. I ricercatori milanesi hanno trovato che i neonati riconoscono fin da subito la lingua della prosodia, fatta di intonazioni, di vocali allungate, di un tono della voce che si alza e si abbassa in maniera ritmica, tingendo di emotività le parole dei genitori e degli adulti in generale. «Non è un caso che in uno studio dell´anno scorso - spiega Perani - abbiamo dimostrato la capacità dei neonati di apprezzare la musica. I bambini a pochi giorni di vita sanno già distinguere un´armonia perfetta da un brano musicale distorto».
La favola di Riccioli d´oro letta ai neonati durante l´esperimento di oggi riusciva ad attivare le aree del linguaggio se era letta con la giusta intonazione. Ma lasciava i bambini indifferenti quando le parole erano pronunciate in maniera fredda e piatta, imitando la sintesi vocale di un computer. «Dopo aver raccontato la storia normalmente, l´abbiamo ripetuta eliminando del tutto la prosodia. Al bambino arrivava naturalmente lo stimolo uditivo, ma l´attivazione delle aree del linguaggio si abbatteva drasticamente. Era come se ascoltasse il suono di un martello pneumatico, qualcosa di non umano» spiega Perani. Nei bambini piccoli - dimostra lo studio - è la prosodia a guidare l´apprendimento del linguaggio. Le parole cariche di intonazioni e di variazioni nell´altezza del suono (la cui comprensione è affidata soprattutto all´emisfero destro, come per la musica) più facilmente si imprimeranno nella memoria con i loro contenuti (elaborati dalle aree del linguaggio, che sono concentrate invece nell´emisfero sinistro). L´equilibrio fra le due sezioni del cervello, notato dai ricercatori del San Raffaele a due giorni di vita, si sfalderà gradualmente per sfociare nella specializzazione dell´area sinistra del cervello, che avviene intorno ai cinque anni di età e si mantiene da adulti.
Ai filosofi greci che si interrogavano sul legame fra significato delle parole e realtà, alle ardite teorie sulla natura divina del linguaggio e al dibattito moderno sull´esistenza di una grammatica universale, le neuroscienze danno il loro contributo con gli strumenti che hanno a disposizione. «La lingua nasce da una combinazione di "nature" e "nurture", cioè di biologia e ambiente» riassume Perani. «Il fatto che i circuiti cerebrali del linguaggio siano pronti alla nascita conferma il ruolo della biologia. Ma quei rari bambini che sono cresciuti senza essere esposti a parole e discorsi, da grandi non hanno più imparato a parlare. Questo dimostra che anche l´ambiente è fondamentale». E Charles Darwin, più abituato a osservare e descrivere che a offrire conclusioni, forse si era avvicinato al giusto quando notava perplesso che "il linguaggio non è vero istinto, perché deve essere imparato". Ma allo stesso tempo "è differente dalle altre arti" perché il bambino ha "una tendenza istintiva a parlare, ma non certo a scrivere o fare il pane".

domenica 11 settembre 2011

l’Unità 11.9.11
Bersani a Pesaro «Con Sel, Idv, Verdi e Psi costruiamo il nuovo Ulivo»
«Noi figli della Carta e del 25 aprile. Il governo ha negato la crisi»
«Se il premier rimane lì porta l’Italia a fondo. Tocca a noi ricostruire»
Il leader del Pd alla Festa democratica di Pesaro: «L’Italia è umiliata sul piano internazionale». «Siamo un partito di patrioti, autonomisti e riformatori: è tempo di elezioni, ci vuole una riscossa dei progressisti»
di Simone Collini


L'emergenza e la forza, le menzogne e la responsabilità, l'umiliazione e l'orgoglio. L'Italia di oggi e l'Italia di domani. Pier Luigi Bersani chiude la Festa del Pd di Pesaro consapevole che per lui questo è il momento di massima pressione da quando è segretario, perché sono in corso sommari processi mediatici il cui obiettivo ormai è fin troppo chiaro, perché c'è chi soffia sul fuoco dell'antipolitica e «pifferai magici» pronti a passare all'incasso, perché chi dovrebbe collaborare alla costruzione di un'alleanza troppo spesso attacca per incassare uno zero virgola in più. Ma soprattutto perché c'è un governo da mandare a casa e il tempo a disposizione è poco. «Berlusconi deve togliersi di lì o ci porterà a fondo», scandisce nel microfono mentre Piazza del popolo esplode in uno sventolar di bandiere. «Non ci si insulti raccontandoci che si può andare avanti così fino al 2013. Questo sarebbe il disastro. Se non si è disposti a un percorso nuovo, si anticipi l'appuntamento elettorale. C'è un problema politico in questo Paese. Averlo negato ci ha portati sull'orlo del precipizio. Chi lo nega ancora si prende una gravissima responsabilità».
LE ACCUSE
Un messaggio al centrodestra che insiste con una manovra che «non ci mette in salvo» e che dovrebbe seriamente riflettere sulla proposta di «una transizione che sia affidata a un governo più credibile davanti all'opinione pubblica nazionale ed internazionale». Ma il messaggio è indirizzato anche a chiunque abbia «un ruolo di direzione o di orientamento nella società» e che in questi anni di crisi finanziaria col suo «conformismo è stato complice di chi ci ha portato fin qui». Qui, ovvero a un'Italia ridotta a «strapuntino dell'Europa e del mondo», la settima potenza industriale e fra le dieci nazioni più ricche «costretta a subire l'umiliazione di essere guardata come una zavorra, come un rischio per l'Europa»: «Li accusiamo di aver mentito agli italiani occultando ed ignorando la crisi e di aver aggravato la crisi con politiche dissennate. Li accusiamo di essersi occupati notte e giorno dei fatti loro e non dei fatti degli italiani. Li accusiamo di voler sopravvivere truccando le carte senza avere né la forza per governare né la fiducia degli italiani e di lasciare il Paese senza rotta e senza timone». E chi ha avallato tutto ciò col proprio silenzio? «Adesso almeno si prenda atto che il Pd ha sempre detto la verità e ha sempre avanzato le sue proposte alternative. Questo ci dà diritto di essere ascoltati come si ascolta una forza di governo».
MANIFESTAZIONE A ROMA
Applaude la piazza, applaude il gruppo dirigente seduto sul palco dietro il segretario, che anche nell’immagine dà il senso del rinnovamento a cui punta Bersani («la ruota girerà», assicura, lanciando una generazione «già sperimentata» e dicendo no a «faziosità e personalismi»): ci sono i membri della segreteria, i responsabili di dipartimento, alcuni presidenti di Regione, mentre la partecipazione dei big è limitata a chi ha ruoli ben precisi, dalla presidente Rosy Bindi al vicesegretario Enrico Letta ai capigruppo Anna Finocchiaro e Dario Franceschini. Bersani chiede a tutti un impegno ulteriore perché «tocca a noi – dice – ricostruire il Paese». L'annuncio che fa di nuovo esplodere la piazza è per una manifestazione nazionale che si terrà a Roma il 5 novembre, «a sostegno dell'Italia, delle nostre idee per l'Italia e della necessaria svolta politica». Una decisione presa nei giorni scorsi col ristretto gruppo dirigente, superando anche alcune pressioni a farla insieme anche a Idv e Sel. Bersani gioca la carta dell'orgoglio Pd, rivendicando la «forza e la responsabilità» di quello che «già oggi è il primo partito»: «Chi vuole veramente voltare pagina da Berlusconi e dalla Lega e aprire un cantiere di riforme non può pensare di prescindere dal Pd, sarebbe un'illusione».
Un messaggio indirizzato in più direzioni, visto che ormai è chiaro che c'è chi lavora per una politica che «si metta in coda al sedicente leader carismatico di turno che suona il peffero e non sai dove ti porta». A Di Pietro e Vendola, insieme all'offerta di «un patto politico e programmatico» ne aggiunge però un altro: «Dovrà avvenire fra soggetti che si rispettino. Non pensi di discutere con noi chi prendesse l'abitudine di punzecchiarci e attaccarci tutti i giorni pensando con qualche furbizia di guadagnare uno zero virgola». Altrimenti? «Chi intendesse applicare pratiche che già in passato hanno distrutto il centrosinistra, farà da solo perché qui non si scherza». Il patto però Bersani vorrebbe chiuderlo anche con l'Udc, e per questo rinnova dal palco di Pesaro un appello a «tutte le forze moderate che non si ritengono di centrosinsitra ma che intendono fare i conti con il modello plebiscitario e lavorare per una ricostruzione del paese su solide basi costituzionali».
CRITICHE SÌ, AGGRESSIONI NO
Ed è ancora giocando la carta dell’orgoglio che Bersani affronta la questione più spinosa, il coinvolgimento di Filippo Penati nelle inchieste sull'ex area Falck e sulla Serravalle. Il leader del Pd ci arriva dopo aver pronunciato il nome di Enrico Berlinguer, dopo aver detto che non vuole ricordarlo da qui solo con un applauso «ma con un impegno»: «Mai ci sarà da noi un diverso peso fra i diritti e le tutele di un politico, di un comune cittadino o di un immigrato, mai da noi un ostacolo al corretto svolgimento del compito della magistratura, che è quello di arrivare alla verità». Parte l'applauso, che poi si smorza quando spiega quasi nel dettaglio le modifiche allo statuto e le proposte di legge che il Pd presenterà per impedire i doppi incarichi e per garantire maggiore trasparenza sui costi delle campagne elettorali, e che poi torna a esplodere potente quando Bersani urla nel microfono: «È con la forza di questa assunzione di responsabilità e di questi comportamenti politici che diciamo attenzione! La critica la accettiamo, l'aggressione no. Non si facciano circolare contro di noi teoremi assurde, vere e proprie bufale o leggende metropolitane perché partono le denunce. Non passerà il tentativo di metterci tutti nel mucchio».
VA’ PENSIERO
Il sole è scomparso dietro il palazzo comunale, la camicia del leader Pd è ormai zuppa di sudore. «Riprendiamo il nostro cammino, riprendiamo la fiducia in noi stessi, riprendiamoci il futuro», scandisce Bersani chiudendo tra lo sventolio di bandiere. Abbraccia gli altri del gruppo dirigente, Carla Fracci che è voluta rimanere un giorno in più a Pesaro per ascoltare questo intervento. Parte la canzone «Cambierà», di Neffa. Un auspicio, una necessità. Il pomeriggio era invece iniziato sulle note del «Va’ pensiero». Dal pubblico non è stato immediata la comprensione del perché della scelta di un motivo di cui si è appropriata la Lega e qualcuno ha rumoreggiato. Ci pensa Bersani, poco dopo, a spiegarlo, dicendo che la sinistra non si farà più «sequestrare» le parole, «la paro-
la del 25 aprile, data sacra che abbiamo difeso e che nessuno cancellerà mai», o parole come libertà. «E non ci sequestreranno più canti, come Va’ pensiero. Basta, ce lo riprendiamo quel canto e lo riconsegniamo a tutti gli italiani».
Chiude, scende dal palco per stringere le mani delle prime file, per autografare le magliette con su scritto «o ragassi, siam mica qui a pettinar Bersani». Poi corre via, senza che la mamma di Valentino Rossi che è venuta fin qui per regalargli un cappelletto e una maglietta del figlio riesca a raggiungerlo.

l’Unità 11.9.11
Il comizio al sabato: oggi Bersani va da Benedetto XVI
Comizio di chiusura anticipato di un giorno: Oggi Bersani sarà ad Ancona per la messa di Benedetto XVI, a chiusura di un Congresso eucaristico dedicato ai temi del lavoro. Il leader Pd: «Con questo Papa si può interloquire».
di Simone Collini


E alla fine, quando su Pesaro cala il buio, si capisce anche perché per la prima volta il segretario fa il comizio di chiusura di sabato e non di domenica, come è sempre stata tradizione per le Feste dell'Unità prima e per quelle Democratiche poi. Quand'è sera, dopo il comizio in Piazza del Popolo e dopo il bagno di folla giù dal palco, Pier Luigi Bersani va in albergo a cambiarsi la camicia bianca che gronda sudore e poi si infila in macchina. La destinazione è a non molti chilometri: Ancona, dove questa mattina assisterà alla messa che Benedetto XVI celebrerà nell'area Fincantieri, al porto.
NON SOLO TRAFFICO...
Inizialmente la decisione di chiudere di sabato è stata presa per evitare di ingolfare le strade delle Marche con pullman di militanti de Pd che sarebbero andati ad aggiungersi alle almeno 70 mila persone (stima della Questura dorica) che oggi arriveranno per assistere alla chiusura del venticinquesimo Congresso eucaristico. Ma via via che si sono saputi tutti i dettagli di questa giornata fortemente caratterizzata dall'attenzione e la vicinanza al mondo del lavoro (tra le altre cose Joseph Ratzinger pranzerà con operai precari e cassintegrati della Merloni di Fabriano, della stessa Fincantieri e di altre realtà in crisi della zona) Bersani ha deciso di andare lui stesso ad assistere alla messa di un Papa che non ha mai nascosto di stimare. E di cui ha molto apprezzato la scelta simbolica dell'invito a pranzo di alcuni operai che hanno perso il lavoro, che come dice l'arcivescovo di Ancona, monsignor Edoardo Menichelli, in un'intervista all'Osservatore Romano, «è un segno di vicinanza e di attenta sensibilità».
Di Benedetto XVI Bersani parla anche nel libro intervista scritto con Claudio Sardo e Miguel Gotor (Per una buona ragione, Laterza), dicendo che «a dispetto di qualche luogo comune e di qualche valutazione superficiale» Ratzinger ha «validi strumenti per mettersi in contatto con la modernità, in modo amichevole e al tempo stesso sfidante»: «Benedetto XVI invoca una ragione che non si autoriduca a ciò che è sperimentabile e un diritto naturale che non accetti il perimetro definito da scienziati e biologi. È un' impostazione con la quale non si fatica a interloquire». Bersani, che non crede al ritorno all'unità politica dei cattolici e ritiene invece «ineludibile» per un partito riformista il confronto con la dottrina sociale della Chiesa, dice anche che questa stessa dottrina sociale, «dalla Rerum novarum di Leone XIII alla Caritas in veritate di Benedetto XVI ha sempre avuto ambizioni molto più grandi che non quelle di ispirare un partito: è stato il terreno del confronto con la modernità e il divenire storico, è stato il modo per entrare nel vivo della dialettica sociale e offrire orientamenti non solo ai credenti».
IL LIBRO IN VATICANO
Una copia del libro, nelle scorse settimane, è stata anche fatta arrivare in Vaticano e Joseph Ratzinger ha fatto sapere con un biglietto recapitato al segretario del Pd di aver avuto modo di sfogliarlo e di apprezzare diversi passaggi.
Oggi, nelle dieci ore che Benedetto XVI passerà ad Ancona, contatti diretti non dovrebbero esserci. E del resto non è questo che cerca Bersani, assicura chi sapeva del viaggio deciso all'ultimo minuto dal segretario. Il leader del Pd andrà lì per ascoltare, viene spiegato. Ma è chiaro che la sua presenza ad Ancona costituisce anche un messaggio lanciato dall'altra parte.

Repubblica 11.9.11
L’arte della fuga
di Concita de Gregorio


Non può ricevere i pm a palazzo Chigi, perché deve andare a Strasburgo. È stata una ricerca frenetica, venerdì sera, a Palazzo Grazioli: tutti lì a cercare fra la posta già buttata le mail cancellate gli inviti nemmeno aperti.
Ci sarà pure un invito istituzionale, no? Trovatelo, guardate anche nel cestino. Eccolo presidente, ci sarebbero Barroso e Van Rompuy disponibili. Chi? Van Rompuy, il presidente del Consiglio europeo. Va bene, funziona. Prendete appuntamento con questo. Preparatemi una scheda personale. "Van Rompuy, fiammingo, cultore di poesia ed esperto di Haiku giapponesi, amante dell´ornitologia, nel tempo libero solito ritirarsi in preghiera in un´abbazia benedettina". Sarebbe bello assistere al colloquio riservato, sì. Caldamente sconsigliate battute ornitologiche. Meglio, nel caso, la zia suora.
Meglio improvvisare un haiku piuttosto che spiegare ai due magistrati napoletani perché tiene a libro paga due ceffi del calibro di Lavitola e Tarantini. Parte offesa, certo. In questo caso Silvio B. è la vittima: ricattato, si suppone. Ma la figura del ricattato in giurisprudenza, glielo avrà spiegato Ghedini, è diversa da quella del concusso. È una tipologia precisa e di confine. Un ricatto si esercita su qualcuno che sa di essere ricattabile: si chiede a chi si sa che dovrà dare, per qualche motivo noto ad entrambi. Infatti il ricattato dà: paga. In caso contrario, se non ha niente da temere, denuncia il tentativo e fa arrestare i malfattori proclamando la sua estraneità al motivo del ricatto. Questo non è avvenuto, assolutamente no. Al contrario: i due stipendiati avevano con lui un filo diretto, accesso continuo al suo numero di telefono privato del resto in possesso di moltitudini di transessuali brasiliane e giovani bisognose di aiuto di varie nazionalità. Al contrario, all´impressionante direttore dell´Avanti! già visto in azione nel reperimento di carte sul conto di Fini e assai spesso in viaggio di lavoro per conto della vittima del ricatto medesimo, ha detto proprio al telefono: "Resta dove sei". Non tornare in Italia, ti stanno per arrestare, non hai letto Panorama? Te lo dico io: resta lì, lontano da questo "Paese di merda".
Il telefono, che dannazione. Si convochi subito una riunione a Palazzo per scrivere questa maledetta legge bavaglio. Presto, Verdini. Presto Lupi, Alfano, che vi ho nominati a fare? Vogliamo smetterla di leggere sui giornali quel che dico? Sono due anni che ve lo chiedo, e allora? Perché vedete, se uno è parte lesa – vittima di un ricatto, appunto – non rischia nulla in teoria ma c´è sempre la possibilità che cada in contraddizione durante il racconto, che so?, che non sappia spiegare bene perché Marinella dava i soldi a quel tipo o perché gli ha detto di non tornare, appunto, se era vittima di un sopruso. E allora, in flagranza di reato, ti arrestano. Scoprono che menti, e non ci sono immunità che tengano. E´ automatico, proprio. Meglio non rischiare. Meglio gli uccelli di Van Rompuy.
Sarebbe grottesco, tutto questo, se non fosse tragico. Tragica l´indifferenza degli italiani cullati nel sonno dagli editoriali del Tg1 per cui l´arte della fuga si declina solo in musica, altrimenti è una parola tabù. Silvio B. è un uomo in fuga, invece. L´Italia ha un presidente del consiglio che molto probabilmente un giorno sparirà. Se falliranno scudi, legittimi impedimenti, lasciapassare concordati con le opposizioni – sottovoce da tempo se ne parla – un giorno fuggirà. Il referendum di maggio è stato un segnale ignorato. C´è una parte del Paese che lo sa. Come diciamo da tempo, oltre e prima che politico il danno devastante di questo esempio di condotta è culturale. Noi qui a convincere i nostri figli che la decisione dei professori non si discute, che se in greco o in disegno ti bocciano non si fa ricorso ma si studia di più, che se ti fanno la multa perché hai parcheggiato in terza fila la devi pagare, che le regole si rispettano, che non si salta la coda con un trucco e non importa se gli altri lo fanno. Che le decisioni delle autorità si rispettano. Un lavoro di resistenza improbo, nel mondo dei Lavitola. Facciamolo per i nostri figli, per il tempo che verrà: resterà traccia, sappiatelo, di chi ha detto di no. Mandiamo una mail a Van Rompuy, che a Berlusconi martedì una domanda la faccia anche lui: what about Tarantini, mr. president?

La Stampa 11.9.11
La scuola dei tagli a rischio “implosione”
La cura Tremonti-Gelmini, l’esercito di precari in attesa di un posto, istituti accorpati e risorse all’osso: il sistema è vicino al collasso
di Michele Brambilla


Domani le insegnanti della scuola elementare Aristide Gabelli di Torino riceveranno un testo di Roberto Benigni. S’intitola «Amare il proprio lavoro». È il regalo di primo giorno di scuola della loro direttrice, Nunzia Del Vento, che spiega: «L’ho scelto perché noi insegnanti possiamo continuare solo se c’è quello: l’amore per il nostro lavoro. Non ci rimane altro».
L’anno scolastico che sta per partire è il primo dopo la serie di cure - qualcuna da cavallo - somministrate da almeno tre ministri - Moratti, Fioroni e Gelmini - con l’ausilio di uno specialista, il dottor Tremonti. Tagli e ristrutturazioni: tutto per far quadrare i conti che non tornano. «La cura è finita e la scuola è depressa», dice Nunzia Del Vento, che oltre che dirigere la Gabelli e altre tre scuole è vicepresidente dell’Asapi, l’associazione delle scuole autonome della sua regione. «In Piemonte», dice tanto per fare un esempio, «mancano 182 dirigenti su 650 scuole». È l’effetto della manovra economica di luglio: sono stati decisi gli accorpamenti di molte scuole, così parecchi direttori o presidi ne avranno più di una da gestire.
Classi ridotte
Se ci mettiamo a spiegare nel dettaglio provvedimenti e interventi delle varie riforme che ora arrivano tutte a regime, non ne usciamo più. Troppo complicato: roba da specialisti. La sintesi è che molto è stato tagliato, per cui per forza di cose il «prodotto» offerto dalla scuola non può essere migliorato. Anzi. «Lei mi chiede quali sono i motivi di sofferenza che ci si presentano quest’anno?», dice il professor Roberto Pellegatta, presidente nazionale DiSal (dirigenti scuole autonome e libere). «Ma il suo giornale non basterebbe a contenerli tutti!». E comincia il cahiers de doléances: «I tagli sono stati fatti in modo indiscriminato: come se un giardiniere tagliasse tutto alla stessa altezza, senza tenere conto che oltre all’erba ci sono le rose e i gerani. Hanno ridotto le ore di lezione. Hanno aumentato il numero di alunni per classe per ridurre il numero delle classi. Hanno ridotto il numero dei dirigenti: un terzo delle scuole italiane non avrà un preside a tempo pieno. Tutto questo cambierà le relazioni interne alle scuole, che da comunità educative diventeranno apparati burocratici. La didattica ne risentirà».
Ricambio mancato
Eppure questo è l’anno in cui il ministero ha cominciato davvero a mettere a posto i precari, trasformandoli in insegnanti di ruolo. «Sì - dice Pellegatta - ma il numero dei messi in regola corrisponde a quello di coloro che sono andati in pensione, anzi il saldo del turn over è negativo. In Italia 137.000 cattedre restano coperte da precari. Vuole un esempio concreto? Io sono preside di un istituto professionale, il Meroni di Lissone: su 102 insegnanti, 42 sono supplenti. È come se un’azienda cambiasse ogni anno un terzo del suo personale. Che qualità potrebbe garantire un’azienda del genere?». Il Berchet è uno dei due (l’altro è il Parini) licei classici più noti di Milano. «La triste verità - dice il preside, Innocente Pessina - è che tutti gli interventi fatti in questi ultimi anni sulla scuola hanno avuto una sola finalità: tagliare i costi. Nessuna decisione è stata presa per una preoccupazione pedagogica». Taglia di qua e taglia di là, la scuola statale sta sempre più diventando, secondo il professor Pessina, come una scuola privata: «Nel senso che se lo studente vuole un servizio, deve pagarlo. Prima ad esempio avevamo una psicologa, e le assicuro che gli studenti che hanno bisogno di un’assistenza di quel tipo sono tantissimi: bene, adesso la psicologa ce la dobbiamo pagare. Dobbiamo chiedere agli studenti contributi per servizi che un tempo riuscivamo a far rientrare nel budget: come il gruppo teatrale. E ormai dobbiamo chiedere un contributo volontario - 125 euro all’anno - anche per coprire i costi di gestione ordinaria». E beato lui che se lo può permettere perché sta in centro a Milano, pensa Nunzia Del Vento. La sua scuola Aristide Gabelli è a Barriera Milano, uno dei quartieri più difficili di Torino, da sempre popolato da immigrati: prima quelli che venivano dalle campagne, poi quelli del Veneto, poi quelli del Mezzogiorno. Adesso arrivano da tutto il mondo. «Io certo non possono chiedere 125 euro all’anno di contributo volontario. Due anni fa ne chiesi 13 e quasi mi crocifiggevano, metà delle famiglie non pagò, e ora non chiedo più niente».
Ricchi e poveri
Le varie riforme, dice, hanno acuito il divario tra zone ricche e zone povere. «Io per fare il tempo pieno avrei bisogno di 60 insegnanti, e ne ho 58: sembra una piccola differenza, ma due in meno fanno saltare tutto. Tre anni fa avevo 108 insegnanti nei miei quattro plessi, ora ne ho cento. Stanno saltando i modelli pedagogici, presto le famiglie avvertiranno il calo del servizio». Enzo Pappalettera è il responsabile della scuola per la Cisl piemontese. Prevede una grossa delusione da parte dei lavoratori della scuola: «C’è l’idea, sbagliata, che la situazione si sia ormai assestata perché i tagli sono finiti. Ma ci si accorgerà presto che l’effetto delle “cure” degli anni scorsi si sta allargando a tutte le classi. Ad esempio, alle elementari non ci sono più i numeri per fare come prima né il tempo pieno né il tempo normale. Prima c’era un insegnante per le materie letterarie, uno per quelle scientifiche e uno per quelle artistiche. Adesso quasi tutti devono fare quasi tutto, e si perde qualità dell’insegnamento». Molte scuole dovranno accorparsi perché per mantenere l’autonomia (che vuol dire: avere un preside e un bilancio proprio) dovranno diventare istituti comprensivi di medie e di elementari, e avere almeno mille studenti. «Sarà come comporre un puzzle - dice Pappalettera -, molte scuole per accorparsi dovranno prima smembrarsi. Insomma partirà un taglia e cuci che provocherà un caos pazzesco. E ci sono solo quattro mesi di tempo per fare tutti gli accorpamenti».
Protesta continua
Sarà un anno di grandi proteste? Un nuovo Sessantotto? «Temo che più che una ribellione ci sarà un’implosione», dice Pessina, il preside del Berchet di Milano. Eppure, tagliare bisognava. La scuola era diventata, come si dice spesso, un ammortizzatore sociale. «Sì, gli sprechi c’erano - dice Pessina -, ma non sono stati tagliati gli sprechi, sono stati tagliati i servizi. Ed è un grave errore di prospettiva, perché la scuola non può essere considerata solo un capitolo di spesa». Dice che la scuola è invece il miglior investimento per il futuro di un Paese, e lo dicono un po’ tutti, ma sembra che non ci creda più nessuno.

Repubblica Roma 11.9.11
"I giovani che hanno sdoganato la perversione"
La psicologa Oliverio Ferraris: "Sembrano coraggiosi ma sono persone fragili"
intervista di Cecilia Gentile


Chi fa questo ha bisogno di prescrizioni, di avere un libretto di istruzioni anche nel sesso. Sono subalterni e passivi
Vorrei sapere come si fa a definire "scuole" quelle di bondage Se insegnano il suicidio andrebbero chiuse

Professoressa Ferraris, che un quarantenne o un cinquantenne decidano di praticare sesso estremo ormai lascia quasi indifferente l´opinione pubblica, ma che lo facciano ragazzi ventenni, fino a morirne, questo fa effetto. Come interpreta il fenomeno?
«Questi giovani sono vittime di tutto quello che arriva in rete. E in rete, come nei film che adesso circolano, ci sono sempre situazioni estreme, anche nelle pratiche erotiche. Molti hanno l´idea di dover provare tutto, come se altrimenti perdessero qualcosa. È un atteggiamento che rivela una grande fragilità psicologica. Questi ragazzi sono incapaci di dire no, di scegliere, non sanno o non vogliono accettare i propri limiti». Una vita da spettatori, con gli spettatori che si illudono di essere protagonisti mettendo a rischio la propria vita, non sottraendosi. Per Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza, quello che sembra coraggio è in realtà una grave forma di subalternità e di passività.
Perché professoressa?
«Queste persone hanno bisogno di prescrizioni, di avere un libretto di istruzioni, anche nel sesso. Sono incapaci di divertirsi in modo semplice, probabilmente sono cresciuti davanti agli schermi, hanno fatto vita sedentaria, non hanno provato il piacere di organizzare giochi insieme agli altri».
La ragazza morta era una studentessa fuori sede di Lecce, andava all´università.
«Non significa niente. Ormai è pieno di persone scolarizzate, ma non culturalizzate. Una persona semplicemente scolarizzata può essere impermeabile alla cultura, che vuol dire anche possedere una scala di valori».
Una scala di valori che non esiste più?
«Sì, pensiamo soltanto alla definizione di questa pratica sessuale estrema. Viene chiamata gioco erotico. Un tempo si sarebbe chiamata perversione. Per me è ancora perversione. Io voglio chiamarla così. Il cambio del linguaggio è sintomatico. Usando la parola gioco, e non perversione, si dà il via libera, si sdogana questa pratica, si fa in modo che sia una cosa assolutamente normale, ogni reazione viene neutralizzata».
Le scuole di bondage stanno crescendo. Le due ragazze e l´ingegnere che lo stavano praticando nel garage di Settebagni frequentavano a Roma la stessa "comunità".
«Vorrei sapere come si fa a chiamarle scuole... Dovrebbero esserci controlli su queste attività. Se le scuole insegnano a suicidarsi bisognerebbe chiuderle».
I genitori della ragazza morta sono insegnanti, il fratello lavora in polizia, la mamma è nell´Azione cattolica.
«Per questa famiglia provo solo una gran pena. Non mi sento di accusarli di niente. A volte, nonostante tutti gli sforzi della famiglia, il contesto, la vita, le scelte personali portano da un´altra parte. Il problema è che molto spesso tutta questa messe di informazioni veicolate arrivano a persone assolutamente impreparate a gestirle. Non tutti hanno la maturità di distinguere, la coscienza dei propri limiti, che è anche una grande prova di maturità. Ormai manca una formazione umana, etica, civile. Tutto questo va insegnato in famiglia, a scuola e nella società, le tre agenzie educative che non funzionano più».

l’Unità 11.9.11
Tre persone uccise e mille feriti nell’attacco dell’altra notte. Ambasciatore e funzionari in salvo
La giunta militare evoca il pugno di ferro mentre per lo Stato ebraico scatta l’allarme rosso
Si agita il Nemico sionista per affossare la «Primavera araba»
Per gli ispiratori dell’assalto alla sede diplomatica israeliana la vera minaccia è lo sviluppo del processo democratico. Per contrastarlo puntano a innescare lo scontro con Tel Aviv
di Umberto De Giovannangeli


Vogliono trasformare Piazza Tahrir, la piazza delle libertà, nella piazza dell’odio. Non più dando in pasto alla folla un «faraone» morente ma ora resuscitando «il Nemico» esterno, quello che nei momenti di crisi è servito come collante interno: lo Stato ebraico. L’assalto all’ambasciata israeliana al Cairo è anche l’assalto contro la «Primavera araba», contro la sua agenda politica che mai, nei 18 giorni che hanno cambiato il corso della storia nel Paese chiave del Medio Oriente, ha avuto al suo centro il vecchio armamentario anti sionista o anti americano. A bruciare non sono solo le bandiere con la Stella di Davide; a bruciare rischia di essere quella speranza di cambiamento che è stata alla base della rivoluzione «jasmine» in Tunisia come della rivolta popolare che ha determinato il crollo del trentennale regime di Hosni Mubarak. La leadership israeliana non ha fatto nulla per interagire positivamente con la «Primavera araba», percependola come un problema e non come una risorsa con cui interagire. Ma questa miopia politica è stata sfruttata cinicamente da quanti, nel mondo arabo, puntano sulla destabilizzazione del Medio Oriente: la guerra, in questa logica devastante, è sempre meglio di dover pagare il prezzo della democrazia. L’assalto alla sede diplomatica israeliana ha molto a che fare con le vicende interne, e segna pesantemente il clima di attesa e di tensione col quale l'Egitto guarda a due avvenimenti imminenti: la deposizione oggi i al processo Mubarak di Hussein Tantawi, capo del consiglio supremo delle forze armate la giunta militare che regge il Paese dalla deposizione dell'ex raìs l'11 febbraio scorso e l'arrivo domani del premier turco Recep Tayyip Erdogan, considerato da molti come un esempio da seguire per la linea dura che ha adottato nei confronti di Israele. Già da giorni si temeva che la manifestazione in piazza Tahrir indetta, come di consueto, nel giorno della preghiera del venerdì, avrebbe costituito l’occasione per nuove proteste davanti all'ambasciata israeliana, dove si erano già tenute manifestazioni contro l'uccisione di cinque guardie di frontiera egiziane, dopo l'attentato a Eilat, oltre confine, a fine agosto. A rendere ancora più tesa la situazione era venuta la decisione delle autorità egiziane di costruire un muro di protezione davanti alla sede diplomatica, solo qualche giorno dopo la decisione della Turchia di allontanare l'ambasciatore israeliano per il rifiuto di scusarsi per l'assalto alla Mavi Marmara, la nave turca della Freedom Flottilla per Gaza, nel maggio del 2010. Una mossa, quella del muro, bollata come inopportuna da molti egiziani, che l'hanno vista come il segno tangibile di un approccio troppo morbido nei confronti di Israele. In questo quadro si è inserita, a sorpresa, la decisione della Corte che processa Hosni Mubarak per le violenze contro i manifestanti, di ascoltare i vertici militari e politici attuali e precedenti, a partire dal capo della consiglio militare, per venti anni ministro della Difesa di Mubarak. Tantawi è già da tempo nel mirino dei manifestanti, che anche venerdì hanno chiesto di accelerare la transizione ad un regime democratico retto da civili. La sua testimonianza, anche se il presidente della Corte Ahmed Rifaat ha detto che dovrà rimanere assolutamente top secret, è attesa per sapere quale sarà la sua versione dei fatti e se contribuirà o meno a scagionare l'ex presidente egiziano dall'accusa di essere coinvolto nella repressione che ha provocato la morte di oltre ottocento manifestanti. In questo clima di incertezza, agitare il Nemico esterno può servire a stornare l’attenzione dalla vera posta in gioco: realizzare in Egitto un sistema realmente democratico, effettivamente pluralista, qualcosa di altro e di più di una sorta di «mubarakismo senza Mubarak», fondato su un patto di potere tra il vecchio establishment economico-militare e i Fratelli musulmani. In questa chiave, l’irrisolta «questione palestinese» viene piegata, come spesso è accaduto nei corso degli anni, a fini di potere interno e regionale a cui sacrificare il diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente. I «piromani» mediorientali vogliono mettere il loro marchio sul dibattito che si aprirà all’Onu, tra dieci giorni, sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Far deragliare quel dibattito, insanguinarlo, è uno dei loro obiettivi. L’altro obiettivo non è meno significativo: è la «Primavera araba», entrata nella sua fase più delicata, quella della costruzione della democrazia. Per un potere che vuole perpetuarsi, è questa la minaccia mortale.

La Stampa 11.9.11
I giovani delusi di piazza Tahrir “Ma noi vogliamo pane e libertà”
di Francesca Paci


Il day after l’attacco all’ambasciata israeliana del Cairo il popolo di piazza Tahrir è lì a chiedersi come sia stato possibile che il blitz di poche centinaia di esagitati oscurasse mediaticamente la grande manifestazione per una transizione rapida alla democrazia. Non che qualcuno solidarizzi con l’aggredito, giammai: malgrado Camp David, l’antipatia egiziana per Israele è viscerale. Il muro contro muro però è un’altra cosa, figuriamoci l’ipotesi d’una guerra diplomatica o addirittura reale.
«Israele non è un nostro problema, bastava guardare i giovani poveri e ignoranti all’assalto dell’ambasciata per capire che piazza Tahrir non c’entra» osserva l’architetto trentenne Asma M., rivoluzionaria della prima ora. Il complottismo è l’eredità del passato che gli egiziani faticheranno di più a scrollarsi di dosso. Chi ha interesse a sfidare Tel Aviv? Asma non ha dubbi: «E’ chiaro da giorni che l’esercito vuol rinegoziare il trattato del ’79 a vantaggio dell’Egitto in modo da recuperare la stima della gente. Nessuna rottura, no. Gli basterebbe aumentare la propria presenza nel Sinai per mostrare i muscoli e controllare al tempo stesso gli islamisti».
L’esercito, già. L’eroico alleato del 25 gennaio mutatosi in breve in avversario di cui diffidare. Così gli slogan usati all’inizio contro il Faraone sono stati prontamente riadattati al nuovo nemico e ieri invece di «iascott iascott Hosni Mubarak» piazza Tharir intonava «iascott iascott hukmet el aaskary» (via via il consiglio militare».
«Siamo cofusi dopo i fatti di venerdì all’ambasciata, il punto è che soldati e poliziotti sono ovunque e siamo diventati sospettosi di tutti, in piazza si parla meno di strategia politica e qualcuno prende iniziative tattiche di testa sua», ammette Ali Abdelkader, 27 anni, antropologo. La sua coetanea avvocato Nermine condivide, anche se non auspica lo scisma con l’esercito: «Sarebbe la fine della rivoluzione, dobbiamo premere ma non rompere». Nelle ultime settimane però, gli studenti pionieri del 25 gennaio si sono un po’ ritirati da Tahrir lasciando il campo ai poveracci che con la nuova libertà non riescono a sfamare la famiglia. Gente come Huda Zahr, 39 anni, casalinga, 5 figli di cui due militari che portano a casa insieme 300 lire egiziane al mese (circa 40 euro): se un chilo di carne costa 60 lire, quanta ne mangiano in casa Zahr?
«Non s’è udito uno slogan politico all’ambasciata israeliana, ad attaccare sono stati gli stessi giovani e diseredati che prima e dopo hanno assaltato il ministero dell’Interno e l’ambasciata saudita», spiega Hisham Kassem, intellettuale ed ex editor del giornale Masri al Youm. È convinto che la via per la democrazia sia accidentata ma tutto sommato in vista: «L’alleanza con Israele è solida e non traballerà. Bisogna capire però che questo è un popolo frustrato, emerso da 30 anni di oppressione e per il 40% costretto a vivere sotto la soglia di povertà. Mubarak usava mostrarsi amico d’Israele all’esterno ma i suoi media propagandavano l’antisionismo in modo da fomentare i radicali e rendersi così indispensabile a controllarli. Ci vorrà tempo per eliminare i frutti di quella semina».
La parola d’ordine è tempo. Ma non ce n’è tantissimo. Il G7/G8 di Marsiglia ha destinato 80 miliardi di dollari ai Paesi della primavera araba, Egitto compreso, ma si attende collaborazione. E anche Washington chiede rassicurazioni in cambio del solito miliardo di dollari versato ogni anno all’esercito egiziano. Le elezioni incombono e la prevedibile vittoria dei Fratelli Musulmani lascia aperte molte domande. Il vento antisraeliano della strada anticipa la svolta islamista? Gli analisti nicchiano: che interesse avrebbero i Fratelli a soffiare sul fuoco prima del voto?
Il rapporto con Israele è come il cerino incandescente che nessuno vuole in mano. «Abbiamo il processo di Mubarak a cui pensare» taglia corto il pasionario trentunenne Ahmed. Oggi depone l’ex braccio destro del raiss Tantawi, attuale capo del consiglio militare alla guida del Paese. Tutte le orecchie saranno per lui almeno fino a domani, quando arriverà al Cairo il premier turco Erdogan: gli egiziani, sotto sotto, sperano di passare il cerino a lui.
L’assalto all’ambasciata ha oscurato le proteste contro la giunta militare sempre più impopolare

Repubblica 11.9.11
Stato ebraico in isolamento
I "falchi" della destra hanno alienato anche l’alleato americano
Non c’era mai stata un´incrinatura tanto seria dei rapporti di amicizia con la Casa Bianca
Il trattato di pace era stato per un trentennio l´architrave della sicurezza israeliana
di Sandro Viola


I giornali israeliani paragonano l´invasione d´una folla inferocita nell´ambasciata di Israele al Cairo, ad uno "tsunami politico". Nell´espressione c´è un po´ d´enfasi.
Ma è vero che l´assalto ad un´ambasciata (tre morti e mille feriti tra i manifestanti), la fuga dell´ambasciatore con la famiglia e i collaboratori, non è un avvenimento di tutti i giorni. E in più, i fatti accaduti la notte tra venerdì e sabato nella capitale egiziana sembrano delineare una svolta grave: il deterioramento, e in prospettiva la possibile rottura, del trattato di pace del ‘79 tra Egitto e Israele, che era stato per un trentennio l´architrave della sicurezza israeliana.
Lo Stato ebraico non aveva conosciuto sinora un isolamento così profondo e rischioso come quello che sta vivendo. In un paio di mesi, sono infatti intervenute modifiche assai rilevanti della situazione d´Israele nel contesto regionale. La rottura con la Turchia, che era stata per vari anni un alleato strategico e una fonte di cospicui rapporti economici. La porosità della lunghissima frontiera del Sinai, un tempo presidiata oculatamente da Hosni Mubarak e oggi aperta, invece, al contrabbando d´armi destinate ad Hamas, e alle infiltrazioni terroristiche. Il caos siriano, che ha già prodotto due tumultuosi attacchi di profughi palestinesi in Siria contro le postazioni israeliane sul Golan. Una quasi totale interruzione dei rapporti con l´Autorità palestinese in Cisgiordania. Mentre sul fronte settentrionale, la frontiera libanese è sempre più controllata dagli Hezbollah.
Certo, gli Stati Uniti non vogliono e non possono voltare le spalle a Israele. Ma il pessimo rapporto che s´è da tempo instaurato tra il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente Obama, contribuisce anch´esso all´isolamento. Così, salvo che si presenti un pericolo concreto per la sicurezza d´Israele, è difficile che da Washington arrivino segni di amicizia e solidarietà così calorosi e convincenti come in passato. E´ più d´un anno, infatti, che l´amministrazione Obama si è convinta che la politica del governo Netanyahu stia mettendo a rischio gli interessi degli Stati Uniti nella regione.
Il maggiore responsabile di questo isolamento d´Israele, scriveva giorni fa Roger Cohen sul New York Times, è stato Israele stesso. Cohen attribuiva ad una inguaribile "arrogance" israeliana, tutti i gesti che hanno man mano danneggiato i rapporti con i paesi che nei decenni scorsi erano stati a fianco dello Stato ebraico. Le nuove costruzioni nelle colonie in Cisgiordania, e nello stesso tempo il sostanziale rifiuto di negoziare con i palestinesi. Il rifiuto di scuse formali alla Turchia per l´abbordaggio, l´anno scorso, d´una nave carica di pacifisti, che fece nove morti di nazionalità turca. Gli atteggiamenti di sovrana indifferenza nei confronti delle critiche dell´Unione europea. La sistematicità delle reazioni eccessive, troppo spesso assai sanguinose (come l´uccisione di cinque militari egiziani a metà agosto), contro ogni sia pur vaga minaccia alla sicurezza israeliana. E infine la seria incrinatura del rapporto di tradizionale amicizia con la presidenza degli Stati Uniti, qualcosa che non era mai avvenuto dalla fondazione d´Israele sino ad oggi.
La spiegazione degli strappi israeliani, è sin troppo semplice. Netanyahu vuole che il suo governo duri, e per questo non s´è mai opposto al suo maggiore partner nella coalizione, il leader della destra (se non si deve dire estrema destra) Avigdor Lieberman. Lieberman non vuole il negoziato con i palestinesi, ritiene che la Cisgiordania debba restare ad Israele, riceve l´ambasciatore turco ma lo lascia in piedi per tutta la durata del colloquio, e quando è scoppiata la rivolta egiziana ha proposto, perché il nuovo regime capisca di non poter osare azioni di forza contro Israele, il bombardamento della diga di Assuan. Così, invece di mettere a fuoco una strategia geopolitica con cui fronteggiare le novità intervenute nel quadro regionale (le rivolte arabe soprattutto), Netanyahu non ha fatto che aggravare l´isolamento.
E questo mentre Israele vive una vigilia molto aspra e pericolosa. Il 20 settembre, infatti, i palestinesi presenteranno all´Assemblea generale dell´Onu la richiesta di costituire uno Stato indipendente della Palestina. In pratica, dunque, i due Stati di cui si parla da anni: Israele e la Palestina. Lo stato maggiore dell´esercito e i vertici della polizia s´attendono grandi e tumultuose manifestazioni della folla palestinese in appoggio alla richiesta. Sono già stati distribuiti lacrimogeni e bombe carta ai coloni, sono pronte autoblindo con gli idranti che scaricheranno sulla folla 2000 litri di liquidi puzzolenti, e l´esercito ha previsto vari spostamenti di truppe.
Intendiamoci: il voto dell´Assemblea generale conta, ma molto di più conta quello del Consiglio di sicurezza. E nonostante abbia detto più volte di guardare alla formula dei "due Stati" come la sola via d´uscita possibile dal conflitto israelo-palestinese, il governo americano si opporrà nel voto al Consiglio di sicurezza alla richiesta dei palestinesi. In altre parole, gli Stati Uniti non negheranno neppure in questa circostanza la loro protezione ad Israele. Ma all´Assemblea generale sembra molto probabile, invece, che i palestinesi ce la faranno, ottenendo il voto favorevole d´una maggioranza dei paesi membri dell´Onu. Un voto senza conseguenze politiche immediate, è vero, ma di vasta risonanza e con un enorme valore simbolico.
Netanyahu ha parlato ieri sera al paese. Ha espresso la sua gratitudine agli americani per essere intervenuti sul governo egiziano chiedendo l´invio di grosse forze di polizia a sedare i tumulti attorno all´ambasciata. E ha aggiunto che malgrado «i fatti gravissimi» avvenuti al Cairo, Israele vuole mantenere con l´Egitto gli stessi buoni rapporti degli anni scorsi: e per questo l´ambasciatore israeliano tornerà appena possibile nei suoi uffici. Un discorso, insomma, conciliante. Ma che certo non basta a dissipare l´inquietudine che in Israele avevano avvertito già all´inizio della cosiddetta "primavera araba". I "media" americani ed europei applaudivano entusiasti, in quei giorni, la fine delle dittature e l´avvio delle democrazie. Ma gli israeliani no, non applaudivano. Avevano subito capito che per loro si stavano preparando tempi difficili.

Il Fatto 11.9.11
Frattini, il liberatore della Libia
di Furio Colombo


Pare che sia Franco Frattini, e non tutta la messa in scena dei ribelli libici e della Nato, il vero liberatore della Libia. Se lo state ad ascoltare nell’assemblea delle Commissioni Esteri della Camera e del Senato, lo scorso mercoledì 7 settembre, ecco che cosa vi annuncia. Vi annuncia che l'Ambasciata italiana a Tripoli (un edificio bruciato dalle cantine al tetto) è aperta, funziona, con il tricolore che sventola non si sa da quale pinnacolo. Non esistono prove o fotografie del glorioso evento, ma l'annuncio è sempre stato il pezzo forte (e l'unico) di questo governo. Vi annuncia che l'Italia ha ricostruito tutte le condotte di acqua potabile di Tripoli, rendendo possibile il ritorno della vita normale. Vi annuncia (cito) che “l'Italia sostiene tutti i tentativi in corso negoziando con tutte le tribù”, benché non vi sia traccia né notizia di tale negoziati e neppure di contatti con entità diverse che finora non si sono ancora coalizzate.
STRANAMENTE il ministro Frattini, che pure è – ci garantisce – il vero deus ex machina della nuova Libia, non ci dice nulla delle carceri di Gheddafi, se siano state aperte, se siano state svuotate, se siano usate per rinchiudere i mercenari (veri o presunti) e collaborazionisti, e sotto quale autorità, e con quali garanzie. Eppure era stato lui ad annunciarci, in piena guerra, che Gheddafi stava aprendo le sue prigioni per riversare sull'Italia i suoi peggiori criminali. Ci ha detto di avere “fonti di servizi segreti” sull'argomento. Alle Commissioni riunite Frattini ha detto (giuro) che è merito dell'Italia e del governo italiano se questo non è avvenuto, ovvero se una sua affermazione falsa si è rivelata falsa. Poi ci ha assicurato che (cito) “l'Italia è in testa” fin da maggio affinché si realizzi l’accordo di associazione tra Unione europea e Libia, e sia convocata entro nove mesi (avete letto bene, nove mesi) l’Assemblea costituente che darà alla Libia libera una nuova Costituzione e chiamerà il popolo libico alle urne.
Ma niente paura, questa non è un’iniziativa o un piano politico. Solo annuncio. Dentro l'Italia, se quegli impiccioni dei mercati non disturbassero, funzionerebbe ancora , data la benevola condiscendenza del sistema di informazione italiano e delle opposizioni, gentilissime, al governo di Arcore. Per essere utile e preciso, il ministro Frattini ha voluto annunciare anche “le priorità”, tanto non costa niente, è solo un annuncio. Però rivelatore. Ecco: primo, il controllo delle frontiere; secondo, bloccare “il traffico di esseri umani” (strana definizione per il fiume di disperati che fugge dallo sterminio e dalla fame del Corno d'Africa; eppure persino il ministro degli Esteri Frattini dovrebbe sapere della guerra ventennale e della spaventosa carestia che tormentano Somalia, Eritrea, Etiopia). Ma tutto ciò serve per introdurre alla frase detta, quasi con candore, da un uomo la cui faccia tosta deriva anche da questa qualità rara in politica, il candore. Ha detto, il 7 settembre 2011 il ministro degli Esteri Frattini: “Il Trattato di amicizia e partenariato con la Libia (nel trattato originale era “la grande Jamahirya libica”) sarà riattivato. Pensate che è la stessa persona che, all'inizio dell’operazione franco-inglese, non ancora Nato, a cui l'Italia aveva offerto le basi ma non gli aerei, aveva detto alla Camera che “il trattato è sospeso”. Dopo l'inizio dei bombardamenti Nato con partecipazione italiana aveva spiegato: “Un trattato è fra governi. Non c'e più quel governo, non c'è più il trattato”. E infine aveva assicurato che il voto del Consiglio di sicurezza che aveva autorizzato i voli Nato, ha annullato (ha proprio detto annullato) contestualmente il trattato. Non era vero niente, parola di Frattini. Il trattato italo-libico contestato in quasi ogni articolo dalle Nazioni Unite, dall’Agenzia dei Rifugiati, dall'Unicef, da Right Watch, da Amnesty International e da ogni organizzazione umanitaria del mondo civile, è vivo e opera assieme a noi.
DA UN LATO distribuisce ricchezza (ricordate? Ci costa 20 miliardi di dollari in cinque anni, questi cinque anni) dall'altro controlla le frontiere degli altri, usa le motovedette italiane, spara a vista e affonda gli emigranti proprio come Gheddafi. Si può capire che la lunga esposizione al potere porti un po' di cinismo. Ma come si fa ad augurarsi che il prossimo governo libico sia composto di canaglie a pagamento come quello, non ancora del tutto scomparso, di Gheddafi? E come mai, nell'aula delle commissioni Esteri, Camera e Senato riunite, nessuno ha fatto una piega, tranne i radicali Me-cacci e Perduca e, non saprei dire a nome di chi, dato il silenzio, chi scrive?

La Stampa 11.9.11
Anche gli inglesi dietro le torture del raiss
Il dissidente Abu Munthir riconsegnato al regime nel 2004 grazie all’aiuto degli 007 britannici
di Andrea Malaguti


Ordinary rendition. Quanto erano profondi i legami tra la Cia, l’MI6 (i servizi segreti britannici) e il regime di Muammar Gheddafi a cavallo tra il 2003 e il 2004? Molto, secondo le centinaia di documenti ritrovati a Tripoli nell’ufficio abbandonato di Moussa Koussa, ex braccio destro del raiss fuggito a Londra all’inizio della guerra civile. Una collaborazione strutturale, continua, senza alcun rispetto della legalità. Almeno stando alle rivelazioni del «Guardian», che oltre ad avere avuto accesso alle carte ha raccolto la testimonianza del leader mujahidin Abu Munthir, nome di guerra del libico Sami al Saadi, che ora è pronto a fare causa al governo di Sua Maestà.
Nel 2004 Abu Munthir era fuggito in Cina. Sposato, padre di quattro figli, decise di chiedere asilo all’Inghilterra, dove aveva già vissuto per tre anni. I suoi intermiediari gli assicurarono che non c’erano problema. «Mi dissero che sarei dovuto passare dall’ambasciata britannica di Hong Kong. Partii con la famiglia, ma all’ambasciata non arrivammo mai». Le guardie di frontiera cinesi lo espulsero accusandolo di avere un passaporto irregolare. Lo spedirono alle Maldive. E da lì in Libia. «Per me è sempre stato chiaro che dietro questa operazione ci fossero gli inglesi. In volo ci misero le manette. A me e a mia moglie. I bambini piangevano. Ci dissero che ci avrebbero torturati con l’elettrochoc. In effetti fu così. Arrivati in Libia fummo rinchiusi in due celle diverse». Il primo ad andarlo a trovare fu proprio Moussa Koussa. Gli diede una mano molle come una spunga. Aveva un ghigno sinistro. «Mi disse: cercavi di scappare da noi, ma per te non esiste un rifugio possibile sulla terra. Dopo l’11 settembre mi basta alzare il telefono e chiamare la Cia o l’MI6 per avere tutte le informazioni che voglio». Lo odiò con tutti gli atomi del suo corpo e gli venne in mente che se i serpenti avessero parlato avrebbero avuto una voce sibilante come quella. «Mio figlio più piccolo aveva solo 6 anni». Menzogne?
I documenti sono inequivocabili. Il 23 marzo del 2004 la Cia invia un fax a Tripoli - catalogato come «Secret/ Us Only/Except Libya» - in cui comunica ai servizi del raiss di essere a conoscenza dell’«operazione Abu Munthir» organizzata dall’MI6. E chiarisce di attendere «con impazienza» un coinvolgimento.
Due giorni più tardi il primo ministro britannico Tony Blair andrà per la prima volta in visita ufficiale a Tripoli. Stringerà la mano a Gheddafi, dichiarerà che le due nazioni sono unite nella battaglia contro il terrorismo e annuncerà la firma di un accordo da 550 milioni per consentire al colosso anglo-olandese Shell di sfruttare il gas libico. Il 28 marzo il mujahidin Abu Munthir e la sua famiglia saranno consegnati al regime. «Eravamo noi il regalo degli inglesi al raiss».

La Stampa 11.9.11
Intervista
Perché il pensiero debole è sempre più debole
Alain Finkielkraut: “Sostenere che ci siano solo interpretazioni e non fatti non regge alla prova della realtà. L’ho capito di fronte a chi nega la Shoah”
Se ogni punto di vista è legittimo, spariscono proprio le possibilità di comunicazione, di dialogo, di discussione In letteratura la critica strutturalista metteva tra parentesi la questione del valore. Ma credo che la letteratura senza valori sia appunto senza valore
di Mario Baudino


Oggi al Festival di Mantova Il Festivaletteratura si conclude oggi, con bilanci che ancora una volta dovrebbero essere da record in termini di partecipazione dei lettori. Per la giornata finale, tra gli ospiti più attesi, oltre a Finkielkraut sono previsti l’israeliano Yehoshua Kenaz, il meno noto in Italia fra i grandi autori di quel Paese, l’olandese Hermann Koch, che presenta l’ultimo romanzo, Villetta con piscina , appena tradotto da Neri Pozza, e Stefano Benni, che parlerà con Piero Dorfles del suo recente libro - non comico - La traccia dell’angelo (Feltrinelli). Il teologo Vito Mancuso discute con Gad Lerner sul tema «Il pensiero di Dio», Simonetta Anello Hornby e Giuseppina Torregrossa parlano di Sicilia e letteratura, lo psicanalista Luigi Zoia incontra i lettori sui temi del suo recente libo Paranoia, la follia che fa la storia (Bollati-Boringhieri), dove elegge a simbolo negativo del nostro tempo Iago, il calunniatore shakesperiano. L’anniversario dell’11 settembre, che è ovviamente uno dei temi cruciali ne libro di Zoja, sarà anche argomento dell’ultimo incontro del festival: quello con l’americano William Langewiesche, che alla guerra in Afghanistan - quella combattita da lontano, quella dei droni e dei tiratori scelti - ha dedicato il suo recente libro-reportage Esecuzioni a distanza (Adelphi).

Filosofo e giornalista Alain Finkielkraut, nato a Parigi nel 1949, è filosofo e giornalista. Insegna Cultura generale e Storia delle idee al dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell'École Polytechnique. È fondatore del Centro di Studi Levinassiani di Gerusalemme, ed è apprezzato conduttore di trasmissioni radiofoniche per la rete France Culture. Nel 1994 è stato nominato Cavaliere della Legione d'Onore. Il suo ultimo libro tradotto in Italia è Un cuore intelligente , pubblicato nel 2011 per Adelphi.

Il punto d’arrivo di un Cuore intelligente (Adelphi), ultimo libro di Alain Finkielkraut è che la letteratura va vista come qualcosa che custodisce la pluralità umana, contro tutte le ideologizzazioni e contro quelle che Lyotard chiamava le «grandi narrazioni» della filosofia. Oggi il termine è un po’ logoro e abusato; non si fa altro che proclamare la fine, appunto, delle «grandi narrazioni». Ma il filosofo francese non è affatto sicuro che sia davvero così. Oggi al Festival di Mantova, nella giornata conclusiva della manifestazione, leggerà Milan Kundera e parlerà proprio di quel «sapere imperfetto» rappresentato dalla letteratura, e di quanto ci sia necessario. Soprattutto nel momento attuale. Per certi versi, soprattutto in Europa.
Ma perché proprio i romanzieri, per uno studioso che è partito da Martin Heidegger? La filosofia non ha più risposte?


«Non vedo in competizione letteratura e filosofia, né dico che la prima sia la via d’accesso alla realtà, e la seconda no. C’è però un momento nella storia del pensiero in cui la filosofia ha preso quella che chiamerei una direzione romanzesca, facendosi filosofia della storia. Con Hegel e Marx la storia è diventata il luogo dove si consuma il dramma della ragione, lo spazio della sua realizzazione. E sono cominciate appunto le "grandi narrazioni". In Marx, poi, con una piega melodrammatica: quando la storia è diventata storia della lotta di classe. In questo senso la letteratura è una forma di contestazione critica di una certa "filosofizzazione" della realtà. Quando la filosofia diventa una grande narrazione, la narrazione letteraria diventa critica della filosofia».
Il tema della realtà è al centro di un dibattito che si sta sviluppando in Italia, tra filosofi. Si è parlato di un autunno del "pensiero debole", la teoria basata sull’idea che non ci siano in sostanza "fatti", ma solo interpretazioni. C’è chi, come Maurizio Ferraris, oppone ad essa la necessità di riscoprire la realtà».
«Non ho seguito la discussione».
Però i termini le sono ben noti.
«Certamente. Come Gianni Vattimo, anch’io sono partito da Heidegger, anche se ne ho tratto conclusioni molto diverse. Una è che ci sono dei "fatti" irriducibili allo sviluppo delle ragioni storiche. L’idea che esistano solo interpretazioni vede la mia ferma opposizione da molto tempo».
Quanto tempo?
«Ho capito la debolezza del pensiero debole - se mi consente un gioco di parole - all’inizio degli Anni ‘80.»
Da subito quindi.
«Sì. E’ accaduto quando ho dovuto confrontarmi col negazionismo».
Che dovrebbe essere mille miglia lontano da una teoria filosofica nata anche con l’intento di una maggiore democratizzazione del sapere e della società.
«Fu a Parigi. Un gruppuscolo di sinistra distribuiva volantini in cui si spiegava che le camere a gas non erano mai esistite. Sinistra, badi. L’argomento faceva parte di una revisione paranoica della storia del mondo, dove il solo male è rappresentato dal capitalismo. Un sillogismo: niente camere a gas, niente mostruosità hitleriana. Quindi il vero mostro è il capitalismo. Se ne discusse parecchio, fece scandalo. Ma i partigiani di queste tesi si appellarono alla libertà d’espressione, e la cosa creò un certo turbamento nel mondo intellettuale. Del resto, se non ci sono fatti ma solo interpretazioni, perché non ammettere anche quel che diceva il volantino negazionista?».
Le camere a gas sono ovviamente un fatto al di là di ogni interpretazione.
«Mi è sempre parsa convincente l’idea di Hannah Arendt, secondo cui solo le realtà fattuali rendono l’interpretazione possibile. Se invece ogni punto di vista è legittimo, spariscono proprio le possibilità di comunicazione, di dialogo, discussione».
La letteratura è una di queste verità fattuali?
«Siamo su un altro registro. Il romanzo si sviluppa nello spazio della finzione, ma come ad esempio mostra bene Kundera; ha senso solo come scoperta, esplorazione, investigazione. La teoria letteraria in cui sono cresciuto, fra strutturalismo e post-strutturalismo, riduceva l’estetica alla linguistica, separava drasticamente letteratura e realtà, mettendo quindi molto tra parentesi la questione del valore. Ma la letteratura senza valori è appunto senza valore. Come faremmo infatti a distinguere un buon libro da uno cattivo, se non partendo da un criterio di conoscenza? Un buon libro mostra la nostra conoscenza del mondo e del cuore umano».
Kundera potrebbe essere considerato il prototipo dello scrittore europeo?
«Direi che che porta un’idea d’Europa ormai dimenticata all’Europa stessa. I suoi testi degli Anni Novanta, per esempi i saggi sull’Europa centrale, prendono in contropiede una cultura, come la nostra, che ha identificato l’Occidente con l’oppressione. Kundera spiega che non è sempre così, ma non sono affatto sicuro che questo messaggio sia stato inteso. L’Europa rimane preda del senso di colpa, ed è questa l’idea che prevale. Affermare la nostra identità in quanto europei è visto come un processo di esclusione o discriminazione. Non ha senso il dogma di dare sempre più spazio all’identità degli altri. Il problema è complesso, ma se vogliamo veramente sostenere un principio anti-razzista, dobbiamo evitare esattamente questo, e cioè chiudere ciascuno nella propria identità»
Ma qual è l’identità europea?
«Una moltitudine di identità, ma non tutte. Per esempio è assurdo dire che l’Europa è sempre stata “meticcia”. O, come ha proclamato Chirac una volta, che l’Islam ne fa parte. L’identità deve restare un concetto aperto. Noi abbiamo una storia, che si può imparare, e di cui altri possono diventare parte. Ogni patria deve poter essere una patria adottiva».
In questo la letteratura può esserci più utile della filosofia?
«Ciò che chiedo per la letteratura è una considerazione uguale a quella della filosofia e della scienza. Diceva Charles Peguy che il vero della scienza non è il solo vero del reale. Ci sono forme diverse di verità».
Sembra quasi una concessione al pensiero debole.
«Badi, non sono certo per la restaurazione del pensiero metafisico. Non è quello il problema, oggi. E poi, almeno sul piano politico, ci può essere una certa ferocia dogmatica che viene proprio dal pensiero debole: penso a molte posizioni sul Medio Oriente. Non è sempre un pensiero dolce. E io sono per la dolcezza».

Repubblica 11.9.11
FestivalFilosofia. Uomo & Natura
Una sfida infinita di amore e minacce
di Michele Smargiassi


In programma un pacchetto multimedialedi spettacoli, retrospettive, concerti, incontri, tutti gratuiti
"È diventato un argomento profondamente politico", spiega Bodei, ideatore della decennale manifestazione
Venerdì inaugura a Modena, Carpi e Sassuolo l´appuntamentopiù importante dedicato al pensiero speculativo.Tema di quest´anno, la madre-matrigna di sempre. Affrontato per tre giorni sotto ogni punto di vista

Una forma smisurata di donna seduta in terra", dal volto "mezzo tra bello e terribile": una matrigna crudele e sprezzante, così la Natura appare allo sfortunato Islandese nel celebre dialogo di Leopardi che fonda la nostra modernità. Meno di un secolo prima, Voltaire si era ribellato al terremoto di Lisbona, evento tremendamente naturale, in nome della Ragione. No, non è mai stato piacevole per i filosofi maneggiare questo concetto che all´uomo della strada evoca invece idee di relax, pace, benessere. Dev´essere per questo che il FestivalFilosofia di Modena ha atteso dieci anni prima di scegliere questa parola bella e terribile come tema della sua undicesima edizione.
Ma non si poteva attendere oltre: possiamo non occuparci della natura, ma la Natura si occupa di noi, fin nel profondo, sempre di più. «È diventato un argomento profondamente politico», spiega Remo Bodei, ideatore e responsabile scientifico del più importante appuntamento dedicato al pensiero speculativo. Minacciata e fragile nel suo equilibrio ecologico, minacciosa e aggressiva nelle sue manifestazioni catastrofiche (tsunami, terremoti, uragani), la Natura sembra invocare o pretendere qualcosa dall´uomo: «Le cose inanimate sembrano sempre più godere di diritti, e li reclamano». Crolla l´opposizione classica fra natura e cultura, l´imprevista competitiva alleanza tra physis e technè profana il confine sacro del corpo umano e rende fluidi e labili concetti naturali come la vita e la morte. Certo, è giunto il tempo che il festival affronti finalmente, faccia a faccia, come l´Islandese di Leopardi, quell´enorme inquietante figura.
Del resto, non è la prima volta che l´adunata di fine estate dei filosofi deve misurarsi con la ribellione e la sfida dei concetti che di volta in volta evoca. Nacque sotto una stella terribile, il festival, nel settembre 2001. Si inaugurò pochi giorni dopo l´attentato alle Twin Towers, e il tema allora apparve stridente: Felicità; fu la politica del terrore, insomma, a incaricarsi di contraddire l´ottimismo apparente di quel debutto. Oggi sembra accadere l´inverso: è un approccio politico ed etico alla Natura che tenta di aprire le porte a una possibile riconciliazione. Non sarà comunque un festival ottimista, perché la Natura, per quanto "da matrigna crudele ora ci appaia piuttosto come una mater dolorosa violata", resta imprevedibile, ma la scelta del tema di quest´anno sembra avvertire il vento della riscossa realista dopo qualche decennio di postmodernismo e di "letture strapazzate di quella frase di Nietzsche per cui non esisterebbero fatti, ma solo interpretazioni".
Tema concreto, quasi facile, ma proprio per questo sterminato. Non basteranno forse a esaurirlo i duecento eventi, tutti gratuiti, tutti in piazza, e i cinquanta e passa relatori (distribuiti nelle tre location tradizionali dell´appuntamento diretto da Michelina Borsari: Modena), alcuni molto assidui (Bauman, Cacciari, Nancy, Bianchi, Severino, Augé, Galimberti, Rodotà, Givone, Galli...), altri alla loro prima visita (Duque, Settis); ma ci si proverà secondo uno schema ormai collaudato: le lezioni sui classici, per scandagliare la genesi e l´evoluzione storica del concetto filosofico di Natura secondo due tradizioni fondamentali. Quella che, dalla Bibbia a Bacon, la vuole soggetta al dominio dell´uomo, e quella, da san Francesco all´ecologia moderna, che viceversa fa dell´uomo una semplice parte del suo regno. Poi le lezioni magistrali, per esplorare le latitudini odierne dell´idea, tenute da vari relatori, tra cui architetti, giuristi, scienziati, ecologisti.
Attorno, secondo la formula fortunata e popolare del festival (oltre un milione di visitatori in questi dieci anni), un pacchetto multimediale di mostre, spettacoli, laboratori per bambini e adulti. Compito apparentemente più semplice del consueto, infine, anche per Tullio Gregory, filosofo e chef del festival: i suoi menu filosofici saranno ovviamente la versione culinaria dell´impresa prometeica dell´homo faber, per scoprire quanto innaturali siano, nonostante tutto, le gioie umane del palato.

Il programma di Festivalfilosofia a Modena Carpi Sassuolo, dal 16 settembre, qui
http://www.scribd.com/doc/64546580

Corriere della Sera 11.9.11
Il poeta moriva il 12 settembre 1981. Fin dalle prime opere le sue liriche assumono un significato esistenziale
Montale trent’anni dopo. L’ultimo dei classici
di Jonathan Galassi

qui
http://www.scribd.com/doc/64550922

il Riformista 11.9.11
Montale, il poeta che lasciò il segno anche nella prosa
di Andrea Di Consoli

qui
http://www.scribd.com/doc/64554851

Repubblica 11.9.11
Maestri. Salvatore Accardo
Incontro di Giuseppe Videtti


"Ho imparato a essere severo innanzitutto con me stesso E poi l´umiltà davanti alla partitura, perché è il compositore ad avere sempre ragione"
Ha una giovane moglie che lo adora e due gemelline nate appena tre anni fa "Vivo una vita che non m´aspettavo più" sussurra alla vigilia dei settant´anni il grande violinista nella sua casa milanese in cui tutto parla di Napoli. E di una carriera sfolgorante iniziata con una chitarra di cartone "Nel dopoguerra tutto era difficile, eppure se sapevi suonare andavi avanti. Dovessi cominciare oggi sarei di certo un cervello in fuga"
Una giornata perfetta. Lou Reed ci scriverebbe su un´altra Perfect day. Leoncavallo un´altra Mattinata. Gli uccelli cinguettano tra le foglie degli alberi del viale, il cielo è limpido, le gemelline chiassose rientrano dalla passeggiata, la domestica è intenta a lustrare l´appartamento, i tacchi della signora Laura che si appresta ad uscire picchiano allegri sul parquet della stanza accanto, il persiano tosato come un pechinese fa le fusa tra i piedi del padrone di casa. «Sto vivendo una vita che non mi aspettavo più», mormora Salvatore Accardo, violinista sublime. «Non immaginavo di diventare padre a quasi settant´anni. Ma l´amore non ha età. Ho incontrato mia moglie, una mia allieva, a 56 anni. A 60 è scoppiata questa cosa straordinaria che mi ha dato una grande felicità e soprattutto una serenità che non ha prezzo. Infine la nascita delle gemelle, che hanno compiuto tre anni il 25 agosto, mi ha riempito di una gioia nuova. Per me, che vengo da una famiglia non bigotta ma credente, è stato un dono del cielo».
Settant´anni li compie il 26 settembre, e non ha solo il compleanno da festeggiare. Ha una giovane moglie che lo adora, due tesori di bambine, una carriera da numero uno che non ha conosciuto battute d´arresto da quando diciassettenne, a Genova, ricevette il premio Paganini e per la prima volta incontrò David Oistrakh. Uno pensa che nella vita di un artista, soprattutto quando ha raggiunto questi livelli, tutto sia ormai scritto, tutto debba andare in una certa direzione. «Invece ti accorgi di non sapere molte cose», interrompe Accardo. «Sui bambini, ad esempio. Conoscere i figli degli altri non è la stessa cosa, perché non ci vivi mai a contatto ventiquattr´ore al giorno. Hanno un orecchio musicale straordinario. L´ho notato anche invitando classi elementari alle prove che facciamo al Festival di Vicenza e prima ancora durante le Settimane musicali di Napoli. I bambini sono aperti a tutto, si emozionano con cose che secondo gli adulti non sono in grado di apprendere o capire, spesso siamo noi a rovinarli. Suonavamo Verklärte Nacht di Schönberg, sicuramente una composizione emozionante ma per ascoltatori che hanno una certa esperienza, e durante la prova aperta ai giovani ero un po´ titubante, credevo che le classi elementari non avrebbero resistito mezz´ora. Invece non volava una mosca e molti di loro avevano le lacrime agli occhi. Le orchestre giovanili del maestro Abreu, in Venezuela, hanno salvato centinaia di minori dalla strada, dalla prostituzione, dalla droga. Questo vuol dire che la musica non è solo delizia per le orecchie, ma aiuta a vivere, è nutrimento dell´anima. Insegno da quarant´anni, ho avuto nelle mie classi giovani violinisti di tutto il mondo, e le assicuro: non mi sono mai imbattuto in un caso di tossicodipendenza».
Nella casa milanese tutto parla di Napoli, Torre del Greco per l´esattezza. Non solo per i frequenti riferimenti del maestro alla cultura partenopea, ma anche per i cimeli conservati in una vetrinetta accanto all´ingresso. Il primo violino, il secondo, i cammei incisi dal padre Vincenzo. «Ebbi tra le mani il primo vero strumento a tre anni. Prima giocavo con delle chitarrine di cartone. Poi mi costruii un violino con dei pezzi di legno e degli elastici e cercavo di imitare quel che ascoltavo alla radio. Infine chiesi a mio padre di comprarmene uno, e lui mi portò questo piccolo strumento fatto da un liutaio», racconta estraendo dal mobile un perfetto esemplare in miniatura. «Una cosa rara, era il 1944, anni difficili. Abitavamo a Torre del Greco, mio padre era incisore di cammei, andò a Napoli e stette tutta la giornata fuori per trovarmi un violino di queste dimensioni. Lo portò a casa che stavo già dormendo. Mi svegliai e lo trovai sul letto, aprii l´astuccio e cominciai a suonare Lili Marlene. Mia mamma pensava che ci fosse la radio accesa, mia sorella e mio cugino mi guardavano sbigottiti. Io non capivo la ragione di tutto quello stupore, per me era la cosa più semplice del mondo».
I ricordi saltano fuori dalla vetrinetta aperta con due Stradivari in bella mostra. Salvatore era l´orgoglio della famiglia. La musica, con un padre melomane, era più di un hobby in casa Accardo. «Quando avevo quattro anni papà cominciò a preoccuparsi della mia educazione musicale», racconta. «Seppe che il miglior insegnante in città era il maestro Luigi D´Ambrosio. Non indugiò, si recò al Conservatorio per incontrarlo. Era un entusiasta mio padre, il Totò della situazione, appassionato di musica, violinista dilettante. Ma con estremo disappunto il maestro, che aveva già passato i sessanta, gli disse che non era interessato ai bambini. Mio padre insistette, e quello stremato: "Me lo porti martedì, a mezzogiorno". Arrivammo e il maestro non c´era. Si era scordato. La domestica c´invitò a tornare un´altra volta. Ma mio padre irremovibile: "Tornerà pure per pranzo, noi da qui non ci muoviamo". Quando arrivò, D´Ambrosio fece una smorfia come a farci capire che non era esattamente contento di vederci. Mio padre aveva portato una borsa piena di spartiti. Lui li ignorò, e mi intimò: "Fammi una scala"; io, mai fatta una scala in vita mia, suonai quattro note in successione. E lui: "Lo accetto!". Mio padre, invece di essere contento, obiettò: "Maestro, ma come, lui si è preparato tutte queste cose e lei non ascolta nulla?". "Ma non voleva che lo prendessi? Bene, lo prendo! Ora andate", ribatté lui. E non finirò mai di ringraziarlo per la sua inflessibile severità. In tanti anni non mi ha mai detto bravo. Mi ha fatto sempre fare delle cose meno difficili di quelle che avrei potuto fare, tant´è vero che a un certo punto papà, col consueto entusiasmo, pretendeva che mi facesse suonare i Capricci di Paganini - allora avevo nove anni - e D´Ambrosio: "Lo so che li può fare, ma non è il momento. Lei cosa vuole che suo figlio suoni fino a ottant´anni o fino a vent´anni?". "Sì, certo, fino a ottant´anni". "E allora stia tranquillo", furono le ultime parole del maestro. E aveva ragione. D´Ambrosio mi ha insegnato a essere severo con me stesso, prima che con i miei allievi, e l´umiltà nei confronti della partitura. Diceva: "Il compositore ha sempre ragione"». E scongiurò il pericolo che il piccolo Salvatore si bruciasse come tanti enfant prodige. «Non lo sono mai stato, neanche da bambino», precisa Accardo. «Ho fatto tutto in fretta, questo sì, mi sono diplomato a tredici anni anziché a venti. Sono solo uno che ha fatto le cose più in fretta degli altri».
Il risultato di tanto lavoro, della disciplina, degli incontri, delle collaborazioni con le più grandi orchestre del mondo, dei sacrifici e dei trionfi è ora raccolto in un cofanetto di otto cd ("L´arte di Salvatore Accardo - Una vita per il violino", Ed. Deutsche Grammophon) con musiche di Bach, Bruch, Dvorak, Mendelssohn, Paganini, Sibelius, Tchaikovsky, Vitali e Vivaldi. Lo gira tra le mani. «Leggendo i titoli, la prima cosa che salta agli occhi è che sto invecchiando», sospira. «Però è sempre bello essere celebrati. Ho rispolverato cose che non ascoltavo da anni e quel che più mi ha emozionato è il ricordo di alcuni incontri, che per la crescita di noi musicisti sono fondamentali. Non necessariamente con altri violinisti. Io ho appreso moltissimo da Michelangeli, Celibidache, Segovia, Casals, Cortot e Fournier. Poi naturalmente da Oistrakh e Stern. La musica è una. L´approccio alla partitura è uno. L´umiltà, la fedeltà e la serietà nell´affrontare una partitura, la stessa. Il fraseggio l´ho appreso da Michelangeli. Il modo in cui lui affrontava il rubato - che in musica è qualcosa che non è perfettamente in tempo - era unico e meraviglioso. Il cofanetto mi ha anche riportato alla mente le prime volte che suonai col grande direttore Kurt Mazur, o con Colin Davis... esperienze dal punto di vista musicale e umano... non solo le ore di lavoro con le orchestre ma tutte le serate che abbiamo passato insieme e quelle interminabili cene a parlare di musica... un arricchimento incredibile».
Lo ferisce che oggi tutto questo patrimonio sia considerato dalle istituzioni un accessorio costoso e superfluo. «Vede, nel dopoguerra era tutto difficile, ma almeno la meritocrazia pagava. Se sapevi suonare andavi avanti. Oggi ci sono musicisti che non hanno grandi qualità e fanno molto di più di talenti che per una ragione o per l´altra restano impantanati in mille difficoltà. L´educazione musicale in Italia è inesistente da decenni», lamenta. «E non solo quella musicale, diciamoci la verità. Non esiste più neanche l´educazione civica. Ho guardato l´ultimo Sanremo, non volevo perdermi Benigni, e lì qualcuno ha chiamato il Va, pensiero "una canzone di Verdi", e allora mi sono cadute le braccia». Se fosse un giovane violinista sarebbe un cervello in fuga? «Sicuramente, perché non c´è la possibilità di restare. In Italia sono state chiuse più di cento istituzioni concertistiche, comprese la Scarlatti e tre orchestre della Rai tra le più prestigiose, che hanno avuto tra i loro leggii maestri come Gazzelloni, Asciolla, Brengola, Selmi, Ceccarossi e Petracchi; e direttori come von Karajan, Furtwängler, Abbado e Muti. I giovani oggi fuggono in Spagna, in Germania, in Inghilterra. Lo dico sempre a mia moglie: in questa situazione forse sarebbe il caso di... Ma l´amore per l´Italia è troppo forte. Non so... vediamo... se si apriranno degli spiragli… Certo, mettere al mondo dei bambini oggi è una responsabilità enorme», conclude guardando le gemelline che si rincorrono da una stanza all´altra. «Ha ragione Muti quando dice che noi non siamo più il paese della musica ma della storia della musica».

Repubblica Lettere 11.9.11
«Per i bimbi migranti divieto di andare al mare»

di Paolo Izzo

I migranti a Lampedusa sono rinchiusi in centri di cosiddetta accoglienza, controllati dalle forze dell'ordine affinché non ne escano, soprattutto per non «turbare» i villeggianti. Vivono in vere e proprie gabbie da cui, talvolta, tentano di uscire. Proprio come l'altro giorno quando sono "fuggiti" dei migranti bambini per fare il bagno in mare, attorniati da forze dell'ordine in tenuta antisommossa che intimavano loro di uscire immediatamente dall'acqua. Ma con tutta questa dovizia di forze dell'ordine che li controlla, non si potrebbe organizzare ogni giorno che i bambini invisibili di Lampedusa sperimentassero la libertà di andare al mare?