martedì 13 settembre 2011

Corriere della Sera 13.9.11
Svolta pd: referendum per la spallata
Bersani e D'Alema sicuri: con il «Mattarellum» la Lega lascerà il governo
di Maria Teresa Meli


ROMA — La posizione ufficiale non si può più cambiare: il Pd asseconderà il referendum elettorale, lo accompagnerà, ma non lo sponsorizzerà ufficialmente. Anche se tutti i suoi sindaci stanno raccogliendo le firme. Anche se in tutte le feste dell'Unità, o le feste del Partito democratico, i banchetti per la raccolta delle sottoscrizioni sono bene accetti. Di più: sono richiesti.
Alla fine della festa (non dell'Unità) i vertici del Pd hanno capito che il referendum è l'unico strumento a disposizione per far cadere il governo Berlusconi. Riunioni informali a Largo del Nazareno, pour parler tra i massimi rappresentanti del partito, abboccamenti e ragionamenti, hanno tutti dato lo stesso esito. Come ha spiegato Massimo D'Alema ai fedelissimi: «A me il Mattarellum non piace, dopodiché il risultato dell'iniziativa referendaria è quello da noi auspicato».
Gli interlocutori del presidente del Copasir sono rimasti basiti: ma come, il più grande sostenitore del sistema tedesco pronunciava queste parole? D'Alema ha dissolto i dubbi con questo semplice ragionamento: «La Lega non può presentarsi alle elezioni con il Mattarellum. Per loro significherebbe chiedere agli elettori di votare nei collegi uninominali dei rappresentanti del Pdl. Non se lo possono permettere: la base leghista non voterà mai più i berlusconiani. Ragion per cui, pur di non far celebrare il referendum, il Carroccio provocherà la crisi di governo. Il Mattarellum è un sistema che li costringerebbe a un rapporto troppo stretto con Berlusconi, ossia con l'uomo che la loro base vuole ormai vedere fuori scena». Parole non dissimili da quelle pronunciate in altro luogo da Bersani: «Il referendum è come una pistola sul tavolo: noi la teniamo lì e vedrete che pur di non pronunciarsi sui quesiti, la maggioranza interromperà la legislatura».
E allora il Pd ha capito che il referendum è l'unica via per ottenere le elezioni. Certo, il cammino è accidentato e lungo, ma altra strada non c'è. Almeno così pensano a Largo del Nazareno. E il fatto che l'Udc sia contraria al referendum non sembra essere più un problema. Anche D'Alema, il primo sostenitore dell'alleanza con i centristi, ormai pensa che Casini stia giocando una partita in proprio, una partita che ha il centrodestra come destinazione finale, e non la grande alleanza anti Berlusconi con tutti dentro, dal Pd alla Sel di Vendola, passando per l'Idv di Di Pietro. Perciò non c'è motivo per osteggiare il referendum elettorale in nome di un'alleanza che non ci sarà.
L'unico scrupolo riguarda i problemi interni al Pd. Per il resto l'occhio dei dirigenti del Partito democratico è attento alla raccolta delle firme. A Largo del Nazareno si compulsano numeri e date. L'ultima utile è il 30 settembre: entro quel giorno bisognerà chiudere la «pesca». Finora sono stati inviati tutti i moduli disponibili. Tradotto in firme sarebbero due milioni. Ma è un calcolo che, ovviamente, non si può fare così semplicisticamente. Al comitato promotore, sotto lo sguardo attento del Pd, si valutano altre cifre. In dieci giorni si sono raccolte 323 mila firme. In totale ce ne sono 400 mila. Mancano meno di due settimane: il traguardo non è lontanissimo, ma, soprattutto, è raggiungibile. E i referendari hanno una loro personale cartina di tornasole per capire se la strada è sbarrata o se, per quanto impervia, sia praticabile: firmeranno sia Ermanno Olmi che Pippo Baudo. Quando lo ha saputo, Arturo Parisi ha rinunciato all'abituale sarda sobrietà e ha brindato: per lui è il segno del fatto che un'iniziativa che sembrava elitaria è diventata un fenomeno nazionalpopolare.

Ecco dove si può firmare: la mappa di banchetti e uffici Attivi in tutta Italia, partiti e associazioni che sostengono il referendum organizzano i banchetti per la raccolta delle firme in diverse città. È possibile firmare anche in tutti i Comuni e le circoscrizioni. Sindaci, consiglieri comunali o provinciali possono raccogliere direttamente le firme e autenticarle. Per una mappa dei luoghi nei quali poter firmare si può consultare il sito internet www.referendumelettorale.org

Repubblica 13.9.11
Referendum-boom, firme a quota 380 mila
Ora volata finale anti-Porcellum: altre 120 mila vanno raccolte in 17 giorni
Entusiasmo al comitato promotore: "Il risultato è a portata di mano"
d Goffredo De Marchis


ROMA - Primo bilancio del referendum contro la legge porcata: 380 mila firme raccolte quando mancano 17 giorni alla scadenza. Al comitato si nasconde a fatica l´entusiasmo. Mancano "solo" 120 mila consensi, diciamo 170 mila per essere sicuri che tutti gli autografi vengano riconosciuti validi dalla Cassazione. «Il risultato è a portata di mano», ammette Andrea Morrone, professore di diritto costituzionale e uno degli estensori del quesito. Domani i referendari avranno finito il lavoro di raccolta dei dati sul territorio e comunicheranno il primo risultato parziale. Una cifra ufficiale o semi-ufficiale. Che però sembra garantire ossigeno alla volata finale.
Morrone per il momento si è limitato a consultare i partiti e le associazioni impegnate nei banchetti per avere dei numeri da loro. Questi sono i risultati. L´Idv di Di Pietro ha raccolto 160 mila firme sfondando l´obiettivo iniziale di 150 mila ben prima del giro di boa. Sinistra e libertà ha raggiunto quota 60 mila. Grande lo sforzo dei Democratici, l´ex Asinello: 100 mila firme per un marchio sparito da tempo. Ma non a caso ormai questa battaglia è conosciuta come il referendum Parisi. La struttura ormai collaudata di Mario Segni dichiara 60-70 mila firme raccolte. Siamo ben oltre metà dell´opera. «Ma non è il momento di abbassare la guardia», avverte Morrone. Anzi.
Decine di comitati civici e di sigle minori affiancano nella battaglia per le 500 mila firme i partiti più grandi e i promotori più esposti come Arturo Parisi e Antonio Di Pietro. Raccolgono adesioni il piccolo Pli, l´Unione popolare, un gruppo di fuoriusciti dall´Udc che non condivide la scelta terzopolista di Casini (e pare abbiano nel cassetto già 10 mila firme). Ora scatta il soccorso di Futuro e libertà dopo il via libera ufficiale di Gianfranco Fini alla festa di Mirabello domenica. E ci sono chiari segnali che arrivano dal Pdl. Hanno annunciato la loro firma Carlo Vizzini, Antonio Martino, Paolo Guzzanti. Adesioni a titolo individuale ma in grado di spezzare la cappa che avvolge il Pdl inchiodato sulla difesa della legge elettorale esistente.
Resta il mistero sul ruolo del Partito democratico. Le feste del Pd ospitano tutte o quasi tutte i banchetti referendari. Ce n´erano anche a Pesaro nella piazza gremita per il comizio finale di Pier Luigi Bersani. «Ma il Pd non raccoglie le firme - sottolinea Morrone -. Noi non facciamo nessun affidamento su di loro. Ci trattano da amici, come ha detto il segretario. Tutto qui». C´è però la spinta dei dirigenti democratici. Parisi in testa, poi Romano Prodi, Walter Veltroni. A questa tiepidezza del Pd si riferiva l´ex sindaco di Roma quando l´altro giorno su Europa ha chiesto al suo partito di fare di più. Da amici a sostenitori attivi, cioè. Ma la linea di Bersani è chiara: il referendum è uno stimolo utile per togliere di mezzo il Porcellum. Però quel sistema non è il migliore per governare l´Italia.
Il referendum e non solo divide oggi il Pd e Di Pietro. Con un quesito che marcia tanto sparato, il Pd intravede quello che considera un rischio grosso: rifare l´Unione, cioè tutti sotto lo stesso simbolo nei collegi maggioritari.

Repubblica 13.9.11
Rodotà: le scelte non sono solo individuali, il rapporto con gli altri le condiziona
"Ma il consenso del partner non libera da ogni responsabilità"
La Marzano: è vera libertà fare sesso estremo per non perdere il proprio ragazzo?
di Vladimiro Polchi


ROMA - Dove finisce la libertà individuale di una persona che perde la vita durante un gioco erotico e comincia la responsabilità di chi a quel gioco assiste e partecipa? Il caso di Soter Mulè, derubricato a omicidio colposo, chiama in causa complesse questioni etiche e giuridiche. «Non si possono mai scollegare libertà e responsabilità - sostiene Michela Marzano, docente di Filosofia morale all´università di Paris Descartes - in quanto liberi siamo infatti responsabili delle nostre azioni e delle loro conseguenze. Il consenso che esprime la nostra libertà va preso in considerazione, ma non può giustificare atti irreversibili. Stiamo attenti a non assolutizzarlo, altrimenti si perde di vista che la libertà umana è sempre incarnata, dipende cioè da condizioni sociali e psicologiche della persona. Che libertà c´è in una ragazza che partecipa a un incontro di sesso di gruppo per la paura di perdere il proprio ragazzo? Si tratta di libertà o della servitù volontaria di cui ci parla Étienne de La Boétie?».
Il caso Mulè spinge Stefano Rodotà a ragionare sul concetto di autodeterminazione. «L´autodeterminazione è piena - spiega il giurista, già garante della Privacy - quando la scelta individuale di una persona produce effetti solo nella sua sfera privata. Difficile sindacare una decisione che non ha alcuna rilevanza sociale. È il caso delle scelte sul fine vita. Al contrario il divieto di fumare o l´obbligo di allacciare le cinture di sicurezza, per fare due esempi, hanno a che fare con scelte che hanno ricadute e costi sociali. Non solo. Il concetto di autodeterminazione è meno pieno quando la scelta individuale è condizionata da un rapporto con altri. Per capirci, quando faccio qualcosa perché è in corso una relazione con un altro, il rapporto può determinare una responsabilità di quest´altra persona». Rodotà ricorre a un altro esempio: «Se io pago qualcuno perché corra in auto contromano, la scelta individuale di questa persona è determinata dall´esistenza di un rapporto, in tal caso economico, con me». Tornando all´eventuale responsabilità di Mulè, «le due ragazze non erano sole, c´era una terza persona. La domanda allora è: quanto ha inciso questa presenza sull´autodeterminazione delle ragazze?».
«Non c´è nessun rilievo giuridico - ci tiene a chiarire il costituzionalista Gaetano Azzariti - nella libera e consenziente compartecipazione a un´attività lecita, com´è un gioco erotico. Il problema nasce dalla morte di una persona e nel momento in cui qualcuno ne è stato causa o concausa. Il che va provato».

Corriere della Sera 13.9.11
Scoprire le zone del cervello aiuta a capire come funziona
Ma oggi occorre «ripensare» la mente e la psiche
di Edoardo Boncinelli


Si aprirà domenica 18 settembre alla Fondazione Cini di Venezia la settima conferenza «Il futuro della scienza» creata dal professor Umberto Veronesi e dedicata quest'anno al cervello e agli enigmi della mente. Si tratteranno anche aspetti filosofici con il professor Giulio Giorello. La sfida scientifica delle neuroscienze è anticipata nell'articolo del professor Edoardo Boncinelli

La neurobiologia e più in generale le neuroscienze ci hanno detto tantissime cose di recente sul cervello e sulla mente, al punto che qualcuno ha considerato perfino eccessivo tutto questo. Il fatto è che eravamo così assetati di conoscenze affidabili sull'argomento che i media hanno probabilmente ecceduto nel parlarne e nel trovarne possibili applicazioni, dalla neuroestetica alla neuroetica, dalla neuroeconomia all'utilizzazione di tali scoperte in campo forense. Non c'è dubbio però che quella delle neuroscienze è una delle scommesse più audaci e intriganti della scienza contemporanea. D'altra parte la molteplicità degli approcci rende difficile un'esposizione ordinata delle corrispondenti acquisizioni.
Una delle cose più interessanti ma anche più discusse è rappresentata dalla enorme quantità di «localizzazioni» di questa o quella funzione cerebrale che tali scoperte ci hanno portato.
Utilizzando le tecniche del cosiddetto brain imaging o neuroimaging, termini di cui non esiste una traduzione affidabile in italiano, si può osservare quale parte del cervello di una persona viva, sana e sveglia sono in attività mentre quella esegue un particolare compito.
In questa maniera si è potuto individuare l'area del linguaggio, parlato o ascoltato, del riconoscimento delle forme, dell'orientamento spaziale, dell'esitazione, dell'incertezza, della autoapprovazione e dell'autoriprovazione e via discorrendo. Si è così potuta ottenere una mappa molto articolata delle varie funzioni mentali e più in generale psichiche che non ha uguali nella storia. Una delle più recenti è stata l'individuazione delle aree cerebrali connesse alla gestione del rimpianto, una componente fondamentale della nostra condotta prima e dopo il compimento di una qualsiasi azione.
Una delle critiche che viene più comunemente mossa a questo approccio verte sul fatto che localizzare non vuol dire spiegare. Verissimo. Localizzare non vuol dire spiegare, ma non riuscire a localizzare può voler dire che si sta dando la caccia a qualcosa che non c'è. Una delle cose che non si riesce a localizzare è ad esempio la coscienza, o addirittura l'io. Ciò potrebbe anche voler dire che a queste parole venerande non corrisponde niente di concreto.
In effetti una delle difficoltà maggiori delle moderne neuroscienze deriva dal doversi confrontare con una terminologia di matrice speculativa e introspettiva stratificatasi nei secoli. Sappiamo da tempo che su nulla ci sbagliamo più facilmente che sulla valutazione di ciò che accade nella nostra testa, a cominciare dalla convinzione che tutti i moti del nostro animo siano coscienti e raggiungibili con un'introspezione più o meno attenta e avvertita.
C'è poi da dire che una localizzazione può essere l'inizio di una spiegazione. Anche in fisica non è stato compreso tutto in una volta. Studiare per esempio il moto dei corpi come se l'attrito non ci fosse è stata indubbiamente in passato una sovrasemplificazione eccessiva, ma ha permesso lo sviluppo di un primo abbozzo di teoria del moto che è stato successivamente aggiornato e arricchito. Se non lo si fosse fatto non si sarebbe mai potuti partire. La storia della scienza è piena di «rinunce» e autolimitazioni momentanee che permettono poi lo slancio finale verso le più alte vette della conoscenza.
Dobbiamo infine capire bene che cosa si sta localizzando. Dire che quando parliamo si attiva una piccola area della corteccia temporale, chiamata anche area di Broca, non significa dire che noi parliamo solo con quella. Noi possediamo un vocabolario, una serie di conoscenze su quello di cui stiamo parlando, una facoltà di comporre le parole tra di loro per significare qualcosa e, non ultima, la volontà di dire quel qualcosa, che stanno molto probabilmente diffuse in tutta la nostra corteccia cerebrale. Con tutta quella parliamo; ma l'ultima «stazione», l'area senza la quale non ci facciamo capire è rappresentata appunto dall'area di Broca.
Un ultimo, non piccolo, portato dall'immane scommessa rappresentata dalle neuroscienze è dato dalla necessità e dall'urgenza di «ripensare» un pò tutto, del cervello, della mente e della psiche. Proprio per «sfrondare» l'idea stessa della mente dalle sovrastrutture intellettuali precipitate nei secoli è opportuno fare «piazza pulita» e studiare tutto dalle fondamenta, come se non avessimo mai saputo niente. Come sta succedendo a proposito del fenomeno della coscienza e degli stati di coscienza.

Corriere della Sera 13.9.11
Se la scuola rinuncia alla storia dell'arte
Meno ore nei licei, sparita dagli istituti tecnici
di Lorenzo Salvia


ROMA — Letizia Moratti aveva esagerato. Era il 2002 e l'allora ministro dell'Istruzione voleva rendere obbligatorio l'insegnamento della storia dell'arte fin dalle elementari. Buoni propositi di inizio mandato, caduti nel vuoto come tanti annunci. Perché poi, invece che aggiunta alle elementari, la storia dell'arte è stata tagliata alle superiori. Una decisione presa con la legge Gelmini varata due anni fa. Ma che adesso comincia a far sentire i suoi effetti, perché quella riforma piano piano si estende a tutte le superiori: l'anno scorso toccò solo alle prime classi, quest'anno sono coinvolte anche le seconde, l'anno prossimo si arriverà alle terze e così via. Della questione, però, si torna a discutere perché proprio sulla storia dell'arte al ministero dell'Istruzione è stato creato un tavolo tecnico. Certo, è una formula burocratica che può partorire un aggiustamento o un nulla di fatto. Ma in ogni caso se ne parla di nuovo.
«Speriamo che ci possa essere una marcia indietro» dice Clara Rech, presidente dell'Anisa, l'associazione nazionale degli insegnanti di storia dell'arte. A suo tempo erano stati proprio loro a battagliare per limitare i tagli, arrivando a coinvolgere anche il presidente della Repubblica che, pur senza entrare nel merito, aveva fatto sentire la sua voce: «Per quanto mi consentiranno le mie competenze — aveva scritto Giorgio Napolitano in una lettera — non mancherò di sostenere la validità e la sempre maggior diffusione dell'insegnamento di questa materia nelle scuole».
Ma cosa ha cambiato la riforma per la storia dell'arte? Poco nei licei. Al classico le ore di lezione sarebbero addirittura aumentate. Ma solo in teoria perché moltissimi licei prevedevano questa materia in forma sperimentale anche al ginnasio dove adesso non c'è più. Stesso discorso per il linguistico mentre allo scientifico le cose sono rimaste uguali. La vera batosta è arrivata per gli istituti tecnici e commerciali dove, con poche eccezioni, è praticamente sparita. Persino all'istituto professionale del turismo dove pure avrebbe il suo perché in un Paese come l'Italia dove il turismo è anche Venezia, Firenze, Roma, e le altre città d'arte. «È stato un vero non senso per quel museo a cielo aperto che è l'Italia», dice la professoressa Rech, la presidente dell'associazione. Anche perché, a suo giudizio, le conseguenze non sarebbero solo scolastiche: «Se nella formazione di un geometra ci fossero alcuni elementi di storia dell'arte nel nostro Paese avremmo qualche scempio e bruttura in meno».
Passata la riforma alcune scuole si stanno riorganizzando. Tre classici di Roma, ad esempio, hanno deciso nella loro autonomia di reintrodurre questo insegnamento anche nei primi due anni, al ginnasio, proprio come avveniva prima della riforma in modo sperimentale. Sono il liceo Augusto, il Giulio Cesare e l'Anco Marzio e il progetto potrebbe essere esteso l'anno prossimo ad altre scuole. Così la storia greca viene studiata in parallelo alla storia dell'arte greca. E la cosa sembra piacere ai ragazzi e alle loro famiglie. Non è un caso che pochi anni fa, quando la Francia decise di introdurre questa materia nel suo ordinamento, il ministro dell'Educazione Luc Chatel disse di voler prendere a modello proprio l'Italia.
Adesso quel modello non c'è più. Con ricadute che si fanno sentire anche sugli insegnanti. Fino all'anno scorso la professoressa Nellina Sciurba insegnava storia dell'arte all'Istituto tecnico Varalli di Milano. «Ma con la riforma ho perso la cattedra — racconta — e a 58 anni mi sono dovuta rimettere a girare, come una ragazzina. Per quest'anno ho avuto un'assegnazione provvisoria in un liceo artistico».
L'anno prossimo si vedrà. Sempre meglio di Vincenza D'Amico da Caltanissetta, neoassunta a 63 anni dopo 40 di precariato. Lei insegna alle medie, educazione artistica, e tra due anni andrà dritta in pensione. Un altro segnale che l'arte va messa da parte. Anche a scuola.

l’Unità 13.9.11
«C’è un complotto per far fallire le idee della rivoluzione»
L’intellettuale egiziano ‘Ala al-Aswani punta il dito su vecchi poteri e islamisti. E a Israele dice: «Vogliamo la pace ma su basi di parità»
di Tiziana Barrucci


Ridefinire i rapporti, le relazioni internazionali è tanto importante come difendere il nuovo Egitto dalle derive islamiste: nel giorno della visita del premier turco Erdogan al Cairo, lo scrittore pro-rivoluzione egiziano 'Ala al-Aswani detta la sua ricetta per un nuovo Paese delle Piramidi. «C’è un complotto in corso perché l’Egitto precipiti nel caos – dice a l’Unità nella hall dell’albergo romano che lo ospita per presentare il suo nuovo libro sulla rivoluzione egiziana – obiettivo è spianare la strada ai progetti dei nemici della rivoluzione». Un filo rosso unisce così l’attacco all’ambasciata israeliana al Cairo di venerdì scorso col processo contro Hosni Mubarak e con la visita di Erdogan: «Nonostante io resti ottimista avverte prendo atto che l’esercito si sta mostrando sempre meno interessato ad un vero cambio della guardia».
Insomma, messo da parte il vec-
chio faraone non si vuole mettere da parte il suo regime. Che l’Egitto sia governato ancora dai vecchi nomi è cosa nota, ma per Aswani c’è una novità in più: quei pilastri, in carcere in attesa di giudizio o all’estero, sono pronti a spendere milioni pur di vendicarsi di chi li ha rimossi e riprendersi il potere. «Quasi ogni giorno ci sono provocatori che attaccano la vita degli egiziani ma la polizia, da sempre fedele all'establishment, non fa nulla perché con il Paese allo sbando ripristinare il vecchio ordine sarebbe più semplice. Per questo nonostante qualche settimana fa poliziotti egiziani abbiano sparato su un uomo che voleva entrare illegalmente nell’ambasciata israeliana, non hanno invece mosso un dito o quasi nelle ore dell'attacco organizzato venerdì scorso. Per questo ospedali, tribunali, centri di polizia, e addirittura chiese sono quotidianamente bersagli di delinquenti senza scrupoli che operano indisturbati. Eppure la stessa polizia è sempre sollecita nell’arrestare manifestanti inermi che finiscono davanti ai tribunali militari». Un complotto, quello delineato da al-Aswani, di cui fanno parte anche i partiti islamisti, oltre a «potenze straniere».
I Fratelli musulmani sono uniti da un patto di sangue con la vecchia nomenclatura che in cambio dovrebbe assicurare loro una fetta di potere. E anche Israele teme ancora troppo il cambiamento. «Per la prima volta dopo decenni l'Egitto sta agendo secondo il suo interesse nazionale». Sta ad esempio trattando la vendita di gas a Tel Aviv per un prezzo giusto e non basso come era l'accordo stilato dal regime di Mubarak, ed è riuscito a far firmare la riconciliazione alle fazioni palestinesi. Ma Israele ha già fatto sapere di non gradire queste novità. «Non ha neanche chiesto scusa per l'uccisione dei sei poliziotti egiziani alla frontiera conclude lo scrittore comportamento bizzarro per un Paese democratico. Eppure Tel Aviv ha bisogno della pace con l'Egitto così come noi con lei. È che il rapporto oggi dovrebbe diventare di parità, come sta tentando di fare la Turchia. Ci riusciremo?».

il Riformista 13.9.11
«La rivoluzione degli egiziani è solo all’inizio»
’Ala Al-Aswany. Il grande scrittore di “Palazzo Yacoubian” spiega perché, malgrado lentezze e repressione dei Generali, è ancora ottimista. «Non siamo più quelli che eravamo sei mesi fa».
di Alessandro Speciale

qui
http://www.scribd.com/doc/64775818

l’Unità 13.9.11
Al via il processo: Berlino chiede l’annullamento delle sentenze sui risarcimenti di guerra
Il governo federale: «Uno Stato non può giudicare un altro Stato». La sinistra: e i diritti umani?
Germania contro Italia all’Aja «Stragi naziste, non pagheremo»
Dibattito accesissimo in Germania per l’avvio del procedimento all’Aja: «Le sentenze italiane sui risarcimenti violano l’immunità tedesca, ne va del diritto internazionale». Entro la settimana la decisione della Corte
di Roberto Brunelli


Da ieri le ombre lunghe del Terzo Reich sono di nuovo a processo, questa volte alla corte internazionale dell’Aja. Come in uno strano corto-circuito della storia, sui banchi opposti stanno sedute Germania e Italia: alle prese con i fantasmi del passato ma anche con il diritto internazionale, sospese tra i massacri compiuti dalle Ss e la realpolitik, in bilico tra il diritto al risarcimenti delle vittime ed i delicati equilibri europei. La richiesta tedesca è perentoria: Berlino chiede all’Aja che vengano annullate le sentenze dei tribunali italiani sugli indennizi alle vittime di crimini nazisti. Si parla di cifre ingenti: per i tre procedimenti passati in giudicato, siamo a complessivi 51 milioni di euro, secondo un’interrogazione rivolta al governo federale. Tuttavia, solo limitandosi ai 47 procedimenti in corso, a quanto scrive la Süddeutsche Zeitung, non è improbabile che la somma finale da esborsare alle vittime si aggiri intorno ai 150 milioni di euro. C’è poi chi pensa che i soldi in ballo siano molti di più: le richieste di risarcimento sono più di ottanta, e riguardano circa 500 ricorrenti.
Il governo italiano, a quanto pare, spera anch’esso nell’Aja per cavarsi d’impiccio. «Siamo qui per una questione giuridica di grande importanza per l’intero diritto internazionale e la sua evoluzione futura», è stata la lapide che la consigliera giuridica del ministero tedesco degli esteri, Susanne Wasum-Rainer, ha lanciato addosso alla corte. Aggiungendo: «I governi di Italia e Germania ritengono che solo una vostra decisione permetterà di uscire dall’impasse». Roma l’ha detto: la decisione dell’Aja «sarà utile ad un chiarimento». Un modo per non esporsi più di tanto.
La vicenda del ricorso al massimo organo giudiziario delle Nazioni Unite comincia con la sentenza della Cassazione del 21 ottobre 2008, che riconosce la responsabilità della Germania in quanto ‘mandante’ dei militari nazisti che il 29 giugno del 1944 massacrarono 203 abitanti di Civitella, Cornia e San Pancrazio (Arezzo): un colpo alla nuca ciascuno per donne, bambini, uomini e vecchi. Ovviamente il governo federale ribadisce che il ricorso all’Aja «non si rivolge contro le vittime del nazionalsocialismo», la cui sofferenza il governo federale riconosce «illimitatamente», né vi è l’intenzione «di mettere in qualche modo in dubbio e relativizzare la particolare responsabilità tedesca per i crimini della seconda guerra mondiale». Ma il fatto è che secondo Berlino l’Italia, permettendo l’avvio delle azioni civili contro la Germania, «viola i suoi obblighi giuridici internazionali». Wasum-Rainer ieri ai giudici della corte l’ha detta ancor più chiaramente: «L’oggetto della procedura è unicamente la violazione dell’immunità degli Stati da parte di tribunali italiani». E il principio dell’immunità degli Stati «vieta che uno Stato possa giudicare su un altro Stato». Punto e basta.
CRIMINI DI GUERRA
Ma è proprio su questo che il dibattito in Germania è accesissimo. Da sinistra, si teme che se l’Aja dovesse dar ragione a Berlino si creerebbe un precedente, sinanche in caso di futuri conflitti, negando alle vittime ogni prospettiva di risarcimento. «La questione, alla fine, e se gli Stati possano essere considerati responsabili civilmente per crimini di guerra», scrive ancora la Süddeutsche. Negli ultimi anni diversi tribunali italiani avevano dato risposta affermativa, condannando la Germania a pagare. Amnesty International addirittura teme che un’eventuale vittoria tedesca al processo dell’Aja possa portare «ad un grande passo indietro per quello che riguarda la difesa dei diritti umani».
Berlino risponde di avere già erogato non pochi indennizzi e ricorda un accordo italo-tedesco del 1961 in cui il Bel Paese aveva accettato di rinunciare a tutte le richieste di riparazione concernenti la seconda guerra mondiale. «Se la Germania dovesse fallire all’Aja, gli esiti sarebbero imprevedibili», scriveva ieri la Frankfurter Allgemeine, prefigurando una violazione sistematica dell’immunità nazionale, con conseguenze disastrose nei rapporti fra gli Stati. «Arroganza tedesca», la chiama, di contro, la Tageszeitung: il giornale della sinistra ritiene è che il governo federale vuole assicurarsi la non-applicabilità di sentenze che feriscano la sovranità tedesca. «Una posizione anacronistica e destrorsa», picchia duro la Taz, che parla di un «feticismo della sovranità degno di un’epoca passata».
Oggi toccherà all’Italia esporre il proprio punto di vista di fronte alla corte internazionale. Chissà se citerà i principi ratificati dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel marzo del 2006 circa il risarcimento delle vittime di gravi violazioni delle norme internazionali sui diritti umani. Entro venerdì l’Aja dovrà decidere. Chissà se saprà diradare le ombre lunghe della storia.

l’Unità 13.9.11
Festivalfilosofia fra natura e tecnologia


Quasi 200 appuntamenti in 40 luoghi diversi animeranno il Festivalfilosofia da venerdì a domenica. È «Natura» il tema dell’edizione 2011 della kermesse, con un programma di lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. Tra i relatori, Enzo Bianchi, Edoardo Boncinelli, Massimo Cacciari, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, il modenese Carlo Galli, Sergio Givone, Salvatore Natoli, Vincenzo Paglia, Giovanni Reale, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Emanuele Severino, Carlo Sini e Remo Bodei, presidente del Comitato scientifico «Consorzio per il festivalfilosofia» che promuove la manifestazione. È stato fondato dai Comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, dalla Provincia di Modena, dalla Fondazione Collegio San Carlo e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena.
Nell’edizione di quest’anno, presentata nella sede del Consorzio, sono molti anche i filosofi stranieri protagonisti delle oltre 50 lezioni magistrali, rappresentando circa un quarto del totale: tra loro i francesi Jean-Robert Armogathe, Pierre Donadieu, Marc Augè, che fa parte del comitato scientifico del Consorzio, mentre di Jean-Luc Nancy verrà letta la lectio; i tedeschi Gernot Böhme, Peter Sloterdijk, Wolfgang Schluchter e Christoph Wulf; il belga Roel Sterckx, docente in Gran Bretagna; gli spagnoli Felix Duque e Francisco Jarauta; il polacco Zygmunt Bauman, da 40 anni esule in Inghilterra; il portoghese Jos‚ Gil e l’indiana Vandana Shiva.
Il programma delle lezioni magistrali verterà sulle trasformazioni innescate dalle scienze e dalle tecnologie: si parlerà delle metamorfosi del corpo, del futuro del paesaggio, delle politiche della natura e delle frontiere del biodiritto. Per la sezione «La lezione dei classici» studiosi commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali per il tema della natura: da Aristotele a Plotino, da Galilei a Cartesio, da Hobbes a Spinoza, da Vico a Schopenhauer, fino ad arrivare a Merleau-Ponty.

Corriere della Sera 13.9.11
FestivalFilosofia
La Natura protagonista E le piazze si riempiono
Lo spunto vincente? Semplificare senza banalizzare
di Paolo Fallai


«C omunicare i saperi, riattivare i rapporti interrotti tra una scuola in difficoltà e una società civile priva di canali di comunicazione, inventare un modo nuovo per parlare di filosofia appellandoci al presente. Ecco, siamo partiti da qui». Parlare con Michelina Borsari, direttrice e anima del Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, produce lo stesso effetto che questo appuntamento da dieci anni regala al pubblico: sembrano semplici le cose più complicate.
L'idea di fare un festival dedicato alla filosofia nasce a Modena subito dopo l'esplosione del Festival Letterature di Mantova. D'altronde tra le due città ci sono solo settanta chilometri e più di una vicinanza. Siamo nel 1998 ed è l' assessore provinciale alla cultura Mario Lugli — rendiamo merito agli amministratori illuminati — ad avere l'intuizione giusta: coinvolgere Michelina Borsari, come lei stessa racconta, e tutto il gruppo nato intorno alla Fondazione San Carlo. Ci vollero più di due anni per accordare i diapason di un'idea ambiziosa tra amministrazioni pubbliche e sponsorizzazioni essenziali per un evento da sempre «rigorosamente gratuito». Ma qual è la carta vincente, da subito, dalla prima edizione del 2001 non casualmente dedicata alla «felicità»? «Parlare del presente — risponde pronta Michelina Borsari —. Certo Platone lotta sempre con noi, ma c'era e c'è bisogno di offrire spazi pubblici di riflessione, recuperare l'idea dell'agorà, ritrovare sedi della cultura per un pubblico non specializzato che la filosofia in vita sua l'aveva al massimo sfiorata. Insomma qualcosa che non avesse tra le sue finalità acquisto e consumo. Quindi niente transenne e niente biglietti».
Una rivoluzione complicata: «Abbiamo cominciato dai tempi — spiega Borsari, come se fosse naturale in un'epoca di spot —. Perché la filosofia resta un sapere difficile e occorre un giusto spazio per le nostre "lezioni magistrali". Certo, ai filosofi abbiamo chiesto di uscire dalla tecnicalità, di non fare discorsi con le note. Insomma se dovete citare Aristotele, aggiungete anche filosofo del IV secolo. Ma non abbiamo mai chiesto a nessuno di banalizzare».
Il successo di questi anni sta tutto in questa formula. Per festeggiare l'edizione 2011 del Festival, che si svolgerà a Modena, Carpi e Sassuolo dal 16 al 18 settembre, hanno stampato un libretto con i volti dei protagonisti di questi dieci anni. Con le piazze stipate fin sotto i portici: un milione di partecipanti, 203 filosofi, di cui 50 stranieri e 400 lezioni magistrali. Quest'anno è la «Natura» il tema intorno al quale è stato costruito un programma con 200 appuntamenti in 40 luoghi diversi delle tre città: lezioni, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. Vastissima, come sempre, la gamma delle riflessioni: dalle Biotecnologie (Edoardo Boncinelli e il genoma come «geometria della vita»), al paesaggio (Marc Augé e Salvatore Settis), dal «corpo vivente» (Umberto Galimberti e Gernot Böhme) all'«ecologia e sostenibilità» (con Vandana Shiva «Brevettare la Natura» e Zygmunt Bauman «Cosa è accaduto alla Natura»). E ancora bioetica e le «regole» della vita tra artificio e natura (Emanuele Severino con la sua lectio «Verità e natura umana», Salvatore Natoli «Natura madre e matrigna», Stefano Rodotà in «Biodiritto», Sergio Givone in "Innocenza e colpa", ma anche Natalino Irti e Francesco D'Agostino), ma anche sulla contrapposizione tra natura e cultura, natura e artificio (con Massimo Cacciari e Remo Bodei) e Pierre Donadieu («Campagne urbane: un'utopia realista?»). E per la prima volta un vescovo, monsignor Vincenzo Paglia che interverrà sulla salvaguardia del Creato, tra dottrina teologica e imperativo ecologico.
Ma per avventurarsi nel programma conviene passeggiare nel sito www.festivalfilosofia.it e scoprire le oltre 40 mostre (dalle fotografie di Ansel Adams, a Tiziano Terzani e il suo Oriente), i concerti (Elio senza le "Storie tese" canterà Rossini in piazza), le letture (Serena Dandini, Carlo Lucarelli, Ermanno Cavazzoni, Francesco Bianconi dei Baustelle). Per non parlare di Tullio Gregory, e dei suoi tradizionali «menu filosofici» in una cucina «dove tutto è innaturale». Sfatando i miti della «dieta mediterranea» o difendendo le meraviglie della natura «arrosto». «Siamo nella civiltà del cotto — aveva annunciato in conferenza stampa — rendiamo omaggio ai grandi bolliti».
«L'abbiamo chiamato Festival — spiega Michelina Borsari — proprio perché prendiamo sul serio la dimensione della festa. E abbiamo troppo rispetto di questo grande desiderio di sapere che vediamo ogni anno». Per questo avete scelto le piazze? «Veramente la piazza grande a Modena ce l'hanno data solo al terzo anno. Nessuno pensava che l'avremmo riempita».
Sì, è difficile credere che la complessità possa essere popolare. Al punto che Jeremy Rifkin alla fine della sua affollatissima lezione tra ragazzi attentissimi e adulti che non si alzavano neanche per andare al bagno, chiese agli organizzatori una copia del video: «Se lo racconto negli Stati Uniti, non ci crede nessuno».

Corriere della Sera 13.9.11
Un frate tra gli «eretici» orientali cristiani rivali alla corte mongola
L'odissea nelle steppe. Nell'impero del khan la fede in Gesù era praticata e rispettata ma per un cattolico certi rituali avevano un sapore dionisiaco
di Pietro Citati


27 mesi e 12 mila chilometri

I vescovi, i sacerdoti, i fedeli cristiani, che amavano venire chiamati «la Chiesa d'Oriente», abitavano oltre le frontiere dell'Impero romano: soprattutto in Persia, sotto gli Arsacidi e i Sasanidi, che per sei secoli ora li protessero ora li perseguitarono ferocemente. Era una formazione religiosa profondamente arcaica. Secondo la leggenda, il re d'Edessa, Abgar V, aveva invitato nella sua capitale Gesù, che promise di mandargli in suo luogo l'apostolo Tommaso, che a sua volta incaricò Addai della missione d'Oriente. Secondo la storia, Abgar IX si convertì al cristianesimo tra la fine del II e l'inizio del III secolo, quasi un secolo prima di Costantino. Molto spesso i nuovi cristiani giungevano dall'ebraismo. Il rito aveva mantenuto il suo carattere semitico: la lingua adottata era il siriaco (o aramaico); i gesti e i canti affondavano profondamente nel mondo giudeo-cristiano. Durante i milletrecento anni della sua ricca vita, la «Chiesa d'Oriente» conservò sempre questo profumo di cose e parole antichissime.
Verso il principio del V secolo, la chiara luce della Chiesa d'Oriente fu avvolta dall'ombra. Gli avversari dei «fedeli orientali» li chiamarono nestoriani, dal nome di Nestorio, patriarca di Costantinopoli: il quale (secondo alcuni) riconosceva nel Cristo due nature così indipendenti che non si potevano attribuire all'una le qualità dell'altra. I «fedeli orientali» non si riconobbero mai in Nestorio, né nel cosiddetto nestorianesimo: essi credevano contemporaneamente nella natura umana e divina, una e doppia del Cristo. Alla fine del XIII secolo, Rabban Sauma, uno degli ultimi «fedeli orientali», fu invitato, a Roma, nella chiesa di Pietro e Paolo. I cardinali gli chiesero: «Quale è la tua fede? Esponi il tuo credo». Rabban Sauma rispose: «Io credo in un Dio nascosto, eterno, senza inizio e senza fine, Padre, Figlio e Spirito Santo, tre ipostasi uguali e non separate. Non c'è tra loro primo o ultimo, né giovane o anziano: essi sono uno quanto alla natura ma tre quanto alle ipostasi; il Padre generatore, il Figlio generato e lo Spirito procedente».
Il cuore della cristologia orientale era la croce. Isacco di Ninive, il più grande scrittore siriaco, considerava le prostrazioni e le preghiere davanti alla Croce come un esercizio spirituale intensissimo. La croce era nuda: due legni incrociati senza il corpo bruno o colorato di Cristo: non perché gli «orientali» rifiutassero la Passione, ma perché, come nel Vangelo di Giovanni, vedevano oltre la crocefissione: la parusia, la gloria futura, il corpo di luce.
Tutto era croce. Dovunque andassero, gli «orientali» segnalavano la propria presenza incidendo croci nelle montagne, nei sassi, sulle porte e le mura esterne ed interne delle chiese, sulle case, sulle stele, e persino sugli orci. Erano croce i sacramenti, che venivano chiamati misteri. L'episcopato, il sacerdozio, il diaconato; il battesimo, compiuto con l'acqua e l'olio; l'ultimo tocco d'olio, che donava lo Spirito Santo; il pane dell'eucarestia, preparato con un piccolo resto del pane distribuito dal Cristo durante l'ultima cena; il rito del Perdono, che sostituiva la penitenza — tutti i segni della liturgia portavano nascosti in sé stessi «la Croce, che dona la vita».
Verso l'inizio del III secolo, un'immensa folla di «orientali», con la croce e i sacramenti-misteri e il suono antichissimo del siriaco e le non meno antiche liturgie, cominciò a muoversi verso i «Paesi lontani», con una specie di sfibrante cautela e di squisita attenzione. Il mondo mutò. L'Impero persiano cadde miseramente nella battaglia di Qadisiya: gli arabi di Omar e i Califfi Abbassidi, coi quali i rapporti dei cristiani furono spesso eccellenti, li sostituirono. Presto gli «orientali» raggiunsero le rive e le isole del Golfo Persico, il Qatar, il Bahrein, l'Iran orientale, l'Afghanistan, e forse l'India.
Il primo missionario siriaco, Alopen, giunse a Pechino nel 635: dove, nel secolo successivo, venne incisa in calcare nero, in caratteri cinesi e siriaci, la stupenda stele di Xi'an. Nella stele, il cristianesimo veniva proclamato la religione della luce: anzi la via della luce, come pensavano Buddha e Giovanni. «Questa via vera e immutabile è trascendente e difficile da definire con un nome; tuttavia la sua efficace azione si manifesta in modo così luminoso che, sforzandoci di descriverla, la chiameremo col nome di religione della luce». Quando l'ignoto scriba cristiano parlava di Dio, si avvertiva nelle sue parole una fitta tessitura di termini cristiani, buddhisti e taoisti, che cercavano di disegnare una figura unica. «Si dice che vi sia un Essere eterno nella sua verità e quiete, senza origine e al di qua di ogni inizio; insondabile nella sua spiritualità e immobilità; Essere trascendente al di là di ogni fine; il quale, disponendo del misterioso cardine del mondo, crea e trasforma ogni cosa; Supremo venerabile, egli ispira ogni santità — ma questo non è forse proprio Dio, l'Essere Trascendente della nostra Trinità, vero Signore senza origine?» ( testi raccolti in La via radiosa per l'Oriente, a cura di Matteo Nicolini-Zani, edizioni Qiqajon).
La vera strada verso oriente era la cosiddetta Via della seta. O le due vie della seta, settentrionale e meridionale, e le molteplici viuzze e vicoli della seta. La principale partiva da Seleucia-Ctesifonte, attraversava Samarcanda e la Ferghana, si arrestava a Kashgar, ai piedi del Pamir cinese, e poi a Turfan, dove esisteva uno Stato manicheo, per giungere a Dunhuang, dove un secolo fa Paul Pelliot scoprì una folgorante moltitudine di manoscritti cinesi.
Lungo la via della seta, i mercanti si mescolavano ai missionari: mentre commercianti di ogni sorta gridavano vantando le loro merci, i cristiani orientali, i manichei, i mazdei, i buddhisti parlavano, discutevano, pregavano, si combattevano o, al contrario, fondevano le loro verità separate in nuove religioni. La Chiesa d'Oriente si diffuse. Tra il X e il XII secolo venne accolta da diverse tribù turco-mongole dell'Asia centrale e settentrionale. «Sappiate, padri miei — disse un cristiano orientale nel XIII secolo — che molti dei nostri padri sono andati nelle terre dei Mongoli, dei Turchi e dei Cinesi, a istruirli, tanto che sono molti i Mongoli cristiani. Vi sono perfino figli di re e regine battezzati che professano il Cristo e ci sono chiese presso di loro. Onorano assai i cristiani, e molti di loro sono credenti».
A sud del lago Balkash, due cimiteri di cristiani «orientali» raccoglievano più di tremila corpi. Vi erano stele funerarie, iscrizioni (in siriaco ed uiguro) su grossi ciottoli, nomi che risalivano soprattutto al periodo tra il 1250 e il 1369: lo stesso in cui lo scrittore di cui desidero parlare, Guglielmo di Rubruk (Viaggio in Mongolia, ottimamente curato da Paolo Chiesa, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori) percorse la Russia e la Mongolia. I prenomi erano quelli del calendario cristiano, spesso completati da altri di origine turca: gli anni erano indicati dal nome degli animali. «Nell'anno 1264, l'anno del ratto, questa è la tomba di Filippo, ispettore, figlio di Lemâitre, ispettore figlio di Tunga, ispettore». «Nell'anno 1339, l'anno della lepre, questa è la tomba di Cha-Dikam, capo di chiesa, figlio di Mangu-prete». Intorno, una moltitudine di croci: croci grandi e minime, croci sulle chiese, croci sulle case e nelle case, croci a svastica, croci disegnate nel cielo gelidissimo.
Il 7 maggio 1253, Guglielmo di Rubruk partì da Costantinopoli verso il Mar Nero e la Crimea. Era un frate francescano fiammingo, legato da stretta amicizia con il filosofo Ruggero Bacone e con il re di Francia Luigi IX (il Santo). Il re gli aveva affidato un compito di osservatore e ambasciatore nella terra dei Mongoli, che qualche anno prima avevano invaso e devastato l'Ungheria e la Russia meridionale.
Il viaggio fu lunghissimo: 27 mesi, 12 mila chilometri; e sfidò le sue robuste energie. A Sebastopoli, «la chiesa costruita dalle mani degli angeli»; il Danubio, il Don, il Volga immenso, le foreste, le lontananze del Caucaso; le «steppe sconfinate come il mare», dove per due settimane non si incontrava un essere umano; i carri coperti pieni di mercanzie; il commercio di pellicce e di sete; i poveri doni ai Mongoli laceri e affamati; mentre la mente continuava a pensare all'Europa lontanissima — la Senna, Orléans, Parigi, il vino rosso di La Rochelle. Infine, un ultimo balzo, prima di giungere a Qara-qorum: il regno del freddo — il freddo che spaccava le pietre e gli alberi, i cavalli velocissimi tra le nevi, le dita congelate, il ghiaccio interminabile, che gettava la sua ombra sulla primavera e l'estate. Rubruk vide moltissime cose. Ma quando fu di ritorno, a Cipro e in Palestina, ebbe l'impressione di non aver compreso, o di avere compreso confusamente, o di avere tralasciato migliaia di sensazioni e osservazioni, forse proprio quelle più rare e essenziali.
Il Viaggio in Mongolia è un capolavoro: è molto più bello del Milione di Marco Polo; e ricordo le Storie di Erodoto, il quale millesettecento anni prima si era avanzato allo stesso modo, come viaggiatore e etnografo, tra gli Sciti, le loro steppe e le loro tombe. Come osserva Paolo Chiesa, appena Rubruk arrivò tra i Mongoli «gli sembrò di incontrare l'altro mondo»: un mondo completamente a parte, che non aveva nulla in comune con tutti quelli che aveva conosciuto. Era pieno di stupore, di meraviglia, di sorpresa; a volte di sgomento e di scandalo; vedeva tutto, sentiva tutto, odorava tutto, gustava tutto; e nemmeno le cose più inconcepibili gli sfuggivano.
Rubruk possiede il dono di una descrizione assolutamente oggettiva. Eppure non è soddisfatto. Qualcosa gli manca: la parola non è sufficiente; e vorrebbe disegnare tutte le cose che ha visto. «Le donne di rango si fanno costruire — egli scrive — dei carri bellissimi, che potrei descriverti solo con un disegno; ma in verità tutto quanto vi avrei disegnato, se sapessi farlo!». Così il suo libro, questo grandioso capolavoro visivo, è anche un fallimento visivo, che non riesce a rappresentare l'altro mondo, come aveva sognato. Ma, alla fine, dopo la lunghissima traversata dell'Europa e dell'Asia, dopo le fatiche, le pene, la fame, il gelo, Rubruk si lascia conquistare dallo spettacolo della Mongolia: le tende coperte di feltro bianco o impregnate di bianco, il colore sacro; i cortei di buoi che trascinano i carri e le tende; le grandi città in movimento; migliaia di buoi, di cavalli, di uomini e donne che avanzano, come un oceano che fluttua lentamente nella pianura.
Quando Rubruk arrivò a Qara-qorum, la capitale, l'aveva appena lasciata un famoso storico persiano, Juwayni, che aveva cominciato a scrivere Gengis Khan. Il conquistatore del mondo (Il Saggiatore, traduzione di Gian Roberto Scarcia, poi ristampato da Mondadori), Möngke era il nuovo Gengis Khan: o almeno pretendeva e sognava di esserlo. Affermava che i Mongoli credono nell'esistenza di un unico Dio, «per volontà del quale viviamo e moriamo, e a cui dirigiamo i nostri cuori». E in corrispondenza sulla terra c'è un solo Signore, il sovrano dei Mongoli, Gengis o l'erede di Gengis, che attraverso i Mongoli comanda a tutti i re, a tutti i principi, a tutti i sacerdoti, a tutti gli uomini della terra, a costo di imporre i propri ordini con la violenza, «devastando ogni terra dall'Oriente all'Occidente», come Gengis aveva devastato l'Asia e l'Europa. Solo in questo modo può esistere l'armonia delle cose. «Ecco — scrive Möngke — il comando del figlio di Dio che vi diamo a conoscere. Quando, per la potenza del Dio eterno, dall'alzata del sole fino al suo tramonto, il mondo sarà unito nella gioia e nella pace...».
Sebbene credessero nell'unità del potere regale, i Mongoli coltivavano e difendevano la tolleranza nelle cose religiose. «Come Dio formò le mani con diverse dita, disse il khan, così aveva dato agli uomini diverse strade»: cristiani «orientali», sciamani, taoisti, buddhisti, mazdei, manichei, musulmani dividevano i loro cuori e le loro ansie. Quanto a Möngke, era molto prossimo ai cristiani «orientali». La moglie era cristiana; la favorita era stata cristiana, come la figlia della favorita; sebbene ammalatissima, la seconda moglie si prosternava adorando la croce; e Rubruk la curava leggendole la Passione secondo Giovanni. Quando entravano in chiesa, i figli del khan si inchinavano con devozione, anche se non erano battezzati; e onoravano profondamente la croce. Il fratello più giovane di Möngke conosceva il Vangelo, e salutava facendo il segno della croce alla maniera di un vescovo. Su tutta la corte, aleggiava la protezione dei sacerdoti cristiani «orientali», che custodivano e proteggevano i libri sacri scritti in siriaco.
Nel corso del Viaggio in Mongolia, contempliamo una serie di mirabili scene, dove i gesti, gli oggetti, i riti, le funzioni cristiane si fondono nel racconto politico. Ecco Rubruk e i suoi compagni penetrare nella tenda di feltro bianco mostrando i libri e i paramenti sacri; oppure indossare gli abiti più preziosi; oppure tenere sul petto una Bibbia e un salterio; oppure innalzare l'incenso col turibolo; o intonare il Salve Regina o il Veni Sancte Spiritus. Intanto il khan esamina con estrema attenzione il Salterio, il crocefisso, il turibolo, le preziose miniature della Bibbia. Mentre siede su un trono lungo e largo simile a un letto, decorato d'oro, i missionari stanno in piedi senza inchinarsi, nel silenzio più assoluto, il tempo di un miserere: perché i cristiani si prosternano solo davanti al Signore. Cosa colpisce, in queste scene bellissime, è la reverenza reciproca: come se il cattolico d'Occidente potesse riflettersi soltanto nel gesto del terribile e grave khan orientale.
Guglielmo di Rubruk non amava i sacerdoti «orientali» (o nestoriani), incontrati alla corte del khan: li giudicava ignoranti, avidi, simoniaci, ubriaconi; e sopratutto pensava o sospettava che fossero eretici o eterodossi. Non sapeva che i loro riti erano, spesso, quelli della Chiesa orientale del III secolo, e serbavano il profumo di un passato antichissimo: come la farina del pane dell'ultima cena, o la croce senza corpo del Cristo, o la preghiera a mani aperte davanti al petto. In un punto, i nestoriani avevano profondamente innovato. Il kumys, il latte di giumenta fermentato, che faceva facilmente inebriare, apparteneva ai simboli essenziali della cultura mongola: ora, i nestoriani avevamo integrato le libagioni di kumys nella cerimonia dell'eucarestia, trasformando la messa in una specie di rito dionisiaco.
Quando a Qara-qorum giunse un'altra volta la Settimana Santa, gli «orientali» invitarono Rubruk e i suoi compagni a celebrare insieme la Pasqua. Rubruk fu profondamente turbato. Non aveva con sé i vestiti sacerdotali: né altari né calici, né ostie né incensiere. Cosa doveva fare? Da un lato, come ogni uomo del Medioevo, sentiva profondamente la fraternità della croce. Ma, dall'altra, temeva di compiere gesti sbagliati, di usare altari e calici sbagliati, condividendo l'eresia, di cui pensava che Cristo soffrisse.
Proprio allora conobbe, a Qara-qorum, mâitre Guillaume Buchier, un orafo di Parigi, che, qualche anno prima, i Mongoli avevano catturato in Ungheria, come usavano fare con gli artigiani provetti. A Qara-qorum, dove aveva qualche amico francese, maître Buchier lavorò per la madre e i fratelli del khan: era un orafo eccellente; e raggiunse un tale prestigio da diventare l'artista personale del khan. Oggi tutte le sue opere sono perdute: non è rimasto né un anello né una pisside; e dobbiamo accontentarci di contemplare il suo capolavoro attraverso la descrizione minuziosa e affascinata di Rubruk. Mâitre Guillaume aveva creato un immenso albero d'argento, con rami, foglie e frutti d'argento, leoni d'argento, serpenti dorati, vasi d'argento, nicchie e angeli con la tromba in mano. Era una macchina, che ricordava un poco le famose macchine illusionistiche di Bisanzio. In apparenza, serviva a versare kumys, caracomos, vino, una bevanda fatta col miele, birra di riso, agli assetati commensali del khan. Ma la costruzione era così complicata e sovrabbondante, e lo sguardo di Rubruk così affascinato, che siamo costretti a fantasticare: come se l'albero d'argento di mâitre Guillaume fosse una invenzione apocalittica, che cerca di comunicarci qualche messaggio sconosciuto.
Mâitre Guillaume era colto e devoto. Così, nel suo lungo esilio mongolo (quante volte aveva ricordato Parigi, Nôtre Dame, l'église Saint-Séverin e Saint-Julien-le-Pauvre, quante volte l'immagine degli alberi profumati dell'Ile Saint-Louis gli pesò sul cuore, fino quasi a soffocarlo!), preparò una piccola collezione sacra. Fece un ferro per segmentare le ostie: un'immagine scolpita della Vergine, «alla maniera francese», con le storie del Vangelo; una pisside d'argento con le reliquie di Cristo; un oratorio portatile; e qualche paramento sacro. Offrì le sue invenzioni a Rubruk, che ne fu felicissimo. Il giorno di Pasqua, mentre i fratelli nestoriani battezzavano sessanta persone, il frate francescano disse la messa in un battistero nestoriano, sopra un altare nestoriano, col calice d'argento nestoriano e la patena nestoriana, ma con le vesti, la pisside e le ostie, che la pietà di un orafo di Parigi aveva preparati nel cuore dell'Asia. «E vi fu grande gioia comune — commentò Guglielmo di Rubruk, finalmente disteso e pacificato — presso tutti i cristiani», quali ne fossero il nome, l'origine, il linguaggio, la razza.

Repubblica 13.9.11
E Pechino ha deciso di mettere il bavaglio al web. Ecco come
di Giampaolo Visetti


È il web il grande nemico della Cina, il solo a spaventare i leader del partito comunista È scoppiata la più costosa guerra invisibile del secolo Ma il prezzo di una società disconnessa è insostenibile anche per la seconda potenza del mondo
Il Paese è scosso da una pericolosa contraddizione: vanta il record di oltre 450 milioni di cybernauti, ma anche il primato delle barriere
La tentazione di isolare virtualmente la nazione dalla comunità globale risale a tredici anni fa
La sfida è cancellare la sete collettiva di verità presentandola come cedimento individuale alla menzogna

PECHINO. La Cina oggi controlla il pianeta degli uomini e dei soldi. Ciò che gli sfugge è il mondo delle idee, l´unico essenziale per la stabilità di qualsiasi potere autoritario. Internet, più del dissenso ufficiale, è il grande nemico di Pechino, probabilmente l´ultimo, il solo a spaventare ormai i leader del partito comunista. La tentazione di spegnere la Rete, isolando virtualmente la nazione dalla comunità globale, risale a tredici anni fa: niente web niente tentazioni di libertà, hanno concluso i censori cinesi, ed è scoppiata la più costosa guerra invisibile del secolo.
Il nuovo motore della crescita non obbedisce però più esclusivamente agli ordini ideologici dei successori di Mao, dipendenti dalla propaganda. Anche in Cina comanda il business e le cose, per le dittature come per le democrazie, si fanno assai più complicate. Il prezzo di una società disconnessa è insostenibile e la seconda potenza del mondo è scossa dalla più pericolosa delle contraddizioni: vanta il record di oltre 450 milioni di cybernauti, ma pure il primato delle barriere che impediscono loro di navigare in uno spazio libero.
Due fatti, negli ultimi mesi, hanno impresso una sorprendente accelerazione allo scontro tra il governo di Pechino e la nascente opinione pubblica nazionale, esausti da oltre vent´anni di battaglie sulla strage di Tiananmen, sull´indipendenza del Tibet e dello Xinjiang, sulle frodi alimentari e sulle truffe degli aiuti alla ricostruzione dopo i terremoti. Nell´ottobre di un anno fa Liu Xiaobo, condannato a dieci anni di carcere per le critiche al potere, ha ricevuto il premio Nobel per la pace e non ha potuto nemmeno ritirarlo. Da fine gennaio, con l´esplosione delle rivolte popolari in Nordafrica, anche la Cina è percorsa da sotterranei movimenti, decisi ad importare in Asia il germe della rivolta contro la repressione. Lo stupore per il riconoscimento occidentale a un intellettuale ignoto in patria, o presentato come terrorista, e gli appelli a una pacifica rivolta dei gelsomini, sul modello arabo, hanno sfruttato il mezzo incontenibile dei social network. Non era mai accaduto che un´altra Cina virtuale, parallela a quella reale abituata a imprigionare chi chiede giustizia nelle carceri clandestine, emergesse quale minaccia all´esclusiva della verità rivendicata dalla scuola del partito.
La reazione è sotto gli occhi distratti di ognuno. La "Grande Muraglia di Fuoco", il filtro online ideato nel 1998, è mutato da vecchio strumento di censura ad arma della nuova propaganda web. I software che bloccavano le parole chiave dei "temi sensibili", mettendo fuori gioco Twitter, Facebook, YouTube e i siti che veicolano lo scambio accelerato delle informazioni, sono ora controllati da un esercito di 60mila agenti elettronici e da una massa di milioni di "volontari patriottici", stipendiati per diffondere e sostenere in tempo reale l´opinione ortodossa sugli eventi, per intasare la Rete con notizie false, per trasformare il dissenso in consenso, o per cacciare e denunciare gli internauti indipendenti. L´"Armata dei 50 yuan", dall´importo mensile per la delazione, ha il compito di condizionare, incanalare e infine armonizzare il sentire comune, fino a ridurre blog e portali ostili nel primo alleato del governo. Il risultato è straordinario: l´infiltrazione delle spie comuniste tra le file cinesi del popolo di Internet nel 2011 ha portato alla chiusura di 2,1 milioni di siti "fuorilegge", il 42,3% di quelli aperti dopo il 2008. In quattro mesi, tra il Nobel a Liu Xiaobo e i tentativi delle "passaggiate democratiche" a Pechino e a Shanghai, oltre 400 dissidenti sono stati arrestati, o fatti sparire, grazie all´intercettazione istantanea dei loro messaggi online.
Per anni era bastato dotarsi di "proxy" speciali, o di "Vpn", per aggirare il Muro contemporaneo che divide il mondo libero da quello in cui un´opinione personale può essere considerata un «attentato alla stabilità nazionale». Con l´estate il bavaglio cinese ha affinato i suoi controlli, pochi secondi di contatto a distanza possono bastare per ricevere un invito online a «bere un tè» nella più vicina stazione della polizia e le idee diverse dal credo ufficiale sono diventate crimini comuni. L´assemblea nazionale del popolo ha trasformato il dissenso in pornografia, gioco d´azzardo ed evasione fiscale, come nel caso dell´archistar Ai Weiwei, oppure nel tentativo di diffusione di notizie contrarie all´interesse nazionale.
In Cina si gioca così la partita decisiva del decennio, segnato dall´irruzione di Internet nel destino del confronto tra il tramonto delle democrazie partorite nel Novecento e l´alba degli autoritarismi legittimati dall´andamento dei mercati. La sfida di Pechino è cancellare la sete collettiva di verità presentandola come cedimento individuale alla menzogna, riducendo Internet da acceleratore sociale della globalizzazione a freno in balìa di oligarchici poteri nazionali. L´ultimo passo è controllare le persone anche quando si trovano nei luoghi pubblici. Da fine luglio, bar, ristoranti, alberghi, librerie e ogni altro luogo aperto ai cittadini sono costretti ad installare un software da tremila euro che fornisce alla polizia l´identità e le coordinate geografiche di chi si connette wi-fi. Chi sgarra rischia duemila euro di multa e la revoca della licenza e migliaia di cybercafé sono ora costretti a scegliere tra la chiusura e il piegarsi a ingrossare le fila dello spionaggio elettronico di Stato. La clientela dei locali frequentati dagli internauti è già crollata del 40% e nelle metropoli milioni di lavoratori cinesi, in gran parte emigrati dalle campagne, hanno perduto il solo mezzo per comunicare con la famiglia. Lo stesso Weibo, microblogging del portale Sina.com, controllato dal governo, è finito nelle maglie delle autorità. Un mese fa era stato adottato quale piazza virtuale della rabbia popolare contro corruzione, errori e bugie che hanno tentato di sopire l´indignazione per la tragedia ferroviaria di Wenzhou. Ieri gli uffici di Weibo sono stati visitati dal segretario del partito di Pechino, Liu Qi, che ha annunciato «controlli più stretti per prevenire la diffusione di notizie dannose». Ormai è una corsa contro il tempo e contro le conquiste dell´hi-tech, tese a fare in modo che ogni soggetto-web, per diventare tale in Cina, debba registrarsi con la reale identità, presentare i documenti, i numeri della carta di credito e superare un test politico di accesso alla comunità netizen. La nuova «patente per Internet» è rilasciata dal ministero dell´informazione e si appresta a distinguere i futuri cittadini ufficiali, ammessi al premio della crescita, dal popolo sommerso degli esclusi.
La Cina che cancella la Rete, che la reinventa da ponte sopra i confini in barriera che definisce l´Occidente e l´Oriente, fino a trasfigurarla nel certificato vitale di esistenza di ogni individuo, a discrezione dei leader al potere, è la sconvolgente novità che si nasconde nel cuore della crisi finanziaria che ridisegna il mondo. Per chi vive al di qua del "Muro di Pechino" possono sembrare "fatti loro". Il web eletto a dissidente da annullare è invece il nostro primo, non affrontato problema: Internet è l´abito che veste la democrazia contemporanea e se la prossima prima potenza del pianeta si rifiuta di indossarlo, per conservare e diffondere una forma nuova di totalitarismo economicamente vantaggioso, il mondo si scoprirà, ancora una volta, nudo.

Repubblica 13.9.11
Il premio Nobel Liu Xiaobo usa la Rete per diffondere il dissenso in Cina
La rete ha cambiato la mia vita
di Liu Xiaobo


Grazie a Internet, che collega in tempo reale il mondo intero, ora mi basta un computer. Il web mi ha reso più facile reperire informazioni, collegarmi con il mondo esterno e, soprattutto, inviare articoli all´estero.
Grazie a Internet, che collega in tempo reale il mondo intero, ora mi basta un computer e, in un secondo, posso disporre di una quantità di informazioni prima inimmaginabili. Il computer mi ha reso più agevole scrivere, il web mi ha reso più facile reperire informazioni, collegarmi con il mondo esterno e, soprattutto, inviare articoli all´estero. Così, Internet è come una sorta di supermotore che imprime un forte impulso alla mia scrittura. Inoltre, ciò che guadagno con i miei articoli, grazie al diritto d´autore, è sufficiente ad assicurarmi una vita decorosa e indipendente. Per quel che riguarda l´interesse pubblico, Internet rappresenta per la Cina dispotica un canale informativo difficile da chiudere, e per la società civile una piattaforma di discussione, di scambio e, soprattutto, di autogestione.
E il web mi ha reso più facile reperire informazioni, collegarmi con il mondo esterno e, soprattutto, inviare articoli all´estero. Così, Internet è come una sorta di supermotore che imprime un forte impulso alla mia scrittura. Inoltre, ciò che guadagno con i miei articoli, grazie al diritto d´autore, è sufficiente ad assicurarmi una vita decorosa e indipendente. Per quel che riguarda l´interesse pubblico, Internet rappresenta per la Cina dispotica un canale informativo difficile da chiudere, e per la società civile una piattaforma di discussione, di scambio e, soprattutto, di autogestione.
In un Paese dispotico, le lettere aperte firmate da singoli o da gruppi sono da sempre un importante metodo di lotta per la libertà e di resistenza civile contro il dispotismo. In particolare, sono sia espressione dell´opinione politica della gente comune, sia una forma di aggregazione di forze civili semiorganizzate. [...]
Le lettere aperte della società civile cinese hanno avuto una grande influenza anche anteriormente ai movimenti del 1989: a una prima scritta a Deng Xiaoping dal famoso Fang Lizhi per chiedere il rilascio del prigioniero politico Wei Jingsheng, ne fecero seguito altre due, firmate rispettivamente da 33 e 45 persone. Queste tre lettere sono considerate il preludio dei movimenti del 1989, durante i quali ne spuntarono come funghi e vennero divulgati appelli pubblici a sostegno degli studenti da parte di quasi tutti i settori sociali.
Ogni volta che sono seduto davanti a un computer, scrivo, navigo, invio e-mail, mi tornano in mente tanti ricordi e tante emozioni dolorose legate al periodo in cui organizzavo lettere aperte e raccoglievo firme. A metà degli anni Novanta del secolo scorso, nella società civile cinese c´è stato un vero e proprio boom di lettere aperte scritte a firma di diversi intellettuali interni ed esterni al sistema [...]. Si tratta di lettere, firmate da intellettuali di tutte le età e da dissidenti, che hanno affrontato il tema della tutela dei diritti umani. In particolare nel 1995, in occasione del sesto anniversario del 4 giugno, comparvero diverse lettere aperte [...]
Si può dire che, dopo il 4 giugno 1989, è stato il 1995 il momento clou dei movimenti popolari di tutela dei diritti civili. In quel periodo, poiché i supporti tecnologici della comunicazione erano limitati, per una lettera firmata erano necessari tempi lunghi e costi alti. Cosa difficile da immaginare per chi ha iniziato a partecipare ai movimenti civili nell´epoca del web. Nel 1989 ci voleva un mese per completare una lettera aperta. Prima bisognava cercare i promotori e radunare un numero sufficiente di persone, il che richiedeva un po´ di tempo, poi erano necessari almeno un paio di giorni per accordarsi sul contenuto, sulle parole da usare e sull´occasione in cui diffondere la lettera. Subito dopo si doveva trovare la tipografia che componesse in caratteri a stampa il testo manoscritto, dopodiché venivano tirate alcune copie. Di solito ci si recava da amici stranieri a Jianguomen a completare il testo e, una volta realizzata la versione definitiva, i promotori, divisi in gruppi, dovevano farsi carico di raccogliere le firme, con grande dispendio di tempo ed energie. Si correva su e giù per Pechino in bicicletta o in autobus, non si osava utilizzare il telefono, allora il mezzo di comunicazione più comodo, perché le autorità tenevano sotto controllo quello dei soggetti politicamente sensibili. Per esempio, quando ho partecipato alla stesura e alla promozione della lettera aperta in occasione del sesto anniversario del 4 giugno, per raccogliere la firma del famoso poeta Mang Ke e dell´illustre critico d´arte Li Xianting mi sono dovuto recare a casa loro a discuterne di persona, correndo dalla parte occidentale della città a quella orientale e poi verso quella settentrionale, con un gran dispendio di tempo ed energie e scarsissimi risultati.
Senza Internet era veramente impossibile raccogliere le firme di centinaia e persino migliaia di persone in poco tempo, così come era impossibile diffondere velocemente testi in tutto il mondo. Allora le lettere avevano un´influenza e un numero di sottoscrittori estremamente limitati: dopo un impegno di diversi giorni riuscivi a raccogliere al massimo una decina di firme. Ma da quando la Cina è entrata nell´era di Internet, la voce della gente ha un supporto tecnologico difficile da oscurare del tutto.
(© 2011 Liu Xiaobo und S. Fischer Verlag Gmbh, Frankfurt am Main - © 2011 Arnoldo Mondadori editore S.p.A., Milano. Titolo dell´opera originale Ich habe keine Feinde, ich kenne keinen Hass Ausgewählte Schriften und Gedichte. Traduzione dal cinese di Valeria Varriano. Per gentile concessione di Berla & Griffini Literary Rights Agency)

lunedì 12 settembre 2011

l’Unità 12.9.11
La scuola ha costruito il Paese. Ora può renderlo multiculturale
Un saggio ci riporta a quel che siamo stati e a quel che siamo. Oggi la sfida è l’integrazione L’istruzione pubblica ha un ruolo fondamentale nella crescita. Ha già fatto moltissimo, anche se spesso non ne è consapevole. Adesso però bisognerebbe investire di più e meglio
di Tullio De Mauro


Un geniale architetto e urbanista italiano, Luigi Piccinato, per sdrammatizzare il contrasto tra città e campagna ripeteva un bon mot: «Tutte le città sono nate in campagna». Quando si parla di alieni, forestieri, migranti, meticci, vale la pena ricordare che siamo tutti alieni e forestieri per qualcuno, tutti abbiamo il dna di qualcuno venuto da fuori, foresto, nel luogo in cui siamo e dunque tutti siamo un po’ meticci, basta risalire a volte anche poco nel tempo e nelle generazioni.
La bimbetta che con aria solenne dice: «Noi a casa nostra facciamo così» e si riferisce a qualche azione assolutamente comune, ma poi è attenta e curiosa al nuovo e all’ignoto, o il grande, famoso discorso con cui, secondo Tucidide, Pericle esaltava l’orgoglio di essere ateniesi perché cittadini di una città sempre pronta a ospitare gli altri venuti da fuori, riflettono l’ambivalenza che ci accompagna. Siamo noi perché altri, anche assai diversi da noi, ci hanno fatto e fanno così come siamo: vale per le singole persone e per i grandi gruppi umani.
Le mille e mille lingue del mondo riflettono questa ambivalenza. Chi viene da fuori fu, per i Latini, partendo dalla stessa etimologia, hospes e hostis, «ospite» e «nemico». L’estraneo fu ekhthròs e xénos, «esterno» per i Greci, ma poi si dicevano xénia i regali, tipicamente da destinare inizialmente a chi veniva da fuori. Nella Roma primitiva, quelli di fuori porta, stanziati al di là dell’originaria cinta muraria, in opposizione ai nativi interni, gli inquilini, furono detti exquilini. Ma poi le mura si ampliarono e l’Esquilino divenne uno dei sacri Sette Colli. Del resto, sta nei miti delle origini di Roma il deliberato meticciato. E nella parola italiana ospite, «ospitante» e «ospitato», vive ancora un’antica e non rara ambivalenza etimologica altrettanto presente in altre lingue: sembra certo che in latino hospes sia stato dapprima il «padrone di casa che accoglie gli hostes stranieri», l’ospitante, e solo poi l’ospitato.
Se le migrazioni non segnassero la storia del genere umano saremmo ancora arrampicati sugli alberi di una savana nel centro dell’Africa, incerti se scendere e camminare dritti sul suolo. Alcuni milioni di anni fa scegliemmo – scelsero per noi da allora le generazioni suc-
cessive di ominidi, ormai bipedi deambulanti, a ondate successive lasciarono il cuore dell’Africa per diffondersi nei continenti. Ultimi, un po’ più di duecentomila anni fa – già il fuoco veniva acceso e sfruttato e spento e riacceso in Asia ed Europa, già vi erano tecniche sofisticate per costruire strumenti preziosi al vivere, già tutti gli altri ominidi sapevano comunicare e istruire per segni – gli homines sapientes sapientes, quali noi dovremmo onorarci di essere; attraverso il Sinai, intorno a centomila anni fa passarono in Asia e in Europa, in tempi più recenti, attraverso le Aleutine, si spinsero nel continente americano. E sempre conservarono l’ambivalenza: formavano gruppi diversi per sopperire solidalmente alle necessità del vivere e ciascun gruppo, nato da altri, tornava ad aprirsi e fondersi con altri ancora; costruivano lingue diverse per parlare tra loro nel gruppo, ma ogni lingua era ed è la chiave per entrare in ogni altra e capirla, e dalle altre lingue trae ricchezza di espressioni e di nuovi significati.
Questa storia naturale del migrare sta scritta nella struttura più profonda della nostra specie e nella lunga storia di cui siamo figlie e figli. Non dovremmo mai dimenticarlo. Qua e là nell’Europa di oggi c’è chi cerca di dimenticarlo e farlo dimenticare. C’è chi alimenta la paura di altri nuovi e la sfrutta per carpire qualche voto. Capita perfino in Paesi che sono stati e sono Paesi di larga e civile ospitalità, dalla Francia ai Paesi scandinavi. E capita in Italia. Ma non capita in generale nelle nostre scuole.
Bisogna, per la verità, dire che lo sfruttamento a fini elettorali delle paure è cominciato in Italia relativamente tardi. Mattarella, ministro dell’Istruzione del sesto governo Andreotti, tra il 1989 e il 1991, mentre era ormai chiaro ai più attenti che l’Italia, antico Paese di emigrazione, stava diventando, anzi era diventata terra di immigrazione, emanò un primo testo normativo, una «circolare», indirizzata alle scuole perché predisponessero quanto era necessario all’accoglienza dei bimbi e ragazzi immigrati o figli di immigrati. Le scuole già erano su questa lunghezza d’onda e, anche se forse più nessuno ricorda quel benemerito atto, lo sono rimaste. E un altro tratto importante del ceto dirigente è il comportamento delle università, che dagli anni Novanta, e in qualche caso già anni prima, si sono attrezzate per studiare sistematicamente gli aspetti demografici, sociologici, linguistici e educativi della crescente immigrazione, da Pavia a Siena (l’Università per Stranieri), da Bergamo e Venezia (Università Ca’ Foscari) a Napoli e «Roma Tre», da Palermo all’udinese Centro per il Plurilinguismo, per ricordare almeno alcuni dei centri più attivi.
Vinicio Ongini va al concreto e viaggia attraverso le scuole italiane documentando difficoltà, scacchi e successi della scuola multiculturale. Chi, dall’informazione corrente, è frastornato da notizie di casi di xenofobia faebbe bene a seguirlo nel suo viaggio, a leggere i suoi concreti e suggestivi «casi di studio». Non è l’unico aspetto per cui la scuola non si può dire che rifletta meccanicamente tendenze e umori appariscenti nella società o, per dir meglio, se riflette la società è capace di espungere e spurgare quanto c’è in essa di deteriore. Prendete il caso della lettura. Ormai dagli anni Sessanta possiamo seguire i progressi (lenti, è vero) dell’abitudine alla lettura nel nostro Paese. E a ogni indagine si verifica che bambini e giovani leggono assai più delle generazioni anziane. Le alte percentuali, quasi europee, di lettura di libri non scolastici tra ragazze e ragazzi declinano tra gli adulti che hanno varcato la soglia dei trent’anni. Queste percentuali positive non possono avere altra matrice che l’impegno educativo delle scuole. Oppure prendete il caso della comprensione dei testi. Fanno notizia, ma danno luogo a sciocchezze (anche di qualche ministro), i dati periodici che l’Ocse accerta e diffonde ogni tre anni sulle capacità di comprensione di testi tra i quindicenni. Alti lai perché il 40% dei ragazzi mostra difficoltà di comprensione. Certo, bisognerà che migliorino. Ma attenzione: gli adulti con analoghe difficoltà, tra i 18 e i 65 anni, non sono il 40%, sono una percentuale che, secondo l’ultima indagine comparativa internazionale, raggiunge e supera l’80%. Il doppio dei ragazzi a scuola. Se la scuola registrasse meccanicamente le (in)competenze degli adulti dealfabetizzati e non leggenti, le percentuali Ocse dovrebbero darci l’80% di ragazzi in difficoltà. Il 40% di scarto esprime l’enorme lavoro in salita che la nostra scuola sa fare e fa. Potrebbe aumentare se ci decidessimo a investire di più nella e per la scuola: di più in termini di finanziamento e di più in termini di attenzione simpatetica, circostanziata e fattiva come quella, esemplare, di Vinicio Ongini.
Se un rimprovero si può muovere alla nostra scuola è che non sempre essa è ben consapevole di quanto ha fatto, sa fare e fa per l’intero Paese. Il libro di Ongini, tra gli altri meriti, può essere d’aiuto, può stimolare il giusto orgoglio della nostra scuola pubblica.

l’Unità 12.9.11
Il leader Pd a causa del viaggio non sarà alla festa Idv con Di Pietro e Vendola
Polemico l’ex pm: non cambia programma e lascia una sedia vuota sul palco
Bersani vola a Berlino
Un patto per l’Europa con Spd e Ps francese
Bersani fissa una serie di incontri con i leader progressisti europei per arrivare alla definizione di una «piattaforma programmatica comune». Venerdì sarà a Berlino e non alla festa dell’Idv con Di Pietro e Vendola.
di Simone Collini


Se Berlusconi usa Bruxelles come scappatoia per evitare di essere interrogato domani dai pm di Napoli sul caso Tarantini, Bersani sta lavorando per far passare anche per l’Unione europea la costruzione di un’alternativa alle politiche della destra. Mentre in Italia continuerà a muoversi sul doppio binario del Nuovo Ulivo e della convergenza con l’Udc stando bene attento a non imprimere sul primo fronte accelerazioni che rischierebbero di impedire la seconda parte dell’operazione (e infatti venerdì non sarà alla festa dell’Idv di Vasto, dove è previsto un confronto a tre con Di Pietro e Vendola) il segretario del Pd ha fissato in agenda una serie di incontri con i leader dei principali partiti progressisti degli altri paesi comunitari per avviare un confronto che dovrebbe poi concludersi con la definizione di «una piattaforma comune dei progressisti che rilanci il sogno europeo».
L’operazione è ambiziosa quanto complicata ma anche, per Bersani, necessaria. Servirebbe ad evitare quel «ripiegamento» che gioca tutto a favore delle forze conservatrici e anche quello che in questa fase di crisi economica rischia di diventare un destino ineluttabile: «Divisi non contiamo nulla e a uno a uno finiremo nelle retrovie del mondo nuovo», è stato il rischio evocato nel comizio di chiusura della Festa di Pesaro. Nei prossimi dodici mesi si voterà in Spagna, Francia, Svizzera, Danimarca, Polonia, Romania, Slovenia, Serbia, Croazia, Lettonia e dopo pochi mesi in Germania. E il Pd, per Bersani, dovrà contribuire al formarsi di un’onda della «riscossa progressista», e starvi dentro quando finalmente anche da noi si tornerà alle urne (il leader dei Democratici non esclude affatto un appuntamento elettorale per la primavera 2012).
Dopo i primi contatti, a giugno, a Bruxelles con il leader dei laburisti britannici Ed Milliband e a Torino con la socialista francese Martine Aubry, venerdì il segretario Pd sarà a Berlino per continuare il discorso con il leader dell’Spd Sigmar Gabriel. Dopo il 9 ottobre, data delle primarie d’Oltralpe, avrà invece un bilaterale con il prossimo sfidante di Sarkozy (al momento in testa ai sondaggi c’è François Hollande), mentre la Feps, la Fondazione di studi progressisti europei di cui un anno fa è stato eletto presidente Massimo D’Alema, organizzerà un convegno a cui parteciperanno tutte le principali fondazioni dei partiti di centrosinistra dei paesi comunitari.
L’incontro a Berlino impedirà a Bersani di essere all’apertura della festa dell’Idv a Vasto, dov’era previsto un confronto a tre con Di Pietro e Vendola. L’ex pm, che pure ha saputo per via ufficiosa che il leader del Pd non ci sarà, non ha ancora modificato il programma e fa sapere che non accetterà «sostituti» ed è pronto a fare il confronto con il leader di Sel tenendo polemicamente sul palco una sedia vuota. Quando ci saranno le primarie, assicura Di Pietro, si candiderà e intanto critica il Pd perché «sembra che attenda la madonna dell’Udc» quando «ormai è chiaro lo scenario che si dovrebbe delineare dice una coalizione di centrodestra, una coalizione con Pd-Idv-Sel, e il terzo polo da solo».
Ma è proprio questo che Bersani vuole evitare, e anche la scelta di organizzare una manifestazione «del Pd», a Roma il 5 novembre, non è casuale. Il leader dei Democratici vuole lavorare al Nuovo Ulivo facendo poi però partire da qui «un messaggio a tutte le forze di centro, a cominciare dall’Udc, per una convergenza». Con Casini il dialogo non si deve interrompere e ieri i due si sono parlati anche prima della messa di Benedetto XVI ai cantieri navali di Ancona (Bersani ha definito «doverosa» la sua presenza e «un discorso importante» quello dedicato al lavoro dal Papa). Il leader dell’Udc continua a non scoprirsi, ma il fatto che ancora non abbia chiuso la porta e anzi si sia detto «interessato a perseguire» il confronto sul modello Marche (dove governano insieme Pd, Udc e Idv), consiglia a Bersani di non accelerare verso un’alleanza ristretta a Di Pietro e Vendola.

l’Unità 12.9.11
da Intervista a Nichi Vendola, su l’Unità, pagina 5

C’è chi dice che anche il suo leaderismo carismatico sia una forma di berlusconismo di sinistra.
«Quando parlo di contagio, mi riferisco a culture profonde, a partire dalla delegittimazione della nozione di pubblico. O ancora: dalla demenziale proposta del pareggio di bilancio in Costituzione. O dalle tante timidezze verso l’idea della patrimoniale. Non basta cambiare il guidatore se la macchina e il percorso restano immutati. O siamo in grado di capovolgere i capisaldi culturali di questa destra, a partire dal lavoro e dai suoi diritti, dall’articolo 8, oppure rischiamo di finire travolti».
E il suo “berlusconismo rosso”?
«Sono mistificazioni. Un leader populista manipola i bisogni del popolo, costruisce pulsioni regressive, cerca ossessivamente il capro espiatorio. Io sono quello che in piazza a Milano ha parlato dei fratelli rom e musulmani, il contrario esatto di una furbata populista.

da l’Unità pag 8
Benedetto XVI conclude il congresso ecauristico ad Ancona. Alle messa decine di migliaia di persone
«Pietre date al posto del pane»
Il Papa si rivolge agli operai

Ma è fondamentale non «prescindere da Dio», perché chi si è posto l’obiettivo di «assicurare a tutti sviluppo, benessere materiale e pace prescindendo da Dio e dalla sua rivelazione» ha finito con «il dare agli uomini pietre al posto del pane». La definisce una «illusione che non tarda a volgersi in delusione, generando inquietudine e paura».

...
Per questo occorre non confondere «la libertà con l’assenza di vincoli, con la convinzione di poter fare da soli, senza Dio, visto come un limite alla libertà».

...
«Un discorso importante, un invito a riflettere sulle difficoltà del Paese, e soprattutto del lavoro, un tema di cui dovremo tutti occuparci di più» è stato il commento del segretario del Pd Pier Luigi Bersani, giunto ad Ancona per ascoltare il pontefice. Molti i politici presenti, da Francesco Rutelli a Pier Ferdinando Casini, a Rosy Bindi al sottosegretario alla presidenza del consiglio, Gianni Letta.

l’Unità 12.9.11
Dolori italiani tra Spinoza e psicanalisi
di Bruno Ugolini


Mi è capitato di assistere a un incontro singolare tra esponenti della Spi (Società Psicanalitica Italiana) e i protagonisti di un Blog dissacrante caro soprattutto ai giovani e intitolato a Spinoza (www.spinoza.it). Il tutto nell’ambito di un festival tenutosi a Vittorio Veneto, (“Comoda-Mente”) dedicato al tema della fedeltà, con contributi di personalità della cultura e della società civile, a cominciare da Stefano Bolognini (da poco eletto presidente dell'International Psychoanalytic Association), per continuare con Gerardo Colombo, Riccardo Illy, Sergio Nava, Antonia Arslan, Khaled Fuad Allam e molti altri. Tra questi gli “spinoziani”, un team coordinato da Stefano Andreoli e Alessandro Bonino, nato nel 2005, con centinaia di collaboratori sparsi in tutta Italia. Tutti intenti a coniare quotidiane e fulminanti battute che poi percorrono anche le strade di Facebook e di Twitter. Senza discriminazioni. Ce n’è per Berlusconi ma anche per Bersani. Ecco qualche esempio: “C'è chi si iscrive a Facebook per cercare lavoro. E per poi stare su Facebook tutto il giorno”. Oppure: “Il ministro Sacconi parla appeso a un filo. È la metafora del governo”. Il ministro partecipava a una delle iniziative del Festival e loro commentano: “Il dibattito si svolge in una fabbrica abbandonata. Giusto per abituarsi”. Non sono dei professionisti, ciascuno di loro ha un’occupazione privata diversa. Hanno un crescente esercito di seguaci e tanta popolarità nasce dal fatto che in questi tempi difficili interpretano lo stato d’animo degli italiani. O, meglio le problematiche degli italiani. E qui s’inserisce il singolare incontro con la Spi, ovvero con chi ogni giorno incontra le sofferenze più diverse e le analizza. E che hanno confrontato, nel corso di interviste e discussioni, le proprie esperienze con quelle di altri. Leggo, a questo proposito sul loro sito (www.spiweb.it) delle iniziative al Festival di Vittorio Veneto: “Sapendo quanto spesso abbiamo incontrato il dolore dei giovani quando non sentono di avere un futuro, abbiamo chiesto sull'esodo dei cervelli, sulle nuove comunità che si creano, sul ‘saldo’ tra chi viene e chi va e quindi sui nuovi migranti. Abbiamo sentito parlare anche del mancato riconoscimento dei ‘cervelli’ e del conseguente bisogno, da parte dei molti non riconosciuti, di creare e cercare miti, passioni, filosofie e sistemi di pensiero...”. Tematiche emerse anche nell’incontro-intervista con i satirici. Due modi diversi, certo, di guardare la realtà umana. Ma che possono servire, potrebbero servire. I primi, magari, per dare, ridendo, un momentaneo sollievo, attraverso un nuovo metodo apparentemente caotico per sviluppare un pensiero critico. I secondi per capire meglio le cause più profonde delle nostre sofferenze. Alla ricerca di “rimedi per i singoli, ma anche per tutti noi. http://ugolini.blogspot.com

l’Unità 12.9.11
Questa manovra colpisce soprattutto le donne
di Susanna Cenni


In questa estate segnata dal precipitare della crisi e dal susseguirsi delle manovre, ho letto l'ultimo bel libro di Gioconda Belli, "Nel paese delle donne", che racconta di un immaginario paese del Centroamerica in cui le donne riescono ad arrivare al potere con un loro partito il partito della sinistra erotica, e con un programma riformatore ‘tirano a lucido il loro Paese’. Riescono a rivoluzionare l’economia, a cambiare il volto delle città, a stravolgere i tempi di vita e le regole della democrazia e della partecipazione. Si costruiscono asili nido sul posto di lavoro, tutte le donne hanno un’occupazione e, di conseguenza il prodotto interno lordo cresce. Purtroppo è solo un romanzo. Noi viviamo, al contrario, in un paese del Sud Europa, dove un pezzo pesante della crisi rischia di gravare sulle spalle delle donne e dove i ministri del lavoro, adeguandosi allo stile del capo, per spiegare la parte della manovra che fa macelleria sui diritti dei lavoratori, fanno battute sulle suore e sugli stupri. E questo non è un romanzo.
La scorsa settimana sono state tante le donne scese in piazza con la Cgil, erano tantissime quelle che a luglio si sono riunite a Siena nell’appuntamento di 'Se Non Ora Quando?', come molte sono scese in piazza il 13 febbraio. Ma non basterà. Lo slittamento dell’età pensionabile anche nel settore privato, senza prevedere alcuna azione di sostegno alla conciliazione della vita lavorativa con quella familiare, è una scelta ingiusta. Ma è chiaro che i tagli su Regioni ed enti locali, quelli su reversibilità, categorie deboli, la stretta sul pubblico impiego, graveranno tutti sulle spalle delle donne, così come è avvenuto con il vergognoso fenomeno delle dimissioni in bianco.
Le senatrici del Pd hanno presentato numerosi emendamenti tesi a bloccare o almeno attutire la pesantezza della manovra per le donne: hanno chiesto di bloccare lo slittamento a 65 anni dell’età pensionabile, o se non altro, che i risparmi derivanti da questo innalzamento siano destinati a interventi dedicati a politiche sociali e familiari, con particolare attenzione alla non autosufficienza e alla conciliazione della vita lavorativa e familiare delle donne, nonostante lo scippo già avvenuto sul pubblico impiego. Hanno riproposto il divieto della pratica delle dimissioni in bianco e il ripristino delle risorse per i centri antiviolenza. Solo la proposta di lasciare 90 giorni di tempo ai genitori che devono restituire il bonus bebè, senza incorrere in sanzioni amministrative o penali è stata raccolta. Ci proveremo di nuovo alla Camera, ma già sappiamo che la scure della fiducia blinderà questo provvedimento e che la voce delle opposizioni e delle donne, certo non numerose, passerà sotto silenzio.
Non possiamo fermarci, occorre che la forza che le donne italiane hanno dimostrato di avere in tutto il paese con la mobilitazione vada avanti e che le idee che sono state messe in campo finora circolino e tornino a farsi sentire. Ne ha bisogno la sinistra, ne ha bisogno questo paese immobile, un paese che ha ampiamente necessità di essere tirato a lucido”.

Repubblica 12.9.11
Le nostre metamorfosi
di Barbara Spinelli


Giovedì, in una discussione su La7 che ha fatto seguito al film di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, "Silvio Forever", il direttore del Foglio ha detto una cosa importante.
Ha detto che, grazie agli anni che portano l´impronta di Berlusconi, l´Italia avrebbe vissuto una «liberazione psicologica». Si è sbarazzata di vecchie incrostazioni moraliste, di una democrazia con troppe regole, di tendenze micragnose, formalistiche. L´ora dei consuntivi sta arrivando, e nella valutazione dei diciassette anni passati c´è anche questo giudizio sull´avventura berlusconiana, imperturbabilmente positivo: quali che siano i loro esiti, vi sono fenomeni grandiosamente anomali che fanno magnifica la storia, in Italia e altrove.
È significativo che negli stessi giorni si celebri il decimo anniversario dell´11 settembre, perché anche qui fu un fenomeno prodigiosamente anomalo a trasfigurare la storia. I rivoluzionari amano questi prodigi, sia quando li incensano sia quando li demonizzano, perché il Grande Fenomeno fa tabula rasa, crea nuove classi dirigenti, interrompe quel che nella democrazia è lento e monotono, formalistico e incastonato in regole. Il tempo d´un tratto s´arresta, il rivoluzionario prova l´estasi dell´istante liberatorio. Il musicista Karlheinz Stockhausen s´estasiò, il 16 settembre 2001, davanti alla «più grandiosa opera d´arte nella storia cosmica».
Nella discussione diretta da Enrico Mentana, spiccava la figura di Eugenio Scalfari. L’anomalia berlusconiana non gli appariva affatto grandiosa. Il giudizio era gelido, non magato neppure nelle pieghe, allergico all´inconcreto. Faceva impressione la sua presenza perché lo sguardo sul presente era ben più lungo dello sguardo dei colleghi. Il fenomeno Berlusconi (ma avrebbe potuto parlare anche dell´11 settembre, o della crisi economica) non era descritto come un botto improvviso, che fa piazza pulita e crea nuovi mondi. S´iscriveva in una storia lunga, che ancora ci tocca esplorare e che lui scruta dai tempi della prima repubblica con penna precisa. Mi sono chiesta come mai un giornalista con tanti anni di vita e d´esperienza sembrasse non solo il più acuto osservatore del presente, ma il più giovane.
La chiave penso sia la sua curiosità. Il curioso, lo dice l´etimologia, ha cura di quel che a prima vista pare enigmatico. Non gli basta vedere la pelle delle cose, ha brama di investigare, di tuffarsi molto a fondo, immergendosi con la testa come la balena narrata da Melville. Non si accontenta, e in genere usa poco questo tiepido aggettivo: contento. Il suo modo d´essere gli consente di intuire, nelle parole e negli eventi, quel che è altro dalla parola o dall´evento subito percepibili. Heidegger scrive cose simili, sulla tecnica: «L´essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico. Non apprenderemo mai la nostra relazione con la sua essenza, fino a quando rappresenteremo e praticheremo solo la tecnica. Sempre rimarremo, non liberi, incatenati alla tecnica: sia che l´approviamo con entusiasmo, sia che la neghiamo».
Nel raccontare l´epoca che abbiamo alle spalle, Scalfari ragionava allo stesso modo: «La questione davvero importante non è Berlusconi. È come l´Italia abbia potuto sopportare un personaggio così per 17 anni. Chi siamo noi è la questione». L´essenza di Berlusconi non è Berlusconi, così come l´essenza dell´11 settembre non è l´11 settembre ma la risposta che all´attentato venne data e la torpida genealogia dell´accadimento. In Italia l´essenza è la misteriosa, sempre ambigua metamorfosi dell´uomo e del suo mondo: il mondo che egli crea e quello che da fuori lo pigia e lo mette alla prova. Che lo spaventa anche, inducendolo a bendarsi gli occhi e seguire chimere per non vedere i precipizi verso cui sta correndo.
Se cito Scalfari a proposito dei bilanci che si stanno facendo (del berlusconismo, dell´11 settembre) è perché la metamorfosi è parte centrale del suo ultimo libro (Scuote l´anima mia Eros, Einaudi 2011) e perché i concetti di cui il testo è disseminato aiutano a capire la crisi che viviamo: la metamorfosi in primis ma anche la guerra fra gli istinti, l´amore di sé e dell´altro, la morte che impronta la vita e dunque viene prima della vita. E l´avarizia infine, una parola che mi ha colpito perché stranamente si è diradata nel dialogo fra le persone. Nel libro è evocata almeno tre volte. Una prima volta quando l´autore s´interroga sul segno («più lieve della traccia che una lepre fuggitiva lascia sulla neve») che resta delle singole vicende umane. Proprio perché la nostra è una «piccola vita circondata dal sonno», scrive citando Shakespeare: «Non dilapidatela, non difendetela con avarizia (...) Vivetela con intensa passione, con speranza ed allegria». Queste cose si imparano nell´adolescenza, quando sei in trasformazione e provi a cambiare in meglio il tuo Io. S´imparano anche in vecchiaia: se vissuta bene, è anch´essa metamorfosi. Ricordo il bellissimo disegno di Goya, al Prado. Un vecchio cammina appoggiato a due faticosi bastoni e sotto è scritto: Aùn aprendo, Ancora sto imparando.
Il secondo accenno all´avarizia è quando i mortali sono descritti come centauri, metà bestie metà uomini, sempre esposti al sopravvento del cavallo. L´avarizia di sé è figlia di questo rachitismo spirituale: dimentichi quel che fa dell´uomo un uomo, sei sopraffatto, rattrappisci. C´è infine un terzo passaggio, in cui ingeneroso è chi crede in una sola verità, e diviene avaro di sé.
L´avaro somiglia molto all´incurioso, che si fascia gli occhi per paura di disperdere quel che ammonticchia per sé. Anch´egli non ha cura dell´altro. Quando gli va incontro, è uno specchio che cerca: dunque vede solo se stesso. Giustamente è stato evocato, nella discussione, il narcisismo che affligge Berlusconi e l´Italia che l´ha scelto come modello. L´avaro incurioso vede l´Uno (la propria verità); al Due non arriva. Quando erano più sferzanti, i critici americani di G.W.Bush lo chiamavano incurious.
Non che sia mancata, subito dopo l´11 settembre, la sete di sapere. «Perché ci odiano?», ripetevano sgomenti i politici Usa. Ma la domanda non era mai rivolta a se stessi, il male assurdo era sempre fuori. Anche Berlusconi chiede, di continuo: «Perché mi odiano?», come se la sua persona fosse satanicamente osteggiata per motivi estranei a quel che lui è e fa. Anche qui è elusa la vera domanda: come avviene la seduzione? Cosa ha prodotto? E in America: come è potuto accadere che la guerra totale al terrore, lanciata caoticamente nel 2001, stia accelerando il crollo della potenza americana?
Dice Scalfari che gli italiani hanno un terzo istinto, oltre a quello buono e cattivo: un istinto anarcoide, antipolitico. Credo non sia un vizio solo italiano: penso alle civiltà suicide descritte da Jared Diamond nel libro Collasso, agli abitanti dell´isola di Pasqua, allo spirito anarcoide con cui distrussero tutti gli alberi fino a non poter costruire una sola barca per andare a pescare e nutrirsi.
In Italia come in America, l´evento cui abbiamo assistito è la morte della politica, il trionfo di poteri paralleli e sommersi che nemmeno Obama riesce a frenare. E la storia di questo trionfo è molto più lunga dei dieci anni che ci separano dall´11 settembre, o dei diciassette che ci separano dal Berlusconi politico. Negli Stati Uniti la dismisura, la hybris, culminò nel Progetto per il nuovo secolo americano, che i neoconservatori scrissero nel ´97, in collaborazione con l´industria militare: finita la guerra fredda l´America doveva trasformarsi in unica superpotenza, senza più rivali. L´orrore omicida dell´11 settembre permise al progetto di affermarsi. In Italia la hybris è radicata nella storia della P2, che ebbe il Premier tra i suoi affiliati. I fenomeni grandiosamente anomali hanno tutto un pedigree, e non solo: hanno effetti - sulla vita dei cittadini e sul futuro - che il giudizio finale deve incorporare. L´effetto in America è stato il collasso del potere mondiale. Quanto all´Italia, cosa ha prodotto la talentuosa conquista berlusconiana dei consensi? È ancora Scalfari che parla: «Il risultato lo si vede: siamo ridotti in mutande».
Ascoltiamo quel che disse della P2 Tina Anselmi, il 9 gennaio ´86 in una Camera semivuota: «Ciò che dobbiamo chiederci è se accanto alla politica ufficiale, gestita nei modi e nelle forme che l´ordinamento consente, possa esistere una politica sommersa. Se (...) possa esistere un versante occulto, nel quale programmi e azioni destinate a incidere nella vita della collettività vengono elaborati al di fuori, non dico di ogni controllo ma della stessa conoscenza dell´opinione pubblica (...) Se sia possibile coltivare l´illusione di una correzione del sistema democratico attraverso meccanismi compensativi che, operando in maniera occulta o riservata, sarebbero in grado di assicurargli la necessaria stabilità» (Anna Vinci, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere 2011). Sotto forme diverse (P2, P3, P4) la politica sommersa continua.
Chi siamo noi è la questione. È la sola che conti. Non si tratta di dividersi tra benpensanti e malpensanti. Qui c´è bisogno di pensanti, tout court. Di trasformatori, consapevoli con Nietzsche che «Noi, cercatori della conoscenza, siamo a noi stessi degli sconosciuti, per il semplice motivo che non ci siamo mai cercati».

La Stampa 12.9.11
La denuncia delle associazioni di consumatori Casper
Potere d’acquisto -40% con l’euro
Il bilancio di 10 anni senza lire
di Luigi Grassia


Vi ricordate quando c’è stata la conversione dalla lira all’euro, più o meno al cambio di duemila a uno, ma i prezzi di certi beni di consumo sembrava che si adeguassero mille a uno? In quei giorni, con la memoria fresca dei precedenti cartellini in lire, alcuni rincari erano un pugno in un occhio. Poi la valanga non si è fermata e a questo si è aggiunta l’amarezza di quanto poco gli aumenti trovassero riscontro nel tasso ufficiale d’inflazione, che nei dieci anni passati da allora è sempre rimasto un po’ al di sopra o un po’ al di sotto del 2% (a volte anche molto al di sotto); i giornali nell’anno X riportavano una tariffa +15%, un prezzo +12%, e magari la media faceva +1%. Si è parlato di inflazione percepita attribuendo il fenomeno a un abbaglio dei consumatori. Adesso il Comitato contro le speculazioni e per il risparmio (Casper), che riunisce le associazioni Adoc, Codacons, Movimento difesa del cittadino e Unione nazionale consumatori, tira le somme di quello che è successo nel decennio, e dice che gli aumenti medi dei prezzi sono stati del 53,7% e che questo ha ridotto il potere d’acquisto delle famiglie di quasi il 40% (39,7%).
Ci sono delle punte ben al di sopra: si va dall’aumento del 93,5% della pizza margherita a quello del 192,2% del tramezzino al bar, dal +159,7% del cono gelato al +207,7% della penna a sfera. Il Casper ha organizzato una protesta in piazza giovedì 15 con altre associazioni «per far sentire la voce delle famiglie massacrate e impoverite dal carovita».
Il dossier del Casper sui prezzi nel decennio copre un’arco temporale che comincia dal settembre 2001 (quando i listini già cominciavano a essere espressi in doppia valuta, poi arrivata in pompa magna nel dicembre 2002) e riguarda un paniere di beni fortemente rappresentativo dei consumi quotidiani dei cittadini.
«Il risultato - denunciano affermano le quattro sigle del Casper - è sbalorditivo. I rincari sono sempre a due cifre e raggiungono una media del 53,7%, tenuta alta da prodotti i cui prezzi sono letteralmente schizzati (come il cono gelato, la penna a sfera, il tramezzino al bar, i biscotti, la lavanderia, il caffè o il supplì)» spiega il Casper. Vi è poi tutta una serie di beni e servizi che hanno registrato un raddoppio (o quasi) dei prezzi: dalla pizza margherita ai jeans, dalla giocata minima del Lotto ai pomodori pelati, al biglietto dell’autobus a Milano. E come pena accessoria, nota il Casper, per una specie di effetto naturale di trascinamento sono raddoppiati anche «il balzello da pagare al parcheggiatore abusivo e la mancia al ristorante».
Peraltro, «l’ondata dei rincari non è finita» denuncia il Casper, e non solo per il recente scatto dell’aliquota Iva dal 20 al 21% deciso dal governo, che è destinato a produrre un ulteriore incremento dei listini al dettaglio. Secondo Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti, presidenti di Federconsumatori e Adusbef, il complesso delle misure della manovra economica porterà a «una caduta del potere di acquisto di 2.031 euro annui a famiglia, senza contare la stangata di prezzi e tariffe di oltre 1.521 euro nel 2011. Tutto questo non potrà che avere ricadute negative sull’intera economia, con un’ulteriore contrazione dei consumi, quindi della produzione industriale e nel campo dei servizi».

La Stampa 12.9.11
La Primavera araba
Erdogan parte alla conquista del Medio Oriente
Oggi il premier turco è al Cairo. Poi Libia e Tunisia. Obiettivo: fare della Turchia il Paese di riferimento
di Marta ottaviani


Per il premier turco Recep Tayyip Erdogan è il viaggio della consacrazione. Oggi inizia un tour delicato, che molti nel Paese hanno già battezzato «il tour della Primavera Araba» e che in quattro giorni toccherà Egitto, Tunisia e Libia. Tre Paesi che nel giro di otto mesi hanno rovesciato regimi decennali, apparentemente inattaccabili. Uno scossone che Ankara tenta di sfruttare a suo favore, proponendosi come Paese di riferimento per le nuove classi dirigenti, in competizione con Europa e Stati Uniti.
Erdogan in realtà aveva espresso anche il forte desiderio di andare a Gaza, ma è ormai quasi certo che non sarà accontentato. Fino a metà della settimana scorsa si erano ricorsi rumours di contatti fra Ankara e Il Cairo per consentire a Erdogan di atterrare a Gaza City, dove è venerato come un eroe e dove il nome più ricorrente per i neonati è Tayyip. Ma poi venerdì l’ipotesi Gaza è sfumata quasi completamente, a meno di improvvisi colpi di scena.
Il premier si muoverà insieme con il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, il ministro dell’Economia, Zafer Caglayan e decine di uomini d’affari fra i più potenti del Paese. Il viaggio per il primo ministro ha due finalità. La prima è mostrarsi di persona a Paesi che durante i mesi scorsi hanno più volte invocato la Turchia, Stato musulmano ma laico, come un modello per tutto il Medio Oriente e lui come il premier ideale: forte, determinato, riformatore. Il secondo è quello di consolidare o aumentare la presenza economica e commerciale in questi tre Paesi, dove gli equilibri politici sono cambiati radicalmente negli ultimi mesi e dove la Turchia si è costruita posizioni di tutto rispetto.
Erdogan porta in dote un Paese che ha tutte le carte in regola per diventare leader del mondo musulmano. Un assetto più spostato a Oriente nel Mediterraneo, anche grazie alla frattura sempre più profonda con Israele, aggravatasi settimana scorsa, una crescita economica che sta rendendo la Turchia uno dei Paesi in via di sviluppo più interessanti. Un’altra carta nelle mani del premier è la grande stabilità interna e un potere solido, garantito dal risultato di elezioni democratiche dove il partito del primo ministro ha conquistato il 49,9% dei consensi.
Il momento più importante del tour sarà oggi, quando il premier Erdogan terrà un discorso all’Università del Cairo, dove detterà le linee guida di questa sua missione e imporrà definitivamente la Turchia all’attenzione mondiale. Il viaggio di Recep Tayyip Erdogan arriva a pochi giorni dalla rottura con Israele e a poche ore dall’attacco all’ambasciata israeliana al Cairo.
E Israele è forse lo spettatore più interessato al tour di Erdogan. Il 20 settembre all’assemblea delle Nazioni Unite verrà chiesto il riconoscimento ufficiale della Palestina e in molti pensano che dietro questa operazione ci sia la diplomazia della Mezzaluna. Il rischio è quello di una Turchia vista dalla primavera araba non solo come un modello di governo, ma anche come un esempio di ribellione.

Corriere della Sera 12.9.11
la Vera Sfida ora è con la Cina

Joseph Nye: «L'America è in crisi, ma resta più attraente degli altri Paesi»
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «Due guerre — una delle quali sicuramente non necessaria — che, insieme alla scriteriata politica di sgravi fiscali decisi da Bush durante il suo primo mandato presidenziale, hanno aperto una voragine di debiti diventata, con l'amplificazione prodotta dalla crisi finanziaria del 2008, la palla al piede degli Stati Uniti. E un'attenzione comprensibilmente ma esasperatamente concentrata sui rapporti col mondo islamico, con la conseguenza di trascurare per un intero decennio la vera sfida: quella con la Cina».
Il rogo delle Torri Gemelle ha aperto un decennio di instabilità, incertezza, paura. Ma per il politologo americano Joseph Nye, il docente di Harvard teorico del «soft power», la vulnerabilità economica in cui l'America è caduta per le scelte fatte dopo quell'11 Settembre è perfino più grave della vulnerabilità agli attacchi di Al Qaeda e dei suoi emuli.
Dopo quell'11 Settembre di 10 anni fa nessuno pensava al debito federale né alla Cina: sembrava che l'America e il mondo potessero precipitare in una spirale di attacchi terroristici, in un conflitto di civiltà col mondo islamico.
«E' vero: allora il bilancio federale era addirittura in attivo. E a Bush, che ha colpe enormi avendo scatenato conflitti dannosi per gli Usa e avendo demolito la sana politica fiscale di Clinton, va dato comunque atto di aver agito saggiamente per scongiurare il clash of civilizations, lo scontro di civiltà: ha detto e ripetuto sempre con forza che le sue non erano guerre contro l'Islam, e ha invitato rappresentanze del mondo musulmano alla Casa Bianca. Capo di un'amministrazione vulnerabile e impreparata davanti agli attacchi, a Bush va anche il merito di aver migliorato l'efficienza delle strutture di intelligence e antiterrorismo. Un lavoro che, continuato da Obama, ha consentito di bloccare tutti gli attacchi concepiti da allora in America, evitando un altro 11 Settembre. Questo non lo dobbiamo mai dimenticare».
Nel suo ultimo libro, «The Future of Power», di pochi mesi fa, lei parla di due grandi mutamenti: uno spostamento del potere dall'Occidente verso l'Asia che, peraltro, ancora non si sarebbe verificato pienamente anche grazie alla buona tenuta del «soft power» Usa e l'imporsi di nuovi fenomeni — dalla rivoluzione informatica all'ascesa delle entità non governative. Qual è il peso dell'11/9 su questi fenomeni?
«Quando penso a come è cambiata la distribuzione del potere nel mondo immagino una scacchiera tridimensionale. Nella quale il primo livello è quello della forza militare. E qui quella degli Stati Uniti, ancora unica superpotenza globale, resterà preponderante almeno per vent'anni. Il secondo livello è il potere economico, la cui distribuzione è molto cambiata con la globalizzazione: viviamo in un mondo complesso, multipolare. Con l'Occidente in grande difficoltà. Ma la vera complessità, le maggiori incognite sono al terzo livello: quello determinato dalla rivoluzione delle tecnologie digitali e dal moltiplicarsi dei poteri che operano fuori dal controllo dei governi, dalle Ong alle centrali del terrorismo».
Dieci anni fa l'America era l'unica superpotenza globale. Lo è ancora, ma è molto più vulnerabile ed è insidiata dalla Cina.
«E' forse l'eredità dell'11 Settembre più dura da metabolizzare. Non solo l'America si è dissanguata umanamente e finanziariamente in guerre inutili, costate oltre mille miliardi di dollari, che non l'hanno resa più sicura e hanno cancellato quella reazione di simpatia che tutto il mondo aveva avuto verso gli Usa dopo l'attacco di Al Qaeda. Quella crisi ha avuto anche quello che io chiamo un "opportunity cost": ci è costato caro l'errore di non esserci concentrati sul nostro principale problema — la crescita tumultuosa dell'Asia orientale e lo spostamento di ricchezza e potere verso quest'area — distratti dal terrorismo, dai problemi nel Golfo e in Medio Oriente, dai rapporti col mondo islamico».
E' cominciato lì il declino americano?
«Sì, ma è un declino relativo, non assoluto. Nonostante le difficoltà economiche, gli Stati Uni restano non solo il Paese militarmente più forte, ma anche il più attraente: il "soft power" funziona ancora molto bene, come dimostra un recente sondaggio della Bbc sui Paesi che piacciono di più. Gli Usa vincono, mentre la Cina è molto indietro. Siamo ancora il Paese della libertà e dell'innovazione, con maggiore capacità di catturare cervelli. E un Paese che attira intelligenze ha più capacità di rinnovarsi. Che il "soft power" sia importante lo sanno anche i cinesi. Dal 2007, quando Hu Jintao fissò questo obiettivo, Pechino investe massicciamente in questo campo, cercando di mostrare una faccia dialogante, diffondendo la sua cultura nel mondo attraverso gli Istituti Confucio. La tendenza c'è, ma il trasferimento di potere all'Asia non si è ancora manifestato in misura consistente».
Più che dalla crisi economica, lei si è detto allarmato dall'estrema polarizzazione del dibattito politico negli Usa, che sta avendo effetti paralizzanti sull'attività di governo. C'entrano, anche qui, i mutamenti genetici subiti dopo l'11/9?
«No, le origini della radicalizzazione sono precedenti: risalgono a metà degli anni 90 quando i repubblicani di Newt Gingrich misero sotto assedio la Casa Bianca di Clinton. Me ne ricordo perché facevo parte dell'amministrazione. Certo, poi c'è stato il radicalismo dei neocon che hanno spinto Bush a impugnare le armi, ma quelli erano ottimisti, non pessimisti: pensavano di poter esportare ovunque, magari con l'uso della forza, la democrazia. Evidentemente sbagliavano».

La Stampa 12.9.11
“Io, da docente a preside per valorizzare i talenti dei ragazzi”
La scrittrice Veladiano: coltivo la fiducia nel futuro
di Mario Baudino


Mariapia Veladiano è preside da 12 giorni. La scrittrice vicentina di La vita accanto (Einaudi), esordio letterario accolto con molto favore e approdato nella cinquina del premio Strega, affronta dopo anni di insegnamento la nuova sfida nella scuola dei tagli, al tempo della crisi.
Per un docente è un passo decisivo. Si cambia ruolo, si cambia marcia. Emozionata?
«Nei primi giorni, forse nelle prime settimane anche, si tratta soprattutto di stare in ascolto di un mondo di iniziative che già c’è, che esiste. Si vive una specie di sospensione di sé, per accogliere e mettersi in relazione. Quasi non c’è spazio per emozioni proprie».
Quella del preside è una figura altamente simbolica, un organizzatore del sapere ma anche della logistica, un manager che non può scordare di essere un educatore. Per lei, che significato ha questo ruolo?
«Significa innanzi tutto credere nella scuola e nella possibilità di che sia un’esperienza in cui i ragazzi possono stare bene e valorizzare i loro talenti. Studiare è anche fatica e disciplina. Solo l’interesse e la passione possono rendere leggera la fatica. Quindi bisogna credere che c’è la possibilità che la scuola sia "bella", appassionante. Significa anche far di tutto per vedere uno ad uno i ragazzi, per quanto possibile, "inseguendo" strenuamente chi è in difficoltà, perché non rinunci, e creando lo spazio ai talenti speciali. Quanto sappiamo riconoscere talenti speciali nelle nostre scuole? Significa lavorare perché la scuola sia un vero laboratorio di integrazione. Questo lo fanno gli insegnanti. Perciò credo che il preside abbia il compito, tutto sommato nascosto, di favorire il loro lavoro, semplicemente. E un po’ oggi serve anche che abbia una certa capacità di resistere alle difficoltà oggettive - poche risorse, molte attese - mantenendo lucidità e fiducia negli insegnanti e nei ragazzi».
Quanto pesa la scarsità di risorse?
«La scuola è la nostra vera risorsa di fronte alla incertezza sul futuro. Tito Boeri all’inizio di questa crisi economica scrisse che in tempi di crisi il vero investimento è sulla cultura e l’istruzione. Credo che sia verissimo».
Perché una docente decide di misurarsi col ruolo di preside?
«Ho fatto il concorso nel Trentino perché c’è una legislazione scolastica per alcuni aspetti straordinaria. Il Trentino crede nella scuola, vive di un preciso di patto con il territorio, nelle vallate le scuole sono centri di promozione culturale. A Trento c’è uno splendido istituto di ricerca sulla didattica, l’Iprase, che sostiene il lavoro degli insegnanti. Da anni ci sono iniziative sulle lingue, sulla scrittura creativa nelle scuole. Visitare il sito è fare un bel viaggio in una scuola che ha un progetto».
Lei che cosa si aspetta, adesso? O meglio, che cosa ritiene ragionevole aspettarsi?
«E’ ragionevole creare alleanze con chi crede nella scuola. Soprattutto con i genitori. Poi con le amministrazioni, i musei, le biblioteche. E anche con i privati, perché averne paura? Nella scuola in cui ho insegnato più di vent’anni, nel Veneto, abbiamo avuto esperienze meravigliose di collaborazioni con aziende che hanno finanziato nostri progetti. Un bel progetto di educazione stradale, ad esempio, che mai avremmo potuto fare con le nostre risorse».
Qual è invece il sogno, l’utopia di cui si nutre questo lavoro?
«Conosco il mio sogno. È una scuola culturalmente preparata e che dà e chiede molto ai ragazzi. Che coltiva l’equità, ovvero che è il luogo delle opportunità per tutti. Che in nessun caso fa da moltiplicatore della disuguaglianza. Che crea un ambiente di forte appartenenza, per i ragazzi e anche per gli insegnanti. E’ facile lavorare per il successo di qualcosa che si sente proprio. E’ una scuola che rispetta la varietà degli stili di insegnamento e delle pratiche perché nella varietà i ragazzi possono trovare la voce giusta che li appassiona alla cultura. E’ anche una scuola che coltiva la fiducia nel futuro e che crede nei ragazzi e li ascolta davvero: se lasciamo loro lo spazio e diamo loro gli strumenti, possono costruire un mondo migliore di quello in cui noi li stiamo facendo vivere».

La Stampa 12.9.11
Come sostenere i docenti di sostegno
di Andrea Gavosto


Affrontare i problemi degli allievi disabili con logica burocratica tradisce i principi dell'integrazione e, quel che è peggio, danneggia i ragazzi. Purtroppo, ciò avviene sempre più spesso nella scuola italiana, come ci segnala il caso scoppiato a Torino pochi giorni fa. Al momento delle assegnazioni di circa 300 posti di sostegno, si è scoperto che oltre due terzi erano stati attribuiti a docenti «soprannumerari», vale a dire insegnanti curricolari di ruolo che, non potendo più insegnare nella loro scuola a causa della riduzione del monte ore della loro materia, della diminuzione delle classi o dell'arrivo di un collega con maggiore anzianità di servizio, avrebbero accettato una posizione di sostegno nello stesso istituto invece del trasferimento in un'altra scuola. Peccato che la quasi totalità di costoro non avesse la qualificazione per lavorare con i ragazzi con disabilità. Dopo molte polemiche, c'è stata una parziale marcia indietro.
L'idea di assegnare al sostegno docenti senza una preparazione specifica è sbagliata, doppiamente sbagliata. Da un lato, poiché nessuno penserebbe mai di fare insegnare matematica a chi fino a ieri ha insegnato latino, stupisce che un docente abbia così poca considerazione della sua professionalità da rinunciare alla sua disciplina, pur di non trasferirsi di qualche chilometro. Dall'altro - ed è l'aspetto più preoccupante - la vicenda conferma come il sostegno sia spesso considerato dall'amministrazione scolastica (e dai sindacati) un impiego di serie B, al punto da assegnarlo a chi non è qualificato a farlo, perdendo di vista che l'alunno con disabilità richiede competenze e metodologie didattiche particolari, formazione specifica ed esperienza.
In questo, come in altri campi, nel nostro Paese c'è un conflitto fra principi e pratica. Nei principi, il modello di integrazione è probabilmente fra i più avanzati al mondo: prevede infatti che i ragazzi con bisogni educativi speciali siano pienamente inseriti nella vita quotidiana - non solo didattica, ma anche di relazione - della classe, con l'aiuto dell'insegnante di sostegno. In molti Paesi, come Francia e Germania, esistono invece ancora scuole e classi differenziali. Nella pratica, però, le cose non funzionano bene, come emerge da un recente studio di Associazione Treellle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli. Il sostegno si trasforma spesso in una trafila burocratica, che traduce meccanicamente la certificazione di disabilità delle Asl in ore di sostegno, senza una vera lettura dei bisogni dei ragazzi; gli altri insegnanti tendono a delegare in toto l'integrazione scolastica del disabile al docente di sostegno; è ormai pratica frequente che gli insegnanti acquisiscano la specializzazione sul sostegno per accelerare il passaggio in ruolo, salvo poi rientrare nei ranghi «normali» appena possibile, con grande spreco di risorse; infine, il turn-over sul sostegno è perfino più elevato di quello degli altri insegnanti: se la mancanza di continuità didattica è un danno per qualsiasi studente, figuriamoci per uno con disabilità. Insomma, si privilegiano gli aspetti organizzativi della professione insegnante all'aiuto effettivo alle famiglie e ai ragazzi.
Come ritornare allo spirito originario della legge? La nostra proposta è l'opposto di quanto stava per accadere a Torino: invece di assegnare il sostegno a persone non qualificate, tutti gli insegnanti della classe vanno qualificati e coinvolti nell'educazione del ragazzo con bisogni speciali (il disabile, ma anche chi soffre di disturbi specifici dell'apprendimento, come la dislessia, o lo straniero con problemi di lingua), eliminando progressivamente la figura del docente di sostegno. Naturalmente, perché questo si realizzi occorre che gli insegnanti normali ricevano un'adeguata formazione. Inoltre, servirebbero su base territoriale nuclei di esperti altamente specializzati nella pedagogia speciale, che supportino scuole e famiglie nella lettura dei bisogni e nella fatica quotidiana. Lo sappiamo: non è cosa che si faccia dall'oggi al domani. Ma si deve cominciare subito a preparare questa prospettiva, prima che il modello d'integrazione collassi, soffocato dall'effetto congiunto di risorse in calo e aumento degli allievi con bisogni educativi speciali.
La scuola italiana inizia il nuovo anno con il consueto bagaglio di sfide e problemi, inclusa la piena integrazione dei ragazzi disabili. In questo campo l'Italia vanta un primato di civiltà: sarebbe davvero vergognoso se, per esigenze di bilancio, inerzia burocratica o interessi corporativi, la scuola facesse un passo indietro.

Corriere della Sera 12.9.11
Cartagine, eterno prototipo per un «nemico perfetto»
Dall'Antica Roma all'ultimo conflitto in Libia
di Luciano Canfora


Il conflitto più lungo e più pericoloso che Roma abbia affrontato per assurgere alle dimensioni di potenza imperiale fu quello con Cartagine. Esso si sviluppò in due fasi nell'arco di oltre sessant'anni (264-201 a.C.) ed ebbe però un epilogo ritardato (149-146 a.C.) quando Roma, conquistato anche il Mediterraneo orientale, cercò daccapo lo scontro con Cartagine e decise di estirparla. Il che avvenne con la distruzione della gloriosa metropoli e l'asservimento degli abitanti nel 146 a.C. Se si considera che il controllo del Mediterraneo occidentale era la premessa necessaria per l'espansione imperiale a Oriente, ben si comprende l'importanza epocale della partita giocatasi tra Roma e Cartagine, la sua durata, la sua ferocia, la totale mancanza di mediazioni.
La conseguenza di questo stato di cose fu che Cartagine divenne sul piano ideologico, e quindi propagandistico e storiografico, il nemico perfetto: portatore di ferocia, slealtà, aridità culturale; e la guerra contro tale nemico divenne il prototipo della «guerra giusta»; e la condotta romana il prototipo della moderazione, dell'equilibrio, della lealtà. Questo si può osservare sia nel racconto di Tito Livio della guerra contro Annibale (libri XXI e seguenti), il quale scriveva sotto Augusto, sia nei Punica di Silio Italico (oltre dodicimila versi!), ricco senatore col capriccio della poesia, attivo nella seconda metà del I secolo d.C. L'invenzione della leggenda di Attilio Regolo corrisponde perfettamente a questo cliché, come nota efficacemente Richard Miles nel saggio Carthago delenda est appena uscito nelle «Scie» Mondadori.
L'invenzione del nemico, nel senso della capacità di imporre un'immagine demonizzante di esso (che funzioni sia durante la lotta sia dopo la vittoria), è una delle armi più importanti nei conflitti di potenza. Basti pensare, per fare un esempio che ha segnato di sé il secolo XX e di cui, tra breve, invece nessuno più serberà memoria, alla demonizzazione dell'Urss da parte del cosiddetto «mondo libero». Quel Paese svolse il ruolo di nemico perfetto, intorno a cui costruire una sorta di leggenda nera. Oggi quel cumulo di falsità ha vinto sul piano sia della mezza cultura sia della propaganda, mentre i superstiti del naufragio comunista sono i più (inutilmente) zelanti nel dar mano alla demonizzazione retroattiva.
Nel caso di Cartagine, la vicenda più desolante fu proprio la finale decisione romana di creare comunque un incidente per procedere alla estirpazione del nemico. Miles apre giustamente il suo libro per l'appunto con un efficace capitolo che descrive le fasi finali della lotta e la ferocia dell'assedio e della repressione romana.
Della creazione del nemico perfetto fa parte, anzi è parte essenziale, la svalutazione della sua civiltà, onde presentare la prevalenza del vincitore come il compimento della marcia trionfale del «bene» sul «male», della civiltà sulla barbarie etc. Se — come è il caso di Cartagine — il nemico fu «semitico» e «africano», il meccanismo demolitorio scatta con ancora maggiore facilità. Grande fu la sorpresa (o, a seconda dei casi, l'imbarazzo) quando, nel 1964, svariati anni dopo la sua morte, apparve postumo l'ultimo volume della Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis e si poté leggere la pagina in cui il grande storico italiano chiosava, pur consapevole della ferocia della procedura adottata, la distruzione di Cartagine come eliminazione di un «peso morto» nella storia dell'umanità. E ribadiva che «solo liberata da questo peso morto» l'Africa aveva potuto «entrare nello sviluppo civile dell'antichità». Per lui «la scomparsa di Cartagine era una profonda esigenza storica»!
Quella pagina fu scritta dallo storico cattolico che tutti ammiriamo per il rifiuto, con danno personale, di giurare fedeltà al fascismo, mentre finiva la Seconda guerra mondiale. Circa nello stesso tempo (1943) uno storico tedesco, Joseph Vogt, che è stato oggetto nel dopoguerra di smisurata venerazione, promuoveva un'opera collettiva Roma e Cartagine che si apriva con un intervento dello stesso Vogt che impostava la questione su cui tutti gli altri accademici convenuti dottamente discettano: il conflitto tra Roma e Cartagine è stato finora impostato in termini militari, «ma per l'odierna ricerca balza in primo piano una questione, se sia stato decisivo il fattore dell'eredità razziale (Blutserbe) dei rispettivi popoli». Era una dotta conventicola che sviluppava l'asserto proferito da Alfred Rosenberg al congresso del partito nazista del settembre 1937: «Fu merito di Roma avere assestato il colpo mortale allo Stato semita di Cartagine».
Qui siamo, beninteso, su di un piano più propriamente animalesco, ma colpisce spiacevolmente che la trasposizione in termini «culturali» di queste premesse razziali riemergesse nella pagina di un autorevole storico cattolico come Gaetano De Sanctis. Non era una uscita isolata se si considera che nel gennaio del 1947, l'allora ministro dell'Istruzione Guido Gonella inaugurando all'Istituto di studi romani l'anno accademico dei corsi superiori con una prolusione intitolata «Pace romana e pace cartaginese» (metafora per contestare le dure clausole della pace imposta all'Italia dai vincitori), evocasse ancora una volta il mito della perfidia e dell'inferiorità punica. Da Cartagine — egli scriveva — non è venuta al mondo antico alcuna forma spirituale durevole, «non voci di pensatori né canti di poeti, ma solo le pratiche e aride formulazioni del trattato di agricoltura di Magone» (che peraltro — converrebbe ricordare — i Romani si affrettarono a tradurre, studiare e mettere a frutto). Non era una ragione sufficiente, ammesso che fosse vero, per fare piazza pulita del nemico.
L'ironia della storia ha voluto che in quest'ultimo tempo della tormentata storia del Nordafrica la vicenda si ripetesse, negli stessi luoghi, o quasi, in cui avvenne l'antico sterminio: il rapace Sarkozy che «libera» la Libia rassomiglia, in caricatura, a Scipione Emiliano, detto Africano minore, che assedia e distrugge Cartagine nel nome della «libertà» e attraverso una «guerra giusta».
Questo genere di riflessioni non dev'essere frainteso nel senso del banale capovolgimento dei ruoli, grazie al quale i vinti diventano automaticamente i buoni. Ove vincitori, avrebbero trattato gli avversari alla stessa maniera. Riflettendo sui conflitti di potenza che innervano l'intera vicenda storica del mondo antico si può osservare che il presupposto di tali conflitti è che l'obiettivo restava sempre quello della totale distruzione (prima o poi) dell'avversario. Le paci erano soltanto tregue. Ma il nostro civilizzato presente, non offre, a ben vedere, analogo scenario?

Repubblica 12.9.11
Sokurov: "Sì, il mio film l´ha voluto Putin anche se racconta gli orrori del potere"
di Mario Serenellini


Il regista russo Leone d´oro alla Mostra di Venezia parla della sua ossessione per i dittatori e del rapporto con il premier russo che lo ha sostenuto nei finanziamenti
Ho subìto anch´io umiliazioni. Prima della perestrojka la mia opera in Russia era congelata Ma non ho capitolato
Mi batto per salvare San Pietroburgo dalla speculazione. Fare film sul passato non è allontanarsi dal presente

La prima telefonata, non appena ha saputo del Leone d´oro a Venezia, è stata a Vladimir Putin. «Per ricordargli ancora che i politici, lo Stato, devono sostenere il cinema», spiega Aleksander Sokurov. La telefonata ha anche il sapore di "grazie" al mecenate del film: perchè Faust, trionfo del regista più censurato negli anni pre-perestrojka, è stato sponsorizzato dal premier russo. Ci sarebbe di che restarne sorpresi, se il cineasta russo – oggi il più grande e popolare maestro del cinema russo, insieme con l´amico Nikita Michalkov – non fosse una roccia di coerenza, politica e artistica, ribadita da una quarantina di film in oltre trent´anni. Sokurov per primo s´affretta a allontanare ombre d´ingerenza ideologica dal suo film prodotto dalla Proline Film di San Pietroburgo con un budget di 8 milioni, che Putin in persona ha pilotato tra fondo di sostegno e mass media di casa, foraggiati da banche private: «Il film è intriso di cultura russa. Per Putin questo è importante. La Russia non è solo una potenza militare o una riserva di petrolio e gas. Gode d´una eredità culturale enorme: il nostro cinema può promuoverla».
Sokurov, Faust però è un perno della cultura tedesca.
«In Faust c´è tutto, anche la Russia d´oggi. I politici dovrebbero farne il loro livre de chevet, il libro sul comodino. La mia è una reinterpretazione radicale del mito dello scienziato che vende l´anima al diavolo per un sapere onnipotente. Faust è un pensatore, un ribelle, un pioniere, ma è un essere umano, fatto di carne e sangue, guidato da istinti d´avarizia e avidità. Mi sono ispirato a Goethe e Thomas Mann, facendo convergere nel film i temi dei miei lavori precedenti su tre personaggi storici, Hitler (Moloch, 1999), Lenin (Taurus, 2001) e Hirohito, ultimo imperatore del Giappone (Il sole, 2005). Faust chiude la mia tetralogia sugli effetti corrosivi e devastanti del potere e, insieme, esorcizza la mia ossessione per i dittatori».
Dov´è il legame di Faust con i dittatori della storia?
«Nella rappresentazione della tragedia personale di un uomo di potere quando deve affrontare la catastrofe da lui provocata. Anche in Faust c´è un dio, o semidio, al tramonto: la sua caduta ci sprofonda nella faccia nascosta dell´essere umano. La storia stavolta non riguarda picchi epocali del secolo scorso, si svolge all´alba dell´800, ma approfondisce la mia riflessione sull´uomo di potere d´ogni tempo».
C´entra la Russia di oggi?
«Mi hanno definito il cantore della Russia. In una dozzina di film, tra finzione e documentario, da oltre vent´anni esprimo il mio amore per i paesaggi russi, le campagne, le città, il modo d´essere dei compatrioti, molto pragmatici ma anche sentimentali, riconoscenti verso la natura, il vento, i cespugli, l´acqua, la vita. Con questo film, esalto i nostri valori culturali, in particolare, la mia ammirazione per un popolo di coraggio. Noi russi siamo capaci di sopportare i fardelli più pesanti e di resistere con tenacia, com´è successo contro i nazisti durante l´assedio di Leningrado».
Sono proprio questi suoi accenti patriottici a sdoganare film spesso impietosi nell´analisi del potere?
«Nel quotidiano, spesso, siamo costretti all´umiliazione. Ho personali esperienze. Tra il 1978 e il 1987, ho girato due lungometraggi, corti di finzione e sei documentari. Mai nessuno proiettato, per il veto della censura governativa. La perestrojka li ha quasi tutti scongelati. Ma quei dieci anni di quarantena sono stati per me un´esperienza terribile: in nessun modo, però, m´hanno indotto a capitolare. In questo mi sento russo, uno dei tantissimi d´un popolo di coraggio, che combattono, giorno dopo giorno, contro l´assenza di comprensione, o di pietà. Da noi, l´individuo singolo – l´uomo – non ha valore».
La fama mondiale le dà oggi più libertà di affrontare di petto i temi politici più spinosi?
«In Russia sono un autore riconosciuto, anche fuori del milieu cinèfilo, ma le mie posizioni politiche non sono esenti da noie. Sono nato 60 anni fa in un paesino in Siberia, che oggi è sott´acqua, sommerso dall´ennesimo bacino artificiale per un impianto idroelettrico. Ho maturato fin da piccolo una coscienza sociale e ecologica. Da tempo milito per la salvaguardia del patrimonio di San Pietroburgo: ho dato vita a un comitato di difesa dell´eredità architettonica, ora massacrata dall´aggressione immobiliare, e di salvaguardia dei quartieri popolari, svuotati dei loro abitanti dalla speculazione. Girare film, anche su altre epoche, non va disgiunto da uno sguardo lucido e responsabile sul presente. Il buon cinema esprime sempre un Paese idealmente sano».

Repubblica 12.9.11
Così le favole lette ai neonati svelano l’istinto della parola
di Elena Dusi


Sensibili da subito a tutte le variazioni dell´intonazione della voce

Un test degli scienziati del San Raffaele dimostra che il cervello di un bimbo "parla fin dalla nascita" L´ascolto di una fiaba, ad appena 48 ore dal parto, attiva nei piccoli le zone neuronali del linguaggio

Siamo nati per parlare. Forse nulla è più inverosimile di un bambino che comprende una favola a due giorni dalla nascita. Ma le immagini ottenute dai neuroscienziati del San Raffaele di Milano sul cervello dei neonati, durante la lettura di una storia di Riccioli d´oro, dimostrano che quello del linguaggio è un motore che corre a pieni giri fin dal primo momento. Le aree dedicate alla comprensione e all´elaborazione delle parole sono ancora prive di elementi e le connessioni fra i neuroni povere, dato che il vocabolario è fatto di pagine bianche. Ma il ciak è già scattato, e ci penserà il film del mondo a riempire di contenuti un recipiente che fin dal primo giorno è già dotato di forma compiuta. «Le strutture neurali legate al linguaggio sono perfettamente attive a due giorni di vita in entrambi gli emisferi» spiega Daniela Perani, professoressa di neuroscienze all´università Vita-Salute San Raffaele e autrice dello studio appena pubblicato su Pnas. I ricercatori hanno sottoposto a varie tecniche di neuroimaging 15 bambini nati da 48 ore nell´ospedale milanese. «Però si tratta di strutture ancora molto immature. Ci sono infatti forti connessioni solo fra i due emisferi cerebrali, mentre negli adulti l´attivazione del linguaggio è concentrata nell´emisfero sinistro».
Appurato che il cervello di un bambino "parla" e "ascolta" fin dalla nascita, la domanda successiva riguarda il contenuto di quei primi discorsi. I ricercatori milanesi hanno trovato che i neonati riconoscono fin da subito la lingua della prosodia, fatta di intonazioni, di vocali allungate, di un tono della voce che si alza e si abbassa in maniera ritmica, tingendo di emotività le parole dei genitori e degli adulti in generale. «Non è un caso che in uno studio dell´anno scorso - spiega Perani - abbiamo dimostrato la capacità dei neonati di apprezzare la musica. I bambini a pochi giorni di vita sanno già distinguere un´armonia perfetta da un brano musicale distorto».
La favola di Riccioli d´oro letta ai neonati durante l´esperimento di oggi riusciva ad attivare le aree del linguaggio se era letta con la giusta intonazione. Ma lasciava i bambini indifferenti quando le parole erano pronunciate in maniera fredda e piatta, imitando la sintesi vocale di un computer. «Dopo aver raccontato la storia normalmente, l´abbiamo ripetuta eliminando del tutto la prosodia. Al bambino arrivava naturalmente lo stimolo uditivo, ma l´attivazione delle aree del linguaggio si abbatteva drasticamente. Era come se ascoltasse il suono di un martello pneumatico, qualcosa di non umano» spiega Perani. Nei bambini piccoli - dimostra lo studio - è la prosodia a guidare l´apprendimento del linguaggio. Le parole cariche di intonazioni e di variazioni nell´altezza del suono (la cui comprensione è affidata soprattutto all´emisfero destro, come per la musica) più facilmente si imprimeranno nella memoria con i loro contenuti (elaborati dalle aree del linguaggio, che sono concentrate invece nell´emisfero sinistro). L´equilibrio fra le due sezioni del cervello, notato dai ricercatori del San Raffaele a due giorni di vita, si sfalderà gradualmente per sfociare nella specializzazione dell´area sinistra del cervello, che avviene intorno ai cinque anni di età e si mantiene da adulti.
Ai filosofi greci che si interrogavano sul legame fra significato delle parole e realtà, alle ardite teorie sulla natura divina del linguaggio e al dibattito moderno sull´esistenza di una grammatica universale, le neuroscienze danno il loro contributo con gli strumenti che hanno a disposizione. «La lingua nasce da una combinazione di "nature" e "nurture", cioè di biologia e ambiente» riassume Perani. «Il fatto che i circuiti cerebrali del linguaggio siano pronti alla nascita conferma il ruolo della biologia. Ma quei rari bambini che sono cresciuti senza essere esposti a parole e discorsi, da grandi non hanno più imparato a parlare. Questo dimostra che anche l´ambiente è fondamentale». E Charles Darwin, più abituato a osservare e descrivere che a offrire conclusioni, forse si era avvicinato al giusto quando notava perplesso che "il linguaggio non è vero istinto, perché deve essere imparato". Ma allo stesso tempo "è differente dalle altre arti" perché il bambino ha "una tendenza istintiva a parlare, ma non certo a scrivere o fare il pane".