mercoledì 14 settembre 2011

l’Unità 14.9.11
Benedetto XVI e tre cardinali accusati di «tollerare gli abusi sessuali»
Vittime Usa dei preti pedofili denunciano il Papa all’Aja
Il ricorso alla Corte internazionale dell’Aja riguarda oltre al Papa, i cardinali Bertone, Sodano e Levada. No comment della Santa Sede. L’iniziativa promossa da un gruppo di vittime dei preti pedofili, lo Snap.
di Roberto Arduini

Non si è ancora spenta l'eco delle polemiche con l'Irlanda per le omissioni sulla pedofilia che un'altra tegola si abbatte sul Vaticano. E sempre da questo stesso fronte. Un gruppo di associazioni delle vittime di abusi sessuali e di atti di pedofilia da parte di sacerdoti ha depositato presso la Corte penale internazionale dell'Aja un ricorso in cui accusa il Papa e tre alti prelati di crimini contro l'umanità. L’americano Survivors Network of those Abused by Priests (Snap), accompagnato dagli avvocati del Centre for Constitutional Rights, un'organizzazione per i diritti umani, hanno fornito ai giudici un fascicolo di 80 pagine in cui si accusa il Vaticano di «tollerare» abusi sui minori in tutto il mondo e di «proteggere i 20mila preti ancora in carica», secondo le stime. Nella denuncia si chiede alla Corte penale internazionale di «incriminare il Papa» per la sua «diretta e superiore responsabilità per i crimini contro l'umanità degli stupri e altre violenze sessuali commesse nel mondo». Il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, il suo predecessore, il cardinale Angelo Sodano, e il prefetto della Congregazione della dottrina della fede, cardinale William Levada, sono denunciati per la loro responsabilità oggettiva data dal «ruolo di comando» e per quella diretta nella «copertura dei crimini». La Snap ha reso noto di aver allegato «rapporti, documenti e prove dei crimini perpetrati dal clero cattolico contro bambini e adulti vulnerabili». Si tratterebbe di «decine di migliaia di vittime»: «In questo caso, davvero tutte le strade portano a Roma», ha detto l'avvocato del Centre for Constitutional Rights, Pam Spees. I responsabili, ha aggiunto, «dovrebbero essere processati come qualunque altro dirigente colpevole di crimini contro l'umanità». Il presidente della Snap, Barbara Blaine, ha spiegato di aver deciso questo «storico passo» per proteggere «tutti i bambini innocenti e gli adulti vulnerabili».
«L'iniziativa ha poche chance di essere accolta dalla Corte», sostiene Herman Van Der Wilt, professore di legge internazionale presso l'università di Amsterdam. «Prima di tutto», ha detto, «perché il pre-requisito per i crimini contro l’umanità è che siano stati perpetrati da uno Stato o un’organizzazione assimilabile a uno Stato. Secondo, perché il tribunale internazionale non può indagare su nessun crimine commesso prima del 1 luglio del 2002, anno in cui è iniziato il suo mandato in base allo statuto di fondazione».
Gli attivisti, però, non la pensano così e nei prossimi giorni lanceranno un tour in Europa per illustrare le loro accuse e sostenere la denuncia al Cpi. Nel giro di otto giorni, a partire da oggi, faranno tappa in 10 città (Berlino, Bruxelles, Parigi, Vienna, Londra, Dublino, Varsavia, Madrid), per arrivare il 20 settembre a Roma.
TOUR IN EUROPA
L'iniziativa punta a incoraggiare chi è stato vittima di molestie a farsi avanti e a stimolare i cattolici ad aprire una discussione sul problema. «Vogliamo far sì che ogni singola persona che ha subito abusi, sappia di non essere sola, che richiudere quella ferita è possibile e che può aiutare altri ragazzi che hanno vissuto un trauma simile», ha spiegato Blaine. «Vogliamo anche che i cattolici coinvolti ha aggiunto abbiano un posto sicuro in cui poter parlare del proprio caso e capire quanto possono aiutare a creare una chiesa e una società più sicure». In ogni città sarà organizzata una conferenza stampa e una riunione di supporto riservata alle vittime di abusi e ai loro familiari.
La Santa Sede non ha voluto commentare il ricorso all’Aja. «È una cosa «molto triste», secondo il portavoce della comunità di Sant' Egidio Mario Marazziti. Il tribunale dell'Aja «deve occuparsi di cose molto serie».


La Stampa 14.9.11
“L’ho fatto perché poteva fermarli invece ha taciuto”
“Subii gli abusi di un prete risarcito con soli 5000 euro”
di Alessandro Alviani

Wilfried Fesselmann ha 43 anni ed è una delle vittime di abusi che ieri hanno depositato alla Corte dell’Aja il ricorso contro il Papa. Nel 1979, quando aveva 11 anni, venne abusato da Padre Hullermann, che l’anno dopo fu trasferito dalla diocesi di Essen all’arcidiocesi di Monaco e Frisinga allora guidata dall’arcivescovo Joseph Ratzinger per sottoporsi a una terapia psichiatrica. In seguito Hullermann ha abusato di altri ragazzini. È stato sospeso soltanto l'anno scorso, quando il caso di Fesselmann è diventato pubblico.
Perché ha denunciato il Papa?
«Perché è il capo della Chiesa mondiale e ha la responsabilità di tutti i sacerdoti. Il problema sta nel fatto che i preti colpevoli di abusi vengono trasferiti da una diocesi all’altra. Le vittime di padre Hullermann sono almeno 17. Anche il suo successore, che iniziò a lavorare a Essen come lui, abusò di alcuni ragazzini e venne trasferito da Essen a Münster. La strategia è sempre la stessa. Ogni volta le diocesi rispondono: “Sei la prima vittima, non abbiamo mai sentito nulla del genere”. E intanto i sacerdoti pedofili vengono spostati da una città all’altra. Vogliamo metter fine a questa strategia».
Che cosa si aspetta concretamente da Benedetto XVI?
«Delle scuse. Dovrebbe prendere finalmente posizione su questo tema e ammettere che sono stati commessi errori. Inoltre dovrebbe bloccare i preti pedofili ancora attivi. Nell’atto d'accusa che abbiamo depositato all'Aja ci sono i nomi di circa 300 preti pedofili in Germania, alcuni dei quali svolgono ancora oggi le loro funzioni. Il Papa dovrebbe allontanarli e rivelare i loro nomi. Sarei poi contento se il Papa decidesse di incontrarmi a Berlino durante la sua visita della prossima settimana, visto che è stato direttamente coinvolto nel mio caso, in quanto accolse Hullermann a Monaco. Ho già scritto a diverse istituzioni, tra cui la Conferenza episcopale tedesca e il Vaticano, ma non ha nessun interesse a incontrarmi, cosa che non riesco a capire. Andrò a Berlino per partecipare alle proteste contro la sua visita».
Che cosa gli direbbe se potesse incontrarlo?
«Gli chiederei perché ha fatto questo a me e agli altri. Se avesse bloccato Hullermann nel 1979 non ci sarebbero state altre vittime oltre a me».
Ha presentato ricorso proprio ora a causa della prossima visita in Germania?
«No, si tratta di un processo molto lungo e complesso, stavamo raccogliendo documenti da marzo».
Vuole raggiungere altri obiettivi col ricorso?
«Siamo arrabbiati per il modo in cui è stata gestita la questione dei risarcimenti. In Germania questi reati sono già caduti in prescrizione. Le vittime però hanno bisogno anche di 20-25 anni per parlare di quello che è successo. Io ne ho impiegati oltre 25. Inoltre in media noi vittime tedesche siamo state risarcite con 5.000 euro. Padre Hullermann vive a Monaco, ha un appartamento che gli viene pagato e una governante, in più continua a incassare il suo stipendio dall’arcidiocesi, come se non fosse successo niente. Non è possibile che lui guadagni in tutto 5.300 euro al mese, mentre le vittime hanno avuto un risarcimento unico di 5.000 euro. È troppo poco».
Che cosa fa oggi?
«Da 10 anni mi sono stati diagnosticati attacchi di panico legati agli abusi. Da allora non posso più lavorare».
Che cosa succederà ora col ricorso?
«La Corte dovrà anzitutto visionare il materiale: tre cd più diverse scatole piene di documenti. Per farlo ci vorranno almeno tre settimane».

Terra 14.9.11
Pedofilia nel clero L’associazione di vittime statunitense Snap e una Ong americana hanno depositato ieri l’accusa al Tribunale penale internazionale de L’Aja. Un dossier di 10mila pagine
Crimini contro l’umanità Denunciato il Pontefice
di Federico Tulli
qui
http://www.scribd.com/doc/64851891

l’Unità 14.9.11
I Democratici raccolgono le firme assieme a Idv, Sel e Asinello: superata quota 400 mila
In Parlamento pressing per la proposta di legge: sistema misto con doppio turno e parità di genere
Pd al rush finale: il referendum può far saltare
il governo
Stimolo per una nuova legge in Parlamento ma anche ulteriore spinta verso una crisi di governo. Il referendum elettorale si carica di un significato anti Pdl-Lega. Domenica mobilitazione straordinaria.
di Simone Collini

Uno stimolo a cambiare la legge elettorale, ma anche un’ulteriore spinta verso la crisi di governo. Col passare dei giorni il referendum sulla legge elettorale si è caricato di un significato che va al di là della sola battaglia per il superamento del Porcellum. Nel fronte dell’opposizione, dal Pd al Fli, si è fatta strada la convinzione che dinanzi al rischio di un ritorno al Mattarellum l’asse Pdl-Lega potrebbe ritenere più conveniente scegliere la soluzione del voto anticipato. Per ora siamo nel novero degli scenari futuribili, e nel Pd si ritiene più probabile che entro breve Berlusconi sia costretto a un passo indietro perché non ritenuto credibile dall’Europa e perché la manovra non sarà sufficiente a togliere l’Italia dal mirino della speculazione. Ma il timing del referendum, che se avrà il via libera della Corte costituzionale dovrà essere votato nella primavera prossima, potrebbe essere uno strumento in più per accelerare la crisi di governo.
Per questo il Pd pur continuando a lavorare per far approvare in Parlamento la propria proposta di legge elettorale (oggi alla conferenza dei capigruppo al Senato Anna Finocchiaro ne chiederà l’immediata calendarizzazione) e pur «non mettendo il cappello» sul referendum, per dirla con Bersani, ha favorito la raccolta delle firme e ha anche lavorato affinché il 30 settembre sia raggiunto l’obiettivo delle 500 mila sottoscrizioni. «Noi raccogliamo le firme ha detto ieri D’Alema alla Festa del Pd di Modena le stiamo raccogliendo noi in parte notevole, e altri prendono i meriti. Noi facciamo campagna elettorale e come spesso succede i promotori dei referendum si prendono i rimborsi. È accaduto anche l’ultima volta. È una posizione comoda, ma va bene».
Ufficialmente la macchina organizzativa del Pd non è stata messa in moto, perché nella stessa segreteria c’era chi era favorevole al referendum Passigli per il ritorno al proporzionale e perché l’Udc ha preventivamente fatto sapere che un impegno del Pd per il Mattarellum avrebbe reso più complicata la definizione di una possibile alleanza tra progressisti e moderati, mentre Casini si è detto disponibile a un confronto sulla proposta di legge depositata dal Pd al Senato (un sistema misto maggioritario-proporzionale con doppio turno e parità di genere). Ma al di là del fatto che hanno firmato dirigenti di tutte le anime del partito da Veltroni a Bindi, da Franceschini a Errani a, ovviamente, Parisi il Pd ha lavorato per raggiungere quota 500 mila sottoscrizioni ospitando i banchetti nelle Feste di partito, molto spesso gestiti dagli stessi militanti Democratici anche se le bandiere non sono mai state  esposte, e aprendo gli stessi circoli del Pd alla raccolta delle firme. Per non parlare del Pd della Sardegna e del Friuli Venezia Giulia, che la scorsa settimana hanno votato una risoluzione che impegna il partito nella raccolta nei territori regionali a tutti i livelli.
Ora le firme sfiorano quota 400 mila e nel comitato promotore, di cui fanno parte I Democratici di Parisi, l’Idv, Sel e l’Unione popolare di Maria Di Prato, si inizia già a respirare un cauto ottimismo.
Per domenica è prevista una giornata di mobilitazione straordinaria, perché tutta la partita si gioca in realtà entro il 25 settembre e i cinque giorni restanti serviranno per far arrivare a Roma le firme provenienti da tutta Italia. Saranno in piazza anche i gazebo di Generazione futura, l’associazione giovanile di Fli, mentre Vendola ha inviato ai circoli di Sel un messaggio per dire che l’abolizione della «porcata di Calderoli è a portata di mano» ma ora serve un «impegno» particolare. Le iniziative si moltiplicano, anche il quotidiano Europa domattina apre la redazione alla raccolta delle firme alla presenza di Parisi, Segni, il costituzionalista Morrone e alcuni parlamentari del Pd. Rimane poi la richiesta alla Rai di informare di più sulla campagna referendaria. Ma nella sede del comitato promotore, a Santi Apostoli, sono convinti che il traguardo verrà raggiunto.

Corriere della Sera 14.9.11
Dopo Berlusconi, il Pd diviso Bersani vuole il voto nel 2012
di Maria Teresa Meli

ROMA — Nel Partito democratico quasi tutti sono ormai convinti che il referendum elettorale potrebbe essere il grimaldello per scardinare il governo. Ma, come da inossidabile tradizione, gli esponenti del Pd si dividono sull'eventuale dopo-Berlusconi.
Il segretario vorrebbe andare al voto. La minoranza interna di Veltroni, Fioroni e Gentiloni punta invece a un «nuovo governo sostenuto da una larga maggioranza parlamentare» e resiste all'idea di andare alle elezioni anticipate con un'alleanza a tre Pd-Sel-Idv.
Ma Pier Luigi Bersani ha pochi dubbi e una sola certezza: l'obiettivo sono elezioni nella primavera del 2012. Il segretario da qualche giorno lo ripete con sempre maggiore insistenza a parlamentari e collaboratori. In pubblico è meno netto, in ossequio alla Costituzione che vuole che sia il capo dello Stato a decidere se sciogliere le Camere o tentare la strada di un nuovo governo. Ciò non toglie che ultimamente Bersani non riesca a pronunciare un sì netto al coinvolgimento del suo partito in un governo di responsabilità nazionale nemmeno davanti alle telecamere. Proprio non ce la fa ad accettare questa ipotesi, lo dimostra la vaghezza delle sue risposte: «Al capo dello Stato noi diciamo che siamo responsabili. Se viene fuori una compagine che riesce a dare fiducia e che è percepita come una cosa seria, io sono pronto a considerare tutte le opzioni: sia quella di stare dentro la maggioranza, sia quella di stare all'opposizione».
Già, Bersani è allergico all'idea di un nuovo governo dopo quello Berlusconi. Anche perché è convinto che sia in atto un tentativo di «mettere fuori gioco il Pd» (e interpreta in questo senso anche la grande eco mediatica del caso Penati), che potrebbe passare proprio attraverso la creazione di un nuovo esecutivo che raccolga insieme l'attuale centrodestra e il Terzo Polo, sotto la guida di un esponente che non proviene dal mondo della politica. Insomma, il segretario è veramente convinto (e non lo fa per propaganda) che c'è chi vorrebbe impedire al suo partito di sfruttare questa situazione e di guidare una coalizione vincente alle elezioni: «Ma si illudono: noi siamo pronti per governare il Paese».
La novità, però, è che anche Massimo D'Alema si è fatto un po' più tiepido nei confronti dell'ipotesi di un governo post-Berlusconi. L'ex premier continua a sostenere la tesi, ma si lascia aperta anche un'altra porta: «Le elezioni — dice — sarebbero comunque la strada maestra». Questa maggiore cautela dalemiana rispetto a un esecutivo di responsabilità nazionale nasce da timori simili a quelli di Bersani. Anche il presidente del Copasir è preoccupato perché vede profilarsi all'orizzonte un «disegno terzista»: «Alcuni ambienti ritengono che Berlusconi dovrebbe passare la mano perché non ha la forza e la credibilità per portare avanti delle politiche di destra. Sempre secondo questi ambienti serve qualcuno che abbia questa credibilità». Una sorta di «Berlusconi dal volto umano» per «togliere di mezzo i partiti e affidarsi al capitalismo buono».
Ed è per questo che i vertici del Pd guardano con un filo di inquietudine alle mosse di Montezemolo. Insomma — è il ragionamento che fanno a Largo del Nazareno — a che pro far cadere Berlusconi se poi si deve assistere a un ricompattamento del Pdl e dell'Udc e alla nascita di un governo che tolga spazi di agibilità politica al Pd? Sbaglia perciò Di Pietro (involontariamente o no?) ad accusare Bersani di non volere l'alleanza con Idv e Sel. Il leader del Pd sa bene che per andare alle elezioni è necessario allearsi con Vendola e con l'ex magistrato, secondo uno schema che gli estimatori di questo progetto definiscono e i detrattori bollano come «la mini-alleanza di sinistra».
Bersani non andrà alla festa dell'Idv non solo e non tanto per non «tradire» Casini, ma per altri motivi, oltre che per gli appuntamenti fissati per quella data in Europa. Il segretario del Pd non ha voglia alcuna di farsi crocifiggere sul «caso Penati» da Di Pietro e da una platea giustizialista. E, soprattutto, se nuovo Ulivo ha da essere, a suo giudizio il perno fondamentale di questo schieramento dovrà essere costituito da un partito riformatore, cioè dal Pd. Ragion per cui una simile alleanza non può debuttare in casa dell'Idv, ma deve nascere da una forte iniziativa del maggior partito italiano dell'opposizione.

l’Unità 14.9.11
Enrico Rossi: rinnovamento Pd uomini ma anche idee nuove
L’intervista «Un ciclo si è chiuso, ora cambiamo»
«È tempo di idee nuove, non basta l’età per cambiare»
di Vladimiro Frulletti

Il berlusconismo. «Ha toccato anche noi. Un partito debole, incentrato sull’apparire serve solo ai potenti. Il Pd deve stare dentro il conflitto sociale»
Per il presidente della Toscana il ricambio delle classi dirigenti è necessario ma si può affermare solo con un progetto non più subalterno al liberismo

C’è un gruppo dirigente, quello che ci ha guidati dagli anni 90 a oggi, che ha fatto il proprio tempo. Ora ne deve nascere uno nuovo». Non tanto o non solo per età, ma nuovo per le idee che ha da proporre e per le battaglie che sarà in grado di combattere sul terreno dell’equità sociale. Il presidente della Toscana Enrico Rossi lunedì sera, alla chiusura della festa del Pd di Firenze, ha strappato applausi proprio parlando di rinnovamento e di un Pd finalmente liberato da ogni subalternità culturale al neoliberismo. Presidente, perché una parte degli attuali dirigenti Pd dovrebbe passare la mano?
«Come ha scritto Reichlin su l’Unità, un gruppo dirigente si identifica in un progetto per il Paese, non nasce da una generica esigenza di ringiovanimento».
L’anagrafe non conta?
«Conta il progetto su cui si spende ed è lì che poi esaurisce la sua missione. Credo che il ciclo di chi ha tenuto il partito e i governi di centrosinistra dagli anni 90 a oggi si sia esaurito. Hanno avuto il merito di battere il berlusconismo per ben due volte e di portare l’Italia in Europa. Hanno corrisposto a un progetto di modernizzazione di cui c’era bisogno».
Ma?
«Però sono stati sospinti da una modernizzazione a tratti tecnocratica verso un riformismo debole, senza popolo. Hanno subito l’ideologia allora imperante a sinistra». Affascinati dal neoliberismo?
«Dal cosiddetto blairismo che isolava il conflitto sociale assumendo il capitalismo finanziario come il migliore dei mondi possibili. Ora ci accorgiamo che non è vero».
Quindi serve un nuovo gruppo dirigente?
«Anche qui, affinché ci sia un nuovo gruppo dirigente c’è bisogno che abbia una sua analisi della società e un suo progetto per l’Italia e per l’Europa attorno a cui costruire un sistema di alleanze innanzitutto sociali».
Un rinnovamento di persone non si ha senza nuove idee?
«Il punto di partenza deve essere l’analisi di questa crisi. Quando vado alle feste o a incontri pubblici ogni volta che attacco il capitalismo finanziario scatti un applauso liberatorio»
Che risposta si è dato?
«Che la gente ha bisogno di capire perché un mercato senza regole consente a speculazione e rendita di mettere in discussione addirittura la sovranità degli Stani nazionali»
E secondo lei queste persone che si aspettano da voi?
«Una nuova cultura politica che abbia al centro l’Europa intesa come ideale di unità non solo monetaria ma anche sociale e politica e una critica a un capitalismo finanziario che distrugge i valori e fa pagare il conto sempre ai lavoratori e ai produttori. Oggi viviamo una grande ingiustizia: il lavoro dipendente ha solo il 40% della ricchezza nazionale ma paga l’80% delle tasse. Il debito pubblico va abbattuto, perché altrimenti ci mangiano tutto gli interessi. Ma c’è anche un problema di ridistribuzione della ricchezza. Se non si sana questa ferita non ci sarà né sviluppo né tenuta sociale. Per questo il Pd deve diventare il partito che sta nel conflitto sociale, che quando le persone chiedono più diritti, reclamano più equità sta al loro fianco senza andarci troppo per il sottile. È su questi terreni, è dando risposte a questi temi che si formano e si formeranno i nuovi dirigenti».
Dirigenti più di lotta?
«E anche di buon governo. Negli anni 70 i governi locali di sinistra hanno fatto vedere ai cittadini come era possibile governare in un altro modo con gli asili nido, l’edilizia sociale etc. Lo stesso vale per noi oggi: dove governiamo dobbiamo far vedere la nostra impronta differente». In che modo?
«In Toscana lo abbiamo fatto con gli immigrati, salvando le materne dai tagli del Governo, differenziando i ticket col redditometro, sostenendo il credito alle Pmi anche al posto delle banche e aiutando i giovani a farsi una propria vita col progetto giovani Sì. Serve un gruppo dirigente dotato di passione e capace di stare dalla parte dei cittadini e dei lavoratori».
Vicende come quella di Penati non aiutano. Reichlin su l’Unità ha scritto: “non dobbiamo cercare il potere per il potere, dobbiamo riformare la società...”».
«Da questi casi un partito riformista deve prendere spunto non solo per domandarsi quali regole e comportamenti adottare, ma anche per interrogarsi su temi come l’assenza in Italia di una legge sui suoli, la rendita immobiliare, l’urbanistica contrattata, gli oneri di urbanizzazione che Tremonti obbliga a usare per le spese correnti».
Ma anche sul fatto che politica e affari non sono la stessa cosa.
«Non abbiamo bisogno di manager che fanno i politici, né di politici che fanno i manager perché poi si cade inevitabilmente nel connubio tra politica e affari che “tanti lutti provocò agli Achei...”. La politica è ricerca del bene comune fatta con competenza nell’interesse generale e nel sacro rispetto dell’imparzialità della pubblica amministrazione. Questi sono i fondamentali. Ecco perché mi piace l’idea di Bersani di una scuola politica per i giovani a Napoli. C’è bisogno di un partito che sì usa le primarie, ma che è radicato nel territorio, non leggero, e dove ci si impegna e si studia. Altrimenti vuol dire che non siamo ancora paghi del berlusconismo. Di questii 20 anni che hanno toccato anche noi. Un partito debole, incentrato sull’ossessione dell’apparire e del comunicare, è un partito al servizio dei potenti. Ma su questo sono ottimista».
Perché?
«Perché sta crescendo un legittimo risentimento verso le illusioni create da quella politica. Stanno tornando i tempi in cui paga la serietà, l’impegno e il progetto. Confido in una svolta positiva».
Sensazioni?
«Anche numeri. Io sono stato eletto con 1 milione e 300mila voti. Ai referendum 1 milione e 700mila toscani hanno detto no al nucleare, sì all’acqua pubblica e no al legittimo impedimento. Anche di questo dovremmo parlare di più».

il Fatto 14.9.11
Sepolcri imbiancati
di Paolo Flores d’Arcais

Ci sarà pure un giudice a Berlino” è la frase con cui il mugnaio Arnold (o sua moglie Rosina) si rivolse all’imperatore Federico di Prussia per avere giustizia. Da allora, paradossalmente, è diventata l’espressione idiomatica per indicare l’autonomia dei magistrati di fronte alla prevaricazione del potere politico. I magistrati della Procura di Napoli hanno onorato quel detto, non si sono fatti intimidire dalla nuova raffica di menzogne e contumelie di Berlusconi, gli hanno proposto quattro date (da giovedì a domenica) per non sottrarsi ai suoi doveri di testimone (la legge è uguale per tutti!), dopo di che c’è la richiesta di accompagnamento coatto. Vedremo se il compagno di merende di Gheddafi fuggirà ancora (versione soft della latitanza di Craxi?).
A non aver onorato i propri doveri istituzionali sono invece Barroso e Van Rompuy, che si sono prestati a fare da “spalle” alla pantomima con cui il plurinquisito amico di Putin cerca una volta di più di sfuggire alla “legge eguale per tutti”. Berlusconi ha preteso l’invenzione a tambur battente di un “impegno” europeo fino ad allora mai ventilato, proprio per le stesse ore in cui avrebbe dovuto rispondere alle domande di Henry John Woodcock, procuratore aggiunto di Napoli. Bar-roso e Von Rompuy, entrambi del Partito popolare europeo come il plurinquisito di Arcore, hanno obbedito (Manzoni avrebbe detto: “La sciagurata rispose”).
Era davvero improcrastinabile vedere Berlusconi il 13? Non il 14, non il 12, ma proprio quando avrebbe dovuto rispondere ai magistrati (senza la possibilità di amnesie selettive o di mentire per la gola, perché in tal caso si procaccia l’incriminazione per testimonianza falsa e reticente)? Senza quel faccia a faccia i mercati non avrebbero creduto al “miracolo” che la manovra finanziaria italiana rappresenta (Berlusconi dixit)? Il risultato è che a chiusura dello spot pubblicitario di Strasburgo e Bruxelles lo spread con i bond tedeschi è schizzato a 407.
Barroso e Van Rompuy non possono pretendere miracoli dalla nostra ingenuità. Perché hanno permesso che le istituzioni europee diventassero teatro dell’ennesima sceneggiata berlusconiana? Oltretutto hanno rischiato grosso: se B. avesse esternato anche sulla signora Merkel? È perciò sperabile che i parlamentari di Strasburgo che prendono sul serio Montesquieu (e magari anche la democrazia) presentino contro Barroso e Van Rompuy una mozione di censura e trovino una maggioranza che, votandola, salvi l’onore dell’Europa.

Repubblica 14.9.11
Cosa significa essere italiani
di Carlo Galli

«L´Italia è il Paese che amo». In questa dichiarazione – l´inizio della Grande Propaganda – c´era molta verità. Berlusconi ama veramente l´Italia perché ama veramente se stesso, avendo evidentemente operato una sintesi a priori fra l´Italia e la propria persona. Il suo amore non è un rapporto con l´oggetto amato; è il preventivo annullamento della sua autonomia, a cui segue l´identificazione con l´amante. Non è neppure un´inclusione: è un´illusione, un culto idolatrico.
Un culto il cui primo adepto, oltre che il primo beneficiario, è proprio Berlusconi. Il quale crede veramente di essere l´Italia. Non di rappresentarla – come nelle moderne dottrine della regalità il Re col proprio corpo concreto rappresentava l´intera complessità del regno – ma di coincidervi.
Una delle conseguenze di questa smisurata proiezione egolatrica è la indistinguibilità di pubblico e privato – l´annullamento del conflitto d´interessi, trasformato nella più perfetta identità d´interessi, passati presenti e futuri, fra Berlusconi e l´Italia – , ma anche la loro intercambiabilità (è Berlusconi che decide che cosa è pubblico, come per esempio la telefonata per Ruby, e che cosa è privato, come le serate con le escort). Un´altra è la coincidenza della parte col Tutto, del suo Partito con l´intero Popolo (il nome del Pdl è tutto un programma), e quindi l´esclusione degli avversari di Berlusconi dall´Italia – da questa Italia fittizia, fatta di proiezioni mentali, ma anche molto concreta nella sua configurazione di potere – . Quelli che lo criticano perdono ogni legittimità politica e morale, poiché non sono una parte che si contrappone, com´è normale in una democrazia, a un´altra parte, ma sono faziosi, traditori e sabotatori, che attaccando il Capo attaccano ipso facto il Paese. Nemici interni, dunque. Una terza conseguenza è che sovrana non è la legge, che vorrebbe considerare Berlusconi un cittadino fra gli altri; sovrano è lui, che è l´Italia, e che in quanto tale è il soggetto della legge e non è soggetto alla legge. Chi potrà mai voler processare l´Italia se non degli anti-italiani?
L´identificazione del governo con lo Stato, e dell´opposizione con l´attività anti-nazionale, è, certo, un´abusata strategia retorica, di ogni tempo e di molti Paesi – per lo più autoritari –; ma in concomitanza con la crisi finale della sua politica e della sua stessa avventura pubblica, Berlusconi sta toccando il grottesco. Il suo ricorso al tema-chiave della sua propoganda, alla radice della sua costruzione di legittimità, è ormai parossistico. Ora, è giunto il momento di squarciare il velo di Maya, di spezzare l´incantesimo, di dissipare le nebbie dell´illusione. E di spiegare a tutti (molti, in verità, lo stanno già comprendendo da soli, all´amara luce dell´esperienza), e in primis all´interessato, che Berlusconi non è l´Italia, che l´Italia non è Berlusconi, e che essere italiani non è essere berlusconiani. Che Berlusconi non è il destino dell´Italia e che lo si può attaccare senza essere anti-italiani.
Essere italiani non è una cosa soltanto, non significa realizzare un´essenza, un carattere, una vocazione unica. L´Italia non ha un´identità compatta, né nella nazione né nella razza, né nella religione né nell´ideologia. E quindi essere italiani vuol dire molte cose; essere portatori di interessi diversi, di ideali diversi, di visioni del mondo e della società differenziate. E questa pluralità, questa complessità – che hanno radici nella storia e nella geografia, nell´economia e nella politica –, non riconducibili a una unanimità, a un unico modello omologante, a un pensiero unico, possono essere una ricchezza, una riserva d´energie e di prospettive, se il punto d´unificazione del Paese, l´essenza dell´essere italiani, non sta nell´identificazione fra l´Italia e un Capo – che in realtà è stata superficiale ed episodica, e che ha avuto come effetto reale la più grave frantumazione della nostra società in mille linee di frattura disarticolate – ma al contrario nella sovranità della legge e nel più solenne dei vincoli: la Costituzione.
Essere italiani, oggi, può significare, in positivo, il riconoscersi in un´unità giuridica e politica, in un sistema di norme e in un´idea di democrazia pluralistica, che costituiscono, in realtà, un patto di uomini e di donne libere. Uniti dal rispetto delle leggi, e quindi dalla reciproca fiducia in se stessi, e dal riconoscersi nelle istituzioni: dall´identificarsi non in un uomo ma nella Repubblica e nei suoi ordinamenti. Essere italiani significa prendere sul serio la Costituzione, che è l´essenza dell´italianità, il progetto di una patria viva e libera perché consapevole della propria ricchezza plurale e della propria volontà di un destino civile comune. Una patria, un Paese, che non dipende dalle affabulazioni, dai rancori e dalle smanie narcisistiche di Uno – che dapprima ama, e che infine, quando l´incantesimo finisce, ingiuria –, ma dall´orgoglio civile di tutti. Dalla voglia, di tutti, di sciogliere il vincolo – tutt´altro che indissolubile – col Capo, e di riprendere, dopo tanti anni perduti, un cammino comune, libero dall´eccezione permanente, dall´anomalia in servizio perenne ed effettivo. Convinti che sia possibile, e magari anche bello, essere italiani.

Repubblica 14.9.11
La crisi economica e quella politica
di Stefano Rodotà

I tempi dell´emergenza scardinano le regole, distorcono le istituzioni, riducono i diritti. Inevitabile, si dice. Tesi assai discutibile, ma che comunque non esonera dall´obbligo di misurare gli effetti, anzi i guasti, che tutto questo produce, per avere cognizione della realtà e per prepararsi, se mai sarà possibile, a ricostruire un sistema di nuovo guidato dalla normalità democratica. Non è vicenda soltanto italiana. Ma, come purtroppo accade sempre più spesso, in Italia assume caratteri patologici e pericolosi, e sta determinando quello che ormai deve essere definito come un permanente stato di eccezione.
Tra luglio e agosto, sotto la pressione della crisi finanziaria e del diktat della Banca centrale europea, sono state messe a punto due frettolose "manovre" economiche, adottate con decreto legge e affidate poi a continue e sgangherate riscritture. Valutazioni di merito a parte, l´accelerazione impressa all´approvazione di quei decreti ha determinato un funzionamento del sistema parlamentare che accentua in modo inquietante la già evidente crisi della rappresentanza. L´urgenza di una risposta adeguata, pena il tracollo finanziario, ha infatti creato uno stato di necessità che si è tradotto in una "responsabilità" dell´opposizione a garantire l´approvazione delle manovre nei tempi più rapidi possibile. Ma, scontata la drammaticità della situazione, si può accettare senza una minima riflessione questa nuova istituzionalizzazione del ruolo dell´opposizione, che la vede obbligata ad una responsabilità senza potere? Si deve salvare la patria, d´accordo. Ma a quale prezzo?
L´opposizione ha oliato le procedure parlamentari, ha ritirato i propri emendamenti, ha rinunciato all´ostruzionismo. Ma questo suo ruolo "responsabile" ne ha sterilizzato la capacità di incidere sui contenuti di una manovra da tutte le parti ritenuta iniqua, inadeguata. Siamo così di fronte ad una responsabilità asimmetrica. Il governo parla ai suoi, li rassicura, confeziona i provvedimenti sui loro interessi, salvaguarda gli equilibri interni alla coalizione. L´opposizione ha la lingua tagliata, è costretta ad abbandonare gli strumenti – emendamenti, ostruzionismo – che in sede parlamentare sono i soli ad attribuirle un sia pur ridotto potere negoziale. È coinvolta nella responsabilità, ma esclusa dal potere di decisione. E il voto finale contro i decreti, di cui comunque ha consentito l´immediata conversione in legge, è poco più che una debole rivendicazione di identità.
Questa situazione è insostenibile dal punto di vista istituzionale. Al di là delle formule – governi tecnici o di salute pubblica o di transizione – proprio la durezza dei tempi impone che sia ricostruito il rapporto tra decisione e responsabilità. In democrazia, chi assume la responsabilità di un provvedimento nei confronti dei cittadini deve avere anche il potere di determinarne i contenuti. Se questo rapporto viene spezzato, non si viola soltanto una regola del gioco. Si lascia una parte dei cittadini priva di rappresentanza, perché in Parlamento nessuno è in condizione di parlare efficacemente in loro nome.
Una prima e immediata conseguenza di questa analisi, null´altro che la registrazione di quello che sta accadendo, riguarda il governo. Vi è ormai una ragione di politica costituzionale che impone il cambiamento. Se l´emergenza, più o meno permanente, è il dato che segna l´orizzonte politico e impone responsabilità comuni, la fase della decisione non può essere scorporata dal contesto complessivo, politicamente neutralizzata, e il suo prodotto imposto poi ad un Parlamento che non può intervenire su di esso, pena l´accusa di sabotare i superiori interessi della Patria. Questo richiede un governo diverso dove, appunto, decisione e responsabilità si ricongiungano, restituendo pure al Parlamento la sua vera funzione di legislatore. Altrimenti, gli equilibri istituzionali vengono sempre più logorati, corrodendo la stessa democrazia. Ricordate le avventurose apologie del bipolarismo con annesso decisionismo? Si diceva che, una volta scelto il governo dal voto popolare, l´esecutivo doveva lavorare tranquillamente, e i cittadini lo avrebbero giudicato alla fine della legislatura. Ma, questo, evidentemente, implicava che l´opposizione potesse fare in modo altrettanto pieno il proprio mestiere, prospettando quell´alternativa che poteva consentirle di divenire maggioranza. Schema per troppi versi ingannevole, ma che comunque svela l´inammissibile pretesa del governo di andare avanti come se nulla fosse accaduto, legando tuttavia l´efficacia della sua azione in tempi di crisi ad una sorta di eutanasia dell´opposizione parlamentare.
La crisi economica rende così più evidente, e più grave, una crisi della rappresentanza che si trascina da lungo tempo, e che l´ultima manovra ha messo clamorosamente in luce. Qui i diritti dei lavoratori sono grandemente intaccati, la condizione delle donne pesantemente peggiorata, come hanno mostrato benissimo su questo giornale Luciano Gallino e Chiara Saraceno. Ma in Parlamento l´opposizione non ha potuto legare il suo comportamento "responsabile" all´eliminazione di questa parte del decreto, più inaccettabile di altre. L´amputazione dell´opposizione non è affare di una parte. È la perdita per l´istituzione Parlamento della sua capacità rappresentativa, dell´essere il luogo dove più sonora e legittima deve risuonare la voce dei cittadini.
La rappresentanza si sposta altrove. Lo sciopero generale della Cgil deve essere valutato anche con questo criterio, ultimo esempio di una catena di avvenimenti che dall´autunno dell´anno scorso ha messo in evidenza che nella società italiana, così come sta accadendo in altri paesi, stiamo vivendo una crisi della rappresentanza tradizionale alla quale si accompagna una spinta sociale a creare nuove forme di rappresentanza. Il mondo del lavoro e quello della scuola e della cultura, le donne di "Se non ora quando", i comitati per l´acqua pubblica sono le manifestazioni visibili di un movimento che mostra come l´Italia stia cambiando e, al tempo stesso, come i ceti politici tradizionali non siano ancora in grado di cogliere l´importanza grande di questo mutamento. I successi del centrosinistra nelle elezioni amministrative, la straordinaria vittoria nei referendum non sarebbero stati possibili senza quelle mobilitazioni, che avevano creato il clima propizio ad una partecipazione intensa dei cittadini. Ilvo Diamanti ha opportunamente sottolineato che il 16% degli elettori, (più di sette milioni di persone, un terzo delle quali giovani) ha fatto campagna elettorale per le amministrative e i referendum.
Quella "primavera italiana" è stata frettolosamente archiviata. Nessun segno di attenzione da parte degli attori politici ufficiali. Dopo che 27 milioni di persone avevano detto sì ai referendum sull´acqua pubblica, mi sarei aspettato che il segretario del Pd, in primo luogo, chiedesse un incontro con i comitati promotori, artefici di tanto successo, capaci di aprire canali rappresentativi adeguati ai tempi. Se questo fosse avvenuto, se si fosse compresa l´importanza di quella svolta politica, forse si sarebbe giunti con minor debolezza al difficile appuntamento estivo con la crisi finanziaria e non si sarebbero secondati i tentativi di cancellare i risultati dei referendum, visibilissimi nel decreto. L´occasione per creare un collegamento tra vecchie e nuove forme di rappresentanza, indispensabile per ridare senso ad una democrazia rappresentativa ormai inscindibile dalla democrazia "continua" resa possibile da Internet, dunque per riconciliare cittadini e istituzioni, rischia così d´essere perduta.

Corriere della Sera 14.9.11
Biotestamento, riparte l'esame I democratici: ddl incivile

MILANO — Il disegno di legge sul testamento biologico è stato incardinato in commissione Salute del Senato. Il relatore, Raffaele Calabrò (Pdl), ha annunciato ieri di prevedere «tempi veloci» per la terza lettura del provvedimento perché «dalla Camera non sono giunte modifiche sostanziali» per cui dovrebbe diventare legge a Palazzo Madama. L'opposizione ha invece subito duramente criticato il testo del ddl. Infatti Idv e radicali hanno chiesto alla commissione di procedere con una serie di audizioni e hanno annunciato «approfondimenti e modifiche importanti» del testo. Il capogruppo dell'Idv, Felice Belisario, ha annunciato «un'opposizione senza sconti. Speriamo che da parte del governo e della maggioranza ci sia un atto di resipiscenza che eviti all'Italia di cadere nel Medioevo anziché guardare al terzo millennio». La settimana prossima intanto è convocato un ufficio di presidenza per valutare la richiesta di audizioni e per fissare il calendario dei lavori a cominciare dalla discussione generale che potrebbe iniziare la settimana successiva. Critico anche il senatore del Pd Ignazio Marino, per il quale «solo una politica sorda ai bisogni degli ammalati e alle evidenze scientifiche poteva approvare una legge del genere. Si obbligano le persone, anche coloro che hanno indicato di non volere un tubo nell'intestino, a riceverlo per legge; le indicazioni che ognuno lascerà non saranno vincolanti per il medico, che potrà disattenderle. Questo è incivile e inaccettabile. Questa legge trasforma le dichiarazioni anticipate di trattamento in carta straccia».

l’Unità 14.9.11
Scuola, l’Italia all’ultimo posto: prof meno pagati
Rapporto Ocse Spendiamo solo il 4,8% del pil per l’istruzione
L’organizzazione internazionale punta l’indice sugli stipendi: i più bassi d’Europa
«Simpatica» risposta del ministro dell’Istruzione. «È perché i docenti sono troppi»
Poveri prof e poveri studenti L’Ocse boccia la scuola italiana
Davanti alla crisi, bisogna investire in istruzione, dice l’Ocse. L’Italia è agli ultimi posti: per scuola e università spende appena il 4,8% del Pil contro una media degli altri paesi pari al 6,1%. E i frutti si vedono...
di Mariagrazia Gerina

Ci sono altri numeri, oltre a quelli della borsa, che dovrebbero preoccupare l’Italia e spingere il governo a invertire la rotta o il paese a cambiare governo. A scandirli è l’ultimo rapporto sull’educazione (Education at glance 2011) appena pubblicato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo Economico.
Partiamo dal numero dei diplomati, che è uno dei primi indicatori dello sviluppo di un paese. In Italia, anche nella popolazione giovane, trai25ei34anni,èancoramolto basso: 70,3% contro una media Ocse dell’81,5%. E se è vero che, nel passato, c’è stato un balzo in avanti, per cui nella generazione dei 25-34enni i diplomati sono il 30% che nella generazione tra i 5564enni, tra i giovanissimi negli ultimi anni si registra addirittura un arretramento. Il numero dei diplomati tra coloro che cominciano la scuola superiore passa dall’84% del 2008 all’80,8% del 2009 contro una media Ocse dell’82,2%.
Ancora peggio va per il numero dei laureati. Appena il 32,6%, nella popolazione giovane, contro una media Ocse del 38,6%.
Investire di più per migliorare il livello di istruzione dovrebbe essere una scelta obbligata. Tanto più «davanti alla crisi». Dal momento che come ricorda il rapporto chi è meno istruito ha più probabilità di restare senza lavoro. E ora più che mai «occorre scongiurare con ogni mezzo il rischio di perdere una generazione». Sembra di ascoltare il grido di allarme appena lanciato dagli studenti italiani. Più lungimiranti, evidentemente, di chi li governa,
Perché i dati sulla spesa per l’istruzione sono la vera cartina di tornasole per l’Italia, che spende per scuola e università appena il 4,8% del Pil contro una media Ocse del 6,1%. Gli Stati Uniti, la Norvegia, la Corea sono tutti sopra al 7%. L’Italia su 34 paesi si colloca ventinovesima. Peggio di noi, la Repubblica Ceca, quela Slovacca, la Cina e l’Indonesia. Per l’università in particolare l’Italia spende appena l’1% del Pil. Bassissimi sono gli investimenti privati, che pesano decisamente meno delle tasse universitarie. Mentre la spesa media pro capite per uno studente universitario in Italia è di 9.553 dollari contro una media Ocse di 13.717. Non solo. Ma i dati pubblicati si riferiscono al 2009. E le scelte del governo da allora hanno solo peggiorare le cose. Fino all’ultima manovra che come ricorda Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd riduce ulteriormente investimenti e orizzonti fino a disegnare per il 2025 una spesa in istruzione non superiore al 3,4% del Pil.
Veniamo infine agli insegnanti. Secondo i dati Ocse hanno più di una ragione per protestare. Mentre i loro colleghi dal 2000 al 2009 hanno visto crescere il loro stipendio del 7% 2009 gli insegnanti italiani se lo sono visto diminure dell’1%. Senza contare le novità dell’ultimo accordo firmato al ministero per i neo-assunti e gli effetti delle ultime manovre finanziarie. Prendiamo gli insegnanti di scuola superiore. Partono da 31mila euro, lordi, contro i 33mila dei loro colleghi Ocse. E ci mettono 35 anni a raggiungere il massimo livello retributivo, che non arriva a 49mila euro lordi (48.870) contro i 53.651 euro, che è la media degli altri Paesi.
Il ministro ha pronta la risposta: è che in Italia gli insegnanti sono tanti, troppi. Ergo: devono accontentarsi di stipendi più bassi. Non solo, ma proprio il numero di insegnanti, che sono uno ogni 10,7 alunni nella scuola primarie (contro una media Ocse di 16) e 1 ogni 11 alunni nelle secondarie (mentre la media Ocse è di 13,5), conferma secondo il ministro che le classi pollaio non esistono. Anche se di numero di studenti per classe nel rapporto non si parla. E anche se come ricorda Francesca Puglisi «abbiamo un più alto rapporto alunni/insegnanti perché abbiamo un gran numero di insegnanti di religione che altri Paesi non hanno e in altri paesi il costo del sostegno è sostenuto dai ministeri del welfare o della sanità».
I dati non suscitano altre riflessioni al ministro Gelmini, che parla addirittura di «alcuni risultati positivi». E assicura che quei dati «confermano la necessità di proseguire nella direzione delle politiche già adottate dal governo».
«È l’unica che non si rende conto della realtà», replica la senatrice Vittoria Franco (Pd), che le ricorda, in aggiunta, «i tagli all’istruzione di 8,5 miliardi operati dal suo governo». La titolare dell’Istruzione «gioca la stessa carta dell’ottimismo che ha portato questo governo a ignorare la crisi per tre anni», attacca il segretario della Flc-Cgil Domenico Pantaleo. «Cambaire rotta, aumentare gli investimenti in istruzione, rinnovare i contratti che questo governo ha bloccato fino al 2014, sono queste le parole che avremmo voluto sentire dal ministro», aggiunge Pantaleo. E non meno critici sono i commenti di Uil, Cisl e Ugl.

La Stampa 14.9.11
Storia dell’Arte, una riforma contro l’Italia
di Francesco Bonami

Per tutta la vita andando in giro per il mondo quando la gente scopriva che ero italiano, di Firenze, e per di più che lavoravo nel campo dell’arte regolarmente esclamava «Of course!», è ovvio che uno nato a Firenze abbia scelto come professione l’arte. Naturale, come per uno nato su un’isola fare il pescatore. Wonderful! Meraviglioso! Essere così nfortunato da nascere in un Paese dove a colazione si mangia pane e Rinascimento. Chissà come rimarrebbero delusi i miei interlocutori se avessi avuto il coraggio di confessare che in Italia Educazione Artistica e Storia dell’Arte sono da sempre, nelle scuole inferiori e superiori, materie considerate un gradino sopra l’Educazione Fisica.
Chissà come sarebbero delusi nel venire a sapere che oggi il ministro della Pubblica Istruzione ha fatto una riforma abbastanza confusa da rendere queste materie ancora meno essenziali all’insegnamento scolastico tanto che in alcuni istituti sono addirittura eliminate. Che situazione paradossale quella di vivere dentro un museo e non avere fin da piccolissimi la possibilità di conoscere gli strumenti per utilizzare la realtà che ci circonda al meglio. Pare che l’arte e la cultura siano quasi una seccatura dalle nostre parti. Ma guarda cosa ci è capitato! Nascere in una nazione piena di opere d’arte. Costretti a mantenerle. Obbligati a rispettarle. Per difendersi da questo mal di Dio allora l’unica strada è quella d’ignorarle, di non conoscerle, di disprezzarle e se nessuno ci vede anche di rovinarle.
A parte gli scherzi. La crisi economica ci devasta e ci fa perdere di vista molte altre cose non meno importanti del denaro e dei nostri risparmi. Tra queste cose la cultura e l’insegnamento. Due cose che vanno mano nella mano nella crescita di un individuo civile e responsabile e nella crescita del Paese dove vive. Un tempo l’ignoranza era una vergogna. Non a caso c’era il maestro Manzi che ci ricordava sulla Rai che non era mai troppo tardi per sconfiggere l’analfabetismo e quindi la nostra ignoranza. Poi, non so bene quando, essere ignoranti è diventato quasi un merito. Fare il «grano» è diventato più importante che studiare. Anzi studiare è stato considerato da molti quasi un intralcio al benessere economico. Perché mai tentare di fare il professore di scuola media, figuriamoci il maestro delle elementari, se con lo stipendio che guadagnerei non potrei mai permettermi quello che altre professioni possono offrirmi. Così la scuola è diventata quasi tempo buttato via. Figuriamoci la storia dell’arte. Sembrano essere di questa opinione un po’ tutti, dal ministro dell’Economia a quello della Pubblica Istruzione. Per fortuna il nuovo ministro dei Beni Culturali ha preso il suo incarico come una vera responsabilità, un lavoro difficile ma serio, non semplicemente come una poltrona da occupare. Davanti al vandalismo e l’ignoranza non alza le spalle ma reagisce. Chi deturpa un’opera d’arte, un monumento, non importa quanto famoso o importante sia, non compie uno scherzo di cattivo gusto, compie un crimine per il quale deve finire in galera. Ma questo crimine verso il patrimonio artistico è un crimine del quale sono responsabili tutti coloro che considerano la cultura poco più di una ginnastica. Coloro che ritengono l’arte ed il suo insegnamento una perdita di tempo e magari di denaro. E’ ora di cambiare rotta. Sarebbe triste se i nostri figli e nipoti davanti alla meraviglia di chi, più sfortunato di noi, è nato in un Paese senza un patrimonio artistico fossero costretti a dire «I am sorry», mi dispiace, io di arte non ne so niente. Sarebbe triste vivere fra gente cresciuta con la convinzione che Carpaccio è un antipasto e Bellini un cocktail leggero.

La Stampa 14.9.11
Respinta la riduzione della busta paga per i dipendenti ammalati
Statali, il giudice contro Brunetta
Il magistrato: la malattia non è un lusso
di Sandra Riccio

Ammalarsi per un dipendente pubblico non può diventare un lusso. Ecco perché il giudice va contro il ministro della funzione pubblica e legislatore Renato Brunetta. In base all’articolo 71 della cosiddetta legge Brunetta, la 133 del 2008, di fatto «diventa un lusso che il lavoratore non potrà più permettersi e ciò appare in contrasto» con la Costituzione che prevede «sia garantita una retribuzione proporzionata ed in ogni caso sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa».
È questo uno dei passaggi principali dell’ordinanza emessa dal giudice del lavoro di Livorno, Jacqueline Monica Magi, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 3, 32, 36 e 38 della Costituzione, della norma che prevede per i dipendenti della Pubblica amministrazione, per i primi 10 giorni di malattia, una decurtazione di fatto della busta paga, con il taglio del trattamento accessorio dello stipendio. Il giudice ha così accolto un’eccezione sollevata da 50 lavoratori della scuola della provincia di Livorno (docenti e personale Ata), rappresentati dall’avvocato Claudio Altini e patrocinati dall’Unicobas della Toscana, che hanno fatto ricorso.
Alcuni avevano avuto una riduzione della busta paga dopo periodi di malattia. L’ordinanza è del 5 agosto scorso ed è stata resa nota ieri dal sindacato: per il segretario toscano Claudio Galatolo «è la prima pronuncia in Italia», per la segretaria provinciale Patrizia Nesti la causa «per la sua portata si configura come una class action di fatto perché la ricaduta è ampia e riguarda l’intero pubblico impiego».
In particolare il giudice del lavoro di Livorno, Jacqueline Monica Magi, con riferimento al principio di uguaglianza (articolo 3 della Carta costituzionale) parla di «un’illegittima disparità di trattamento nel rapporto di lavoro» tra dipendenti pubblici e privati. Con riferimento al «diritto alla salute» (il riferimento è all’articolo 32 della Carta), invece, «crea di fatto un abbassamento della tutela della salute del lavoratore che, spinto dalle necessità economiche, viene di fatto indotto a lavorare aggravando il proprio stato di malattia, creando così un vulnus a se stesso e al Paese».
Riguardo all’articolo 36, con la decurtazione del guadagno, «dati gli stipendi che percepiscono ad oggi i lavoratori del comparto pubblico, diventa tale da non garantire al lavoratore una vita dignitosa». «Privare durante la malattia un lavoratore di parte dello stipendio e della retribuzione globale di fatto scrive infine il giudice di Livorno riferendosi all’articolo 38 della Costituzione integra esattamente quel far venire meno i mezzi di mantenimento e assistenza al cittadino in quel momento inabile al lavoro».
Sulla vicenda interviene poi il dipartimento della Funzione pubblica, che, «senza senza voler entrare nel merito della questione», che precisa che «l’articolo 71 non prevede alcuna riduzione dello stipendio in caso di malattia fino a 10 giorni ma solo la decurtazione del trattamento accessorio, cioè di quello legato alla effettiva prestazione o alla produttività dei dipendenti pubblici» e che «tale disposizione è prevista, per una durata diversa, anche all’interno di alcuni contratti collettivi nazionali di lavoro».

l’Unità 14.9.11
I cinesi comprano i Bot e Tremonti li riabilita
di Rinaldo Gianola

Teniamoci forte, allacciamo le cinture: forse siamo in presenza di un’altra svolta di “sinistra” per il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Prima incontra i vertici del fondo sovrano di Pechino, il China Investment Corporation e la semplice conferma di questa notizia offre ai mercati europei l’occasione per risalire un po’ dopo giorni di burrasca. Poi, a Monaco di Baviera, con un intervento che definisce «di stile marxista» torna ad attaccare i banchieri, se la prende con gli speculatori che andrebbero «cacciati dal tempio». Gli effetti drammatici della crisi, i passi incerti del governo, la fragilità della maggioranza spingono il ministro dell’Economia a cercare riparo nella sorpresa intellettuale, nello slogan spendibile per i titoli del tg della sera e, in questa logica, non c’è niente di meglio che rispolverare qualche tema caro alla sinistra, che sarà pur malmessa ma fa ancora audience.
Questa volta, però, Tremonti ha fatto bene a sollecitare il confronto e l’interesse dei capitali cinesi che, pur essendo rossi, non guardano in faccia nessuno e si dirigono solo dove hanno una sicura convenienza. Se il Tesoro italiano deve piazzare i titoli del debito pubblico, e in questo momento lo fa con grande fatica e con costi crescenti, ben venga l’invito al fondo sovrano di Pechino di investire in Italia. Il fondo China Investment Corporation è nato nel 2007 con un patrimonio iniziale di 200 miliardi di dollari, oggi il suo valore potrebbe essere quasi raddoppiato, ed ha il compito di gestire una parte delle riserve valutarie straniere di Pechino stimate, secondo quanto scrive il Financial Times, in 3200 miliardi di dollari. La filosofia del fonde cinese è di cercare investimenti a lunga scadenza e affidabili, in titoli del debito pubblico o in imprese senza intervenire nella gestione nè interferire nelle operazioni. Per la verità si può dire che i cinesi sono riservati e silenziosi ma quando avvertono il rischio che i loro investimenti vengano penalizzati intervengono, eccome. Quando il debito degli Stati Uniti ha perso la Tripla A, il massimo di voti per le agenzie di rating, Pechino che è il principale sottoscrittore dei titoli Usa ha invitato subito le autorità americane a prendere provvedimenti per riconquistare la piena fiducia degli investitori.
Che cosa faranno i cinesi in Italia? Intanto ieri hanno dato probabilmente una mano a far risalire la Borsa italiana e anche quelle europee, perchè l’interesse cinese a investire sul Vecchio Continente già basta per dare un messaggio positivo. Probabilmente il fondo sovrano cinese non si dedicherà esclusivamente ai titoli di Stato, magari si creerà un “giardinetto”. Piuttosto la Cina sembra puntare su investimenti in infrastrutture, in imprese rilevanti, strategiche del nostro sistema produttivo. L’Italia, pur in questa difficile congiuntura e dopo oltre tre anni di crisi, è sempre la seconda industria manifatturiera d’Europa, mantiene competenze e prodotti di eccellenza, ed è noto a tutti quando sia apprezzato il Made in Italy tra i cinesi, compresi il calcio e la Ferrari che proprio in Cina avrà il suo principale mercato di sbocco.
Il rinnovato interesse di Pechino verso l’Italia sembra da collegare con il programma del governo di cedere partecipazioni in imprese pubbliche e di privatizzare larga parte del patrimonio immobiliare, concessionari e aziende locali. Mentre sui giornali italiani si evoca la navigazione del Britannia nel 1992 quando nelle acque del Mediterraneo l’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, spiegò a investitori internazionali il piano di privatizzazioni, non è difficile immaginare che questa volta, nel 2011, Tremonti e il suo direttore Vittorio Grilli dovrebbero affittare una barca e dirigersi verso Pudong, l’ex palude di Shangai trasformata in pochi anni nella nuova Manhattan, per cercare compratori. Si vedrà.
Quello che un po’ sorprende, anche se nella politica italiana ormai abbiamo visto tutto e anche di più, è il libertinismo intellettuale di Tremonti che fino a ieri denunciava il colonianismo cinese e chiedeva dazi e controlli per far contenti i sodali leghisti, mentre il suo leader Silvio Berlusconi in campagna elettorale raccontava la storiella dei comunisti che mangiano i bambini e accusava Prodi di tramare con Pechino alle spalle dell’Italia e dell’Europa.
Però adesso siamo con l’acqua alla gola, abbiamo bisogno di aiuto e di capitali. Anche quelli dei comunisti cinesi possono andare bene.

La Stampa 14.9.11
I cinesi puntano ai big dell’industria Non ai nostri Bot
Con il comitato Tesoro-Farnesina una serie di incontri
di Antonella Rampino

Lusso Negli ultimi anni l’immagine della Cina è cambiata di pari passo con l’evolversi della sua situazione economica. Il Paese rurale sta lasciando il posto alle skyline dei grattacieli e alle vetrine dei marchi mondiali del lusso

E’ l’unica potenza economica capace di esportare forza lavoro, capitali e prodotti, ma fa notizia solo perché si spera che un suo intervento risollevi le sorti dei pencolanti debiti sovrani. E’ bastato che filtrasse il dettaglio, una delegazione cinese in visita da Tremonti, e immediatamente ne è nata una «notizia»: la Cina sosterrà il debito pubblico italiano. Un wishfull thinking che per qualche ora ha pure fatto tirare un sospiro di sollievo ai mercati. Il ministero del Tesoro, per giunta, ieri ha confermato quell’indiscrezione del «Financial Times», che non era propriamente uno scoop: che una delegazione del Cic fosse in visita a Roma il 6 settembre era stato regolarmente comunicato in tempo reale da una nota della Farnesina, e il ministro Frattini è «perlomeno», dicono i suoi collaboratori al quarto incontro con Lou Jiwei, presidente del Cic. Per stare solo agli appuntamenti italiani, visto che Frattini come anche Tremonti, quando si reca in Cina, ed è accaduto più volte dal 2008 in avanti aveva avuto una lunga riunione con l’intero board di quell’organismo che detiene asset per 410 miliardi di dollari, durante il suo ultimo viaggio a Pechino, a metà luglio. E non sarà un caso dunque che l’indiscrezione abbia fornito un bel sostegno a Piazza Affari, e anche a Wall Street, dove la giornata ieri è improvvisamente virata in positivo, recuperando un bell’un per cento, a testimonianza concreta della piena interdipendenza (e volatilità) dei mercati.
La delegazione della Cic si è trattenuta a Roma un’intera giornata, ha varcato il portone di Via XX Settembre ma anche quello di Palazzo Koch, trovando ad attenderla quello che i bookmaker e non solo danno ormai come il prossimo governatore della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni (che fu il «ministro degli Esteri» dell’istituto centrale a guida Ciampi). E poi, appunto, oltre ad Altero Matteoli, Giulio Tremonti affiancato dal direttore generale Vittorio Grilli, anche lui reduce da un road-show tra Pechino e Shanghai, nonché autore del prospetto sull’economia italiana che viene distribuito in questi incontri, e Franco Frattini. E questo anche perché alla Farnesina è installato, dal 2008, il Comitato Strategico per i Fondi Sovrani, un organismo Esteri-Tesoro che ha l’incarico di spingere le nazioni danarose ad investire in Italia. Con Frattini, Jiwei e i suoi collaboratori hanno discusso però non di debito pubblico ma investimenti. Ai cinesi sono stati illustrati alcuni possibili settori d’intervento, turismo, privatizzazioni (Eni e Enel comprese), infrastrutture ed energie alternative, indicate peraltro dall’ultimo Comitato Centrale come un obiettivo strategico. «Sono interessati al ponte sullo Stretto di Messina», che certo di capitali freschi avrebbe proprio bisogno, ha confermato il sottosegretario all’Economia Antonio Gentile.
E così, in serata sia il sito del Ft che quello del «Wall Street Journal», hanno fatto retromarcia: improbabile, che i cinesi rilevino quote del debito pubblico italiano. Non una riga invece sul fatto che il 6 settembre quella delegazione con gli occhi a mandorla arrivasse a Roma come tappa finale di un tour che comprendeva anche Madrid, Berlino e Londra. Una missione di ricognizione nell’area di crisi, quella dell’euro. E l’impressione che i cinesi hanno tratto, racconta una fonte che ha assistito ad alcuni di quegli incontri, è che i governi siano totalmente consapevoli della gravità reale della crisi, ma non così le opinioni pubbliche. Anzi, a sentire i cinesi, i governi europei, a cominciare da quello italiano, fanno troppo poco per informare i cittadini della gravità della situazione. Non troppo tranquillizzante, perché per la mentalità cinese è un modo cortese per dire: compreremo i titoli del debito pubblico italiano quando il governo italiano dirà chiaramente ai cittadini qual è la portata e quali sono i rischi di questa crisi.


Corriere della Sera 14.9.11
Invasori gialli temuti ieri corteggiati oggi
Chiamato in soccorso l'ex «invasore giallo» Ora gli vendiamo i gioielli di famiglia
di Gian Antonio Stella

E se adesso loro mettono a bollire noi?
La speranza che i cinesi diano ossigeno all'Italia comprando un po' di Bot è una imbarazzante nemesi storica. Che va a chiudere in un modo solo pochi anni fa impensabile il cerchio di rapporti reciproci spesso difficili, abrasivi, conflittuali. E rappresenta per i cinesi una sottile e clamorosa rivincita.
Ricordate cosa fece pochi mesi fa Luca Zaia? Andò di persona, nella veste di governatore del Veneto, a celebrare solennemente a Quinto di Treviso la «riconquista» di un bar che, rilevato da immigrati dello Zhejiang, era stato loro strappato da nuovi padroni veneti. Slogan: «Un gesto politico contro l'invasione "gialla" da tempo denunciata dal Carroccio». Bene: riconquistata l'osteria, spiega il Financial Times, offriamo a Pechino «partecipazioni strategiche nell'Eni e nell'Enel». Cioè nelle nostre imprese pubbliche più importanti, in un settore chiave come le materie prime, a livello planetario. Cin cin.
Quando si aprì la Seconda Repubblica e Silvio Berlusconi vinse le elezioni nel 1994, secondo il Fondo Monetario Internazionale, l'Italia aveva un Pil quasi doppio rispetto al gigante asiatico. Poi noi siamo cresciuti in diciassette anni del 94% e loro del 1.048: undici volte più di noi. Tutta colpa del Cavaliere? Neanche per sogno. Le ragioni sono più complesse, il ritardo l'ha accumulato un po' tutto l'Occidente e del nostro declino, più netto di altri, sono responsabili in tanti, destra, sinistra, sindacati, imprenditori meno coraggiosi di quelli di altri Paesi.
C'è però un punto sul quale il nostro premier può sospirare, una responsabilità tutta sua: mentre gli Schröder e le Merkel, i Blair e i Cameron, gli Chirac e i Sarkozy e gli altri leader occidentali andavano e venivano da Pechino cercando di approfittare del boom della nuova superpotenza, lui non ci ha creduto mai davvero. Al punto che ancora pochi anni fa, come ricorda un'Ansa del 26 febbraio 2005, a un convegno dell'Istituto del commercio estero, suggeriva «agli imprenditori italiani di investire nei Paesi dell'Europa orientale piuttosto che in quelli emergenti come Cina e India» perché quei Paesi «non sono ancora dei mercati in cui noi possiamo pensare di investire quanto vorremmo». Infatti «il tasso di povertà di quei mercati è tale da non consentire, se non a una piccolissima percentuale della popolazione, l'acquisto di prodotti del made in Italy».
I cinesi erano in quel momento al lavoro per costruire in 1236 giorni lo spettacolare ponte di Donghai (32 chilometri a 8 corsie: il ponte in mezzo al mare più lungo del pianeta) e poi 115 chilometri di metropolitana e altre infrastrutture fantastiche per le Olimpiadi di Pechino del 2008 e si erano già lanciati con progetti per 50 miliardi di dollari verso l'Expo di Shanghai del 2010 che avrebbe segnato il loro trionfo. Uno sforzo colossale che dopo cinque anni li avrebbe portati a contare 875 mila nababbi con oltre un milione e mezzo di dollari liquidi e 180 milioni di clienti «affluent». E il Cavaliere invitava a investire nei «mercati più vicini come quelli dei Balcani, dell'Europa orientale, della Russia e della Bielorussia».
Un errore non piccolo, per chi si vanta d'essere «in assoluto il migliore capo di governo di tutti i tempi». Accompagnato da battute disastrose, come quella che gli scappò in un comizio a Napoli: «Leggetevi il Libro nero del comunismo e scoprirete che nella Cina di Mao i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi». Immediata protesta ufficiale: «Siamo scontenti di queste affermazioni che sono completamente prive di fondamento». E lui: «Ma è storia... Mica li ho bolliti io i ragazzini». Fino a rattoppare in corsa: «Si tratta di cose avvenute 50 anni fa, in un momento in cui c'era l'esproprio delle campagne dei contadini che morivano in decine di milioni, e io credo che, per evitare anche epidemie, si potesse ben pensare di ricorre a dei fatti di questo tipo…» E via così: «Un funzionario mi dice: perché non vieni in Cina? Ti assicuro che in 5 anni diventerai ricco. Già fatto, gli rispondo io, che sottolineo però come in un solo anno siano stati giustiziate 3700 persone. E che questo stato di cose non può continuare. E lui mi risponde: hai ragione, ma ti assicuro che almeno la metà di loro era colpevole». Una nobile questione di principio? Magari! Pochi anni dopo, senza che il quadro dei diritti umani laggiù sia cambiato di una virgola, dirà il contrario dichiarando (il giorno prima dell'assegnazione del Nobel per la pace a Liu Xiaobo, il dissidente detenuto nelle carceri cinesi!) il suo «apprezzamento ammirato» per «la politica dell'armonia» di Pechino e per i suoi governanti: «Come noi, sono fautori della politica del fare e preferiscono affrontare i problemi concreti piuttosto che irrigidirsi su questioni di principio».
Non bastasse ancora, gli rinfacciano i suoi critici, il Cavaliere non è mai andato una sola volta in Cina in visita ufficiale come premier. Non è vero, dirà lui: due volte. Sì, ma solo perché non poteva farne a meno prima come presidente di turno europeo e poi per il vertice dell'Asem, l'Asia-Europe Meeting. Come capo del governo, per un bilaterale Cina-Italia tutto dedicato ai rapporti tra noi e loro, mai. Neppure per ricevere il testimone del passaggio dell'Expo da Shanghai a Milano, la sua città. Aveva promesso di andarci, diede buca. E all'ultimo momento toccò a Giorgio Napolitano precipitarsi per mettere una pezza che ci evitasse una figuraccia.
Per non dire delle polemiche, forse motivate ma certo non utili al dialogo culturale e commerciale, sugli argini invocati da Giulio Tremonti: «I cinesi ci stanno mangiando vivi, dobbiamo mettere dazi e quote». Dei titoloni de La Padania contro l'orda gialla e l'«economia fondata sullo schiavismo». Del sito internet rivolto ai turisti cinesi (quelli che faranno le vacanze all'estero nel 2015 saranno 130 milioni e spenderanno 110 miliardi) per larga parte scopiazzato da quello dell'Emilia Romagna e annunciato all'Expo di Shanghai con un power-point di poche diapositive tradotto affannosamente in cinese la notte prima della presentazione, bucata anch'essa da Michela Vittoria Brambilla. Che non ritenne necessario andare là dove erano andati in visita, da Hillary Clinton (due volte) a José Manuel Barroso, 143 capi di stato mondiali.
Il risultato finale è nei numeri: alla faccia di Marco Polo, l'Italia è ventesima con un umiliante 0,4%, nella classifica dei Paesi che più mettono capitali (guadagnandoci) nel formidabile boom cinese dopo non solo i paradisi fiscali da cui muovono le grandi masse di denaro internazionale ma anche l'Olanda o l'Australia. E diciannovesima nella hit parade dei fornitori dopo la Thailandia, il Cile o l'Indonesia.
Dice il Financial Times che Vittorio Grilli, il direttore generale del Tesoro spedito in tutta fretta in Cina per convincere il Grande Drago a investire sull'Italia, si è mosso come meglio poteva. E c'è da crederci. Ma per incantare quel drago, dopo anni spesi così, avrebbe dovuto avere la bacchetta magica…

l’Unità 14.9.11
Il premier turco parla di democrazia dopo le rivolte nella regione. Duro monito a Israele
Intervento alla Lega Araba: «Riconoscere lo Stato palestinese non è un diritto, è un dovere»
Piazza Tahrir osanna Erdogan Ankara lancia la sua leadership
Conquista i ragazzi di Piazza Tahrir e quelli dell’università di al Azhar. Al Cairo, il premier turco Erdogan si candida a nuovo leader mediorientale. E avverte: «Riconoscere lo Stato palestinese è un dovere».
di Umberto De Giovannangeli

Conquista la piazza e pone una pesante ipoteca sulla nuova leadership del Medio Oriente. Accolto da una folla in delirio, che gli ha dato il benvenuto come «il salvatore dell’Islam», Recep Tayyip Erdogan è sbarcato al Cairo, dove ieri è entrata nel vivo la prima tappa di un tour dei Paesi della «Primavera araba» inteso a suggellare un ruolo di nuovo leader regionale. Ecco «l'inviato di Allah, Erdogan», è stato uno degli slogan più scanditi al suo arrivo nella capitale egiziana, dove migliaia di persone lo hanno atteso per ore dato il ritardo sull'agenda, sventolando bandiere turche ed egiziane. Erdogan, accolto dal premier Essam Sharaf, ha poi ripreso gli slogan circolati in Egitto in vista della sua visita: «Egitto e Turchia una sola mano,
pace e salute al popolo egiziano». Attraverso un altoparlante il premier turco si è rivolto ai giovani. «Pace ai giovani d’Egitto. Come state?» ha chiesto. E questi hanno risposto: «Grazie a Dio tutto bene». I Fratelli musulmani issavano foto di Erdogan scandendo slogan come «Egitto e Turchia e il califfato islamico», «benvenuto nella terra della dignità» e «Palestina devi esser contenta Erdogan è il nuovo Saladino». La definizione di laicità per la Turchia è quella della presenza dello Stato equidistante da tutte le religioni e questo rappresenta «un principio dell'Islam». Nel primo giorno della sua visita in Egitto, Erdogan, conclude l'intervista fiume col quotidiano egiziano al Shouruk per affrontare il tema delicato del rapporto fra Stato, laicità e religione, auspicando che l’Egitto segua la strada turca facendo tesoro delle sua esperienza.
DEMOCRAZIA ISLAMICA
«L’Egitto passerà alla democrazia e chi sarà chiamato ad elaborare la Costituzione deve capire che è necessario che lo Stato si mantenga equidistante da tutte le religioni, perchè tutta la società possa vivere in sicurezza», spiega il premier turco. Centinaia di studenti dell'università di al Azhar, il più importante centro teologico sunnita, accolgono trionfalmente Erdogan al suo arrivo, ieri mattina, per incontrare il gran imam Ahmed el Tayyeb e il mufti Ali Gomaa. «Erdogan nostro amico», «Benvenuto leader libero» sono alcuni degli slogan scanditi dagli studenti.
MESSAGGIO A NETANYAHU
Nel pomeriggio, Erdogan pronuncia l’intervento politico più atteso. Il riconoscimento dello Stato palestinese «non è un'opzione, è un dovere», afferma il primo ministro turco nel suo intervento alla Lega Araba durante la quale ha affermato che la questione palestinese non è una questione «ordinaria» perchè riguarda «la dignità dell’essere umano». «Prima della fine dell’anno, vedremo la Palestina in una situazione molto diversa», aggiunge. Il 20 settembre il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, presenterà al Palazzo di Vetro una risoluzione per il riconoscimento di uno Stato indipendente, il 194 ̊ membro delle Nazioni Unite.
Poi, il messaggio a Israele. Tutt’altro che conciliante. Non ci sarà nessuna normalizzazione tra la Turchia e lo Stato ebraico Israele se quest'ultimo non rispetterà le condizioni poste da Ankara e cioè le scuse per l'attacco alla flottiglia umanitaria, l'indennizzo delle vittime e la revoca dell'embargo su Gaza, puntualizza Erdogan. La Turchia ha deciso a inizio settembre di espellere l’ambasciatore di Israele. E non è la sola misura adottata da Ankara. Un misto di incredulità, preoccupazione e grande cautela: questi i sentimenti espressi ieri dall’ex comandante della marina militare israeliana, Amy Ayalon, nel commentare la decisione di Erdogan, di ricorrere alla propria marina militare per forzare, se necessario, il blocco navale a Gaza. Dietro l'angolo, il rischio di uno scontro in mare fra navi da guerra turche e israeliane, che ancora in anni recenti compivano manovre congiunte sotto l’egida della Nato. Non basta. Ad alzare il livello di inquietudine a Tel Aviv sono le informazioni, giunte da Ankara secondo cui nei radar militari turchi da ora le navi e gli aerei di Israele non sono più segnalati come «amici», ma come «ostili».

La Stampa 14.9.11
I palestinesi senza leader tentati dall’amico turco
Per Ramallah le parole del premier peseranno sul voto all’Onu tra dieci giorni
di Francesca Paci

In Italia è apprezzato? Prendo uno sgabello, preferisce tè o caffè?» s’infervora il ferramenta Yussuf abu Waleed mentre la tv alle sue spalle trasmette dal Cairo il discorso del premier turco. Il figlio tredicenne Ali ripete in arabo la frase ormai celebre, musica per le orecchie palestinesi: «Israel tal’ab dawr al sabi al mudallal», Israele fa la parte del bambino viziato. «Lo so dire anche in inglese» afferma il ragazzino torcendo timido i lembi della maglietta «The Godfather», il padrino. Davanti alla piccola bottega ingombra di bulloni e tubi, quattro braccianti accaldati smantellano i banchi del mercato di Ramallah, lungo la discesa che parte dalla nevralgica piazza Manar dove sono appena spuntati un paio di poster dell’ormai coralmente acclamato eroe mediorientale.
«Erdogan è stato il primo leader regionale ad alzare la voce con Israele e dichiarare che riconoscere il nostro Stato è un dovere» ragiona l’aspirante ingegnere Mustafa controllando la posta elettronica a un tavolo dello Stars and Bucks cafè. Non simpatizza per Fatah («i corrotti ci hanno rovinato»), ma giura che il 21 settembre risponderà alla sua chiamata e alle 12 sarà in strada per sostenere la richiesta del presidente Abu Mazen all’Onu.
«Le parole del premier turco peseranno sull’appuntamento della settimana prossima alle Nazioni Unite soprattutto perché sono state pronunciate nell’Egitto post-rivoluzione confermando che dalla causa palestinese dipende la stabilità del Medio Oriente: sarà dura ora per Washington ignorarle e continuare a sostenere le primavere arabe» osserva Ghassan Khatib, direttore del Palestinian Government Media Center. L’aria fibrilla. Sembra atteso a giorni il ritorno degli inviati Usa David Hale e Dennis Ross, mediatori last minute per ricondurre al negoziato i due riottosi contendenti ed evitare lo strappo. Se Israele balla sul Titanic infatti, l’Anp non gode di ottima salute e molti scorgono dietro l’appello alla comunità internazionale il duplice fallimento delle trattative di pace e della riconciliazione nazionale con Hamas. Anche per questo l’assist di Erdogan è una boccata d’aria.
«Il premier turco ci piace e non mi stupirei che le giovani coppie iniziassero a chiamare i figli Erdogan, ma sotto sotto nessun palestinese pensa che la soluzione sia vicina» ammette il tassista Tawfik. Dalle colline cisgiordane che incorniciano la strada per Gerusalemme occhieggiano le case squadrate dei coloni ebraici, passati dal 1993 a oggi da 110 mila a 320 mila. Ankara è lontana, riflette dalla sua cattedra in democrazia dell’università Birzeit di Ramallah il professor George Giacman. E non parla di geografia: «La Turchia colma il vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Ma oltre a curare i propri interessi, come dimostra la decisione di non andare a Gaza, ha un margine d’azione limitato: non può sciogliere il nodo per cui serve invece la fine del cieco sostegno Usa a Israele». Il vento turco che soffia dal Cairo scuote la bandiera palestinese sotto la quale però alla fine la routine scorre pigra. Come gli israeliani credono d’essere destinati a vivere tra i nemici, loro dubitano di qualsiasi alternativa alla precarietà esistenziale.
«Erdogan parla, sì, ma l’Europa tituba. Perché la Germania non ci appoggia all’Onu?» domanda la studentessa di legge Fatima Farsakh dividendo con l’amica velata una fetta di knafeh al Ja’far Sweet, nel quartiere arabo della vecchia Gerusalemme. Anche qui il premier turco è assai popolare. «Mica tutto quelloche fa Israele può essere applaudito...» mormora il fornaio Nasser ammiccando ai militari israeliani che pattugliano i vicoli dove i commercianti di souvenir hanno aggiunto alle t-shirt con lo smile avvolto nella koefia quella con la schermata di Google e la scritta «Israel... Did you mean Palestine» («Cerchi Israele... Intendevi Palestina»). Da giorni alla storica libreria Educational Bookshop di Salah Eddin fioccano le richieste di volumi in arabo sul premier turco ma, concede il titolare, «è presto, non c’è nulla di tradotto».
E a Gaza? Come sono giunte a Gaza le parole del riscatto palestinese laddove era atteso fisicamente colui che le ha pronunciate? «Abbiamo bisogno di ben altro che di dichiarazioni e visite internazionali» commenta amaro il ventiduenne che si presenta come Abu Ghassam, uno dei protagonisti del manifesto dei giovani di Gaza, quello che a febbraio, chiedendo elezioni democratiche e la riconciliazione nazionale tra Hamas e Fatah, ha cercato di allineare i palestinesi al risveglio arabo. Decine di suoi coetanei hanno sventolato in riva al mare il vessillo turco, lui, dice, non crede più alle favole. Non è l’unico. Nonostante le immagini tv della folla festante nelle strade di Gaza City, il neolaureato in informatica Nader Mumter guarda a domani: «Quando il tour di Erdogan sarà concluso noi resteremo chiusi dentro come al solito, sto cercando invano una borsa di studio per l’Europa».
Il portavoce di Fatah Osama Qawssmeh ha un bell’invitare i connazionali a supportare il presidente Abu Mazen all’Onu e riprendersi il proprio futuro: l’entusiasmo dei palestinesi è così arrugginito da accendersi per un leader straniero e brillare senza grandi scintille. «Erdogan è una figura strategica perché è insieme partner della Nato e leader stimato in Medio Oriente ma proprio perché parla con Hamas dovrebbe adoperarsi per la sola cosa che ci aiuterebbe, l’unità nazionale» chiosa Khaled Abu Awwad, direttore del Palestinian Institution for Development and Democracy. La vera domanda è se la parola magica farà davvero magie.

Corriere della Sera 14.9.11
il sogno imperiale di Erdogan e la sfida silenziosa con l'Iran
di Roberto Tottoli

Il viaggio in Nordafrica di Erdogan evoca ricordi imperiali ottomani, ma non solo: rappresenta un deciso passo strategico nella regione in attesa delle prossime elezioni, con l'evidente funzione di frenare le analoghe mire iraniane.
Due gli ostacoli che rimangono sulla strada della nuova Turchia di Erdogan. Il primo è quello dell'eredità turca antica e recente. Evocare l'impero ottomano non è certo un buon viatico nella visita di Paesi arabi. Indipendenza e nazionalismi post-coloniali nacquero in contrapposizione all'impero ottomano e all'elemento turco. In più Kemal Ataturk non fece certo brillare le credenziali religiose della nuova Turchia del XX secolo: abolì il califfato e avviò una occidentalizzazione del Paese. La svolta islamica di Erdogan non ha neppure dieci anni, forse pochi per sovvertire diffidenze secolari e dubbi religiosi più recenti.
Il secondo ostacolo è quello rappresentato dalle altre potenze nella regione. L'Arabia Saudita e l'alleanza del Golfo, il Qatar con al-Jazeera in prima fila, non vorrà mancare ad avere un ruolo nel futuro della regione. È però l'Iran quello che pare avere credenziali più spendibili. L'asse con Hezbollah, e fino a ieri con la Siria, ha garantito una presenza salda nel mondo arabo. La vicinanza ideologica ai partiti religiosi e al radicalismo islamico ha aiutato a superare le diffidenze secolari tra sunniti e sciiti. Non a caso l'Iran è stato tra i primi a salutare con entusiasmo la primavera araba, almeno finché non ha raggiunto la Siria.
Erdogan con la sua visita vuole dimostrare che un modello islamico c'è ed è valido anche per le forze politiche e religiose che gestiranno il potere in Egitto, Libia e Tunisia. E questo modello non può venire dall'attivismo sciita iraniano. Anzi, deve essere in nome di un islam sunnita e laico che faccia barriera davanti al wahhabismo saudita ma soprattutto alla crescita di influenza dell'Iran. Che ci riesca, più che da un viaggio, dipenderà dai tanti problemi sul terreno, primo fra tutti la crisi siriana e come verrà risolta.

Repubblica 14.9.11
"Siamo un Paese democratico"
Erdogan: "Israele calpesta le leggi ma ora il mondo è cambiato e la Turchia ha scelto di reagire"
Il premier: "Anche gli Usa criticano Netanyahu"
di Fahmi Huwaidi

Lo Stato ebraico non comprende che nel nostro Paese c´è un sistema democratico, impegnato a rappresentare il popolo e a difendere la dignità. Siamo tenuti a preservare i diritti dei nostri cittadini che ci hanno dato fiducia

Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro turco, viene descritto da alcuni commentatori come un "Nasser" contemporaneo: pesa la sfida di Ankara a Israele dopo il congelamento dei rapporti diplomatici; si prospetta la possibilità di un confronto a causa dell´esplorazione di gas nel Mediterraneo. Allo stesso tempo, però, la Turchia accoglie i sistemi radar della Nato. Si direbbe un messaggio all´Europa e all´America: la Turchia non rompe con l´Occidente, soltanto con Israele.
Signor primo ministro, la Turchia ha sorpreso molti. Lei, cosa risponde?
«Da quando Israele ha attaccato la nave di aiuti umanitari diretta a Gaza (la Mavi Marmara, il 31 maggio 2010, ndr) abbiamo espresso la nostra posizione in modo chiaro, specificando le nostre richieste: in primis, le scuse al popolo turco e al governo; secondo, il risarcimento alle famiglie delle vittime; terzo, porre fine all´assedio inumano e illegale di Gaza. Alcuni hanno sottovalutato le nostre parole. Ma la sorpresa di cui lei parla ha due spiegazioni: innanzitutto Israele è abituata a non rendere conto dei suoi comportamenti e si considera al di sopra della legge. E poi, col tempo si è trasformata in un bambino viziato, rovinato da chi le sta intorno. Non solo pratica il terrorismo di Stato contro i palestinesi, ma si comporta con arroganza, e si meraviglia se qualcuno la richiama al rispetto degli altri e delle leggi».
La possibilità di un confronto armato è priva di fondamento?
«Israele non ammette i propri errori né i cambiamenti del mondo circostante. Non capisce che in Turchia c´è un sistema democratico, impegnato a rappresentare il popolo e a difendere la dignità. Non coglie la realtà dei cambiamenti nel mondo arabo, con la caduta di alcuni regimi repressivi e la presa di coscienza di popoli, che hanno levato la voce in difesa della libertà e della dignità».
Una commissione internazionale d´inchiesta dell´Onu ha sancito l´innocenza di Israele nell´aggressione alla Mavi Marmara, criticando solo l´uso eccessivo della forza.
«Questo rapporto non ha valore ed è una vergogna per chi lo ha redatto; ha legittimato l´assedio di Gaza, aprendo la porta alla legittimità dell´occupazione. È contraddittorio nelle informazioni, e in contrasto con lo statuto delle Nazioni Unite. Perciò noi ricorreremo alla giustizia internazionale».
Il suo governo ha annunciato che muoverà navi da guerra per proteggere le navi turche nelle acque territoriali del Mediterraneo orientale. Questo porta a un probabile contatto con la marina israeliana?
«È una probabilità remota. Lasci che le spieghi. Israele ha attaccato la nave in acque internazionali, ignorando le regole e le leggi vigenti. Era necessario per noi e per la comunità internazionale ricondurla alla ragione. Scortare le navi turche in acque internazionali, proteggerle da aggressioni, è un nostro diritto legittimo».
Resta la preoccupazione per i passi futuri previsti dalla Turchia in questo scenario di crisi. Cosa bisogna aspettarsi?
«Ogni piano è legato alla risposta israeliana, a quanto sia disponibile ad accettare una soluzione equa e giusta che riconosca i diritti e la dignità della Turchia. Posso soltanto dire che siamo tenuti a quattro cose: preservare la dignità e i diritti del popolo turco, che ci ha dato fiducia, ed è nostro compito non lasciare che sia corso invano il suo sangue. Far cessare l´arroganza di Israele abituata a calpestare ogni norma, legge e patto internazionale. Insistere perché siano accolte le richieste turche: busseremo alle porte degli organismi politici e diplomatici. Infine rimanere saldi nel porre fine all´assedio di Gaza perché è in contrasto con il diritto internazionale».
Il primo ministro israeliano Netanyahu ha affermato che Israele desidera ripristinare e migliorare i rapporti con la Turchia. Molti mediatori sono già all´opera. Riusciranno?
«È vero, ma dopo che Israele avrà chiesto scusa e accettato le nostre condizioni. Lo abbiamo detto a tutti i mediatori, cui esprimiamo stima e rispetto. Ripeto: i leader di Israele hanno sbagliato nell´interpretare la realtà circostante, hanno perso i loro sostenitori, anche negli Usa. Quando Gates, l´ex ministro della Difesa americano e uomo dei servizi segreti afferma che Netanyahu è un pericolo per Israele, e sta spingendo il Paese verso l´isolamento internazionale, è un segnale profondo. Molti hanno taciuto. La Turchia ha scelto di reagire».
(©Al Shorouk Traduzione di Fawzi Al Delmi)

Repubblica 14.9.11
Tre navi da guerra nel Mediterraneo contro il blocco su Gaza. E sui caccia cambia il software: ora gli aerei israeliani non saranno più riconosciuti come amici
Ankara lancia la corsa per la Palestina all´Onu
Appello ai vicini arabi perché sostengano la richiesta dell´Anp di riconoscimento dello Stato
di Fabio Scuto

IL CAIRO Acclamato come il nuovo paladino del riscatto islamico, il premier turco Recep Tayyp Erdogan è stato accolto al Cairo con grande calore. Erano qualche migliaio all´aeroporto l´altra notte con striscioni e slogan, mentre la capitale egiziana è tappezzata di manifesti giganti con il suo volto. Ieri mattina, applaudito dai ministri degli Esteri della Lega Araba – riuniti in una seduta straordinaria nel palazzo sull´angolo di Piazza Tahrir – ha pronunciato un discorso nel quale ha invitato tutti i Paesi della regione ad avviare riforme e dare risposte ai popoli che chiedono prima di tutto giustizia e democrazia. «Questo è un momento in cui si scrive la storia», ha detto con aria ispirata il premier turco.
Poi Erdogan è passato ai due argomenti più scottanti: i rapporti con Israele e l´appello ai Paesi arabi perché sostengano la richiesta palestinese di riconoscimento da parte dell´Onu il prossimo 20 settembre. «I nostri fratelli palestinesi devono avere il loro Stato, e noi dobbiamo fare in modo che la bandiera palestinese sventoli alle Nazioni Unite». La soluzione del conflitto israelo-palestinese è una «questione di umanità» perché lo "status quo" non può essere mantenuto a lungo. Per Erdogan, poi, Israele continua a prendere iniziative che minacciano «la sua stessa legittimità», tra cui l´uccisione di nove attivisti turchi a maggio 2010 e quella di cinque militari egiziani ad agosto. Il premier turco ha definito il blocco israeliano sulla Striscia «nullo e vuoto» e aggiunto che Ankara non normalizzerà le sue relazioni con Israele fino a quando non ci saranno le scuse ufficiali per le vittime dell´attacco, una compensazione per i loro familiari e la fine dell´embargo a Gaza.
Non solo parole da Erdogan, perché da ieri tre navi da guerra turche hanno lasciato le loro basi navali per incrociare nel Mediterraneo orientale con la missione di proteggere gli interessi turchi in quell´area. Ma fatto ancor più allarmante la Turchia ha sostituito un software militare destinato ai suoi caccia, navi da guerra e sottomarini che non riconosce più come "amici" aerei e imbarcazioni israeliane. Il nuovo sistema "Iff" (Identification Friend or Foe) prodotto dall´industria elettronica militare turca (Aselsan) ha sostituito il software precedente, americano, che identificava automaticamente i mezzi israeliani come amici, impedendo così di colpirli visto l´alto livello di cooperazione militare che c´era fra i due ex alleati prima della crisi. Un segnale allarmante.
Nel suo tour egiziano il premier turco ha incontrato il capo del Consiglio supremo delle forze armate, il maresciallo Tantawi e il premier Essan Sharaf con cui sono stati firmati accordi di natura economica e militare. Prossime tappe del viaggio Tunisia e Libia.

Repubblica 14.9.11
Next Africa
2050. Quando un uomo su quattro sarà nato nel Continente Nero
di Anais Ginori

Quasi ovunque la fecondità è in lenta diminuzione e l´invecchiamento procede in fretta
Gli esperti: "Non bisogna drammatizzare Abbiamo ancora molto spazio"
"Baby 7": verrà battezzato così il bambino che ci farà superare la soglia dei sette miliardi di esseri umani. Nascerà entro ottobre, probabilmente in un remoto villaggio sub-sahariano Dall´Ottocento a oggi la popolazione dell´Africa si è moltiplicata otto volte. E a metà di questo secolo diventerà una potenza globale. Almeno nei numeri. Gli occidentali dovranno abituarsi a essere solo una minoranza Un balzo dalle conseguenze ancora imprevedibili

Nascerà forse dentro a una capanna di fango, su un letto di paglia, protetto da bue e asinello, come in un presepe delle origini che annuncia il nostro futuro. Il bambino o la bambina che ci farà superare la soglia dei 7 miliardi di esseri umani sulla Terra abiterà probabilmente in un remoto villaggio dell´Africa, ormai l´unico continente che non accenna a rallentare la corsa demografica, dove le donne sono ancora costrette a scommettere sull´avvenire, nonostante le guerre, la povertà, le epidemie, o anzi proprio per questo. Ancora poche settimane e toccheremo la fatidica quota. Entro ottobre, con un anticipo di qualche mese, verrà battezzato "Baby 7".
Sarebbe dovuto arrivare all´inizio del 2012 ma l´incontenibile dinamismo africano ha costretto l´Ined, l´istituto nazionale di studi demografici francese, a cambiare le previsioni nel suo nuovo rapporto. Dall´Ottocento a oggi la popolazione del continente nero si è moltiplicata otto volte, attualmente è stimata intorno a 1,05 miliardi. E a metà di questo secolo diventerà una potenza globale, almeno nei numeri: nel 2050 una persona su quattro, infatti, nascerà in Africa, uno su tre alla fine del secolo. La Nigeria da sola avrà una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti.
Un mondo nuovo. Gli occidentali abituati a regnare per secoli sul resto del pianeta dovranno abituarsi a essere solo una minoranza, meno numerosi e più vecchi, davanti a generazioni di giovani del Sud pronti a diventare la maggioranza del pianeta. Persino gli asiatici sono ormai insidiati dalla disperata vitalità dell´Africa. «In Cina racconta Gilles Pison, direttore di ricerca all´Ined e autore di un Atlas de la population mondiale pubblicato in Francia la fecondità è diminuita più rapidamente di quanto avessimo previsto. Nell´Africa subsahariana, al contrario, l´atteso calo non si è mai verificato». Nel continente si deve ancora compiere la transizione demografica che ha conosciuto l´Occidente negli ultimi due secoli, cominciata in Asia quarant´anni fa: il combinato disposto tra abbassamento dei tassi di fecondità e mortalità. I progressi in questi due sensi sono pochi. La speranza di vita è di soli 56 anni per gli uomini e 59 anni per le donne. La mortalità infantile è di 74 bambini ogni 1000 nascite, rispetto a sei in Europa e America. Il 18% degli africani tra i 15 e i 49 anni (4,9 milioni di persone) è sieropositivo. D´altra parte, però, le africane continuano a fare in media 4,8 figli, un dato che si registrava in Europa nel 1950, mentre la media mondiale è oggi scesa a 2,5 figli. In paesi come la Somalia e il Niger, la media sale addirittura fino a sei e sette figli.
Di questo passo, nel 2050 la popolazione dell´Africa sarà di nuovo quadruplicata, 3,6 miliardi di persone su un totale mondiale stimato a 10 miliardi. La Nigeria, con 433 milioni di abitanti, diventerà il terzo Paese più popoloso al mondo, dopo la Cina (1,69 miliardi) e l´India (1,3 miliardi), ma davanti all´America (423 milioni). Gli altri Paesi in crescita saranno l´Etiopia (174 milioni), la Repubblica democratica del Congo (149 milioni) e la Tanzania (138 milioni). Il gigante del mondo arabo sarà l´Egitto, passando dagli attuali 82,6 milioni a 123 milioni del 2050. Da noi, invece, il baby boom è definitivamente archiviato, anche se la media europea è leggermente risalita negli ultimi anni da 1,5 a 1,6 figli, e Paesi come Gran Bretagna, Spagna o Grecia hanno avuto un aumento delle nascite. Non vale ovviamente per l´Italia che con il suo 1,3 figli per donna è all´estremo opposto della Francia (2,07). Senza sufficienti flussi migratori, il nostro paese potrebbe perdere 17 milioni di italiani entro il 2050, subendo una trasformazione che nemmeno le epidemie medievali o le peggiori catastrofi naturali erano mai riuscite a provocare. Anche la Germania, il paese più popolato d´Europa, ha iniziato il suo declino demografico e sarà presto superato da Francia e Gran Bretagna.
L´altro sorpasso simbolico che gli studiosi aspettano è quello dell´età, la cosiddetta inversione della "piramide demografica". Dopo la seconda guerra mondiale nei Paesi sviluppati la popolazione con meno di 15 anni superava gli ultrasessantenni di 16 punti percentuali. Entro il 2019, ha calcolato l´Ined, la curva dei bambini sotto i cinque anni scenderà sotto a quella dei senior. Prima del 2050 ci sarà anche il sorpasso sugli adolescenti. Ogni mese, 870mila persone compiono 65 anni, entrando così nella terza età e con la ragionevole speranza di arrivare a varcare anche la quarta. Nel 2040 la proporzione degli over65 raddoppierà dal 7 al 14%. Il dato più spettacolare è quello degli ultraottantenni, che cresceranno del 233% nei prossimi trent´anni. Nello stesso periodo, i giovani con meno di 15 anni aumenteranno soltanto del 6%. In Italia, il sorpasso è già avvenuto: abbiamo il 15% di ragazzi sotto i 15 anni, rispetto al 20% di senior sopra i 65 anni. È l´effetto della diminuzione della fecondità e dell´innalzamento della speranza di vita, il punto finale della transizione cominciata alla fine del Novecento quando le donne hanno incominciato a fare meno bambini prima in Occidente e ora anche in nazioni un tempo prolifiche come Cina, India o in alcune parti del Sudamerica. «Quasi ovunque osserva Pison la fecondità è in lenta diminuzione e l´invecchiamento demografico procede invece molto in fretta. L´unica eccezione a questa regola rimane l´Africa».
Una fuga in avanti dalla conseguenze ancora imprevedibili. «Non bisogna drammatizzare sottolinea il demografo francese abbiamo ancora molto spazio sulla Terra e se staremo attenti ci saranno anche risorse sufficienti per tutti». Il tetto dei 6 miliardi di abitanti era stato superato nel 1999 con il "Millenium Baby". Ci sono voluti altri 12 anni per arrivare a 7 miliardi ma ce ne vorranno altri 14 per toccare quota 8 miliardi. Lentamente, però, la popolazione mondiale dovrebbe stabilizzarsi tra 9 e 10 miliardi in questo secolo. Poi, forse, potrebbe incominciare a regredire. Tra il 1965 e il 1970, l´umanità è infatti aumentata al ritmo del 2% l´anno. Già oggi siamo già scesi all´1,33% e nel 2050 la crescita demografica mondiale si fermerà allo 0,3%, punto dal quale potrebbe passare in negativo. Ogni ipotesi è possibile. Negli anni Ottanta alcuni studiosi avevano annunciato, con molto allarme, 15 miliardi di abitanti sulla Terra nel 2050, salvo poi dover ammettere di essersi sbagliati. La demografia non è una scienza esatta, gli uomini e le donne non sono macchine, i progressi della scienza non sono facilmente quantificabili.
Eppure gran parte degli studiosi assicura che la "Population Bomb", la bomba demografica vaticinata negli anni Sessanta dallo studioso Paul Ehrlich, non è ancora pronta a esplodere. «L´umanità è passata da un a sette miliardi in due secoli, ma il numero di persone che muoiono di fame non è mai stato così basso» spiega ancora Pison. «Al livello ecologico, non bisogna considerare la crescita della popolazione come l´unica minaccia. Piuttosto continua il demografo francese il vero pericolo è lo sfruttamento sempre più intensivo delle nostre risorse». Si potrà vivere in nove o dieci miliardi sulla Terra, magari un po´ più stretti, conclude lo studioso dell´Ined. Ma i "nuovi arrivati" dovranno rinunciare allo stile di vita di americani ed europei. E anche il vecchio Nord dovrà cambiare i suoi orizzonti.

Repubblica 14.9.11
Parla lo scrittore algerino Amara Lakhous
"Il futuro è meticcio è inutile isolarsi"
di Vladimiro Polchi

«Non insegnate ai vostri figli quello che avete imparato voi, perché loro vivranno in un tempo diverso». Amara Lakhous, scrittore d´origine algerina, autore del fortunato Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, ricorre a un detto arabo per denunciare «i tanti allarmismi e la nostra incapacità di immaginare il futuro». Perché una cosa è ormai certa: «Il mondo che verrà sarà meticcio».
Nel 2050 un quarto della popolazione mondiale sarà africano. Cosa dobbiamo aspettarci?
«Intanto non preoccupiamoci. Dietro queste notizie si cela spesso un certo allarmismo, visto che l´Africa è sempre stata considerata un peso morto, anzi mortale, per il resto del pianeta: povertà, conflitti armati, malattie, Aids. Non potrebbe andare diversamente? Nel futuro non potrebbe diventare una grande opportunità, come lo è oggi la popolosa Cina? Gli equilibri geopolitici potrebbero cambiare nei prossimi quarant´anni».
Il boom demografico africano produrrà un aumento dei flussi migratori verso l´Europa. Dobbiamo prepararci a uno "tsunami umano"?
«Pochi sanno che oggi sono i Paesi del Nord Africa, e non il vecchio continente, a sostenere i flussi più imponenti di migranti provenienti dall´Africa Subsahariana. Migliaia di esseri umani che voglio raggiungere l´Europa ma restano intrappolati. Quanto all´Europa e all´Italia, il futuro è già qui».
Cioè, già viviamo in una società multietnica?
«Oggi sono arrivato con il treno a Napoli. Alla stazione ho incontrato più africani, che napoletani. E lo stesso accade passeggiando vicino alla stazione Termini di Roma o alla Centrale di Milano. Insomma, il futuro è meticcio. Inutile illudersi di potersi rinchiudere nei propri confini, con allontanamenti o respingimenti forzati».
Il problema è allora la convivenza?
«Il problema è l´incapacità della politica di leggere il futuro e gestire il territorio. Un esempio? Piazza Vittorio a Roma, una realtà che conosco bene, è oggi ridotta a un grande bazar del commercio all´ingrosso. Nessuna merceria, nessun alimentari. Bisogna invece saper governare e prevenire le conflittualità».
Le leggi italiane sono pronte alla sfida dell´integrazione?
«Direi proprio di no: mentre la legge Bossi-Fini naviga a vista e malamente, la legge sulla cittadinanza nega ancora ai figli degli immigrati nati in Italia di essere italiani. E il rischio è che un giorno questi ragazzi ci chiedano il conto».

Corriere della Sera 14.9.11
Luigi Frati e Giovanni Lobrano
I due professori innamorati del raìs
di Gian Antonio Stella

G li illustrissimi Luigi Frati e Giovanni Lobrano hanno cambiato idea sul «professor» Muammar Gheddafi? O si getteranno anche loro all'inseguimento dell'ex dittatore libico non per consegnarlo ai ribelli, si capisce, ma per tornare a invitarlo a fare una lectio magistralis o addirittura a ritirare una laurea honoris causa? I primi ad avere questa curiosità dovrebbero essere gli studenti della Sapienza di Roma e della facoltà di giurisprudenza dell'Università di Cagliari, protagoniste di indecorose genuflessioni all'allora capo della Jamahirya. Se la storia è davvero maestra di vita, infatti, nulla è più importante della memoria. Per imparare dagli errori. Per pesare le persone.
Sono passati solo poco più di due anni dal giugno 2009 in cui il Colonnello venne in Italia. Due anni. Ed è impossibile dimenticare i salamelecchi nei quali si prostrarono Franco Frattini, Silvio Berlusconi (che indifferente alla tragedia degli italiani buttati fuori dal dittatore non solo gli baciava l'anello ma gli prometteva di tornare in Libia per festeggiare «la vostra grande rivoluzione») e tanti altri esponenti della politica nostrana. Che arrivarono a spendere 994.923 euro per «lavori di adeguamento» della meravigliosa Villa Doria Pamphili dove il capriccioso ospite, che a Tripoli viveva nel palazzo da mille e una notte coi rubinetti d'oro che abbiamo scoperto poche settimane fa, fece tirar su una tenda beduina.
Bene: in queste sviolinate spiccarono appunto quei due uomini della cultura nostrana. Il primo, Giovanni Lobrano, preside di Giurisprudenza a Cagliari, spiegò solenne che «la deliberà del consiglio di Facoltà ha deciso per il conferimento della laurea honoris causa al Presidente Gheddafi» spiegando che comunque la decisione finale sarebbe spettata al Rettore e al Ministero, che grazie a Dio riposero la stupidaggine là dove doveva stare, nel cestino. Il secondo, Luigi Frati, rettore della Sapienza, già noto come uomo tutto ateneo e famiglia per aver piazzato nei suoi immediati dintorni universitari la moglie, il figlio e la figlia, si spinse con sommo sprezzo del ridicolo a concedere al tiranno tripolino addirittura l'aula magna (dove il despota si presentò annoiatissimo con due ore di ritardo) perché tenesse una lezione sulla democrazia. Lui! Sulla democrazia! Una «lezione» di leggendaria cialtroneria: «Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie. Se noi ci troviamo in questa sala siamo il popolo, che si siede su delle sedie, e questa andrebbe chiamata democrazia, cioè il popolo si siede su delle sedie». Surreale, poi, fu l'invito a farsi avanti rivolto alle «amazzoni» bellocce e grintose che gli facevano da body-guard. Ammazza!, sbottò er rettore: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c'è qui mia moglie...».
Ecco: entrando nel vivo dell'anno accademico non pensano i due esimi professori di avere qualcosa da spiegare ai loro studenti?

Corriere della Sera 14.9.11
I poveri d'America mai così numerosi
Quasi 50 milioni di persone: il 15% del Paese
di Alessandra Farkas

NEW YORK — L'anno scorso ben 46,2 milioni di americani vivevano sotto la soglia di povertà, definita da un reddito inferiore a 22.314 dollari annui per una famiglia di quattro persone: il livello più alto dal 1956, quando la statistica è stata compilata per la prima volta. Il ritratto dell'America fotografato dall'annuale rapporto del Census Bureau pubblicato ieri offre un quadro allarmante di un Paese dissanguato da due costosissime guerre e da una crisi economica che ha lasciato 14 milioni di americani senza lavoro, con un tasso di disoccupazione da due anni al di sopra del 9%.
Secondo le cifre ufficiali redatte dal governo Usa, un americano su sei oggi è povero. Ovvero il 15,1% dell'intera popolazione e oltre due milioni di individui in più rispetto all'anno scorso, quando i poveri erano 43,6 milioni, cioè il 14,3% degli americani. E anche il numero delle persone in possesso di assicurazione medica è lievitato a ben 49.9 milioni: il più alto da due decenni.
A guidare la triste lista degli stati più indigenti è il nero Mississippi, con un tasso di povertà al 22,7%, seguito da Louisiana, District of Columbia, Georgia, New Mexico e Arizona, dove vive un numero record di afro-americani e latinos. «Il tasso di povertà è aumentato in tutti i gruppi etnici, salvo gli asiatici, fermi al 12,1%», recita il rapporto. Il numero degli ispanici indigenti è salito dal 25,3% al 26,6%, fra gli afroamericani è passato dal 25,8% al 27,4% e tra i bianchi dal 9,4% al 9,9%.
E se i bambini americani poveri sono aumentati dal 20,7% al 22%, tra i minorenni neri e ispanici il tasso di povertà ha raggiunto, rispettivamente, il 39% e 35%. Penalizzate in particolar modo le donne: quelle più povere sono passate dal 13,9% del 2009 al 14,5% nel 2010, il più alto livello degli ultimi 17 anni. E anche il numero dei giovani tra i 25 e i 34 anni costretti dalla crisi a vivere con amici e parenti è aumentato del 25% rispetto al 2007: un record.
Alla vigilia delle prossime elezioni presidenziali, secondo gli addetti ai lavori, entrambi i partiti cercheranno di sfruttare questi dati a loro favore. «Dietro queste deprimenti statistiche si nasconde un'America che fatica a tenere un tetto sulla propria testa, dar da mangiare alle proprie famiglie e offrire ai propri figli la prospettiva di un futuro migliore», mette in guardia Joan Entmacher, vicepresidente della lobby pro-donne National Women's Law Center.
Le statistiche, che fotografano il secondo anno dell'amministrazione Obama, potrebbero essere usate soprattutto dal presidente americano, intento a promuovere il suo pacchetto da 447 miliardi di dollari per stimolare l'economia e creare nuovi posti di lavoro. Non a caso i ricercatori del Census Bureau si sono affrettati a sottolineare come il numero di giovani dai 18 ai 24 anni privi di assicurazione medica è sceso dal 27,2% al 29,3% (unica miglioria in un mare di record negativi) grazie all'unico aspetto della riforma sanitaria obamiana ad entrare in vigore nel 2010 invece che nel 2014: quella che consente ai giovani di usufruire della polizza dei genitori fino al compimento del 26o anno di età.
Mentre il partito repubblicano continua a rifiutare la proposta del presidente di aumentare le tasse ai ricchi, il rapporto governativo ieri sottolineava anche l'importanza dei programmi pubblici nel fornire una rete di sicurezza ai più poveri. Grazie ai sussidi di disoccupazione approvati nel 2009 — che assegnavano ai lavoratori 99 settimane di stipendio dopo il licenziamento — si legge nel rapporto, «l'America è riuscita a tenere 3,2 milioni di individui al di sopra del livello di povertà». E anche la Social Security, oggi sempre più sotto l'attacco dei repubblicani, avrebbe permesso ad altri 20.3 milioni di anziani e adulti disabili di restare fuori dalla temutissima statistica.

l’Unità 14.9.11
L’evoluzione è come un grande romanzo
Scienza e critica letteraria Anticipiamo una parte della lectio magistralis che il paleontologo Niles Eldredge terrà al festival «pordenonelegge.it». La storia della biologia evolutiva: nuove idee contrapposte a idee precedenti
di Niles Eldredge

Scienza e critica letteraria Anticipiamo una parte della lectio magistralis che il paleontologo Niles Eldredge terrà al festival «pordenonelegge.it». La storia della biologia evolutiva: nuove idee contrapposte a idee precedenti

La scienza è la ricerca di spiegazioni causali naturali a fenomeni naturali. Sebbene i risultati scientifici possano essere presentati in equazioni o in brevi resoconti, la discussione di questioni teoriche complesse si articola spesso in argomentazioni estese della misura di un libro. È il caso, soprattutto, della biologia evolutiva da quando ha avuto inizio, nelle opere del francese Jean-Baptiste Lamarck (1801; 1809) e dell’italiano Giambattista Brocchi (1814), fino al nostro tempo. In effetti, gran parte della storia della biologia evolutiva è stata condotta come una forma di critica letteraria: nuove idee vengono presentate e messe in contrapposizione a idee di opere anteriori.
Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale dell’inglese Charles Darwin è uno dei libri più importanti pubblicati nella storia scientifica (anzi, in generale, nella storia della cultura occidentale). Analizzando le antecedenti idee rivali di Lamarck e di Brocchi, mentre, ancora giovane, viaggiava a bordo del Beagle (1831-1836), Darwin seguì Brocchi nel concludere che le specie nascono e muoiono naturalmente, proprio come gli individui. Giunse ad accettare la «trasmutazione di Brocchi» come prima versione del suo concetto di evoluzione. Poi, però, tornato a casa, scoprì il concetto di selezione naturale per spiegare l’adattamento.
Quando pubblicò L’origine delle specie, Darwin aveva già del tutto abbandonato le idee di Brocchi sulla morte e sulla nascita delle specie e aveva invece sviluppato una teoria di evoluzione basata principalmente su una visione di cambiamento evolutivo graduale nel tempo attraverso la selezione naturale.
Il concetto di specie come entità naturali che nascono e muoiono (si estinguono) fu praticamente dimenticato dalla biologia evolutiva, fino a quando il genetista russo Theodosius Dobzhansky non pubblicò il libro Genetics and the Origin of Species nel 1937. Nel libro Dobzhansky riportò in vita la nozione dell’origine delle specie attraverso l’isolamento geografico e la frammentazione di una specie più antica, ancestrale (speciazione geografica o «allopatrica»). Poco dopo, l’ornitologo tedesco Ernst Mayr sviluppò ulteriormente questi temi nel suo libro Systematics and the Origin of Species. (1942). Sebbene i due scienziati vedessero che le specie avevano un processo di «nascita» naturale (speciazione), continuarono a concordare con Darwin sul fatto che, una volta apparse, le nuove specie evolvevano gradualmente nel tempo.
Quella idea fu messa in discussione dai paleontologi Niles Eldredge e Stephen Jay Gould dapprima in un breve articolo (Eldredge, 1971) e poi nel ben noto contributo che definisce il loro concetto di «equilibri punteggiati», pubblicato anche nell’opera collettiva Models in Paleobiology (1972), a cura di Thomas J.M. Schopf. «Equilibri punteggiati» vede le nuove specie nascere attraverso l’isolamento geografico (d’accordo con Dobzhansky e Mayr), ma evidenzia anche che, dopo la nascita, le specie rimangono entità essenzialmente stabili non cambiano molto, spesso nel corso di milioni di anni. In realtà, questo segna un ritorno ai concetti di Giambattista Brocchi.
Oggi sembra essere evidente che la maggior parte dell’evoluzione avvenga in congiunzione con eventi estintivi: perturbazioni ambientali lievi e localizzate provocano estinzioni locali di popolazioni. Eventi più forti, disturbano intere regioni e intere specie iniziano a estinguersi. È in questi «capovolgimenti» che si compie la maggior parte dell’evoluzione della vita. Le estinzioni globali «di massa», quelle su larga scala verificatesi cinque o sei volte nel corso degli ultimi cinquecento milioni di anni, portano interi gruppi (come i dinosauri non volanti) alla totale estinzione aprendo la strada all’espansione evolutiva di altri gruppi: i mammiferi, ad esempio, presero il posto dei dinosauri alla fine dell’era Mesozoica 65 milioni di anni fa.
Da qui, il concetto sloshing bucket di evoluzione: maggiore è il disturbo ambientale, più alto è il tasso di estinzione, e più grande il grado di conseguente risposta evolutiva. Queste idee, riassunte sotto la teoria della gerarchia, sono state analizzate anche in alcuni libri come nel mio Unfinished Synthesis del 1985 e nel libro pubblicato dal mio collega, il compianto Stephen Jay Gould, intitolato La struttura della teoria dell’evoluzione e apparso nel 2002.
Molti altri libri sono stati pubblicati nella storia della biologia evolutiva, naturalmente. Ho scelto questi, perché ritengo che essi traccino l’origine, lo sviluppo, la quasi estinzione e la riapparizione di idee attraverso i secoli un esempio perfetto dell’importanza della critica letteraria nella discussione dei maggiori concetti teorici della scienza.
Traduzione di Laura Pagliara

Fatto 14.9.11
Perché la Shoah non fu fermata
di Nicola Tranfaglia

C’è una domanda che, ancora oggi a distanza di molti decenni trascorsi dalla Seconda guerra mondiale e dal massacro nazista degli ebrei, emerge periodicamente nelle conversazioni tra gli storici e quelli che si interessano del passato più recente: “Perché l’Europa e gli Stati Uniti non fermarono quel massacro? Quali furono le ragioni della passività con cui il mondo civile assistette al grande orrore degli anni Quaranta?”. E anche a me è capitato, in Italia e altrove, di essere interrogato più volte sul problema. La domanda, nata all’indomani della catastrofe fascista e nazista, si è articolata dall’inizio in alcuni interrogativi preliminari: “Quali furono le effettive ragioni del silenzio delle potenze democratiche e liberali rispetto alla strage perpetuata nei lager nazisti e nei paesi occupati dal Grande Reich? Perché si finse a lungo di non conoscere la realtà di quell’orrido massacro? E la Chiesa di Roma, a sua volta, perché si unì a quel silenzio con Pio XII? ”
IN UN PRIMO tempo gli storici concentrarono la loro attenzione sul silenzio delle potenze alleate e del Vaticano, piuttosto che sulla loro passività, ma a poco a poco, nei decenni successivi al 1945, non è più stato possibile negare che Roma, Parigi, Londra, Washington avessero saputo a partire dal 1941-42 quello che stava avvenendo nei lager nazisti e, con modalità diverse, nei campi fascisti sparsi nella Penisola. La discussione si è concentrata, quindi, sul secondo aspetto del dilemma: che cosa avrebbero potuto fare, e non fecero, gli alleati e la Chiesa di fronte a quello che è sempre più stato definito, con un termine tratto dalla religione cristiana, come l’Olocausto?
Il primo aspetto del dilemma si è a poco a poco chiarito e ha provocato, per alcuni decenni, violente polemiche politiche e giornalistiche che hanno occupato a lungo i principali mezzi di comunicazione dell’Occidente americano ed europeo. Il silenzio di Pio XII ha dato luogo prima a un’ampia pubblicistica e persino a dei film e a delle opere teatrali (chi ha più anni ricorda i libri degli anni Sessanta apparsi in Italia a cura del pubblicista Falcone) e quindi, molto più di recente, a un bilancio storico difficile da contestare da parte di uno dei maggiori studiosi della Chiesa, lo storico di Trieste, Giovanni Miccoli che a papa Pacelli ha dedicato qualche anno fa un volume prezioso. Meno aspro, ma altrettanto accanito, è stato il dibattito che ha riguardato le maggiori capitali europee e quella americana. Ma, nell’uno come nell’altro caso, è apparso sempre più chiaro che i freni a rompere il silenzio e a rendere noto quel che stava accadendo nell’Europa centro-orientale avevano radici all’interno di opinioni pubbliche che prendevano complessivamente sul serio (almeno in maggioranza) le accuse religiose del pontefice come quelle dei capi dei governi e degli Stati occidentali nei confronti degli ebrei.

il Fatto 14.9.11
C’è plagio e plagio. Copio ergo sum
Guida allo scrittore ingannatore
Il prestigioso critico francese Macé-Scaron è stato beccato: nel suo ultimo libro interi passaggi rubati a Bill Bryson, ma esiste anche la citazione “buona”
C’è chi non dichiara mai le fonti come Galimberti
di Marco Filoni

Pereant qui ante nos nostra dixerunt”. Tradotto molto liberamente, suona più o meno così: “Che si fottano quelli che prima di noi hanno detto le nostre idee”. Ecco, così parlava Elio Donato, grammatico latino famoso più per esser stato maestro di San Girolamo (padre e dottore della Chiesa, nonché primo traduttore della Bibbia dall’ebraico e dal greco al latino) che non per le sue massime. Eppure già allora, nel Quarto secolo dopo Cristo, con nonchalance affermava il principio (per nulla politicamente corretto) di giustificazione per ogni plagio. Con una excusatio non petita in fondo diceva: ebbene, se io dico o scrivo cose che prima di me qualcun altro ha detto o scritto, in fondo, chissenefrega! Magari copiava anche lui. Se lo venissero a sapere personaggi come Joseph Macé-Scaron forse lo utilizzerebbero come argomentazione per esser stati beccati a copiare. Beccati e impallinati.
Joseph Macé-Scaron è uno dei critici letterari francesi più in vista. Già giornalista del serioso Figaro, oggi è il direttore del mensile Le Magazine littéraire, direttore aggiunto del settimanale Marianne, conduttore della trasmissione Jeux d’épreuves di France Culture, cronista letterario per molti canali e trasmissioni televisive. Insomma, uno che conta. Da buon critico ha scritto e continua a scriver libri. L’ultimo dei quali uscito a maggio, con il titolo Ticket d’entrée, per l’editore Grasset. Vista la “statura” dell’autore, il libro è stato commentato e ben accolto. A giugno ha vinto il premio letterario “la Coupole”. L’editore ha brandito l’effigie: “Fra le migliori vendite dell’estate”.
POI QUALCHE settimana fa scoppia il finimondo. In rete una lettrice scrive che molti passaggi del libro non sono altro che evidenti plagi di un romanzo americano (tradotto pure in francese nel 2003) di Bill Bryson, dal titolo Cronache da un grande paese. Inizia così il tam tam in Internet, che però dura soltanto qualche giorno, quando alla fine si risolve con l’ammissione del principale interessato. Joseph Macé-Scaron interviene e ammette: “Ho fatto una cazzata!”. Testuale: une connerie. Ora, forse è un po’ poco come spiegazione. Forse pensa che tutto si risolva con l’oblio: passa qualche mese, nessuno se ne ricorda più, et voilà, si ricomincia come e meglio di prima. Del resto è quanto era successo a Henri Troyat, l’immortale (così vengono ribattezzati i membri dell’Accademia di Francia, ma poi immortali non sono: è morto nel 2007) che nel 2003 fu condannato da un tribunale per “contraffazione parziale”, eppure i suoi pari non ritennero di doverlo sospendere dall’Accademia. Un plagio può anche costare caro: lo sa bene l’ex ministro tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg, costretto a dimettersi dopo che in rete fu accusato (a ragione) di aver copiato la sua tesi di dottorato.
Certo il tema non è nuovo: Macé-Scaron è solo l’ultimo di una lunga lista. In passato figure importanti e illustri hanno confessato di aver plagiato: Jonathan Swift, Laurence Sterne, Martin Luther King, Samuel Coleridge. E anche Vladimir Nabokov fu accusato di aver copiato l’idea di Lolita da un breve racconto di uno sconosciuto scrittore tedesco, Heinz von Eschwege, apparso con lo stesso titolo qualche anno prima del capolavoro del russo. Per rimanere in tempi recenti, l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, La carta e il territorio (Bompiani) contiene ampi stralci di descrizioni prese qua e là da Wikipedia e altri siti. Ma anche da noi non mancano esempi illustri: Umberto Galimberti è ormai un frequentatore abituale di frasi altrui e c’è addirittura chi s’è preso la briga filologica di enumerare passo per passo le copiature del professore, scrivendoci persino un libro (Francesco Bucci, Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale, Coniglio editore). Ma anche Melania Mazzucco, che nel romanzo Vita (premio Strega 2003) si è distratta e ha riproposto pagine intere di Guerra e pace di Tolstoj. E poi anche Vittorio Sgarbi, Daniele Luttazzi, Corrado Augias... Il catalogo è ampio. Per non parlare di quella mente sublime e surreale, artista dell’opera-fotocopia, dell’ingegner Fabio Filippuzzi. Lui ha battuto tutti in un sol colpo. Una serie di libri, pubblicati dalle edizioni Campanotto e Mimesis, interamente copiati dalla prima all’ultima pagina da opere altrui (anche di autori piuttosto famosi: Peter Handke e Jean-Paul Enthoven).
PER MOLTO tempo nessuno se n’è accorto, nemmeno gli editori che li hanno pubblicati. Come non si sono accorti di nulla i redattori dei giornali ai quali collaborava Tommaso Debenedetti: quest’ultimo inventava di sana pianta interviste a scrittori famosi con i quali non aveva mai parlato. E nessuno diceva nulla. Plagio? No, piuttosto un’altra forma d’imbroglio, una contraffazione. La stessa messa in pratica da Jayson Blair, il giovane reporter del New York Times che inventandosi false storie non soltanto ha provocato il suo licenziamento, ma anche quello del direttore Howell Raines e di un altro anziano dirigente perché non avevano controllato, a differenza di quei giornali dove scriveva Debenedetti dove nessuno è stato nemmeno richiamato. Abbiamo così un buon sommario della nostra epoca, la stessa che già il filosofo Adorno riteneva un’epoca di plagi. Ma la questione è: c’è plagio e plagio? Di solito, le giustificazioni dei beccati sono le stesse: “Lavoro abitualmente prendendo appunti qua e là di altri libri; poi capita che riprendo in mano queste annotazioni e non ricordo più se sono mie o no, e quindi ci lavoro senza che me ne accorga”. Insomma, il plagio a sua insaputa. Bisognerebbe allora dare una definizione di plagio, perché altrimenti Debenedetti rimane un creativo, visto che non ha copiato nessuno ma ha soltanto contraffatto. La miglior definizione si trova nel Piccolo libro del plagio di Richard A. Posner (Elliot editore), nel quale si dice: “Per poter parlare di plagio è necessario che il copiare, oltre a essere ingannevole e quindi fuorviante per il pubblico a cui è rivolta l’opera, carpisca la fiducia del lettore”. Si tratta perciò di onestà intellettuale. Quando Pia Pera nel 1995 ha scritto il Diario di Lo, ovvero la riscrittura di Lolita di Nabokov dal punto di vista della ragazza, non soltanto non ha cercato di nascondere il debito al russo, anzi al contrario lo ha esibito.
E NON HA TRADITO la fiducia di nessuno. Così anche Antonio Scurati, che nel suo Una storia romantica affida onestamente alla postilla il debito con altri romanzi, riga per riga. E così fanno in molti. Poi c’è l’eccezione. Il grande Eugenio Scalfari, nelle sue due ultime opere uscite da Einaudi, affida i propri debiti a questa nota: “Ci sono molte citazioni nelle pagine di questo libro. Di alcune do un ragguaglio bibliografico; altre vengono liberamente dalla mia memoria poiché nei tanti anni trascorsi certi testi sono andati smarriti, sicché non ho potuto recuperarne gli editori e i traduttori”. Certo, non è come la massima di Elio Donato. E poi a lui perdoniamo tutto. Forse in definitiva aveva ragione l’autore di un cartello comparso all’Hotel Rand di New York: “Quando rubi da un autore è plagio, quando rubi da tanti è ricerca”.

Corriere della Sera 14.9.11
Le donne che mi hanno salvato
Amori e libertà, la vita e Trieste: il labirinto di Boris Pahor
di Marisa Fumagalli

L' appuntamento è al Bar Lux di Prosecco, in collina, otto chilometri da Trieste, e non distante dalla sua abitazione. «Meglio qui che in casa mia», sorride, Boris Pahor, proponendo di cominciare con un caffè. «Mi tiene su», dice, mentre si dirige verso una saletta, alle spalle del bancone.
Domani esce Dentro il labirinto (Fazi Editore), pubblicato nel 1985, ma solo ora in edizione italiana. Triestino di lingua slovena, il grande vecchio, più volte candidato al Nobel per la Letteratura, ha compiuto da pochi giorni 98 anni. L'avevamo incontrato, lo scorso gennaio a Lubiana, quando i francesi lo onorarono con la medaglia di Commendatore delle Arti e delle Lettere (ma aveva già ricevuto altre onorificenze da Parigi, fra cui la Legion d'Onore), e in quell'occasione lo scrittore si lasciò andare ad alcune confidenze, per così dire, private. Una, in particolare, ci era rimasta impressa. Parlandoci del suo matrimonio, celebrato negli anni 50 con rito civile («Avrei voluto mantenere una libera unione ma riuscii ad oppormi soltanto alle nozze religiose, diversamente le famiglie ne avrebbero sofferto troppo»), motivò così la riottosità verso ogni legame codificato: «Dopo aver vissuto un'esperienza come quella del campo di concentramento (narrata in Necropoli, la sua opera più famosa ndr), la libertà ritrovata diventò, per me, il valore supremo. Non c'è amore o fede politica, pur importanti, che possano vincolarla».
Pahor è un uomo libero. Nel profondo. La sua avventura esistenziale, riflessa nei libri, redatti in lingua slovena (quasi a dispetto della sua laurea in Letteratura italiana, conseguita a Padova), ne è la testimonianza sincera. Anche se i suoi ideali di nazionalista convinto, fuori tempo massimo secondo alcuni, indispettiscono i triestini italiani e non solo. Egli ha via via denunciato gli orrori del nazismo e del fascismo («Che ci rubò l'identità e annientò la nostra cultura»), poi del comunismo, «quello ideologico e miope — osserva ora — degli stessi sloveni, che furono miei compagni di strada nella lotta per la liberazione».
Il protagonista di Dentro il labirinto è il giovane Radko Suban. Figura presente anche in Primavera difficile (1958) e in Oscuramento (1975): i francesi (primi traduttori di Pahor) l'hanno chiamata trilogia triestina. «In realtà — spiega l'autore — si tratta di tre romanzi indipendenti». Essi ripercorrono gli anni più difficili del capoluogo giuliano, dal 1943 al 1949: storie individuali nella storia della Trieste dei conflitti nazionali e civili, delle ferite aperte dalle lotte di resistenza e dai contrasti tra italiani e sloveni, tra i seguaci di Tito e i fedeli alla politica sovietica, tra ex collaborazionisti e partigiani.
In questo clima, Radko Suban, democratico senza alcuna tessera, si sente un marziano: «Da quando aveva intuito che i capi del Partito erano interessati soprattutto al mantenimento della linea ideologica il suo atteggiamento critico si era mutato in aperta contestazione. D'altro canto, essendo dichiaratamente contrario all'imperialismo, si schierava col movimento progressista, pur rifiutandone la scelta di etichettare come reazionari, spie o fascisti, tutti gli sloveni non comunisti o restii a collaborare con i comunisti». Radko si tormenta nel constatare che la lotta di liberazione partigiana pluralistica, animata da un forte valore etico, è stata monopolizzata dai comunisti, «che non si comportano proprio da irreprensibili paladini della libertà e della democrazia». Il giovane sogna Trieste città libera, multiculturale, sgombra da ideologie predominanti, dove gli italiani e gli sloveni abbiano pari dignità. Ma dovrà disilludersi.
«Radko Suban sono io — avverte Pahor —. Il romanzo narra del mio ritorno a casa, nel gennaio del 1947, reduce dal lager nazista e, quindi, da un periodo di sanatorio in Francia». «Avrei potuto rientrare prima — continua — ma l'amore per una giovane infermiera, colta e sensibile, m'indusse a trattenermi fuori più a lungo». L'infermiera Arlette (nome di fantasia come gli altri personaggi del libro) è la donna che, pur amandolo, alla fine si prende un marito scialbo ma benestante, imposto dai genitori e, dunque, rinuncia a raggiungere Radko a Trieste. Continuerà ad amarlo, a distanza. Nelle lettere che si scambiano, tra tormenti, incertezze, complicità, si svelano i caratteri di entrambi. «Piccola mia, ieri sera, quando ho cominciato a scriverti, ero terribilmente turbato dal fatto che, nella stessa lettera, tu parli dell'ingresso in una famiglia sconosciuta che ti ha valutata come un capo di bestiame alla fiera e della tua risoluzione di raggiungermi qui a Trieste. Ho avuto l'impressione che tu stia facendo violenza a te stessa. Dapprima critichi l'ambiente borghese e il giovane che giudica una porcheria il romanzo di Gary che con la sua bellezza ci ha affascinati; poi, nella seconda parte, che appartiene a noi due soltanto, ritrovo la ragazza che mi è così vicina come lo era in dicembre a Parigi...». Arlette: «Ti penso spesso, spessissimo, ma non così spesso come vorrei. Mi capita di pensarti anche quando sono con i genitori di Alfred, anzi soprattutto allora. Li osservo con i tuoi occhi e ciò che una volta mi sfuggiva ora assume un certo peso...». L'amore del passato, invece, è Mija, annientata dalle atrocità dei nazisti, che affiora nella memoria del giovane reduce, e lo conforta. Infine, Neva, la comunista tutta d'un pezzo. Si amano brevemente («Da persone libere», l'aveva avvertita), lei rimane incinta. Lui è disposto a riconoscere il bambino, ad occuparsene, non a sposarla: «Non posso sentirmi libero, se sono legato…». Neva lo schiaffeggia, è la fine della loro storia. E del romanzo, che si chiude con la partenza di Radko da Trieste.
Gli amorosi sensi del protagonista (molto legato anche alle due sorelle, una della quali morirà di tisi tra le sue braccia), illuminano, con lampi di «autocoscienza», una vicenda complessa. Radko Suban si rende conto che dovrà trovare la sua strada, dentro il labirinto ostile di una città in bilico, dove le relazioni umane, specie con gli italiani, sono per lui sempre più difficili.
Riflette: «Avrebbe sbagliato di grosso chi lo avesse accusato di opporsi ai rapporti più stretti con la popolazione italiana. Erano proprio la dualità culturale e la peculiarità linguistica della sua città i due valori che gli facevano amare la terra natia. Era nato anfibio e non aveva alcuna intenzione di mutarsi in qualcosa d'altro. Si rendeva conto che doveva continuare a coltivare la propria specificità. Era fuori questione che, quale membro di una comunità autoctona, fosse costretto a identificarsi politicamente con una comunità linguistica diversa che, oltretutto, in città beneficiava di un ordine che ne privilegiava la lingua ovunque».
Si aspetta reazioni critiche a questo libro? «Sono sempre stato un non allineato — risponde Pahor —. Non ho mai riscosso simpatie, né da una parte né dall'altra».


La Stampa 14.9.11
Svezia, tirò i capelli al figlio condannato il papà italiano
Per Giovanni Colasante 750 euro di multa: “È un’ingiustizia enorme”
di Andrea Malaguti

Fine del processo svedese. Fine della guerra di civiltà. Per il giudice Sakari Alander, signore e padrone dell’aula numero otto del tribunale di Stoccolma, non ci sono dubbi. Giovanni Colasante da Canosa di Puglia stessa Europa, ma nella testa dell’inflessibile pubblico ministero Deniz Cinkitas un mondo primitivo è colpevole di maltrattamenti nei confronti del figlio di dodici anni. La sua pena l’ha già scontata passando tre giorni e tre notti in carcere. E i 750 euro di multa che dovrebbe lasciare in Scandinavia fanno pari con la crociera nei fiordi che aveva organizzato da sei mesi. L’ha persa. Non c’è stato modo di farsela rimborsare. Punito lui, quarantaseienne dirigente di una azienda informatica e consigliere comunale di centrodestra, e punita la sua famiglia.
La colpa? Il 23 agosto, nel cuore della città vecchia, avrebbe tirato i capelli al suo primogenito. E non importa se lo ha fatto nel tentativo di trattenerlo mentre il piccolo scappava perché non aveva voglia di andare al ristorante. In Svezia è un reato. «Volevo prenderlo per il bavero della giacca», ha raccontato. Non gli hanno creduto. «Gli ha deliberatamente causato dolore. E questo va considerato un abuso», dice testualmente la sentenza emessa ieri. Deliberatamente. Come se fosse un aguzzino. Un torturatore di ragazzini. «Non ho mai fatto male ai miei figli e non gliene farei mai. Al massimo posso impedire loro di guardare la tv», dice al telefono Giovanni Colasante, cercando di impedire che quella crepa che gli si è infilata nell’anima finisca per diventare lo scivolo da cui si incunea un intollerabile senso di umiliazione. Prova a tirarsi su. «Al mio paese ho ricevuto tanta solidarietà».
Adesso, mentre l’avvocato Runenberg gli comunica la decisione di Alander, è seduto in un bar di Canosa di Puglia, di fianco alla moglie Maria Fonte, una donna raffinata con uno sguardo penetrante e remoto, che ancora trema quando il marito rimette assieme i tasselli di questo mosaico avvelenato. «Ho subito un’ingiustizia enorme. Non meritavo di essere trattato così. Ora valuteremo se fare appello». A inchiodarlo ci sono tre improbabili testimoni che davanti al giudice hanno raccontato tre storie diverse, che andavano dall’aggressione selvaggia a furia di schiaffi al buffetto sulla spalla. Sono gli stessi che quella sera lo hanno denunciato dopo essergli corsi incontro con la bava alla bocca. Roteavano i pugni e gridavano «italiani vaffanculo». Ma quello non è un reato.
Uno di loro ha raccontato che Colasante avrebbe sollevato il figlio da terra prendendolo per i capelli. Con un braccio solo. Se non era un mitomane per lo meno era un commediante. Uno che non si accontenta della realtà. «Mio figlio pesa cinquanta chili, vi pare possibile?». Al giudice Alander evidentemente sì. La stampa svedese ha infierito sull’italiano. Lo ha smontato come un lego. Lui e la sua cultura di quarta serie. «Ma nel vostro Paese siete abituati a picchiare i bambini?». Non è forse questa la domanda che gli ha fatto il gelido Cinkitas, un uomo che usa la propria supposta perfezione umana e l’inossidabile senso di sé come una clava? Magari, mentre lo guardava con quel senso di infastidita perplessità, in qualche modo voleva persino giustificarlo. Non era lui a essere violento, ma la strana terra in cui era nato. I Barbari. Che cos’altro siamo in fondo? «Ci vedono come gente abituata a fregare il prossimo, incapace di rispettare le regole. Invece io sono una persona perbene. Ma è come se il tribunale non si stesse rivolgendo a me in quanto Giovanni Colasante, ma in quanto italiano». Sensazioni appiccicose.
La polizia l’ha arrestato davanti ai suoi figli. I due bambini erano terrorizzati. L’hanno infilato in macchina e portato in caserma. «Avremmo potuto risolvere ogni cosa con il buon senso. Invece volevano a tutti i costi farmi ammettere cose che non avevo fatto. Mi hanno infilato in una cella e per un giorno intero mi hanno tenuto isolato dal mondo. È stato un incubo.
Non sapevo dove fosse la mia famiglia. Mia moglie era senza soldi, ma la polizia si è rifiutata di farle avere i miei. Dopo ventiquattro ore mi hanno interrogato di nuovo. Stavolta con un avvocato scelto da loro. Ancora adesso fatico a togliermi dalla testa questi pensieri». I ragazzi sono tornati immediatamente in Italia, lui li ha raggiunti solo la scorsa settimana, dopo il processo. «Hanno sofferto. Davvero non meritavamo tutto questo. Eppure in Svezia io ci tornerei». Sua moglie Maria Fonte gli si avvicina all’orecchio. «Io lì non ti accompagno più. Questa volta ci vai da solo».

il Riformista Lettere 14.9.11
Il san Pd rifonda l’Ulivo?
di Paolo Izzo

In un Paese dove le feste laiche rischiano ogni settimana di essere soppresse per una beatificazione o con una manovra economica, le domeniche sono invece immancabilmente consacrate al credo cattolico.
Qualche giorno fa si era quasi sperato che, per una volta, si potesse dedicare il giorno dell’angelus a un po’ di sana politica laica, magari andando ad ascoltare Pierluigi Bersani alla Festa dell’Unità di Pesaro.
Macché: comizio del Segretario anticipato al sabato, per andare a omaggiare il Papa a pochi chilometri di distanza, in quel di Ancona! Comizio in fretta e furia di san Pd, dunque, per non perdersi la Messa e per rilanciare contestualmente un’idea davvero nuovissima: rifondare l’Ulivo (nella domenica delle Palme?) con Sel, Idv, Psi e Verdi. Pensata geniale, illuminazione della Fede!
Dei Radicali, però, nessuna traccia. Ma la spiegazione sorge spontanea, terrena, laica: cosa c’entrebbero mai i Radicali con un’agenda e un programma dettati dal Vaticano?