venerdì 16 settembre 2011

l’Unità 16.9.11
Bersani a Berlino incontra Gabriel: «Lavoriamo a una piattaforma comune su economia e lavoro»
Governo battuto alla Camera. Il leader dei Democratici: «Siamo nei guai, serve una cesura politica»
Obiettivi comuni per la sinistra Ue. Il leader Spd in piazza col Pd
Bersani a Berlino discute con il leader della Spd Gabriel di una «piattaforma comune dei progressisti europei». Per il segretario del Pd serve «una cesura politica». Non esclusa la sua presenza alla festa Idv di Vasto
di Simone Collini


«Nei prossimi dodici mesi si svolgeranno elezioni nei principali paesi europei. È evidente che la situazione economica apre gli spazi anche ad un cambiamento politico. Tocca a noi progressisti indicare la direzione». Pier Luigi Bersani incontra il leader dell’Spd Sigmar Gabriel nella sede del Parlamento tedesco. Il segretario del Pd, che già a inizio estate ha incontrato il leader dei laburisti britannici Ed Milliband e la socialista francese Martine Aubry, vuole costruire insieme alle altre forze progressiste europee una «piattaforma comune» sui temi del lavoro, dell’economia, della finanza. Obiettivo, «rilanciare il sogno europeo» e contribuire a formare un’onda che cambi di segno (attualmente di destra) la maggioranza dei governi europei. Dopo che ieri si è votato in Danimarca (col trionfo del centrosinistra), a breve si andrà infatti alle urne in Francia, Polonia, Romania, Spagna e, nelle intenzioni di Bersani, in Italia.
Il leader del Pd e quello della Spd concordano sul fatto che una «prospettiva di cambio politico», dopo un decennio che ha visto le forze conservatrici ottenere consensi nel vecchio continente, è a portata di mano se le forze progressiste sapranno giocare bene la partita. «Le opinioni pubbliche cominciano ad essere consapevoli che il tema europeo è di casa e che la ricetta dalla destra è stata quella del ripiegamento delle potenzialità dell’Europa», dice il leader del Pd. «Tocca quindi ai progressisti lanciare una piattaforma comune in ogni luogo d’Europa, dire le stesse cose in Portogallo, Germania, Francia ed Italia». Bersani e Gabriel discutono dell’ipotesi di introdurre «strumenti nuovi dell’integrazione europea» nelle politiche economiche e finanziarie, sugli squilibri di crescita e sugli investimenti in scala europea. Una strada che per il leader Pd risulterebbe utile sia ai paesi più in difficoltà che a quelli con tassi di crescita più alti. E l’Italia può fare la sua parte assicurando «quel rigore e quello sviluppo già garantiti dai governi Ciampi, Prodi e Amato, perché solo garantendo credibilità possiamo dire ai paesi forti che anche loro hanno guadagnato dall’euro».
È proprio l’Italia il tema dolente. Il segretario del Pd atterra a Berlino negli stessi minuti in cui alla Camera il governo Berlusconi viene battuto (è la 83esima volta dall’inizio della legislatura) su un emendamento in materia energetica presentato dal suo partito. L’approvazione della manovra per Bersani non ha messo al sicuro il nostro Paese. «Siamo ancora larghissimamente nei guai», dice guardando all’allarme lanciato dalla Bce ma anche ai dati diffusi dall’Istat. «Ci vuole una reazione politica bisogna trovare un modo di dire al mondo che c’è una cesura», insiste Bersani. «Berlusconi non continui a dire che va avanti fino al 2013. C’è ormai un clima psicologico su di noi impressionante. Si deve dare vita ad una transizione per imboccare una strada nuova, altrimenti non riusciamo ad avere una linea di credito in fiducia e riconquistare credibilità interna e internazionale».
Un ragionamento che ribadisce dopo un breve colloquio con l’ex ministro degli Esteri del precedente governo Merkel, Frank Walter Steinmeier (ora capogruppo della Spd al Bundestag) e dopo l’incontro con il leader dell’Spd. Gabriel ha anche accettato l’invito di Bersani ad essere a Roma il 5 novembre, a una manifestazione
che nelle intenzioni del leader Pd dovrà servire a ridare fiducia all’Italia, a lanciare una piattaforma programmatica per l’alternativa e a dare il senso di una ripartenza. «Non intendo fare l’ennesima protesta spiega Bersani il 5 novembre dirò cosa si fa, lancerò un progetto, e lo voglio fare in compagnia dei leader europei» (l’invito per Roma arriverà anche al vincitore delle primarie francesi, in calendario per il 9 ottobre, e stando agli attuali sondaggi sarà Francois Hollande). Per questa mattina sono previsti altri incontri con i vertici della Spd, ma se i tempi lo permetteranno Bersani alla fine potrebbe anche essere alla festa dell’Idv di Vasto e partecipare al confronto con Di Pietro e Vendola.

l’Unità 16.9.11
Intervista a Debora Serracchiani
«Primarie per tutto e leggi per i nuovi diritti»
L’europarlamentare: «Conquistiamoci il nostro spazio, è il momento dei quarantenni. Siamo più credibili quando si parla dei tagli ai costi della politica»
di Jolanda Bufalini


Debora Serracchiani ha anche lei raggiunto i 40 anni, «Siamo in un paese dove si è giovani a 50», commenta con amarezza, ma è un «momento epocale e dobbiamo prenderci lo spazio che ci spetta». A Pesaro ha partecipato all’iniziativa “Rifare l’Italia, rinnovare il Pd” ma sottoline subito che non è finita con la festa, «Il 22 e 23 ottobre con Civati ci incontreremo per una due giorni a Bologna». Dire quarantenni significa poco, quale è, per esempio, il collante fra Civati, Zingaretti, Renzi, Serracchiani?.
«Il collante non è l’età, anche se l’età facilita i rapporti politici, visto che siamo figli del tempo che vogliamo contribuire a governare».
Su cosa vi siete trovati d’accordo a Pesaro?
«Sulle primarie per la scelta dei parlamentari, sul referendum elettorale, sui diritti civili, ovvero su nuove regole per le unioni civili. Per quanto riguarda le questioni economiche, sulla necessità di fare nostro il tema della patrimoniale che in primo tempo aveva incontrato qualche freno nel partito».
Sulla patrimoniale il Pd si è fatto scavalcare a “sinistra” da Profumo, da Abete, da Tabacci?
«Il Pd ha sostenuto con molta forza, anche nella contromanovra, una patrimoniale con aliquota bassa ma permanente, non una tantum. È importante la concordanza di tutti su questo tema. Altro punto di convergenza sono le liberalizzazioni».
Sette quarantenni si sono pronunciati contro lo sciopero della Cgil
«Anche a Pesaro sono state espresse opinioni diverse sullo sciopero contro la manovra, non c’è nulla di strano in questo. Invece è stato un errore volere un pronunciamento, perché un partito non deve pronunciarsi sulla decisione di un sindacato di fare sciopero. Io ho partecipato al corteo perché considero l’articolo 8 una schifezza, anche come avvocato del lavoro».
Però è chiaro che posizioni differenti hanno a che fare con la pluralità delle anime del Pd da una parte e, dall’altra, con il tema delle alleanze. Come nel caso delle dichiarazioni di D’Alema sui matrimoni gay.
«Nel partito i giovani possono dare un contributo importante di sintesi. Da questo punto di vista avere meno storia alle spalle è un vantaggio, aiuta il formarsi di maggioranze, che non necessariamente sono sempre le stesse, senza il peso di appartenenze legate alla storia».
E le alleanze?
«Io credo nella necessità di guardareaIdveSelediavereanchelacredibilità per parlare ai moderati, al centro che deve decidere da che parte stare. Non mi risulta che Casini sia di centro sinistra».
Bersani avrebbe fatto bene ad andare a Vasto, con Di Pietro e Vendola? «Di Pietro avrebbe fatto bene a evitare di mettere provocatoriamente la pregiudiziale di costituzionalità sulla manovra alla Camera. È stata una posizione strumentale, che al Senato non è stata assunta. È sbagliato alzare il tiro, amzichè fare un’opposizione costruttiva, per guadagnare uno zero virgola, fare gli avvoltoi sugli altri partiti di centro sinistra». Elezioni anticipate o governo di transizione?
«L’ esperienza di parlamentare europeo mi fa dire che in Europa si aspettano una svolta politica chiara. Meglio, quindi, una campagna elettorale, in tempi congruenti con la drammaticità della crisi, piuttosto che continuare a navigare a vista. Tuttavia, per la serietà della situazione, se ci sono le condizioni, anche un governo di transizione per fare alcune riforme chiare e poi tornare a votare, può essere una soluzione. Ma senza membri dell’attuale governo Berlusconi. È una questione di credibilità».
Zapatero ha annunciato le elezioni anticipate, ma dalle elezioni in Spagna molto probabilmente uscirà una maggioranza netta. In Italia le elezioni avrebbero lo stesso effetto chiarificatore?
«Il sistema elettorale è un problema, per questo mi sono impegnata al cento per cento per il referendum. Sono contenta che ora ci sia l’indicazione a firmare dell’intero partito, servirà di stimolo alla discussione in Parlamento su una nuova legge».
C’è un’alternativa politica in Italia?
«Ne sono convinta, anche se l’ondata dell’antipolitica crea delle difficoltà. Ma bisogna rispondere con i fatti, come è stato sulla patrimoniale, come è stato nel breve governo Prodi con il taglio al cuneo fiscale e con la credibilità della lotta all’evasione. Il nuovo Ulivo di Bersani non assomiglia al vecchio, è una coalizione per governare, con Idv, Sel più l’apertura a l’Udc. Il centrodestra ha portato il paese allo scontro e questo accresce il problema della credibilità del paese. A Bruxelles, la battuta che circolava era: “Berlusconi non è venuto a spiegare la manovra ma a farsela spiegare”». Torniamo a voi, ai quarantenni. Non siete parte di un sistema che si basa sulla cooptazione? «Nonèilmiocaso,nonèilcasodi Pippo Civati. Può darsi che ci sia chi è stato cooptato ma molti di noi sono cresciuti senza gridare ma assumendosi le proprie responsabilità, contribuendo al dibattito politico, ciascuno nel proprio ruolo, anche su temi come la riduzione dei costi della politica». Perché?
«Una generazione meno legata al passato è più credibile sull’abolizione dei vitalizi, sulla revisione di condizioni di privilegio, sul parametro delle pensioni agganciato all’Inps, sulla restituzione agli elettori della scelta dei candidati» Dove sono gli ostacoli più grandi per i giovani in politica?
«È un problema che riguarda tutta la società, dovrebbe essere normale preparare il “dopo”, favorendo per esempio dopo una sconfitta il ricambio. Da noi questa capacità si è persa ma siamo in un momento epocale e noi dobbiamo prenderci questo spazio».
E l’esperienza dei vecchi non serve? «Non diciamo tutti a casa, la nostra non è una lotta fra generazioni, piuttosto è un patto fra generazioni, perché in politica non basta l’esperienza, deve rappresentare anche le novità».

Corriere della Sera 16.9.11
«Non insegnare storia dell'arte mette a rischio il nostro futuro»
Giulia Maria Crespi: l'ambiente si difende con la cultura
di Paolo Conti


ROMA — «Il ministro Mariastella Gelmini cosa sa della storia dell'arte italiana, del nostro Paese, della Nazione che lei governa? Sarei felice di incontrarla e di rivolgerle alcune domande...». Giulia Maria Crespi, Presidente Onorario nonché fondatrice del Fai, il Fondo Ambiente Italiano, gioca con il suo personaggio («ormai sono vecchia, dico senza paura ciò di cui sono convinta») sfoderando l'arma dell'autoironia. Ma i suoi argomenti, e i ragionamenti che propone, sono seri e solidissimi: «Ho letto con sgomento giorni fa proprio sul Corriere della Sera della misera condizione in cui si trova l'insegnamento della storia dell'arte nel nostro Paese. Cancellato, sparito. L'Anisa, l'associazione degli insegnanti di storia dell'arte, possiede un prospetto che fa paura. Storia dell'arte scomparsa nel biennio dell'Istituto tecnico per il Turismo. Lo stesso avviene nell'Istituto Professionale Turistico, Istituto Professionale per la Grafica, Istituto professionale per la Moda. Niente insegnamento nel primo biennio dei licei classico e scientifico. Dico: nel classico! Ma come è mai possibile?»
Le due grandi passioni di Giulia Maria Crespi sono il Paesaggio italiano, quindi l'ambiente e la stessa tradizione agricola come parte integrante del contesto, e la storia della vicenda artistica del nostro Paese. Due capitoli che, ai suoi occhi, rappresentano un unicum: «I due temi sono strettamente collegati. Mi spiego. Non insegnare la storia dell'arte significa togliere una indispensabile conoscenza a intere, future generazioni di geometri, architetti, sindaci che dovrebbero rispettivamente studiare e governare il territorio. Ma come potranno farlo se ignoreranno l'arte italiana, così impregnata di Paesaggio culturale? Significa anche allevare nuove leve di funzionari statali, e quindi soprintendenti, che non avranno appreso da ragazzi i fondamenti della nostra storia artistica. Come faranno questi giovani soprintendenti a muoversi con conoscenza e responsabilità se non sapranno ciò che dovrebbero sapere?» Ma non è solo la macchina dei Beni culturali ad allarmare Giulia Maria Crespi: «Io mi domando e poi domando al ministro Gelmini. L'Italia è un paese che vivrà in futuro soprattutto di turismo legato alla cultura, al nostro patrimonio. Come è immaginabile educare i futuri operatori turistici privandoli di una disciplina fondamentale per il loro lavoro? Ridicolo! L'Italia è ricca solo di questo: di arte, di tesori, di musei, di passato.... Ha ragione lo storico e saggista inglese Paul Kennedy quando dice che l'Europa può ancora contare, per il suo futuro, sull'arte e la cultura. L'Italia più di tutti, aggiungo io, e quindi dobbiamo studiare e prepararci proprio per costruire quel futuro».
Giulia Maria Crespi si concede un piccolo tuffo nella memoria: «Da ragazza ho studiato bene la storia dell'arte, nel triennio finale ci si applicava sui testi di Paolo D'Ancona, Fernanda Wittgens e Irene Cattaneo. Ma davvero non capisco come si possa abolire l'arte nel primo biennio...» Un sospiro, di quelli tipici del Presidente Onorario del Fai: «Stiamo svendendo tutto ai cinesi, lo sappiamo bene. Ma i cinesi non potranno mai comprarci i Templi d'Agrigento o il Duomo di Milano. Quindi dobbiamo imparare a conoscerli e ad amarli perché rappresentano il nostro futuro».
Che fare, signora Crespi? «Dobbiamo protestare. Far sentire la nostra voce alla Politica. Ho saputo che il ministro Gelmini starebbe preparando un tavolo tecnico per esaminare il problema. E io vorrei sapere: chi siederà a quel tavolo tecnico? Quale conoscenza ha della storia dell'arte? Aggiungo che bisognerà quanto prima occuparsi anche della fine dell'insegnamento della musica. Nel resto d'Europa se ne apprende molta, di musica. Qui, nella patria del Melodramma, no. Tutto questo è grave, gravissimo, da irresponsabili...»

l’Unità 16.9.11
Il ministro “compiacente” al convegno di Confindustria: troveremo il modo
Opposizioni e comitati in rivolta: «Rispetti le urne, così attenta la Costituzione»
L’assalto di Sacconi
«Referendum sull’acqua ridiscutiamo l’esito...»
di Andrea Carugati


A soli tre mesi dalla consultazione, a un convegno di Confindustria il ministro annuncia di voler rimettere in discussione la questione, contro la volontà espressa da 27 milioni di cittadini. E si scatena la bufera.

«Altro che sorella acqua, mi auguro che troveremo il modo per rimettere in discussione il referendum». Così parlò ieri Maurizio Sacconi a un convegno del Centro studi di Confindustria. Un “coming out” assai improvvido, a soli tre mesi dal referendum con cui 27 milioni di italiani si sono chiaramente espressi per l’acqua pubblica. Ma il ministro si deve essere sentito autorizzato, in qualche modo, dalla crisi a travolgere i fastidiosi laccioli del voto popolare. E infatti le sue parole sono arrivate pochi minuti dopo un summit con industriali e banchieri, insieme a Giulio Tremonti, tutto dedicato alle misure per far ripartire la crescita e alle liberalizzazioni. A partire proprio dal settore dei servizi pubblici locali. Insomma, l’ineffabile Sacconi, già autore della proposta, poi cancellata a furor di popolo, di eliminare il riscatto degli studi e della naja ai fini della pensione e della terribile barzelletta sulle suore stuprate, stavolta voleva fare bella figura davanti ai rappresentanti di Abi e di Confindustria. E così ha pensato bene di aggirare il responso referendario, dopo aver «giurato sul figlio», abitudine appresa direttamente dal Cavaliere, a proposito della genesi del famigerato articolo 8 della manovra sui licenziamenti. «Giuro che ho letto la lettera della Bce e ho letto delle cose che mi hanno indotto a presentare certe norme...».
Non è la prima volta che il governo cerca di boicottare il referendum. Ci avevano già provato prima che gli italiani andassero alle urne, in particolare col nucleare, con una norma inserita per congelare il programma nucleare inserita in fretta e furia nel decreto milleproroghe. Ma l’intervento della Cassazione aveva sterilizzato la furbata del governo, consentendo agli italiani di votare. Anche sull’acqua c’era stato un timido tentativo di “sabotaggio” con il varo unmese prima del voto di una Authority. Che però non ha mai rischiato realmente di far saltare l’appuntamento referendario.
OPPOSIZIONI IN RIVOLTA
Le parole di Sacconi hanno scatenato una bufera. Un «golpe» contro la volontà dei cittadini, attacca il Comitato referendario per l’acqua, che chiede le dimissioni del ministro. Durissimo Nichi Vendola: «Ma quale idea della democrazia ha uno dei massimi esponenti del governo italiano quando in modo sprezzante si augura di trovare il modo per superare l'esito referendario di qualche mese fa? Tentare di sabotare il significato di un responso popolare così ampio è gravissimo. Il ministro Sacconi non ha la sensazione che le sue parole siano eversive?». Molto netti anche Pd e Idv. «È tempo che Sacconi, insieme all’intero esecutivo, rimetta in discussione se stesso, altro che il referendum dell'acqua», dice Stella Bianchi, responsabile Ambiente dei democratici. «Come dovrebbe essere chiaro a chiunque il voto di 27 milioni di italiani semplicemente si rispetta e un governo degno di questo nome lavorerebbe per dare migliore tutela alla risorsa acqua, aumentare il controllo pubblico e sostenere un grande piano di investimenti. Ma il problema dell'Italia è appunto che non abbiamo un governo degno di questo nome». «Giù le mani dal referendum. L’Italia dei valori non permetterà che si calpesti la volontà degli italiani», attacca il portavoce Leoluca Orlando. «Le parole del ministro Sacconi sono gravissime e sono la dimostrazione di come questo governo continui a non rispettare le regole della democrazia e le scelte dei cittadini. Porteremo la questione in parlamento e alzeremo le barricate contro questo ennesimo atto di arroganza».
Il leader dei Verdi Angelo Bonelli parla di «attentato alla Costituzione» e di «volontà golpistica», di un «attacco senza precedenti alla volontà popolare». «Noi Verdi siamo pronti alla mobilitazione per difendere i referendum di giugno». E Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: «Voglio sperare che il Presidente della Repubblica faccia sentire chiaramente la sua voce contro questo proposito eversivo e tuteli la volontà popolare».

il Fatto 16.9.11
Precari, Europa aiutaci tu
La Commissione di Bruxelles deve decidere se la separazione tra garantiti e senza diritti è legittima
di Stefano Feltri


Il governo si disinteressa dei precari e l’unica riforma del lavoro è l’articolo 8 della manovra sui licenziamenti facili? Chiediamo a Bruxelles di multare l’Italia e costringerla ad affrontare il tema. “Alle imprese serve flessibilità per competere, è inaccettabile che il peso sia scaricato tutto sui precari”, dice Giulia Innocenzi, 27 anni, responsabile italiana di Avaaz (movimento internazionale di lobby dal basso), e volto delle trasmissioni di Michele Santoro, ieri Annozero, tra poco Comizi d’amore. É parte del gruppo di parlamentari e attivisti – tra loro Emma Bonino (Radicali), Nicola Rossi (Italia Futura) e Pietro Ichino (Pd) – che ha chiesto alla Commissione Ue di stabilire se il precariato all’italiana è compatibile con la normativa comunitaria. E se non lo è di aprire una procedura di infrazione che costringerebbe il governo a una riforma. Avaaz ha già raccolto 87 mila firme di cittadini italiani su una petizione che sollecita la Commissione a sanzionare l’Italia. Giulia Innocenzi spiega: “È evidente che il governo non ha alcuna intenzione di risolvere l’emergenza costante dei precari, 4 milioni di persone, in gran parte giovani. Una fascia debole destinata ad aumentare perché la flessibilità di cui ha bisogno il sistema produttivo viene scaricata tutta sui precari. L’unica soluzione è rivolgerci alla Commissione europea”.
LA BASE GIURIDICA ce l’ha messa il giuslavorista e senatore Pietro Ichino, con un elenco di casi concreti che dimostrano quello che lui chiama “l’apartheid” del mercato del lavoro italiano: la discriminazione dei precari rispetto agli assunti a tempo indeterminato. Da quelli con contratti a tempo determinato alle finte partite Iva. Il gruppo che ha portato il caso a Bruxelles vuole denunciare la situazione di quegli ‘autonomi’ e che in realtà sono dipendenti come gli altri, ma non hanno gli stessi diritti, a cominciare da malattia, maternità e ferie. Ora si attende la risposta di Bruxelles. “La Commissione ha un mese di tempo, poi deve rispondere – dice Giulia Innocenzi – poi può poi chiedere ulteriori informazioni all’Italia e, se lo decide, aprire una procedura di infrazione. Che è quello che noi auspichiamo”. Secondo Ichino, la violazione della normativa europea è manifesta: “Il dualismo del nostro mercato del lavoro – fra protetti e non protetti – costituisce evidente violazione della direttiva n. 1999/70/CE, che vieta l’utilizzazione di forme di lavoro a termine come forma ordinaria di ingaggio del personale e impone comunque ogni disparità di trattamento fra i lavoratori assunti a termine e quelli assunti a tempo indeterminato”.
TRA UN MESE, quindi, arriverà il responso da Bruxelles. Se accoglie l’istanza di Bonino, Ichino, Innocenzi Rossi ecc. la Commissione può chiedere ulteriori informazioni all’Italia e alla fine aprire una procedura di infrazione, come quella di cui siamo stati vittima negli anni scorsi per aver sforato i parametri di finanza pubblica su debito e deficit. La speranza della Innocenzi è questa: “A quel punto l’Italia sarà obbligata ad agire, riformando il mercato del lavoro. Riforme serie, non come l’articolo 8 della manovra, che si limita ad aumentare la flessibilità in uscita, ma non offre nulla a chi entra nel mercato del lavoro”. Perché i promotori dell’iniziativa non sono difensori del posto fisso, ma di quella flexsecurity nordeuropea che prevede assunzioni facili, licenziamenti altrettanto facili e un sistema di welfare che assiste nel passaggio da un lavoro all’altro e permette di riqualificarsi. Un approccio riassunto dalla formula “tempo indeterminato per tutti, ma nessuno inamovibile”, e nella proposta di legge di Ichino di un “contratto unico” per i lavoratori dipendenti che prevede tutele crescenti per i nuovi assunti (proposta analoga a quella dell’economista Tito Boeri, entrambe osteggiate dai sindacati che vedono a rischio i diritti acquisiti, come l’articolo 18 sui licenziamenti).
SE ARRIVERÀ la procedura di infrazione, si dovrà cambiare, ma non sarà indolore. Giulia Innocenzi la vede così: “Al momento pur di non toccare l’articolo 18 si scarica tutta la flessibilità sui precari che, oltre a non avere i diritti degli altri non hanno neppure gli stessi livelli retributivi, e si ritrovano con prospettive pensionistiche disastrose. Non ha senso difendere l’esistente se l’esistente non funziona”.

il Fatto 16.9.11
Economia sommersa
Volete stanare l’evasore? Basta usare la carta di credito, come a Londra
di Caterina Soffici


Londra. Certe volte a leggere i giornali italiani sembra che per stanare i furbi e sconfiggere l’evasione fiscale ci vogliano chissà quali avveniristici marchingegni. Così uno si immagina che lo “Stato di polizia tributaria” (copyright Berlusconi) dovrebbe mettere in moto costose apparecchiature capaci di tracciare i vostri spostamenti, controlli incrociati con le banche dati segrete.
Tutte balle. La pratica quotidiana in una città come Londra (ma lo si fa in tutto il mondo civilizzato) insegna che per abbassare drasticamente l’evasione, basta un semplice talloncino di plastica della misura di 8,5 x 5,5 cm il cui uso è quasi elementare. Si chiama carta di credito, ovvero di debito, ovvero bancomat. Con questi avveniristici strumenti per pagare è sufficiente che l’utente inserisca il cartoncino di plastica nell’apposita macchina, poi digiti un codice o metta la sua firma su un piccolo pezzo di carta e il gioco è fatto. La transazione verrà registrata, senza alcuno sforzo o spesa aggiuntiva per il singolo e per la comunità. Con l’indubbio vantaggio che il commerciante non potrà intascare quei soldi a nero e sarà costretto a fare lo scontrino fiscale.
Sarà per questo che le carte di credito sono tanto odiate in Italia. Ci sono addirittura negozi che fanno lo sconto se paghi in contanti (la scusa è sempre la stessa: “Sa com’è, con la carta la banca me li accredita tre mesi, ci perdo un sacco di interessi”). In molti bar non puoi pagare un caffè con il bancomat perché non hanno neppure la macchinetta e in altri sono affissi odiosi (e forse anche illegali) cartelli che avvertono: “Non sono ammessi pagamenti per importi inferiori alla tot cifra”. Generalmente molto bassa, cinque o dieci euro. Non è chiaro se si tratta di microevasione legalizzata o cosa, ma tant’è che non ho mai visto qualcuno protestare. Quando uno passa del tempo in Italia dopo un po’ non se ne accorge più. Sembra tutto così normale che il paradosso diventa lo stupore. Una volta ho provato a recriminare, mi è stato risposto che se non mi andava bene potevo andare a fare colazione in un altro bar.
A Londra tutto è comprabile con una carta. Un caffè da 1,5 sterlina; un giornale da 1 sterlina, un pacchetto di gomme da masticare da 60 centesimi, una pinta di birra al pub da 3,50. È più facile arrivare in fondo a un giornata scalzi che senza una carta di credito. Anzi, spesso vi guardano male quando consegnate banconote di taglio superiore alle 20 sterline (24 euro). Ce ne sono anche da 50 sterline (60 euro), ma se ne vedono in giro raramente e sarebbe sconveniente fare un acquisto in contanti per una grossa cifra. Soprattutto in un grande magazzino si rischia che chiamino la sicurezza. Non è un Paese per carta straccia, questo. L’unico posto dove accettano il bancomat sono alcuni banchi al Farmer Market, quei mercati ambulanti dove i contadini vendono frutta e verdura. Al contrario capita di snervarsi per l’eccessiva richiesta nell’uso della carta di credito. Senza il famigerato cartoncino non potete neppure prenotare un cinema, perché a identificarvi non è il vostro nome e cognome, ma il numero e la data di scadenza della vostra carta. E quando andate a ritirare i biglietti non dovete presentare un documento d’identità, ma la carta di credito con la quale sono stati pagati.
Con le buste di contanti ci fate ben poco a Londra. Non potete pagare un affitto in nero. Non potete neppure pagare voli e vacanze in un’agenzia di viaggio. Niente di niente. Andatelo a spiegare a Tremonti. Lui pensa ancora che “limitare l’uso dei contanti non riduce l’evasione. Complica la vita dei cittadini onesti e rende odioso lo Stato”. Odioso sì, soprattutto per quei cittadini come lui che devono pagare un affitto da 4 mila euro a nero.

Repubblica 16.9.11
Così la scuola scoppia
La classe pollaio
di Vera Schiavazzi


Viaggio nella elementare Gabelli di Torino, 27 bambini in ogni aula, il 70 per cento dei quali immigrati Tra sovraffollamento, banchi che mancano, spazi ridotti, personale insufficiente. Emblema perfetto dell´ultima emergenza del sistema di istruzione italiano: le classi pollaio
Si staccano le porte e le si rimonta al contrario. Una porta che si apre all´esterno lascia più spazio dentro per chi studia
A rischio la sicurezza dei bambini: se scoppiasse un incendio sarebbe difficile farli sfollare

Rumore. Un fiume di bambini fa molto rumore, e anche un po´ di paura (per loro) quando si riversa tra grida e spintoni nel corridoio. È questa la prima sensazione quando ci si affaccia nella classi sovraffollate dove anche la - criticatissima - ultima circolare ministeriale che autorizza classi di 26 alunni diventa lettera morta di fronte a una necessità: accogliere tutte le famiglie che bussano alle porte di una scuola pubblica calpestata e dimenticata. I bidelli si fanno segnali da una parte all´altra del corridoio, "ferma quello, guarda quell´altro", sembrano dire, disincantati e impotenti, e certo non resta loro tempo per fare le pulizie.
Subito dopo, arriva la seconda domanda: come si può insegnare a leggere, scrivere e fare di conto a bambini che siedono stipati in aule simili a pollai? Ventisette piccoli di sei anni, prima elementare (tanti ce ne sono alla "Aristide Gabelli", una scuola di Barriera di Milano, subito al di là di Porta Palazzo nella periferia orientale di Torino) sono difficili da controllare. C´è chi non sta fermo un secondo, chi lancia oggetti ai compagni, chi grida, chi piange e chi ride, chi, come Benjamin, non sa parlare e avrebbe bisogno di un insegnante di sostegno che non c´è. Alle otto del mattino suona la campanella di questa scuola costruita cento anni fa. Un fiume di bambini (in tutto sono 750), jeans, magliette e scarpe colorate, scorre lungo i corridoi e le scale, che, per fortuna, sono state costruite quando lo spazio non era un problema e le città potevano essere disegnate pensando al futuro. C´è di peggio, in giro per l´Italia dei tagli alla scuola, dove qualche volta anche alle elementari si arriva a 30 o 31 bambini per classe. Alla Gabelli una vigorosa dirigente scolastica, Nunzia Del Vento, continua a scrivere e cancellare e spostare nomi su dei tabulati, chiede ai bidelli di portar su qualche altro banco dalle cantine, decide se e quali porte rimontare perché si aprano nell´altro senso. Una porta cambiata può rivelarsi decisiva: se si apre verso l´esterno la classe diventa più grande e invece di due banchi per fila se ne possono mettere tre, un po´ come su un aereo low cost. E siccome un funzionario pubblico, anche se è arrabbiato, dovrebbe far funzionare le cose, la direttrice cerca, anche, di far quadrare i conti: «Abbiamo 58 insegnanti e pochissime unità di personale non docente, così avevamo già chiamato le cooperative per l´assistenza e gli altri servizi. Quest´anno i fondi a disposizione sono stati ridotti del 26 per cento. La coperta è corta, sorvegliare che i bambini non si facciano male durante l´intervallo è la cosa più importante di tutte, vorrà dire che taglieremo sulle pulizie…».
«Così, però, stiamo buttando via la qualità di una scuola pubblica che era tra le migliori d´Italia - commenta Silvia Bodoardo, mamma e rappresentante del Coordinamento dei genitori - e, cosa ancora più grave, produciamo ingiustizie: chi è seguito a casa ce la farà comunque, chi non ha mezzi si fermerà alla fine dell´obbligo, anche se ha talento e bravura». Ma alla Gabelli molti genitori non hanno tempo per queste cose. «Abbiamo il 70 per cento di bambini di nazionalità non italiana, in gran parte nati qui, ma molti appena arrivati - spiega Del Vento - Queste famiglie sono soggette a una mobilità altissima, si spostano, vanno dove c´è lavoro o dove trovano una casa, e non è possibile prevedere in marzo quanti bambini ci saranno in settembre, come vorrebbero i regolamenti. A luglio mi sono resa conto che erano già troppi e ho scritto alle scuole vicine per chiedere aiuto. Nessuna risposta, ma non mi stupisce, sono piene anche loro. Gli ultimi sono arrivati in settembre, tre fratellini, alla famiglia era appena stata assegnata una casa popolare proprio qui dietro... Giustamente, la legge prevede che non si possa respingere nessuna domanda, giustamente i genitori vogliono una scuola sotto casa, comoda, dove i meno piccoli possano andare e venire anche da soli… Ed eccoci qui». Nel caos, allegro ma faticoso, della 1 A l´appello del mattino non esiste più, e del resto chi riuscirebbe a leggere tutti quei nomi e quei cognomi e a sentire le risposte? Meglio contare, e controllare un po´ per volta col registro alla mano, e abituarsi un giorno dopo l´altro alle nuove facce e a nuovi nomi che arrivano da tutto il mondo. Perfino la Somalia con la sua carestia contribuisce a riempire i corridoi della scuola intitolata a un filosofo semi-dimenticato, perché da un anno a questa parte i bambini che arrivano dal cuore dell´Africa sono sempre di più e stanno per raggiungere altri gruppi, i piccoli cinesi (molte delle loro famiglie, intanto, si stanno spostando in nuovi quartieri), i rumeni, i marocchini. La maestra Antonietta spiega: «Facciamo incontri con diversi gruppi di genitori, i bambini sono molto bravi nell´aiutarci a tradurre quando manca il mediatore, i moduli per l´iscrizione li abbiamo fatti nelle diverse lingue anche grazie a loro». Alle pareti ci sono ancora i disegni dell´anno scorso, domina il tricolore e l´idea di Italia e di Risorgimento pare popolarissima in questa scuola di periferia, dove tutti sanno fare tutto e le maestre sono diventate bravissime ad appendere ai fili tesi di traverso ai corridoi disegni e piccoli oggetti fatti dai bambini. Ma non potrà andare avanti a lungo: «Banchi e arredi non ci sono ancora mancati perché ce li aveva comprati il Comune, che ora non potrà più farlo. Quest´anno per la prima volta abbiamo tagliato un pomeriggio di scuola alla settimana, prima si usciva sempre alle 16,30, ora al venerdì si va a casa, anche se mamma e papà lavorano. Gli alunni sono tanti, non posso obbligare tutti a lavorare più del dovuto o a fare straordinari non pagati». Se le si chiede come va con la didattica, che cosa si riesce a insegnare a una classe di 27 piccoli urlanti, la direttrice sorride: «Abbiamo insegnanti bravissimi e motivati, anche chi arriva da lontano impara l´italiano rapidamente. Semmai i problemi sono altri: i bambini disabili che non hanno abbastanza sostegno, la crisi che rende difficile per le famiglie pagare di tasca propria materiali o attività. La legge dice che la scuola dell´obbligo deve essere quella più vicina a casa, a meno che i genitori non ne scelgano un´altra sulla base dei "principi educativi". Beh, qui non capita mai…». In compenso, Nunzia Del Vento è preoccupata per i Vigili del Fuoco. Già, perché i certificati antincendio non si aggiornano con la stessa velocità del fiume di bambini che preme alle porte della scuola, e se su un certificato c´è scritto che in quell´aula ci sono 24 o 25 persone, maestra compresa, non dovrebbe essercene neppure una di più. «Alcuni di noi - spiega la direttrice, che è anche un´esponente dell´associazione sindacale dei dirigenti scolastici - non ci dormono la notte, la responsabilità civile e penale è tutta sulle nostre spalle». Chi ha tagliato con l´accetta i conti delle scuole, poi, non ha pensato che nel frattempo anche i bilanci dei Comuni precipitavano verso il basso. A Torino, dove dalle mense ai banchi, dagli scaffali alle palestre, anche nelle scuole statali, molto è stato spesso speso dalla città perché ministri e ministeri erano troppo lontani e quelle cose altrimenti non sarebbero mai arrivate, ora il problema è tangibile, e al Comune non si può più chiedere neppure un tavolino. Così, ci si arrangia: il Comune manda ancora i suoi tecnici a cambiare il senso alle porte senza spedire il conto al ministero, e continua (con fatica) a fare appalti per il servizio di mensa, ma tutti sanno che i tempi della generosità tra istituzioni sono finiti. Come una madre che ha fatto provviste, Nunzia Del Vento pensa a voce alta: «Per fortuna, due anni fa avevamo pensato di chiedere qualche tavolo in più e gli armadi chiusi dove i libri non prendono la polvere. Mi ricordo che mi ero detta ‘così ci resta un po´ di scorta´…». Per fortuna, quasi per miracolo, i portoni della Gabelli, una scuola grande come un isolato, si spalancano ogni mattina alle sette e si richiudono la sera alle sei, quando anche chi lavora fino a tardi si decide a andare a casa, quando anche l´ultimo bambino è stato preso dall´ultima mamma trafelata. E quando alle 9.55 suona la campanella del primo intervallo, fa un po´ di paura vedere quel groviglio di bambini che si precipita in corridoio, corre, spinge. È solo il 15 settembre, bisogna arrivare fino a giugno. Ma i miracoli, si sa, non si ripetono all´infinito.

Repubblica 16.9.11
Sono soprattutto le superiori a vivere l´assedio. Un fenomeno che riguarda tutto il Paese
E sui numeri è battaglia "Massimo 25". "No, 30"
Ministero e Consiglio di Stato utilizzano parametri diversi. Per Gelmini solo lo 0,6 per cento delle aule è oltre i limiti
di Corrado Zunino


Sulle classi pollaio e i ragazzi in batteria c´è un problema di cifre, e di interpretazione delle cifre. Basandosi su un dato della stagione scorsa rimodulato sulle tendenze in corso, il ministero dell´Istruzione ha detto che dalla prima elementare alla quinta liceo in Italia ci sono solo 2.108 classi (su 350 mila) con oltre trenta studenti stipati. Rappresentano lo 0,6 per cento e coinvolgono 63.240 ragazze e ragazzi. Insiste la Gelmini: abbiamo una media di ventidue alunni per aula, un punto sotto i paesi economicamente sviluppati. E i suoi dirigenti precisano: la soglia dei trenta è artificiosa, in alcuni casi in ventisette si sta stretti e in trentadue larghi.
Ci sono diversi problemi rispetto alle cifre pubbliche. Il ministero continua a considerare "aule sovraffollate" quelle con almeno 31 studenti. C´è una sentenza del Consiglio di Stato del 15 giugno 2011 che fissa il tetto, invece, a quota 25. Da ventisei in su, dice, è pollaio. E ci sono tre sentenze del Tar del Molise firmate a ridosso dell´anno scolastico che confermano: in aula non più di venticinque. «Non si può pregiudicare il rispetto di norme igieniche e di sicurezza». E la possibilità di ascolto della lezione. Sono 1,96 i metri quadrati necessari per ogni alunno, ma a Larino, provincia di Campobasso, c´era mezzo metro in meno. Al ministero, segnalando che sette scuole in difficoltà su dieci sono superiori, fanno sapere che per loro il numero massimo resta trenta e che della sentenza del Consiglio di Stato hanno fatto propria solo la seconda parte: «Abbiamo redatto un piano programmatico per l´edilizia scolastica, la prossima settimana distribuiremo 400 milioni alle Regioni». Per rimettere a posto le nostre scuole - una su due sono da rifare - servirebbero venti miliardi.
È probabile che un ricalcolo delle classi pollaio con la "quota 26" come riferimento offrirebbe alla Gelmini percentuali imbarazzanti. Inoltre, lo "0,6%" indicato non può essere motivo di vanto: nel 2009 le aule sovraffollate erano lo 0,4%, le cose peggiorano. E la fotografia della stagione 2011-2012 illustrerà una situazione che precipita.
Già, le indicazioni provenienti da tutta Italia sono pesanti. A Bologna, il coordinamento dei presidenti di istituto segnala che nel novanta per cento delle scuole ci sono classi con uno o due portatori di handicap e più di venti alunni. Vietato per legge. Al liceo scientifico Scacchi le aule sono tutte sopra i trenta. A Roma accorpamenti e tagli agli organici regalano "over 30" alle superiori Talete, Tacito, Kant, Virgilio. Lo scientifico D´Assisi è arrivato a quota 42, fino a quando gli studenti hanno piantato le tende e il ministero è intervenuto. Intorno ai trenta sono quasi tutte le prime. Il preside del classico Kant: «L´alternativa al pollaio era il sorteggio per mandare via alcuni ragazzi, non me la sono sentita». La dirigente del Giulio Cesare: «Con questi numeri i più deboli restano indietro e aumentano le bocciature». A Colleferro, hinterland della capitale, Istituto tecnico Cannizzaro, si gioca con la decenza: 37 alunni di cui due disabili. Molti genitori romani si sono già rivolti al Tribunale amministrativo, quattro istituti hanno ottenuto dai giudici la sospensiva.
"Over trenta" si segnalano nella provincia di Pavia e in Toscana (tutta la Valdarno, il Grossetano). A Fucecchio, un´altra malandata ragioneria, sono rientrati nell´aula (ampia peraltro) i quarantuno che avevano scioperato. Non c´erano pc per tutti, né spazio in palestra: la classe è stata spezzata in due. I 27-28 alunni per classe sono il criterio di partenza in Piemonte. Se si apre il capitolo "serali" si arriva alla quota infernale di 56: Istituto professionale Bertarelli, Milano. A Ozieri, Sassari, sono in rivolta docenti e discenti. Senza spazi sufficienti per ristrutturazioni in corso, cinque classi delle medie di Trenta, Cosenza, sono state sistemate nella sala del Consiglio comunale, nella sala degli assessori, nella sede dei vigili urbani, nella biblioteca comunale.

Repubblica 16.9.11
L´Istat: in crisi la famiglia tradizionale meno parti e matrimoni, più convivenze


ROMA - La famiglia tradizionale, composta da marito, moglie e figli, è in crisi. Nel 2009 corrispondeva al 36,4% delle famiglie, quando solo pochi anni prima (nel 1998) arrivava a quota 46,2%. Al contempo sono sempre più numerosi invece gli italiani che scelgono di vivere da single (non vedovi) o che decidono di convivere senza sposarsi. Lo rivela l´Istat nel report diffuso ieri sul cambiamento delle forme familiari in Italia. Un «cambiamento» che abbraccia 6 milioni e 866 mila famiglie, il 20% della popolazione totale. Le coppie che convivono sono soprattutto giovani e abitano per lo più in una casa in affitto.

Repubblica 16.9.11
Mr WikiLeaks: "Continuiamo le nostre ricerche L´obiettivo: i segreti del Vaticano e degli Anni di piombo"
"Così sveleremo l’Assurdistan-Italia”
"Chi non vorrebbe mettere le mani sugli archivi della Chiesa? Le gerarchie ecclesiastiche sopravviverebbero?"
di Julian Assange


"Se ci accadesse qualcosa, diffonderemmo una serie di documenti criptati"
"Non abbiamo la bacchetta magica ma lavoriamo per concretizzare un sogno"

Il testo che segue è tratto dalla prefazione al libro "Dossier WikiLeaks. Segreti italiani" di Stefania Maurizi, giornalista del settimanale "L´Espresso"

Niente sembrava poter scalfire il muro di segreti che nasconde gli affaracci di banche e multinazionali, i crimini di eserciti che uccidono senza rendere conto a nessuno, il potere di sette religiose capaci di plagiare milioni di persone.
Molti pensano a noi come al prodotto di una rivoluzione tecnologica. È vero. Senza Internet, non esisteremmo neppure. Ma l´essenza di WikiLeaks è qualcosa di profondamente connaturato nell´uomo: è il desiderio di arrivare a scoprire la verità e di obbligare chi ha il potere a risponderne, senza potersi nascondere dietro il segreto. Noi siamo convinti che non ci sia democrazia laddove ci sono archivi pieni di verità inconfessabili.
Negli ultimi cinque anni abbiamo subito attacchi micidiali. Per proteggere il nostro staff e le nostre infrastrutture, abbiamo rilasciato una serie di file criptati che sono la nostra assicurazione. Se dovesse accaderci qualcosa di veramente grave, tale da compromettere la capacità di pubblicare i documenti che abbiamo in mano, diffonderemo le password necessarie per aprire quei file. Abbiamo sentito opinionisti di destra della Fox di Rupert Murdoch invitare gli ascoltatori dal grilletto facile - che, purtroppo, in America non mancano - «a sparare a quel figlio di puttana [di Assange]», ma abbiamo anche sentito intellettuali liberal liquidarci come degli estremisti irresponsabili. Quella che ad oggi risulta non pervenuta è una forte presa di posizione da parte dei media e delle élite colte contro la dilagante segretezza in cui stanno affondando le democrazie occidentali. Secondo l´Information Security Oversight Office, che supervisiona le politiche di secretazione e desecretazione nel governo e nell´industria Usa, nel 2010 i costi del segreto di stato in America hanno raggiunto i 10,17 miliardi di dollari, una cifra che non include le spese per le agenzie di intelligence (Cia, Nsa, Nga, ecc.), che nessuno conosce perché sono riservate.
Neppure la pubblicazione di Collateral Murder è stata una sveglia per quei liberal che ci accusano di avere un´agenda irresponsabile. In quel video si vedeva un elicottero americano Apache che a Bagdad sterminava civili innocenti, tra cui due giornalisti dell´agenzia internazionale Reuters. Fin dal giorno dell´attacco, Reuters aveva cercato di ottenere una copia di quel documento, ma, nonostante tutti i mezzi e i contatti, non c´era riuscita. Non è un´esagerazione dire che, senza il coraggio della fonte che ci ha fatto filtrare quel video, sarebbe stato impossibile scoprire la verità su quella strage in tempi ragionevoli.
Oggi la nostra lista dei desideri continua a essere lunghissima. E c´è anche l´Italia. Chi non vorrebbe mettere le mani sugli archivi del Vaticano? Duemila anni di segreti di una monarchia assoluta di ottocento abitanti, che influenza le vite di un miliardo e trecento milioni di persone nel mondo. Immaginiamo di poter riversare l´intero archivio in un database elettronico ricercabile per parole chiave: le gerarchie ecclesiastiche sopravviverebbero a questo "megaleak"?
Sull´Italia, una delle prime "soffiate" che abbiamo ricevuto è stato un file audio che ricostruiva il presunto ruolo dei servizi segreti nella crisi dei rifiuti di Napoli. Era un documento che rivelava dettagli inquietanti su uno scandalo che aveva fatto il giro del mondo. Per questo nell´agosto del 2009 lo consegnammo a Stefania Maurizi de l´Espresso, che alcuni mesi prima aveva iniziato a interessarsi al nostro lavoro. Poi la collaborazione è andata avanti e anche i cablo della diplomazia americana hanno fatto emergere storie importanti. In uno dei cablogrammi, l´ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, mette nero su bianco il suo giudizio sul controverso premier, Silvio Berlusconi. «Ha danneggiato la reputazione dell´Italia in Europa», scrive il diplomatico al Segretario di Stato, Hillary Clinton, «e ha dato un tono disgraziatamente comico alla reputazione del Paese in molti settori del governo americano». Eppure Washington continua a supportarlo, perché l´Italia di Berlusconi «rimane un posto eccellente per fare i nostri affari politici e militari», mentre all´estero è sempre più percepita come un Assurdistan.
Negli ultimi mesi ci siamo resi conto di avere un forte supporto anche in Italia, dove il Quarto Potere sembra essere messo molto male. Secondo la classifica della Freedom House, nel 2011 perfino la Serbia e il Benin hanno superato Roma in materia di libertà di stampa e, insieme con la Bulgaria e la Romania, l´Italia rimane l´unica nazione europea ad avere una stampa solo "parzialmente libera".
Lavorando con Stefania Maurizi, abbiamo saputo che tra gli Anni ´60 e ´90 il paese si è ritrovato al centro di trame oscure, che hanno ordinato stragi in cui hanno perso la vita centinaia di cittadini italiani. Quaranta anni dopo, quei massacri restano avvolti nel mistero, perché i documenti segreti sono ancora off limits. Non è difficile immaginare i ricatti e gli scambi inconfessabili fioriti all´ombra di quegli archivi, che hanno seriamente minato la democrazia italiana.
Molti dei nostri sostenitori guardano a WikiLeaks come a una sorta di deus ex machina, che può far piazza pulita della segretezza che minaccia le democrazie e ingrassa i regimi. Non abbiamo la bacchetta magica. Ma lavoriamo per concretizzare un sogno. E quando si fa quello che si predica, altre persone si aggregano e supportano la lotta. Molti condividono i nostri valori e ci hanno aiutato. Il coraggio è contagioso. Anche nell´Assurdistan.

l’Unità 16.9.11
«A Israele dico: accetti uno Stato palestinese sulle frontiere del ’67»
Per il Premio Nobel per la Pace «C’è ancora tempo prima del voto
al Palazzo di Vetro per ridare spazio al negoziato, investendo sul futuro»
di Umberto De Giovannangeli


Resto convinto che la vera catastrofe per Israele sarebbe non rilanciare con convinzione il negoziato di pace che porti alla costituzione di uno Stato palestinese. La non nascita di questo Stato sarebbe la vera catastrofe per Israele». Il suo contributo risultò decisivo per giungere agli accordi di Camp David (1979) che sancirono la pace fra Israele e l’Egitto. Nel 2002 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Jimmy Carter per le sue posizioni critiche rispetto all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi è stato tacciato di «simpatie pro-Hamas». Perchè ha osato scrivere che la politica di Israele nei Territori è «un sistema di apartheid, con due popoli che occupano lo stesso Paese ma che sono completamente separati l’uno dall’altro, con gli israeliani che dominano, opprimono e privano i palestinesi dei loro diritti umani basilari». Nel recente passato, Carter Usa ha cercato di svolgere un ruolo di «pacificatore» nella martoriata Terrasanta. Ora gli occhi del mondo sono puntati sull’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si aprirà il prossimo 20 settembre a New York: in quella sede, il 23 settembre, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) presenterà la richiesta per il riconoscimento dello Stato di Palestina entro i confini del 1967.
Presidente, qual è la sua posizione in merito a questo passaggio cruciale nell’eterno conflitto israelo-palestinese?
«Non è una decisione facile da prendere. Per quanto mi riguarda, resto convinto di due cose: la prima, è che la vera catastrofe per Israele sarebbe non rilanciare con convinzione il negoziato di pace che porti alla costituzione di uno Stato palestinese; la seconda convinzione, strettamente legata alla prima, è che la non nascita di questo Stato sarebbe la vera catastrofe per Israele».
Come calare queste considerazioni nel dibattito che avrà una sua concretizzazione al Palazzo di Vetro? «In alternativa alla situazione di stallo attuale, a malincuore penso che si debba sostenere la mossa palestinese per ottenere il riconoscimento del proprio Stato alle Nazioni Unite. La speranza è che in questi giorni che ci separano dal 23 settembre possano determinarsi fatti sostanziali che permettano la ripresa del negoziato: la dirigenza palestinese ha lasciato aperto uno spiraglio su cui la diplomazia internazionale dovrebbe agire. Il tempo ci sarebbe ancora...».
Riconoscere lo Stato palestinese è una scelta che va fatta anche se a “malincuore”. Perché?
«Perché è la registrazione di un gravissimo stallo negoziale, di cui francamente è difficile sostenere che le responsabilità maggiori siano della dirigenza palestinese. Certo, meglio sarebbe portare avanti una proposta di pace globale e dettagliata dell’amministrazione Obama, ma in questo momento occorre riconoscere che i palestinesi hanno poche opzioni alternative. Resto convinto che l’opzione dei due Stati sia ancora la migliore, quella su cui concentrare tutti gli sforzi diplomatici. Ciò implica un "dare e avere" da parte di tutti. Di Israele, che dovrà riconoscere una Palestina indipendente su gran parte dei territori occupati nel 1967. Dei palestinesi, che dovranno accettare un ragionevole compromesso sul diritto al ritorno dei profughi del ’48. E da parte dei vicini arabi, che dovranno riconoscere il diritto di Israele a esistere in pace. Per nessuno dei soggetti in questione la pace può essere a costo zero. E questo discorso mantiene la sua validità qualunque sarà la decisione che verrà assunta al Palazzo di Vetro. Per quanto riguarda il mio Paese, avrei preferito un voto favorevole, ma non credo proprio che ciò accadrà».
Signor Presidente, perché la non nascita di uno Stato palestinese sarebbe la vera catastrofe per Israele. Su cosa fonda questa considerazione?
«Sulle tre opzioni alternative conseguenti alla soluzione di un solo Stato. Ognunadiquesteopzioniavrebbericadute catastrofiche sul futuro di Israele e sulla stabilità dell’intero Medio Oriente.La prima opzione sarebbe quella di espellere forzatamente centinaia di migliaia di palestinesi dalla Cisgiordania, il che significherebbe attuare una vera e propria pulizia etnica. La seconda opzione è quella di negare ai palestinesi la parità dei diritti di cittadinanza, a partire dal diritto di voto. Ciò significherebbe imporre un vero e proprio regime di apartheid. La terza opzione: quella di riconoscere ai palestinesi parità di cittadinanza e dunque il diritto di voto».
Cosa c’è di catastrofico per Israele in questa opzione?
«La fine di Israele come Stato ebraico, ovvero l’autocancellazione di uno dei pilastri che sono a fondamento della nascita dello Stato d’Israele: il suo essere focolaio nazionale del popolo ebraico. Mi sembrano considerazioni realistiche, mosse da una sincera amicizia verso il popolo d’Israele. La politica sarebbe con ogni probabilità orientata dai palestinesi, più compatti rispetto agli israeliani che appaiono al proprio interno maggiormente divisi, e grazie alla crescita demografica maggioritari sul piano numerico in un futuro non lontano E contro la "bomba demografica" Non c’è Barriera di sicurezza e potenza militare che tengano. La nascita di uno Stato di Palestina in un quadro di garanzie negoziate è un investimento d’Israele sul proprio futuro».
Molto si discute sulla “Primavera araba”. C’è chi sostiene che siamo già entrati in una fase involutiva, di controrivoluzione. Un sogno si è infranto? «La Primavera araba ha portato la speranza per la democrazia e la libertà nella Regione. E’ stata questa, la richiesta di diritti, di libertà, la leva delle rivolte in Tunisia come in Egitto. Quelle piazze hanno dimostrato che esistono dei valori universali che vanno poi calati nelle rispettive realtà. Siamo entrati nella fase della transizione e vedo anch’io i rischi di un arretramento. Ma quella speranza non è venuta meno. Molto dipenderà dalla convinzione con cui la Comunità internazionale, in particolare Usa ed Europa, sosterranno le forze del cambiamento in Medio Oriente e nel Nord Africa».
C’è il rischio che l’irrisolta “questione palestinese” possa essere usata dagli integralisti islamici per rilanciare lo scontro con Israele e assumere la guida della “Primavera araba”?
«Il rischio esiste ma continuo a credere che la “Primavera araba” possa ancora innescare un processo positivo che possa favorire il cambiamento anche nella prospettiva di un accordo di pace fra Israeliani e Palestinesi. Vedo un legame tra la soluzione della “questione palestinese” e lo sviluppo del processo democratico nel mondo arabo. Ma questa prospettiva sarebbe più concreta e ravvicinata se Israele si ritirasse dai territori occupati. Sarebbe un atto di coraggio e di lungimiranza e non certo una “resa al nemico».

La Stampa 16.9.11
Intervista a Dan Meridor, ministro per l’Intelligence e tra i più stretti consiglieri di Netanyahu
“Sì allo Stato palestinese ma solo con i negoziati”
“Un errore l’azione all’Onu”
di Francesca Paci


In questi giorni la Knesset sembra un fortino inaccessibile che controlla la regione dalle alture di Gerusalemme. «Non è un momento semplice», ammette il ministro dei Servizi segreti Dan Meridor, consigliere strategico di Bibi Netanyahu e parte del fidatissimo gruppo degli otto cui il premier israeliano ricorre per ragionare sugli sviluppi della crisi con la Turchia.

Il premier turco Erdogan ha affermato che riconoscere lo Stato di Palestina è un dovere. Cosa significa per Israele, a pochi giorni dall’appello di Abu Mazen all’Onu?

«Uno Stato Palestinese dev’essere stabilito, ma la via è il negoziato e non il riconoscimento di uno Stato che non esiste. È necessario sedersi, discutere i confini, concordare la sicurezza. Nessun attore esterno può imporre nulla, neppure l’Onu».
Il problema è il negoziato, bloccatosi con l’uscita di scena del premier Olmert. Non è così?
«Sfortunatamente negli ultimi tre anni i palestinesi hanno sempre rifiutato la mano che Israele ha teso loro. Con Olmert potevano ottenere il 100% di quanto chiedevano e invece rilanciavano, dicevano che sarebbero tornati al tavolo delle trattative e non sono tornati. Eravamo d’accordo sui due Stati ma loro non erano d’accordo sul chiuderla lì, non volevano smettere di reclamare, insistevano su quello che chiamano il diritto al ritorno ed è assurdo. Che l’Onu possa riconoscere lo Stato di Palestina senza chiedere conto di cosa avverrà in seguito è un grave errore. Il giorno dopo che Israele acconsentisse alla nascita dello Stato palestinese ricomincerebbero a chiedere».
Lo stallo negoziale sta diventando un problema regionale. Le compagnie low cost hanno interrotto i voli tra Tel Aviv e la Turchia. Come finirà?
«I charter Tel Aviv-Antalya sono stati sospesi perché la gente non partiva più. Con Ankara abbiamo difficoltà commerciali, che credo riusciremo a recuperare, e difficoltà politiche. Erdogan corre la sua corsa personale indipendente dai palestinesi. Il rapporto della Commissione Palmer funzionava tutto sommato sia per Israele che per la Turchia: criticava lo spiegamento “eccessivo” delle nostre forze ma concludeva che il blocco di Gaza era legittimo. Era un inizio per parlare e invece Erdogan ha voluto attaccarci. Confido nel disgelo perché è nell’interesse di entrambi».
La Commissione Palmer consigliava anche a Israele «un’adeguata manifestazione di rammarico». Molti si domandano cosa costasse chiedere scusa, se poteva salvaguardare la stabilità regionale.
«Ho un punto di vista diverso, ma mi limito ai fatti. Israele si è scusato. Insisto, però: il rapporto Palmer ha anche riconosciuto la legittimità del blocco. La storia doveva finire lì».
Invece i rapporti con Ankara sono pessimi, l’Egitto ringhia, l’ex direttore dell’intelligence saudita «consiglia» agli Usa di non bloccare la richiesta di Abu Mazen all’Onu, la Giordania trema al punto che re Adbullah ha ribadito l’esistenza di uno Stato palestinese fuori dei propri confini e Israele ha evacuato l’ambasciata ad Amman. Come uscirete dall’isolamento?
«Il Medio Oriente sta andando verso un grande terremoto regionale e nessuno ne conosce l’esito. Egitto, Siria, Libia, tutti evocano lo Stato palestinese ma il vero problema è il cambio dei loro regimi, un’incognita. L’Arabia Saudita parla, ma dovrebbe condividere con Israele la preoccupazione per la nuclearizzazione dell’Iran...».
Non crede che la nascita dello Stato palestinese aiuterebbe?
«Non lo so, ma noi siamo pronti al negoziato, purtroppo non abbiamo un partner. Capisco che Abu Mazen abbia problemi di leadership con Hamas, ma è il nostro unico interlocutore».
Cosa farete quando i palestinesi si presenteranno all’Onu?
«Vedremo cosa decideranno le Nazioni Unite. Non sarà un momento semplice. La pressione internazionale non aiuta, anzi. Noi e i palestinesi dobbiamo sederci e parlare».
Eppure basta guidare per le strade della Cisgiordania per notare che le colonie ebraiche sono in aumento. Non è così?
«Noi ci siamo fermati per dieci mesi, ricorda la moratoria? Ma i palestinesi non hanno voluto chiudere il conflitto e i negoziati si sono arenati. Ora Israele non può impedire a nessuno di comprare una casa solo perché è ebreo: questo è irrealistico».

La Stampa 16.9.11
Intervista
Yehoshua: si fa presto a dire letteratura ebraica
“Oggi i problemi di noi israeliani sono altri: il nostro Paese, la pace, la sicurezza, la giustizia, i rapporti con i palestinesi”
di Mario Baudino


Festival al Vecchio Ghetto di Roma Abraham Yehoshua (qui in un disegno di Paolo Galetto) inaugura domani (ore 21, Tempio di Adriano) il IV Festival internazionale di letteratura ebraica, in scena fino al 21 settembre al Vecchio Ghetto di Roma (programma completo su www.festivaletteraturaebraica.it). Il nuovo libro di Yehoshua, La scena perduta , uscirà da Einaudi a fine novembre

La letteratura ebraica non è quel che in genere si immagina: non è tutta la letteratura scritta da ebrei, ma quella scritta da ebrei e che riguarda temi ebraici. Kafka non fa parte di quest’ambito, e tanto meno Proust. Giorgio Bassani, invece, sì. Abraham Yehoshua, domani, ne parlerà a Roma, nel fine settimana dedicato al festival della cultura ebraica. Ma questa distinzione che fa il grande scrittore israeliano non è solo tecnica, va al di là di un ragionamento di critica o storia letteraria. È noto che varie volte Yehoshua ha espresso la propria ferma opinione che per gli scrittori ebrei di tutto il mondo sarebbe importante familiarizzarsi con l’ebraico, proprio come ogni intellettuale, nel Medioevo, conosceva il latino. Anche per superare una certa disattenzione reciproca fra gli ebrei di Israele e quelli della diaspora.
Intende dire che la letteratura ebraica, che è stata così importante per la nostra cultura, dà segni di stanchezza?
«Per me come israeliano la letteratura ebraica non è così fondamentale, anche se ovviamente quella israeliana è parte di essa. O almeno, non lo è in Israele, dove i problemi sono diversi, e magari si guarda con maggiore interesse, che so, a Dostoevskij o Faulkner. La letteratura della diaspora nasce da scrittori ebrei che agivano in un ambiente non ebreo, appunto, isolati in un mondo ostile, e quindi con un forte problema legato all’identità. Dovevano confrontarsi soprattutto con l’antisemitismo. Per noi israeliani c’è semmai il rapporto con la situazione delle minoranze che vivono nel nostro Stato, coi palestinesi per esempio. Con le minacce alla sicurezza, i problemi della pace e della giustizia. L’antisemitismo, almeno per gli scrittori, non è più il tema fondamentale».
Lo scrittore ebreo esiste ancora, in quanto tale, al di fuori di Israele?
«Sì certo. Però le voglio raccontare un aneddoto. Saul Bellow era mio amico. E si chiacchierava del fatto che si sentiva sempre più infastidito al sentirsi chiamare scrittore ebreo. Lui era americano. Questo dà luogo a molte riflessioni».
In che senso?
«Nel senso che io sono indubbiamente uno scrittore ebreo. Scrivo in ebraico, mi rifaccio una tradizione che per me è importantissima, anche se non più delle altre, non più per esempio di Dante Alighieri, ma è la mia, quella della mia lingua. La letteratura ebraica in senso lato resta significativa, ma non come è stata fino alla seconda guerra mondiale, o subito dopo, basti pensare alla riflessione sull’Olocausto. Ora il problema esistenziale, dico dell’esistenza stessa degli ebrei e della loro cultura, è sentito in maniera diversa. È Israele il nodo centrale».
È questo secondo lei il motivo della straordinaria fioritura della letteratura israeliana?
«È ciò che si impone, e attrae l’attenzione di tutto il mondo. Siamo un piccolo Paese con 6 milioni di abitanti, ma la nostra letteratura interessa a tutti».
Come lo spiega?
«Perché questa letteratura parla di una società moderna e democratica che combatte per la sua vita e la sua legittimazione».
E questo è uno di quei problemi che riguardano appunto tutti?
«Le faccio un esempio italiano, di un autore a me molto caro. Leonardo Sciascia affronta il tema della mafia. Ora per questo è molto interessante, perché la mafia non riguarda solo la Sicilia, ma tutta l’Italia. E non solo l’Italia, anche Israele».
Lei si è espresso varie volte per una letteratura «impegnata», dove l’impegno consiste nell’affrontare temi sostanzialmente etici attraverso la narrazione. Ritiene che il successo degli scrittori israeliani nasca da questa forma di impegno?
«Per molti aspetti sì. La situazione del Medio Oriente pone domande cruciali, cui bisogna rispondere».
Sembra quasi che valga la formula: più problemi, più letteratura. Non è del tutto confortante.
«Se guardiamo all’Europa, vediamo una grandissima letteratura proprio al tempo dei totalitarismi. Fra il 1918 e il 1939 c’è stata una eccezionale creatività. Scrittori giganteschi, da Thomas Mann a Kafka, a Pirandello. L’Europa bruciava e la creazione diventava sempre più importante».
Una società calma, stabile, ordinata, esprime una cultura mediocre? Lei darebbe la grande letteratura israeliana in cambio della pace?
«A me basterebbe che per qualche mese almeno non si dovesse menzionare Israele sui giornali di tutto il mondo».

Manconi: «considerare con la massima libertà e duttilità il fondamentale contributo del pensiero cattolico alla definizione della identità individuale contemporanea»
l’Unità 16.9.11
Sorpresa, il personalismo può rifondare la sinistra
di Luigi Manconi


Due decenni fa questo termine sarebbe stato guardato con sospetto. Oggi, per fortuna, è tornato ad essere il perno delle iniziative sociali e legislative in tema di diritti e di libertà individuali

Grazie al cielo non c’è stato bisogno di alcuna cruenta guerra culturale o di una feroce controversia ideologica per far sì che nel vocabolario politico e nel discorso pubblico il termine persona venisse accolto a pieno titolo. Questo va ricordato perché, appena due decenni fa, quella stessa parola sarebbe stata guardata con perplessità.
Non dico osteggiata, ma certo vista con sospetto, in quanto troppo profondamente denotata sotto il profilo storico e culturale-religioso. Questa acquisita maggiore elasticità mentale è un positivo segno dei tempi, che ci consente di abbandonare alcuni tabù linguistici e di conseguenza (si spera) gli stereotipi costruitivi sopra.
Persona, va da sé, richiama irresistibilmente il personalismo ovvero lo dico in estrema sintesi quella corrente di pensiero che pone al centro dell’universo dei valori e dell’azione la persona umana. Il personalismo una filosofia non un sistema, sottolineava Jacque Maritain ha una sua origine, una sua prima definizione (con Charles Renouvier) e un certo numero di autorevoli pensatori (dallo stesso Maritain a Paul-Ludwing, Max Scheler, Romano Guardini e, in particolare, a Emmanuel Mounier), ma qui il personalismo interessa meno in quanto orientamento filosofico e molto più in quanto ispirazione culturale e politica. Sotto questo profilo, il personalismo come centralità assoluta della persona umana ha una storia millenaria che va ricordato lo connette strettamente alla categoria di eguaglianza. Più di recente, si ritrova una significativa ascendenza, anche quando non dichiarata, nel pensiero di Antonio Rosmini, nonostante le molte differenze e persino gli aperti conflitti rintracciabili nelle due elaborazioni. Ma è proprio la complessità e anche contraddittorietà della traccia che tiene insieme la categoria di persona, come elaborata dall’asse Maritain-Mounier e come elaborata da Rosmini e da molti altri ancora, che consente oggi di considerare con la massima libertà e duttilità il fondamentale contributo del pensiero cattolico alla definizione della identità individuale contemporanea. Insomma, proprio il fatto che la riflessione cristiana e cattolica sulla persona non è un sistema compatto, ne incrementa la diffusione e ne accentua la fertilità. Cosicché oggi quella stessa riflessione, esplicitata o meno, costituisce una componente ormai acquisita dell’identità culturale della sinistra più matura: e non c’è dubbio che abbia rappresentato uno dei motivi ispiratori dei programmi sociali del riformismo europeo, a partire dalle prime politiche di Welfare.
Ma torniamo a Rosmini: si deve ancora a lui (certo non solo a lui) la modernissima concettualizzazione del nesso profondo tra corpo/soggettività, persona e diritto: «il diritto suppone primieramente una persona, un autore delle proprie azioni», perciò «la persona dell’uomo è il diritto umano sussistente». Ciò a dire che la persona nella sua prima costituzione, fondata su corpo e psiche, è la fonte e la sede dei diritti inalienabili dell’uomo e la radice stessa della libertà umana. Ecco, se partiamo da tali indicazioni e da ciò che il personalismo novecentesco ha successivamente elaborato con una particolare valorizzazione della corporeità si può giungere ad accogliere il concetto di persona come quello decisivo per una ridefinizione dell’agire sociale e dell’azione politica nelle società contemporanee. Tutto questo a prescindere dalle altre implicazioni proprie del personalismo come filosofia dotata di una profonda matrice religiosa; e a prescindere, soprattutto, dalla dimensione conflittuale dello scontro ideologico che, nella seconda metà del Novecento, ha portato quella filosofia alla contrapposizione, spesso assai aspra, nei confronti del marxismo.
Ciò che conta oggi, per chi ha ancora fiducia nella politica, e vuole sottrarsi sia alle tentazioni sincretistiche che alle dispute filologiche (saranno i filosofi a dedicarsi a queste ultime), è il ruolo della persona umana. E il nesso indissolubile tra coscienza e responsabilità sociale. Non è questione oziosa: la politica contemporanea va in tutt’altra direzione e si manifesta o come rappresentanza di “solidarietà corte” e interessi organizzati (lobbies e corporazioni, sindacati e ordini) o come residuale espressione di gruppi sociali (movimenti collettivi e lavoro precario, segmenti di territorio e fasce generazionali). Questi soggetti che chiedono e talvolta ottengono rappresentanza sono spesso meritevoli di tutela e, pertanto, l’errore non consiste nel volerne proiettare le domande sulla sfera politica. L’errore risiede, piuttosto, nell’incapacità pressoché generalizzata di partire proprio dal nucleo essenziale della loro costituzione materiale. E dalla politica che lì si può fondare. Ovvero la politica come proiezione nella sfera pubblica delle domande di diritto e di libertà che nascono dalla persona. I bisogni umani che trovano, appunto, nella persona la loro fondazione e la loro legittimazione come diritto richiedono una tutela che solo la politica può garantire. Oggi più che mai.
Dunque, la centralità della persona è la qualità possibile della politica contemporanea, nell’epoca dell’individualismo e nelle società liquide. Inutile inseguire rappresentanze di classe, pericoloso assecondare tutele di corporazione. È la persona umana che fonda la politica e la sua ricostruzione e ridefinizione a partire dall’individuo come premessa di una identità condivisa che, a questo punto, può anche essere di gruppo sociale e persino “di classe”, nella sua antica accezione. Che quanto fin qui detto sia tutt’altro che astrazione, è agevolmente dimostrabile. Due questioni cruciali della politica contemporanea, non solo in Italia, rimandano puntualmente a quel rapporto prima indicato tra corpo/soggettività, persona e diritto. Le tematiche di “fine vita” e, dunque, il Testamento biologico, l’autodeterminazione del paziente, la libertà di cura, la “sovranità su di sé e sul proprio corpo” da lì discendono; ma anche l’habeas corpus, le garanzie individuali, l’immunità del recluso e l’irriducibilità dei suoi diritti fondamentali, a quel rapporto rimandano. E lo rendono più che mai attuale e urgente.

l’Unità 16.9.11
Le nostre città? Sono nate per nostalgia
Da Caino e Abele alle metropoli Al FestivalFilosofia lo studioso spagnolo affronterà il tema dell’abitare citando i miti della creazione: l’umanità ha innalzato edifici, violando la Terra, in segno di sfida al Paradiso perduto
di Felix Duque


Ogni ordine sociale espelle la natura nella quale esso stesso si è costituito. E tuttavia, sono forse lo stesso «terra» e «natura»? Il trionfo dell’artefatto, che coincide con il dominio quasi assoluto dell’intelligenza meccanizzata o della macchina intelligente sugli esseri intramondani, può cedere il posto all’abitare? (...) Non sarà necessario, per cominciare, concepire in altro modo l’industria edilizia, un tempo chiamata «architettura» (con la sua estensione civica: l’«urbanistica»)? Un compito difficile, questo, e forse dissennato. Ma per tentare di portarlo a termine, può essere conveniente retrocedere all’origine mitica della città, esposta nei grandi racconti cosmogonici e antropogonici fondatori della nostra cultura. In essi ci si imbatte, frontalmente, non senza stupore, in un’assenza: in essi non si fa menzione, infatti, dell’abitazione dell’uomo come donazione divina. Questa compare in ogni caso solo dopo, come risultato o anticipazione di un crimine. Così, nell’origine stessa della Città, secondo quanto ci è stato trasmesso miticamente, brilla l’opposizione al Théos e, al contempo, si mette in rilievo il suo debito verso la Tecnica. Una cosa è perciò chiara fin dall’inizio: la città degli uomini non è una donazione del dio, bensì un atto di ribellione contro di esso (come se dicessimo: un rifiuto di seguire istruzioni già scritte e prescritte in un codice genetico); un atto tecnico, che ha bisogno della connivenza segreta della forza sostenitrice della terra (disprezzata giustamente nei frutti e nei doni da parte del Signore). La Città non prolunga il Giardino: si erge contro di esso. Per verificarlo, basta aprire dall’inizio il libro nel quale, secondo l’Occidente, sono radunati tutti i libri.
Nel Genesi si dice: «Piantò poi Iahvé Dio un giardino nell’Eden, verso oriente, e lì pose l’uomo che aveva formato». Il giardino, l’oasi, è limitato orizzontalmente dal deserto (o meglio, il deserto Eden solo quando viene piantato al suo centro il giardino appare come tale per la prima volta: viene così determinato, definito) e verticalmente è coperto dalla volta celeste. Solo dopo la cacciata dal paradiso e il posteriore assassinio del nomade Abele troviamo il primo riferimento ad una città, legata non solo a quel fratricidio, ma soprattutto ad un’arguzia tecnica per evitare la maledizione di Iahvé, per evitare il destino.
Dio aveva infatti deciso di rinnegare il tratto distintivo di Caino: la vita sedentaria del contadino. Lo avverte infatti che quando coltiverà la terra, essa gli negherà i suoi frutti e aggiunge: «vagherai per essa fuggiasco ed errante». E tuttavia, contro l’esplicita volontà divina, il contadino Caino non solo non si «riconverte» alla vita nomade del pastore (nomade e pastore sarà invece il nuovo Abele: Abramo, fondatore del Popolo Eletto), bensì «lontano dalla presenza del Signore» mette le radici nel doppio senso della parola: fa un figlio e fonda una città (la prima): «Esso (Caino) si mise a costruire una città, alla quale diede il nome di Enoc, suo figlio».
E così, l’uomo Caino (l’uomo di città, «civilizzato») stabilisce la sua dimora sub contrario: contro la terra che secondo la maledizione divina gli avrebbe negato i frutti -, e contro il cielo ostile e minaccioso. Letteralmente, l’abitazione umana si erge da allora, sfidante, in mezzo all’inospite (lo spaesante: ciò che rinnega ogni paese e ogni paesaggio). Per un verso, la prima città è stata edificata proprio per separarsi verticalmente dal cielo, attraverso la costruzione e la copertura delle case, come difesa contro un cielo che non sarà mai più protettore. Per altro verso, la città si espande orizzontalmente, separandosi dall’altro, dalla terra che da allora sarà sfruttata e allontanata, attraverso una cerchia divisoria, con delle mura difensive (si noti che, in inglese, town, «città», ha la stessa origine del termine tedesco zaun, «cerchia»).
Orbene, da questo asse derivano tre riflessioni. La prima riguarda la terra, che viene obbligata a ripiegarsi su se stessa e contro se stessa, per così dire, creando in questo modo una differenza tra città e campagna. Nasce così la «natura», contrapposta al mondo degli uomini, cioè la «cultura» e la «storia». Una volta proiettata questa distinzione sul mondo delle cose, ne segue un’altra, che rimanda alla mano e allo sguardo dell’uomo, ovvero la distinzione tra il naturale (che conterrebbe in sé il principio del proprio movimento) e l’artificiale (ciò che è creato, modificato e messo in moto dalla violenza tecnica).
La seconda riflessione implica l’arguzia del postporre: se ogni individuo naturale deve morire, le stirpi invece si vorranno immortali come la città che costruiscono (per il greco, la pólis è lo zoôn megistón, l’«essere vivente» più alto, presumibilmente perché non morirà). Ma l’assoggettamento continuo della natura da parte della cultura e della storia umana (ovvero, il predominio della linea evolutiva della perfezione contro il tempo ciclico delle stagioni), porterà al sogno della congiunzione della Città cosmica (Cosmópolis), abitata da un’Umanità unificata.
La terza riflessione riguarda immediatamente il nostro argomento: l’abitante della città non abita la terra. Anzi, al contrario, crede di rinnegarla. Infatti, aprire un luogo implica una divisione, un’incrinatura nel continuum della chôra, della mobile nutrice del territorio, trasformata dall’azione dell’urbanizzazione. Da allora, sia nell’interno rinnegato che nella campagna asservita (i contadini) si procede alla deforestazione, all’incendio e alla distruzione di antichi luoghi fisici e spirituali (e, spesso, alla distruzione e alla sottomissione delle genti che lì vivevano). Quindi, sarà sempre troppo tardi tranne per la cattiva coscienza e il pentimento, tardivo per definizione abitare la terra come se fosse la prima volta. Abitare nella città implica violentare la terra.
È forse allora impossibile abitare la terra a meno che non si torni ad una presunta natura vergine? Oppure al cielo promesso? Ma si noti ciò che ho detto: come se fosse la prima volta. Non sarà questo sogno di tornare all’origine, questo sogno di purezza, ciò che ci impedisce anche solo di immaginare come andrebbe abitata la terra? (...)
APERTO-CHIUSO
Che cosa brama, infatti, l’uomo di città, cioè tendenzialmente ognuno di noi? Ovviamente, brama il contrario dell’Aperto senza limite: brama la negazione e la lottizzazione, la determinazione e la distribuzione. Perché solo in questa primigenia agrometria si può dare la luce del giorno, la vita sociale, il tempo della storia. Perciò, prendendone le misure, aspira a trasformare la natura in paese, il territorio in paesaggio: ciò che lo circonda, insomma, in medio ambiente. Ma proprio per questo deve riconoscere che l’abitazione umana si erge in mezzo all’Unheimlich, in mezzo allo spaesante (ciò che è fuori da ogni paese e da ogni paesaggio; in tedesco: Wildnis, il selvaggio). E tuttavia, essendo animale di terra (Adamo di Eden), l’uomo cela dentro di sé la nostalgia animale: la nostalgia di qualcosa di perduto già da sempre: l’affermazione pura. (...)Solo che oggi, e in modo certamente patetico e perfino comico (sensu hegeliano), questa nostalgia si è scissa nei due ambiti cosmici: l’una si dirige verso la costruzione di una città legata ad una natura ben disposta, nel senso volgare dell’Eden; l’altra tende verso la città che, come Babele, possa raggiungere il cielo. Da una parte, la città inserita in una natura-pastiche, trasformata artificialmente in «vergine», come nel caso dei villaggi-vacanze in paesi esotici. Dall’altra, la città-movimento: Metropoli. Entrambi i movimenti convergono nelle megalopoli attuali.
©Consorzio per il festivalfilosofia (Traduzione di Valerio Rocco)

il Fatto Saturno 16.9.11
Caravaggio Export
di Tomaso Montanari


«WE SHIP worldwide»: spetta al ministro Giancarlo Galan decidere se de-v’essere questo il motto di un Ministero per i Beniculturaliridottoaunadittadimaldestri spedizionieri. L’ennesimo caso di strumentalizzazione politica del nostro martoriato patrimonio artistico riguarda l’incredibile Caravaggio en Cuba, un’improbabile mostra prevista per il 25 settembre all’Avana.
La mostra non si basa su un progetto scientifico serio, ma è frutto del marketing del Direttore generale per la Valorizzazione del Mi-BAC, Mario Resca (ex Mac Donald’s), convinto che non si debbano portare le persone davanti alle opere, ma che siano i “capolavori” a dover stare in moto perpetuo. Così, dopo la Velatadi Raffaello a Milwaukee, la Tempesta di Giorgione a San Pietroburgo e proprio mentre l’arcivescovo di Firenze cerca di spedire Giotto a Mosca, siamo arrivati a Caravaggio en Cuba. Di questo passo vedremo presto i Bronzi di Riace a Singapore, Cimabue in Bolivia e Canova in Somalia.
Nel frattempo, la trappola cubana rivela il caos in cui questo turbinio di spedizioni ha precipitato il MiBAC. Siamo di fronte al primo caso in cui la mostra viene presentata alla stampa prima che l’iter delle autorizzazioni sia compiuto: e tutto questo a pochi giorni dall’imballaggio dei quadri. Mercoledì scorso, poco dopo che i sottosegretari Vincenzo Scotti (Esteri) e Riccardo Villari (Mibac) avevano concluso una trionfante conferenza stampa, il Comitato tecnico scientifico ha espresso un parere negativo sui prestiti: e non solo per il clamoroso ritardo con cui la pratica è arrivata (un ritardo che impedisce ripensamenti e aggiustamenti), ma soprattutto perché la mostra svuoterebbe indecente-mente le sale appena riaperte di Palazzo Barberini, portando via il meraviglioso Narciso attribuito a Caravaggio, oltre a quadri di Artemisia Gentileschi, Cagnacci, Manfredi, Saraceni, Borgianni e altri ancora.La parola è dunque al ministro, il quale disse, insediandosi, che i musei e i monumenti avrebbero contato più degli eventi. Ora tutti coloro che hanno a cuore la tutela del patrimonio e il rispetto delle regole sperano che Galan avrà la forza di mettere in pratica quegli ottimi principi: bloccando Caravaggio en Cuba.

Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri)
il Fatto Saturno 16.9.11
Globalmente fuori di testa
di Andrea Tagliapietra


PARANOIA, PRIMA DI ESSERE un termine della psichiatria moderna dal significato tanto ampio quanto scientificamente controverso, è una parola greca, composta dalla preposizione parà, che può essere resa con il nostro “oltre”, e dal nome del pensiero, il nous dei filosofi. Così nella paranoia risuonerebbe la metafora di quell’andar fuori di testa che traduce, nel gergo quotidiano, l’evento della pazzia. Tuttavia parà in greco significa anche “presso”, “accanto”, sicché il termine paranoia ci suggerisce una più sottile e inquietante etimologia: quella di una follia che, lungi dall’appariscenza iperbolica dell’eccesso furioso o dalla lunatica lontananza della demenza, sta “a fianco” della ragione, ne segue i passi come un’ombra, finanche adottandone l’ordine, la struttura sistematica e l’arrogante pretesa di poter fornire sempre una risposta. Come avviene, per esempio, nel lucido delirio dell’Otello di Shakespeare, là dove, suggeriva il filosofo Stanley Cavell, cogliamo la personificazione della ragione alle prese con il problema dell’altro. La razionalità al quadrato dello scetticismo, allora, sarebbe una specie di paranoia della ragione, che rifiuta la propria imperfezione, i limiti interni ed esterni che la istituiscono, conseguendo un’amara vittoria di Pirro: il ripudio stesso del sapere. Ritroviamo il Moro di Venezia in chiusura del volume di Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri). Otello è la vittima tormentata di quel sospetto radicale – il sussurro di Iago – che nega che gli altri siano quello che sembrano. La sua gelosia descrive la scena moderna della paranoia come un delirio metodico e coerente, che si evolve lasciando integre le restanti funzioni mentali. Così la paranoia ci appare quasi una «continuazione del nostro pensare normale, più precisamente del nostro bisogno di spiegazioni». All’inizio del ’700 il Robinson di Defoe afferma di essersi sentito più solo per le vie di Londra che nella sua isola deserta, rivelandoci la radice moderna della paranoia. Quando le solitudini impaurite e sospettose dei singoli fanno gruppo e si appellano ad ataviche identità rassicuranti, alle comunità immaginarie del sangue e del suolo, ecco che la paranoia passa dal piano individuale e clinico a quello culturale e collettivo. Essa è quella banalità del male che ha scritto le pagine più sanguinose della storia del XX secolo, tragicamente segnato dalle personalità paranoidi di Hitler e di Stalin, e dominato dai grandi dispositivi paranoici della massificazione e della mercificazione consumistica. La paranoia collettiva ha, per Zoja, la caratteristica virale di un’“infezione psichica” per cui una società o un gruppo rinuncia alle proprie responsabilità, trasferendo con una “proiezione persecutoria” ogni colpa sui “nemici”. Essa attraversa le guerre calde e fredde, i nazionalismi, i populismi, i fascismi e i comunismi. Giunge fino a quell’11 settembre 2001 in cui alla paranoia dei kamikaze islamici si è contrapposta quella della “guerra al terrore” di G.W. Bush, puntellata da un tipico castello di bugie paranoiche, ossia resistenti a ogni smentita, come quella delle famigerate armi di distruzione di massa. Una volta decisa l’azione, a lungo bloccata dall’esitazione del dubbio, la paranoia scatta come la molla di un meccanismo automatico, scoprendosi in preda a una fretta inarrestabile, a un’accelerazione che travolge tutto e, quindi, anche se stessa. Come sembra accadere nella catastrofe finanziaria che stiamo vivendo.
Qui è forse possibile, portando il nostro discorso oltre il libro di Zoja, intravvedere uno sviluppo esponenziale della paranoia collettiva connesso con l’indifferenza emotiva della ragione calcolatrice e con il fenomeno spettrale della globalizzazione, che rende gli altri esseri viventi tutt’altro che “prossimi”, ma anzi piuttosto simili a quel mandarino cinese profetizzato da Balzac, di cui possiamo provocare impunemente la morte lontana, traendone in cambio lucrosi vantaggi. Così, in nome di un sistema economico che confligge con la natura finita delle risorse del pianeta, dell’umanità stessa e delle sue differenze concrete, si inventano “nemici della crescita” o fantomatici “speculatori” per spiegare la violenza di una crisi di cui, in ultima analisi, gli unici responsabili sono i medesimi attori umani divenuti, come diceva quel Marx che sopravvive a ogni marxismo, inconsapevoli maschere del capitale.

Corriere della Sera 16.9.11
Postmoderno
Addio alla storia, relativismo, dubbio: tutte facce del progresso
di Giuseppe Galasso


Sorte infelice, quella del postmoderno. Sorto come posizione settoriale, fra artisti e architetti, si era presto allargato ad altri campi, facendo molto rumore specie in filosofia, dove sembrava, una ventina di anni fa, che dovesse segnare chissà quale svolta. Poi, in filosofia quasi non se ne parla più, e ora si dice spesso che è finito. La causa del decesso? Inghiottito dal moderno, di cui predicava il superamento, dicono gli esperti del tema, e, sembra, senza eredità rilevanti.
La vicenda appare più interessante per la modernità che per il postmoderno. Questo è stato, in fondo, solo uno dei tanti attacchi alla modernità susseguitisi non si sa più da quando, e neppure il più velenoso. Nel '900 si giunse a rimpiangere «il mondo che abbiamo perduto». C'era una volta il mondo premoderno fatto di forti certezze di antica sedimentazione quanto a valori morali e comunitari, a relazioni umane e sociali, a scansioni del tempo e delle stagioni, a pratiche produttive e mercantili, a senso della vita e della morte, e a tanti altri fisici e metafisici connotati della realtà e della vita. Eccoci, invece, col moderno, in un mondo dai connotati opposti: relativismo, incertezze, insicurezze e simile compagnia cantante di un vissuto oscillante per lo più tra alienazione e angoscia, ma anche tra altri dilemmi non meno laceranti, senza regole condivise nell'atteggiarsi e comportarsi, e quindi forzatamente portato o alla latitanza morale e sociale o all'esaltazione sfrenata che distrugge se stessa.
Il vecchio mondo ce lo aveva fatto perdere la modernità. La quale, però, già da tempo, mentre veniva esaltata per innumeri ragioni, e soprattutto in nome del progresso, ossia del mito forse più modernizzante d'ogni altro, era stata posta in dubbio e guardata con crescente diffidenza, fino ad apparire tanto equivoca e dannosa da essere spesso condannata e ripudiata.
Fu un seguito impressionante. La crisi dell'idea di progresso incubò e partorì la crisi dell'idea e del valore della storia. Il vecchio «tutto scorre», tutto cambia, si era mutato in un convinto «tutto avanza», progredisce e migliora. Ma ben presto cominciò il cammino inverso: il mondo va avanti e peggiora. Dall'idea dello stato di natura come condizione perfetta e felice dell'uomo e delle cose si è giunti all'integralismo ecologico e animalista (ora è superato anche lo stadio vegetariano: si predica quello vegetaliano). Il progresso tecnico e scientifico appare letale e inaccettabile per poco che ci allontani dalla naturalità non solo per l'uomo, ma per tutta la realtà.
Questi termini sono volutamente forzati per rendere più evidente e più netto un aspetto eminente del problema, anche se non si può certo dire che tutto da cinque secoli a questa parte si giochi sull'antitesi fra moderno e antimoderno. Tuttavia, in quei termini è senz'altro il nocciolo dei dilemmi che hanno agitato e agitano l'essere e l'esistere dell'uomo nei tempi moderni, pur se molte esperienze dimostrano che la modernità non ha alternative nel suo tempo. E ciò a prescindere da ogni discorso sui valori, sui problemi di biologia e di genetica o di manipolazione estetica o funzionale e sui tanti altri problemi sorti nel frattempo, nonché dalle contraddizioni frequenti e gravi di modernisti e antimodernisti.
È un male? Per nulla. Del resto, ha pure un suo significato quello che si potrebbe definire l'antimodernismo modernizzante, che evoca l'atomo pulito, le pale eoliche (discutibili e discusse per il paesaggio e per altre forme di danno ecologico) e le energie alternative perché solo naturali, e così via. È l'antimodernismo, si può anche dire, di un «progresso senza avventure», come una volta si diceva di certe idee e strategie politiche. Vuol dire, crediamo, che modernità e progresso non si possono facilmente esorcizzare, ma anche che nell'antimoderno può esservi qualcosa che neppure il moderno può rifiutare. E allora: la logica del progresso (modernità) è limitabile o condizionabile a nostro avviso e facoltà? La via della modernità, una volta intrapresa, può essere altrimenti orientata?
Sono interrogativi moderni. E bisogna convincersi che solo la modernità, che li ha posti, può dare ad essi risposte, se non persuasive e definitive, almeno plausibili, praticabili e accettabili sia ai fini dell'enorme e irrinunciabile progresso non solo materiale (anche in qualità e gioia del vivere) datoci dalla modernità, sia ai fini del «vivere bene» nell'alto senso morale e civile di questo vivere nel pensiero antico e nel moderno umanesimo.

Repubblica 16.9.11
Il Festival della filosofia nel segno della natura


MODENA - È "Natura" il tema dell´edizione 2011 dell´undicesimo Festival Filosofia diretto da Michelina Borsari, che si svolge a Modena, Carpi e Sassuolo da oggi a domenica. Lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche: gli appuntamenti sono quasi 200 e tutti gratuiti. La manifestazione lo scorso anno ha registrato oltre 170 mila presenze. Piazze, chiese e cortili ospitano le oltre 50 lezioni magistrali del festival, che vede quest´anno tra i protagonisti Marc Augé, Zygmunt Bauman, Enzo Bianchi, Edoardo Boncinelli, Massimo Cacciari, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, Carlo Galli, Stefano Rodotà, Salvatore Settis, Emanuele Severino, Vandana Shiva e Remo Bodei, presidente del Comitato scientifico del Consorzio che promuove il festival. Il programma completo è su www.festivalfilosofia.it.

giovedì 15 settembre 2011

Corriere della Sera 15.9.11
Una situazione insostenibile
di Massimo Franco


Dire che la situazione rimane in bilico, a questo punto, non basta più. Ieri, in qualche misura, il governo ha fatto un salto di qualità in negativo: al punto che c'è da chiedersi quanto possa andare avanti senza provocare danni seri all'Italia. La maggioranza è riuscita nel miracolo di approvare la manovra economica richiesta dalla Banca centrale europea senza quasi poterla rivendicare. E il risultato è passato in secondo piano non tanto perché i numeri parlamentari sono stati meno trionfali del passato.
A farlo scivolare nell'ombra è stato piuttosto lo scontro pubblico fra Palazzo Chigi e la Procura di Napoli sull'interrogatorio di Silvio Berlusconi; e quello invisibile, ma inquietante, fra il Quirinale e un presidente del Consiglio che per qualche ora ha accarezzato l'ipotesi di un decreto per impedire d'autorità la pubblicazione delle intercettazioni: anche se la presidenza della Repubblica tace, e Palazzo Chigi smentisce. I tafferugli provocati da un manipolo di estremisti dei Cobas davanti al Parlamento, dispersi dalle forze dell'ordine, aggiungono un tocco sinistro alla giornata. Lasciano capire che qualcuno comincia a soffiare in modo irresponsabile su una situazione ai limiti della sostenibilità.
Quelle scene di assedio alla Camera dei deputati dovrebbero imporre a tutte le forze politiche una condanna senza riserve e calcoli strumentali. Ma rimane l'immagine di un centrodestra incapace di dimostrare l'affidabilità e la serietà che l'opinione pubblica e i mercati finanziari pretendono. Dopo avere costruito una trincea ideologica intorno all'articolo 8 sulla flessibilità del mercato del lavoro, ieri il governo si è impegnato a modificarlo, accogliendo un ordine del giorno dell'opposizione. E sono riemerse ipotesi di condono fiscale ed edilizio per mano di un partito che si definisce, ironia della sorte, dei «Responsabili».
Provvedimenti tanto necessari quanto controversi nel prevedere più tasse che tagli alla spesa, sono stati approvati in una cornice di confusione e di tensione. E hanno offerto un'occasione ghiotta non solo agli speculatori ma anche alle agenzie di rating che potrebbero declassare finanziariamente l'Italia, già nei prossimi giorni. Sono scenari che il ripiegamento del governo su se stesso e sui problemi personali e giudiziari del presidente del Consiglio non scongiura, ma dilata. Si può comprendere il nervosismo di Berlusconi per lo stillicidio delle intercettazioni sul ricatto che ha subìto.
Ma pensare di schivare l'interrogatorio con i magistrati che vogliono conoscere la sua verità, finisce per insinuare un sospetto sulla linea di difesa del premier: tanto più se spunta la tentazione di ricorrere a soluzioni già percorse nel passato, e saggiamente abbandonate come forzature inaccettabili. Forse, più lucidità e riflessione, e meno precipitazione, consentirebbero alla coalizione berlusconiana di non commettere altri errori; e di non moltiplicare i fronti di guerra senza avere una percezione esatta della propria forza, e soprattutto della propria debolezza. Anche perché in questi giorni la fragilità del governo si riflette drammaticamente sull'Italia e sulla sua economia. E può determinare conseguenze pesanti delle quali la maggioranza dovrà dare conto anche all'elettorato.


Repubblica 15.9.11
Se chi non paga le tasse mette a rischio la società
di Giorgio Ruffolo


Le discussioni sulla manovra economica riportano in primo piano una pratica che oltre a incidere sui conti pubblici genera sfiducia reciproca tra i cittadini
Negli ultimi anni dell´Impero i romani si rifugiavano presso i barbari per tentare di sfuggire alla presa degli esattori
In Europa siamo superati solo dalla Grecia, gli altri paesi si attestano su livelli molto inferiori ai nostri

Gli antichi romani evadevano il fisco? Negli ultimi tempi dell´impero lo facevano rifugiandosi persino presso i barbari, pur di non cadere nelle grinfie degli esattori. In un libro recente sull´impatto delle tasse sulla civiltà umana uno storico americano attribuisce alla schiacciante pressione fiscale la responsabilità principale della caduta dell´impero romano.
Nell´Italia di oggi gli evasori hanno vita molto meno ardua. Non è necessario rifugiarsi nell´inferno dei barbari. Basta che depositino i loro soldi nei paradisi fiscali; oppure ricorrano a pensionati e nullatenenti nostrani. Il 53 per cento dei contratti di locazione, spesso non registrati, delle ville di Porto Cervo, Forte dei Marmi, Porto Rotondo, Rapallo, Capri, Sabaudia, Panarea, Portofino, Taormina e Amalfi sono intestati a pensionati con la social card, prestanome di ignoti non-contribuenti.
Così fiorisce l´evasione fiscale italiana, una delle più ricche del mondo. Secondo le più recenti stime dell´Istat l´economia sommersa in Italia ha raggiunto nel 2008 circa 275 miliardi di euro pari al 17,5 per cento del Pil. Di questi si stima che 230 miliardi siano propriamente evasione fiscale, con un mancato gettito di 120 miliardi: più del doppio della "manovra" in corso.
L´Agenzia delle Entrate ha stimato che l´evasione riguarda in particolar modo il terziario e il settore delle costruzioni, dove arriva al 60 per cento del reddito.
È più elevata al Sud, dove raggiunge il 50%, il doppio del Nord in termini relativi, mentre quest´ultimo prevale ovviamente in termini assoluti.
In Europa l´evasione fiscale italiana è preceduta soltanto di pochissimo dalla Grecia con il 20 per cento; è poco più di quella inglese mentre nei riguardi degli altri paesi registra un differenziale che è in media di 10 punti: 11 per cento in Germania, 7 per cento in Francia, 4 per cento in Danimarca, 4 per cento in Spagna e Portogallo (!), 3 per cento in Svezia.
Il differenziale italiano con gli altri paesi è rimasto stabile negli ultimi venti anni, mentre si sono rinnovate con puntuale insistenza le promesse di decine di governi di combattere l´evasione fiscale. Quanto alla capacità del governo di "mettere le mani in tasca agli italiani", secondo la simpatica definizione berlusconiana, dopo una breve flessione, il "prelievo" berlusconiano delle tasche ha ripreso vigore dal 2008.
Quanto all´Iva, un recente studio promosso dalla Commissione di Bruxelles stima un´evasione di imponibile italiano del 22 per cento contro il 9 per cento in Germania e il 7 in Francia (30 per cento in Grecia).
Quanto ai rapporti tra fisco e contribuenti, dunque, l´Italia non eccelle per reciproca stima.
Altri paesi, soprattutto quelli scandinavi, hanno da tempo raggiunto uno stadio di convivenza civile,
Quei rapporti hanno attraversato nella storia fasi alterne e tempestose.
S´è detto dei romani. Se si prescinde dai catastrofici ultimi secoli la pressione fiscale nei secoli della repubblica e nei primi dell´impero si era mantenuta entro livelli moderati come lo era stata in genere durante tutta l´antichità. La patologia di quel rapporto non stava, nell´antichità, nell´altezza della pressione fiscale ordinaria ma nelle frequenti guerre, con il loro contorno di stragi, violenze, schiavitù e rapine. L´economia romana non era alimentata dalle entrate fiscali regolari, ma dal flusso continuo di prelievi violenti sulle popolazioni sottomesse. Fu a partire dalla fine di quei prelievi che quell´economia di rapina entrò in crisi.
Nel Medioevo un vero e proprio sistema fiscale neppure esisteva. I prelievi ordinari erano lasciati alla consuetudine o all´arbitrio. Gravavano essenzialmente sulle rendite fondiarie.
Nei primi Stati nazionali il prelievo fiscale dei governi era percepito con il consenso dei sudditi come in Inghilterra, attraverso il sistema parlamentare, o con l´autorità sostenuta dalla forza come sempre più spesso in Francia. La causa fondamentale del prelievo era il finanziamento delle guerre ma anche dei consumi dell´aristocrazia. Negli Stati nazionali della modernità il peso politico delle nuove classi popolari e l´avvento della democrazia hanno spostato l´asse del prelievo fiscale dagli impieghi militari alle spese sociali, mentre lo sviluppo del capitalismo premeva perché quelle risorse fossero destinate al finanziamento di investimenti produttivi. Le due destinazioni non sono affatto conflittuali, sono complementari: il capitalismo ha bisogno di una vasta infrastruttura sociale e quest´ultima è inconcepibile senza un´adeguata produzione di ricchezza.
È in questo spazio sociale che si insinua lo sfruttamento dell´evasore fiscale.
L´evasore fiscale, facendo mancare risorse allo Stato, pregiudica entrambe le funzioni, quella capitalistica e quella amministrativa, campando a scrocco. È, in senso proprio, un "magnaccia", che mette le mani nelle tasche dei cittadini.
Ma la responsabilità dell´evasione fiscale non sta tutta sulle spalle degli evasori. Anche su quelle dei governi. Non parlo solo delle dichiarazioni di benevolenza (Je vous ai compris) del Premier.
Parlo soprattutto della selva dei condoni delle esenzioni degli "scudi" che hanno abituato gli evasori all´idea che il gioco è truccato.

Repubblica 15.9.11
La minaccia dell’articolo 8
di Luciano Gallino


I commenti all´articolo 8 del decreto sulla manovra finanziaria hanno insistito per lo più sul rischio che esso faciliti i licenziamenti, rendendo di fatto inefficace l´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori allorché si realizzino "specifiche intese" tra sindacati e azienda. È stato sicuramente utile richiamare l´attenzione prima di tutto su tale rischio, di importanza cruciale per i lavoratori. Tuttavia un´attenzione non minore dovrebbe essere rivolta ad altre parti dell´articolo 8 che lasciano intravvedere un grave peggioramento delle condizioni di lavoro di chiunque abbia o voglia avere un´occupazione alle dipendenze di un´azienda.
Vediamo dunque che cosa potrebbe succedere ad un lavoratore (o lavoratrice) che già è occupato in un´azienda, oppure stia trattando la propria assunzione, laddove associazioni dei lavoratori rappresentative sul piano nazionale o territoriale abbiano sottoscritto con quell´azienda le "specifiche intese" previste dall´articolo 8. Sappia in primo luogo l´interessato che – se ci sono state delle intese in merito – ogni suo movimento sul lavoro sarà controllato istante per istante da un impianto audiovisivo. L´articolo 4 dello Statuto dei lavoratori lo vieterebbe, ma l´articolo 8 del decreto permette di derogarvi. Gradirebbe forse, quel lavoratore, un orario intorno alle 40 ore? Se lo tolga dalla testa. In forza di un´altra "specifica intesa", entro quell´azienda l´orario normale è di 60 ore, il limite massimo posto da una direttiva della Commissione europea, limite che per particolari mansioni può salire a 65; però, in forza della stessa intesa, può in qualche mese scendere a 20. Vorrebbe essere classificato come operaio specializzato, come lo è da tanti anni? Gli viene fatta presente un´altra intesa, stando alla quale quell´azienda può attribuire a uno specializzato la qualifica di operaio generico: prendere o lasciare. Può anche accadergli, dopo qualche tempo, che l´azienda gli proponga di convertire il contratto di lavoro a tempo indeterminato in un contratto da collaboratore a progetto rinnovabile, se garba all´azienda, di tre mesi in tre mesi. Un contratto grazie al quale si ritroverebbe a lavorare nella veste di un autonomo - tali essendo i collaboratori a progetto - che deve effettuare la sua prestazione con tutti i vincoli del lavoratore subordinato, a partire dall´orario e dai controlli audiovisivi, ma senza fruire dei benefici che questi hanno, tipo avere per contratto le ferie retribuite.
Le situazioni lavorative sopra indicate non sono illazioni gratuite. Se le parole del decreto hanno un senso, sono tutte situazioni rese materialmente e immediatamente possibili, nel caso in cui l´articolo 8 diventi legge, dai punti che vanno da a) (concernente gli audiovisivi) fino ad e) (riguardanti le modalità del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni) del comma 2 dell´articolo in questione. Con un minimo impegno se ne possono individuare innumerevoli altre; quale, per dire, un´organizzazione del lavoro che abolisca del tutto le pause sulle catene di produzione, o introduca operazioni di dieci secondi da ripetere seicento volte l´ora.
La giungla di situazioni lavorative in cui qualsiasi lavoratore o lavoratrice potrebbe trovarsi sommerso è resa possibile dal comma 2-bis (o 3 che sia, nell´ultima versione). Tale comma costituisce un mostro giuridico quale la Repubblica italiana non aveva mai visto concepire dai suoi legislatori. Infatti esso permette nientemeno che di derogare, ove si siano stipulate le suddette intese tra associazioni dei lavoratori o le loro rappresentanze sindacali operanti in azienda, dalle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2. Non qualcuna: tutte. Al riguardo la formulazione dell´articolo 8 non lascia dubbi: esso mira a stabilire per legge che è realmente possibile derogare da tutte le leggi che hanno finora disciplinato le materie sopra elencate. Dette leggi comprendono non soltanto lo Statuto dei Lavoratori del 1970, il pacchetto Treu del 1997, la legge 30 del 2003 con il successivo decreto attuativo (emanati dalla stessa maggioranza di governo), ma pure le centinaia di disposizioni legislative introdotte dagli anni 60 in poi che si trovano citate in calce a ogni manuale di diritto del lavoro (si veda ad esempio quello del compianto Massimo Roccella). Oltre che ignorare, ma per il governo attuale son piccolezze, gli articoli 3 e 39 della Costituzione.
Di fronte a una simile mostruosità, eventuali accordi tra i sindacati confederali che si impegnassero a rifiutare ogni deroga di quella parte dell´articolo 8 riguardante i licenziamenti senza giusta causa del comma 2 sarebbero evidentemente scritti sull´acqua (a parte l´amenità di sottoscrivere di corsa una deroga a un decreto millederoghe). Per un verso perché rappezzare il vulnus dell´articolo 18 dello Statuto sarebbe certamente utile; ma al prezzo di accettare il gravissimo stravolgimento di tutte le regole concernenti l´organizzazione del lavoro e della produzione che il decreto pretende di introdurre. Per un altro verso, l´ambiguo comma 1 spalanca palesemente la porta a ogni genere di degrado dell´attività dei sindacati: dalla contrattazione sindacale al ribasso (nota fattispecie del diritto del lavoro), alla formazione di mille sigle locali, alla concreta possibilità che anche rappresentanze sindacali delle maggiori confederazioni cedano sul piano locale a pressioni, lusinghe, o calcoli di convenienza. A sommesso avviso di chi scrive, l´articolo 8 del decreto sulla manovra economica non è in alcun modo emendabile o assoggettabile a pattuizioni. Se non si vuole far fare un salto indietro di mezzo secolo alla nostra civiltà del lavoro, va semplicemente cancellato.

Corriere della Sera 15.9.11
La storia (immaginaria) di Irene spiega perché l'articolo 8 non funziona
di Pietro Ichino


Caro direttore, chi è preoccupato per la sorte dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori può dormire sonni tranquilli, anche se l'articolo 8 del decreto di Ferragosto consente ai contratti aziendali di derogare alla legge. Nessuna impresa potrà fondare un piano industriale serio, né una qualsiasi scelta organizzativa destinata a durare, su di una deroga contrattata in azienda all'articolo 18. Provo a spiegarne il perché, raccontando un caso immaginario — ma per nulla irrealistico — di applicazione della nuova norma.
Ottobre 2014. A dispetto del suo nome, Irene è furibonda: le è stata appena consegnata dal ragioniere una lettera di licenziamento «per riduzione dell'attività produttiva aziendale»; ma in realtà lei sa che l'hanno licenziata perché la titolare non era affatto soddisfatta del suo rendimento. All'ufficio vertenze del suo sindacato l'avvocato cerca di tranquillizzarla: «Impugniamo subito in Tribunale, vedrà che la faccio rientrare in azienda con tutti gli onori e anche con un buon indennizzo. L'azienda ha 80 dipendenti e si applica l'articolo 18 dello Statuto».
Ma Irene non è affatto tranquilla, perché nel settembre 2011, poco prima che lei venisse assunta, in azienda il rappresentante dell'altro sindacato aveva firmato un accordo che dice: «a norma dell'art. 8 del d.l. n. 138/2011, al fine di consentire un incremento dei livelli occupazionali e di facilitare le assunzioni di nuovo personale in forma regolare, migliorando la qualità dei rapporti di lavoro, si conviene che per tutti i rapporti di lavoro destinati a costituirsi in futuro, in caso di licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato, l'impresa avrà la facoltà di scegliere tra l'applicazione della reintegrazione del lavoratore licenziato nel suo posto di lavoro e il risarcimento nella misura prevista dalla legge».
«Sulla base di questo contratto — dice Irene all'avvocato — anche se vinceremo la causa l'azienda potrà comunque lasciarmi a casa. Ma le pare ammissibile che un sindacato a cui io non sono iscritta e che ha soltanto otto aderenti in azienda possa togliermi un diritto che mi è dato dalla legge dello Stato?».
«Abbia fiducia — insiste il legale — so quel che dico: vedrà che riavrà il suo posto, e anche il risarcimento».
Una settimana dopo viene presentato al giudice del lavoro il ricorso, nel quale si osserva che il sindacato firmatario dell'accordo aveva sì due deleghe in più rispetto all'unico altro sindacato presente in azienda; ma quest'ultimo aveva in realtà altri tre iscritti che avevano pagato direttamente la tessera senza rilasciare la delega alla direzione aziendale. In ogni caso — sostiene l'avvocato di Irene — nessuna legge può attribuire efficacia erga omnes a un contratto collettivo, neppure di livello aziendale, se non nelle forme previste dall'articolo 39 della Costituzione: viene dunque sollevata anche una questione di costituzionalità della nuova norma. Infine — si legge ancora nel ricorso — anche a voler considerare costituzionale la nuova norma, nel caso specifico il contratto non può considerarsi finalizzato al miglioramento della qualità dei rapporti di lavoro, come la norma stessa richiede, perché esso anzi riduce con tutta evidenza la stabilità dei lavoratori.
«Vedrà — dice l'avvocato — che almeno una di queste ragioni il Tribunale la accoglierà. E se non l'accoglierà il Tribunale la accoglierà la Corte d'Appello, o la Cassazione, o la Corte costituzionale. E più lunga sarà la causa, maggiore sarà il risarcimento che accompagnerà la sua reintegrazione».
Intanto, però, in azienda a seguito del licenziamento di Irene è stata convocata un'assemblea, nella quale si è svolta una discussione molto accesa. Al termine, il rappresentante del sindacato che aveva firmato l'accordo si è dimesso, anche perché il triennio della sua carica era ormai agli sgoccioli. Viene designato il nuovo rappresentante, il quale, come primo atto, invia alla direzione aziendale una lettera di recesso dall'accordo del settembre 2011.
«E ora?» — chiede Irene all'avvocato. «Ora lei può stare ancora più tranquilla di prima. Non abbiamo più nemmeno il problema di sostenere la nullità di quell'accordo, perché è stato disdetto: torna ad applicarsi integralmente l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori».
La realtà è che la profonda riscrittura del diritto del lavoro, di cui il Paese ha urgente bisogno, richiede un disegno organico e un legislatore che se ne assuma la responsabilità: non la si può delegare alla contrattazione aziendale, lavandosene le mani.

il Riformista 15.9.11Le ragioni della Cgil
Lettera al Riformista
di Susanna Camusso

qui

il Riformista 15.9.11
Ricercate l’unità
di Emanuele Macaluso

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La Stampa 21.5.11
La manovra è legge
Per gli italiani un conto di 5 mila euro a famiglia
Via fra due settimane all’aumento dell’Iva al 21%
di Raffaello Masci


Pagheremo tutto più caro e se la cosa ci deprime, ci sia di qualche consolazione sapere che anche i super ricchi (non quelli che hanno più di 300 mila euro l’anno, ma quelli che li dichiarano) saranno chiamati a dare un contributo straordinario e che quelli che comprano la barca intestandola a società di comodo saranno braccati. A questo quadro va aggiunto che i Comuni saranno sceriffi fiscali e incasseranno i frutti della lotta all’evasione. Mentre all’orizzonte si affaccia l’aumento dell’età pensionabile per le donne.
La manovra economica varata ieri dalla Camera a suon di fiducia, contiene una quantità di misure, ma mentre alcune produrranno effetti negli anni a venire, quelle sopra accennate le vivremo sulla nostra pelle da subito, cioè dal giorno successivo alla pubblicazione del provvedimento in Gazzetta Ufficiale.
In questo quadro di lacrime e sangue, la vera mazzata arriverà dall’Iva. Nella sua aliquota ordinaria passerà dal 20 al 21 per cento, il che vuol dire un rincaro di quasi tutto: i due terzi dei generi alimentari, le calzature, l'abbigliamento, i prodotti per la pulizia della casa e quelli per l’igiene personale, gli elettrodomestici, il parrucchiere, l’automobile, e via elencando. Il governo conta di raccogliere da questa voce 4,2 miliardi e li tireremo fuori tutti noi, senza accorgercene, goccia dopo goccia. Le associazioni dei consumatori hanno protestato, quelle degli imprenditori del commercio hanno minacciato fuoco e fiamme, ma tant’è. Anche la benzina - ci assicura l’Unione petrolifera - dovrà subire un ennesimo rincaro di almeno 1,2 o 1,3 centesimi al litro, e se lo sommiamo a quello delle accise stabilito nella precedente manovra, questo scherzetto ci porterà - secondo Codacons - a spendere in carburati 79 euro in più su base annua. D’accordo - si dirà - ma il pane non aumenta. In effetti il pane - come alcuni generi alimentari di prima necessità - continuerà a godere di un’aliquota Iva del 4%. Ma - attenzione - solo il «pane tipo comune», cioè quello che la maggioranza degli italiani non mangia.
Quanto alle pensioni delle donne, nel pubblico impiego devono già andare a riposo immancabilmente a 65 anni. Anche nel privato era stato deciso di fare altrettanto, ma con una differente gradualità che ora viene accelerata: il cammino che doveva iniziare nel 2016 scatterà nel ‘14 ed entrerà a regime nel 2026 anziché nel ‘28. Risparmio stimato - ma solo alla fine - 3,9 miliardi l’anno.
E poi - vabbe’ - pagheranno anche i ricchi: chi guadagna più di 300 mila euro l’anno dovrà tirare fuori un contributo straordinario del 3% sulla cifra eccedente. Il provvedimento durerà fino a tutto il 2013, salvo proroghe se non si raggiungerà il pareggio di bilancio. Arriverà da subito anche un’addizionale del 10,5% sulle società di comodo e aumenteranno i controlli su quelle che possiedono yacht, di fatto utilizzati dai soci.
Quanto ai Comuni, diventeranno agenti delle tasse per amor di cassa: vogliono più soldi? Facciano in proprio una lotta all’evasione fiscale sul loro territorio, e si potranno tenere il 100% (non più il 50%) del ricavato.
Insomma, che ci dobbiamo aspettare? Il Centro studi degli artigiani di Mestre, che ama fare di questi conti, ha calcolato che «sommando gli effetti delle manovre di luglio e Ferragosto, il costo medio a carico di ciascuna famiglia italiana sarà di oltre 5,700 euro (precisamente 5.766) da qui al 2014».
Ah, dimenticavamo: se, malauguratamente, foste tra le 8 mila famiglie che hanno ricevuto il bonus bebè senza averne avuto titolo, avete tempo 90 giorni per restituire il maltolto.
I carburanti Anche la benzina rincarerà: di 1,2-1,3 centesimi al litro. Sommato alle nuove accise, il rincaro costringerà gli italiani a spendere 79 euro l’anno in più al distributore

Corriere della Sera 21.5.11
L’Anci fa i conti: Roma perde 450 milioni, Milano 283
Le misure peseranno per oltre 220 euro a testa su torinesi, fiorentini e napoletani
Spesa più cara per le famiglie italiane con l’aumento dell’Iva
di Mario Sensini


ROMA — Se oggi sono appena uno su dieci, dal 2012 un comune su due potrebbe essere costretto ad aumentare al massimo livello possibile le addizionali sull'Irpef. Secondo i calcoli dell'Associazione dei Comuni, la conseguenza dei tagli di 6,2 miliardi sul 2012 decisi con la manovra per l'anticipo del pareggio di bilancio, sarebbero devastanti per i sindaci, che non a caso oggi scioperano, ma soprattutto per i cittadini. Il 54,7% dei comuni, ora sono appena il 13,4%, potrebbe aumentare l'addizionale allo 0,8%. E neanche questo basterebbe a centrare gli obiettivi imposti dal governo centrale, perché la maggior parte dei Comuni, tra il 60 e l'80%, non sarebbe comunque in grado di compensare integralmente i tagli con l'aumento delle tasse. Scampato l'aumento dell'Irpef che va allo Stato, per i contribuenti si profila comunque un conto salatissimo.
A Roma, l'obiettivo di bilancio imposto ai Comuni con la manovra, si traduce in una sforbiciata al bilancio di ben 450 milioni di euro: 196 milioni di riduzione della spesa più 254 milioni di tagli ai trasferimenti che arrivano dal governo centrale. Ed il conto potrebbe salire ancora se ci fossero da compensare i tagli «risparmiati» ai comuni virtuosi, quelli che rientrano nei parametri fissati dall'esecutivo. Lo studio dell'Anci ipotizza che siano appena 230, cioè il 10% dei Comuni oltre 5 mila abitanti. Pagare anche per loro, che eviterebbero ogni sacrificio, farebbe salire il conto del Campidoglio a 472 milioni di euro: 172 euro per ogni romano.
Poca cosa, comunque, rispetto a quello che peserà la manovra antideficit sulle tasche dei milanesi, per non parlare dei veneziani, o dei piccoli e ricchi comuni turistici del Nord e del Centro Italia, quelli che spendono di più e che risulteranno i più sacrificati, visto che i nuovi obiettivi del Patto di Stabilità interno si calcolano proprio sulla spesa. A Milano la manovra 2011 costa 283 milioni di euro, che rischiano di salire a 293 se dovrà farsi carico anche dei comuni virtuosi. «Questo decreto ci mette in ginocchio» commenta il sindaco, Giuliano Pisapia, alla vigilia della giornata di protesta. Napoli dovrà far fronte a minori risorse di bilancio per 226 milioni di euro, mentre a Torino il peso della manovra sarà di 200 milioni. Per Palermo l'obiettivo di risparmio sarà di 127 milioni, a Genova di 110, a Venezia di 88 milioni, a Bologna e Firenze di 82.
La manovra peserà per 227 euro a testa sui milanesi, 236 ai napoletani, 220 euro a testa per i torinesi, 195 per i palermitani, 224 euro ai fiorentini, mentre a ciascun cittadino di Venezia l'anticipo del pareggio di bilancio al 2013 costerà, solo nel 2012, ben 327 euro, il valore più alto tra le grandi città capoluogo. Ben poca costa rispetto a quanto dovranno sopportare, come detto, i comuni più ricchi, che in proporzione spendono più degli altri. Livigno, zona extra-doganale dove tutto si acquista senza l'Iva, ha un obiettivo di risparmio di 2,8 milioni di euro, che peseranno per 483 euro su ciascun cittadino. Cortina d'Ampezzo avrà 2,5 milioni in meno, che equivalgono a 423 euro per ogni residente, Sanremo dovrà fare i conti con 22,7 milioni di euro di minori risorse (400 euro per abitante), ed i tagli peseranno per 397 euro a testa a Forte dei Marmi, 366 euro a Castiglione della Pescaia, 329 euro a Diano Marina, 260 euro a Cefalù, 251 a Santa Teresa di Gallura, 246 euro a testa a Taormina.

Corriere della Sera 15.9.11
Sono in calo le nascite Non accadeva da sedici anni


ROMA — La crisi economica svuota le tasche ma pure le culle. Per la prima volta, dopo 16 anni, le nascite in Italia sono in calo. Aumentano, tuttavia, i figli nati fuori dal matrimonio e le mamme over40. È quanto emerge dall'ultimo rapporto Istat sulla natalità della popolazione residente. I dati 2009-2010 confermano che è di nuovo in atto una fase di calo delle nascite: se i nati nel 2009 erano stati 568.857, nel 2010 sono scesi a 561.944, circa 15 mila in meno. La ripresa della natalità, avviatasi dal 1995, anno in cui si è registrato il minimo storico (526.064 nati), sembra dunque essersi interrotta. «Il fenomeno — suggerisce l'Istat — può anche essere il riflesso sui comportamenti riproduttivi degli effetti della congiuntura economica sfavorevole». Il calo delle nascite è da attribuirsi alla diminuzione dei nati da genitori entrambi italiani (25 mila in meno in due anni), mentre i nati da almeno un genitore straniero continuano ad aumentare, ma con un ritmo più contenuto. Al Nord un nato su quattro ha almeno un genitore straniero. I nomi preferiti dai neogenitori rimangono Francesco e Giulia.

La Stampa 15.9.11
L’impegno di Wen Jabao “La Cina è pronta a investire in Europa”
di Luigi Grassia


Il premier. L’obiettivo è l’industria ma l’acquisto di Bot e Btp resta una possibilità
Le reazioni in Italia.Marcegaglia (Confindustria): i loro capitali sono benvenuti però chiediamo reciprocità

Sì, è proprio vero, la Cina è pronta a sostenerci economicamente, benché (forse) non nel modo che qualcuno in Italia sperava e che per noi sarebbe il più comodo e conveniente (cioè darci tanti soldi pronta cassa e senza chiedere niente in cambio). Ieri il premier Wen Jiabao ha detto che il suo Paese «continuerà ad espandere gli investimenti in Europa, perché ha fiducia nella ripresa economica della zona dell’euro». Ma si riferiva a investimenti industriali, cioè all’acquisto di aziende. Invece non ha fatto esplicito riferimento a un eventuale, massiccio acquisto di titoli di Stato italiani, di cui si è discusso con le recenti missioni cinesi in Italia.
Però attenzione, il fatto che Wen non abbia toccato questo aspetto non vuol dire che lo escluda, anzi. Pechino è già impegnata a sostenere la Grecia, il Portogallo e la Spagna, gli altri Paesi europei in difficoltà, e il suo braccio finanziario internazionale (la China Investment Corporation) ha comunque in portafoglio molti Bot e Btp italiani e potrebbe comprarne altri. Ulteriori acquisti potrebbero concretizzarsi già con l’iniziativa congiunta degli emergenti «Brics» (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) da lanciare la prossima settimana.
Perché la Cina ci vuole dare una mano? Non è solo per interesse e non è solo per generosità, ma per quel mix ideale che è la generosità interessata. Pechino pensa di fare buoni affari comprando a basso prezzo aziende in Europa, inoltre comincia a sentirsi responsabile nei confronti del sistema economico internazionale, da cui trae tanti benefici, e vuole sostenerlo mettendo mano al portafogli, in modo da continuare a esportare in Europa anziché ritrovarsi gli acquirenti collassati sotto la crisi. Inoltre Wen ha chiesto esplicitamente all’Unione europea di riconoscere alla Cina lo status di «economia di mercato»; si tratta di una designazione tecnica che permetterebbe di rimuovere molti ostacoli alle esportazioni e agli investimenti cinesi in Europa e che agevolerebbe la vita a Pechino nelle controversie in sede di Organizzazione internazionale per il commercio (Wto).
Già che c’era Wen è pure salito in cattedra e ha ammonito i dirigenti europei a «mostrarsi all’ altezza della situazione e prendere le misure necessarie a impedire che la crisi del debito sovrano si approfondisca e si allarghi ulteriormente». «I leader dell’Ue - ha scandito - devono guardare coraggiosamente, da un punto di vista strategico, alle relazioni con la Cina».
In concreto, questo come riguarda l’Italia? Oltre a comprare Bot e Btp italiani, come sta facendo la Bce, i cinesi potrebbero comprare aziende industriali e di servizio in Italia, approfittando dei prezzi molto bassi che ci sono in Borsa. Così salverebbero aziende e posti di lavoro italiani, ma non potrebbero anche diventare invadenti? In America si è impedito ai cinesi di comprare una compagnia petrolifera, in Grecia la Cina ha acquisito il porto del Pireo suscitando consensi ma anche ansie. E da noi?
«Sono sempre stata a favore di investimenti esteri in Italia», dice la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ma avverte: «Dobbiamo fare attenzione che ci siano condizioni di reciprocità, che non ci sia solo una volontà di portare via tecnologia ma di investire seriamente. Sono a favore se noi investiamo di più in Cina e la Cina investe di più da noi».
Davide Cucino, presidente della Camera di commercio europea a Pechino e rappresentante del gruppo Fata in Cina, dice al telefono che «nell’arrivo dei cinesi in Italia come investitori vedo molti più lati positivi che negativi. Certo in Cina noi possiamo avere fino al 50% di un’impresa mentre loro in Europa possono comprare tutta la Volvo. Ma dato che Wen Jiabao vuole fondare l’espansione cinese meno sull’export e più sui consumi interni, per l’industria europea si aprono occasioni, e la stipula di un trattato bilaterale per favorire gli investimenti reciproci risolverebbe molti problemi anche al nostro insediamento in Cina». Cucino illustrerà un rapporto a Bruxelles lunedì 19 e a Roma (in Confindustria) il 22.

l’Unità 15.9.11
La minaccia di Lieberman: l’iniziativa di Abu Mazen avrà conseguenze «gravi e dure»


Il leader dell’Anp: è «una scelta irreversibile, ma non intendiamo abbandonare il dialogo»
Stato di Palestina, l’ira d’Israele Tensione in vista del voto all’Onu
A sei giorni dall’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il ministro degli Esteri israeliano, il falco Avigdor Lieberman, avverte: un sì allo Stato palestinese avrebbe «conseguenze gravi e dure».
di Umberto De Giovannangeli


Il conto alla rovescia è iniziato. E il clima si fa sempre più incandescente. Presentare all’Onu la domanda di adesione dello Stato palestinese è una decisione araba «irreversibile», rimarca dal Cairo il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen), parlando con vari media egiziani, secondo quanto scrive l'agenzia Mena, alla vigilia della sessione dell'Assemblea generale a New York la prossima settimana. Forte della benedizione del nuovo «sultano» turco Recep Tayyip Erdogan che ha incontrato ieri in riva al Nilo, Abu Mazen ha lasciato intendere che il dado è tratto. «La nostra non è una mossa unilaterale», ha puntualizzato in risposta all'accusa più in voga a Washington e a Gerusalemme. Nè significa «la fine del negoziato», ha ribadito, osservando che se l'Anp si rivolge all’Onu è proprio «perchè non ci sono negoziati» veri con il governo di Benyamin Netanyahu. «Non stiamo cercando d’isolare Israele ha ripreso il raìs e non vogliamo essere trascinati in un confronto con gli Stati Uniti»: dalle cui casse ha riconosciuto l'Anp riceve pur sempre finanziamenti annui per 470 milioni di dollari che la robusta lobby filo-israeliana al Congresso minaccia ora di mettere in discussione. Al di là degli accenti misurati, tuttavia, il concetto resta chiaro. Un passaggio al Palazzo di Vetro ci sarà, anche perchè ha notato Abu Mazen esso ha «il sostegno di una larga maggioranza di Paese».
CONTROFFENSIVA
«Da ciò che mi pare di capire, il treno palestinese per New York è già partito», ha chiosato da Tel Aviv l’emissario Onu per il Medio Oriente, Robert Serry. Qualche residuo margine, semmai, ci potrebbe essere sulle modalità. E su questo giocano i pontieri dell'ultim’ora, sguinzagliati di nuovo nella regione: dalla rappresentante della politica estera dell'Ue, Catherine Ashton, agli inviati americani David Hale e Dennis Ross, impegnati fino a oggi nell’ennesima spola fra Gerusalemme e Ramallah . Ma i margini si fanno di ora in ora più stretti, quasi inesistenti. L'obiettivo meno irrealistico, sebbene non scontato, sembra quello di provare a convincere l’Anp a rinunciare all’annunciata richiesta di
un’ammissione piena all’Onu in sede di Consiglio di Sicurezza (dove gli Usa opporrebbero il veto, ma sarebbero costretti a esporsi al discredito di fronte alle piazze di quelle «Primavere arabe» che la Casa Bianca corteggia); e accettare invece di rivolgersi alla sola Assemblea Generale, accontentandosi di guadagnare per ora alla Palestina il titolo nominale di «Stato non membro»: al pari di Vaticano o Svizzera. Un voto all’Onu sulla richiesta di riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sarebbe destinato ad avere «conseguenze gravi e dure» da parte d’Israele, avverte il ministro degli Esteri israeliano, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman. «Quello che posso dire con la più totale certezza, è che a partire da quando faranno passare una decisione unilaterale, ci saranno conseguenze dure e gravi», ha affermato Lieberman durante un discorso tenuto nel sud di Israele, senza precisare la natura di queste «conseguenze». Conseguenze che per il suo vice e alter ego, Dany Ayalon, potrebbero sfociare nella denuncia di ciò che sopravvive degli storici accordi di Oslo; in nuovi progetti edilizi senza freni nelle colonie; e persino in un «cambiamento di status» di alcuni settori della Cisgiordania: vale a dire, nella loro annessione unilaterale a Israele.
FALCHI E COLOMBE
Il ministro delle Retrovie, Matan Vilnai, voce «moderata» del governo Netanyahu, ha da parte sua affermato di ritenere che l’Anp sia in realtà ancora «divisa» almeno sulle modalità del ricorso all’Onu: divisa, a suo dire, fra chi punta a una richiesta d’ammissione piena da parte del Consiglio di Sicurezza (in sfida al veto annunciato dagli Usa) e chi invece potrebbe accettare di rivolgersi solo dell’Assemblea Generale e accontentarsi per ora del titolo di «Stato non membro». Intanto, il muro contro muro è sconfinato anche in una irrituale campagna mediatica: Israele ha lanciato su YouTube un video in cui propone la «verità sul processo di pace», affossato dall’«ostinazione araba» e dalla propaganda sulla «cosiddetta occupazione» che sarebbe «smentita dai fatti». Il filmato, ha ribattuto un irritato portavoce dell' Anp, Xavier Abu Eid, è «una caricatura con elementi razzisti» che mira a «nascondere fatti che tutto il mondo conosce come reali». La guerra mediatica è solo agli inizi. E tutti sembrano prepararsi al peggio.

il Fatto 15.9.11
La Palestina nascerà ma sarà zoppa
Abu Mazen verso il voto Onu e pronto ad accettare un compromesso
di Roberta Zunini


Nell'attesa che il 23 settembre, il Presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, presenti formalmente all'Assemblea generale delle Nazioni Unite la richiesta di riconoscimento dei territori palestinesi come di uno Stato vero e proprio - la Palestina - la comunità internazionale è in fibrillazione. Si attende per questo fine settimana di conoscere definitivamente la decisione della Francia, che anche per la sua storia sarà in grado di far pesare la mossa dell'Anp e orientare l'intera Ue. L’Italia non ha ancora fatto sapere come voterà.
“NON SO prevedere cosa potrà succedere sul terreno”, aveva detto al Fatto l'editorialista israeliano Gydeon Levi. Bisogna mettere in conto la reazione dei coloni di Gerusalemme Est e della Cisgiordania ai quali il governo israeliano avrebbe dato nuove armi, gas lacrimogeni, bombe carta e irritante. Anche i palestinesi potrebbero scendere in piazza e manifestare ma è ormai certo che lo Stato palestinese nascerà, anche se per ora solo come Stato Osservatore (come il Vaticano) e non Membro. E poi gli Stati Uniti, ponendo il veto, come ha già ribadito Obama, non saranno più credibili agli occhi dei loro alleati arabi, come la potente Arabia Saudita.
RICONOSCIMENTO L'Autorità nazionale palestinese non ha ancora deciso se presentare la richiesta prima al Consiglio di sicurezza dell'Onu e quindi all'Assemblea generale o viceversa. QualoraAbuMazendecidessedipresentarla prima ai 5 Stati permanenti del Consiglio di Sicurezza più i 10 di turno, presieduti per questo semestre dal Libano, è ormai certo che, a causa del veto Obama, lo Stato palestinese non verrà riconosciuto. Qui le decisioni devono essere prese all'unanimità. Basta il no di un singolo rappresentante per far cadere la questione. Il fatto che il Consiglio di sicurezza non dia il benestare renderà impossibile per l'Anp ottenere lo status di Stato Membro dell’Onu.
Potrà ottenere solo quello di Stato Osservatore quando, depositando la richiesta all'Assemblea otterrà il consenso perché finora c'è già l'adesione di 126 Paesi membri su 190.
L’ANP SPERA in questi giorni di arrivare a 130 per avere dalla sua parte i due terzi della Comunità internazionale, tuttavia anche 126 sono ufficienti per raggiungere almeno l'obiettivo del passaggio a Stato Membro.
Da fonti vicine all'Anp pare che il presidente Abu Mazen stia cambiando idea e sia orientato a chiedere prima il riconoscimento dell'Assemblea generale per poi arrivare davanti al Consiglio di Sicurezza con un'approvazione a larga maggioranza e rendere così ancora più evidente la posizione ambigua di Washington, che nel 2010 aveva detto di voler vedere la nascita dello Stato palestinese entro il 2011. Se Abu Mazen dovesse decidere di passare in un secondo momento per il Consiglio di Sicurezza, innervosirà ancor più Obama, costretto a porre il veto perché - a sentire fonti Usa - sotto il giogo della maggioranza repubblicana del Congresso.
STATO OSSERVATORE Passando dallo status di “entità” senza diritti a Stato Osservatore, l'Anp potrà rivolgersi con diritto al tribunale internazionale dell'Aja e negoziare con gli israeliani da una posizione più forte. Chiedendo il riconoscimento d’uno Stato Palestinese entro i confini del 1967 e Gerusalemme Est come capitale. Come Stato Osservatore non potrà imporre nulla e di certo il nodo degli insediamenti a Gerusalemme Est e Cisgiordania non verrà risolto. Ma forse con il consenso internazionale che ne riconosce almeno l'esistenza come “quasi Stato” potrà far pesare di più le proprie richieste qualora si riaprissero i negoziati di pace diretti. Prima la politica, poi la geografia.

il Fatto 15.9.11
Il precedente. Israele e la conqusita dell’Onu nel 1948


Dopo la fine del Mandato britannico, nel 1947, l'Assemblea Onu, che contava 52 Paesi membri, dopo 6 mesi di lavoro dell'Unscop (United Nations Special Committee on Palestine), il 29 novembre approvò la Risoluzione n. 181 con 33 voti a favore, 13 contro e 10 astenuti, che prevedeva la creazione di uno stato arabo (sul 42,8% del territorio e con una popolazione di 800.000 arabi e 10.000 ebrei) e di uno Stato ebraico (sul 56,4% del territorio e con una popolazione di 500.000 ebrei e 400.000 arabi). La città di Gerusalemme e i suoi dintorni (il rimanente 0,8% del territorio), con i luoghi santi alle 3 religioni monoteiste, avrebbe dovuto diventare zona separata sotto l'amministrazione Onu. Lo Stato ebraico avrebbe compreso 3 sezioni principali, collegate da incroci extraterritoriali; lo stato arabo avrebbe avuto anche un'enclave, Giaffa. L’organismo Onu stabilì che era “manifestamente impossibile” accontentare le parti. (Rob. Zun.)

Corriere della Sera 15.9.11
Il 20 il dibattito sul riconoscimento
L'Europa lacerata sullo Stato palestinese all'assemblea Onu
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Fra 5 giorni la Disunione Europea, come qualcuno la chiama beffardamente da anni, sarà chiamata a confermare o smentire questo suo nomignolo, in un palazzo di vetro a New York. Nella mattina del 20 settembre il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon aprirà infatti formalmente il dossier con la richiesta presentata dall'Anp, l'Autorità nazionale palestinese, per il riconoscimento di uno Stato sovrano di Palestina.
Se la risposta venisse demandata direttamente ai 193 Stati che siedono nell'Assemblea generale dell'Onu (non è sicuro, lungo il percorso potrebbe impantanarsi nel Consiglio di sicurezza, dove gli Stati Uniti farebbero quasi certamente valere il loro diritto di veto) allora una fra le decisioni più laceranti e drammatiche dai tempi della Seconda guerra mondiale potrebbe giocarsi su un pugno di voti: i due terzi dell'assemblea, 129, quelli necessari per approvare una risoluzione a maggioranza. E fra i voti più incerti di tutti, ci sono proprio quelli dei 27 Paesi europei. Perché sono fra le 125 e le 140 — si procede a spanne, tutti sono oggi impegnati al silenzio ufficiale — le nazioni che avrebbero già deciso, in un senso o nell'altro. Si va da Israele e dagli Usa, nella trincea del no, a quasi tutta la fetta africana e asiatica del pianeta, nella trincea del sì: pronta se non altro ad assegnare alla Palestina un ruolo di Paese osservatore non membro dell'Onu, senza diritto di voto, come il Vaticano. Questo sarebbe l'unico responso dell'assemblea che aggirerebbe in partenza il parere del Consiglio di sicurezza, e dunque le forche caudine del veto americano. E l'Europa? Fermamente concorde nel disaccordo, appunto. Con un unico principio condiviso: «Una terra, due Stati, attraverso negoziati arabo-israeliani». Ma la Palestina sovrana, e subito, con riconoscimento unilaterale da parte dell'Onu?
Risposte in ordine sparso. Spagna, Francia, Lussemburgo («La Ue non può dar nulla ai palestinesi, almeno dia loro la dignità»), Grecia, Irlanda, Svezia e altri (come la Norvegia, al di fuori della Ue) sarebbero per il sì. Germania, Italia, Olanda, Bulgaria, Repubblica Ceca e altri per il no. La Polonia sarebbe in posizione attendista. Ieri Franco Frattini, il ministro degli Esteri italiano, ha detto che davanti al ricorso palestinese bisogna «evitare una divisione della Ue», cioè «ricercare una piattaforma comune» e «facilitare le iniziative che favoriscono la ripresa urgente del dialogo». Ma ha poi aggiunto che anche l'Italia non ha ancora assunto una «posizione formale in sedi ufficiali». La scommessa è quella di ricompattare tutti, in 5 giorni. «Tutti» vuol dire anche il capo, cioè il ministro degli Esteri della Ue Catherine Ashton, che viene accreditata come filo-palestinese. E che per questo è mal guardata da quei Paesi che accettano il ragionamento proposto dal ministro delle Finanze israeliano Yuval Steinitz: chi offre sostegno a una Palestina sovrana, è motivato anche da antiche pulsioni antisemite.
Le discussioni continuano, la Disunione Europea si prepara al nuovo esame.

Corriere della Sera 15.9.11
Senza compromessi veri niente pace
L’ardua via dello Stato Palestinese
di Antonio Ferrari


L'appuntamento è all'Assemblea generale dell'Onu, tra meno di due settimane, e all'ordine del giorno c'è la volontà dei palestinesi di autoproclamarsi Stato, e quindi diventare membro effettivo delle Nazioni Unite con il sostegno della stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. Non sarà facile, anzi sarà difficilissimo, perché è vero che l'Assemblea non è il Consiglio di sicurezza, ma è anche vero che non tutti sono favorevoli ad un passo unilaterale che la controparte, cioè Israele, in queste condizioni rifiuta.
A Monaco di Baviera, all'incontro annuale promosso dalla Comunità di Sant'Egidio, già il titolo, Bound to live togheter (destinati a vivere assieme), è sembrato il più adatto a spiegare quale dovrebbe essere l'esito di un conflitto tra due diritti: e cioè avere due Stati, Israele e Palestina, che vivano l'uno accanto all'altro in pace e in sicurezza. A parole tutti sono d'accordo. Tutti vogliono la pace e tutti sono pronti a riconoscere i diritti dell'altro. A parole, appunto. Ma le parole sembrano perdersi nel labirinto delle intenzioni, perché manca la realistica volontà di trasformare le promesse in fatti.
Anche a Monaco due ministri, l'israeliano Daniel Hershkovitz e il palestinese Mahmoud Al Habash, si sono confrontati con interventi appassionati. Entrambi hanno continuato a chiedere quei «passi concreti e necessari che finora sono mancati». Tuttavia, se vogliamo dirla tutta, alla fine le distanze sono risultate quelle di sempre. Ogni volta che si cerca di guardare al futuro, ecco che le parti tornano a ricordare ossessivamente l'ingombrante fardello del passato.
Neppure la fresca ventata delle primavere arabe, che sta coinvolgendo anche i giovani di Israele, ha portato significativi contributi di novità. Da una parte si accusa Israele di non rispettare le risoluzioni dell'Onu, e di continuare ad espandere gli insediamenti; dall'altra si ricorda la costante campagna d'odio contro lo Stato ebraico, e da ultimo l'assalto all'ambasciata israeliana al Cairo. La pace è possibile, d'accordo, ma nessuno vuole imboccare davvero il binario del compromesso, che significa sacrifici e rinunce da parte di entrambi. Ce la farà questa generazione? È più che lecito dubitarne.

Corriere della Sera 15.9.11
Ebrei in Palestina. Breve storia demografica
risponde Sergio Romano


Purtroppo verifico quasi costantemente che le sue risposte alle mie lettere portano il lettore alla conclusione che il solo (o nella migliore delle ipotesi il maggiore responsabile) dell'esplosiva situazione in Medio Oriente sia Israele, mentre le povere vittime innocenti siano i palestinesi. Ma lei non può ignorare che Israele non deve assolutamente essere descritto come un intruso in una terra non sua, sia per la millenaria presenza ebraica sul territorio molto prima che esistessero i palestinesi e l'Islam stesso, sia in quanto Nazione sancita dall'Onu.
Franco Cohen

Caro Cohen,
La sua lettera è molto più lunga e propone temi di discussione che lei avrà certamente occasione di sollevare in altri momenti. Ma nel passaggio pubblicato vi sono almeno due osservazioni che meritano una risposta particolare.
Non credo che Israele sia un intruso. La terra su cui ha costruito il suo Stato gli appartiene, anzitutto, per il modo in cui il suo popolo ha saputo difenderla e trasformarla. Questo è il suo vero «titolo di proprietà». Sulla millenaria presenza ebraica in Palestina, invece, temo di avere opinioni diverse dalle sue.
Agli inizi dell'Ottocento, molto prima dell'inizio degli insediamenti sionisti, vivevano in Palestina, secondo Benny Morris («Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001», Rizzoli 2001), «tra 275.000 e 300.000 abitanti, per il 90% arabi musulmani, cui si aggiungevano da 7.000 a 10.000 ebrei e da 20.000 a 30.000 arabi cristiani». La piccola minoranza ebraica era una sorta di simbolico presidio religioso composto da pochi commercianti, qualche artigiano e da un maggior numero di persone che «trascorrevano le giornate immerse nello studio della Torah e del Talmud».
L'immigrazione cominciò negli ultimi due decenni dell'Ottocento, dopo la costituzione del movimento sionista e i sanguinosi pogrom dell'Impero russo. In un libro intitolato «The Tragedy of Zionism» (La tragedia del sionismo, Farrar, Strauss, Giroux ed. 1985) uno studioso canadese, Bernard Avishai, scrive che gli ebrei emigrati in Palestina fra il 1881 e il 1914 furono 30.000: una cifra assai modesta se confrontata ai due milioni di ebrei russo-polacchi che in quegli stessi anni attraversarono l'Atlantico per raggiungere l'America. Secondo un almanacco ebraico pubblicato dalla comunità del Regno Unito, il «Jewish Year Book» dell'anno 5633, gli ebrei della Palestina erano nel 1902 un po' più numerosi: 60.000 contro 150.000 in Marocco, 45.000 in Tunisia, 44.200 in Algeria, 25.300 in Egitto, 10.000 a Tripoli.
Fra il 1919 e il 1923, secondo Bernard Avishai, ne arrivarono circa 35.000 e fra il 1924 e il 1929 circa 80.000 (ma di questi ultimi, sempre secondo lo studioso canadese, rimasero soltanto 45.000). Erano soprattutto sionisti, attratti dalla possibilità di contribuire alla creazione in Palestina di quello che il ministro britannico Balfour, nel 1917, aveva definito «un focolare ebraico». Quando l'Onu, nel 1947, autorizzò la nascita di due Stati, i dati demografici erano i seguenti: in quello arabo, da costituirsi sul 45% del territorio della Palestina mandataria, gli arabi sarebbero stati 725.000 e gli ebrei 10.000; in quello ebraico gli ebrei sarebbero stati 500.000 e gli arabi 400.000.
Un'ultima osservazione. Viene spesso ricordato che la terra su cui i sionisti s'insediarono nella fase che precedette la nascita dello Stato fu regolarmente comperata. È vero. Ma molti poderi furono venduti da notabili di città e funzionari dell'amministrazione ottomana che ne erano diventati proprietari negli anni precedenti; non da coloro che l'abitavano e la coltivavano.

Repubblica 15.9.11
La Palestina sfida l’Onu sullo Stato promesso
di Bernardo Valli


Il 20 settembre Abu Mazen dovrebbe chiedere al Palazzo di Vetro il riconoscimento dello Stato Scontato il sì dell´Assemblea. Una svolta carica di incognite per il Medio Oriente. Che Israele e gli Usa stanno tentando disperatamente di bloccare
Creare un comune denominatore di interessi in un popolo frantumato resta un problema
Il voto però susciterebbe di certo emozioni e rianimerebbe progetti e ideali

Tra cinque giorni, il 20 settembre, sarà presentata alle Nazioni Unite la candidatura della Palestina come Stato indipendente. L´incertezza sussiste, poiché in queste ore sono in corso frenetiche azioni diplomatiche. C´è chi tenta di impedire (o edulcorare) l´iniziativa; e chi al contrario vuole solennizzarla, darle un carattere storico.
Dopo un periodo di stagnazione e di frustrazione, la questione israelo-palestinese sta per diventare di nuovo dinamica (e incandescente). A 64 anni dalla nascita dello Stato ebraico, il promesso, rifiutato, rivendicato, demonizzato, auspicato Stato palestinese da affiancargli è alla vigilia di un riconoscimento formale da parte della stragrande maggioranza della società internazionale espressa nell´Assemblea generale dell´Onu. Benché questo non significhi che lo Stato ripudiato o invocato stia diventando miracolosamente una realtà, la consacrazione formale segna una svolta non solo in Medio Oriente.
Ron Prozor, rispettato ed esperto ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, ha comunicato di recente una notizia sgradevole alla coalizione (di centro e di estrema destra) formata da Netanyahu, da Lieberman e da Barak, rispettivamente primo ministro, ministro degli Esteri e della Difesa, al governo a Tel Aviv. Con un telegramma segreto, rivelato dal quotidiano Haaretz, il diplomatico ha fatto sapere che Israele non aveva alcuna possibilità di impedire il riconoscimento dello Stato palestinese. Dopo sessanta e più incontri con i suoi colleghi del Palazzo di Vetro, Prozor ha concluso di poter contare unicamente sull´astensione di alcuni paesi (sui 193 rappresentati) o sull´assenza di altri. Soltanto una manciata di Stati voteranno contro la candidatura palestinese. Nell´Unione europea, secondo Prozor, gli unici sicuri sarebbero la Germania, l´Italia, i Paesi Bassi e la Repubblica ceca. La promozione a Stato della Palestina infliggerà una profonda ferita al governo di Israele.
Per il presidente degli Stati Uniti l´appuntamento del 20 settembre nel Palazzo di vetro di New York è un dilemma diplomatico lacerante. Opporsi a un gesto di autoderminazione dei palestinesi, dopo avere appoggiato apertamente i popoli arabi (in Tunisia, in Egitto e in Libia) a liberarsi dei loro raìs, non appare molto coerente. Ma Barack Obama deve fare i conti con i vecchi legami dell´America con Israele, con l´opposizione al Congresso che minaccia di tagliare gli aiuti ai palestinesi, e anche con la convinzione che la via migliore per arrivare a uno Stato palestinese sia quella dei negoziati. In verità da tempo interrotti per il rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti di coloni in Cisgiordania, per la questione di Gerusalemme Est e per il rifiuto palestinese di riconoscere il carattere "ebraico" dello Stato di Israele (che finirebbe con l´escludere i cittadini musulmani di Israele).
Accusato di non essersi impegnato in tempo per disinnescare l´appuntamento del 20 settembre, Obama ha spedito d´urgenza i suoi inviati in tutte le direzioni: a Ramallah da Mahmud Abbas (detto Abu Mazen), a Gerusalemme da Benjamin Netanyahu, e in tante capitali mediorientali. L´opposizione americana al riconoscimento di uno Stato palestinese, o in tutti i casi i tentativi di limitarne la portata, rischiano di riaccendere l´antiamericanismo, finora del tutto assente dalle piazze tunisine, egiziane e libiche della "primavera araba".
Non sarà agevole convincere Mahmud Abbas, presidente dell´Autorità Palestinese, a non presentare la candidatura, o ad alleggerirla al punto da limitarne il significato. Tuttavia la minaccia del Congresso americano di sospendere gli aiuti non può lasciarlo indifferente. La Cisgiordania vive un boom economico senza precedenti nei quarantaquattro anni di occupazione israeliana e le sovvenzioni provenienti dagli Stati Uniti vi hanno contribuito. Ma è difficile che Abbas possa rimangiarsi quel che i leader mediorientali hanno ormai acquisito come una parola d´ordine. Nabil el-Araby, segretario della Lega araba, sottolinea in queste ore l´ovvietà dell´iniziativa all´Assemblea generale dell´Onu; e Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro turco, l´ex alleato in aperta polemica con Israele, insiste dicendo che il riconoscimento dello Stato palestinese «non è una scelta ma un obbligo».
Il voto dell´Assemblea generale darebbe alla Palestina lo status di osservatore permanente delle Nazioni Unite, come "Stato non membro". La stessa situazione del Vaticano. O per lunghi anni della Svizzera. Adesso la Palestina è una semplice "entità". Per diventare il 194esimo membro a pieno titolo dell´Onu essa avrebbe bisogno del voto del Consiglio di Sicurezza. Ma là l´aspetta il veto degli Stati Uniti. Ed è assai probabile che dopo il riconoscimento formale dell´Assemblea non si vada oltre. Anche se il presidente Abbas sostiene, con una calma non più tanto remissiva, che i palestinesi ricorreranno fino al Consiglio di Sicurezza per ottenere la piena appartenenza alle Nazioni Unite.
I vantaggi acquisiti dello Stato palestinese sarebbero comunque consistenti dopo il voto dell´Assemblea. Esso avrebbe ad esempio accesso alla Corte internazionale di Giustizia dell´Aja e a quella penale internazionale, con la facoltà di denunciare Israele per le sue eventuali azioni come forza di occupazione. E potrebbe usufruire delle istituzioni finanziarie, economiche e commerciali. Potrebbe soprattutto esigere di trattare alla pari con lo Stato di Israele, non più nel quadro del Quartetto (Usa, Russia, Europa, Onu), ma in quello dell´Onu e sulla base delle risoluzioni. Sempre ammesso che Israele accetti le regole imposte dal nuovo status della Palestina. Già traumatizzata dai cambiamenti provocati dalla "primavera araba" in Egitto, e dall´accresciuta ostilità della Turchia, non più alleata, la società israeliana risentirà ancor più l´isolamento, dopo il probabile voto all´Assemblea generale che gli Stati Uniti cercano in queste ore di scongiurare. La rinuncia alla candidatura, imposta o ottenuta dagli Stati Uniti, provocherebbe in tutti i modi reazioni in molte capitali del Medio Oriente. Lo stesso riconoscimento incompleto o puramente formale dell´Assemblea generale potrebbe non bastare alle piazze arabe, le quali potrebbero esigere il voto decisivo del Consiglio di Sicurezza.
Le forze centrifughe e la storia hanno frantumato negli anni la Palestina in cinque zone o entità. La prima dell´elenco può essere Gaza, abitata da un milione di uomini e donne che vivono come in un limbo rispetto al resto dei palestinesi. Un limbo non facile, sotto l´autorità intollerante di Hamas, e in una società più islamista, più tradizionalista ed esclusa dal crescente benessere di cui gode la Cisgordania. Isolata, Gaza è rivolta all´Egitto. Seconda zona o entità la West Bank, la Cisgiordania. Là vivono due milioni e seicentomila palestinesi, governati dall´Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), oggetto di indulgenza da parte di Israele, i cui soldati occupano una larga porzione del territorio. Una certa sicurezza e un evidente progresso economico hanno creato una stabilità che ha favorito uno status quo, da non pochi osservatori definito prerivoluzionario. Pur godendo di una situazione favorevole rispetto a quella dei connazionali di Gaza, i palestinesi della West Bank non si sentono garantiti da uno stato di diritto. Restano cittadini sotto un´occupazione straniera e non nutrono grande fiducia nei loro corrotti amministratori dell´Olp.
La terza entità palestinese vive a Gerusalemme Est e conta trecentomila uomini e donne. Circa il 38 per cento della popolazione. Gli abitanti non sono cittadini israeliani, ma residenti permanenti costretti a temere notte e giorno la perdita del diritto di residenza. Le barriere imposte nella vita quotidiana aumentano il senso di precarietà. Essi pagano le tasse allo Stato israeliano e usufruiscono, in tono minore, dei diritti all´assistenza sanitaria e alla scuola. In questo sono favoriti rispetto ai palestinesi della West Bank. La quarta entità è la più numerosa. Conta cinque milioni di uomini e donne registrati come profughi. Vivono in cinquantotto campi, diventati grossi borghi, in Giordania, in Siria, in Libano, nella West Bank e a Gaza. Sognano il ritorno in una patria che non c´è più o che è stata dimezzata. Il riconoscimento formale dello Stato palestinese riaccenderà molte speranze.
La quinta e ultima entità palestinese conta un milione e trecentomila persone, con la nazionalità israeliana. Come creare un comun denominatore di interessi e di aspirazioni in un popolo frantumato e represso resta un problema. Ma certo la nascita di uno Stato formalmente riconosciuto susciterà emozioni e rianimerà progetti e ideali.

Repubblica 15.9.11
Solo una tappa, ma fondamentale
di Antonio Cassese


È il riconoscimento a essere oramai un´entità statale, dotata di un governo centrale, un territorio, anche se non ancora definito internazionalmente (ma l´Autorità palestinese chiederà che venga riconosciuta come confine la linea precedente alla guerra del 1967), e una popolazione, anche se ancora sottoposta a occupazione bellica da parte di Israele. Questo riconoscimento avrebbe un enorme valore politico e psicologico, anche se non vincolerebbe giuridicamente gli Stati che vi si oppongono (Usa, Israele e qualche Stato europeo).
Un altro vantaggio per l´Autorità palestinese consiste nel fatto che di regola l´ammissione di uno Stato come "osservatore" è una tappa verso l´acquisizione dello status di membro effettivo dell´Onu. Ciò si è verificato in più casi. La Svizzera, l´Austria, la Finlandia, l´Italia e il Giappone, sono stati appunto ammessi come "osservatori" prima di diventare membri effettivi dell´Organizzazione.
Inoltre, una volta riconosciuto come Stato (seppure "osservatore" all´Onu) dalla stragrande maggioranza dei membri dell´Onu, non sarà più possibile per il Procuratore della Corte penale internazionale continuare a tergiversare, come ha fatto finora, in relazione alla richiesta di Ramallah di accedere allo Statuto della Corte penale. Il Procuratore dovrà ammettere che la Palestina costituisce uno Stato, che quindi può diventare parte dello Statuto della Corte, con la conseguenza che la Corte stessa può giudicare crimini commessi in territorio palestinese dal 2002 in poi, da parte di forze armate israeliane, ma di conseguenza anche da parte dei palestinesi. Questa possibilità è molto temuta da Israele, che non vuole assolutamente sottoporsi al giudizio della Corte penale dell´Aja.
Il riconoscimento della Palestina come Stato, anche se non ancora sovrano, potrà avere un´incidenza sulla questione dei profughi palestinesi (quasi cinque milioni), attualmente sparsi in alcuni Paesi arabi (Giordania, Libano, Siria)? Direi di no. Attualmente a quei profughi non è impedito l´ingresso in Palestina, ma di fatto non c´è spazio per loro, visto che una buona parte della Cisgiordania è occupata da insediamenti (illegali) israeliani. Inoltre, molti profughi provengono da zone che sono ora sotto la sovranità o almeno il controllo effettivo di Israele. Il fatto che l´Autorità palestinese sia considerata uno Stato non aggrava la situazione, ma può costituire al contrario un incentivo per raggiungere una soluzione negoziata con Israele e gli Stati arabi. Questi ultimi ora ospitano i profughi in campi enormi, con gravissimi problemi sociali e l´aggravante che quegli Stati non intendono considerare i palestinesi come propri cittadini. Una soluzione concordata del problema degli insediamenti israeliani, con scambi di territori tra la Palestina e Israele, come auspicato da Obama, potrebbe contribuire alla graduale soluzione di questo gravissimo problema, che tutte le parti in causa hanno lasciato incancrenire dal 1948, ma che esige a tutti i costi una soluzione negoziata.
Mahmud Abbas, il presidente dell´Anp ha detto saggiamente che l´adozione della risoluzione dell´Assemblea generale dell´Onu non è fatta in odio ad Israele, ma per rimettere in moto il processo diplomatico che dovrà portare ad una pace stabile, processo che attualmente è bloccato. Ma Abbas sarebbe saggio se chiedesse il riconoscimento come Stato solo per la Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est), e non anche per a Striscia di Gaza, che è gestita da Hamas, un´organizzazione considerata terroristica dagli Usa e da Israele, e con cui lo stesso Abbas è ai ferri corti. Questa soluzione potrebbe evitare di inasprire Israele e gli americani, e porre le basi per il riavvio del processo di pace.

Corriere della Sera 15.9.11
L'identità complessa della cultura palestinese
di Ida Bozzi


Un festival di traduzione che si occupa di culture complesse, con identità divise in un medesimo territorio, o unite nella lingua ma disperse nella diaspora: da oggi al 18 settembre a Bellinzona, nella Svizzera italiana, si svolgerà il festival Babel, giunto alla VI edizione e dedicato quest'anno alla Palestina (il programma si trova su www.babelfestival.com). Due i filoni: la sezione letteraria «Parole oltre i confini», con letture e dibattiti che coinvolgono autori cisgiordani, di Gaza e della diaspora, che scrivono in inglese, arabo e francese, e i loro traduttori italiani; la sezione «Oltre i confini delle parole», dedicata alle arti, al cinema e alla musica. Ma i temi della letteratura sono anche occasione di confronto sull'attualità, sui conflitti e sulla difficile costruzione della pace.
Si incomincia oggi con il documentario Arna's Children e la discussione con l'autrice Suad Amiry (nella foto), il sociologo Jamil Hilal, la giovane autrice Adania Shibli e la traduttrice Maria Nadotti (ore 20.30), venerdì l'incontro con lo scrittore Izzeldin Abuelaish, il primo medico palestinese che abbia lavorato in un ospedale israeliano (ore 18.30), e sabato 17 (a partire dalle 9) la video intervista con il maestro Daniel Barenboim, fondatore con lo scomparso Edward Said della West-Eastern Divan Orchestra, che unisce musicisti palestinesi e israeliani (un concerto del quartetto d'archi dell'orchestra si terrà sabato al Teatro sociale, ore 21.30). Il festival si connota insomma per la sua anima multiculturale, come spiega il direttore artistico Vanni Bianconi: «Parlare di letteratura palestinese significa incontrare autori che vengono dagli Stati Uniti o dai Territori, o dalla Francia, e scrivono in lingue diverse. Ma anche il pubblico di Babel è particolare: oltre a quello italiano e svizzero italiano, anche quello delle comunità degli immigrati». Altri autori attesi sono la statunitense d'adozione Susan Abulhawa (sabato, ore 14), lo scrittore Mourid Barghouti con l'arabista Isabella Camera D'Afflitto (domenica, ore 16), Elias Sanbar, scrittore e traduttore francese dello scomparso Mahmoud Darwish, l'esordiente Fatina al-Garra, e numerosi altri autori.

Corriere della Sera 15.9.11
La fantasia è la voce dei migranti

Versi, racconti e musica dei lavoratori stranieri, in media più istruiti degli italiani
di Gian Antonio Stella


«In un solo isolato di caseggiati che totalizzava 132 stanze, vivevano 1.324 italiani emigrati, per lo più uomini, operai siciliani che dormivano in letti accastellati a più di dieci persone per camera, per un intero isolato... ». Così scriveva, alla fine dell'Ottocento, nel libro How the Other Half Lives («Così vive l'altra metà») il grande reporter della «New York Tribune» Jacob Riis. (...) «Altri tempi!», dicono i razzisti che rifiutano ogni parallelo con l'immigrazione di oggi in Italia. Certo. L'idea che si trattasse di un lontano Medioevo imparagonabile con il mondo di oggi, però, è una sciocchezza dovuta solo all'ignoranza. Quando Riis scrive i suoi reportage, esistono a settant'anni il treno e il telegrafo, da una quarantina il motore a scoppio e il fax, da una trentina il sommergibile e la metropolitana di Londra, da una ventina la luce elettrica.
Per capire la distanza abissale tra «quella Italia» e «quell'America» occorre mettere a confronto due documenti del 1882: la relazione della commissione parlamentare d'inchiesta presieduta da Stefano Jacini sulla povertà del mondo contadino e un reportage su New York di Dario Papa pubblicato dal «Corriere della Sera». La prima denuncia la disperazione di un mondo con centinaia di migliaia di tuguri «ove in un'unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame» e si descrive il degrado igienico di province come quella di Treviso, oggi marcata da una forte presenza di razzisti: «Ogni sorta d'immondizie dal pattume delle case agli avanzi dei cibi, dallo sterco degli animali a quello dell'uomo, è raccolta nelle vie e intorno alle case, e vi è quasi rispettosamente conservata; in qualche sito si giunge fino a spargere ad arte del fogliame oppure dei ricci di castagne perché, parte coll'aiuto dell'acqua piovana e parte con quello dei passanti, il materiale si maceri, fermenti, e si converta poi in letame. Presso la generalità dei contadini i concimi vengono dalle stalle non trasportati nei campi o in un ben acconcio letamaio distante dall'abitato, ma si raccolgono o nei cortili o nelle adiacenze delle case, ed ivi si lasciano a fermentare finché si presenti la occasione di portarli all'aperto per gli usi agricoli». (...) Il 26 gennaio dello stesso 1882, mentre tanta parte del nostro Paese è ancora affondata nel Medioevo, Dario Papa così descrive il Ponte di Brooklyn: «Il più meraviglioso ponte del mondo (...) unisce Brooklyn con Nuova York a un dipresso come quello di ferro che unisce Buda con Pest: ma io credo sia lungo più del doppio e mi pare basterebbe per traversare due volte il Po nei punti della sua maggiore larghezza: e non ha ombra di pila o puntello di sorta: è tutto fatto da due immense catene, che ti pajono — là in alto — leggiere come una piuma. Il forte dei sostegni, d'una grandiosità solamente paragonabile alle più colossali fra le opere umane, è sulle rive, d'onde — dentro Nuova York — il ponte si prolunga per un pajo di chilometri passando sopra i tetti delle case. Le quali così hanno: sovra la testa la ferrovia che viene da Brooklyn; ai lati e a livello del primo piano la ferrovia “elevata”, cioè tutta fabbricata in aria, che circola dentro tutta quanta la città; ai piedi i trams, gli omnibus e tutto il resto del movimento cittadino; e sotto i piedi... avranno tra poco un'altra ferrovia che circolerà sotto terra. Se questo non è dormire fra due guanciali, è per lo meno dormire fra quattro ferrovie».
Da noi i contadini tenevano il letame in casa perché scaldava e aiutava a passare l'inverno, dall'altra parte dell'oceano il ponte di Brooklyn aveva quattro piani di ferrovie. Qual è la differenza tra l'abisso che separa oggi il Burkina Faso dalla Lombardia e quello che separava il Veneto (per non dire del Meridione) dal New Jersey? Dov'è questa «immensa» differenza tra i nostri nonni e «loro»?
Immaginiamo la risposta: «I nostri nonni non erano delinquenti!». Andiamo allora a rileggere Un italiano in America, scritto nel 1894 dal grande Adolfo Rossi, originario di Lendinara, in provincia di Rovigo: «Sotto i cortili interni dei tenement-houses (casermoni) più ributtanti vi sono certe cantine (basements) scure e mefitiche, illuminate da una lampada a petrolio dove si balla e si beve la birra a buon mercato. Se non si è del quartiere è pericoloso avventurarsi senza essere accompagnati da un police-man in quelle catacombe del vizio e della abbiezione».
Immaginiamo la nuova obiezione: «Quelli erano terroni, che arrivavano da terre piene di delinquenti!». Allora andiamo a prendere il libro O soldi o vita di Luigi Piva. Dove si spiega che le due sezioni veneta e lombarda del Tribunale statario asburgico «avevano istruito 3.400 processi e dal giugno 1850 al giugno 1853 le province di Padova, Venezia, Rovigo e Mantova erano state colpite da 1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite e 735 commutate in detenzione per un periodo medio di 15-20 anni di carcere duro». Per cosa? Rapine in casa. Soprattutto nella Bassa padovana, nel rodigino, nel mantovano: 1.144 condanne a morte! Tra polentoni! (...) Ma torniamo ai nostri emigranti in America o in Europa: «È diffusissima in Germania l'opinione che la criminalità degli immigrati italiani sia di gran lunga superiore a quella dei nazionali e degli immigrati di altre nazionalità», scrive alla vigilia della Prima guerra mondiale l'ispettore regio per l'emigrazione Giacomo Pertile. (...) Giuseppe De Michelis, sul «Bollettino dell'emigrazione» edito dal ministero degli Esteri, confermava: «Tutti parlano della grande criminalità fra i nostri emigranti come di un fatto acquisito. I giornali, appena viene commesso un delitto, un furto, un'azione riprovevole, cercano l'italiano». Solo il frutto di una campagna calunniosa? «Purtroppo, sovente, è la verità», sospirava l'autore dell'inchiesta.
Occorre rileggerle, queste parole di tanti anni fa, per inquadrare l'Hotel House nel suo corretto contesto. Sia chiaro, il fatto che anche noi abbiamo creato problemi agli altri non vuol dire affatto che dobbiamo rassegnarci a una sorta di nemesi storica. Proprio per niente. Là dove ci sono i reati vanno perseguiti con durezza e chi li commette deve pagarli a caro prezzo. Tanto più che ogni delinquente, e ce ne sono, contribuisce a rassodare le ostilità e i pregiudizi razzisti che poi ricadono sull'intera comunità degli immigrati. Ma come gli altri hanno dovuto mostrare insieme fermezza ma anche un po' di pazienza verso i nostri nonni, così dobbiamo fare noi: fermezza e pazienza. Accompagnate dall'idea che l'immigrazione, oltre a creare problemi, contribuisce ad arricchire la nostra società. Economicamente, se è vero che ormai l'11,2 per cento del nostro Pil dipende dai lavoratori stranieri. Ma anche culturalmente.
Lo dimostra il volume Babel Hotel, curato da Ramona Parenzan. Dove questa ricchezza di poesie e racconti e canzoni, frutto di una straordinaria molteplicità di etnie e culture, testimonia l'unica vera, grande, differenza (a parte quella dell'estremismo religioso che tocca una minoranza del mondo islamico) tra i nostri nonni emigrati e i «nuovi italiani». Prendiamo ad esempio uno studio sulle liste passeggeri dei transatlantici in arrivo in America nel 1910 condotto da Ira A. Glazier e Robert Kleiner. Su due navi a caso che attraccarono a New York nel 1910, gli immigrati analfabeti sbarcati dall'italiana «Madonna» erano il 71 per cento, quelli provenienti dall'impero zarista e scesi dalla «Lithuania» il 49 per cento: 22 punti in meno. (...) Spiega nel febbraio 2011 l'Indagine conoscitiva sulla situazione dell'Hotel House di Porto Recanati, condotta da un gruppo di docenti dell'Università di Macerata coordinati da Angelo Ventrone, che l'Hotel House, a dispetto di certi reportage razzisti che lo descrivono come un ghetto abitato da loschi figuri sporchi, portati a delinquere e magari un po' scimmieschi, ospita immigrati che sono per il 55,2 per cento in possesso di un diploma o di una laurea. Una percentuale superiore di circa 12 punti a quella degli italiani diplomati, che sono solo 33 su 100 e collocano l'Italia al venticinquesimo posto dei Paesi Ocse.
Tutta gente, dice la ricerca, che sta lì nel 22,5 per cento dei casi per il «basso costo» delle abitazioni (gli appartamenti, in quell'alveare che solo la perversione urbanistica degli anni Sessanta poteva concepire, sono in vendita a partire da 30 mila euro…), nel 18,4 per cento per «mancanza di soluzioni abitative alternative», nel 36,7 per la «presenza di parenti/conoscenti» o perché il posto è «comodo per la posizione rispetto al lavoro». Nessuno è lì, ovvio, perché «gli piace». Certo, spiega la ricerca, «il nodo problematico maggiore è quello della criminalità», «la grande maggioranza del campione (81 per cento) rileva la presenza di sacche di criminalità presso l'Hotel House» e «la maggioranza ha individuato nello spaccio di sostanze stupefacenti la problematica più grave e prevalente; anche i danneggiamenti, le aggressioni, i furti e le rapine vengono citati in modo ricorrente dagli intervistati, anche se con minore evidenza rispetto allo spaccio». Le prime vittime, infatti, sono proprio le persone perbene che vivono all'Hotel House le quali, stando al campione, nella larga maggioranza (73,8 per cento) lavorano regolarmente. Di più, il 70 per cento «dei residenti ritiene la vivibilità dell'Hotel House come minimo mediocre se non pessima», soprattutto per «il degrado dell'edificio e la scarsa manutenzione degli spazi comuni» e più ancora per «la scarsa sicurezza per motivi di violenza e criminalità». Problemi che vanno sradicati dalla cittadella multietnica non solo per la serenità dei marchigiani, che ne hanno assolutamente diritto, ma anche per quella degli stessi abitanti dell'alveare, che vanno sottratti alla dimensione del «ghetto» che tanto ha pesato sul destino dei nostri nonni.

Corriere della Sera 15.9.11
Se la filosofia diventa eccellenza
di Angelo Panebianco


Si è concluso da pochi giorni, organizzato dall'Università San Raffaele, in collaborazione con la Statale di Milano, un convegno internazionale, dedicato alla filosofia analitica, che ha registrato la presenza di più di trecento studiosi provenienti da varie parti del mondo. Ispiratore e animatore del convegno (il primo, di questo rilievo, che si sia tenuto in Italia) è stato Michele Di Francesco, attuale preside della facoltà di Filosofia del San Raffaele, nonché presidente uscente della Società europea di filosofia analitica.
Le pagine culturali dei giornali se ne sono occupate, cogliendone la rilevanza culturale e scientifica: la filosofia analitica, fino a non molti anni fa piuttosto trascurata nel nostro Paese, è un settore di punta della ricerca filosofica contemporanea. Il convegno ha anche mostrato quanto agguerrita sia la presenza della facoltà di Filosofia del San Raffaele in questo campo di studi. E ciò offre a me l'opportunità di raccontare ai lettori del «Corriere» qualcosa di quella facoltà e, indirettamente, anche della più ampia istituzione di cui la facoltà fa parte.
Del San Raffaele (ma la questione riguarda l'attività ospedaliera, non quella universitaria) le cronache si occupano oggi, naturalmente, a causa dei suoi gravissimi problemi finanziari. Il che, stante la situazione, è inevitabile. Non erano inevitabili, invece, certi commenti malevoli sulla qualità dell'impresa complessiva del San Raffaele che si sono letti qua e là in questi mesi e che chi ne ha una conoscenza più ravvicinata sa essere sbagliati e ingiusti.
La facoltà di Filosofia del San Raffaele ha pochi anni di vita: fortemente voluta dal rettore, don Luigi Verzé, che ne affida a Massimo Cacciari la realizzazione, nasce nel 2002. Cacciari sarà anche il primo preside della facoltà. Legittimato e sostenuto da don Verzé che gli ha dato carta bianca (soprattutto, non ha posto alcuna condizione sugli orientamenti filosofici dei futuri docenti e men che mai sulle loro convinzioni ideologiche o religiose), Cacciari, in brevissimo tempo, raduna un corpo docente di altissima qualità: chiama filosofi di fama come Emanuele Severino, Giovanni Reale o Roberta De Monticelli, ma recluta anche molti giovani di valore, specializzati nei più diversi campi del sapere filosofico. Il pluralismo, la coesistenza, nella più assoluta libertà, fra scuole e posizioni filosofiche diverse è ciò che caratterizza la facoltà fin dal suo esordio. Per inciso, è anche in virtù di questa decisa scelta iniziale a favore del pluralismo filosofico che la filosofia analitica, senza mai oscurare gli altri orientamenti presenti, acquista nei corsi di studio offerti agli studenti un rilievo e un peso che non ha nella maggior parte delle attuali facoltà italiane di filosofia.
Chi crede, e c'è qualcuno che lo crede (o che, per lo meno, lo ha scritto), che al San Raffaele viga una sorta di rigida uniformità di pensiero, non sa di cosa sta parlando.
Essendo una facoltà di filosofia aperta alle altre scienze umane, vengono chiamati ad insegnarvi anche cultori di altre discipline: teologi, economisti, storici, giuristi, eccetera. Su invito di Cacciari e di Don Verzé, pur rimanendo di ruolo all'Università di Bologna, ho cominciato a tenervi corsi di scienza politica nel 2004. Posso affermare di conoscere piuttosto bene la facoltà. Della quale, fin dall'inizio, mi colpì la grande vivacità culturale, frutto, insieme, del valore scientifico di tanti docenti e del pluralismo degli orientamenti. E, va proprio detto, mi colpì anche la qualità e la preparazione di molti studenti (bisogna essere professori per capire davvero quanto ciò sia prezioso, gratificante).
La facoltà di Filosofia, nell'ambito delle attività del San Raffaele (ospedale, laboratori di ricerca, facoltà di Medicina, eccetera ) è certamente una piccola, piccolissima parte, dell' impresa. Ma, in vitro, esemplifica bene quale sia stata la cifra stilistica del San Raffaele: una spinta, una tensione verso l'eccellenza, che ha fatto dell'ospedale, come delle facoltà, come dei centri di ricerca, i luoghi con l'altissima qualità che tutti hanno sempre riconosciuto. Ovviamente, trattandosi di una impresa umana, per definizione imperfetta, non in ogni circostanza l'eccellenza è stata davvero raggiunta. Ma la tensione verso l'eccellenza (una merce rarissima in Italia, e non soltanto nelle istituzioni pubbliche), quella sì, è sempre stata presente. In un momento così difficile per la vita del San Raffaele sarebbe bene non dimenticarlo. Con il successo della loro iniziativa, del loro convegno, il gruppo dei filosofi analitici della facoltà di filosofia ne ha dato testimonianza.

Corriere della Sera 15.9.11
Caravaggio ambasciatore a Cuba
Il viceministro Rojas: «Ci piace, era un oppositore del sistema»
di Paolo Conti


Caravaggio rivoluzionario? Il creativo ed entusiasta viceministro per la Cultura di Cuba, Ferdinando Rojas, lo arruola tra gli oppositori a un indefinito «sistema»: «Caravaggio è innovazione, professionalità, rivolta. Noi cubani lo apprezziamo». All'Avana c'è grande fermento intorno a Michelangelo Merisi: il 23 settembre (apertura fino al 27 novembre) al Museo Nacional de Bellas Artes si inaugura la prima mostra mai organizzata a Cuba con un'opera di Caravaggio. Si tratta di «Caravaggio en Cuba», una rassegna che porterà all'Avana per la prima volta Narciso alla fonte, il capolavoro conservato alla Galleria nazionale d'arte antica di Palazzo Barberini. L'iniziativa è sostenuta da due dicasteri, Affari Esteri e Beni Culturali.
Intorno al Maestro, dodici magnifiche tele di caravaggeschi: Ecce Homo di Giovanni Baglione, San Giovanni Battista di Tommaso Salini, un autoritratto di Orazio Borgianni, San Giuseppe legge al lume di candela di Gherardo delle Notti, Bacco e un bevitore di Bartolomeo Manfredi, San Francesco d'Assisi di Carlo Saraceni, L'incoronazione di spine di Lionello Spada, Riposo nella fuga in Egitto di Orazio Gentileschi, Maddalena svenuta di un anonimo romano, un autoritratto di Artemisia Gentileschi, Riposo nella fuga in Egitto di Angelo Caroselli e San Girolamo di Henrick van Somer. Tutto materiale che proviene da Roma (Soprintendenza speciale per il Polo museale romano, guidata da Rossella Vodret, che cura la mostra cubana) in massima parte prestato da Palazzo Barberini, ma anche dalla Galleria Borghese e dalla Collezione Lampronti. Un «contesto» nutrito e complesso, capace di offrire uno spaccato non superficiale di una irripetibile stagione della storia dell'arte italiana e mondiale.
L'aria a Cuba sta cambiando e l'Italia gioca la sua carta vincente, la cultura, per stabilire in tempo utile contatti privilegiati. Lo spiega il sottosegretario agli Esteri, Vincenzo Scotti: «Questo evento non è isolato ma fa parte di una strategia politica complessiva. Stiamo seguendo con grande attenzione il momento politico e storico che Cuba sta attraversando, anche nell'ottica di non limitare atti restrittivi, per favorire il processo in corso». Ed è oggettivamente interessante che, ad avvicinarsi alla futura «nuova» Cuba, sia un governo di centrodestra. Il ministro per i Beni e le attività culturali Giancarlo Galan è molto esplicito: «Italia e Cuba, grazie a questo evento, sono più vicine di quanto lo siano mai state. La cultura è il patrimonio che ha reso unico il nostro Paese, il settore che ci ha più arricchiti e fatto crescere e conoscere nei millenni. Allo stesso tempo la cultura è un ponte tra i popoli, solido e duraturo, sul quale transitano uomini, idee, emozioni e sentimenti, costruendo quei legami sui quali si fonda l'autentica amicizia. Investire, sostenere, valorizzare questo campo, non è indispensabile, è fondamentale». Stavolta, ai due ingressi del ponte culturale descritto da Galan, c'è l'Italia di Berlusconi e il regime di Castro, probabilmente prossimo a una svolta.
Per questa ragione il direttore generale per la Valorizzazione dei Beni culturali, Mario Resca, usa l'aggettivo «epocale» per definire il valore dello sbarco di Caravaggio e dei Caravaggeschi all'Avana: «Sarà un avvenimento di evidente spessore culturale ma anche un intrigante momento di politica estera italiana. Sono stato recentemente a Cuba e posso testimoniare che l'attesa è clamorosa»
Ammette Rossella Vodret: «Caravaggio è ormai il più potente messaggero della cultura italiana nel mondo, solo nei prossimi mesi sarà in partenza per Ottawa, Mosca, il Brasile e l'Argentina. Un'arma che naturalmente richiede massima cura nella turnazione delle opere scelte per i prestiti. Abbiamo l'obbligo di non sguarnire i nostri musei e quindi occorre contemperare entrambe le esigenze. L'aspetto più interessante di questa rassegna è anche il binomio Caravaggio-Caravaggeschi. C'è l'opportunità di valorizzare straordinari artisti che ebbero la sventura di vivere contemporaneamente a un sommo artista ma che, a loro volta, sono autori di primissima grandezza. E quando Caravaggio lasciò Roma per sempre, molti di loro lo imitarono per riempire un vuoto in un mercato dell'arte in cui si chiedevano opere solo e soltanto "sue". Giovanni Baglione testimonia, per esempio, come Bartolomeo Manfredi fosse in grado di imitare Caravaggio alla perfezione. E non vorrei, che un giorno o l'altro, in un grande museo del mondo non si scoprisse che un Caravaggio esposto è in realtà un Manfredi».
In attesa di sciogliere il dilemma, Narciso parte per Cuba a costo zero per il ministero dei Beni Culturali: i gravami legati alla spedizione e alle assicurazioni (Caravaggio «vale» 50 milioni, ogni caravaggesco un milione) sono stati coperti dalla compagnia Aerea Blue Panorama, da anni impegnata nell'isola caraibica. In questa storia c'è insomma un po' di tutto: Fidel Castro, il governo Berlusconi, Cuba che cambia, l'universo degli sponsor e il futuro modo di finanziare mostre, la nostra politica estera. Su tutti e su tutto campeggia glorioso Lui, l'inarrivabile Caravaggio, l'artista che «si rivolta», per dirla col viceministro cubano. L'oggetto del desiderio di qualsiasi museo del Pianeta.

La Stampa 15.9.11
Grazie dei fiorini
Da sabato a Firenze una mostra sul rapporto tra arte, potere, religione e denaro nel Rinascimento Così una moneta aurea coniata in Toscana alla metà del Duecento divenne il dollaro dell’Europa di allora
di Tim Parks


Si apre sabato a Firenze, in Palazzo Strozzi, la mostra «Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità» (fino al 22 gennaio, tutti i giorni dalle 9 alle 20, giovedì 9-23). Insieme con la storica dell’arte Ludovica Sebregondi, ne è curatore lo scrittore inglese Tim Parks (nella foto a fianco), di cui pubblichiamo in anteprima un estratto dell’articolo che uscirà domani sul London Review of Books .

Nel 1237 Firenze fondò la zecca e coniò il fiorino d’argento. Fino ad allora la città aveva usato il denarius del Sacro Romano Impero ormai al tramonto, ma la moneta era ormai così svalutata da dover essere affiancata da monete più pregiate di centri allora più grandi come Siena e Lucca.
Stava diventando sempre più importante monetizzare tutte le transazioni, per poter trasformare tutta la ricchezza in denaro e ridistribuirlo o investirlo a piacere. Il fiorino d’argento valeva un soldo, cioè 12 denari. Serviva per acquistare un paio di uova, una pagnotta, un litro di vino. Questo non era sufficiente.
Nel 1252 la zecca fiorentina coniò il fiorino d’oro, 3,53 grammi di oro a 24 carati che oggi varrebbe circa 110 sterline. Questa era la moneta giusta per un commercio serio e i fiorentini si assicurarono che il suo peso e la purezza rimanessero assolutamente invariati: per quasi trecento anni fu coniata, mantenendo meticolose registrazioni delle alterazioni nel conio e istituendo un sistema di controllo della qualità che prevedeva che ogni sovrintendente rimanesse in servizio solo sei mesi al fine di prevenire la corruzione.
Alla fine del XIII secolo il fiorino era utilizzato nelle transazioni commerciali in tutta l’Europa occidentale, e dove non era fisicamente presente era ampiamente adottato come moneta di riferimento. Bel colpo per quello che allora era un piccolo centro di commerci.
Sul fiorino non c’era alcuna testa di re o di duca. Firenze aveva da tempo vietato alla nobiltà la partecipazione al governo, che ora era repubblicano: i nove membri dell’esecutivo erano sorteggiati tra la comunità patrizia ogni due mesi, in modo che nessuno potesse mai acquisire troppo potere. I partiti politici erano stati vietati.
Su un lato della nuova moneta c’era il giglio, simbolo di Firenze, e sull’altro San Giovanni Battista, il santo patrono della città. Così dovere civico e osservanza religiosa erano elegantemente fusi, in oro. Quando i farisei chiesero a Gesù: «È lecito pagare il tributo a Cesare?», lui aveva potuto prendere in mano una moneta, indicare la testa di Cesare e rispondere «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».
Ilmondo era diviso così, da un lato politica ed economia, dall’altro fede e metafisica. Ma nella Firenze del XIII secolo, dove si riteneva che la gerarchia sociale dei possidenti medievali fosse stabilita dalla volontà divina, i leader civili e i mercanti-banchieri (spesso gli stessi uomini) erano ansiosi di evitare una tale divisione. Non volevano credere che fosse più difficile per un ricco entrare nel regno dei cieli che per un cammello passare attraverso la cruna di un ago.
San Giovanni Battista appare di nuovo sullo statuto della zecca, edito nel 1341. Fedele al racconto biblico, indossa il cilicio, segno della vita in povertà, salvo che l’artista fiorentino gli ha anche avvolto attorno alle spalle il mantello rosso segno di ricchezza e di autorità. La sua aureola è d’oro e ai lati ci sono tre dischi d’oro che assomigliano in modo sospetto a monete, come se il denaro stesso fosse sacro, o se richiamassero un credito che potrebbe essere incassato. Nel 1372 la zecca commissionò un’enorme pala d’altare che raffigura l’Incoronazione della Vergine. Qui l’uso sontuoso e costoso della foglia d’oro sullo sfondo e la corona d’oro sulla testa della Madonna di nuovo suggeriscono che non vi è alcun conflitto tra denaro e santità.
Nonostante questa riconciliazione tra sacro e profano nella moneta, nel libro dello statuto e nella pala d’altare - tre degli oggetti che aprono la mostra «Denaro e bellezza. Banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità» a Palazzo Strozzi di Firenze, furono in molti a capire che la monetizzazione della società poneva una seria minaccia agli altri valori. [...]
Quando si accumulava una quantità di moneta tale da non poter essere facilmente utilizzata nel commercio, un modo ovvio di farla fruttare era quello di prestarla, meglio se a un commerciante disposto a ripagarla in modo più conveniente.
Il problema era che la Chiesa aveva condannato categoricamente ogni finanziamento fruttifero, o usura, come è stata chiamata. Oggi si tende a pensare che questa legge nascesse da una preoccupazione per i poveri, come protezione contro usurai senza scrupoli. Non è così. Banche come quelle dei Medici, degli Strozzi, dei Cambini non prestarono mai ai poveri, ma furono comunque oggetto di controllo continuo da parte dei teologi che esaminavano le loro pratiche finanziarie. Ci sono varie spiegazioni: nell’ Inferno di Dante si scopre che l’usura è contro natura perché Dio ci ha dato il lavoro per guadagnarci il pane con il sudore della fronte, e l’usura non è un lavoro; così gli usurai condividono il terzo girone del settimo cerchio infernale con sodomiti e bestemmiatori, accomunati dall’innaturalità dei loro peccati. [...]

Corriere della Sera 15.9.11
Il balzo del «Corriere» Lettori in crescita del 7%: ora sono 3,27 milioni
di Giovanni Stringa


MILANO — Salgono a 3.274.000 i lettori medi giornalieri del Corriere della Sera, con un aumento di 218 mila unità (+7,1%): la variazione più alta, in termini assoluti, fra i quotidiani italiani nel periodo. In crescita, di 26 mila unità (+0,8%), anche il numero dei lettori giornalieri di la Repubblica (a quota 3.276.000). La differenza tra i due aumenti porta i primi due quotidiani generalisti sostanzialmente allo stesso livello di lettori medi giornalieri nei primi sei mesi del 2011. A rivelare le statistiche è l'ultima indagine di Audipress, che essenzialmente confronta, con il sistema delle medie mobili, il periodo gennaio-giugno 2011 con i mesi tra ottobre 2010 e marzo 2011. Le stime Audipress, risultato di 57 mila interviste (periodici inclusi), anche questa volta incoronano la Gazzetta dello Sport in testa alla classifica di tutti i quotidiani, con 4.051.000 lettori giornalieri (-75 mila). Dopo la Gazzetta e il testa a testa tra il Corriere e la Repubblica, seguono nella classifica di tutti i quotidiani a pagamento La Stampa (2.132.000 lettori giornalieri, +52 mila), il Corriere dello Sport-Stadio (1.747.000 lettori, +119 mila), il Messaggero (1.567.000 lettori, +107 mila), il Resto del Carlino (1.296.000 lettori, +89 mila), il Mattino (1.077.000 lettori, +102 mila) e, invariato, il Sole 24 Ore a quota 1.015.000. Tra le altre testate in crescita ci sono, per esempio, Il Secolo XIX (538.000 lettori, +59.000), Il Tempo (186.000 +17.000) e Italia Oggi (173.000, +9.000). Per quanto riguarda la «free press», si confermano sul podio Leggo (2.004.000 lettori medi giornalieri), City (1.786.000) e Metro (1.609.000). Nel complesso i lettori di quotidiani crescono dell'1,8% a 24.211.000. Sul fronte dei supplementi di quotidiani, sempre basandosi sui dati Audipress, un confronto si può fare tra i settimanali femminili Io Donna (Corriere), in aumento di 33 mila lettori medi a quota 1.214.000, e la Repubblica delle donne (Repubblica), in calo di 57 mila a 838 mila. Per i periodici la media mobile confronta gli ultimi tre trimestri chiusi con lo scaglione precedente. Tra i settimanali si conferma il primato di Sorrisi e Canzoni Tv, con 4.270.000 lettori medi, mentre tra i mensili vince Focus (6.192.000).

Repubblica 15.9.11
Repubblica è il quotidiano più letto in testa per la tredicesima volta
Al primo posto anche il sito Repubblica.it con 920 mila visitatori


ROMA - La Repubblica, per la tredicesima volta, si conferma il quotidiano di informazione più letto in Italia. La nuova indagine Audipress, che va dal 10 gennaio 2011 al 10 luglio 2011, attribuisce a Repubblica 3 milioni 276 mila lettori nel giorno medio con una crescita dello 0,8% (e dunque di 26 mila lettori) rispetto alla precedente stima. Il primato è mantenuto in tutte e tre le categorie su cui si basa l´indagine Audipress: "uomini", "donne" e infine "responsabili degli acquisti". Conferma il suo primato anche il sito Repubblica. it che vanta 920 mila visitatori nel giorno medio (seguono Il Corriere della Sera: ha 640 mila visitatori e supera La Gazzetta dello Sport, adesso a quota 575.000).
La Gazzetta dello Sport - quotidiano che corre nella categoria degli sportivi - può consolarsi con la palma di giornale cartaceo in assoluto più letto del Paese. Secondo l´indagine Audipress, la "rosea" ha 4 milioni e 51 mila lettori medi giornalieri (a dispetto di un decremento rispetto alla precedente rilevazione di 75.000 unità, meno 1,8 in termini percentuali). L´altro quotidiano sportivo, Il Corriere dello Sport-Stadio, porta a casa un milione e 747 mila lettori (l´impennata è pari a 119.000 unità ed al 7,3% in termini percentuali). Chiude la top ten Tuttosport, che può vantare anch´esso un saldo positivo: ha oggi 966 mila lettori (più 3,1%).
Tornando ai quotidiani di informazione generale, il Corriere della Sera guadagna 218 mila lettori (con una progressione del 7,1%): arriva, dunque, a quota 3.274.000. Il quotidiano torinese La Stampa mantiene la quarta piazza, a quota 2 milioni 132 mila, guadagnando 52.000 lettori (+2,5 per cento). Performance molto positiva per Il Messaggero che si attesta a un milione 567 mila "seguaci", ben 107 mila in più rispetto al ciclo precedente (+7,3 per cento). Soddisfazione anche per Il Resto del Carlino con un milione 296 mila (+89.000, +7,4%) e per Il Mattino che continua a guadagnare lettori, portandosi a quota 1.077.000 (+102.000, +10,5%). Il quotidiano napoletano scavalca ormai Il Sole 24 Ore, che si ferma a un milione 15 mila lettori.
Negativa la performance del Il Giornale che ha 728 mila lettori (ne perde dunque 36 mila, meno 4,7 per cento), a differenza di Libero che si porta a 434 mila (ne acquista 42 mila, +10,7%). Trend negativo per L´Unità a quota 291.000 (l´emorragia dunque è di 26 mila, meno 8,2 per cento).
L´indagine Audipress dedica un capitolo a parte alla free press. In testa si conferma Leggo con 2 milioni 4 mila lettori (+5,8%), seguito da City con 1.786 mila (+1,1%), Metro con 1.609 mila (+5,5%) e Dnews con 323 mila lettori (+16,2%).
L´indagine Audipress si basa su 32 mila 834 interviste complessive e certifica, stavolta, che i lettori complessivi dei quotidiani sono lievitati dell´1,8% arrivando a quota 24 milioni 211 mila (la progressione è di 430 mila unità).

il Fatto 15.9.11
Contributi ai giornali, soldi buttati
di Caterina Soffici


Siccome sono soldi pubblici (e quindi nostri) e di questi tempi pare ancora meno opportuno scialacquarli, questa ricerca del Reuters Institute for the Study of Journalism dell’Università di Oxford è assai interessante, perché dimostra – se ce ne fosse bisogno – che i finanziamenti statali ai giornali sono uno spreco. Non servono a sostenere la democrazia e la libertà di informazione, ma a drogare il mercato, tenendo in vita testate inesistenti e a elargire favori e prebende ad amici e affiliati e scrocconi di Stato. Non che non si sapesse, ma il fiume di milioni incassati dal faccendiere latitante Valter Lavitola per l’Avanti!, giornale fantasma quasi quanto il suo sedicente direttore, ci fa tornare il rospo in gola. Cosa dice quindi la ricerca? Che non c’è una correlazione diretta tra i soldi profusi e la diffusione dei giornali. Ammesso che si accetti il concetto di sussidiare un’attività in perdita per garantire il pluralismo dell’informazione e la massima diffusione delle idee tramite la carta stampata (e anche su questo ci sarebbe da discutere), la ricerca dice che spesso è vero proprio il contrario. Cioè, meno soldi vengono erogati, più alta è la diffusione. Lo studio è stato condotto da Rasmus Kleis Nielsen (docente di Comunicazione in Danimarca) e da Geert Linnebank (ex caporedattore della Reuters) ed è stato ripreso dal quotidiano britannico The Guardian. Sono stati studiati sei casi: Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania e Finlandia. Escludendo la Finlandia, dove i contributi sono altissimi e le copie vendute anche, negli altri paesi la situazione è piuttosto chiara.
PRENDIAMO l’Italia. Il numero di copie vendute ogni mille abitanti è il più basso di tutti: 103 contro le 152 della Francia, le 200 degli Usa, 283 della Germania, 307 di Gran Bretagna e 483 di Finlandia. Il tutto per una spesa pro capite che è la più alta. E cioè l’importo del sussidio pubblico (diretto e indiretto, cioè per esempio gli sconti sull’Iva e le spedizioni postali) ogni mille lettori in Italia è di 8,79 euro, contro gli 8,15 della Francia, 4,02 di Usa, 2,43 del Regno Unito, 1,8 della Germania e 0,64 della Finlandia. Gli Stati Uniti spendono solo il 16 per cento per abitante di quanto fa l’Italia, ma hanno il 94 per cento di lettori in più per 1000 abitanti. La Germania spende solo il 40 per cento di quanto sperperiamo noi, ma hanno tre volte i nostri lettori
“Praticamente possiamo dire che non c’è nessuna speranza di poter invertire il declino della diffusione dei giornali distribuendo sussidi e sovvenzioni” conclude la ricerca, che tra l’altro sfata un altro mito: la diffusione di Internet non è tra le cause del calo della carta stampata. Così come la televisione non ha ucciso la radio, come si credeva, così non sarà il web a uccidere la carta stampata. Infatti, sempre la stessa ricerca, mostra come nei paesi dove è alta la diffusione dei giornali online è alta anche quella cartacea. Ancora una volta si continua a sostenere il passato (tutti i sistemi di finanziamento confrontati risalgono agli anni Settanta, sono quindi forme antiquate) e non si guarda al futuro (Internet e web).

il Fatto 15.9.11
A domanda rispondo. Ladri di Lettere
Furio Colombo risponde a Paolo Izzo


A Lampedusa un turista incontra meno migranti che nel resto d'Italia. In compenso ci sono più forze dell'ordine che al G8 di Genova del 2001. I migranti sono rinchiusi in due centri di cosiddetta accoglienza. Le forze dell'ordine controllano che non escano. Talvolta i migranti tentano di uscire anche se non saprebbero dove andare, essendo Lampedusa un’isola. Ed è allora che il turista li vede. Proprio come l'altro giorno, quando, assieme agli adulti, sono fuggiti anche i bambini. Per fare il bagno in mare! Ora un turista di Lampedusa si chiede: con tutte queste forze dell’ordine, non si potrebbe far sì che ogni giorno i “bambini invisibili” di Lampedusa sperimentino la libertà di fare almeno un bagno nel mare, proprio come i loro coetanei turisti?
Paolo Izzo

IL LETTORE abituale di questa pagina avrà notato due anomalie: la firma completa, che qui viene usata solo quando la lettera pubblicata è un documento. E il fatto che la lettera stessa non sia indirizzata a qualcuno in particolare. Infatti è una lettera rubata, lo confesso. E me ne scuso con il “Corriere della Sera”, rubrica di Sergio Romano (10 settembre, pag, 54). Poiché quel giornale ha scelto di pubblicare la lettera senza rispondere, mi sono permesso di rubarla per dare una risposta sul “Fatto”, sperando “Il Corriere” perdoni il misfatto. La lettera è bella e importante perché parla dei bambini invisibili, una incredibile e disumana realtà italiana di cui è diventato specialista il ministro dell'Interno Maroni. È vero che il ministro Maroni è uno che ha giurato su un suo Stato immaginario prima che sulla Costituzione italiana, uno che partecipa, in camicia verde, alle adunate di un “territorio” (come dicono loro) detto Padania che proclama e ripete il programma secessionista (dunque, dal punto di vista della Repubblica italiana, un reato, perché, dice la Costituzione, “l’Italia è unica e indivisibile”). Resta il fatto che le Istituzioni gli hanno consentito di infiltrarsi come ministro-chiave nella Repubblica italiana per arrecare tutto il danno che un avversario di questa Repubblica può arrecare. Come racconta l'inviato de “L’Espresso”, Fabrizio Gatti (8 settembre 2011, pag. 34 ) i bambini invisibili “hanno pochi anni, alcuni pochi mesi, sono rinchiusi in centinaia nel centro di detenzione di Lampedusa, dove restano per settimane tra malattie, incidenti, caldo infernale”. Quando, il giorno 1 aprile 2011 il deputato Andrea Sarubbi e io siamo andati a Lampedusa, nei giorni degli sbarchi continui e disperati, per verificare, con il nostro diritto di deputati, le condizioni in cui la Repubblica italiana tiene i bambini profughi dalle guerre e dalla fame, il ministro leghista padano in persona, ha impedito la nostra legittima visita, costringendo a un comportamento illegale la polizia italiana. Solo il giorno prima c’era stata una rivolta. Non sono cose che turbano questa Repubblica, che ha perso il rispetto per le clamorose violazioni degli impegni europei e dei trattati internazionali, nel rapporto con i profughi, i migranti, coloro che invocano invano dall'Italia diritto d'asilo, e i bambini invisibili. Ma un italiano normale si è accorto, ha visto e ha raccontato . E io mi sono preso la responsabilità di rubare dal “Corriere” e pubblicare qui la sua lettera.