lunedì 19 settembre 2011

l’Unità 19.9.11
L’interesse nazionale
di Michele Ciliberto


Si capisce che Bossi a Venezia abbia cercato di alzare la voce e abbia riparlato di secessione riproponendo il mito fondativo della Padania. È un modulo tipico: quando è in difficoltà si sforza di alzare la posta, anzitutto sul piano lessicale, per mobilitare il popolo leghista.
E, certo, non è mai stato in difficoltà come oggi: come era facile prevedere la crisi del berlusconismo, arrivato ormai al suo epilogo, si è rovesciata, direttamente sulla sua personale leadership, aprendo anche nuove, ma profonde, lacerazioni sia fra la “base” e il “vertice” (come si è visto a Pontida), sia nel gruppo dirigente del partito (come si vede quotidianamente). Tutti fenomeni inediti per un movimento che del primato indiscusso del capo e della compattezza dei suoi quadri e dei suoi militanti ha fatto un proprio tratto originario e distintivo, in coerenza con l’ideologia populista e organicistica su cui era,originariamente, basato.
Ovviamente, questa decomposizione dei primitivi “modelli” politici e culturali a cominciare dalla idea della militanza non è casuale: sono anni ormai che Bossi si è legato mani e piedi a Berlusconi senza riuscire a conseguire alcun risultato politico significativo, coprendone anzi tutte le scelte ed i comportamenti sia pubblici che privati.
Un “capo” (e uso volutamente questo termine) preoccupato delle sorti del proprio movimento si sarebbe interrogato sulle ragioni della crisi, sui motivi del cattivo risultato alle amministrative, sulle cause del disorientamento e della disaffezione della “base”, sulle lacerazioni nel gruppo dirigente; e avrebbe cercato di individuare una via politica alternativa in grado di realizzare gli obiettivi del movimento. Niente di tutto questo: a Venezia, Bossi ha ritirato dai cassetti lo stendardo della Padania e ha scelto, politicamente, di seguire il suo alleato fino a Salò.
Sono scelte assai gravi che pongono problemi seri al sistema politico italiano nella sua generalità, perché pur nella sua rozzezza il “ritorno” alla Padania esprime, comunque, una idea sulla crisi italiana e sui modi con cui uscirne. E ciò che è più grave, esprime una idea che è diffusa, al di là del fronte leghista. Oggi, da varie parti, si comincia a credere che si possa uscire dalla crisi ritirandosi, e riparandosi, nelle “piccole” Italie, considerando esaurita l’epoca dello Stato nazionale unitario. Non sono posizioni nuove: è (almeno) dagli anni Ottanta del secolo scorso che si è cominciato a parlare della crisi dello Stato nazionale, ed è anzi in questa stagione che la Lega, come movimento, ha cominciato a muovere i primi passi. Né c’è dubbio che gli Stati nazionali moderni stiano oggi attraversando momenti difficili, che coinvolgono il loro futuro.
Ma se questo è un fatto, il problema politico e culturale consiste nella interpretazione che si dà di questo processo e nella prospettiva che ,su entrambi i piani, se ne fa scaturire. E a mio giudizio, u questo punto, che è cruciale, un dato appare chiaro: la costruzione pur faticosa dell’Europa e dell’euro, i processi di globalizzazione, la stessa difesa degli interessi di parte richiedono oggi un forte rafforzamento delle identità nazionali, non un loro indebolimento. E questo riguarda l’avvenire sia dell’Italia che dell’Europa.
L’Europa, se vuole continuare ad avere un ruolo nel mondo, deve saper valorizzare le “differenze” nazionali di cui la sua storia è sostanziata, e trasformarle in un principio di forza e di energia. L’Italia se vuole continuare a svolgere anche attraverso le sue diverse componenti regionali un ruolo di primo piano nella prospettiva di una nuova identità culturale e ideale europea, deve saper proporre con massima energia, i caratteri originari della propria storia, senza disperderli in una generica e indifferenziata “unità” europea, in cui come direbbe il filosofo “tutte le vacche sono nere”; e senza rifugiarsi nel mito della Padania o delle “piccole” patrie. È una questione strettamente materiale, ma anche di ordine ideale, sulla quale l’Italia proprio in quanto nazione ha molto da dire. A quelli che la denigrano e vogliono ripararsi nelle “piccole patrie” andrebbe ricordato, o spiegato se non lo sanno, che in Italia sono nate le “libertà dei moderni”; che l’Italia è il Paese di Machiavelli, Bruno, Galilei, Giannone, Beccaria...; che attraverso le loro opere e la loro “sapienza civile” la nazione italiana ha parlato, e può continuare a parlare, all’Europa e al mondo.

l’Unità 19.9.11
Bersani: «Il governo non arriverà al 2013 Il partito del nord è il Pd»
Il segretario dei democratici a Bologna: «Berlusconi sta trascinando tutti nel baratro, chiedo alle forze sociali e alla borghesia di battere un colpo altrimenti la crisi di fiducia colppirà tutti»
di Gigi Marcucci


AItri due anni di Berlusconi? Nessuno se lo può permettere. Non può l’opposizione e sarebbe letale per il Paese. Fino al 2013 con questo governo «sarebbe un disastro», taglia corto Pier Luigi Bersani. «Non ci si arriva» anche perché «tutte le volte che Berlusconi dice che intende rimanere fino alla fine del mandato «lo spread sale». Poi il segretario del Pd cita De Andrè, la “Domenica delle salme”, e tenta di rianimare «le voci potenti» che sin qui hanno taciuto o emesso flebili obiezioni. «Non è solo di Berlusconi la responsabilità». Un ri-
ferimento a forze sociali, borghesia e grandi quotidiani perché battano un colpo e si eviti di avvicinarsi ulteriormente al baratro. Da Bologna, intervistato alla Festa dell’Unità dal direttore Claudio Sardo, Bersani conferma che il quadro nazionale è plumbeo, come il cielo nuvoloso che ieri, per la prima volta, ha rotto la lunga estate dei crolli in borsa e degli spread alle stelle, dei Lavitola e dei Tarantini.
Sui giornali tedeschi sono uscite le dichiarazioni irriferibili che Berlusconi avrebbe fatto sulla cancelliera tedesca Angela Merkel, ricorda il segretario. «I tedeschi osserva si aspettavano una smentita radicale che però non è arrivata». E così la credibilità del Paese va a picco. Tanto che Berlusconi non può nemmeno presentarsi all’Onu, dove si discute tra l’altro di Palestina e Libia, cioè della parte del pianeta appena fuori dalla porta di casa : «Adesso trova più imbarazzante quel tribunale di quello di Milano».
È una Festa da un milione di ingressi in poco meno di un mese quella a cui il leader del Pd racconta di un Paese che non ce la fa più, dove Berlusconi «ha inchiodato il Pdl e il Pdl sta inchiodando le istituzioni». Un’Italia simile a un treno senza guidatore, sconvolta da una crisi finanziaria senza precedenti. Un orizzonte che spinge guardare oltre frontiera, a cercare legami sempre più solidi coi progressisti europei e a pigiare sull’acceleratore del Nuovo Ulivo ipotizzato a Vasto, condividendo un palco con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro.
«Qui non siamo di fronte a un passaggio qualunque», dice Bersani, ricordando che la prossima legislatura dovrà necessariamente avere una valenza costituente.
«Il punto è dire cosa vogliamo noi, non chiedere se gli altri vengono o non vengono», detta il segretario. E ricorda l’esperienza delle ultime elezioni amministrative («Ormai il partito del Nord siamo noi», manda a dire alla Lega): «Dove sono venuti con noi abbiamo vinto, dove non sono venuti, ai ballottaggi gli elettori hanno scelto noi». Insomma pochi patemi per eventuali dinieghi centristi e nessuna nostalgia per il terzismo di «quelli che si dà una botta a destra e una a sinistra e così, biblicamente, si aprono le acque, passi dall’altra parte e sei anche asciutto». «Abbiamo già dato», scandisce Bersani. Ma subito ribadisce che la voce del Pd deve arrivare «all’area popolare e ai ceti medi traditi da Berlusconi». Meglio non scherzare con una situazione in cui non è solo un premier«a tempo perso» a perdere consensi. C’è una crisi di fiducia che ormai lambisce tutte le istituzioni, spiega il segretario. «Crozza mi chiedeva cosa intendo dire con la frase “Quando piove, piove per tutti”. Intendevo dire proprio questo».
Inevitabile il passaggio sulla «dolorosa» vicenda Penati, la tempesta che da Sesto soffia sul Pd. «Dolorosa perché su queste cose noi abbiamo un elettorato ipersensibile», attacca il segretario. Ricorda che la diversità del partito non è cromosomica ma politica, insiste tra l’altro sul fatto che il Pd è l’unico partito a far certificare i propri bilanci. «Qualcuno ci scherza sopra dice anziché chiedere che tutti gli altri partiti facciano la stessa cosa». Già, i partiti. «In Italia siamo gli unici a chiamarci partito», dice Bersani, aggiungendo che in Europa e nel mondo quel nome non ispira tanta soggezione ed è adottato da tutte le organizzazioni politiche rappresentative. «L’alternativa alla politica dei partiti è l’uomo solo al comando». E anche qui, verrebbe da dire, abbiamo già dato.

l’Unità 19.9.11
Intervista ad Anna Finocchiaro
«Un nuovo governo per ritrovare dignità»
La capogruppo al Senato «L’Udc deve prendere posizione, non
è tempo di terzismi. Da Alfano ci saremmo aspettati più lungimiranza»
di Simone Collini


Il punto è la perdita di dignità, il fatto che in tutto il mondo ormai siamo oggetto di scherno. E la principale causa è il nostro presidente del Consiglio». Per Anna Finocchiaro non c’è più tempo da perdere: «Questo governo non esiste più, ormai è una accozzaglia politica che sta in piedi solo con i voti di fiducia in Parlamento. C’è un urgente bisogno di un nuovo governo e un nuovo premier per portare l’Italia fuori da questa immonda palude». Alfano fa sapere che “Berlusconi non ha alcuna voglia di dimettersi” e che il Pdl non vuole “larghe intese”. «Ha perso una buona occasione per fare qualcos’altro che il portavoce del presidente del Consiglio. Peccato. Da un giovane segretario di partito ci si sarebbe aspettati più lungimiranza».
Ma ha senso continuare a invocare un nuovo governo, se questa è la controparte?
«E allora cosa, vogliamo tenerci uno che fa “il premier a tempo perso” e svergogna il nostro Paese agli occhi dell’opinione pubblica? Un ministro della Repubblica che dimostra di essere incompatibile col suo ruolo, che invoca la secessione del Nord per paura di perdere i propri elettori e per ricattare il suo alleato? C’è un’enorme discrepanza tra il Paese, i suoi problemi, le difficoltà degli italiani, e questa pantomima del tutto incompatibile con l’interesse dell’Italia. È necessario che Berlusconi, che ormai vive ossessionato dai suoi processi e dalle sue “bambine”, lasci con urgenza il governo. Se non lo capisce da solo glielo faccia capire chi in questi anni gli è stato attorno, ha governato, ha legiferato».
Una spinta ulteriore potrebbe venire anche dalla classe dirigente diffusa, da chi ha ruolo di direzione o di orientamento nella società?
«Segnali importanti cominciano ad arrivare. La stessa posizione di Confindustria ha registrato dei toni e una determinazione che non avremmo sospettato in altri momenti. Ma adesso bisogna capire se la classe dirigente del centrodestra si può definire tale, se qualcuno dimostra cioè di pensare all’Italia, che in questo momento di grave crisi deve anche sopportare il macigno ulteriore della perdita di credibilità e di prestigio in sede internazionale».
Nel caso in cui Berlusconi si decidesse a fare un passo indietro, per il Pd la via maestra sarebbe il voto o un governo di transizione?
«Si farà ciò che è più utile al Paese e che sarà possibili nelle condizioni politiche che si dovessero creare. Ma ciò che è evidente è che l’Italia non può sopportare più questo governo. Noi siamo il primo partito e mai il centrodestra è stato così debole, quindi siamo i meno preoccupati dall’ipotesi del voto anticipato. Ma ogni decisione andrà presa pensando non al bene del partito ma al bene dell’Italia».
Dai sondaggi emerge che il Pd sta pagando la vicenda-Penati.
«Noi pagheremo tutto, è ovvio. Ma abbiamo una sola strada e l’abbiamo già percorsa, dimostrando un comportamento trasparente e coerente. Abbiamo deciso di sospendere dal partito chi è indagato per fatti gravissimi, non abbiamo mai attaccato la magistratura e non abbiamo mai fatto nulla per sottrarre qualcuno ai processi con leggi e leggine. E stiamo lavorando per rendere ancora più rigoroso il nostro codice etico e più penetranti i poteri della commissione di garanzia».
Come giudica l’atteggiamento dell’Udc verso il Nuovo Ulivo? «L’Udc sta giocando una partita più da spettatore che da attaccante. Ha deciso di fare del terzismo la sua chiave. In un momento di grave difficoltà per il Paese i cittadini chiedono a ciascuna forza politica di assumersi delle responsabilità, e l’Udc non lo sta facendo. Ma ora deve essere chiaro a tutti che non ci sono alibi per nessuno. O da una parte o dall’altra. Terzismi possono essere utili in altre fasi, non in questa».
Però anche nel Pd c’è chi esprime perplessità sull’accelerazione impressa alla festa dell’Idv sull’alleanza a tre. «Ma Bersani lo ha detto chiaramente, prima si definisce il programma, poi vengono le alleanze e infine si sceglie il candidato premier».
E l’Udc va coinvolto in questo percorso fin dal primo passo?
«Noi abbiamo tentato e tenteremo ancora di coinvolgere nella definizione del programma tutte le forze politiche di opposizione. Ma non tutto è nelle nostre mani. Spero però ora si rendano tutti conto che di fronte alla gravità della situazione certi atteggiamenti rischiano di diventare stucchevoli».
Il Pd ha depositato al Senato una proposta di legge elettorale, mentre sembra certo che saranno raccolte le firme necessarie per un referendum che farebbe tornare il Mattarellum. «Lavoriamo perché si avvii il processo in Parlamento. La nostra proposta garantisce la possibilità di formare governi più stabili di quanto non fossero quelli nati dal Mattarellum, che non prevedendo il doppio turno spinge verso alleanze non omogenee. Dopodiché, se non si riuscisse, ben venga il referendum perché tutto è meglio del Porcellum».

l’Unità 19.9.11
Donne, animali da soma
La questione femminile che travolge l’Italia
di Lorella Zanardo


Da Noemi al caso Tarantini, passando per le migliaia di intercettazioni che svelano le ossessioni del premier. Al centro, giovani e giovanissime usate come merce di scambio: una malattia che coinvolge l’intero Paese

Mi parli di Clarissa, mi parli di Carolina, mi parli di quest’altra, della Luciana, chi sono? Prendi un caravan... cosa ti devo dire...». «Vedi, dovremmo averne due a testa se no mi sento sempre in debito, tu porta per te e io porto le mie. Poi ce le prestiamo. Insomma la patonza deve girare».
Racconta uno degli investigatori che per due anni ha ascoltato le intercettazioni telefoniche che riguardavano anche il Premier che «si trattavano le donne come bestie da soma».
Rispetto a due anni e mezzo fa ciò che emerge in questi giorni è diverso e, se possibile, peggiore. Allora Noemi e le altre parevano oggetti, gingilli, “grechine” sacrificali delle serate del drago, come ebbe a definire il marito, l’allora moglie Veronica. Non era emerso il lato bestiale che invece emerge ora dalle frenetiche richieste del faccendiere Tarantini ad un amico: «Trova una tr...a per favore. Io alle due sto salendo in aereo e non posso più chiamare, però trova qualche altra femmina». Donne che diventano oggetto di scambio di favori importanti, di soldi, di carriere. Donne giovanissime, «le mie bambine», tante, tantissime da cercare costantemente, urgentemente: per ognuna si potrà chiedere al premier un prezzo sempre più alto. Tenerlo in pugno. Migliaia di intercettazioni che raccontano di questa frenesia, un’occupazione che prende tempo, tanto tempo da far definire l’altra occupazione, quella politica di Premier, un impegno «a tempo perso». Non c’è nulla da aggiungere, queste poche righe raccontano meglio di mille analisi la crisi di un Paese dato ormai per perso da molti commentatori esteri. I dettagli suscitano un’attenzione morbosa, molti lettori paiono alla ricerca di notizie sempre più volgari, di dettagli agghiaccianti su quella che appare essere stata l’occupazione principale del primo ministro negli ultimi anni. Un uomo malato su cui si chiuderà il sipario a breve. A noi l’eredità di uscire dal disastro.
E come donna che racconta delle vite delle donne e che ne incontra migliaia nelle scuole in giro per l’Italia, constato che il disastro coinvolge e coinvolgerà prevalentemente noi donne.
In un Paese tradizionalmente maschilista, questo ci raccontano i dati internazionali che ci piazzano al 74esimo posto del Gender Gap, le donne hanno negli ultimi anni ricominciato in massa ad occuparsi dei loro diritti, attraverso azioni concrete che spesso hanno raggiunto obiettivi importanti: efficacissime sono state, tra le altre, le azioni delle giovani blogger in rete che hanno messo al bando numerose campagne pubblicitarie lesive della nostra dignità. Battaglie faticose quelle delle donne, che hanno poca visibilità sui media nostrani, che appaiono un giorno e vengono poi dimenticate per mesi. Faticosissime e portate avanti con energia incredibile e perseverante: in questi anni ho incontrato donne italiane impegnate in battaglie importanti per il welfare, per le donne violentate, per la scuola, per il rispetto dei diritti, diritti spesso per tutti e non solo per le donne. Donne che a testa bassa hanno proseguito la loro lotta tra il disinteresse quasi generale.
E però è stato per la denuncia di alcune donne che lo scandalo è emerso. Donne diverse per età, provenienza politica, abitudini.
Ed è a causa dell’ossessione per le donne che il nostro primo ministro sta camminando verso la fine della sua carriera politica.
Berlusconi scomparirà e allora si renderà necessario ricostruire dalle macerie, partendo proprio dalla questione femminile, quella che in questo Paese non si vuole affrontare. Una volta scomparso dalla scena il premier, si evidenzierà che il tema della valorizzazione di genere, della parità di diritti, della corretta rappresentazione nei media delle donne, coinvolgerà come una valanga il Paese tutto. Se si nega questa evidenza, se non si inizierà a lavorare concretamente su questo tema, questo Paese non avrà futuro.
Citando Newsweek, che l’Italia sia un Paese in difficoltà lo si evince anche da come considera e tratta le donne.
Il problema di Berlusconi e le donne è ormai da considerarsi malattia grave che coinvolge un Paese intero.
Come si sia arrivati a questa scempio, come sia stato possibile che un degrado tale coinvolgesse politici, uomini d’affari, imprenditori. Come è stato possibile che per trent’anni si sia concesso ad un uomo, pur potente, di realizzare attraverso le sue reti televisive un suo personalissimo immaginario fatto di donnine e comici barzellettieri? Come può sfuggire ai più che le notti di Arcore altro non erano che la rappresentazione casalinga di uno dei tanti show che vanno in onda da trent’anni tutti i giorni sulle reti del Cavaliere e purtroppo anche sulla tv pubblica? Trasmissioni di cui abbiamo riso, programmi che hanno guardato milioni di italiani con compiacimento.
Le interviste alle ragazze del Premier lasciano ammutolite: «Lui è un leone, gli altri pecore invidiose. Devi essere disposta a tutto per avere, anche a vendere tua madre. Se vuoi essere re, se vuoi guadagnare 20mila euro e non 1000».
Su questo dovremo lavorare tutti e tutte, perché sia chiaro che le parole delle olgettine e delle altre ragazze, sono il frutto della non cultura di questi anni: con la scuola, messa in ginocchio, con la famiglia in crisi, la televisione è stata agente di socializzazione libera di spopolare ed ha potuto svolgere il ruolo di cattiva maestra. Fate la prova: accendete la tv un pomeriggio o una sera qualsiasi e ascoltate: «Che entrino le bocce di Cristina e Francesca» urla una matura presentatrice mentre avanzano giovanissime superaccessoriate. Parrebbe una notte ad Arcore.
«Ho sedici anni, non ho nemmeno il motorino. In tv e anche i politici, quelli dell’età di mio nonno, se la fanno con quelle della mia età. Mi dica lei, io che possibilità ho?» mi chiede un sedicenne in un liceo toscano.
«Io non sono così», grida una ragazzina veneta indicando lo schermo su cui stiamo vedendo degli spezzoni tv, «io sono diversa, dov’è il mio posto?».
Sarà urgente che la “questione femminile” diventi il primo punto di una seria futura agenda politica del Paese. «I Paesi Italia e Grecia, che pur presentano iniziative significative appaiono ‘in resistenza’, come se la rappresentazione stereotipata della donna fosse un tratto antropologico fortemente radicato su cui non vale la pena avviare politiche evolutive». Queste le conclusioni del Censis nel suo rapporto “Donne e Media in Europa”.
Intanto migliaia di ragazze reali esistono, ci sono, lavorano, studiano. È urgente renderle visibili. È già realtà in molti altri Paesi europei.
* Blogger e documentarista

l’Unità 19.9.11
Con l’alibi dei costi della politica, si vogliono colpire i giornali di idee, cooperative e no profit
Il governo ha già drasticamente ridotto i finanziamenti senza «bonificare» il settore
Editoria, riparte l’assalto al pluralismo: coi tagli cento testate a rischio
È ripartito l’assalto ai giornali politici, no-profit e editi dalle cooperative. L’alibi è quello dei tagli ai costi della politica, in realtà si colpiscono voci scomode. I tagli sono già pesanti, 4 mila i posti a rischio.
di Roberto Monteforte


Tagliare i costi. L’opinione pubblica insiste per un taglio dei costi della politica. Ma attenzione a non buttare con l’acqua sporca anche il bambino. Perché c’è chi tenta di sfruttare l’emergenza legata alla crisi per realizzare una violenta e pericolosa sforbiciata non tanto alla “casta”, ma ai diritti e alle forme di democrazia. Non vi è solo l’articolo 8 della Manovra straordinaria che mette in discussione le garanzie fissate dallo statuto dei lavoratori. Anche il diritto all’informazione e la tutela del pluralismo rischiano di uscire triturate con i tagli alle testate non profit, di idee, cooperative e politiche, oggi veramente a rischio chiusura, praticata dal governo Berlusconi. Vi sono i tagli su ciò che si è già tagliato. Oltre a cancellare i contributi indiretti come le agevolazioni sulle tariffe postali, per quelli diretti dai 408 milioni di euro del 2008 lo scorso anno si è passati a 195 milioni per il 2010, 2011 e 2011. Ma in realtà quelli realmente disponibili non saranno più di 90 milioni di euro, visto che su quella posta vanno ora a gravare anche i circa 50 milioni di euro della convenzione tra Stato e Rai ed altri 50 milioni l’anno destinati a coprire il debito storico che l’amministrazione pubblica ha verso le Poste. Sono spese che nulla hanno a che fare con le finalità del Fondo per l’editoria. Risorse incerte e comunque dimezzate.
IL DIRITTO SOGGETTIVO
A questo si aggiungono gli effetti drammatici della cancellazione del diritto “soggettivo” al finanziamento pubblico. Ora, con la logica del “riparto” degli stanziamenti, solo a fine anno le aziende potranno sapere l’entità delle risorse che saranno disponibili, per un finanziamento che sarà disponibile solo l’anno seguente. Questa incertezza sulle risorse disponibili ha già praticamente impedito agli amministratori di indicare cifre certe nei loro bilanci e questo ha finito per rendere ancora più problematico, incerto e oneroso il rapporto con il sistema bancario. Non è certo facile, in queste condizioni, mettere in campo strategie di impresa, di vero rilancio del settore, accettando la sfida dell’innovazione tecnologica e programmare investimenti a medio termine.
Così un centinaio di testate rischiano la chiusura e circa quattromila dipendenti, tra giornalisti e poligrafici, la disoccupazione. Si tratta in molti casi di giornali che esprimono un punto di vista critico nel panorama editoriale italiano e che ne arricchiscono il pluralismo. Da Il Manifesto ad Avvenire, da Salvagente a Terra, dalle testate diocesane, ai quotidiani editi da cooperative di giornalisti che assicurano l’informazione delle comunità locali, sino ai quotidiani politici come Liberazione, La Padania, Europa, Il Secolo d’Italia, come la stessa Unità. Voci antiche e spesso scomode.
L’ARTICOLO 21
Questo spiega l’intervento correttivo della politica che per garantire la piena applicazione dell’articolo 21 della Costituzione ha assicurato un sostegno a queste realtà, prima con l’istituzione delle provvidenze e poi del Fondo per l’editoria. Quindi, non una tassa a favore della «casta» o a favore dei costi della politica, come qualcuno denuncia dimenticando le richieste di pulizia e di una radicale riforma dei criteri di assegnazione dei contributi. Che occorra bonificare il settore, disboscandolo dalle finte cooperative o dalle testate nate solo per raccogliere il finanziamento pubblico, lo chiede proprio l’articolato mondo dell’editoria non-profit, di idee, cooperative e politica, da Mediacoop alla Fnsi, al Comitato per la libertà di informazione e il pluralismo, ai direttori e alle redazioni dei giornali politici interessati. Da tempo sul tavolo vi sono proposte precise per definire criteri oggettivi e rigorosi per l’assegnazione dei contributi legati alla tiratura, alla reale diffusione e alla effettiva occupazione delle aziende interessate che anticipino la Riforma di sistema da tempo annunciata, ma che tarda a venire. Per questo un gruppo trasversale di parlamentari tra cui il senatore del Pd Vincenzo Vita ha già annunciato un emendamento per la prossima Manovra “ordinaria” di ottobre, che anticipi la Riforma, legando il finanziamento a criteri di selezione che favorisca le aziende vere, con dipendenti regolarmente assunti, con un prodotto che è in edicola. L’altra richiesta è di assicurare almeno quei 180 milioni di euro stanziati lo scorso anno.
Chi si appella al mercato e alle sue logiche regolarizzatrici dovrebbe ricordarsi dell’anomalia italiana: l’andamento del mercato pubblicitario. È l’altra faccia del conflitto di interessi del premier Berlusconi. A differenza degli altri principali paesi europei dati 2008 in Italia la televisione drena oltre il 58 % della pubblicità, con Mediaset che la fa da padrona aggiudicandosi il 35% del mercato. Alla Rai va il 15% e alle altre emittenti nazionali l’8%. Alla stampa va complessivamente meno del 30%, di cui ai quotidiani va il 18% e ai periodici il 10%. Il fatturato pubblicitario di Internet, in espansione, non supera il 5%. Per capire l’anomalia basta confrontarla con i dati europei: la media è del 30% alla Tv, 45% alla stampa, il 5% alla radio e 20 % per gli altri mezzi, quelli «mondo» sono 39% per la Tv, 40 % Stampa, 8% Radio e 13 % altri mezzi (dati Zenith Optimedia).
Questo dato già significativo, diventa davvero drammatico se guardiamo alla realtà dell’editoria «no profit». La raccolta pubblicitaria premia i gruppi editoriali forti e se in media pesa per il 50% delle entrate, per questo settore e a prescindere dalla tiratura, non supera il 15 % delle entrate. Il contributo pubblico, in parte, compensa questa discriminazione.
Assicurare la vita di queste voci non è un problema di democrazia?

Corriere della Sera 19.9.11
La «foto di Vasto» agita il Pd
Il dalemiano Orfini: non mi rassicura. Veltroni: con l'Unione abbiamo già dato
di Maria Teresa Meli


ROMA — Una foto non opportuna: i tre leader della minoranza interna del Partito democratico giudicano così l'immagine che ritrae il loro segretario con Di Pietro e Vendola in quel di Vasto. Uno scambio di idee e il verdetto è stato unanime. «Sembrano le tre Grazie: Grazia, Graziella e...», ha ironizzato Fioroni. «Con la mini-alleanza di sinistra non andiamo da nessuna parte», ha rincarato Gentiloni. «Con l'Unione abbiamo già dato», ha osservato, lapidario, Veltroni. E la minoranza del Pd, il 10 ottobre, in un grande appuntamento nazionale, dirà la sua su questo e altro.
Ma il problema è che quella foto non è piaciuta anche a molti esponenti della maggioranza del Partito democratico. L'ultra-dalemiano Matteo Orfini, membro della segreteria del Pd, in un'intervista sull'Unità di ieri non ha nascosto le sue — a dir poco — perplessità: «La foto di Vasto non mi rassicura». Il ragionamento del fedelissimo dell'ex premier è questo: «Non so quanto trasmetta l'idea di rinnovamento del Paese la foto di Bersani con Di Pietro e Vendola». E ancora: «Sarebbe grave per alcuni interessi di bottega bruciare il tentativo di dialogo con i moderati. Non so se alcuni argomenti di Di Pietro facciano bene a un'alleanza come la nostra».
Il lettiano Francesco Boccia è meno perentorio, ma anche a lui quella «foto inopportuna» di Vasto non è piaciuta: «Bersani fa il suo lavoro bene, cuce, mette pezzi insieme. Non ha mai pensato di tenere lontano l'uno, anziché l'altro: ha la speranza di metterli tutti insieme. Forse Vasto dimostra proprio quanto sia difficile, se non impossibile, e alla fine sarà necessario fare scelte forti. Il problema è che cucire con Di Pietro, che poi spara su Casini, è impossibile: il leader dell'Idv ha dimostrato tutta la sua inaffidabilità».
Gli altri dirigenti del Pd preferiscono il silenzio: non riescono a difendere quella foto. «Io non dichiaro», mette le mani avanti il capogruppo alla Camera Dario Franceschini. Persino chi quell'immagine ha gradito non si lancia in encomi e in proclami. Un esterno — ma mica tanto, visto che governa Milano con il Pd — quale è Giuliano Pisapia, la giudica «bellissima», però, intervistato da Maria Latella, su Sky, precisa così il suo pensiero: «È una bellissima foto di ripartenza, non di arrivo. Manca una nuova generazione di giovani ai posti di dirigenza. I segretari di Pd, Idv e Sel devono passare il testimone ai giovani».
Di fronte a malumori, mugugni e maldipancia, il segretario del Partito Democratico corregge il tiro, ma fino a un certo punto. Il 3 ottobre, in Direzione, spiegherà meglio il suo punto di vista. Bersani è convinto che Di Pietro, attaccando Casini, «abbia sbagliato a mettere un dito negli occhi agli elettori moderati che dobbiamo conquistare, perché l'obiettivo è l'alleanza tra loro e i progressisti», però non nega che la prima tappa sia quella dell'intesa con Idv e Sel. «Stiamo già lavorando a livello programmatico — spiega — e abbiamo già visto quali sono i punti di sofferenza, perché non vogliamo fare un programma di 385 pagine, come quello dell'Unione, bensì 10 proposte».
Con Di Pietro e Vendola Bersani vuole «un'alleanza solida», «compatibile» con un accordo con i moderati: «Se l'Udc dirà di no, ne pagherà il prezzo». E l'Udc l'altro giorno ha detto proprio di no. Il segretario, però, non dispera. Ma una cosa è certa, come dice Di Pietro: «Rispetto all'alleanza con Sel e Idv a questo punto non potrà più tornare indietro». Se non altro perché con loro il Pd ha già avviato la macchina elettorale, nella speranza che si vada al voto nella primavera del 2012.

Corriere della Sera 19.9.11
Costamagna: Telese dice falsità. Maschilismo anche su di me
La conduttrice: essere carina aiuta, ma basta con l'aspetto fisico
di Angela Frenda


MILANO — «La mia situazione attuale? Attesa occupazione». Luisella Costamagna è al mare, a Sabaudia, con la famiglia. La sua polemica a distanza con Luca Telese, fino a pochi giorni fa conduttore, assieme a lei, di In Onda, striscia quotidiana su La7, è diventato un caso on line. I fatti: la ex pupilla di Michele Santoro è stata sostituita alla conduzione della striscia di informazione quotidiana dal vicedirettore del Giornale Nicola Porro, che affiancherà Telese nella nuova stagione. Quest'ultimo ha commentato la notizia sul suo blog, parlando di un'offerta fatta alla Costamagna dalla rete, sulla quale lei starebbe ancora riflettendo. Ma questa spiegazione non è bastata ai fan della conduttrice, che hanno inviato migliaia di messaggi in polemica, ipotizzando un'epurazione politica. E a loro si è aggiunta lei, che ha pensato di intervenire direttamente in rete e di dire la sua. Smentendo Luca Telese.
Perché l'ha fatto?
«Prima di tutto perché i commenti erano una cifra spaventosa: oltre i 3 mila, 3.500. Mentre Telese parlava di poche decine e provava a ridimensionare le proteste, facendoli passare per degli invasati, degli integralisti… Ma visto che in queste settimane ho letto anche io molti commenti su Facebook, mi sembrava giusto sottolineare come in quei messaggi ci fosse un elemento di stima e di affetto nei miei confronti e verso il programma».
Nel suo messaggio su Internet non è stata certo dolce col suo ex collega di trasmissione.
«Telese raccontava falsità sui miei rapporti con la rete, che peraltro dovrebbero essere riservati. E dette da uno che è dentro La7, che lavorava con te, sono parole che acquistano un valore. Per cui sono stata costretta a smentire. Quello di In Onda è un finale inspiegabile che mi danneggia».
Come ha saputo che sarebbe stata sostituita?
«A metà agosto, mentre ancora conducevo la trasmissione, e dopo che a giugno era già stata annunciata alla presentazione dei palinsesti la nuova serie di In Onda con Luisella Costamagna e Luca Telese. Per me dunque è stata una cosa inaspettata».
Lei ha contribuito alla creazione del programma.
«Guardi, il titolo è mio, l'ho proposto io. È un programma che ho contribuito a far nascere, a costruire, ed è stato un programma di successo. Basta vedere i dati: la nostra trasmissione ha chiuso l'edizione estiva con il record del 9,24 di share. E la media quest'estate è stata intorno al 7 per cento. Ecco perché la mia sostituzione non è dettata da ragioni oggettive».
Qualche suo fan ha parlato di un'epurazione politica.
«Non lo so. Resta il dato di fatto che al mio posto è arrivato il vicedirettore del Giornale. C'è chi dice che bisognava riequilibrare la rete a destra».
C'è un altro aspetto: va via una donna, arriva un uomo.
«Non ne faccio una questione di genere, anche se questo aspetto lo vedo come un dato di fatto. La nostra trasmissione era fatta da un mix femminile-maschile che funzionava. Ed è un dato di fatto cha abbiano tolto una donna e ci abbiano messo un uomo…».
Lei ha lavorato in Rai, in Mediaset e poi a La7. Dove ha trovato più maschilismo?
«In Rai e in Mediaset, dal punto di vista della valorizzazione del femminile, non ho visto differenze. La7 per 4 anni, al di là del finale, è stata una rete che mi ha fatto crescere. Io ho iniziato con Omnibus, poi il pomeriggio, poi In Onda. E nei palinsesti finora c'erano molte donne. Ma dal nuovo palinsesto di La7 molte donne sono sparite. La D'Amico, la Cabello… E poi io… E sono arrivati uomini: Nuzzi, Formigli, Porro...».
Lei è indubbiamente bella. Quanto l'ha agevolata e quanto, invece, l'ha danneggiata?
«Questo è un classico. C'è un meccanismo un po' trito e un po' banale di considerare le donne belle necessariamente sceme. Non nego che l'aspetto fisico conti, e per me è stato un elemento di attrazione. Dopo di che certo fai un po' fatica a far capire che se sei di gradevole aspetto non sei anche necessariamente un'oca».
Lei ha cominciato con Michele Santoro. Ha fatto fatica anche con lui?
«Guardi, ero laureata in filosofia, avevo lavorato in un piccolo tg, un barlume di curriculum l'avevo. Dopodiché lui mi ha dato un'immensa possibilità. Sono stata fortunata: nonostante io sia indipendente e libera ho incontrato chi ha creduto in me per altro dall'aspetto fisico. Chiaro poi che c'è in generale un forte maschilismo, anche nell'ambiente giornalistico. Eppure ho fatto una discreta carriera riuscendo a dimostrare che c'era la testa senza rinnegare il femminile. Perché debbo vestirmi da suora laica per essere credibile? La sostanza, se c'è, può passare anche con un abitino…».
A proposito di abitino, spesso in trasmissione Telese le faceva complimenti sul suo aspetto fisico: «la bella Luisella», «l'affascinante Luisella»… E lei si infastidiva.
«Perché ridurre tutto all'aspetto fisico può risultare screditante. Dopodiché non era solo fastidio, ma anche oggettiva difficoltà a ricambiare il complimento. Comunque basta con Telese, appartiene a una vita precedente. Mi interessa quello che verrà».
Ha fatto «storia» un fuori onda durante una puntata di Annozero, nel quale uno dei presenti ha definito «gnocca senza testa» Rula Jebreal. Maschilismo anche a sinistra?
«Il maschilismo non ha colore politico. Ricordo un articolo sul Giornale in cui, tra le "santoriane", ero definita "gnocca con la testa". Meglio di così…».
Dunque nessun imbarazzo a essere considerata oltre che per la sua professionalità anche per il suo aspetto fisico.
«Ho la consapevolezza di essere carina. Però non ho mai percepito questa cosa come un fattore determinante nella mia carriera. Poi c'è da dire una cosa: noi siamo un Paese dove vertici istituzionali, basta leggere le ultime intercettazioni, pronunciano frasi tipo "la patonza deve girare", "porta le tue che poi ce le scambiamo"... A confronto, quello che avviene in tv è quasi roba da cenacolo di umanisti… L'immaginario maschilista pesante riguarda purtroppo chi ha il potere e dovrebbe dare l'esempio».
Cosa farà nei prossimi mesi da disoccupata?
«I disoccupati veri sono altri. Io sono comunque una privilegiata. Per ora ho un contratto per scrivere un libro sul rapporto difficile tra le donne italiane e l'autostima. Quanto a me, sono fiduciosa. Ho passato situazioni difficili, come l'editto bulgaro con Santoro… Ho una scorza dura. Sopravvivrò anche a questo».

Corriere della Sera 19.9.11
Pornostar. Fu eletta per una legislatura
Cicciolina in pensione come parlamentare. Tremila euro al mese
Come Paoli e Toni Negri, anche lui eletto , come la pornostar, dal Parito radicale
di Giovanna Cavalli

qui
http://www.scribd.com/doc/65469443

Corriere della Sera 19.9.11
Confronto con Storace Il «ritorno» di Marrazzo

Tra gli ospiti il presidente della Provincia Nicola Zingaretti

ROMA — Piero Marrazzo torna sulla scena politica. L'ex presidente del Lazio parteciperà alla prima festa regionale dell'Idv, che si apre oggi a Roma.
Questa sera Marrazzo si confronterà con il suo predecessore, Francesco Storace, sul tema «Governare una regione». Nei giorni successivi saranno affrontati temi dall'ambiente all'usura, dalla sicurezza alla crisi e alla mobilità, le riforme, le strategie e le alleanze in seno al centrosinistra. L'ex governatore aveva lasciato la politica e la guida della Regione nell'ottobre del 2009, travolto da un'inchiesta su un giro di ricatti legato all'uso di droga e alla frequentazione di transessuali.
Nell'area della festa idv saranno raccolte le firme per l'abolizione delle Province e dell'attuale legge elettorale.
Tra gli ospiti ci saranno il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, oltre a tutti i rappresentanti nazionali e regionali del'Idv. Sabato 24 la chiusura, dedicata al confronto tra i capigruppo regionali e i segretari romani di Idv, Pd e Sel.

l’Unità 19.9.11
Si apre oggi la consultazione internazionale, presenti Obama e i Grandi. Berlusconi non c’è
In agenda la crisi economica, la Libia e lo Stato di Palestina, un nuovo ordine nel Mediterraneo
Sfide globali all’Assemblea Onu
Ma c’è un’Italia piccola piccola
Un’agenda fitta sui temi più scottanti, dalla crisi economiva, alla Libia e alla richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese. Si apre oggi l’Assemblea Onu a New York, ma l’Italia non si vede.
di Umberto De Giovannangeli


Un’italietta piccola piccola messa ai margini di un’Assemblea grande grande. Non è l’incipit di una favola senza lieto fine, ma è l’imbarazzante riscontro di una realtà che da oggi si concretizza al Palazzo di Vetro dove i leader mondiali si sono dati appuntamento per discutere dei dossier più caldi di un presente planetario incandescente: la crisi finanziaria e una nuova governance mondiale, la ricostruzione della Libia nel dopo-Gheddafi (affari miliardari e geopolitica) e un passaggio-chiave nel conflitto israelo-palestinese. A ciò si aggiungono altre questioni che da sole meriterebbero un’attenzione particolare: l’Afghanistan, l’emergenza umanitaria in Somalia, il rapporto tra il “vecchio” G8 e le nuove potenze emerse (Cina, India, Sud Africa, Brasile) che reclamano un allargamento del tavolo dei Grandi. Un’agenda «epocale» quella che sarà al centro della 66ma Assemblea generale delle Nazioni Unite. I nuovi equilibri internazionali prenderanno forma e consistenza nelle sedute, e ancor più nelle riunioni «di corridoio», che caratterizzeranno le assise newyorkesi. L’elenco delle presenza di capi di Stato e di Governo è sterminato. L’unica casella vuota è quella dell’Italia. Ma nessuno, tra i grandi presenti a New York, sembra farci caso. E questa è già di per sé una constatazione mortificante. Gli aedi mediatici del Cavaliere proveranno a raccontare una favola quella di una Italia presente e considerata e amplificheranno le esternazioni del capo della delegazione italiana all’Assemblea dell’Onu: l’impalpabile ministro degli Esteri, Franco Frattini.
Ma la propaganda non può cancellare la realtà dei fatti: nella sede in cui si assumeranno decisioni destinate a lasciare il segno in un futuro che si fa già presente, l’Italia non avrà voce. Per il Cavaliere impresentabile (nel mondo), il gioco è finito ancor prima del suo inizio. Game over. Sul Medio Oriente, sulla Libia, nella discussione che i leader dell’Occidente – Obama, Sarkozy, Cameron, Merkel...) imbastiranno con il Gigante cinese e che riguarderà anche il futuro dell’euro. Noi non ci saremo. Soprattutto sul dossier più stringente: il Medio Oriente.
ULTIMA MEDIAZIONE
È una corsa contro il tempo quella intrapresa della diplomazia europea e americana che lavorano freneticamente per risolvere la questione palestinese ed evitare che la richiesta di riconoscimento che i palestinesi vogliono presentare all'Assemblea generale dell'Onu uccida le speranze di pace in Medio Oriente. Rappresentanti europei e americani si sono incontrati ieri a New York per cercare una formula che riporti Israele e palestinesi al tavolo dei negoziati senza accentuare le divergenze e senza rischiare nuove agitazioni nell’area. «Ma con le due parti ferme nelle loro posizioni e le chance di una soluzione debole, gli sforzi potrebbero essere più sulla prevenzione dei danni che di diplomazia», affermano alcuni osservatori.
«Il timore che il veto americano alla richiesta palestinese al Consiglio di sicurezza possa innescare una nuova ondata di violenza nella regione spinge i diplomatici americani a lavorare per assicurarsi ulteriori opposizioni al riconoscimento», riferisce la stampa americana. Senza nove voti a favore fra i 15 membri del Consiglio, la richiesta di Abu Mazen fallirà e Washington si augura di non dover agire da sola e soprattutto di non essere costretta a porre il veto. Al momento, gli Stati Uniti ritengono che altri 6 membri del Consiglio possano votare contro o astenersi. Il Quartetto per il Medio Oriente, che si è riunito in serata a New York, lavora ad un comunicato che possa far ripartire le trattative di pace. Un comunicato che migliori lo status della Palestina, garantisca Israele sulla sua identità e determini i tempi e i parametri per nuovi negoziati. Lo scenario migliore è che il Quartetto emetta un comunicato appoggiato dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu o dall'Assemblea generale o da tutti e due, seguito da un faccia a faccia fra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen. Ma secondo gli osservatori è ormai troppo tardi per aspirare a questo risultato. «La Primavera araba ha creato nuove opportunità per la diplomazia americana ma le agitazioni rappresentano anche nuove sfide per gli Stati Uniti una volta impensabili», afferma il New York Times, sottolineando che fra le sfide c'è il deterioramento dei rapporti fra Israele da una parte e Turchia e Egitto dall'altra, i tre Paesi che sono i maggiori alleati americani nella regione. «La diplomazia non è mai stata facile in Medio Oriente ma i recenti eventi fanno temere agli Stati Uniti di poter essere costretti a mettersi in seconda fila o peggio ad assistere aduna disputa militare fra i suoi alleati». Il New York Times conclude rilevando che l’Assemblea che si apre oggi sarà un «impegnativo banco di prova per Barack Obama» e la sua visione di politica estera. Una prova densa d’insidie. L’inquilino della Casa Bianca sarà presente già da oggi al Palazzo di Vetro, segno dell’importanza dell’evento. Nelle stesse ore Berlusconi farà il suo ingresso in un altro Palazzo: quello di Giustizia, a Milano. A ognuno il suo.

l’Unità 19.9.11
Le ragioni per non dire no ai palestinesi
di Lapo Pistelli


L’Italia è un grande Paese ma il Premier è oramai un paria della comunità internazionale. Capi di Stato e di governo fuggono gli incontri bilaterali, le conferenze stampa e le foto ricordo poiché incombe sempre il colpo di scena, il commento impronunciabile. Berlusconi è un leader scaduto ed è finita la favola dell’uomo che da del tu al mondo. Il Primo Ministro non sarà a New York, nonostante il Mediterraneo sia al centro di alcune decisioni. Noi democratici diciamo la nostra sulla più rilevante. Il 20 settembre, i palestinesi depositeranno una risoluzione per chiedere il riconoscimento del loro Stato. Se depositata al Consiglio di Sicurezza per tentare il riconoscimento pieno, essa avrà bisogno di almeno nove voti favorevoli e nessun voto contrario da parte dei membri permanenti, uno scenario reso impossibile dall’annunciato veto Usa. Se depositata all’Assemblea, essa richiederà il sì di 129 Paesi, i due terzi dei componenti. In tal caso, l’OLP passerà da «osservatore permanente» a «Stato non membro» (come il Vaticano), un riconoscimento che impegna i Paesi a favore, non gli altri. Questo nuovo rango darebbe maggiore forza negoziale e permetterebbe di riconoscere la giurisdizione della Corte Penale, potendo così sollevare singoli casi del contenzioso con Israele.
Tutte le parti hanno tessuto iniziative, i palestinesi per guadagnarsi consensi, gli israeliani per sottrarli, gli americani e gli europei per proporre alternative, una risoluzione che fissi o una nuova base negoziale o un impegno al negoziato diretto che eviti il voto o una proposta di «upgrade» che elevi lo status a qualcosa di meno di «Stato non membro». Da anni, il negoziato è fermo. I Paesi occidentali portano una responsabilità e se oggi ci si preoccupa del «giorno dopo», questo accade per le inerzie del «giorno prima». Abu Mazen si gioca tutto: settembre 2011 era la data limite per la fine dei negoziati secondo il Quartetto, ma da due anni non accade niente; la Cisgiordania governata da Fayyad è molto cambiata; la primavera araba ha dato nuovi sostegni; la scelta netta per la diplomazia come metodo ha allargato le simpatie internazionali e dato probabilmente i voti necessari in Assemblea.
Israele vive il tempo del suo isolamento diplomatico: non ha previsto i mutamenti regionali, ha visto allontanarsi Egitto e Turchia, soffre un crescente criticismo contro Netanyahu da parte laburista ma anche di Khadima («un disastro diplomatico senza precedenti» secondo Livni). Israele fronteggia un dilemma storico. Esso rivendica di essere l’unica democrazia dell’area e si sente «focolare» per il popolo ebraico. Nel momento della nascita, all’Onu, il Presidente Truman impose la modifica del nome, da «Jewish National State» in «State of Israel»: il carattere territoriale e democratico del nuovo Stato doveva prevalere sulla natura religiosa. Oggi le tendenze demografiche, a causa dell’occupazione, portano un aumento della popolazione palestinese e una contrazione di quella ebraica. Perciò, l’unica condizione per mantenere le due caratteristiche è la pace, il ritorno ai confini del 1967, con gli scambi necessari. Fuori da ciò c’è la negazione della realtà, l’aspettativa di una leadership Usa più «amica», la speranza di una crisi regionale che costringa il mondo ad occuparsi della sicurezza di Israele.
Stati Uniti ed Europa sono nel gruppo dei sicuri perdenti politici. La Casa Bianca, costretta dall’antica amicizia, ha annunciato il suo veto: si indebolisce la simpatia guadagnata da Obama nelle piazze arabe e si dimostra insufficiente la pressione diplomatica esercitata. Una Europa debole si accinge a dividersi dagli Stati Uniti e al suo interno. L’Italia è davanti a un clamoroso passo falso se non torna indietro dall’annunciato voto contrario promesso da Berlusconi. Noi siamo da sempre «equivicini»: due popoli due Stati, una forte amicizia con Israele e altrettanto forti motivazioni per sostenere l'aspirazione palestinese. L’Italia ha una posizione-Paese consolidata, che non può essere schiacciata oggi da una posizione-Governo. L’Italia ha un interesse nazionale che le viene dal Mediterraneo e che non le consente di giocare con i sentimenti profondi di opinioni pubbliche che si sono rimesse in moto. Ci sono dunque tutte le ragioni per dire sì, assieme ad alcuni partner europei, consapevoli certo che solo il ritorno al negoziato diretto potrà poi risolvere le questioni aperte, comunque vada. Ma sarà il governo e non il Pd a votare a New York. E allora chiediamo a chi lo rappresenterà di avere un atteggiamento lungimirante, corrispondente all’intero Paese. Un voto di astensione non accontenterà le due opzioni più marcate ma permetterà all’Italia di rientrare nella Ue e di non graffiare gratuitamente il ruolo che dobbiamo giocare nel Mediterraneo. Non facciamoci del male inutilmente.
*Responsabile esteri Pd

Repubblica 19.9.11
Palestina. Tra bandiere e tensioni la festa è pronta
A Ramallah sventolano i 94 vessilli dei Paesi che appoggiano la nuova nazione
di Fabio Scuto


Viaggio nella Cisgiordania alla vigilia dell´assemblea a New York che voterà sul riconoscimento dello Stato all´Onu Israele mobilita i riservisti ma le autorità locali garantiscono che vigileranno per evitare qualsiasi atto di violenza

RAMALLAH. I bulldozer lavorano senza sosta per spianare la collina di fronte al mausoleo di Yasser Arafat a fianco della Muqata, il Palazzo presidenziale di Abu Mazen. Preparano una grande piazza per i «festeggiamenti dell´indipendenza». Novantaquattro bandiere di nazioni che hanno già riconosciuto lo Stato palestinese circondano la spianata e le vie adiacenti sono già state dedicate ad alcuni di quegli Stati, come il Cile e il Brasile, fra i primi a sostenere la decisione di Abu Mazen di ricorrere all´Onu per l´indipendenza della Palestina, a più di sessant´anni dal voto delle Nazioni Unite che istituiva due Stati su questa terra.
Il clima a Ramallah, come Nablus, come a Hebron - le principali città della Cisgiordania - il clima è da festa di piazza. Fanno grandi affari venditori delle bandierine palestinesi unite a quella bianca con la scritta Palestine 194, le t-shirt vanno a ruba al mercato, nei bar e nei caffè si preparano i maxi-schermi per vedere in diretta il discorso del presidente Abu Mazen, dal podio dell´Onu, dove chiederà il riconoscimento della Palestina come Stato per «riparare a un´ingiustizia della Storia», come ha già detto nel suo discorso di venerdì scorso, andato in diretta tv, prima di preparare le valigie per New York.
Il dispositivo di sicurezza per questa settimana è a livello «rosso». Gli israeliani hanno mobilitato anche reparti di riservisti per far fronte all´emergenza, per il possibile "deragliamento" delle annunciate manifestazioni dei palestinesi. E che lungo i confini con Libano, Siria e Giordania possano esserci nuove proteste dei profughi che vivono in quei Paesi. Ma nessuno sta parlando di una "terza intifada" nelle strade di Ramallah. I palestinesi hanno imparato la lezione e hanno anche capito che devono concentrarsi su una lotta popolare nello stile della "primavera araba" - cortei, manifestazioni - ma niente kamikaze o a attacchi terroristici come era nel loro precedente modus operandi. Tutte le attività previste a partire da mercoledì prossimo sono state organizzate da uno staff creato ad hoc: U. N. Palestine State n°194. Le manifestazioni stando alle indicazioni degli organizzatori si dovranno svolgere nel centro di ogni città della Cisgiordania evitando le zone di «confine» dove dall´altra parte del Muro saranno schierati i militari israeliani. «Dalla nostra parte non ci dovranno essere né provocazioni né caos», ha ordinato Abu Mazen ai responsabili della sicurezza palestinese, «tenete la gente lontano dai check-point, evitare frizioni con gli israeliani». È una festa, la festa della Palestina, e tale deve restare. Per dare un peso all´ordine del presidente, la leadership palestinese ha reclutato Abdallah Abu Rahma, un avvocato leader del movimento non-violento, come coordinatore delle iniziative. «Dimenticate "la terza intifada"», dice a Repubblica Hafez Barghouti direttore del più importante giornale palestinese, «siamo convinti che oggi solo la resistenza pacifica può portare risultati». Sarà anche per questo che per la prima volta dopo anni Israele ha accettato di rifornire la polizia palestinese di gas lacrimogeni anti-sommossa.
Al check-point Qalandya - il più usato dai palestinesi perché è il più vicino a Gerusalemme - e in altri punti di possibile attrito gli agenti della sicurezza palestinese si sono già «sparsi tra la gente, in borghese, pronti a rompere la testa di chi cercherà di creare disordini». Certo per i palestinesi ottenere il riconoscimento alle Nazioni Unite - a quale livello di status lo scopriremo solo la prossima settimana - non ha alcun potere politico reale immediato, la sostanza sul terreno non è destinata a cambiare dall´oggi al domani e - come sa bene Abu Mazen - è al tavolo delle trattative con Israele che si deciderà il futuro della Palestina. Ma intanto anche solo come "Paese osservatore" riceverà appartenenza almeno 28 organizzazioni internazionali, in primo luogo la Corte penale internazionale dell´Aja dove è possibile denunciare l´occupazione, l´illegalità degli insediamenti - dove vivono 350 mila coloni - giudicati fuorilegge dalla comunità internazionale, l´annessione di Gerusalemme est. La lista è molto lunga.
Ma vi sono anche implicazioni politiche. «Non c´è dubbio, Fatah e Abu Mazen saranno i vincitori assoluti, mentre Hamas perderà», dice ancora Barghouti. «Se le elezioni presidenziali si tenessero oggi Abu Mazen riceverebbe l´80 per cento dei voti. La gente ha capito che Fatah e Abu Mazen hanno spinto senza cedere alle pressioni internazionali per arrivare alla proclamazione dello Stato palestinese».
Nei corridoi della Muqata si mescolano emozioni e aspettative, ansie e tensioni palpabili perché una pagina della Storia sta per essere voltata. «Sa», dice a "Repubblica" uno dei leader palestinesi della prima ora, «Arafat ci ha guidato fino ad avere una terra ma è Abu Mazen che ci ha portato ad avere uno Stato. Nascerà sul 22% del territorio che ci aveva assegnato l´Onu nel 1948, ma finalmente sarà il nostro Paese».

l’Unità 19.9.11
Berlino, terza vittoria del borgomastro Spd I pirati in Parlamento
Terzo mandato per Klaus Wowereit, il borgomastro socialdemocratico che però non potrà contare sulla vecchia maggioranza con la Linke. Spd in lieve flessione, trionfano i Piraten vicini al 9%. Successo dei Verdi
di Gherardo Ugolini


Gli elettori di Berlino incoronano per la terza volta consecutiva KlausWowereit borgomastro, puniscono duramente il populismo dell’Fdp, e soprattutto decretano il sorprendente successo di una nuova formazione politica, il Piratenpartei, ovvero partito dei Pirati, che sfiora il 9% dei consensi ed entra per la prima volta in un parlamento regionale sconvolgendo gli equilibri tradizionali.
PIÙ DI WILLY BRANDT
l risultato raggiunto dall’Spd non è brillante, ma la percentuale del 28,6%, leggermente al di sotto di quella del turno precedente, è sufficiente per garantire al partito socialdemocratico il primato cittadino. È sintomatico come nella «città in perenne divenire», come recita una celebre formula, ci sia almeno un elemento di stabilità: il popolare ed amatissimo «Wowi», che da dieci anni guida la capitale tedesca e che così farà anche per i prossimi cinque. Nessun governatore di Land in Germania vanta una simile longevità al potere e in particolare nessun altro borgomastro berlinese nel dopoguerra, neppure il mitico Willy Brandt, era stato così tanto tempo in carica. Wowereit ha vinto, dunque, ma non ha trionfato. Soprattutto non potrà dar vita ad un nuovo governo «rosso-rosso» come è stato nelle due legislature precedenti e come avrebbe desiderato. La Linke, infatti, perde voti, scendendo dal 13,4% all’11,6%: paga certi fatali errori commessi dal gruppo dirigente, in particolare dal duo Ernst-Lötzsch, che ha preso in mano le sorti del partito dopo l’uscita di scena di Lafontaine e che si è lasciato irretire in anacronistiche discussioni sul Muro e su Fidel Castro che hanno disorientato gli elettori.
Quasi certamente il borgomastro punterà questa volta ad una colazione rosso-verde, che secondo i dati trasmessi dalla tv tedesca avrebbe la maggioranza dei seggi, ancorché risicata. I Grünen guidati da Renate Künast, ex ministro per la Protezione dei consumatori e attuale co-presidente del gruppo parlamentare, volano al17,4% dei voti migliorando di oltre 4 punti il precedente risultato. Certo, solo pochi mesi fa i sondaggi davano gli ecologisti al 30% e pronosticavano Renate primo borgomastro donna. Negli ultimi mesi la forza propulsiva dei Verdi si è via via ridotta, ma il 17,4% dei consensi e la possibilità di tornare al governo del Land sono comunque ottimi risultati.
Sul fronte conservatore Angela Merkel può tirare un sospiro di sollievo. Dopo molte elezioni regionali andate male, questa volta la Cdu riesce a migliorare di quasi due punti percentuali attestandosi al 23,2%. Si tratta comunque di una percentuale del tutto inadeguata per un partito di massa e per la cancelliera non è proprio il caso di cantare vittoria.
Molto peggio è andata ai liberaldemocratici dell’Fdp, arretrarti all’1,8%, con una perdita bruciante di circa sei punti percentuali. È il peggior risultato della loro storia a Berlino e resteranno fuori dal parlamento regionale. Con questa sono cinque le sconfitte subite quest’anno dal partito di Rösler e Westerwelle in elezioni regionali. Evidentemente non ha pagato l’aggressiva campagna populista degli ultimi giorni, tutta giocata sultema dell’euroscetticismo.
Infine la straordinaria sorpresa dei Piraten che arrivano al 9%: un exploit che va al di là di ogni aspettativa. Non è facile decifrare il fenomeno arancione (loro colore simbolo) dei Pirati: per il misto di ribellismo giovanile e liberismo che esprimono sono paragonabili forse ai nostrani grillini, o ai radicali di un tempo. Nati con lo scopo di tutelare gli interessi dei «nativi digitali», cioè dei giovani cresciuti con le tecnologie Internet, si sono proposti agli elettori berlinesi con una variegata piattaforma di proposte che vanno dalla richiesta di maggiore trasparenza nella politica alla liberalizzazione della droga, dalla gratuità dei trasporti pubblici all’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini senza restrizioni d’età e nazionalità. Secondo le prime analisi dei flussi elettorali hanno spopolato soprattutto tra gli elettori della fascia 18-25 anni sottraendo voti ai partiti della sinistra, Spd e Linke. Con il loro arrembaggio nel parlamento berlinese hanno intaccato i rapporti di forza tradizionali; resta da vedere come sapranno utilizzare il capitale elettorale accumulato.

Corriere della Sera 19.9.11
Così le nostre due Costituzioni hanno disegnato un’Italia debole
di Sabino Cassese

qui
http://www.scribd.com/doc/65470608

Corriere della Sera 19.9.11
C'è sempre una prima volta
Un rito che si rinnova Anche nella memoria troviamo una nuova vita
di Marc Augé


I l tema della «prima volta» riguarda tutti. Ciascuno di noi ha conosciuto una prima volta nella sua vita affettiva, professionale o intellettuale. Una prima volta di cui ha conservato il ricordo perché questa sembrava aprire il tempo, creare un inizio, e che questa sensazione era così forte e folgorante da sopravvivere all'usura del tempo, alle delusioni della vita, alla rinuncia o alla rassegnazione. L'etnologo è doppiamente sensibile a questo tema: prima di tutto conserva sempre un ricordo vivo del suo «primo terreno», esperienza iniziatica in cui ha imparato dagli altri ma anche da se stesso, e a cui egli ritorna di continuo per rigenerare le proprie analisi e riflessioni; in secondo luogo, egli è uno specialista dell'attività rituale. Però noi sappiamo che il rito è ancorato al passato, che ha le sue regole fissate dalla tradizione. Ma bisogna anche prestare attenzione al fatto che, poiché è compiuto, esso rende l'avvenire possibile. Dare a chi celebra e a chi assiste il sentimento di una riapertura del tempo è la condizione e l'espressione della sua riuscita. L'inizio è la finalità del rito. L'inizio non è la ripetizione. Si dice a volte: «Ecco che ricomincia» per fare intendere che niente cambia. Ma il verbo viene usato in un'accezione debole. Nel verbo ricominciare è cominciare che è importante. Ri-cominciare è vivere un nuovo inizio, una nascita. Quando il «Don Juan» di Molière si dice sensibile al fascino delle «inclinazioni nascenti», egli si situa fuori d'ogni calcolo e d'ogni strategia, nella verità dell'istante che traduce l'espressione francese «tomber amoureux» (cadere innamorato). La ripetizione interviene nel momento del disinnamoramento, quando lo scenario abituale, appare nella verità banale del suo epilogo ricorrente. Ma allo stesso tempo, immediatamente, non si percepisce che la poesia stessa legata a ogni inizio, agli antipodi del ritornello e della ripetizione.
Don Juan è insaziabile e non smette di correre dopo il turbamento iniziale. Per lui è sempre la prima volta. Egli è l'eroe dell'incontro e dell'istante. Per il resto, taglia corto, incapace di vivere una storia d'amore nella sua durata. In tutte le esperienze della vita collettiva e della vita politica così come nella vita sentimentale individuale, noi siamo sensibili ai fenomeni d'usura che imputiamo a volte a cause esterne ma che a una certa distanza ci appaiono (e questo forse è ancora più grave) come irrimediabilmente legati alla semplice azione del tempo, a una forma d'erosione storica o di vecchiaia quasi biologica che suscita una grande nostalgia.
L'anno 1789, la Comune di Parigi, il 1936, la Liberazione, il Maggio '68 sono celebrati e osannati quando hanno perduto la loro forza iniziale. E la storia vista da questo punto di osservazione non è che uno sforzo perpetuo per ritrovare un equivalente di queste «prime volte» mancate o incompiute.
Al cinema mi piace rivedere i film vecchi. Essi agiscono in maniera incomparabile con il passato e il ricordo. Le immagini che noi preserviamo dal passato lontano e che sono pertanto le più tenaci, si modificano sotto l'azione combinata della memoria e dell'oblio e di questo noi siamo coscienti. Rivedere un film molto tempo dopo averlo visto per la prima volta è dunque un'esperienza straniante poiché ci mette a confronto con delle immagini del passato che non sono cambiate. A volte, esse ci sorprendono, e anche se si tratta di un film che abbiamo spesso rivisto, capita di ritrovare dei dettagli dimenticati o, più esattamente, trasformati dalla memoria che, malgrado la rievocazione delle immagini girate un tempo, ha continuato il suo lavoro di ricreazione. E poi ci lasciamo ogni volta di nuovo prendere dal ritmo della narrazione come se quella fosse inedita. Rivedere un film vecchio è provare simultaneamente i piaceri dell'attesa e del ricordo, esperienza di cui la vita quotidiana non ci offre mai l'occasione.
Avevo dodici anni quando ho visto per la prima volta il film di Curtiz «Casablanca». Non era il mio primo film ma è la prima esperienza del tempo, dell'oblio, della fedeltà e del ricordo indotta da un'opera di finzione. Le scene più importanti narravano di temi come la minaccia, la fuga, l'attesa che avevano segnato la mia infanzia. Questo film l'ho scoperto da ragazzino alla fine della guerra e di colpo ha rappresentato per me il ricordo di un'emozione iniziale. È diventato ai miei occhi una specie di mito che mi sbalza da un tempo all'altro, allorché il titolo «Casablanca» mi salta agli occhi nel programma di un giornale mentre percorro una strada del Quartiere latino e celebro ritualmente questa «prima volta» sempre ricominciata.

Repubblica 19.9.11
Konstantin Novoselov
"Ho vinto il Nobel per la fisica grazie ai segreti di una matita"
Lo studioso russo ha avuto il premio a 36 anni. Per merito del grafene: "Ho usato delle mine di grafite e dello scotch"
"La sera dell´annuncio ho messo i bambini a letto e lavato i piatti Poi ho festeggiato bevendo una birra"
"Il prossimo anno grazie a questo materiale che serve per i transistor verranno costruiti i cellulari"
di Piergiorgio Odifreddi


Chiunque di noi conosce la grafite, il materiale di carbonio usato per le mine delle matite. La sua stratificazione fa sì che, sfaldandosi quando viene sfregata su un foglio, lasci le tracce che costituiscono appunto la scrittura a matita. Fino a qualche mese fa, invece, quasi nessuno di noi conosceva il grafene costituito sostanzialmente di un solo strato di grafite. A portarlo alla ribalta è stato il premio Nobel per la fisica assegnato nel 2010 a Andre Geim e Konstantin Novoselov, le cui ricerche hanno aperto le porte di un vero e proprio Elodorado scientifico e tecnologico, dai transistor ai cellulari.
A soli trentasei anni, Novoselov è uno dei più giovani vincitori dell´ambìto premio. E la sua tenera età fa sì che i ricordi di gioventù siano ancora dietro l´angolo: ad esempio quello, raccolto off the record, di quando capitò a Milano per la prima volta da dottorando, e avendo finito i soldi per una serie di ragioni, gli toccò dormire una notte ai giardini pubblici.
Così giovane, e già con un premio Nobel. Se lo sarebbe aspettato?
«Beh, queste cose non succedono all´improvviso. Già da qualche anno c´erano state delle voci, e quando le senti il tuo cuore batte molto veloce. Ogni scienziato vorrebbe ricevere il premio Nobel, non c´è dubbio. Ma aspettarselo può essere molto negativo per la propria salute mentale».
In che senso?
«La nostra scoperta è del 2004, e del premio si cominciò a parlare nel 2007. Il primo anno ci pensai continuamente, in attesa della telefonata. Ma quando non arrivò, decisi che non potevo rovinarmi la vita nell´attesa e lo rimossi: non lessi più le agenzie, non ne parlai più a nessuno, smisi di pensarci. Per i tre anni successivi tutto andò ottimamente e tranquillamente: lavoro in laboratorio, e nient´altro. Così, al momento buono, rimasi sorpreso».
Non è così tipico riceverlo subito dopo una scoperta: persino Watson e Crick aspettarono dieci anni, e Einstein diciassette.
«Onestamente, non sono molto al corrente della storia del premio. Direi che una decina d´anni è un tempo ragionevole. Ma in questo caso si scoprirono presto talmente tante strane proprietà del grafene, e la comunità di fisici, chimici, scienziati della materia e ingegneri lo studiò da un tale numero di punti di vista diversi, che in pochi anni quest´area di studio ha fatto più progressi di quanto altre ne riescano a fare in trenta o quaranta».
Mi permetta una domanda ingenua. Una traccia lasciata da una matita, quanti strati di grafene contiene?
«Un centinaio, con una matita normale. Da questo punto di vista, noi non abbiamo fatto niente di speciale: abbiamo usato esattamente una matita, solo un po´ migliore di quelle comuni, che ci è costata cento sterline».
E come avete separato uno strato dai cento?
«Con un rotolo di scotch da due sterline».
Sta scherzando, Mr. Novoselov!
«Sembrerebbe, ma è andata proprio così! Si mette dello scotch sulla traccia della matita, e si tira: qualcosa ci rimane sopra, e qualcosa rimane sulla carta. Poi si mette dello scotch sullo scotch, e si tira: qualcosa rimane su uno dei nastri, e qualcosa sull´altro. E si continua, fino a quando su uno degli scotch non rimane che uno strato solo».
E come si fa a saperlo?
«Questo è il problema. Si trasferisce lo strato su un substrato, che costa dieci sterline, e permette di renderlo visibile a occhio nudo. Il costo totale dell´esperimento fu di centododici sterline...».
Dunque il grafene si estrae da grafite già esistente. Non si può sintetizzare direttamente dal carbonio?
«Cinque anni fa sarei stato scettico, ma negli ultimi tre anni si sono fatti enormi progressi. Ci sono industrie che ormai producono metri quadrati di grafene, che si possono usare nelle applicazioni. Il prossimo anno dovrebbero essere costruiti cellulari con circuiti di grafene».
Si tratta di una sintesi artificiale?
«Non ancora del grafene, perché ci sono problemi a cristallizzare grandi fogli alle alte temperature richieste. Per ora ci si limita a cristallizzare artificialmente a tremila gradi la grafite. Poi la si raffredda e si separano gli strati, con metodi un po´ più sofisticati di quelli che abbiamo usato noi in origine».
Qual è il legame tra il grafene e un altro antesignano delle nanotecnologie, il fullerene?
«Appartengono a una stessa famiglia di strutture di carbonio. I nanotubi cilindrici si possono pensare come fogli planari di grafene arrotolati, o come sfere di fullereni espanse e allungate. Ci sono piccole tensioni tra i seguaci dell´una o dell´altra struttura, ma andiamo tutti nella stessa direzione».
A proposito di tensioni, non sembra che il premio Nobel gliene abbia procurate molte.
«Se avessi voluto, avrebbe completamente cambiato la mia vita. Ma ho preso la decisione di continuare a vivere esattamente allo stesso modo di prima. Non ho nemmeno comprato una macchina nuova, e meno che mai una nuova casa. Ho addirittura ridotto il numero di conferenze e convegni a cui partecipare ogni anno, e mi concentro sulla mia ricerca».
E Andre Geim ha fatto lo stesso?
«E´ da lui che ho imparato. E´ stato il mio professore e il mio relatore di tesi, ma mi ha sempre trattato da collega, più che da studente. E´ più sobrio di me, ed è lui che mi ha messo in guardia sul fatto che un premio Nobel ti può far impazzire. Da un lato, eccitandoti a correre da una conferenza all´altra. Dall´altro, deprimendoti al pensiero che ormai non farai mai più niente di serio, o almeno di così buono».
Non sarete stati sobri anche a Stoccolma!
«Io ci sono andato con mia moglie e i miei due gemellini, di un anno e mezzo. Gli organizzatori erano divertiti: non succede spesso, alla cerimonia, che il pubblico sia così giovane!».
Gemelli? Lei è riuscito a separare il grafene dalla grafite, ma non due figli tra loro?
«Non sono gemelli identici, però. Ma quella settimana a Stoccolma è stata la più dura della mia vita. Tutto è molto piacevole e amichevole, ma alla fine stanca da morire. Ho dovuto fare una decina di conferenze, invitato da colleghi ai quali non potevo dire di no. E avrei dovuto allenarmi un po´ meglio per le danze: temo di aver pestato parecchi piedi, alle signore».
Magari la prossima volta... Sanger, che ha preso due Nobel in chimica, mi ha detto che il trucco è stato di prendere il primo da giovane. E lei sembra essere sulla buona strada!
«Il giorno che annunciarono il nostro premio in fisica, dovetti parlare con un sacco di strana gente. La sera, dopo aver messo i bambini a letto e aver lavato i piatti, mi sono seduto sul divano con mia moglie a bere una birra. Lei ha domandato: "E adesso?". E io ho risposto: "Domani annunciano il premio per la chimica, e visto che il grafene in fondo è un composto chimico, magari ci daranno anche quello". Non è andata così, ma va bene ugualmente. E ad altri premi Nobel non voglio proprio più pensare».

Repubblica 19.9.11
Prima lezione di democrazia
Dalle regole alla partecipazione cosa vuol dire essere cittadini
Nel suo saggio l´ex magistrato spiega l´importanza dell´impegno. Altrimenti i governi diventano oligarchie
Le funzioni non si esauriscono nell´esercitare o meno il proprio diritto di voto
di Gherardo Colombo


La democrazia presuppone una precisa considerazione degli esseri umani e delle caratteristiche delle relazioni che tra loro intercorrono. La democrazia non è uno strumento compatibile con gli atteggiamenti infantili, e se non si tiene conto della fatica che la crescita personale comporta per superare tali atteggiamenti non si può arrivare a capirla (...).
Il popolo governa agendo. E siccome il popolo non esiste se non esistono le persone che lo compongono, il popolo governa se agiscono le persone di cui è costituito. Si è considerata la forma, si è vista la sostanza. Si è tratteggiato, cioè, lo schema di regole e di contenuti che servono perché possa funzionare la democrazia. Tutto questo, però, ancora non basta: crea i presupposti perché il popolo governi, ma affinché si realizzi la democrazia è necessario che il popolo, nell´ambito delle regole, effettivamente governi. Una citazione aiuta a comprendere meglio la questione.
L´articolo 1 della Costituzione italiana afferma nel primo paragrafo che «L´Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». L´espressione è interpretata storicamente attribuendo alla parola «lavoro» il significato corrente di attività produttiva. Il lavoro quindi fonda la Repubblica democratica perché è lo strumento attraverso il quale la persona si realizza, è il mezzo per l´emancipazione personale e per la promozione della società. Una lettura in chiave diversa aiuterebbe a capire cosa intendo: l´Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro in quanto i cittadini lavorano, e cioè si impegnano, perché sia una Repubblica e una democrazia. È necessario che i cittadini agiscano per compiere la democrazia, perché questa possa attuarsi. In caso contrario, e cioè se tutti loro, o gran parte di loro, rimanessero inerti, evidentemente non governerebbero, e la democrazia si trasformerebbe necessariamente in monarchia o in oligarchia (perché governerebbero soltanto gli attivi, che potrebbero essere ipoteticamente soltanto uno o estremamente pochi). La trasformazione si verificherebbe di fatto, senza necessità di cambiare nemmeno una legge.
Così come la monarchia si trasformerebbe in oligarchia se il sovrano assoluto si disinteressasse completamente di svolgere le sue funzioni e gli subentrasse, di fatto, la corte. Allo stesso modo governerebbe, per esempio, il solo presidente del Consiglio dei ministri, se tutti i ministri e il Parlamento tralasciassero in concreto (pur conservandole apparentemente) le loro funzioni e il popolo si limitasse a esprimere con indifferenza il proprio voto alle scadenze elettorali, o magari a omettere, per una parte consistente dei suoi membri, persino quello. Non si tratta, però, soltanto di questioni di remissività da parte delle istituzioni nei confronti di una sola o di poche persone, che assumerebbero così il potere spettante ad altre sedi; non si tratta soltanto dell´esercitare o meno il diritto di voto. Il problema riguarda più in generale l´abdicazione del popolo a governare.
Per comprendere come il comportamento delle persone che compongono il popolo incida sull´attuazione della democrazia si può paragonare la società a una famiglia. Le persone che compongono la famiglia compiono di continuo azioni che riguardano se stesse individualmente e azioni che riguardano la famiglia nel suo complesso. Azioni generalmente programmate, dall´ora del risveglio passando per le varie faccende quotidiane fino al momento di coricarsi.
La programmazione individuale riguardante le proprie sfere di competenza incide non soltanto sulla vita di chi l´ha fatta, ma anche su quella degli altri: alzarsi alle dieci e arrivare regolarmente tardi al lavoro comporta il rischio di essere licenziato, presentarsi sempre tardi a scuola quello di non essere promosso, e il licenziamento e la bocciatura si rifletterebbero sull´intera famiglia. Altri aspetti organizzativi riguardano la famiglia nel suo complesso: fare la spesa, riordinare la casa, decidere gli acquisti e i viaggi, e così via. Dalla programmazione complessiva e dalla attuazione della programmazione risulta la qualità della vita del la famiglia, e cioè dei suoi membri.
Nella famiglia patriarcale la programmazione, anche delle sfere più personali, era riservata al padre (il monarca), che poteva delegare (magari tacitamente e per tradizione) le parti più ripetitive e meno qualificanti alla moglie, spettando per tutto il resto a questa e ai figli il compito di eseguire, cioè di comportarsi secondo le disposizioni ricevute. Ora, in una famiglia attuale gli indirizzi sono decisi concordemente dai coniugi: il Codice civile italiano, articolo 144, stabilisce che «I coniugi concordano tra loro l´indirizzo della vita familiare»; ma anche i figli partecipano alle decisioni che li riguardano, quando siano abbastanza grandi per farlo. Salvo che uno dei coniugi (o i figli, per quel che compete loro) si disinteressi, lasci fare, non partecipi, nel qual caso gli indirizzi, le decisioni sono presi dall´unica persona che si impegna a farlo. È questa persona che decide cosa comperare facendo la spesa, dove andare in vacanza e così via, e gli altri si adeguano. Non decidono, ma subiscono la decisione altrui.
Quel che succede in famiglia succede nella società: nella democrazia le regole prevedono la possibilità di contribuire all´indirizzo della vita propria e di quella della collettività, ma se la possibilità non è usata, se manca cioè l´impegno, la democrazia svanisce. Non sono sufficienti le regole, perché le regole consentono di partecipare al governo: se manca l´impegno, la partecipazione, il governo va ad altri.
© 2011 Bollati Boringhieri Editore

Repubblica Affari e Finanza The New York Times 19.9.11
Se il mondo tollera i disoccupati di massa
di Paul Krugman


Nei giorni scorsi sono stati resi noti due numeri che a Washington dovrebbero indurre tutti a esclamare: "Mio Dio, che cosa abbiamo combinato?" Il primo di questi numeri è zero, corrispondente ai posti di lavoro creati ad agosto. Il secondo numero è due, corrispondente al tasso di interesse sui bond decennali statunitensi, il più basso che si sia mai registrato. Presi insieme, si può dire che i due numeri stiano gridando a squarciagola una cosa sola: la massa di persone all’interno della Beltway (l’establishment di Washington, NdT) si sta preoccupando per le cose sbagliate e di conseguenza sta infliggendo al paese danni devastanti. Sin da quando si è conclusa la fase acuta della crisi finanziaria, a Washington il dibattito politico più che dalla disoccupazione è stato dominato dai presunti rischi che i deficit di budget avrebbero posto. I sapientoni e le varie organizzazioni dei media hanno sostenuto che il rischio più grosso per l’America era quello che gli investitori staccassero la spina al debito statunitense. A maggio 2009 il Wall Street Journal dichiarò che i vigilantes sui bond stavano per rincarare la dose, dicendo in sostanza ai lettori che le "epiche spese folli" dell’amministrazione avrebbero mandato i tassi alle stelle. Quando quell’editoriale è stato pubblicato il tasso di interesse era al 3,7%: oggi è al 2. Premesso ciò, non intendo liquidare come infondate le inquietudini legate alla situazione del budget sul lungo periodo. Se si tiene conto delle prospettive fiscali dei prossimi vent’anni, c’è davvero di che preoccuparsi assai, in buona parte a causa dei costi in impennata dell’assistenza sanitaria. Ma l’esperienza conferma ciò che alcuni di noi hanno fatto di tutto per far capire sin dall’inizio: i deficit che abbiamo al momento – che dobbiamo avere perché la spesa in disavanzo contribuisce a puntellare un’economia depressa non costituiscono una minaccia.
Angosciandosi per un pericolo inesistente, Washington sta aggravando il problema, la disoccupazione di massa, che intacca dalle fondamenta la nostra nazione. L’anno scorso l’ossessione per il deficit ha intralciato l’iter del necessarissimo secondo round di stimoli fiscali, e dato che la spesa si è infine spenta de facto stiamo vivendo l’austerità. I governi statali e locali, a fronte della perdita degli aiuti federali stanno tagliando con l’accetta molti programmi e licenziando moltissimi lavoratori, in buona parte insegnanti. Il settore privato oltretutto non ha reagito a questi licenziamenti rallegrandosi alla vista di un governo in contrazione e lanciandosi in investimenti. So che cosa diranno adesso i soliti sospetti: che la paura di regolamentazioni e tasse più alte frena le imprese. Ma questa è una fantasia della destra. Numerosi studi dimostrano che è la mancanza di domanda – esacerbata dai tagli del governo – il problema più colossale con cui sono alle prese le aziende. Regolamenti e tasse entrano solo di straforo in questo quadro.
Ecco un esempio: quando di recente il McClatchy Newspapers ha svolto un’inchiesta presso una serie del tutto casuale di piccoli imprenditori per scoprire da che cosa si sentissero danneggiati, nessuno si è lamentato dei regolamenti imposti alla loro azienda, e pochi si sono lamentati del regime fiscale al quale devono conformarsi. A proposito: ho già detto che i guadagni al netto delle tasse sono a livelli record? Allora: i deficit sul breve periodo non costituiscono un problema; la mancanza di domanda sì, e i tagli alla spesa aggravano notevolmente la situazione. Non sarà arrivato il momento di cambiare rotta? Questo mi porta al discorso che il presidente Obama ha appena tenuto sull’economia. Riterrei utile riflettere in relazione a due domande principali. Uno: cosa dovremmo fare per creare nuovi posti di lavoro? Due: a cosa sono disposti a dire "sì" i repubblicani al Congresso? La risposta alla prima è che dovremmo avere una spesa pubblica finalizzata alla creazione di moltissimi posti di lavoro da parte del governo federale, in buona parte sotto forma di più che necessarie spese per ristrutturare e migliorare concretamente le infrastrutture della nazione. Ah, dimenticavo: ci servono anche molti più aiuti per i governi statali e locali, così che smettano di mandare a casa gli insegnanti.
Ma a che cosa sono disposti a dire di "sì" i repubblicani? È semplice: a niente. Si oppongono a qualsiasi cosa Obama propone pure se aiuta esplicitamente l’economia. O meglio: specialmente se aiuta l’economia, giacché un’alta disoccupazione li aiuta sul piano politico. Per ciò che mi riguarda sono disposto a chiudere un occhio sui dettagli delle proposte di Obama: ciò di cui ha bisogno è cambiare completamente argomento, far sì che Washington torni a parlare di posti di lavoro e di come il governo può contribuire a crearli. Per il bene della nazione, e più di ogni altra cosa per il bene di milioni di americani disoccupati che intravedono ben poche prospettive di trovare un altro posto di lavoro, spero proprio che egli ci riesca.
Copyright NYTTraduzione di Anna Bissanti

Repubblica 19.9.11
Il trattatello immorale della signorina Terry
di Concita De Gregorio


No, non è gossip. È un trattato di antropologia culturale quello che Terry D e Nicolò, probabilmente Teresa, consegna al suo intervistatore in un video che da giorni migliaia e migliaia di persone stanno scaricando in rete. Un trattatello immorale in dieci semplicissimi punti, l´abbecedario della mutazione genetica di cui Pier Paolo Pasolini fu profeta e Silvio Berlusconi responsabile, per un trentennio suadente magnaccia.
Colpevole del delitto politico di istigazione alla prostituzione di una generazione intera, corruttore morale e culturale di un Paese.
Sconcertante, ipnotica nel suo non essere mai sfiorata dal dubbio, semplicemente sicura di essere nel giusto la ragazza barese che ha trascorso le sue notti a pagamento in letti di destra e di sinistra fino ad arrivare al Letto Supremo espone in dieci minuti la quintessenza del berlusconismo. Parla all´Italia e molta parte dell´Italia – bisogna dirlo molto chiaro, questo – la trova ragionevole. Una ragazza che sa quello che vuole, che sa stare al mondo. Del resto, molta parte dell´Italia politica, da diverse latitudini, le ha dato ragione. Dunque no, non faremo troppi pettegolezzi anzi non ne faremo alcuno. Semplicemente proviamo a decifrare le parole di una ragazza di vent´anni che ci spiega come si vive nel Paese in cui abitiamo, l´Italia com´è diventata. Dice Terry De Nicolò che «Tarantini è un imprenditore di grande successo, un mito». L´uomo che ha messo a verbale che «le donne e la cocaina favoriscono gli affari», che ha barattato prostitute in cambio di appalti, che con la moglie ha messo in piedi una ragnatela di ricatti per i quali è oggi agli arresti, è «uno che è riuscito ad arrivare all´apice, e non è da tutti». È stato bravissimo e lo è, perché lui «ha vissuto giorni da leone mentre gli altri vivono 100 anni da pecora». Mussolinianamente, un mito. Se ora si trova nei pasticci è per via «dell´invidia, sono tutti invidiosi, è tutto mosso solo dall´invidia». Quindi, il sottotesto è: quello che conta è arrivare all´apice. Non importa come, anzi bisogna sapere come – con le donne, la cocaina, il ricatto – e semplicemente farlo. Non esiste un problema di rispetto delle leggi, esiste la legge di natura, che è la seguente: «Quando sei onesto non fai grande business, rimani nel piccolo. Se vuoi arrivare in alto devi rischiare in proprio, devi rischiare il culo. Per avere successo devi passare sui cadaveri degli altri ed è giusto che sia così». È giusto che sia così. Chi lo nega non è mosso da una diversa visione delle relazioni fra gli uomini ma da un risentimento personale: è invidioso, perché tutti potendo farebbero come Berlusconi, se non lo fanno è perché non possono.
Difatti la sinistra «ha rotto le palle» con questa «idea moralista che tutti devono guadagnare duemila euro, tutti devono avere i diritti». Eccheppalle, i diritti. «Se vuoi guadagnare ventimila euro al mese ti devi mettere sul campo. Ti devi vendere tua madre. È così». Dunque apparentemente l´alternativa è guadagnare due o ventimila euro al mese, ventimila essendo la cifra appropriata al bisogno di ciascuno. Qui va detto che l´esegeta del berlusconismo dimostra pochissima conoscenza di un Paese in cui anche i duemila sono per una moltitudine una chimera. Ma è un difetto di dettaglio. Dunque, abbiamo detto: rischiare il culo e vendere tua madre. Si fa così. A sinistra, garantisce la ragazza che ne ha contezza, è lo stesso: «Solo che sono più loffi e non pagano». Fra l´originale e la copia è sempre meglio l´originale. Difatti per andare dall´Imperatore devi mettere una collana di smeraldi, «per andare con Frisullo ti puoi anche mettere la collanina dei cinesi». E veniamo dunque al cuore della questione: la prostituzione. Le donne usate come tangenti, retribuite per fare sesso: pagate in denaro, in seggi, in consulenze a Finmeccanica, in posti al parlamento o all´europarlamento e anche di più. E allora? Il problema qual è? Dice De Nicolò: «La bellezza, come dice Sgarbi, è un valore. È come la bravura di un medico. Se sei bella e ti vuoi vendere devi poterlo fare. Se sei racchia e fai schifo devi stare a casa. È così da che mondo è mondo. Tutte queste storie sul ruolo delle donne, che palle, quelle che non lo vogliono fare stiano a casa e non rompano i coglioni». Cioè: se una ha belle gambe non ha altri problemi della vita, ogni donna è seduta sulla sua fortuna come scrivono persino certi editorialisti, le belle vendono la patonza come i dottori la loro sapienza e finita lì. Le racchie a casa, a meno che non vogliano investire sul futuro: che significa farsi la quinta di reggiseno dal chirurgo e tirarsi un po´ su le natiche. Una piccola spesa che vale la partita, l´Esteta apprezzerà e ti retribuirà per questo. L´Esteta, dice proprio così Terry De Nicolò, è l´Imperatore: «Davanti all´Imperatore non ti puoi presentare con una pezza da cento euro, devi avere minimo un abito di Prada. Perché lui è un esteta, apprezza la bellezza».
A chi dovesse obiettare che si tratta "solo" delle opinioni di una prostituta faremo osservare alcuni dati di cronaca recente. Nei licei le ragazzine di sedici anni – non tutte, parecchie – hanno il book fotografico. Delle ragazze che visitano palazzo Grazioli una viene accompagnata in auto dal padre. Il genitore di una di quelle non ammesse minaccia di darsi fuoco. La madre della giovane che dal bagno del presidente del Consiglio la chiama per dire "mamma indovina dove sono" le risponde brava anziché chiamare la polizia. Il fratello della presunta fidanzata del premier, un giovane dell´hinterland torinese, famiglia operaia, alla domanda: è proprio sua sorella la fortunata? risponde «magari». La professoressa della scuola di Noemi Letizia, all´epoca minorenne, intervistata in tv dice «chi non vorrebbe essere amica di un uomo così potente?». Certo, naturalmente: non tutta l´Italia è così. Non tutte le ragazze sono in fila per accedere al lettone di Putin, la manifestazione delle donne di febbraio lo ha mostrato. Tuttavia ce n´è abbastanza per dire che un modello di vita si è imposto, in questi anni. È il modello della prostituzione. È da sfigati dire che compito di un uomo di governo non è "foraggiare" le prostitute con buste da diecimila euro ma offrire loro possibilità alternative di vita e di lavoro. Se poi si azzardano a dare voti ai loro amanti, come Manuela Arcuri fa alle Iene, vengono depennate come volgari. Volgare cosa? Istigare alla prostituzione o piegarsi alla legge di mercato? In definitiva, volgare è dare voti sfogliando il catalogo degli uomini di cui si è fatta esperienza. «Questo ha fatto cilecca», ha detto ridendo Manuela Arcuri, ed è stata per questa colpa esclusa dalla lista. Più del giudizio dei tribunali l´Esteta teme, si vede, quello delle sue concubine. Nel tempo di cui l´Imperatore detta le regole l´impotenza è il solo fallimento intollerabile. A Terry De Nicolò, tribunale supremo, l´ultima parola.

domenica 18 settembre 2011

l’Unità 18.9.11
Il tempo è ora
L’Italia non è ancora un Paese per donne
Ora la responsabilità è di tutti. Occorre aprire una stagione costituente con un nuovo protagonismo femminile
di Francesca Izzo


Siamo ormai sommersi da un fiume di rivelazioni sulla vita e i rapporti personali del premier e dalle inchieste giudiziarie che le accompagnano. Quando due anni fa cominciò a squarciarsi il velo di protezione, con la pubblica denuncia di Veronica Lario e i casi Noemi e D’Addario, solo alcune donne, dissero che non era una faccenda privata. Solo alcune, tra il silenzio o l’irrisione dei più, dissero che lo scambio sesso-denaro-potere aveva un fortissimo senso politico. La mercificazione del corpo femminile, ostentata da un uomo ai vertici dello Stato, era il segno di un degrado sociale, civile, morale dell’intera nazione. Che un presidente del Consiglio potesse permettersi di concepire ed esibire quel tipo di rapporto con le donne senza che la comunità nazionale, le sue classi dirigenti sentissero il dovere di sanzionarlo eticamente e politicamente voleva innanzitutto dire che lo condividevano e che la dignità il prestigio, il ruolo internazionale dell’Italia, offuscati dalla mancata reazione a quei comportamenti, non era in cima ai loro pensieri.
Ci furono appelli, discorsi, analisi che caddero nel vuoto finché, dopo l’ennesimo scandalo, il 13 febbraio di quest’anno non si riempirono le piazze di folle mai viste in tutta la storia italiana, richiamate da parole come dignità e rispetto e dall’idea che Berlusconi era solo il sintomo di una questione che chiamava in causa l’intera società italiana. Il fortunato slogan di quella giornata Se non ora quando? era ed è rivolto agli uomini, in specie agli uomini che in schiacciante maggioranza compongono la nostra classe dirigente politica, economica, culturale, religiosa,
per sollecitarli a riparare rapidamente i danni e a mettere mano alle storture della nostra società, a cominciare dalla crescente, intollerabile emarginazione delle donne. Il movimento delle donne ha messo in evidenza il nesso tra i comportamenti eclatanti del premier e le drammatiche condizioni di vita delle donne italiane. Ed ha dunque proposto di stipulare un patto finalmente paritario per innovare radicalmente le strutture sociali ed economiche, costruire un welfare anche a misura di donne, contrastare il declino economico e culturale dell’Italia, rinunciando a privilegi assai discutibili, come la diversa età pensionabile.
Ma non c’è stata risposta. Anzi è arrivata una manovra che aggrava in modo feroce l’uso delle donne come supplenti gratuite di un Welfare in dissoluzione. La crisi è andata avanti a ritmo vertiginoso tanto che l’Italia è diventata uno dei paesi Presi di mira dalla speculazione internazionale, e l’intreccio perverso tra vicende personali del presidente del consiglio e la situazione complessiva ha raggiunto un livello insostenibile. Ma ancora non si vede un segno orte e efficace di reazione, è come se i gangli vitali del paese, tutte le forze che si reputano interpreti della nazione, le classi dirigenti politiche, economiche, burocratiche, religiose, culturali fossero bloccate.
Il turbamento è così profondo perché prevale l’impotenza generale: di chi spera di guadagnare da questi fuochi mediatici e giudiziari, di chi teme di rimanere schiacciato dal terrificante quadro di intrighi e ricatti, di chi non riesce a concepire proposte politiche adeguate.
Insomma c’è qualcuno, ci sono forze in questo Paese, qui ed ora, capaci di spezzare questo gioco al massacro? Di prendersi la responsabilità di chiamare tutti, donne e uomini, ad un nuovo patto per ridare forza e prestigio all’Italia, innanzitutto in Europa? Di far convergere gli intenti, di compiere quel grande sforzo collettivo a cui si è più volte appellato il Presidente della Repubblica, insomma di aprire una stagione costituente con le donne protagoniste?
Ora è il tempo.

il Fatto 18.9.11
Ci porta a fondo con lui
di Paolo Flores d’Arcais


A tempo perso faccio il primo ministro”, confessa Berlusconi a una delle sue prezzolate. In qualsiasi altro paese vagamente civile, un primo ministro così verrebbe fatto interdire. Uno che considera governare tempo perso, ma non ne perde affatto quando si tratta di ingaglioffire le istituzioni a fini personali, una legge dopo l’altra e una nomina dopo l’altra, e una baldracca dopo l’altra in cambio di quelle nomine, o di lucrosissimi appalti con cui i suoi ruffiani e le sue cricche hanno spolpato il paese. Ma se da noi avanzi questa modestissima ovvietà troverai subito un Giuliano Ferrara o un Minzolini pronti a stracciarsi le vesti e accusare i “giustizialisti” – dalle tv totalitariamente occupate – di voler perseguitare Berlusconi con gli “ospedali psichiatrici” della Russia di Breznev.
Eppure qui non interessa l’evidente stato clinico già testimoniato anni fa dalla signora Berlusconi, ma le macerie cui il primo ministro “a tempo perso” ha ridotto l’Italia per potersi coltivare la sua privatissima patologia. Macerie che stanno riducendo in povertà milioni di cittadini, mentre arricchiscono a dismisura le schiere dei lanzichenecchi e dei lacchè di regime.
In qualsiasi altro paese vagamente civile, sarebbero i suoi ad averlo da tempo messo alla porta. I colleghi di partito di Helmut Köhl – con la signora Merkel in testa – fecero dimettere il Cancelliere della riunificazione (un’impresa storica) per una semplice indagine su una spesa elettorale non dichiarata. Eppure i politici tedeschi non sono santi né anacoreti. Non è però un caso se tale moralità minima, o la sua assenza (come in Italia) pesano anche sui mercati: il ministro Tremonti (auguri per Milanese, en passant) ci assicura che la nostra economia reale è in salute, dunque la differenza la fa solo la credibilità della Merkel rispetto a quella di Berlusconi. E quando le oscenità di quest’ultimo rispetto alla prima diventeranno conclamate (e non più mero segreto di Pulcinella) cosa succederà? Oggi l’unico leader europeo pronto ad abbracciare Berlusconi è l’ex capo del Kgb Vladimir Putin, gli altri se possono evitano perfino di stringergli la mano.
Ma Berlusconi per i suoi è inamovibile perché ha costruito un vero e proprio sistema di potere con aspetti criminali, ramificato in Parlamento, negli enti pubblici (che trattano affari miliardari con armamenti e petrolio), negli appalti, nelle tv e nella (dis)informazione. Migliaia di bocche insaziabili che occupano il Palazzo, e che con la caduta di Berlusconi rischiano povertà e galera. Complici.

il Fatto 18.9.11
Lo psicanalista Recalcati
“Nessun erotismo né passione, solo perversione”
di Wanda Marra


Nessun erotismo, nessuna arte della seduzione, nessuna passione. Nel sesso quest’uomo cerca piuttosto la prova della sua esistenza”. Dunque, “il vero luogo del bunga bunga non è il letto, ma il sacrario, il mausoleo cimiteriale dove si prepara illusoriamente un posto nell’eternità”. Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano così legge la figura (e la patologia) di Berlusconi, anche alla luce delle ultime vicende emerse dalle intercettazioni. Un crescendo angosciante di ossessione sessuale, che viene prima di ogni altra cosa, che copre ogni realtà (“Sono uno che non fa niente che possa essere assunto come notizia di reato... a me l'unica cosa che mi possono dire è che scopo”, diceva B. in una telefonata a Lavitola). Una “schiavitù” compulsiva e inesorabile che altro non è che “un potente rimedio nei confronti della sua angoscia della morte”. “Perversione” la definisce tecnicamente Recalcati. Che spiega: “La prestanza fallica del proprio corpo è l’unico suo vero tarlo”. E dunque, non stupisce che arrivi a dire “faccio il premier a tempo perso”: “Come potrebbe dedicarsi, se non a tempo perso, ad altro? – spiega lo psicanalista – Magari ad assicurare un’immagine dignitosa delle istituzioni e una guida al governo del nostro paese... Meglio fare “girare la patonza” (testuale in un’altra intercettazione, ndr), l’amuleto che lo protegge dalla morte, assicurandogli di essere ancora vivo”. Recalcati usa le stesse parole del premier citando “la moltiplicazione affannosa dei corpi”, “la ricerca incestuosa (‘ho due bambine’) e vampiresca della loro giovinezza (‘a 29 anni è già vecchietta’), la verifica ossessionata della propria resistenza fallica (‘me ne sono fatte otto’), per spiegare un punto centrale: “Il godimento perverso di S.B.” non dà in realtà “alcuna soddisfazione”, ma esige “la sua ripetizione compulsiva”. Per questo, lo psicanalista mette in relazione “il rituale del bunga-bunga” con “il sacrario monumentale che S.B. ha edificato nella sua villa di Arcore”. Con un’immagine forte: “Una specie di viagra di marmo che dovrebbe permettere all’uomo, mortale come tutti, di erigersi come un fallo gigante nell’eternità”. Insomma, il sesso non è altro che un tentativo disperato di esorcizzare la morte: “Tutta la tragica e farsesca verità del bunga bunga” dunque è “in quest’esorcismo dello spettro della morte”, come “nel rifiuto del tempo che passa”. Altro che il tanto sbandierato “amore per le donne” che dovrebbe creare invidia e ammirazione. Dietro questo, infatti, “si nasconde un uso psicofarmacologico e non erotico dei corpi femminili”. Per questo, come avviene frequentemente in questi casi clinici, spiega Recalcati “gli fa perdere la testa esponendolo ai comportamenti più autolesivi, rendendolo, per esempio, vittima di ricattatori senza scrupolo”. Dunque, nessuna gioia, nessuna vitalità. Solo l’angoscia “che trasuda da questo corpo anziano”: “Il vero padrone non è lui, ma è, come per tutti, la morte”.



Corriere della Sera 18.9.11
Disturbi mentali in aumento, allarme dell'Oms
di Mario Pappagallo


MILANO — I misteri della mente. Non una frase a effetto, ma fotografia della realtà. Allo stato attuale la scienza moderna, quella dei progressi eclatanti, è proprio del cervello che sa ben poco. Forse poco più del 10 per cento. Ed è come se l'intelligenza, una delle espressioni massime della nostra centrale di comando, divenisse demente nell'indagare se stessa. Mistero anche questo. Non solo. Tra le difficoltà c'è anche quella che la mente è campo minato per integralisti e ideologi. «Un blocco per lo studio di fenomeni quali la depressione, l'omosessualità o l'autismo», sostiene il neuroscienziato Edoardo Boncinelli.
Gli effetti delle scarse conoscenze si riflettono, purtroppo, sulla difficoltà nel curare, prevenire, combattere tutta una serie di malattie, sofferenze e disturbi mentali che mai come oggi sembrano dilagare. Nei giovani soprattutto. L'infanzia e l'adolescenza sono età critiche per l'acquisizione e il mantenimento di un adeguato stato di salute mentale. Che cosa sta accadendo alla nostra psiche, alla nostra mente? E perché sta accadendo? La scienza deve rimboccarsi le maniche e cominciare realmente a occuparsi di ciò che ancora è mistero. C'è anche un appello dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Le sue previsioni indicano già dal 2020 una popolazione globale altamente «disturbata» nella fascia giovanile e in quella in continua espansione dei lungoviventi. L'Oms avverte anche: nei Paesi occidentali l'insieme delle malattie mentali costituisce una delle principali cause d'invalidità e di morte prematura. Con ricadute socioeconomiche disastrose.
Per Umberto Veronesi è il momento di intervenire, rimuovendo i blocchi e cercando di comprendere il perché le neuroscienze abbiano così poco attirato in passato sia i ricercatori («Solo dagli anni 80 sono cominciati ad aumentare», dice) sia gli investimenti. Così ha posto il problema sul tavolo del Futuro della Scienza 2011. Mind: the essence of humanity, è il tema della settima Conferenza mondiale di Venezia. Interventi a 360 gradi come è nello stile del meeting internazionale. Domenica si aprono i lavori nella sede della Fondazione Cini, che con la Fondazione Umberto Veronesi e quella Silvio Tronchetti Provera compone la triade ideatrice del Futuro della Scienza. La regia, dato il tema, è stata affidata a Edoardo Boncinelli. Sviluppare la ricerca nelle neuroscienze. Ecco l'obiettivo. E occorre farlo non solo per il progresso scientifico e civile, ma anche per risolvere l'urgenza di oggi: il disagio mentale, uno dei maggiori problemi socio-sanitari delle società evolute. Depressione, attacchi di panico, claustrofobia, agorafobia, ansia, anoressia, bulimia. Il vocabolario si aggiorna continuamente così come i numeri percentuali dei colpiti, anche se in molti evitano di «comparire» per paura di essere etichettati come «pazzi». Emerge da uno studio recente: circa i due terzi delle persone affette da disturbi mentali non fa ricorso ad alcuna cura per migliorare la propria condizione; nella maggior parte dei casi, l'ostacolo più grande è dato dai pregiudizi che circondano la malattia mentale. Così alla fine si può morire per un'anoressia o arrivare a suicidarsi in conseguenza di sofferenze mentali di per sé curabili. Suicidi in aumento anche perché l'aggressività, espressione di un disagio profondo, si trasforma in autoaggressività. Gli omicidi per fortuna sono in caduta libera. Anche se i raptus di follia sono spesso chiamati in causa.

Repubblica 18.9.11
L’Italia che non pensa
di Umberto Veronesi


Nel 2020, prevede l´Oms, la depressione sarà la seconda causa di malattia e invalidità nei Paesi occidentali e oggi in media una persona su quattro presenta qualche disturbo mentale. C´è da riflettere: e se avessimo sbagliato sul dove concentrare i nostri sforzi per raggiungere benessere e longevità? L´attenzione al proprio corpo è un bene che ci ha permesso grandi miglioramenti nella salute e nella qualità di vita, ma che ne è stato della mente? Oggi pare si sfiori l´ossessione con diete, protesi, impianti di capelli e così via, ma dimentichiamo che la nostra età è l´età della nostra mente e che anch´essa va coltivata, sviluppata e difesa. Aprono palestre e centri fitness, ma teatri e librerie chiudono o sono in difficoltà. Invece il cervello, come i muscoli, va nutrito e allenato con la lettura, la riflessione, la meditazione e la scrittura. Fa bene a tutti, e non solo agli intellettuali, frequentare le mostre d´arte, gli incontri culturali e partecipare ai dibattiti. La nostra è una società dove si comunica molto, ma si dialoga poco, creando così le condizioni per l´isolamento e la solitudine, che sono alla base di ogni forma di sofferenza psichica. Ma se sviluppiamo la capacità di introspezione di noi stessi e di dialogo profondo con gli altri, possiamo andare al di là dei rapporti oggi per lo più fragili e mutevoli, che riducono la realtà al privato individuale, in cui è più facile perdersi.
Da secoli si discute fra sostenitori dell´origine ambientale e dell´origine endogena dei comportamenti. Io mi schiero per la prima ipotesi. Penso al cervello come a un pc in cui possono essere immessi dati validi o non validi, e questo database crea le condizioni che poi si traducono in atteggiamenti e atti. Naturalmente, rispetto ad un hardware, noi abbiamo geni e cellule specifiche per ogni individuo, per cui gli stessi dati si stampano su una matrice cellulare diversa, dando esiti diversi. Ma rimango convinto che la salute della nostra mente non è geneticamente e biologicamente determinata e quindi possiamo agire sulle cause e i fattori esterni che con essa interagiscono, per migliorare il suo equilibrio.
Da qui l´importanza della formazione culturale che non può essere soltanto un impegno individuale, ma deve essere un punto strategico dell´agenda dei Governi. In Italia abbiamo il 15% di laureati rispetto ad una media europea del 22,3%, e fra gli occupati nella fascia di età fra 25 e 35 anni, solo il 16% è laureato, contro una media Ocse del 32%. Non che una laurea garantisca capacità e successo professionale, ma la percentuale di laureati è indice di acculturamento e quindi promuovere gli studi universitari, aprire le porte ai ragazzi che vogliono formarsi e coltivarsi, significa dare importanza al vivere in una società colta. Se crediamo nel valore del sapere, ad esempio, non possiamo avere test di ammissione alle università che limitano genericamente l´accesso alle aree di studio, senza in realtà selezionare i migliori, o meglio, i più motivati. Il caso della facoltà di medicina è il più evidente. Del resto i risultati per la scarsa valorizzazione della cultura umanistica e scientifica, iniziano a mostrarsi. A fine agosto è arrivata la notizia da uno studio italo – olandese, che, per la prima volta dopo trent´anni, nel 2009 la produzione scientifica italiana ha smesso di crescere, anzi è arretrata sia in termini relativi, come percentuale dell´intera produzione mondiale, sia in termini assoluti, come numero di articoli scientifici pubblicati. Significa che le sperimentazioni, le scoperte, le nuove conoscenze prodotte all´interno delle nostre università e centri di ricerca si sono arenate. Ed è ovvio che senza ricerca e innovazione non ci può essere crescita per un Paese.
È fondamentale allora ri-orientarsi sulla "Mente, essenza dell´umanità" e per questo abbiamo deciso di dedicare a questo tema la Conferenza di Venezia sul Futuro della Scienza, che si aprirà fra pochi giorni. Innanzi tutto chiediamo più ricerca sulle neuroscienze. Purtroppo dei meccanismi più profondi del nostro cervello sappiamo ancora troppo poco, per cui è necessario investire più risorse finanziarie e umane in questo campo. Capire come funziona la mente ci aiuterà a risolvere anche altri grandi enigmi nelle scienze naturali, nella medicina, nell´ingegneria, oltre ad un gran numero di problemi concreti della società. Ora stiamo iniziando a conoscere le connessioni fra neuroni e il loro linguaggio chimico, stiamo scoprendo la biologia della mente e l´organizzazione delle sue diverse funzioni; ma non siamo che agli esordi e i primi risultati ci confermano che ci troviamo alle soglie di un universo molto complesso e straordinariamente affascinante.
In secondo luogo ci auguriamo che un Convegno sulla Mente possa risvegliare un nuovo interesse per la sfera del pensiero. Faremo luce su come i prodotti della nostra mente si realizzano, come si creano i ricordi, le decisioni, i rimpianti, i sentimenti, le passioni, addentrandoci in territori ancora inesplorati di noi stessi.
Il nostro terzo obiettivo, forse il più importante, è creare nuove basi per combattere il disagio mentale: lo sviluppo della conoscenza è il fondamento più solido su cui costruire una politica di interesse socio-psicologico per l´intera comunità. Il disagio psichico coinvolge trasversalmente tutta la popolazione (in Italia secondo le stime riguarderebbe dieci milioni di persone, vale a dire un sesto della popolazione) ma lascia inevitabilmente esposti al rischio di sofferenza i soggetti e i gruppi più deboli: gli anziani, gli immigrati, i giovanissimi. La legge Basaglia ha fortunatamente chiuso i manicomi, ma i malati vanno seguiti e le loro famiglie sostenute. Va detto che reparti di psichiatria dei nostri ospedali sono ottimi, rispetto all´ampiezza e la complessità dei problemi; tuttavia la rete di servizi psichiatrici territoriali non è ovunque funzionante. Da ministro della sanità, nel 2000, ho organizzato un incontro su questo tema accogliendo le richieste delle famiglie disperate, costrette a bussare a mille porte prima di trovarne una che si apre.
Sono emerse tante proposte, ma in 10 anni non molto è cambiato. In questo tempo è cambiata invece molto la società italiana. È più complessa, più variegata e più globale, ma anche più disorientata, incerta e spaventata dal suo futuro. Un terreno ancora più fertile per la sofferenza psichica. Ci vuole allora un impegno nuovo, nuove strategie, nuove energie e nuove iniziative di risveglio culturale-scientifico. La Conferenza di Venezia offrirà un contributo importante in questa direzione.

il Fatto 18.9.11
Il vero costo del potere
di Furio Colombo


Il costo della politica è scandalosamente alto. Il costo del potere è ancora più alto, al punto da sfuggire a ogni misurazione, previsione o controllo. Infatti solo in parte limitata è costo contabile. Per il resto, ovvero una parte immensa, è costo in natura, ovvero nelle persone, nelle cose, nelle decisioni, nei fatti che compongono il quadro, del tutto invisibile dell'esercitare il potere. S'intende che non si può usare un argomento per accantonarne un altro. I due costi si sommano e anzi si moltiplicano fra loro, e indicano abissi ben più profondi del costo della barberia della Camera o della lista prezzi al ristorante del Senato. Ma una volta stabilito che tutto conta, e si somma e si moltiplica, come ricorda l'ultimo libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, Licenziare i Padreterni, l'Italia tradita dalla Casta (Rizzoli) che va a esplorare molti aspetti, angoli e situazioni che si pretendevano ignote, e le indica con scandalosa chiarezza, resta da capire (o meglio da dire) dove sei e cosa fai. Se questo fosse un diario (o la scaletta di un film) comincerei con tre sequenze, viste (starei per dire “filmate”) nel pomeriggio del giorno 14 settembre, quando, come hanno poi scritto pacatamente i giornali, “è stata approvata la manovra”.
Montecitorio: polizia attorno ai disabili
NELLA PRIMA sequenza (ore 14) si vede la piazza calda e assolata di Montecitorio presidiata da una fitta cintura di polizia, uomini in tenuta da scontro, che chiedono il tesserino di identificazione persino a un deputato che esce dall'edificio della Camera. Sulla piazza ci sono due giovani disabili, Luca Faccio e Alessandra Incoronato, infaticabili difensori di diritti, per non permettere che i disabili vengano dimenticati o – peggio – puniti come per una colpa. Mi dicono, e dichiarano con il megafono, che intendonocontribuirealledilapidaterisorse del Paese in pericolo versando al governo, ciascuno, un contributo uguale all’assegno mensile che ricevono per sopravvivere, 268 euro. La polizia li ha già trattenuti il più indietro possibile, ma questo li costringe a restare al sole. Vogliono restare e testimoniare sulla follia che, con tanti altri cittadini, stanno vivendo. Tagli pesanti stanno infatti abbattendosi sui disabili che non vorrebbero lasciarsi accantonare nella finzione di non esistere.
Sul fondo un centinaio di giovani e pensionati, uomini e donne con bandiere dei Cobas, hanno voglia di parlare del senso di ansia e di rabbia che provano per la “manovra” che una maggioranzadeltuttoindifferenteeancora ossequiosa di un padrone, sta per approvare col voto di fiducia. Quando torno sulla piazza per una seconda visita, la “produzione” di questo strano film ha già cambiato completamente la scena. I due giovani disabili non ci sono più, piazza Montecitorio è bloccata da automezzi ammassati l'uno control'altroinmododaimpedirea chiunque di entrare, ma anche di uscire dal cerchio. Al di là si intravedono appena le bandiere di gente che, allo stesso modo, si sente espropriata. La carica avviene perché deve avvenire, con pestaggi e petardi, in modo da poter parlare di accordo fra cittadini esasperati e partiti che si stanno opponendo in tutti i modi alla “manovra”. La scena della sera, quando è già buio, sembra ripetere la sequenza finale del Caimano di NanniMoretti:l'autodell'expotente che si allontana dalla scena del disastro. Se osservate ciò che resta intorno a Montecitorio dopo la battaglia con (contro) i cittadini, la somiglianza è impressionante. Ma nella sera che sto descrivendo siamo subito prima, non subito dopo la caduta. Apparentemente il potere è ancora intatto, ed è qui che usciamo dalla suggestione di Moretti per entrare nella rappresentazione documentaria e realistica di Stella e Rizzo. Nella nottediRomaleautodelpotere sono talmente tante che tutto il centro è bloccato e chi avesse una telecamera potrebbe riprendere questa scena: nello spazio percorribile lampeggiano dal tettuccio le luci blu delle auto di servizio.
Dopo gli scontri,  la notte delle auto blu
AI BORDI del buio, si intravedono i taxi fermi, i guidatori a terra, a guardare. Persino loro, gli scettici e disincantati tassisti di Roma, sono increduli e meravigliati. Un’ambulanza, con la sua patetica sirena che segnala un malore, tenta invano di passare. Nessuno potrà interrompere lo scorrere, nella notte, tra lampiblu,dellecinqueautomobili (staffetta, scorta, auto presidenziale, scorta) del presidente del Consiglio, seguite dalla sgommata delle scorte da tre, da due e poi dalla scorta di una sola auto blindata. Quanto costa? S'intende che la domanda non è “invece di”. È una paurosa addizione, anzi una moltiplicazione, che ha la capacità naturale di crescere per due ragioni raramente citate: il conflitto di interessi e la mancanza totale di trasparenza. Infatti è l'opacità, la mancanza di trasparenza, quell'ossessione dei Radicali che ti dicono che l'accurata segretezza partitica e politica è l'origine di tutto (e non è cominciata con Berlusconi). Se la scena notturna che ho descritto, oltre che le luci blu sulle auto di scorta, mostrasse, nella notte, una ramificazione di linee rosse (la spesa) quella ramificazione apparirebbe enorme perchéègeneratadall'esercizio del potere oscurato due volte, dalconflittodiinteressi(cheèil dono malefico di Berlusconi all'Italia della cosiddetta Seconda Repubblica) e dalla generale e scrupolosa mancanza di conoscenza da parte dei cittadini dei costi del potere, che sono il costo del costo della politica, ovvero costi che generano costi findovenonèpiùpossibiledire se si tratti di legge, di amministrazione, di arbitrio, di abuso, di ingiusto vantaggio o di privilegio auto-elargito.
Sia chiaro: se ne può uscire solo bloccando la scena, subito dopo l'abolizione dell’attuale legge elettorale, adattissima al sistema del contenitore opaco, che rende tutto invisibile. Se questo avviene, attesa e speranza sono che il costo (e il costo del costo) della politica diventino I'argomento più importante, più condiviso della campagna elettorale, per portare il governo ai cittadini e i cittadini al governo. Dall’interno dell'edificio, così com’è oggi, a regole immutate, nulla accadrà e nulla potrebbe accadere. Basti pensare che il presidente del Collegio dei Questori della Camera dei deputati (i controllori delle spese) è la stessa persona, il deputato Colucci, che era presidente del Collegio dei Questori quando il presidente del Consiglioera,primadellacaduta,Bettino Craxi.

Corriere della Sera 18.9.11
La Chiesa, il Cavaliere e il suo Doppio
di Gian Antonio Stella


Il Cavaliere, oltre che il premier, fa anche il cattolico «a tempo perso»? Le autorità vaticane sembrano aver scelto di tacere, per ora, su quel pollaio di finte infermiere e squillo russe e ballerine sudamericane che emerge dalle intercettazioni e che una delle ragazze coinvolte ha definito «un gran troiaio». Un silenzio assoluto.
Lo stesso Silvio Berlusconi, però, sa che il quadro delle sue notti brave con Gianpi Tarantini («Tu porta le tue, io le mie. Poi ce le prestiamo. La patonza deve girare...») rischia di guastare irrimediabilmente un rapporto con la Chiesa che aveva coltivato accuratamente. Giorno dopo giorno. Per anni.
Tutta la sua storia politica, coerentemente con la tesi di Don Gianni Baget Bozzo («ho sempre creduto nello Spirito Santo e considero Berlusconi come un evento spirituale») ha traboccato fin dall'inizio di messaggi, parole, rimandi religiosi. Nelle omelie elettorali: «Tutti dobbiamo diventare missionari, dobbiamo farci apostoli... Spiegheremo il vangelo di Forza Italia, il Vangelo secondo Silvio!». Nelle professioni di fede: «Sono religioso, cattolico praticante. Ho cinque zie suore e la domenica un mio cugino sacerdote viene ad Arcore a celebrare Messa nella mia cappella privata. Sì, mi comunico spesso. Anche perché se non lo faccio, mia madre mi chiama in disparte e mi rimprovera: "Cos'hai fatto a Dio, che oggi non hai preso l'ostia?"». Nelle interviste in cui spiegava gli incontri con Giovanni Paolo II: «Mi ha dato la sua benedizione. Ma con l'aria di pensare che non ne avessi un bisogno particolare». Negli annunci: «Il programma verrà presentato in dodici disegni di legge come le dodici tavole».
E via così, per anni. «Ho anche Sgarbi, nella funzione di San Giovanni Battista». «Ho detto: vade retro Satana a tutti i pastrocchi della Prima Repubblica». «Sui referendum mi rimetto serenamente al giudizio di Dio». «Berrò l'amaro calice di tornare a Palazzo Chigi». «Noi e Buttiglione abbiamo gli stessi ideali, la famiglia, il cattolicesimo, una posizione che si riflette nel magistero di Giovanni Paolo II». «Il male di questo Paese è che tutti guardano alle loro parrocchie, invece bisognerebbe stare attenti alla diocesi». A un certo punto confidò: «Io sono in collegamento continuo con lassù, mi aiuta il circuito delle zie suore». E rivelò: «L'altro giorno nella cappella di Arcore ho visto mia madre in colloquio diretto col mio angelo custode, con mio padre e anche con le zie che sono dall'altra parte: con accenti accorati li rimproverava di non aiutarmi abbastanza». E qualche giorno dopo a Maria Latella che gli aveva chiesto con un pizzico di irridente incredulità quali richieste facesse lui all'impalpabile protettore, rispose con un sospiro addolorato: «L'idea dell'angelo custode suscita la sua ironia, forse le sembra una cosa fanciullesca... E io sorrido con qualche amarezza per il disprezzo cosi poco laico per questa elementare dimensione della fede, per questo amore che noi cattolici portiamo agli agenti della Divina Provvidenza».
Quando andò a trovarlo l'inviato di Famiglia Cristiana, volle dunque trascinarlo a tutti i costi, di stanza in stanza, fino alla cappella. «Presidente, non serve, la mia è un'intervista politica». «I suoi lettori devono sapere». «Quando faccio la Messa ad Arcore», raccontò a un settimanale, «la chiesa si riempie di giovani. La religione spinge tutti noi a migliorarci, a tendere verso l'alto». Fino alla sortita più famosa: «Uno che arriva come me alla guida dell'Italia è come se fosse stato unto dal Signore». Di più: «Quando si assume un ruolo come questo, la vita cambia. I cattolici la chiamano la Grazia dello status. È una cosa che ti fa diventare una persona diversa senza che tu te ne accorga. Già stanotte ho dormito da persona diversa, anche se con lo stesso pigiama». E mano a mano che Don Luigi Verzé lo confortava nella convinzione d'essere stato scelto da lassù («l'ho sempre detto, Silvio è stato mandato dalla Divina Provvidenza per salvare questo Paese») il Cavaliere si lanciava nel racconto di parabole: «All'Ospedale San Raffaele una madre mi pregò di convincere il figlio bloccato provvisoriamente su una sedie a rotelle a riprendere a camminare. Mi presentai dal ragazzo e gli dissi: "Giacomo, fatti forza. Alzati e cammina". Lui, dopo alcuni giorni, si alzò». Un prodigio. Come tanti altri. Che gli avrebbero strappato battute come quella con cui annunciò di aver trovato un punto d'accordo su Bankitalia: «San Silvio da Arcore ha fatto un altro miracolo». Fino alla sublimazione del celebre gesto nel salotto di Bruno Vespa, quando porse la mano all'incerto giornalista: «Annusi, annusi!». «Cosa devo annusare?». «È odore di santità». E tanto deve essersi convinto, nel tempo, di questa sua dimensione al di là dei due divorzi e di una vita, diciamo così, sessualmente spericolata, che un giorno dell'estate 2008, alla Messa per il nuovo campanile di Porto Rotondo, chiese al vescovo di Tempio Pausania: «Eccellenza, perché non cambiate le regole per noi separati e ci permettete di fare la comunione?». «Lei che ha potere, si rivolga a chi è più in alto di me», gli disse quello sorridendo. Il Papa, in qualche modo, gli rispose dal Quebec: «Coloro che non possono ricevere la comunione a motivo della loro situazione, troveranno comunque nel desiderio di comunione e nella partecipazione all'Eucaristia una forza e una efficacia salvatrice». Parole che avrebbe interpretato come un via libera. Facendo la comunione in pubblico almeno un paio di volte, ai funerali dell'alpino Matteo Miotto e a quelli di Raimondo Vianello. E adesso? Cosa faranno i vertici della Chiesa dopo aver letto quei dialoghi («Ieri sera avevo la fila fuori dalla porta della camera... Erano in undici... Io me ne son fatte solo otto perché non potevo fare di più») finiti su tutti i giornali del pianeta? Lo vedremo nei prossimi giorni. Ma certo, stavolta, se venissero confermate certe testimonianze, sarà difficile per lui spiegare che anche Nicole Minetti vestita in una notte brava con «una tunica scura da suora, compreso il copricapo ed una croce rossa sul velo» facesse parte del «circuito» delle zie monachelle.

Repubblica 18.9.11
Le telefonate hot e il silenzio della Chiesa
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, "Ieri sera erano in 11, me ne sono fatte solo 8, ma stamattina mi sento bene sono contento della mia resistenza". A parte lo schifo che mi provoca una frase di un anziano che purtroppo pensa a questo e non agli affari di Stato (e si vede), mi chiedo, ma dove sono le alte cariche ecclesiastiche? Quest'uomo, probabilmente malato deve essere curato come già raccomandava sua moglie. Oltre alle persone di buonsenso, dovrebbero essere i vertici ecclesiastici, le riviste cattoliche a rivoltarsi contro questo osceno malaffare. Tutto questo è accettabile? Dove sono i cattolici? Come fanno i vescovi, i cardinali, i focolarini, tutte le associazioni cattoliche che si indignano per un Welby tanto da rifiutargli il funerale religioso ad accettare questa situazione e non alzare forte la voce? Arrivano troppi benefici e allora si chiudono non solo gli occhi ma anche le orecchie e ci si gira dall'altra parte?
Enrica Bergamo Saporetti

Hanno colpito le telefonate del premier circondato e ricattato dalla sua corte di lenoni e di prostitute, impegnato in decine di telefonate oscene al punto da doverle censurare per decenza. Alla rubrica sono arrivate decine di lettere inquiete, indignate, qualcuna amaramente divertita. Scrive per esempio Giancarlo Merlo: «Penso che neanche Rocco Siffredi, che per professione fa l'attore porno, sia mai riuscito a sostenere prestazioni sessuali con 8 donne, cosa che invece è riuscita al nostro ultrasettantenne e operato alla prostata presidente del Consiglio». Se devo valutare sinteticamente direi che su tutti prevalgono due temi: uno è quello esemplificato dalla signora Enrica Bergamo nella lettera citata sopra, vale a dire l'atteggiamento delle alte gerarchie cattoliche sempre così sollecite nel giudicare le questioni interne italiane, invece stranamente silenti sul crocifisso insinuato tra i seni della escort di turno, sulla grave degenerazione morale causata dal capo del Governo. Sere fa sono state intervistate in Tv alcune ragazzette che sfilavano per un concorso di bellezza in Sicilia. Alla domanda: «Tu ci andresti ad Arcore?», le poverine hanno risposto «Beh, sì», consapevoli ovviamente del malizioso sottinteso contenuto nella richiesta. L'altro tema che domina è così riassunto da Arturo Martinoli: «Il presidente del Consiglio tuona contro "il trappolone" che i giudici avrebbero organizzato. L'interrogatorio può diventare una trappola solo se ha molte cose da nascondere. Ma se, come giura e rigiura, non ha nulla da nascondere, allora non dovrebbe aver problemi a rispondere anche sotto giuramento a qualsivoglia domanda». Invece di tirare in ballo la sovranità popolare, l'interessato non potrebbe chiarire questa elementare incongruenza?

il Fatto 18.9.11
Breccia vaticana
A Porta Pia il corteo per far pagare l’Ici alla Chiesa I Radicali: “Ripartiamo dalla legge finanziaria”
di Silvia D’Onghia


Camilla ha 10 anni e una lunga coda di cavallo. Al collo ha appeso un manifesto contro il Vaticano. “Noi dobbiamo pagare per loro, ma loro non pagano per noi”, risponde ai cronisti che le chiedono se conosca il senso di quella scritta. “Ma sai cos’è il Vaticano?”. “Una città”.
Sergio Stanzani di anni ne ha 88, arriva a Porta Pia in sedia a rotelle. È il presidente del Partito radicale transnazionale, è stato eletto dieci anni fa, al tempo dell’ultimo congresso. Lui sa bene cos’è il Vaticano. “I cattolici dicono di volersi conquistare il paradiso, e anche se non ci credo li rispetto, ma mi devono spiegare perché vogliono conquistare anche il paradiso terrestre. Perché finora lo hanno potuto fare indisturbati? Bè, non a caso la chiesa cattolica è universale”.
Non c’è tanta gente al corteo organizzato dai Radicali a Porta Pia, a tre giorni dal 141esimo anniversario della Breccia, ma la manifestazione può dirsi comunque riuscita. Sventolano le bandiere di “Democrazia Atea” e dell’Uaar (Unione degli atei e agnostici razionalisti), c’è lo striscione dell’associazione nazionale del Libero pensiero “Giordano Bruno”, c’è l’enorme vignetta col cardinale intento a divorare un piatto di pasta, c’è il trampoliere porporato e c’è persino Marco Cappato vestito da guardia svizzera. Il corteo si snoda da Porta Pia al ministero dell’Economia, in via XX Settembre: un tragitto breve, contornato da decine di poliziotti e carabinieri. Obiettivo, ancora una volta, i privilegi di cui gode il Vaticano, dal mancato pagamento dell’Ici sugli immobili ecclesiastici all’8 per mille, giudicato “una truffa”.
“NELL’ULTIMO mese ci hanno dato dei bugiardi e dei massoni – spiega il segretario dei Radicali, Mario Staderini –, ma c’è un video (consultabile sul sito dei Radicali, ndr) che dimostra che a mentire erano loro. A forza di proteste e manifestazioni, siamo riusciti ad aprire una breccia sul ‘tabù vaticano’. Ne hanno parlato i giornali, persino il Sole 24 Ore, Libero e il Giornale“. Non solo: la Camera, durante il voto finale alla manovra economica lo scorso mercoledì, ha approvato un ordine del giorno presentato dal deputato di Fli Enzo Raisi che richiede di far pagare l’Ici sugli immobili della Chiesa destinati a “attività commerciali, anche se esercitate non in via esclusiva”. Esenzione confermata, invece, solo per gli immobili destinati ad attività commerciali accessorie fino a un fatturato massimo di diecimila euro annui. Certo, è solo un ordine del giorno, ma per i Radicali è un inizio. “Ora aspettiamo la legge finanziaria – prosegue Staderini –. Stiamo calcolando l’impatto della tassa vaticana sul debito pubblico italiano: posso dire senza timore di essere smentito che non siamo lontani dal 5 per cento sui duemila miliardi accumulati negli ultimi 20 anni”.
“HO LASCIATO a casa il mio nipotino di 11 anni – racconta un’insegnante in pensione –, voleva venire anche lui, ma poi si è fermato a casa col fratello a discutere di come cambiare l’Italia. Sa, io ho combattuto 40 anni in difesa della scuola pubblica e della laicità dello Stato. Non è cambiato nulla, ma non ci possiamo arrendere”. Un uomo mostra il suo tesserino da disabile: “Perché l’ho portato? Perché il Comune di Roma ha un credito di 30 milioni di euro nei confronti del Vaticano e non ha i soldi per garantire i servizi essenziali per noi disabili. Però 4 milioni di euro per la beatificazione di Giovanni Paolo II li hanno trovati. I soldi per la Chiesa non mancano mai”.
Al corteo c’erano anche molti non radicali, richiamati dal tam tam della rete. Su Facebook il gruppo “Vaticano pagaci tu la manovra finanziaria” “piace” a quasi 150 mila persone. “Segno che bastava abbattere il muro dell’omertà”, commenta Staderini, mentre abbatte il muro di cartone costruito, simbolicamente, davanti al ministero dell’Economia.

l’Unità 18.9.11
Il tam-tam del Pd: prepariamoci al voto anticipato
l 15 ottobre ci sarà una giornata di mobilitazione straordinaria Il segretario resta convinto che la strada maestra sia il voto Ma ha dato la disponibilità per un governo d’emergenza
di Simone Collini


Via Berlusconi, e poi? Nel Pd si stanno studiando tutte le possibili strategie, e non è un segreto che nel partito ci sia chi è più convinto che la strada verso le elezioni anticipate sia la più limpida Bersani e chi invece ritiene a cominciare dagli esponenti della minoranza di Movimento democratico che in un momento di crisi come questo sia necessario dar vita a un governo di responsabilità nazionale. L’argomento sarà discusso alla Direzione del Pd convocata per il 3 ottobre. È da escludere che quel giorno ci saranno spaccature, l’unità del partito è d’obbligo in un momento delicato come questo e non è un caso che Bersani abbia chiesto a Veltroni di intervenire in aula per il Pd quando mercoledì, prima dell’approvazione della manovra, ci sono state le dichiarazioni di voto sulla fiducia.
Per Bersani il Pd ha fatto bene finora a dimostrarsi disponibile a discutere la possibilità di un nuovo governo guidato da una figura più credibile davanti all’opinione pubblica nazionale e internazionale, ma se questa disponibilità finora non è stata raccolta da Berlusconi e soci, l’emergenza che attraversa il Paese impone da parte dell’opposizione la richiesta del voto anticipato. Bersani è consapevole che un partito come il Pd, in un ipotetico post-Berlusconi, non potrebbe sottrarsi alle proprie responsabilità se per Napolitano si aprisse la possibilità di tentare un governo «alla Ciampi o alla Amato», come si dice tra i Democratici. Ma il leader del Pd sa anche che il tempo stringe, e che di fronte al rischio di un ulteriore declassamento dell’Italia e di nuovi attacchi da parte della speculazione, bisogna superare un Berlusconi per nulla intenzionato a farsi da parte di sua sponte con elezioni da tenere al massimo per la primavera prossima. Per questo Bersani ha lanciato la manifestazione del 5 novembre e per questo inizia a muovere il partito in questa direzione.
Il leader del Pd ha detto ai suoi di cominciare a lavorare per una giornata di mobilitazione straordinaria che si dovrà svolgere sabato 15 ottobre. Presto arriveranno a tutti i Circoli del paese mail in cui si chiede di aprire la sede, allestire gazebo nelle principali piazze delle città, incontrare i cittadini, fare volantinaggio. Una giornata che avrà tutte le caratteristiche di una vera e propria campagna elettorale in corso, e che servirà anche per iniziare a lanciare la manifestazione che il 5 novembre dovrebbe svolgersi in piazza San Giovanni.
La linea delle elezioni anticipate non convince però la minoranza guidata da Veltroni, Gentiloni e Fioroni, che in questo si muovono in totale sintonia con il leader dell’Udc Casini, contrario al voto anticipato e favorevole a un governo di «responsabilità nazionale». I tre dirigenti della minoranza pd si sono incontrati martedì scorso alla Camera durante una pausa dei lavori per la manovra e hanno discusso di come proseguire l’azione di Movimento democratico. Hanno deciso di convocare un’assemblea nazionale per il 10 ottobre, per rilanciare la loro posizione sull’attuale fase politica e sul come superarla ma anche per dare un segnale di unità della loro componente.
Il referendum sulla legge elettorale ha infatti creato una divisione interna alla minoranza del Pd, con Veltroni che insieme a Parisi e Prodi ha dato una bella spinta alla rivitalizzazione di un’iniziativa che dopo l’estate sembrava finita, e con Fioroni che è invece molto critico nei confronti di un’operazione che rischia di riportare in vita il Mattarellum. Il responsabile Welfare del Pd ne ha discusso anche con Casini, l’altro ieri, durante il convegno organizzato a Polignano a Mare dalla sua associazione “Il domani d’Italia”. «Con quella legge elettorale i candidati per il Parlamento verrebbero comunque scelti dalle segreterie di partito è il ragionamento di Fioroni si ricreerebbe una grande frammentazione e rischieremmo di dare agli elettori una brutta immagine: l’Unione 3, a volte ritornano». La soluzione? Sia per Casini che per Fioroni sta in una legge elettorale che preveda il sistema delle preferenze.
La legge elettorale è una delle materie di cui dovrebbe occuparsi il governo di transizione, nel caso Berlusconi si decidesse a fare un passo indietro e il Quirinale verifichi l’esistenza di una maggioranza alternativa in Parlamento. Il Pd, all’ultima Direzione, ha approvato una proposta di legge che prevede un sistema misto maggioritario-proporzionale, il doppio turno e la parità di genere. Un testo su cui Casini si era anche mostrato disponibile ad aprire un confronto. Ma il referendum, per il quale è ormai certo che entro il 30 settembre saranno raccolte le 500 mila firme necessarie (dopodiché bisognerà vedere se la Corte costituzionale lo giudicherà ammissibile) ha mischiato di nuovo le carte.

l’Unità 18.9.11
Intervista a Matteo Orfini
«Governo Bersani con squadra tutta nuova»
Cambiare «Ma non è un fatto anagrafico. Certo la foto di Vasto non mi rassicura... Mettiamo idee forti, il Pd deve combattere le diseguaglianze»
di Simone Collini


Superato Berlusconi, dovremo ricostruire il Paese. E potrà farlo soltanto un governo Bersani, con una squadra totalmente nuova». Matteo Orfini ha partecipato all’incontro organizzato una decina di giorni fa a Pesaro col titolo «Rifare l’Italia, rinnovare il Pd». Ha 36 anni ma è d’accordo con chi dice che il rinnovamento non può essere soltanto un fatto anagrafico. «Riguarda le idee e le persone», dice il responsabile Cultura e Informazione del Pd. Un discorso che per il membro della segreteria deve valere tanto per il partito quanto per la coalizione: «Sbaglia chi per interessi di bottega vuole bruciare il tentativo di dialogo con i moderati. Anche perché quando non ci sarà più Berlusconi, ci sarà un partito dei moderati che può guardare al centrosinsitra e ci sarà un partito alla sinistra del Pd, Sel. Non so invece se ci sarà l’Idv, che è un prodotto del berlusconismo».
Perché avete messo insieme l’esigenza di ricostruire il Paese e quella di rinnovare il vostro partito?
«Perché in questa crisi stanno emergendo nodi strutturali e stanno crollando miti circolati in questo ventennio, come quello per cui con meno politica e più mercato si sarebbe prodotta una ricchezza diffusa. Oggi è chiaro che è avvenuto l’esatto contrario, con uno spostamento della ricchezza dai redditi da lavoro ai redditi da capitale. Senza una svolta, la sfiducia nelle istituzioni rischia di provocare fenomeni pericolosi di rabbia che possono prendere direzioni antidemocratiche».
Una svolta che deve riguardare anche il centrosinistra?
«Che il centrosinistra abbia delle responsabilità mi pare innegabile, visto che in questo ventennio abbiamo governato per nove anni. Abbiamo fatto cose straordinarie, come l’Euro, ma abbiamo anche lasciato che il simbolo dell’Europa fosse soltanto una moneta. Ma soprattutto abbiamo mostrato elementi di grave subalternità nei confronti del pensiero liberista e individualista. Abbiamo avuto governi centrati sull’idea di un patto con l’establishment per salvare il Paese. Abbiamo governato bene ma non abbiamo cambiato l’Italia. Per questo poi siamo stati sconfitti, non solo perché si litigava».
Il rinnovamento riguarda quindi le idee?
«E anche le persone. È chiaro che chi ha subito la subalternità al pensiero della destra non può certo essere protagonista in una fase che deve essere segnata dal superamento di quell’atteggiamento. Non si può riproporre la squadra del ‘96».
C’è chi sostiene che il rinnovamento non può essere un fatto anagrafico. «Non può essere soltanto anagrafico. E dico anche che tanti che si autopropongono come il rinnovamento sembrano invece più gli ultimi protagonisti di quella stagione che dobbiamo superare, perché continuano a proporre meno ai padri e più ai figli, Stato minimo, privatizzazioni».
Un riferimento a Renzi?
«Ma non solo, vale anche per Montezemolo, o per altri che nel Pd sostengono ricette che sono state la causa della crisi e che non possono essere oggi la soluzione. Non si può pensare che riformismo vuol dire sostenere da sinistra cose di destra. Chi dice meno ai padri più ai figli non si rende conto che quei padri oggi consentono ai figli di continuare a vivere».
Cosa dovrebbe fare allora il Pd?
«Mettere al centro dell’azione parole d’ordine come mobilità sociale e redistribuzione delle ricchezze. Quando qualcuno vede una bandiera del Pd deve pensare non solo al partito che monta i gazebo per fare le primarie ma a un partito che prova a far stare meglio chi sta peggio, che combatte le disuguaglianze. Su questo dobbiamo centrare la fase del rinnovamento».
Bersani si sta muovendo bene?
«Si sta ponendo come protagonista di una fase nuova. Ma dobbiamo stare attenti, non basta dire che ci sono tanti giovani bravi nel Pd, dobbiamo anche simbolicamente operare una cesura con le stagioni precedenti. Non so quanto trasmetta l’idea di rinnovamento del Paese la foto di Bersani con Di Pietro e Vendola. Se a fianco ci mettiamo anche persone che hanno governato per due volte e che per due volte non sono riuscite a portare il cambiamento, non potremmo mai essere credibili». Anche Bersani ha governato, nel 2006.
«Sì, e ha dimostrato di voler veramente cambiare le cose, ha attuato misure coraggiose, si è mosso contro le corporazioni. È il simbolo di quello che abbiamo fatto troppo poco, e che se avessimo fatto di più probabilmente ci avrebbe consentito di essere ancora al governo. E poi ha rimesso in pista un partito che stava in una situazione difficile, lavorando anche a ricostruire una moderna democrazia dei partiti. Per questo è la persona giusta per guidare il Paese, con una squadra completamente nuova e non nell’ottica di equilibri interni ed esterni che trovino punti di sintesi nelle posizioni di governo». Esprimeva perplessità sulla foto a tre di Vasto: perché?
«Va bene iniziare un dialogo più stretto con Idv e Sel ma è sbagliato, come fanno Di Pietro e Vendola, arroccarsi e cercare di escludere il rapporto con altre forze di opposizione. Sarebbe grave per interessi di bottega bruciare il tentativo di dialogo con i moderati. Perché di fronte a un Paese che sta per essere divorato, soltanto un campo di forze il più ampio possibile può reggere il peso della sfida. E anche perché dobbiamo fare un ragionamento più di sistema. Quando non ci sarà più Berlusconi, nella Terza Repubblica, ci sarà un partito dei moderati che può guardare al centrosinistra e ci sarà un partito alla sinistra del Pd. Non so se ci sarà l’Idv, che è un prodotto del berlusconismo. E non so se nell’idea di ricostruzione del Paese alcuni argomenti di Di Pietro facciano bene a un’alleanza come la nostra». Ammettiamo che Berlusconi si faccia da parte: governo di responsabilità nazionale o elezioni anticipate? «La sfiducia nelle istituzioni e nella politica è tale che è necessario ricostruire il rapporto con i cittadini attraverso il rito principale, fondativo, della democrazia: il voto».

l’Unità 18.9.11
Una «manovra» per raggirare la volontà popolare
Nel decreto del 13 agosto è stata inserita una norma sulla privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali che ribalta l’esito del referendum di giugno L’appello dei movimenti e dei giuristi: così si mette a rischio la democrazia
di Massimo Franchi


La volontà popolare è stata rispettata per due mesi esatti. Il 13 giugno il 54,81% degli italiani aventi diritti si fecero consegnare la scheda del primo quesito dei referendum sulla cosiddetta abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali (in primis l’acqua) a operatori economici privati. Il 95,35% di loro, pari a 25.935.362 milioni, si espresse per il “Sì”. Una vittoria inaspettata (raggiungere il quorum veniva considerato impossibile solo qualche mese prima) e straordinaria (per proporzioni visto che il comitato promotore era composto da illustri sconosciuti). Una vittoria durata però solo 60 giorni. Nel decreto-manovra del 13 agosto infatti, accanto ad altri articoli che nulla avevano a che fare con la riduzione di deficit e debito, è stata inserita una norma che sostanzialmente ripropone la privatizzazione forzata delle pubblic utilities.
L’articolo 4 del decreto (Liberalizzazioni, privatizzazioni ed altre misure per favorire lo sviluppo) ha un titolo beffardo e in qualche modo rassicurante: «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione europea». Peccato che nel testo si faccia esattamente il contrario: «l’adeguamento» diventa sovvertimento della volontà popolare. L’articolo infatti al primo comma impone a tutti «gli enti locali» di «liberalizzare tutte le attività economiche», definiti «servizi pubblici locali». Al comma 12 si prevede che al socio «deve essere conferita una partecipazione non inferiore al 40 per cento», mentre al comma 13 si prevede che solo quando «il valore economico del servizio oggetto dell'affidamento è pari o inferiore alla somma complessiva di 900.000 euro annui, l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico». Il valore previsto è volutamente molto basso e dunque è implicito che quasi tutte le aziende municipalizzate possano essere privatizzate. In più il comma 32 prevede che tutte «le concessioni di servizi pubblici locali affidati direttamente decadano il 31 marzo 2012», quelle «a società a partecipazione mita pubblica e privata» «il 30 giungo 2012», in tutti i casi «senza necessità di apposita deliberazione».
La denuncia è venuta proprio dalle pagine de l’Unità che per prima aveva segnalato il tentativo di ri-privatizzazione dei beni comuni. Dinanzi al montare delle proteste lo stesso Tremonti ha cercato di spiegare che il referendum sull’acqua è perfettamente rispettato, citando il comma 34 dello stesso articolo 4. È vero, il comma 34 specifica che «sono esclusi dall'applicazione del presente articolo il servizio idrico integrato», ma le eccezioni previste («ad eccezione di quanto previsto dai commi 19 a 27») lasciano ampi dubbi sui terreni di applicazione. E in più, con una particolarità che fa nascere più di un sospetto, non sono ben specificate nel decreto le condizioni previste per le multiutility che gestiscono vari servizi, e non solo l’acqua.
A rendere ancora più esplicita la volontà del governo di ribaltare l’esito del referendum è arrivata poi la dichiarazione di giovedì scorso del ministro Sacconi: «Altro che sorella acqua, mi auguro che troveremo il modo per rimettere in discussione il referendum». Parlando ad un convegno del Centro studi di Confindustria, il ministro del Welfare ha spiegato che il governo vuole dare impulso alle liberalizzazioni «a partire dai servizi pubblici locali» per sostenere la crescita economia. Tema, ha riferito poi, al centro di un ulteriore incontro informale con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti.
In piazza per denunciare «il colpo di mano» nei scorsi giorni sono scesi Cgil e Forum Acqua pubblica. Paolo Carsetti, portavoce nazionale del Forum, lo ribadisce: «Si sta minando pesantemente la democrazia di questo paese, contraddicendo, attraverso l'articolo 4, quanto deciso dalla volontà popolare. Quell'articolo non è altro che un copia e incolla di quanto contenuto nel decreto Ronchi, già bocciato dalla schiacciante vittoria del referendum ed è inutile che ci vengano a dire che il referendum era solo relativo all'acqua, si parlava di servizi pubblici locali in senso lato, che adesso si vogliono nuovamente privatizzare». E su questo il Forum non ha alcuna intenzione di retrocedere: «È un provvedimento incostituzionale e se le mobilitazioni di questi giorni non saranno sufficienti, faremo ricorso alla Consulta».
Intanto i giuristi estensori dei quesiti referendari per l’ acqua bene comune hanno lanciato un appello (http://www.siacquapubblica.it): «La lettura della manovra di Ferragosto (...) produce una sensazione di profonda preoccupazione in chi ha a cuore la democrazia ed i beni comuni. (...) La manovra mette in moto una sorta di processo costituente de facto che di per sé denuncia la natura profondamente incostituzionale, a diritto vigente, della filosofia ispiratrice dell’intero provvedimento».

l’Unità 18.9.11
Cosa diceva il quesito su cui si è votato il 13 giugno


Il quesito numero 1 dei referendum celebrati il 12 e 13 giugno 2011 (scheda di colore rosso) riguardava «Modalità e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica» (dunque non solamente l’acqua, ma tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica). Il testo del primo quesito, spiega il sito internet del ministero dell’Interno, prevede «l’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a operatori economici privati». Il riferimento alle norme da abrogare è dunque indirizzato all’articolo 23 bis della Legge numero 133/2008 e all’articolo 15 del Dl 135/2009 che aveva modificato il testo del primo. In sostanza si trattava di una sola disciplina (nota come «riforma Fitto-Ronchi») che dettava le regole per gli affidamenti delle gestioni nei settori di acqua (acquedotti, fognatura e depurazione), trasporti e rifiuti.

l’Unità 18.9.11
«L’opposizione deve difendere di più quel risultato»
Il professore: «C’è chi cerca di mettere in atto una controriforma e lo fa con iniziative illegittime che vanno contrastate nel modo più severo»
di Roberto Brunelli


Che ne è stato dei referendum? Davvero l’idea stessa di «beni comuni» soprattutto l’acqua pubblica rischia di essere cacciata (per astuzia, dolo o distrazione, dipende dai punti di vista) nell’angolo dell’agenda italiana a causa della crisi? L’ex garante della privacy, Stefano Rodotà (per inciso anche presidente della commissione scientifica dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Ue), è stato in prima linea nella battaglia referendaria. Secondo lui quella intorno ai beni comuni è una «battaglia politica cruciale». Professore, sono passati meno di tre mesi dal referendum sull’acqua e sul nucleare, ma sembra già un secolo. Cos’è successo?
«Mi sembra evidente: la crisi ha indotto più d’uno non soltanto nella maggioranza a ritenere che quella sia ormai una parentesi chiusa. L’importanza di quella svolta è stata un po’ penosamente archiviata: il che è un errore politico grave. Per quel che riguarda l’opposizione, dopo aver fatto un gesto politico molto importante e coraggioso chiamando al Sì per tutti e quattro i quesiti, mi sarei aspettato che il segretario del Pd all’indomani dell’esito del voto avesse incontrato i comitati del referendum. Si trattava di affrontare insieme le conseguenze di un risultato che non è settoriale, ma una grande svolta politica: è stata la stragrande maggioranza degli italiani a votare sì, 27 milioni. Non si trattava di mettere un cappello politico, ma di riflettere insieme su quelli che sono gli effetti politici e istituzionali. In particolare il voto sull’acqua implica un enorme problema di gestione, i comitati ed il forum non devono esser lasciati soli. Ora si tratta di vedere come la questione dei beni comuni sarà affrontata in sede parlamentare. I cittadini la loro parte l’hanno fatta».
C’è però Sacconi che ora vorrebbe smontare il referendum...
«Sì, c’è chi cerca di mettere in atto una controriforma, e lo fa con iniziative assolutamente illegittime, che vanno contrastate nel modo più severo. Io non sono certo tra quelli che tirano per la giacchetta il capo dello Stato, ma se si dovesse andare contro il risultato qualche problema si porrebbe. È un preciso dovere politico e istituzionale dare seguito al referendum».
In Italia c’è sempre un po’ la tendenza al “tutto bianco o tutto nero”, con l’effetto che ora per tagliare i cosiddetti costi della politica magari si privatizza a 360 gradi...
«Certo. Bisogna distinguere. Ma è un fatto che con le amministrative e il referendum abbiamo assistito ad una mobilitazione senza precedenti: è una forma di partecipazione che è l’opposto dell’antipolitica. Ma se questa partecipazione viene delusa, se perdiamo la partita dei referendum, allora sì che i contraccolpi potrebbero essere molto gravi, a cominciare dai consensi. Il tema dei beni comuni percorre il mondo, chi non se ne rende conto appartiene ad una cultura politica arretrata. Pensi a Parigi a Berlino, dove l’acqua è stata completamente ripubblicizzata. Non solo: intorno al tema dell’acqua si sta facendo strada la possibilità concreta di un referendum europeo».
Ma è necessario chiarire bene cosa sia bene comune, e cosa no...
«È chiaro che se diciamo che tutto è bene comune, nulla è bene comune perché non riusciamo più a coglierne la peculiarità. Bene comune non solo è ciò che va sganciato dalle logiche di mercato, ma anche qualcosa che è collegato ai diritti fondamentali. Per esempio il cibo il cui accesso deve essere un diritto per tutti. O la conoscenza: alcune costituzioni già prevedono la conoscenza in rete come diritto fondamentale, liberamente disponibile alle persone».

Repubblica 18.9.11
Una politica fiscale comune
"Un governo federale europeo per economia, difesa e diplomazia"
Emma Bonino: i Paesi cedano sovranità per superare la crisi
di Andrea Bonanni


Ora una politica fiscale comune Possibile che siano i banchieri a invocare gli Stati Uniti d´Europa mentre gli esecutivi sanno solo tentennare e perdere tempo?

ROMA - «Possibile mai che siano i banchieri a invocare gli Stati Uniti d´Europa mentre i governi sanno solo tentennare e prendere tempo?». Emma Bonino, vicepresidente del Senato, non ha perso la passione europeista che ha animato i suoi anni come membro della Commissione a Bruxelles. E, di fronte alla crisi che stringe l´Europa, lancia l´idea di una «federazione leggera» che metta in comune una serie di politiche, in primo luogo quella di bilancio e fiscale.
I banchieri sono diventati improvvisamente federalisti?
«Per forza di cose. George Soros, Jean Claude Trichet, Mario Draghi, Jacques Attali, ma perfino Gordon Brown, l´Economist e lo stesso Fondo Monetario Internazionale hanno cominciato a dire, di fronte alla profondità di questa crisi dell´euro, che bisognerebbe affiancare alla Banca Centrale Europea un ministero delle Finanze dell´Unione».
Ma questa è anche la proposta di Merkel e Sarkozy. E sarà all´ordine del giorno del prossimo vertice dei capi di governo dell´Eurozona, a metà ottobre.
«Il rischio però è che, ancora una volta, si arrivi ad una soluzione pasticciata, tutta intergovernativa. Una specie di Fondo monetario europeo senza nessun tipo di controllo democratico. È ormai chiaro a tutti che da questa crisi non si esce senza un governo comune dell´economia, altrimenti la Germania e gli altri paesi del nord Europa non accetteranno mai di garantire con i soldi dei loro contribuenti gli eurobond dai rischi che qualche paese non sia più in grado di onorare i propri impegni. Gli eurobond si possono fare soltanto se siamo pronti a rinunciare a un pezzo non piccolo di sovranità nazionale a favore di una politica fiscale europea. Ma se si cede sovranità, occorre che il Parlamento europeo, in qualche nuova configurazione, possa esercitare un controllo democratico in sostituzione dei parlamenti nazionali».
Lei cosa propone di nuovo?
«Alla soluzione intergovernativa dobbiamo contrapporre una soluzione federale. Ma la Federazione europea che sarebbe realisticamente giusto fare oggi, lungi dall´essere un superstato, sarebbe al contrario una "Federazione Leggera" che assorbe e spende attorno al 5% del Pil europeo: 6-700 miliardi di euro che servirebbero a finanziare una serie di politiche».
Quali?
«A mio avviso dovrebbero essere la difesa, la diplomazia (compresi gli aiuti allo sviluppo e quelli umanitari), il controllo delle frontiere e dell´immigrazione, la creazione delle grandi reti infrastrutturali europee, alcuni programmi di ricerca scientifica di grande respiro e gli aiuti alle regioni più povere e in ritardo di sviluppo».
Ma che c´entrano difesa e politica estera con la crisi economica? E perché i governi già restii a delegare poteri in materia economica dovrebbero rinunciare anche a questo?
«Ma perché anche questo è un problema economico. Oggi, per esempio, i 27 Paesi europei spendono 250 miliardi all´anno per tenere sotto le armi due milioni di militari che non hanno praticamente nessuna capacità operativa. Non possiamo più permettercelo. Né possiamo permetterci di moltiplicare per 27 ambasciate e sedi diplomatiche. Ci sono questioni che ormai possono essere affrontate solo a livello comune».
I referendum in Francia e Olanda hanno già affossato il progetto di costituzione europea, che pure era molto più timido. Perché adesso la gente dovrebbe accettare quello che ha rifiutato qualche anno fa?
«Perché ora la situazione è drammatica. Negli ultimi anni solo i radicali e qualche federalista superstite, hanno sostenuto che era una follia creare una moneta comune lasciando che ogni stato membro decidesse in assoluta autonomia la propria politica fiscale e di bilancio. Oggi il prezzo di questa follia è diventato evidente a molti. Per tutto il dopoguerra è stata l´economia a guidare il processo di integrazione politica dell´Europa. Oggi integrare politicamente l´Europa è la condizione per impedire alla sua economia - al nostro benessere - di disintegrarsi. L´unica strada da battere verso un´Europa federale, oggi, è creare un consenso popolare attorno a questa idea. Bisogna allora che la parte più illuminata del nostro continente la smetta di partire battuta, di tremare di fronte a "veri finnici" o a madame Le Pen. Si dia coraggio e si appelli finalmente ai cuori e alle menti dei "veri europei". Non c´è più tempo da perdere».

Repubblica 18.9.11
Gazebo, web e passaparola il referendum diventa una sfida
Sette giorni e 700mila firme per cancellare il Porcellum
di Laura Serloni


All´Eur in campo l´assessore Prestipino: "Un segno di ascolto e di attenzione"

Ancora una settimana. Sette giorni per raggiungere il traguardo delle 500mila firme per il nuovo referendum sulla legge elettorale. Il tempo stringe e a Roma la mobilitazione è più attiva che mai. Le centinaia di gazebo sparsi in ogni quartiere sono la base della campagna iniziata online, sui social network, sui siti e sui blog sfrutta anche il passaparola, le cene tra amici. Un movimento per dire no al "porcellum" e dare di nuovo la possibilità agli italiani di mettere la preferenza sulle schede elettorali.
Lunghe code ai banchetti. Attese anche di mezz´ora per mettere la firma. Ci sono mamme con i passeggini, ragazzi, anziani. Venerdì è stato allestito il gazebo all´Eur, tra viale Europa e viale Pasteur, che sarà attivo fino al 23, dalle 18 alle 20. L´ha fortemente voluto l´assessore provinciale allo Sport, Patrizia Prestipino. «L´idea è di scendere in campo per intercettare le esigenze dei cittadini – spiega - Vogliamo dare un segnale di ascolto e attenzione nei confronti delle persone che ora vogliono dire la loro come è già avvenuto con il referendum sul nucleare, sull´acqua e sul legittimo impedimento. La gente ha ben chiari i danni che questa legge ha prodotto: la degenerazione della classe dirigente oltre che del Parlamento. E ora è forte la domanda di partecipazione». L´azione sul territorio e i metodi della politica di una volta hanno insomma dato i loro frutti. Tanto che in due ore sono state raccolte mille firme. E così si continua per i prossimi giorni.
Il web resta la piattaforma di mobilitazione, tanto che qui (anche su repubblica.it) si possono vedere le mappe su dove trovare i banchetti, oltre alle istruzioni su come allestire un proprio punto di raccolta. Ha scelto lo slogan "Firmo, voto, scelgo", il comitato referendario di Arturo Parisi e Andrea Morrone affiancati da Sinistra e Libertà, la corrente I democratici del Pd, la Rete di Mariotto Segni, Pli e Unione popolare, oltre all´Italia dei Valori che è in prima linea sul no al "porcellum". Oltre che nei gazebo fino a domani si può firmare presso tutti i comuni e le circoscrizioni. "Dobbiamo raggiungere almeno 700 mila firme per garantire il risultato", dicono dal comitato referendario. Partiti e movimenti ma anche tante associazioni si sono messe a lavoro per raggiungere i risultati che hanno permesso di bloccare il nucleare, la privatizzazione dell´acqua e il legittimo impedimento. Oggi si firma in piazza San Giovanni dalle 10 alle 13, in piazza Ippolito Nievo (Porta Portese) dalle 9 alle 12, in piazza della Balduina dalle 10 alle 13, in piazza Belotti (circolo Pd) dalle 10 alle 12, al mercatino delle Valli in via Conca d´Oro dalle 10.30 alle 13 e dalle 17 alle 19, in via Brentani (circolo Pd) dalle 10 alle 12.30, in via Cavriglia (chiesa di San Frumenzio) dalle 10 alle 12, in piazza dei Giuochi Delfici dalle 10 alle 12.30 e in largo Berardi dalle 9.10 alle 12.30.
 
il Riformista 18.9.11
Cosa fare di fronte al “non mollo”
di Emanuele Macaluso

qui

Repubblica 18.9.11
New York. Lo spettro delle rivolte
di Federico Rampini


NEW YORK «New York rischia la fine del Cairo», avverte Bloomberg. Il sindaco lo considera un rischio concreto. Teme il ritorno di rivolte violente. L´ultimo precedente risale agli anni Sessanta, quando le tensioni razziali e la guerra del Vietnam trasformarono in campi di battaglia le metropoli americane. «Troppi giovani che finiscono gli studi con una laurea restano senza lavoro - dice Michael Bloomberg - questo è accaduto anche a Madrid e al Cairo, stiamo attenti a non avere le stesse conseguenze, un´esplosione di proteste». Mentre il sindaco parla alla radio, Wall Street è transennata perché (nonostante il sabato e i mercati chiusi) vi affluiscono i manifestanti del Day of Rage, il "giorno della rabbia", che denunciano «il dirottamento della democrazia americana da parte della finanza». Nelle stesse ore il vertice europeo si tiene in una Breslavia assediata per l´arrivo di 30.000 manifestanti. Hanno fatto il giro del mondo le immagini del cittadino greco che ha tentato di immolarsi davanti alla banca che non gli aveva concesso una dilazione sul mutuo. Quell´uomo in fiamme spiega l´accostamento che fa Bloomberg tra il disagio sociale in Occidente e la "primavera araba"? In Tunisia la scintilla iniziale della rivolta fu il gesto disperato di un ambulante che si diede fuoco per protestare contro gli abusi della polizia. Certo nei movimenti che agitano il Nordafrica c´è un altro elemento, la rivolta antiautoritaria. Ma altrettanto importante è l´elevata disoccupazione giovanile, la ragione per cui Bloomberg mette sullo stesso piano gli "indignados" di Madrid e i giovani di Piazza Tahrir. E s´immagina Manhattan trasformata a sua volta in un rogo di proteste. Esagera? Il sindaco di New York non è solito fare dell´allarmismo. E´ un brillante businessman, uno dei capitalisti più ricchi del suo Paese, per avere fondato la maggiore agenzia d´informazioni finanziarie. Politicamente è un indipendente di centro. Quella che intuisce, è una malattia comune a molte nazioni occidentali. Dalla democrazia più antica del mondo, la Grecia, a quella più potente del mondo, gli Stati Uniti, le basi del consenso sociale vengono disintegrate dalla Grande Contrazione economica, che dura da cinque anni e di cui non si vede la fine. Atene vive una "sospensione" della democrazia: la politica economica viene dettata da tecnocrazie esterne cioè Bce, Commissione europea, Fmi. Forse è vero quel che pensano i tedeschi, che i greci se lo sono meritati con una gestione dissennata e parassitaria delle loro finanze. Resta il fatto che la loro sovranità è stata trasferita a Francoforte, Bruxelles, Washington.
Negli Stati Uniti è in frantumi un contratto sociale che reggeva dal New Deal degli anni Trenta. Più di 46 milioni di americani vivono sotto la soglia della povertà, è un livello record, mai raggiunto da quando esistono questi dati raccolti dal Census Bureau. Perfino più impressionante dei nuovi poveri, è il destino della middle class. Il reddito annuo mediano per un maschio adulto che lavora a tempo pieno, se misurato in potere d´acquisto reale, è regredito rispetto ai livelli del 1973. Quarant´anni di sviluppo economico cancellati, per il ceto medio è la fine dell´American Dream. Questo tracollo di tenore di vita e di aspettative coincide con una smisurata accumulazione di ricchezze ai vertici della piramide. L´unico precedente storico è negli anni Venti, la cosiddetta Età dell´Oro che precedette il crac del 1929. Anche allora le diseguaglianze sociali giocarono un ruolo fondamentale nello scatenare la Grande Depressione: la debolezza estrema del potere d´acquisto dei lavoratori fece mancare al capitalismo quel mercato interno che è essenziale per la sua crescita. Ci vollero due grandi riformatori dell´economia di mercato, il presidente Franklin Roosevelt e l´economista inglese John Maynard Keynes, per salvare il capitalismo dalle sue pulsioni autodistruttive, costruendo una società meno duale e meno feroce. La grande differenza tra questa crisi e quella di 70 anni fa, è che nel frattempo grazie al keynesismo e al New Deal rooseveltiano tutto l´Occidente si è dotato di reti di protezione sociale, un Welfare State che attutisce almeno in parte le sofferenze della crisi. E´ proprio questo Welfare State il cui smantellamento viene messo all´ordine del giorno, in Grecia dalle tecnocrazie europee su mandato tedesco, in America dalla destra neoliberista che controlla la Camera. Questo accade mentre in tutti i Paesi sviluppati i sindacati sono in uno stato di debolezza estrema; e la sinistra è sotto assedio nelle poche nazioni dove governa (Washington, Madrid, Atene). In assenza di meglio, tocca a un miliardario illuminato come Bloomberg lanciare l´allarme sulla lacerazione del tessuto sociale. Perfino due studi circolati nelle banche Citigroup e Morgan Stanley avvertono Wall Street sui danni della "plutonomia", un sistema politico dominato dal potere del denaro, dove le diseguaglianze hanno oltrepassato i livelli di guardia e la crescita non ha più le basi di massa su cui ripartire.

La Stampa 18.9.11
Danimarca, la manovra di Helle
di Mariella Gramaglia

qui
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9214

l’Unità 18.9.11
Domani l’avvio del 66 ̊ summit al Palazzo di Vetro. Si tenta un’intesa in extremis
Il Quartetto sul Medio Oriente si riunisce oggi, ma i margini per riaprire i negoziati sono ridotti
Assemblea Onu l’Europa si presenta divisa sulla Palestina
Il dossier-Libia. Il riconoscimento dello Stato di Palestina. Sono i dossier caldi al centro dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che aprirà i battenti domani. L’Europa si presenta divisa. E più debole.
di Umberto De Giovannangeli


Libia. Palestina. Divisi alla meta. A pochi giorni dall’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Europa si scopre divisa sui due dossier più caldi delle assise al Palazzo di Vetro. A cominciare dall’atteggiamento da assumere sull’annunciato ricorso all’Onu del presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmud Abbas (Abu Mazen) per il riconoscimento dello Stato indipendente di Palestina «dentro i confini del ‘67, con Gerusalemme Est come sua capitale». La Ue «ha preso atto» della volontà dei palestinesi di aderire all'Onu, ma crede che «una soluzione costruttiva per la ripresa dei negoziati sia la migliore e unica per giungere alla pace», afferma Maja Kocijancic, portavoce della responsabile della diplomazia dell’Ue, Catherine Ashton.
DIVISI ALLA META
Gli europei, che vanno al voto in ordine sparso, rischiano di vedere l'imbarazzo di un voto su cui i Ventisette si spaccheranno. «Mrs.Pesc» ha preso autonomamente l’iniziativa, presentando a Israele una proposta grazie alla quale i palestinesi otterrebbero un nuovo status legale presso le Nazioni Unite, che tuttavia non sarebbe equivalente a quello di uno Stato e non darebbe loro la possibilità di presentare ricorsi contro Gerusalemme davanti alla Corte penale internazionale (Cpi). A questa proposta si contrappone il blocco franco-spagnolo: Parigi e Madrid puntano a far ottenere all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) un innalzamento dello status, da quello attuale di osservatore a Stato non membro, allo stesso livello del Vaticano. In cambio, l’Anp si asterrebbe dal presentare il ricorso al Consiglio di Sicurezza e dall'avanzare denunce contro Israele davanti al Cpi. Oggi si incontrerà il Quartetto (Usa,Ue,Russia e Onu) in un ultimo disperato tentativo di far quadrare il cerchio. Intanto Israele rafforza la sua presenza in Cisgiordania, in vista delle manifestazioni palestinesi: secondo Yediot Ahronot, tre battaglioni di riservisti -circa 1.500 personesono già stati mobilitati e sono state rinforzate anche le unità già presenti nel territorio occupato. E un assaggio di quel che potrebbe accadere si è già visto ieri al checkpoint Kalandiya, vicino Gerusalemme, a un evento organizzato da organizzazioni di donne palestinesi e israeliane: secondo l’esercito israeliana, dopo una manifestazione relativamente tranquilla, sono state lanciate bombe incendiarie, bottiglie e pietre all’indirizzo di giornalisti.
SFIDA DI PACE
Abu Mazen mantiene il punto: «Abbiamo bisogno d’uno Stato e d’un seggio all’Onu, nulla di più», ha affermato il leader dell’Anp venerdì scorso in un discorso televisivo alla «Nazione palestinese». L’obiettivo è per ora quello del riconoscimento, «per riparare a un'ingiustizia storica», ha aggiunto, ammettendo che questo non significherà da principio l’indipendenza reale. Ma dicendosi convinto che il passaggio all'Onu, malgrado il braccio di ferro di questo giorni con Israele, sarà la premessa per tornare al negoziato. «Non vogliamo isolare nè delegittimare Israele ha ribadito ancora una volta il vecchio presidente, interlocutore storico del processo di pace -, vogliamo delegittimare la politica di occupazione». Al governo a trazione nazionalista di Benjamin Netanyahu, Abu Mazen ha rimproverato d’aver fatto trascorrere mesi fra «perdite di tempo» e «nuovi fatti compiuti» sul terreno, ricordando poi con un’impennata di tono nella voce che la Cisgiordania e Gerusalemme est «non sono terre contese, sono occupate». E che gli insediamenti realizzati dallo Stato ebraico dopo la guerra del '67 restano «illegali». A Palazzo di Vetro dove interverrà il 23 il raìs ha comunque promesso di volersi presentare «con il ramoscello di ulivo», sull' esempio del predecessore Yasser Arafat. Ma, a differenza di Arafat, senza armi. «La nostra ha raccomandato Abu Mazen alla sua gente, chiamata nei prossimi giorni a manifestazioni di piazza a sostegno dell'iniziativa dovrà essere un'azione pacifica e non dare pretesti a Israele». Questo è il tempo «della speranza», di un riconoscimento che «meritiamo» e che «non è un atto unilaterale», ha proseguito il raìs, evidenziando il giudizio positivo recente delle agenzie internazionali sulle riforme attuate dall' Anp. E osservando come in fondo la Palestina sia già riconosciuta oggi da almeno «126 Paesi, la maggioranza dei due terzi all'Onu».«La pace non si ottiene con un'iniziativa sterile e unilaterale all'Onu, nè allacciandosi ai terroristi di Hamas, ma solo attraverso un dialogo diretto con Israele», è la replica di Netanyahu. L’«intifada diplomatica» è iniziata.

La Stampa 18.9.11
Israele, la via della pace è palestinese
E così Israele, l’Israele di Netanyahu, degli immigrati russi e degli ultraortodossi, sta riuscendo a isolarsi, come non era più stato da decenni, nella regione cui inesorabilmente appartiene, per ragioni di storia e di memorie, ma dove è visto come un ultimo residuo di colonialismo europeo, testimonianza inaccettabile del declino storico della civiltà araba.
di Arrigo Levi

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Corriere della Sera 18.9.11
Dico sì alla Palestina per il bene di Israele e della sua sicurezza
di Stefano Jesurum


Caro direttore,
Stato palestinese sì, Stato palestinese no, il mondo si confronta. E c'è poi un «piccolo mondo» che si confronta e si divide con ancor maggiore coinvolgimento, con lacerazioni dolorose. Usiamo quindi l'antico Witz, il motto di spirito autoironico, per introdurre un dibattito non facile: due ebrei, tre punti di vista. La vecchia battuta regge più che mai in prossimità della candidatura ufficiale alle Nazioni Unite della Palestina come Stato indipendente. Da mesi infatti Israele si spacca, e la diaspora ebraica non è da meno. Contrari e favorevoli si affrontano a suon di appelli e manifestazioni di piazza (reali — per le strade di Tel Aviv e di Gerusalemme —, virtuali — nei siti, nei blog, nei giornali europei e americani). Io sto con coloro che dicono «sì», e cercherò di spiegare perché. Non prima però di avere specificato che lo Stato palestinese uscito dall'Onu dovrebbe avere confini provvisori in attesa di un accordo definitivo scaturito dalla ripresa dei negoziati diretti e che il testo della risoluzione non deve in alcun modo suonare come punizione nei confronti di Israele ma essere un ponte reale e concreto verso il compromesso finale. Sì, dunque.
Sì perché — com'è sotto gli occhi del mondo — la politica della violenza e del terrorismo da una parte e la continua espansione degli insediamenti in Cisgiordania dall'altra hanno reso l'espressione «processo di pace» un suono vuoto e privo di senso che ha come risultato terrificante il lutto di troppe famiglie e la totale, drammatica perdita di ogni speranza da parte delle giovani generazioni di entrambi i campi.
Sì perché lo status quo è il maggior pericolo per Israele che invece deve fare seriamente i conti anche con le luci e le ombre della Primavera araba.
Sì perché l'ammissione della bandiera palestinese alle Nazioni Unite cambierebbe profondamente i termini del conflitto mettendo per la prima volta di fronte due Stati sovrani.
Sì perché mi riconosco nelle parole di Avraham Burg, già portavoce della Knesset, il Parlamento israeliano, quando invita a riconoscere la Palestina e i confini del 1967 — modificabili con concessioni reciproche — chiedendosi «che cosa ci sia di unilaterale nell'appello per essere riconosciuti dalle nazioni del mondo».
Sì perché bisogna fermare il peggio. E si deve fermare il peggio proprio perché per Israele è difficile fidarsi del nemico esattamente come per il nemico è difficile fidarsi del governo israeliano.
Sì perché «la pace è caduta in ostaggio del processo di pace», come sta scritto in vari manifesti firmati — tra gli altri — dall'ex direttore generale del ministero degli Esteri di Gerusalemme Alon Liel, da intellettuali del peso di Amos Oz, Avishai Margalit, Ari Folman, Zeev Sternhell, da politici alla Yael Dayan, da economisti come il premio Nobel Daniel Kahneman, da ufficiali ed ex generali come Shlomo Gazit.
Sì perché sono stufo di sentire che tutti, ma proprio tutti, sono favorevoli al principio di «Due popoli, due Stati»: credo sia arrivato il momento di dimostrarlo. E lo dico — credetemi — perché sono terrorizzato dai pericoli che corrono la sicurezza e la democrazia di Israele, un Paese che amo profondamente.

La Stampa 18.9.11
Ala al-Aswani
“Il mio primo romanzo dopo la rivoluzione”
intervista di Elkan


In questi giorni esce da Feltrinelli l’ultimo libro dello scrittore Ala alAswani, «La rivoluzione egiziana». È una raccolta di articoli o di racconti?
«Un po’ entrambe le cose. Scrivo un articolo a settimana, ma di fatto sono racconti. Vengono pubblicati anche su Internet, poi sono tradotti in inglese e ripresi anche in Italia. Abbiamo messo insieme quelli scritti prima e dopo la rivoluzione».
Si aspettava quello che è accaduto?
«Da tempo sostenevo che una sollevazione era nell’aria, ero uno dei pochi a crederci. Poi è successo davvero ed è stato persino troppo bello, a tratti mi sembrava di sognare a occhi aperti. Penso che sia una grande vittoria: ha obbligato Mubarak a dimettersi e a farsi processare».
Qual è il suo giudizio sulla transizione?
«Molte delle decisioni prese dal Consiglio militare non mi sono piaciute. Penso che serva più pressione popolare, ora è fondamentale proteggere la rivoluzione».
E i Fratelli musulmani?
«Hanno partecipato alla rivoluzione solo in parte e tardivamente. Sono politici esperti e più tolleranti di quanto pensa parte degli osservatori occidentali. Mi preoccupano di più altri due gruppi islamici: i Salafiti, sponsorizzati dai sauditi, e il gruppo dell’Assemblea islamica, veri e propri terroristi che hanno già ucciso stranieri ed egiziani e adesso invece si dicono pronti a deporre le armi. In ogni caso l’Egitto è per così dire immune all’estremismo, non fa parte della nostra cultura».
La rottura con Israele è sanabile?
«Gli israeliani hanno violato i confini e ucciso sei militari, però l’attacco all’ambasciata israeliana non è accettabile. C’è qualcosa da rivedere per quanto riguarda il Sinai, ma penso che qualunque coalizione guiderà l’Egitto sarà in favore del Trattato. Meglio non avere problemi con i nostri vicini. Per gli israeliani sarà l’opportunità di dialogare finalmente con i rappresentanti del popolo egiziano e non con un dittatore».
Le elezioni saranno davvero libere?
«Ne sono certo. Gli egiziani non accetteranno voti falsi né manipolazioni delle schede elettorali. Credo nel nostro popolo. Difficile dire oggi chi prevarrà, la società egiziana è cambiata molto. Nell’ultimo voto il Sindacato degli studenti aveva vinto con il 65 per cento, mentre i Fratelli musulmani erano minoritari: potrebbe essere indicativo».
Cosa pensa del fatto che Mubarak si sia presentato al processo in barella?
«Ha l’avvocato più intelligente d’Egitto e usa ogni mezzo per commuovere l’opinione pubblica e i giudici. Io sono un medico e mi chiedo: se è così malato, com’è possibile che nella pausa dell’udienza si sia alzato e poi sia tornato sulla barella?».
Che influenza ha avuto piazza Tahrir sugli altri Paesi del Medio Oriente?
«Per due secoli l’Egitto è stato un modello per i Paesi arabi. Basti pensare alla Siria, dove sono convinto che Assad sia al capolinea. Ero in strada il 28 gennaio quando i cecchini di Mubarak iniziarono a sparare sulla folla. Il regime è finito in quel momento».
Crede in un Medio Oriente veramente democratico?
«La democrazia si può applicare ovunque. Pensare che valga solo per certi Paesi è assurdo. Nel mondo arabo non c’è più spazio per la dittatura, la democrazia è destinata ad affermarsi».
Anche in Iran?
«C’è una grande differenza tra la visione dello Stato dei sunniti e l’interpretazione teocratica che ne danno i radicali sciiti, al potere in Iran. Gli sciiti radicali seguono lo jihad, che mescola continuamente politica e religione, in modo molto rigido. I sunniti sono diversi, in Egitto religione e Stato erano separati già nell’Ottocento».
Oggi si sente più libero anche come scrittore?
«Senza dubbio. Ho cercato di aiutare la rivoluzione, perché penso che sia parte del mio lavoro. Uno scrittore deve stare con la gente perché scrive della gente e per la gente».
Sta scrivendo un nuovo romanzo?
«Dovevo finirlo in estate, ma nei mesi scorsi ho passato più tempo per strada che in studio. Comunque dovrebbe essere pronto per l’inizio del 2012».
Di cosa tratta?
«S’intitola «Automobile Club» e prende spunto dall’invenzione della prima macchina, fatta in Germania da Karl Benz. La prima auto a motore giunse in Egitto molto presto, nel 1896, portata da un principe egiziano. Poi nel 1924 nacque l’Automobile Club: i suoi membri erano principalmente europei, mentre i servi venivano dal Sud. Racconto come i due gruppi si sono mescolati, ma anche come ai servi veniva insegnato ad essere servi. E questo riguarda anche l’Egitto di oggi».
Fa ancora il dentista?
«Quando non sono in viaggio, vedo i miei pazienti due volte a settimana».
In futuro continuerà a vivere stabilmente in Egitto?
«È il mio Paese e non intendo lasciarlo. Non si può scrivere della propria gente se si è lontani. Solo in Egitto mi sento me stesso, all’estero mi sento solamente simile a me stesso».

l’Unità 18.9.11
Il personalismo è alla radice della cultura democratica
Castagnetti interviene nel confronto aperto da Luigi Manconi: la sinistra può trovare nel pensiero cattolico elementi di modernità, capaci di spingerla oltre il mediocre e asfittico “spirito del tempo”
di Pierluigi Castagnetti


Il centro della politica. Come diceva Mino Martinazzoli: «Non la persona ha diritto, ma la persona è il diritto». Dovrebbero rendersene conto quanti propongono una centralità dell’impresa o del mercato

Ha ragione Luigi Manconi: per la sinistra è giunto il momento di abbandonare tabù e pregiudizi verso valori che nel secolo scorso hanno caratterizzato l’originalità del pensiero filosofico cattolico, come quello della centralità della persona umana.
Il personalismo può essere, ne sono convinto anch’io, un’importante traccia di pensiero che consente alla sinistra di rifondare una propria identità culturale per entrare nel dibattito contemporaneo senza complessi. Del resto già all’Assemblea costituente la sinistra, forse con un po’ di pragmatismo, ha saputo dialogare con questo pensiero ed accoglierne l’originalità iscritta soprattutto nei “principi fondamentali”.
Proprio in questi giorni, ricordando Mino Martinazzoli, abbiamo evocato una sua riflessione sul tema “ la libertà e la legge”, all’interno della quale diceva che il diritto «non è che la persona umana; non c’è distacco tra l’uno e l’altra, ma identità. Non la persona ha il diritto, ma la persona è il diritto». Si avvertono in queste affermazioni forti ascendenze di Giuseppe Capograssi e in particolare di Antonio Rosmini, secondo cui, infatti, la persona altro non è che «il diritto umano sussistente» e la società altro non è che l’insieme «di più persone in quanto persone». La persona è dunque quel soggetto il cui fine oltrepassa la società stessa essendo «inerente alla dignità umana» e perciò non intaccabile dal “diritto sociale”.
Lo Stato deve perciò «trattare le persone come fine, cioè come aventi (ognuna) un fine proprio». Ecco cosa significa la centralità della persona umana, attorno cui ruota il nostro ordinamento costituzionale: dovrebbero rendersene conto quanti oggi propongono una diversa centralità, come quella dell’impresa o del mercato. Ma se vogliamo risalire possiamo trovare altri pensatori che precedono Rosmini, come Immanuel Kant, nel cui imperativo categorico rinveniamo lo stesso principio: «Agisci in modo da trattare l’umanità, nella tua persona come in quella di qualsiasi altro, sempre contemporaneamente come fine e mai come mezzo».
Altri autori possono essere evocati, sicuramente Jacques Maritain e Emmanuel Mounier, su cui si è giustamente intrattenuto Luigi Manconi (essendo stati gli ispiratori principali, in particolare di quella generazione di giovani costituenti cattolici che hanno lavorato sui “principi fondamentali”), o Max Scheler o Paul Ludwig Landsberg sino al nostro Luigi Stefanini che hanno dato un contributo importante alla teoria del personalismo sociale. Alla consueta opposizione tra individualismo e collettivismo, Stefanini in particolare contrappone una deduzione personalistica della democrazia con accenti che richiamano alcune posizioni giobertiane.
Recentemente poi, nel 1972, J. Lacroix, ha sostenuto che il personalismo più che una filosofia è un’anti-ideiologia, un atteggiamento, una direzione intenzionale del pensiero fortemente connessa con l’esperienza concreta, insofferente delle organizzazioni sociali e politiche che finiscono per ferire e inibire la persona e la comunità di persone. Una posizione che ovviamente, se portata alle estreme conseguenze, non potrebbe essere condivisa perché porterebbe il valore assoluto della persona a confliggere con qualsiasi modello di organizzazione democratica della vita della comunità.
Vale comunque la pena inserirsi in questo dibattito come suggerisce Manconi, il quale utilizza il personalismo tra l’altro per ridefinire la politica come luogo in cui si riversano le nuove domande di diritto e di libertà che nascono dalla persona. È sicuramente legittimo e giusto. Ma quei diritti da lui indicati a mo’ di esempio la libertà nelle scelte che riguardano il proprio corpo, le garanzie e l’immunità per i reclusi sono solo alcuni e andrebbero comunque integrati e vagliati alla luce del criterio che impone profondità e coerenza nell’approccio al valore, in sé e “ulteriore”, della persona umana. Ma lo stimolo che io colgo nella sua riflessione va apprezzato per il contributo offerto alla sinistra italiana teso a sbloccare un dibattito e superare certi tabù, al fine di poter cercare come fanno da tempo alcune socialdemocrazie e laburismi europei fuori dalle proprie tradizionali radici, quei filoni solidi di pensiero che possono delineare il profilo di una sinistra moderna, oltre il mediocre e asfittico “spirito del tempo”.
Cominciamo a parlare di personalismo e di comunitarismo, come stanno facendo Barack Obama e i democratici americani e allora anche la “novità” che vuole essere il Partito democratico in Italia prenderà consistenza e feconderà quella nuova generazione di “nativi” di cui parla spesso Pierluigi Bersani.

l’Unità 18.9.11
Italia in crisi. Tutta colpa di Croce?
Cento anni fa si tenne a Bologna il IV Congresso Internazionale di Filosofia che alimentò un’accesa discussione tra il filosofo e il matematico Enriques Proprio dall’esito di quello scontro, forse, deriva il declino del nostro Paese
di Pietro Greco


Rifondatore del Partito Liberale
Chi è Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, scrittore e politico italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano e «rifondatore» del Partito Liberale. Con Giovanni Gentile dal quale lo separava la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo è stato un protagonista importante della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo.

La scienza. È ancora vissuta come un corpo estraneo nel mondo culturale

Il 6 aprile 1911 si tenne, a Bologna, il IV Congresso Internazionale di Filosofia. Lo presiede l’italiano Federigo Enriques. Un matematico. E quella insolita scelta alimenta una polemica già in atto con Benedetto Croce (e Giovanni Gentile) che non solo ha una lunga coda, anche sui media, per l’intera annata. Ma che ancora ritorna e riaccende gli animi. Tanto che alcuni sostengono che l’attuale declino dell’Italia deriva per la gran parte dall’esito di quello scontro.
Il cuore della polemica è il protagonismo filosofico degli scienziati del tempo, ben incarnato dal matematico Federigo Enriques. Rubando un aforisma ad Albert Einstein, potremmo dire che all’inizio del XX secolo diventa sempre più forte l’idea che «senza la scienza la filosofia sarebbe vuota». Enriques, come Einstein, è convinto che la cultura dell’uomo sia unitaria e che la scienza ne è parte integrante. Che filosofi e scienziati debbano porsi in maniera sempre più stringente la questione delle implicazioni filosofiche connesse alle nuove conoscenze scientifiche. E che i più adatti per fare una buona filosofia della scienza siano proprio gli scienziati, a patto che imparino ovviamente i fondamentali del buon filosofare.
Contro questa idea si è espresso, da tempo, Benedetto Croce. Che in un libro del 1905, Logica come scienza del concetto puro, sostiene che i principi matematici non sono veri, ma contraddizioni organizzate; che la matematica è «vera simia Philosophiae», una scimmia della filosofia come si dice del diavolo, scimmia di Dio. E infine ricorda le parole di Giovan Battista Vico, secondo cui le scienze sono materia per «ingegni minuti». È implicito che la storia e la filosofia sono, invece, le discipline per le menti che hanno una visione universale.
In un articolo pubblicato sulla rivista Leonardo, inoltre, Croce espone esplicitamente il suo pensiero: «La matematica, non possedendo né verità storica, né (...) verità filosofica, non è scienza ma strumento e costruzione pratica».
È per questo che don Benedetto mal sopporta quel «matematico che si diletta di filosofia» che, insieme a Eugenio Rignano, ha fondato la Rivista di Scienza (che dal 1910 assume il nome di Scientia) su cui fa scrivere di filosofia molti scienziati, filosofi e storici di gran nome di tutta Europa, compresi Einstein, Russell, Mach, Carnap, Cassirer. Che ha fondato una Società Filosofica Italiana, di cui è presidente. E che si presenta al III Congresso Internazionale di Filosofia che si tiene nel 1908 a Heidelberg chiedendo e ottenendo di organizzare il prossimo, nell’aprile del 1911, a Bologna.
BOTTA E RISPOSTA...
Malgrado le critiche di Benedetto Croce, il congresso ha luogo e ha successo. Questo, lungi dal sopire la polemica, la riaccende. Ho stime del professori Enriques e del suo bisogno di filosofia: «Solo che non potendo appagare questo bisogno con la cosa, lo appaga con la parola».
In estate Federigo Enriques risponde a tono, con un articolo che è sferzante già nel titolo: «Esiste un sistema filosofico di Benedetto Croce?». Nella stessa estate del 1911 Croce risponde su La Critica ironizzando sulla «curiosa mania che si è impossessata del valente professor Enriques e che lo trae a voler frequentare per forza un mondo, che non è il suo».
La polemica, come raramente
succede, ha dei vinti e dei vincitori. Non solo perché – come ricordano Lucio Russo ed Emanuela Santoni nella loro storia della scienza italiana intitolata, non a caso, Ingegni minuti – negli anni successivi Benedetto Croce assume una posizione egemonica nel mondo filosofico italiano. Ma anche perché l’altro grande esponente del neoidealismo italiano, Giovanni Gentile, quando diventerà Ministro dell’Istruzione del governo fascista di Mussolini realizzerà una riforma della scuola che, a detta di molti, penalizza la matematica e le scienze.
TRE TESI
Nella polemica contemporanea, molti scienziati sostengono tre tesi. La prima è che nella cultura italiana si sente ancora l’eco profonda dell’idealismo di Croce e Gentile. La seconda è che questo imprinting è la causa del ruolo marginale che ha la scienza non solo nella cultura, ma nell’economia e nella società del paese. La terza è che il ruolo marginale della scienza, nell’era della conoscenza, è la causa principale del declino economico dell’Italia.
La prima tesi è un dato di fatto. La scienza è vissuta ancora come un corpo estraneo nel mondo culturale italiano, scolastico e non. La terza tesi è anch’essa dimostrata dalla storia: l’Italia è l’unico tra i paesi avanzati ad aver perseguito anche nel dopoguerra un modello di «sviluppo senza ricerca». E oggi – nell’era della conoscenza – paga le conseguenze di questa scelta che non sa ribaltare.
Resta la seconda tesi. È colpa dell’idealismo crociano tuttora presente se il nostro sistema produttivo è in affanno? O, piuttosto, non è vero il contrario: è a causa di un sistema produttivo che non crede nella ricerca e non evoca una forte domanda di cultura scientifica se l’idealismo crociano è ancora imperante. Il tema meriterebbe di essere indagato. E sarebbe opportuno – sarebbe assolutamente urgente – che un altro Federigo Enriques si facesse carico di organizzare, al più alto livello possibile, questa discussione largamente interdisciplinare la cui posta in gioco, a cent’anni dal congresso filosofico di Bologna, è il futuro del paese.

La Stampa 18.9.11
Mancuso e Dio un corto circuito teologico
Nel nuovo saggio lo studioso tenta anche il recupero di classici come Kant Ma non c’è traccia del riconoscimento dell’autonomia del pensiero laico
di Gian Enrico Rusconi


Il teologo Vito Mancuso è docente allla Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
Storico e politologo Gian Enrico Rusconi è docente di Scienze politiche all’Università di Torino

L’IMPIANTO Da un lato c’è il rifiuto del dogmatismo tradizionale dall’altro una teologia di libertà
LA PARTE «COSTRUENS» Rischia però di essere una continua rassicurazione della centralità della religione

Non è chiaro che cosa sia «il ritorno della religione» oggi. Quello che è certo è che non poggia più sulla teologia nel suo senso tradizionale. Sembra anzi non averne neppure bisogno. Il «ragionare su Dio» anziché mirare a solidi argomenti «razionali» (anzi questo termine è guardato con estremo sospetto), è diventato un parlare a ruota libera, un eclettico accostamento di emozioni più o meno profonde e di pensieri edificanti.
La rilevanza pubblica della religione oggi è dovuta quasi esclusivamente al fatto che offre una dottrina morale - sia che essa venga accolta e (apparentemente) praticata o che venga politicamente strumentalizzata. In ogni caso non è più una dottrina che poggia su concetti teologici forti - peccato (originale), redenzione, salvezza. Questi sono concetti che i moralisti e i pastori d'anime non sono più in grado di spiegare in modo convincente. Lo fanno solo in modo metaforico, allusivo, letterario. Al posto dei ragionamenti tradizionali ci sono discorsi di carattere psicologico, antropologico. Persino un certo uso della parola «spiritualità» dissimula la fine della teologia. I più sofisticati parlano di «teologia narrativa», confondendo esegesi biblica con fondazione teologica.
In questo contesto da alcuni anni si muove polemicamente con grande verve Vito Mancuso, «il teologo fuori le mura», come volentieri si lascia chiamare. Il suo ultimo libro - dal titolo impressionante Io e Dio (Garzanti, 488 pp., 18.60 euro) è un ambizioso, denso, appassionato tentativo di proporre nientemeno che una nuova «teologia fondamentale». L’impianto del lavoro è dato da un lato dal rifiuto della dottrina dogmatica tradizionale, la cui forza starebbe esclusivamente nell' autoritarismo della Chiesa, e dall’altro dalla proposta di una teologia fondata sulla libertà. «Questo libro difende la libertà contro la duplice minaccia dell'autoritarismo religioso e dello scientismo negatore del libero arbitrio».
Il libro si presenta quindi con una «pars destruens» e una «pars construens». La parte critica contro l'autoritarismo religioso è articolata in modo fermo, efficace e competente (evidentemente Mancuso conosce bene l’oggetto di cui parla...). La parte positiva invece rischia di essere una continua rassicurazione della centralità e della insostituibilità della religione («unico pensiero forte», «energia intellettuale che oltre a riempire la mente, tocca la vita, scalda il cuore, alimenta la passione, muove i popoli»). Ma gli argomenti offerti per questa nuova concezione non sono convincenti.
Faccio un esempio. Mettendo in guardia dall'associare immediatamente Dio ad un essere personale nel senso della dottrina tradizionale, Mancuso parla di Dio come della «sorgente e porto dell’essere-energia, nonché la sorgente dell'informazione che consente all’energia di strutturarsi in materia organizzata così da diventare vita, vita intelligente, vita come spirito creativo». Si tratta di espressioni enigmatiche (Dio-energia, sorgente dell'informazione che struttura la vita) che rimandano ad altro libro di Mancuso, L'anima e il suo destino , 2007. Qui con ingegnose e spericolate innovazioni espressive, liberamente prese dal linguaggio dell’evoluzione, l’autore propone il ritorno della «finalità della natura-physis ad una teleologia iscritta nell’essere naturale, coincidente con lo stesso presentarsi dell'essereenergia, già da sempre in essa presente».
Questo tortuoso modo di esprimersi di Mancuso è il tentativo di replicare al deficit più serio della dottrina della Chiesa - quello del concetto di natura. Retaggio di un modo di pensare metafisico, il concetto di natura che innerva l’intera dottrina morale della Chiesa, è incapace di tenere testa allo sviluppo delle scienze dell’uomo (dalla teoria dell'evoluzione alle neurobiologie) che vengono semplicemente diffamate come «scientismo». Ma non è chiaro come Mancuso possa tenere insieme una teleologia naturale che rimanda ad un Dio-energia, con il Dio che è in intimo rapporto con l'io-persona. («L' io che raggiunge la dimensione dello spirito-libertà, può infrangere la struttura che l'ha generato e che lo mantiene in vita, spezzando la forza di gravità biologica e sociale»).
Confesso che questi ragionamenti mi paiono avventurosi. Fortunatamente nel libro ci sono molte lucide pagine di analisi realistiche della dottrina della Chiesa e della sua storia dogmatica. I corposi capitoli centrali (dal III al VIII) affrontano le questioni cruciali della figura storica di Gesù, le controversie legate alla risurrezione di Cristo, la storia della redazione dei Vangeli. Intendiamoci: in Mancuso che non ci sono novità interpretative, ma la ripresa di critiche storicamente consolidate che danno luogo a puntigliose contestazioni di alcune posizioni della Chiesa (compresa una brillante «Disputa immaginaria con il card. Ruini» sulla consistenza delle prove tradizionali dell’esistenza di Dio). L’autore si muove con sicurezza nei testi evangelici, analizza criticamente i passaggi classici di Paolo, Agostino, Tommaso su su sino a Benedetto XVI. Mostra i loro punti deboli o sbagliati - ma alla fine è volontaristicamente solidale con loro nella comunanza della fede che non intende affatto abbandonare. Va detto che con altrettanto impegno rilegge e ricupera i classici laici, in particolareKant. Ma questa operazione è inficiata dalla esclusiva preoccupazione di Mancuso di guadagnare strumentalmente i grandi autori laici (credenti) alla sua idea della centralità assoluta della fede presentata come unico modo autentico di fare domande e dare risposte di senso alla vita. Non c’è traccia significativa del riconoscimento dell’autonomia del pensiero laico.
Vorrei chiudere riportando un passaggio rivelatore. Nel cuore di un’argomentazione decisiva che affronta la figura storica di Gesù e del suo ebraismo, Mancuso scrive «Alla domanda sulla legittimità della connessione tra Gesù-Yeshua e Gesù-ilCristo è la fede personale di ciascuno a rispondere. Ancora una volta non c'è niente che si frappone tra Io e Dio».
Mi chiedo come si possa costruire una solida teologia critica su questo corto-circuito soggettivo.

il Riformista 18.9.11
Un golpe lungo mezzo secolo per l’“oro nero”
I servizi segreti inglesi nella storia d’Italia
Mattei «un pericolo mortale», Moro «un nemico», e il Pci un’ossessione
di Cinzia Leone

qui

Corriere della Sera 18.9.11
Il Riformista a rischio di chiusura
di V. Pic.


ROMA — Rischia di chiudere il Riformista. Il quotidiano diretto dall'ex parlamentare del Pci, Emanuele Macaluso (foto sotto), è in bilico. L'emorragia di copie del giornale fondato da Antonio Polito ha inasprito i rapporti interni e il Comitato di redazione minaccia lo sciopero se, spiega Alessandro De Angelis del Cdr, non sarà aperto un confronto interno. Ieri Macaluso ha scritto rispondendo al Cdr: «In questi mesi non si sono realizzate le condizioni per continuare, come vorremmo. Ancora non so se il giornale sarà costretto a chiudere i battenti. Spero di no ma non possiamo investire neppure un euro. Siamo una cooperativa, non abbiamo nessuno dietro, non abbiamo contributi, eccezion fatta per quelli pubblici. Il Riformista, e lo dico con tutto il rispetto per le altre testate, non è un giornale come gli altri». Ma dalla redazione si leva un appello: «Caro Macaluso, non puoi mettere la parola fine a un giornale che si chiama Riformista e vive nel palazzo, Botteghe Oscure, dove ti volle Togliatti, quando nella Cgil ti eri distinto nella difesa dei braccianti siciliani nella riforma agraria. Noi non abbiamo chiesto né un euro, né un nuovo assunto (semmai ci siamo permessi di dire che l'assunzione già prevista doveva essere fatta al settore interni in sofferenza, invece che all'online). Chiediamo solo un tavolo di discussione che ci viene negato».

Corriere della Sera 18.9.11
Gli ebook in prestito e Amazon, le biblioteche sono già passato?
di Carlo Formenti


Il libro è sempre stato caratterizzato da uno statuto ambiguo in quanto strumento, al tempo stesso, di profitto per l'editore, di fama per l'autore, di conoscenza per lo studioso, di intrattenimento per il lettore. Tuttavia la sua natura di merce è sempre rimasta — soprattutto da quando l'illuminismo lo ha eletto a simbolo del sapere — in secondo piano, un tributo imbarazzante, se non vergognoso, da pagare all'efficienza del denaro come veicolo di diffusione della conoscenza. È vero che, con l'avvento dei consumi di massa e dei best seller, questa relazione si era già riequilibrata a favore del mercato, ma oggi, con la virtualizzazione del testo e con l'imminente sorpasso degli ebook nei confronti dei cugini cartacei, rischia di sbilanciarsi nella direzione opposta.
Perché, si potrebbe obiettare, in fondo stanno solo cambiando formati e canali distributivi. Giusto? No: il «divenire effimero» del testo cambia molte altre cose, e lo dimostra l'obsolescenza che oggi minaccia quei monumenti di un sapere alfabetico «disinteressato» che sono le biblioteche. Amazon ha appena annunciato di voler attivare un servizio di «prestito» a pagamento di testi elettronici: versando un canone annuale si potrà accedere a un catalogo di titoli da consumare con le stesse modalità con cui si consumano brani musicali e video (cioè protetti da lucchetti digitali che impediranno l'accesso alla fine dell'abbonamento). Pare che il progetto sia in fase embrionale, perché molti editori esitano ad aderirvi per paura di «cannibalizzare» il proprio catalogo cartaceo, e sembra che Amazon, per rassicurarli, intenda escludere, almeno inizialmente, le novità dall'esperimento, limitandolo ad alcuni best seller. Ma il primo passo è stato fatto e gli altri, come dimostra l'evoluzione recente dell'industria culturale, seguiranno inevitabilmente. Forse le biblioteche non spariranno, ma a godere della loro funzione di garanti di una conoscenza libera e gratuita sarà una esigua minoranza di addetti ai lavori, mentre la quasi totalità delle persone consumerà testi a pagamento nello stesso modo in cui consuma film, video e brani musicali. Così anche il più antico dei media moderni perde la sua aura.

Corriere della Sera 18.9.11
Tutto cominciò da un quadrato nero. E la pittura perse la rappresentazione
Malevic teorizzò il «grado zero». Le versioni di Klein, Rothko, Manzoni
«Questo non è un quadrato vuoto ma la sensibilità all’assenza dell’oggetto»
di Francesca Bonazzoli


Nel 1915 il pittore russo Kazimir Malevic annunciava con toni utopistici e messianici la «fine della pittura» e la nascita del suprematismo, una nuova forma d'arte attraverso cui sarebbe passata la rigenerazione del mondo.
«Per suprematismo io intendo la pura sensibilità nell'arte. Dal punto di vista dei suprematisti, le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale (...). L'oggetto in sé non significa nulla per il suprematista. La sensibilità è la sola cosa che conti ed è per questa via che l'arte perviene con il suprematismo all'espressione pura senza rappresentazione».
Nasceva così il quadro che può considerarsi il manifesto teorico di tutta l'arte astratta del XX secolo: il «Quadrato nero», definito da Malevic come il «grado zero», «lo zero delle forme», l'elemento base del mondo e dell'esistenza. Seguirono poi i quadrati rossi e quelli bianchi fino alle tele bianche vuote del 1919-20 che non avevano più nulla a che fare con le provocazioni futuriste o i gesti dei nicevoki, i nihilisti russi, ma ne rappresentavano l'estremo approdo filosofico, lo specchio del Nulla e del Tutto: «Non un quadrato vuoto ma la sensibilità dell'assenza dell'oggetto», dichiarò Malevic.
«Nel suprematismo non si può nemmeno parlare di pittura», scriveva ancora nel 1920. «La pittura è stata eliminata da tempo e la figura del pittore è un pregiudizio del passato».
Come non vedere in questo pensiero i semi di gran parte dell'arte a venire, addirittura del suo opposto, la pop art, quando Andy Warhol negherà l'unicità e la manualità dell'opera d'arte nonché il ruolo creativo dell'artista sostituito da quello collettivo della Factory?
Per quanto apparentemente «afono», il dipinto supremo di Malevic è stato dunque in realtà gravido di figliolanza e anche solo limitandoci alla discendenza monocroma generata dal Quadrato nero, possiamo già avere un'ampia gamma di varianti.
A cominciare dal filone contemplativo e misticheggiante dell'action painting americana, quello che va sotto il nome di color field abstraction e di cui Mark Rothko rappresentò il «versante teologico», secondo le parole del critico Harold Rosenberg. La sua pittura consisteva nell'impaginare grandi campiture di colore, perlopiù rettangoli, con i bordi sfumati e con un timbro cromatico vibrante e intenso grazie alla maggiore o minore densità dei pigmenti.
Una semplificazione