mercoledì 21 settembre 2011

l’Unità 20.9.11
L’Anp all’Onu: Stato palestinese, è ora di dire sì
Abu Mazen formalizza la richiesta. I promotori: altre 120
Obama non ferma Abu Mazen «L’Onu voti sul nostro Stato»
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite entra nel vivo. Oggi Obama incontra Sarkozy ed Erdogan. Occhi puntati sul dossier-Palestina. Il leader dell’Anp formalizza il ricorso sullo Stato. Trattative frenetiche...
di Umberto De Giovannangeli


«Il popolo palestinese e il suo governo passeranno attraverso momenti molto difficili dopo che la Palestina si rivolgerà al Consiglio di Sicurezza per ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese in base ai confini del 1967, con Gerusalemme est come capitale». Non si fa illusione Mahmud Abbas (Abu Mazen): il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) è da ieri a New York per partecipare alla 66ma Assemblea generale delle Nazioni Unite, durante la quale verrà presentata la mozione per il riconoscimento dello Stato palestinese.
RINCORSA AI NUMERI
Parlando con i giornalisti, Abu Mazen ha ammesso di essere stato oggetto di pressioni internazionali per l’iniziativa, che divide anche l’Unione Europea. «Abbiamo deciso di rivolgerci all’Onu, perché tutti i negoziati, diretti e indiretti, sono falliti a causa della testardaggine di Israele», insiste il leader palestinese, che terrà il suo discorso davanti all’Assemblea generale venerdì prossimo. Abu Mazen ha incontrato ieri il numero uno del Palazzo di vetro, Ban Ki-moon e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, ma non il presidente americano Barack Obama, alla luce del fatto che gli Usa stanno cercando di convincere i Paesi membri del Consiglio di sicurezza a opporsi o astenersi sulla risoluzione. Se non otterrà almeno 9 voti su 15, la mozione palestinese verrà respinta evitando agli Stati Uniti di imporre il diritto di veto. Una mossa imbarazzante per Obama, che esattamente 12 mesi fa aveva detto di voler vedere uno Stato palestinese all’ Onu entro un anno. Il ricorso palestinese all'Onu è l'occasione per «avvicinarci al nostro appuntamento con la libertà»: rilancia il premier dell’Anp, Salam Fayyad, dopo un colloquio a New York con il ministro degli Esteri norvegese, Jonas Gahr Stoere. In serata, l’annuncio ufficiale: il presidente palestinese Abu Mazen ha «informato il segretario generale (dell'Onu Ban Ki-moon) della sua intenzione di presentare allo stesso segretario generale, questo venerdì, una richiesta di adesione come Stato delle Nazioni Unite». A riferirlo è il portavoce del segretario generale dell’Onu, Martin Nesirky, sottolineando che, nel corso dell'incontro, Ban ha ribadito «il suo desiderio affinchè la comunità internazionale e le due parti in causa possano trovare la strada per riprendere i negoziati all'interno di una cornice legittima e ben bilanciata».
SOSTEGNO POPOLARE
Anche e se rischia di avere ripercussioni negative sul terreno, è giusta la decisione del presidente Abu Mazen di rivolgersi al Consiglio di sicurezza per esigere la piena adesione all’Onu dello Stato di Palestina. Questa la convinzione espressa dall’83% dei palestinesi in un sondaggio condotto negli ultimi giorni su un campione di 1.200 persone in Cisgiordania e a Gaza dal «Centro Palestinese per la ricerca politica» (Pcpsr)del dottor Khalil Shikaki. Nel sondaggio, il 78% prevede che Israele risponderà a questo sviluppo congelando il versamento di dazi doganali dovuti all’Anp, con la erezione di nuovi posti di blocco e con una ripresa della colonizzazione. Il 64% teme inoltre che gli Stati Uniti sospendano gli aiuti finanziari all'Anp. Il ritorno dei palestinesi alla lotta armata è sostenuto solo dal 35% , mentre il 64% si oppone e propende piuttosto per una resistenza non-violenta e per la organizzazione di marce popolari. In caso di nuove elezioni presidenziali, Abu Mazen otterrebbe il 59% dei consensi, mentre il leader politico di Hamas a Gaza riceverebbe solo il 34%.
Una divisione tra Ue e Usa sulla richiesta palestinese di ottenere un seggio all’Onu «sarebbe catastrofica», rileva il ministro degli Esteri Franco Frattini, da New York, ribadendo anche l'importanza di una posizione unitaria all'interno dell'Europa. «Nei prossimi giorni cercheremo tutti di evitare una contrapposizione a New York e un inasprimento della situazione. La via verso la pace in Medio Oriente e verso una giusta soluzione con due Stati passa attraverso i negoziati», gli fa eco il capo della diplomazia tedesca, Guido Westerwelle. Israeliani e palestinesi devono intavolare «una trattativa diretta» per risolvere al questione mediorientale. È l’appello lanciato dalla Casa Bianca. «Israeliani e palestinesi devono negoziare un compromesso», ha affermato il portavoce Jay Carney. Ma forse è troppo tardi.

l’Unità 20.9.11
Intervista a Saeb Erekat
«Non tradiremo le aspettative del nostro popolo»
Il capo negoziatore dell’Anp: «Un sì allo Stato palestinese aiuterebbe la leadership di Abu Mazen. Il veto Usa rafforzerebbe i falchi israeliani»
di U.D.G.


È uno degli ideatori dell’«Intifada diplomatica». Negoziatore capo dell’Autorità nazionale palestinese, consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), parlamentare di Al-Fatah, Saeb Erekat ha vissuto da protagonista tutti i momenti cruciali del processo di pace israelo-palestinese. «I prossimi giorni saranno decisivi per il popolo palestinese», dice a l’Unità Erekat, guardando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si è aperta ieri a New York. «Il riconoscimento della Palestina sarebbe un contributo alla soluzione dei Due Stati e un tentativo di salvaguardare il processo di pace dinanzi alle ostruzioni di Israele che lo ha messo in pericolo con la costruzione di insediamenti illegali», afferma Erekat che sarà a fianco di Abu Mazen al Palazzo di Vetro. «Non esiste pertanto alcuna giustificazione pertinente per l’uso del veto da parte degli americani». E al premier israeliano Benjamin Netanyahu che denuncia l’unilateralismo dell’Anp, Erekat ribatte: «Proprio lui parla di unilateralismo...Netanyahu ha avuto tutto il tempo per riaprire un serio negoziato, ma non c’è stato un solo atto del suo governo che ha rappresentato questa volontà, a partire dalla colonizzazione di Gerusalemme Est e dei Territori palestine-
si». Sull’esito del voto in Assemblea Generale all’Onu, il capo negoziatore palestinese si dice ottimista: «Riteniamo – afferma – di poter contare almeno su 126 voti favorevoli. Comunque andrà, è un dato politico di straordinaria rilevanza: la gran parte degli Stati al mondo supportano il diritto dei Palestinesi a vivere in uno Stato indipendente a fianco d’Israele».
C’è chi sostiene, non solo Israele, che la richiesta dell’Anp all’Onu di un riconoscimento dello Stato di Palestina rappresenti una fuga in avanti, una forzatura che rende ancor più problematica la ripresa di un negoziato diretto con Israele.
«È vero l’opposto. Il riconoscimento della Palestina sarebbe un contributo alla soluzione dei Due Stati e un tentativo di salvaguardare il processo di pace dinanzi alle ostruzioni di Israele che lo ha messo in pericolo con la costruzione di insediamenti illegali».
Di questo avviso non sembrano essere gli Stati Uniti. Il presidente Obama sembra intenzionato ad esercitare il diritto di veto in Consiglio di Sicurezza.
«Mi auguro che ciò non avvenga. Il presidente Obama sa bene che la linea del negoziato è una scelta strategica per l’attuale dirigenza palestinese, ma sa anche che questa determinazione si è scontrata con le chiusure oltranziste del governo israeliano. Il presidente Obama ha più volte parlato di un “Nuovo Inizio” nei rapporti tra l’America e il mondo arabo: opporsi al riconoscimento dello Stato di Palestina verrebbe visto da quel mondo con cui il presidente Obama intende dialogare alla pari, come una riproposizione della vecchia e deleteria politica dei due pesi e due misure in Medio Oriente». L’Europa si presenta divisa a questo appuntamento...
«Una divisione che indebolisce fortemente il ruolo che l’Europa potrebbe e dovrebbe giocare in Medio Oriente. Sappiamo di poter contare sul voto favorevole di diversi e importanti Stati dell’Ue...». Tra questi sembra non esserci l’Italia...
«I rapporti di amicizia tra i due popoli non sono in discussione, ed è proprio per questo che un voto negativo dell’Italia sarebbe doloroso, molto doloroso...».
Israele, e non solo l’attuale dirigenza, ha sempre sostenuto che una soluzione a due Stati non può riportare le lancette del tempo indietro di oltre 30 anni, ai confini del ’67. «Quella che speriamo emerga all’Onu è una determinazione politica che rafforzi l’idea di un accordo fondato sul principio “due popoli, due Stati”. Per quanto ci riguarda, ribadiamo la disponibilità a sedersi a un tavolo per affrontare tutte le questioni legate ad una intesa globale: dai confini allo status di Gerusalemme, dal diritto al ritorno dei rifugiati al controllo delle risorse idriche...Sui confini, abbiamo affermato la possibilità di revisioni territoriali, limitate, fondate sul criterio della reciprocità. Il “sì” dell’Onu allo Stato di Palestina rafforzerebbe la leadership di Abu Mazen a proseguire nella strada del dialogo e nella ricerca di un compromesso equo per le due parti».
Netanyahu si dice certo che Abu Mazen subirà uno smacco all’Onu... «Staremo a vedere. Netanyahu è nervoso, e scambia le sue illusioni con la realtà».

il Fatto 20.9.11
Stato di Palestina “L’alternativa è solo violenza”
Carter: sono necessari colloqui diretti con Israele
di Jimmy Carter *


Nel settembre del 1978 Anwar Sadat e Menachem Begin firmarono gli “accordi di Camp David” che facevano seguito a quattro guerre arabo-israeliane nelle quali l’Egitto aveva fornito alla coalizione, che si proponeva la cancellazione di Israele, la maggior parte degli uomini e dei mezzi.
Il Parlamento egiziano e la Knesset di Israele ratificarono a schiacciante maggioranza l’accordo che prevedeva l’accettazione, in tutti i suoi aspetti, della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Una delle disposizioni chiave era la “inammissibilità dell’acquisizioni di territori a seguito di operazioni militari e la necessità di operare in vista di una pace giusta e duratura che consentisse a ogni Stato della regione di vivere in condizioni di sicurezza”.
Gli accordi prevedevano in particolare il ritiro di tutte le forze militari e civili israeliane dai Territori occupati e la concessione della “piena autonomia” ai palestinesi. Sei mesi dopo fu concluso tra le due nazioni un trattato di pace che imponeva a Israele l’obbligo di ritirarsi dal Sinai egiziano, consentiva a Israele l’utilizzo del Canale di Suez e stabiliva normali rapporti diplomatici tra egiziani e israeliani. Da allora sono stati sostanzialmente rispettati i termini del trattato di pace, ma le disposizioni principali degli “accordi di Camp David” sono state ignorate. Dopo la morte di Sadat, il presidente Hosni Mubarak non ha esercitato alcuna pressione per ottenere il rispetto dei diritti dei palestinesi sebbene la maggior parte degli egiziani abbia continuato a chiedere ad Israele di onorare gli impegni presi.
IL PRINCIPALE elemento di preoccupazione va individuato nell’occupazione da parte di Israele della Cisgiordania e di Gerusalemme Est e nella costruzione di insediamenti israeliani nei territori palestinesi confiscati. Nell’importante discorso pronunciato al Cairo nel marzo 2009, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha riconosciuto la centralità della questione auspicando il congelamento immediato di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele.
Successivamente, nel maggio 2009, il presidente Obama ha dichiarato che alla base di qualsivoglia accordo di pace deve esserci il riconoscimento delle frontiere antecedenti la guerra arabo-israeliana del 1967, fatte salve alcune modifiche di poco conto riguardanti pochi insediamenti israeliani nei pressi di Gerusalemme.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto entrambe le proposte: la costruzione degli insediamenti è proseguita e il governo israeliano ha avanzato ulteriori, inaccettabili richieste aventi per oggetto una presenza militare israeliana permanente nella valle del Giordano e il riconoscimento di Israele come “Stato ebraico” (circa il 25% dei cittadini israeliani non sono ebrei). Gli Stati Uniti da allora non hanno partecipato attivamente al processo di pace. I palestinesi e altri arabi hanno interpretato questo passo indietro come il tacito riconoscimento da parte degli Usa della legittimità dell’occupazione militare israeliana e come la spia di un atteggiamento pregiudizialmente negativo nei confronti dei palestinesi. I palestinesi, convinti di non avere altre alternative, sperano che il riconoscimento del loro Stato arrivi ora dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea delle Nazioni Unite (venerdì prossimo Abu Mazen, presidente dell’Anp, presenterà il ricorso ufficiale all’Onu, ndt).
IN EGITTO i dimostranti hanno assalito l’ambasciata israeliana. Tenuto presente che, malgrado il veto degli Stati Uniti, lo Stato palestinese verrà riconosciuto da quasi tutti i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza, quali sono le prospettive per il futuro?
Con la leadership dell’Europa, gli Stati Uniti e gli altri membri del Quartetto (Russia, Unione europea e Nazioni Unite) potrebbero mettere sul tappeto una proposta di pace compatibile con la politica americana, con le risoluzioni dell’Onu e con le precedenti richieste del Quartetto.
Non v’è dubbio che la proposta di pace araba potrebbe essere modificata di conseguenza. A ciò potrebbe seguire il pieno impegno degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite a svolgere un’azione di mediazione volta a favorire colloqui diretti o indiretti tra Israele e i palestinesi.
Lo stesso approccio potrebbe essere adottato per risolvere il problema delle alture del Golan con la Siria. I palestinesi dovranno rinunciare alla violenza, accettare il diritto di Israele a esistere in pace all’interno dei confini del 1967 (con le eventuali modifiche negoziate), accettare una presenza di lungo periodo in Palestina delle forze di peacekeeping dell’Onu e il diritto al rimpatrio dei palestinesi della diaspora (un certo numero dei quali in Israele). Analoghi impegni dovranno prendere gli israeliani.
QUESTO percorso potrebbe portare alla pace tra Israele e i suoi vicini. In questo modo gli Stati Uniti riconquisterebbero una posizione di leadership nella regione, una leadership basata sulla libertà, la democrazia e la giustizia. E verrebbe meno nel mondo arabo una delle principali cause di avversione nei confronti degli americani. L’alternativa a questa iniziativa di pace non potrebbe che essere il riaccendersi della violenza e la morte della speranza .
* 39° presidente degli Stati Uniti (dal 1977 al 1981), è fondatore del Carter Center che opera per la pace e la salute nel mondo © 2011 The International Herald Tribune - Distributed by The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 20.9.11
“La Palestina in quattro giorni” Lo scontro all’Onu
Il braccio di ferro diplomatico sul voto per il riconoscimento
Scelta popolare. L’89% dei palestinesi appoggia la richiesta di riconoscimento all’Onu promossa da Abu Mazen
di Maurizio Molinari


Maratone negoziali negli hotel di Midtown, duelli diplomatici nel Consiglio di Sicurezza, il Congresso di Washington in ebollizione e il timore di un’esplosione di violenza in Medio Oriente: è l’inizio della battaglia per il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Onu che tiene banco in coincidenza con l’apertura della nuova sessione dell’Assemblea Generale minacciando di innescare un’escalation dagli esiti imprevedibili.
Da un punto di vista formale il tentativo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di ottenere dall’Onu lo status di «Stato membro» inizierà venerdì con l’invio da parte del presidente Abu Mazen di una lettera al Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon nella quale affermerà che la «Palestina» - questo il nome prescelto - è uno Stato «che ama la pace e accetta la Carta dell’Onu». Abu Mazen ha preannunciato ieri, sul volo in arrivo a New York, che illustrerà i contenuti della richiesta nel discorso dal podio dell’Assemblea Generale e dopo la recapiterà a Ban, a cui spetterà di esaminarla prima di inviarla al Consiglio di Sicurezza, che decide l’ammissione di nuovi Stati.
Il passo di Abu Mazen irrompe nelle trattative diplomatiche in atto, che vedono il Quartetto - composto da Usa, Ue, Onu e Russia tentare di modificare il corso degli eventi per evitare il collasso degli accordi di Oslo del 1993, siglati da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sotto l’egida di Bill Clinton, nei quali Israele e palestinesi si impegnarono a raggiungere l’obiettivo dei «due popoli e due Stati» in «pace e sicurezza» procedendo «attraverso negoziati». Poiché la richiesta di riconoscimento dell’indipendenza da parte dell’Onu è un atto unilaterale dell’Anp, ciò minaccia di far venir meno la validità di Oslo riproponendo il conflitto totale fra Israele e palestinesi precedente al 1993. È questo scenario che spiega i venti di guerra in Medio Oriente, lo schieramento in forze delle truppe israeliane in Cisgiordania e il monito dell’ex premier britannico Tony Blair, inviato del Quartetto, secondo il quale «bisogna inquadrare il desiderio dei palestinesi di essere riconosciuti dall’Onu in una credibile cornice negoziale» ovvero salvando Oslo.
La maratona di incontri in più hotel di Midtown a Manhattan vede protagonisti Blair, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, l’Alto rappresentante europeo Lady Ashton, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il Segretario generale dell’Onu assieme a ministri di Anp e Israele, nel tentativo di redigere un testo capace di far ripartire da subito il negoziato, arenato da oltre un anno, spingendo l’Anp ad accettare un successo politico in cambio della rinuncia della richiesta all’Onu. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu incalza, e si è detto «interessato» a incontrare Abu Mazen direttamente all’Onu. Cruciale è il ruolo di Mosca, che sulla carta è la più vicina all’Anp. «Bisogna dare ai palestinesi concretezze, non illusioni», riassume il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini.
È un negoziato assai difficile perché punta a risolvere in 4 giorni i nodi che da 12 mesi paralizzano le trattative: Israele non è disposta a riconoscere allo Stato palestinese i confini antecedenti il giugno 1967, l’Anp non vuole riconoscere Israele come «Stato ebraico» e non vi sono intese né sullo status di Gerusalemme né sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi del 1948. L’altro possibile compromesso a cui il Quartetto lavora è concordare con l’Anp il testo di una risoluzione dell’Assemblea Generale accettabile anche da Israele ovvero senza riferimento ai confini. Gli inviati Usa Dennis Ross e David Hale hanno proposto ad Abu Mazen una risoluzione capace di assegnare all’Anp «attributi di Stato senza la sovranità» al fine di evitare l’adesione al Tribunale penale internazionale che consentirebbe di denunciare Israele per «crimini di guerra» - o di essere denunciati da Israele per lo stesso reato aprendo un contenzioso giuridico rovente. La risposta di Abu Mazen è giunta ieri, quando ha detto che «oramai è troppo tardi» visto che la lettera a Ban è in arrivo.
Nel tentativo di ottenere un ripensamento in extremis da Abu Mazen, Europa e Stati Uniti non lesinano pressioni. I Paesi dell’Ue fanno presente che senza un riconoscimento di Bruxelles l’indipendenza palestinese sarebbe politicamente debole così come l’amministrazione Obama fa trapelare la possibilità di cedere alle pressioni del Congresso di Washington, dove i leader repubblicanie democratici suggeriscono il blocco degli aiuti economici all’Anp - 600 milioni di dollari annui - se Ramallah «rinuncerà ai negoziati». Abu Mazen è consapevole di tali rischi ma sembra volerli affrontare, preannunciando ai palestinesi che «il periodo seguente al voto dell’Onu per noi sarà molto duro».
Se il Quartetto non riuscirà a impedire il passo di Abu Mazen, da venerdì si aprirà la partita dei voti. Al Consiglio di Sicurezza infatti gli Stati Uniti dispongono del diritto di veto ed hanno minacciato di farvi ricorso per bloccare la richiesta palestinese ma la Casa Bianca, spiegano fonti diplomatiche, non vorrebbe adoperarlo per evitare attriti con il mondo arabo nel bel mezzo della «Primavera» di rivolte. Da qui i tentativi per riuscire a far mancare il sostegno di almeno 7 dei 15 Paesi membri del Consiglio di Sicurezza, perché ciò significherebbe respingere il testo senza dover opporre il veto. Washington conta sul «no» di Francia, Gran Bretagna, Colombia, Germania e Portogallo con la Bosnia in bilico ma Parigi e Londra ancora non si sono pronunciate perché l’altra questione aperta è l’assenza di una posizione coesa dell’Ue, dovuta anche al fatto che al momento manca il testo definitivo della richiesta dell’Anp.
Se comunque Washington dovesse riuscire a bloccare la strada del riconoscimento come «Stato membro», per l’Anp si aprirebbe la possibilità di chiedere all’Assemblea Generale lo status di «Stato non membro», come il Vaticano. L’approvazione di una tale risoluzione richiede un quorum di due terzi dei 193 Stati membri, ovvero 129 favorevoli, e i delegati palestinesi all’Onu hanno fatto circolare la lista di 127 nazioni che hanno già promesso il «sì». Ciò significa che questo risultato è a portata di mano, anche se raggiungerlo al prezzo di una crisi di rapporti con Usa ed Europa, senza contare l’abbandono di Oslo e il collasso dei rapporti con Israele, potrebbe rivelarsi un prezzo molto alto per Abu Mazen che in questa battaglia si trova contro anche i leader di Hamas. Da Gaza lo accusano di «voler tradire il popolo palestinese legittimando Israele» perché dichiarando lo Stato nei confini del 1967 si rinuncia ai territori su cui Israele fu creato nel 1948.

Repubblica 20.9.11
Palestina, primo passo per il riconoscimento "Venerdì presenteremo la richiesta all´Onu"
Abu Mazen incontra Ban Ki-moon. Frattini: disastro se Usa e Ue si dividono
di Angelo Aquaro


NEW YORK - Adesso è solo una corsa contro il tempo per evitare che le Nazioni Unite si ritrovino disunite come mai. Il presidente dell´autorità palestinese Abu Mazen ha ufficialmente informato il segretario dell´Onu Ban Ki-moon che venerdì prossimo presenterà la «richiesta di adesione come stato dell´Onu».
Dovrebbe essere una festa per tutti. Era stato lo stesso Barack Obama ad augurarsi che entro il 2012 le Nazioni Unite avrebbero potuto accettare il loro 194esimo stato. E invece proprio il presidente Usa - che a New York parlerà domani - sarebbe costretto ad apporre il veto. Il riconoscimento doveva arrivare attraverso i colloqui di pace: promossi dagli stessi americani ma falliti di fronte al rifiuto del premier Benjamin Netanyahu di fermare gli insediamenti nei Territori e a Gerusalemme Est.
La mossa palestinese è una implicita ammissione dell´impossibilità del dialogo. E quindi una sfida. Lo dice sempre Abu Mazen di prevedere un «periodo difficile»: un eufemismo per indicare quella «esplosione di violenza» evocata ieri dal ministro degli Esteri francese Alain Juppè. Hamas ha annunciato l´accordo con Fatah per «annullare tutte le manifestazioni»: ma che potrebbe succedere nei Territori se la richiesta si infrangerà contro il no del Consiglio?
Il fatto è che la sfida palestinese ha tutti i crismi della giurisdizione internazionale: e per questo mette in imbarazzo l´Unione europea. «Una divisione tra Usa e Ue sarebbe catastrofica» ha detto il ministro Franco Frattini a New York per l´Assemblea generale. Aggiungendo però che «bisogna dare ai palestinesi qualcosa di tangibile». Ma cosa? Gli americani minacciano piuttosto qualcosa da togliere: gli aiuti da 500 milioni di dollari all´anno. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha incontrato il commissario europeo Catherine Ashton. E lo stesso Ban Ki-moon ha partecipato alle riunioni del Quartetto (Onu, Ue, Usa e Russia) accavallatesi tra domenica e ieri. La Casa Bianca continua a sperare che palestinesi e israeliani negozino «un compromesso» attraverso una «trattativa diretta». Ma a questo punto gli scenari si intrecciano vertiginosamente.
Il più ottimista è la controproposta su cui lavora proprio il Quartetto per dissuadere in extremis i palestinesi: facendo ripartire i colloqui proprio nella meravigliosa cornice dell´Onu oggi ridipinto in scenografia da guerra. Ma Abu Mazen ha già rispedito al mittente l´offerta che l´ex premier inglese ha confezionato con i due inviati Usa Dennis Ross e David Hale: e che avrebbe detto alla Palestina «gli attributi di uno stato» senza però la qualifica. Piccolo particolare: l´Autorità palestinese avrebbe così potuto sedere in tutte le organizzazioni internazionali. Tranne in quelle giudiziarie: dove invece come stato membro potrebbe portare gli israeliani davanti alla Corte di giustizia o alla Corte criminale internazionale.
Senza accordo Abu Mazen venerdì presenta quindi la sua richiesta che va al Consiglio di Sicurezza. E qui scatterebbero gli scenari due, tre e quattro. I palestinesi ottengono i 9 voti su 15 necessari: ma già sei Stati sarebbero contro e gli Usa stanno lavorando sul numero per evitare di porre il veto. Scenario numero tre: il Consiglio di sicurezza passa la richiesta e gli americani la bloccano. Per la Turchia di Recep Tayyip Erdogan - che ha da tempo raggelato le relazioni con Israele, sempre più isolato, e ora in freddo anche con l´Egitto - la posizione americana sarebbe «difficile da comprendere e sostenere». Ma a questo punto saremmo già allo scenario numero quattro: la proposta bocciata viene presentata all´Assemblea generale. Qui per i palestinesi i numeri ci sarebbero. L´Assemblea ha il potere di conferire lo status di "Stato osservatore". E la qualifica riservata oggi solo alla Città del Vaticano ma permette l´accesso a tutte le organizzazioni internazionali - e quindi anche a quelle giudiziarie.
Ma i tempi? Ecco: sui tempi del voto - da quello del Consiglio a quello eventuale della Assemblea - è ancora tutto da decidere. E qui si aprirebbe lo scenario numero cinque. Il Consiglio potrebbe rispondere alla richiesta palestinese istituendo una bella commissione incaricata di esaminarla. L´ultimo disperato tentativo per prendere quello che in queste ore freneticamente manca: il tempo.

Corriere della Sera 20.9.11
«Palestina sì, ma democratica»
L'arabo Khalidi: strategia non violenta che mobiliti le masse
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Rashid Khalidi, direttore del Middle East Institute della Columbia University, l'intellettuale palestinese più celebrato d'America, è scettico. «Un voto pro-Palestina all'Onu cambia poco della situazione sul terreno», spiega lo studioso nato a New York nel 1948. «Non cambia la realtà dell'occupazione e degli insediamenti né la complicità degli Usa, fallimentare nel rilanciare il processo di pace».
Obama ha deluso i palestinesi?
«Non più dei predecessori. Bush padre e il suo segretario di Stato Baker sono stati gli unici che hanno cercato di portare le parti davvero insieme a Madrid. L'elezione di Obama non ha certo fatto sparire la lobby ebraica Aipac. Quando Netanyahu ha parlato davanti al Congresso Usa l'applauso era calorosamente bipartisan. Giorni fa la democratica Pelosi si è appellata ai leader europei perché all'Onu votino no».
Ma gli americani hanno cercato più volte di riavviare il processo di pace.
«Non esiste processo di pace oggi, ma solo un'impasse che ha reso la pace impossibile. Gli insediamenti israeliani sono triplicati in 20 anni, rendendo il controllo israeliano sui territori ancora più forte. Gli unici a trarne vantaggio sono Israele e i politici Usa che pensano solo all'elettorato».
Secondo alcuni un sì dall'Assemblea generale rafforzerebbe il profilo diplomatico dei palestinesi.
«Certo, darebbe loro accesso alla Corte penale internazionale, all'Unesco e ad altre istituzioni mondiali. Ma la prospettiva di un popolo palestinese con più peso contrattuale non va giù ad americani e israeliani che vogliono una Palestina debole, divisa, ricattabile e isolata».
Che passi consiglierebbe alla leadership palestinese?
«Organizzare elezioni vere e una riconciliazione nazionale che nasca in un consenso sull'approccio da tenere nel conflitto. Serve una strategia non violenta che mobiliti le masse palestinesi. Senza questi elementi, il voto Onu è solo un addobbo da vetrina. Anche i palestinesi hanno le loro colpe, il vero problema sono loro. Hamas e Fatah continuano ad anteporre il proprio interesse al bene nazionale. Il fatto che potenze esterne quali Israele, Usa e Iran traggano vantaggio da questa discordia è secondario».
Non basterebbe che Hamas rinunciasse alla violenza riconoscendo Israele?
«Il giorno in cui gli israeliani riconosceranno lo Stato palestinese si potrà chiedere a questi ultimi di fare lo stesso. L'idea che questo non deve essere un processo completamente reciproco tra gente alla pari è inaccettabile. Dov'è il riconoscimento israeliano della patria palestinese? E perché i palestinesi dovrebbero rinunciare alla violenza se non lo fa anche Israele?».
Se si arriverà mai alla pace, sarà attraverso i negoziati?
«Io non sono un pacifista eppure penso che questo conflitto non sarà risolto con la violenza ma quando il rapporto di forza cambierà. Oggi Israele si sente troppo sicura e protetta e non ha incentivi alla pace. Dovrebbe capire che la realtà nella regione è stata stravolta dalla primavera araba e che la sua politica oppressiva verso i palestinesi l'ha lentamente delegittimata di fronte al mondo. Il suo futuro dipende dalla capacità di capire e risolvere queste due insidie. Perché la sua stessa sopravvivenza dipende dalla creazione di uno Stato Palestinese».

Repubblica 20.9.11
Israele è in pericolo se si isola dal mondo
di Thomas L. Friedman


NON sono mai stato tanto preoccupato per il futuro di Israele. Lo sgretolamento dei pilastri della sicurezza di Israele - la pace con l´Egitto, la stabilità della Siria e l´amicizia con Turchia e Giordania - abbinato al governo più inetto dal punto di vista diplomatico e più incompetente dal punto di vista strategico della sua storia hanno messo lo Stato ebraico in una situazione pericolosissima.
Il governo americano è stufo marcio di questi leader israeliani, ma è ostaggio della sua inettitudine, perché in un anno di elezioni la potente lobby filoisraeliana può costringere la Casa Bianca a difendere lo Stato ebraico all´Onu anche quando sa che il governo di Tel Aviv sta portando avanti politiche che non sono né nel suo interesse né nell´interesse degli Stati Uniti.
Israele non è responsabile del rovesciamento del presidente egiziano Hosni Mubarak o delle rivolte in Siria, o della decisione della Turchia di cercare di ritagliarsi un ruolo guida a livello regionale scagliandosi cinicamente contro Israele per aver spaccato il movimento nazionale palestinese fra Gaza e Cisgiordania. Quello di cui il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu è responsabile è di non aver messo in campo, in risposta a tutte queste trasformazioni, una strategia in grado di difendere gli interessi di Israele sul lungo periodo.
Anzi no, una strategia Netanyahu ce l´ha: non fare nulla, rispetto ai palestinesi o rispetto alla Turchia, che lo costringa ad andare contro la sua base, a scendere a compromessi con le sue idee o a inimicarsi il suo principale partner di coalizione, l´estremista di destra Avigdor Lieberman, che ricopre l´incarico di ministro degli Esteri. Dopo di che, chiedere aiuto agli Stati Uniti per bloccare il programma nucleare iraniano e per farsi tirar fuori da pasticci di ogni genere, ma fare in modo che il presidente Barack Obama non possa chiedere nulla in cambio mobilitando i Repubblicani al Congresso per mettergli i bastoni fra le ruote e incoraggiando i principali esponenti della comunità ebraica a insinuare che Obama è ostile a Israele e sta perdendo i voti degli ebrei. Ecco qua: non si può certo dire che Netanyahu non abbia una strategia.
«Anni di sforzi diplomatici per far accettare Israele in Medio Oriente sono crollati in una settimana con l´espulsione degli ambasciatori dello Stato ebraico da Ankara e dal Cairo, e con la frettolosa evacuazione del personale dell´ambasciata da Amman», ha scritto Aluf Benn sul quotidiano israeliano Haaretz. «La regione sta rigettando lo Stato ebraico, che si rinchiude sempre di più dietro mura fortificate, sotto la guida di una leadership che rifiuta qualsiasi cambiamento, movimento o riforma […] Netanyahu ha dato prova di una passività totale di fronte ai drammatici cambiamenti avvenuti nella regione e ha consentito ai suoi rivali di prendere l´iniziativa e fissare l´agenda».
Che cosa avrebbe potuto fare Israele? L´Autorità Palestinese, che negli ultimi cinque anni ha fatto grandi passi avanti nella costruzione delle istituzioni e delle forze di sicurezza di uno Stato in Cisgiordania, alla fine si è detta: «I nostri sforzi per costruire lo Stato non hanno indotto Israele a fermare gli insediamenti o a impegnarsi per giungere alla separazione dei Territori Occupati, perciò in pratica non stiamo facendo altro che sostenere l´occupazione israeliana. Andiamo alle Nazioni Unite, facciamoci riconoscere come Stato all´interno dei confini del 1967 e combattiamo Israele in questo modo». Una volta resosi conto della situazione, Israele avrebbe dovuto proporre un suo piano di pace o cercare di influenzare la diplomazia dell´Onu con una risoluzione che riaffermasse il diritto sia del popolo palestinese che di quello ebraico di avere uno Stato all´interno dei confini storici della Palestina, e facendo ripartire i negoziati.
Netanyahu non fatto nessuna delle due cose e ora gli Stati Uniti si stanno barcamenando per disinnescare la crisi, per non essere costretti a opporre un veto alla proposta di creare lo Stato palestinese, una mossa che potrebbe rivelarsi disastrosa in un mondo arabo che marcia sempre più verso l´autogoverno popolare.
Quanto alla Turchia, la squadra di Obama e gli avvocati di Netanyahu in questi ultimi due mesi hanno lavorato instancabilmente per risolvere la crisi nata dall´uccisione di civili turchi da parte di agenti delle forze speciali israeliane nel maggio del 2010, quando la flottiglia turca cercava in tutti i modi di sbarcare a Gaza per portare aiuti alla popolazione. La Turchia pretendeva scuse ufficiali. Poi però Bibi ha smentito i suoi stessi avvocati e ha respinto l´accordo, per orgoglio nazionale e per paura che Lieberman lo usasse contro di lui. Risultato: la Turchia ha espulso l´ambasciatore israeliano.
Quanto all´Egitto, la stabilità lì ormai è un ricordo e qualunque nuovo Governo al Cairo dovrà fare i conti con pressioni populiste antisraeliane più forti che mai. Tutto questo in parte è inevitabile, ma perché non mettere in campo una strategia per minimizzare il problema proponendo un vero piano di pace?
Ho grande simpatia per il dilemma strategico di Israele e non mi faccio nessuna illusione sui suoi nemici. Ma Israele oggi non offre ai suoi amici - e Obama è fra loro - nessun elemento per difenderlo. Israele può scegliere di combattere contro tutti oppure può scegliere di non arrendersi e attutire il colpo ricevuto con un´apertura, sul fronte delle trattative di pace, che gli osservatori equilibrati possano considerare seria, in modo da limitare il suo isolamento.
Purtroppo oggi Israele non può contare su un leader o su un esecutivo capace di simili sottigliezze diplomatiche. Non resta che sperare che gli israeliani se ne rendano conto prima che questo Governo precipiti ancora di più lo Stato ebraico nell´isolamento, trascinandosi dietro l´America.
Traduzione di Fabio Galimberti

l’Unità 20.9.11
Bersani «Urgenti norme per bilanci certificati, codici etici e garantire la partecipazione»
Violante: oggi più che ai tempi di Tangentopoli bisogna reagire alla delegittimazione
Trasparenza dei partiti
La sfida Pd: subito la legge
Il leader Pd contro le «correnti terziste» e il Pdl che non è un partito: «C’è un padrone». E ricorda il Gran consiglio del fascismo che decretò la caduta di Mussolini. «Oggi non siamo neppure lì».
di Simone Coillini


Il plebiscitarismo di Berlusconi, certo, e il populismo leghista, ma poi c’è da fare i conti anche col terzismo di chi va avanti dando un colpo a destra e uno a sinistra, il conformismo di chi ha ruoli di direzione e di orientamento nella società, per non parlare dell’antipolitica che invade le piazze, quelle vere e quelle virtuali. Nel Pd nessuno si fa illusioni: già ora è difficile, ma anche quando finalmente questo governo andrà a casa, il lavoro per l’unico partito che si chiama Partito e che si chiama Democratico sarà ancora tutto da svolgere.
Non a caso in queste ore convulse sul piano politico, giudiziario ed economico, i vertici del Pd si sono chiusi per una giornata in una sala convegni di Montecitorio per discutere di una questione all’apparenza assai lontana dalla stretta attualità: «I partiti e lo spirito della Costituzione». E non a caso Pier Luigi Bersani ha chiesto ai suoi parlamentari di farsi promotori di un’iniziativa che porti in tempi rapidi alla discussione di una legge sui partiti che attui i principi costituzionali e che richieda a tutte le forze politiche di dotarsi di bilanci certificati, precisi meccanismi di partecipazione e codici etici, pena l’inammissibilità alla presentazione delle liste elettorali.
A mettere in evidenza il rischio che si corre, tutti, anche una volta superato Berlusconi, è Luciano Violante, che nella relazione d’apertura dei lavori definisce «certamente necessario e non più rinviabile» un cambio di governo, aggiungendo però: «Non dobbiamo cadere nello stesso errore in cui molti di noi caddero ai tempi di tangentopoli quando, accecati dalla possibilità della vittoria, perdemmo di vista la crisi di sistema». Per il responsabile del forum Pd sulla Riforma dello Stato, la fase attuale è anche più grave di quella dei primi anni 90, perché «il processo di delegittimazione colpisce la politica nella sua interezza». L’antipolitica oggi è anche più pericolosa, dice Violante, perché «ha preso le vesti di tendenze autodistruttive del sistema». Per questo una forza come il Pd deve «individuare i vizi veri della politica e proporre credibili e rigorose via d’uscita, ricostruendo un rapporto di fiducia tra cittadini e politica». Infine, un richiamo: «La Costituzione prescrive che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche sono tenuti ad adempierle “con disciplina e onore”. Quello che vale per chiunque ricopra pubbliche funzioni deve valere anche per i partiti politici» e, per quanto riguarda il Pd, «dobbiamo chiedere a noi la medesima correttezza che chiediamo ai nostri avversari». Dotte relazioni sono affidate a Enzo Cheli sulle forme di organizzazione, a Mario Dogliani sulla separazione della politica e dell’economia, a Valerio Onida sul partito e le autonomie territoriali.
Ma se anche nel corso degli inerventi il tema dell’antipolitica è quello che torna con più frequenza, Bersani chiudendo i lavori e prima di salire al Colle per discutere con Napolitano dell’attuale situazione politica chiarisce che il Pd non dovrà fare i conti soltanto con questo fenomeno. Oggi in Italia ci sono infatti anche «correnti terziste» convinte che «dando un colpo a destra e un colpo a sinistra alla fine si aprano le acque come nel Mar Rosso senza bagnarsi troppo». Un’atteggiamento che per il leader del Pd non è meno pericoloso dell’antipolitica, perché tende a sottovalutare il ruolo fondamentale dei partiti: «Attenzione, non è detto che finito Berlusconi ci troveremo in una situazione senza più populismo. Non è detto che la malattia produca la medicina. Quando andrà via la destra ribalterà il tavolo creando un terreno minato. Ci vuole una partecipazione organizzata con meccanismi esigibili di trasparenza, prima del leader devono venire le istituzioni, non basta l’idea del leader carismatico che suona il piffero e tutti dietro».
Anche perché i frutti di questo modello sono sotto gli occhi di tutti. «Ci rendiamo conto del perché siamo finiti in una situazione in cui tutto il mondo chiede le dimissioni di Berlusconi e lui non le dà? Perchè il Pdl non è un partito, c’è un predellino e c’è un padrone. Non siamo in Spagna, dove il partito chiama Zapatero e lo invita a considerare nuove elezioni per il bene del paese. E non siamo neppure dice facendo riferimento alla riunione del ‘43 che provocò la caduta di Benito Mussolini al Gran consiglio del fascismo che si è riunito straordinariamente per dire passiamo la palla al Re».

Corriere della Sera 20.9.11
Sponda moderata o unione a sinistra

Quali alleanze per il Partito democratico
di Paolo Franchi


Ci mancava solo la foto di Vasto, quella che ritrae insieme sorridenti Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e (un po' meno allegro) Pier Luigi Bersani. Davvero sta riprendendo corpo, a sinistra, il fantasma dell'Unione, come teme Walter Veltroni? Oppure ha ragione chi, come Paolo Gentiloni, paventa che a Vasto sia stata posata la prima pietra di una minialleanza di sinistra, votata in partenza alla sconfitta?
Almeno a prima vista, l'Unione, che malamente sorresse tra il 2006 e il 2008 il secondo governo di Romano Prodi, non c'entra molto. Le foto di allora, non ancora ingiallite, ritraggono il più eterogeneo gruppone di protagonisti, comprimari, caratteristi e comparse che si possa immaginare («da Mastella a Bertinotti», si sintetizzava ironici all'epoca); stavolta, di moderati non c'è proprio traccia. E però, quanto a eterogeneità, non scherza nemmeno il trio visto all'opera nella ridente cittadina abruzzese: è altamente probabile, per esempio, che Di Pietro (a modo suo con qualche ragione) non amerebbe affatto sentirsi definire «di sinistra», e che tanto Bersani quanto Vendola avrebbero molte difficoltà a considerarlo tale. In realtà, i raffronti polemici con i fallimenti del passato, si tratti dell'Unione o della «gioiosa macchina da guerra» progressista di Achille Occhetto, aiutano molto poco e, in ogni caso, possono appassionare (si fa per dire) soltanto una platea sempre più ristretta di aficionados. A una platea molto più vasta, non solo e non necessariamente di sinistra, occorre dare risposte chiare e convincenti su altre questioni, di quelle che una volta si sarebbero definite strategiche. E il compito di fornirle spetta, non c'è dubbio, in primo luogo al Pd.
Sarebbe importante, anzi, è decisivo sapere, per cominciare, quali alleanze il Pd considera più indicate non solo per battere Silvio Berlusconi, ma anche, e soprattutto, per governare questo Paese e trarlo fuori dalla tempesta. Per essere più precisi: il segretario Bersani è ancora persuaso che l'unica prospettiva vincente, per oggi e per domani, sia quella dell'intesa tra una sinistra a netta prevalenza riformista e una parte, la più grande possibile, dell'Italia moderata (Francesco Cossiga avrebbe detto: del centro-sinistra, con il trattino), o si è venuto anche lui convincendo che al centro c'è poco o nulla da fare? Giureremmo, nonostante Silvio Berlusconi faccia di tutto e di più per propagandare le ragioni dell'antiberlusconismo senza aggettivi, che il segretario del Pd non ha cambiato idea. Ma, se è così, ci sarebbe bisogno che questa idea venisse confermata e argomentata, e che per affermarla in primo luogo a sinistra, dove è minoritaria assai più che ai tempi del vecchio Pci, si aprisse quella battaglia politica e culturale che fin qui, colpevolmente, non è stata data: lo stalinista Palmiro Togliatti, si perdoni l'incauta citazione, non invocò Baffone (correva l'anno 1950) ma un nuovo Giolitti, il socialdemocratico Bersani non dovrebbe avere troppi problemi, nel 2011, a invocare subito, e con forza, una stagione di collaborazione e insieme di competizione (seconda citazione incauta) con i moderati. Senza fermarsi per prendere atto che non c'è niente da fare, anche se il tempo stringe drammaticamente, davanti al primo, al secondo o al terzo no di Casini o di chi per lui.
L'obiezione è nota: incamminandosi per questa strada, il segretario del Pd scambierebbe il certo (e cioè i voti di Vendola e di Di Pietro, nonché quelli dei suoi elettori che hanno i centristi in gran dispetto) per l'incerto di un'alleanza con forze la cui consistenza è ancora largamente da verificare, e i cui leader sono peggio che riluttanti all'idea. Ma, a parte il fatto che altre strade per la sinistra riformista non ce ne sono, proprio a questo servono le battaglie politiche: a modificare orientamenti diffusi e all'apparenza immodificabili, a convincere, a guadagnare consensi. E non è scritto nelle stelle che, cercando di costruire le condizioni per un patto di salvezza nazionale con i moderati, il Pd si condannerebbe, con tutte le conseguenze del caso, a tagliare i ponti con Idv e Sel: Di Pietro, poche ore dopo aver additato Casini all'indignazione popolare, ha subito fatto retromarcia invocando il gioco di squadra per battere Berlusconi, Vendola sarà magari una collezione vivente di difetti, ma tutto è fuorché un settario votato alla sconfitta. Un centro-sinistra (con il trattino) che si candidi non solo a vincere, ma a governare in tempi calamitosi, ha bisogno di un centro e di una sinistra più grandi di quanto siano ora. Credibili non perché mettono dei paletti per vietare l'accesso a questo o a quello, ma per le loro leadership e i loro programmi.

il Riformista 20.9.11
Ferrara, dì al Cav la verità
di Emanuele Macaluso

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il Riformista 20.9.11
La pornostar, eletta, come Toni Negri, nelle liste radicali
Cicciolina va in pensione

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l’Unità 20.9.11
Se nel campionato dei maschi brillanti la minaccia è donna
Luisella Costamagna, conduttrice con Luca Telese di In Onda (La7), è stata sostituita senza consenso dal vicedirettore
del Giornale, Porro, nella nuova edizione del programma
di Guia Soncini


È colpa di Mentana. Si è messo a fare il sommario editorialeggiante, quello in cui lega tra loro le notizie del giorno spiegandoti anche come leggerle, trascurando l'avvertenza «Non provate a rifarlo da soli», come sulle immagini di sport pericolosi. Quindi adesso i conduttori di In onda fanno i loro due bravi editorialini iniziali, che dovrebbero farci capire che in quel programma ci siano due punti di vista, come Nicola Porro sia l'Arturo Diaconale del ventunesimo secolo. (Era il 1995 quando, tanto per far rimpiangere Angelo Guglielmi che non ne era più direttore da poco, a Rai3 si provò una di quelle idee buone solo sulla carta: Ad armi pari prevedeva che la destra fosse rappresentata da Diaconale e la sinistra da Renzo Foa. Il programma non è rimasto nella storia della tv).
A Luisella Costamagna sconsiglierei di sottolineare che, con la nuova conduzione, il pubblico si è dimezzato (ad agosto In onda superava agevolmente il sei per cento; sabato, la puntata d'esordio con Nicola Porro non è arrivata al tre): sarebbe facilissimo, per chi l’ha sostituita, cavillare. Il palinsesto estivo, la trasmissione quotidiana, le cavallette. Taccia, l'ex conduttrice, anche su quegli editoriali, che quasi fanno sentire la mancanza dei commenti sui di lei vestiti. Luca Telese, con lei, entrava in studio con una goffaggine che quasi faceva tenerezza, con l’aria di chi si chiede cosa ci faccia, questa signora bionda, nella stanza in cui gli uomini fumano il sigaro e parlano di cose serie, invece di stare di là a ricamare. Entrava in studio e non azzardava editoriali. Si limitava alle battutine. Che lei liquidava con l'aria serena di chi era la più bella della scuola e in più non aveva bisogno di farsi passare il compito; con la grazia che non si può non avere verso chi, dentro, è ancora il bambino paffuto che nessuno invitava alle feste e nessuna voleva baciare.
Poche cose urtano gli ex bambini grassi come la condiscendenza delle belle donne, anzi, solo una: che le belle donne giochino nel loro stesso campionato. Quello degli uomini riconosciuti come brillanti. Quello il cui territorio presidiano ferocemente, con tutta la tigna post-traumatica di chi deve dimostrare troppe cose a troppe persone, di chi non supererà mai i traumi infantili – non importa quanti successi professionali consegua, o quanti adulti lo invitino, da adulto, a giocare con loro.
Quest'estate, quando già smaniava per avere in trasmissione qualcuno a lui più affine (prima di Porro, il ruolo della Costamagna era stato offerto a Filippo Facci: non sarò certo io a dedurne che, al Fatto, Telese passi le giornate a rimpiangere i compagnucci del Giornale), Telese ha rilasciato un'intervista a Diva e donna. L'intervista conteneva molti teneris-
simi tentativi di disegnarsi come il bambino popolare che ha confidenza con il più figo della scuola («Con Mentana abbiamo una frequentazione goliardica, da compagni di banco»), ma la parte sociologicamente più interessante erano i passaggi sulla co-c\onduttrice.
Prima un «Sul mio sito non puoi sapere quanti, nelle ricerche, mettono come parole chiave “Luisella Costamagna cosce”» (tradotto: mica è colpa mia se lei è obiettivamente innanzitutto un paio di cosce); poi, rivelando il proprio dramma di uomo dalla bellezza soprattutto interiore: «Vorrebbe essere riconosciuta come la grande intellettuale della sinistra ma anche che le guardino le tette». La tragedia che unifica il presidente del Consiglio e il conduttore televisivo e finisce in farsa: perché lei è in grado di fare un lavoro d’intelletto, e in più è pure bellissima? Come si permette? È un’ingiustizia cosmica. Allora la mamma mi mentiva, quando diceva che non si poteva avere tutto, che il mio essere bruttino e antipatico era il pegno che dovevo pagare per la mia intelligenza.

l’Unità 20.9.11
La dipendenza da sesso
Luigi Cancrini sisponde a Fabio D.P.


Un sacco di chiacchiere, tanti approfondimenti, ma la verità l'ha già detta Veronica Lario anni fa. Quest'uomo è malato. Qualcuno provveda, anche con un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Fine del discorso.
RISPOSTA Dal sito di Psicolinea.it alla voce Sessuologia, Giuliana Proietti scrive: «Il National Council of Sexual Addiction definisce la dipendenza da sesso come una persistente e crescente modalità di comportamento sessuale messo in atto nonostante il manifestarsi di conseguenze negative per sé e per gli altri. L’individuo percepisce la sessualità come elemento centrale della sua vita (“faccio il premier a tempo perso”, ndr) ed agisce quindi in risposta ad un impulso (sessuale) irrefrenabile. Il legame psicologico con l’oggetto (gli oggetti) di tale impulso assomiglia a quello del bambino che entra in un negozio di caramelle. La sua autostima dipende dal numero delle prede conquistate (“erano in undici me ne sono fatte otto”, ndr) o dal numero di rapporti avuti in una settimana o in una notte più che alla qualità dei rapporti personali e alla rete di relazioni sociali. Per guarire, dovrebbe rendersi conto di avere un problema, sapere di essere vittima di una dipendenza». Un risultato, questo lo aggiungo io, che si ottiene solo con l’aiuto delle persone che gli stanno intorno e gli vogliono bene (se ce ne sono).

«la scoperta impietosa della vera natura del mondo dell’il y a, del c’è, il mondo dell’essere nella sua inumana neutralità, prossimo all’Es giebt di Heidegger»
l’Unità 20.9.11
La libertà nelle prigioni  di Levinàs
Gli appunti del filosofo nel campo di reclusione, a partire dagli anni ‘30 Negli scritti si permette di «evadere» attraverso la metafora: «I prigionieri, sotto l’occhio delle sentinelle, hanno conosciuto una vita più ampia»
di Beppe Savaste


Non è molto agevole parlare in un giornale dell’opera di Emmanuel Lévinas «maestro travestito da filosofo», scrissi, «ebreo travestito da greco», scrisse Jacques Derrida. Fondazione di un’etica che ha aperto e ecceduto la filosofia verso l’esperienza dell’altro, degli altri, in una tensione trascendentale che ne fa in realtà un im»menso trattato dell’ospitalità, inanellando sinonimi vertiginosi come Dio, l'Infinito e il Volto del prossimo.
Se è auspicabile che chi si occupa di cose pubbliche e di beni comuni ne facesse l'esperienza, sappiamo quanto oggi il pensiero, perfino il linguaggio non orientato a uno scopo immediato, non godano di buona fama, o siano addirittura visti con sospetto. Forse per questo, paradossalmente, un buon viatico all’opera di Lévinas è proprio la raccolta dei suoi scritti di prigionia fino a oggi inediti, l’umile laboratorio delle idee di uno dei più grandi maestri del Novecento. In questi cahiers de captivité, «quaderni di prigionia», scritti a partire dalla fine degli anni ’30 in uno stalag, campo di prigionieri militari (ma gli appunti continuano fino al 1961), si trovano le basi dell’opera futura di Lévinas che culminerà in Totalità e infinito (1961) e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974).
IL MONDO INFRANTO
Il lettore e il discepolo di Lévinas vi trova l'emozione di autentiche scoperte. Prima di tutto il fatto che, dieci anni dopo il suo primo libro dedicato alla fenomenologia di Husserl e Heidegger, Lévinas desse pari dignità nei suoi appunti alla critica letteraria e alla filosofia. Nel campo di prigionia legge Dante, Ariosto, Proust, Edgar Allan Poe, Leon Bloy, e addirittura si progetta romanziere. Triste opulenza, poi ribattezzato Eros, è uno dei romanzi abbozzati in quel periodo, suscettibile di illuminare le sue idee filosofiche: come la descrizione del «mondo infranto», che prima ancora della prigionia dice la disfatta di fronte all’hitlerismo della Francia e dell’Europa; mondo della «caduta dei drappi», delle istituzioni, che è la caduta stessa della realtà. Ma è anche la scoperta impietosa della vera natura del mondo dell’il y a, del c’è, il mondo dell’essere nella sua inumana neutralità, prossimo all’Es giebt di Heidegger: «Le cose si decompongono, perdono il loro senso: le foreste divengono alberi tutto ciò che nella letteratura francese voleva dire foresta scompare (...) Ma non voglio parlare della fine delle illusioni; piuttosto della fine del senso (il senso stesso come illusione)». L’avversione per Heidegger, detto per inciso, precede l’adesione al nazismo di quest’ultimo.
Altra scoperta di questi appunti, forse la più emozionante per chi scrive, è quella della fecondità del linguaggio, del suo potere di significare al di là di quanto dice, e del miracolo della «metafora», che Lévinas preferisce al «concetto»: meraviglia per la potenza della parola ordinaria che per suo tramite si innalza fino a lambire tendere, indicare, significare il Divino, l’Infinito, che per Lévinas è (anche) sempre metafora dell’altro, del prossimo, della relazione sociale.
LA SORPRESA
Meraviglia che condividiamo, leggendolo, per il potere rivelativo del linguaggio, assistendo alla genesi dell'inconfondibile e iperbolico stile della sua opera, che nasce nella scrittura. L’esaltazione della potenza polifonica delle parole ordinarie («il più abita il meno»), della loro trascendenza (trans, attraversamento, e scando, risalita), salda in una sorta di etica del sublime-umile il piano del linguaggio e quello della relazione e della condizione umana.
Infine, è nella prigionia che Lévinas scopre l’ebraismo, come condizione elettiva (pur essendo un prigioniero militare francese, Lévinas era raggruppato con altri israeliti). Paradosso di un uomo che combatté in difesa della lingua francese e scoprì la lingua ebraica, cui si dedicherà all’indomani della Liberazione seguendo i corsi di Chouchani, base dei suoi celebri «scritti talmudici».
Vorrei illustrare l'ultimo punto, che in realtà sarebbe il primo: la scoperta, grazie alla prigionia, di quella nuova soggettività che trova l’infinito nel finito.
È la prigionia (certo non paragonabile a quella dei campi di sterminio, ma pur sempre un’esperienza della sospensione del senso) che permette a Lévinas una singolare evasione, simile a quella affermata qualche anno prima in un'opera filosofica anti-heideggeriana dal titolo appunto Dell’evasione: «Si tratta di uscire dall'essere per una nuova via al rischio di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni sembrano le più evidenti». Ed ecco allora la più scandalosa e commovente delle «scoperte».
Nel 1945 Lévinas scrive retrospettivamente della miseria della prigionia, della «monotonia delle recinzioni di filo spinato», delle «mattinate piene di bruma in cui ci si muove per andare a lavorare».
Eppure, continua, i prigionieri, «per paradossale che possa sembrare, nella recintata distesa dei campi hanno conosciuto un’estensione di vita più ampia e, sotto l’occhio delle sentinelle, una libertà insospettata. Non sono stati dei borghesi, ed è qui la loro vera avventura, il loro vero romanticismo». «Il prigioniero, come un credente, viveva nell’al di là. Non ha mai preso sul serio la stretta cornice della sua vita», «si sentiva impegnato in un gioco che oltrepassava infinitamente questo mondo di apparenze», «mangiava fissando gli oceani e il vento delle steppe russe cullava il suo sonno».
Scandalosamente, Lévinas descrive «una privazione che ha restituito il senso dell’essenziale»: «La mano sacrilega del sorvegliante poteva sfogliare finanche le lettere e come penetrare nell’intimità dei ricordi. Ma abbiamo scoperto che non se ne moriva.
Abbiamo imparato la differenza tra avere e essere. Abbiamo imparato quanto poco spazio e quante poche cose occorrano per vivere. Abbiamo imparato la libertà».

il Fatto 20.9.11
Ritorno al passato
Papa Ratzinger riaccoglie i seguaci di Lefebvre che accusano ancora gli ebrei di deicidio
di Marco Politi


Il Concilio diventa un optional. Ai seguaci di Lefebvre, feroci negatori del Vaticano II, papa Ratzinger concede di non sottoscrivere un’accettazione solenne dei testi conciliari. Dopo un biennio di negoziati con il movimento lefebvriano il Sant’Uffizio ha trovato un’ambigua formula di riconciliazione.
I rappresentanti del movimento scismatico Lefebvre potranno sottoscrivere un documento in cui dei grandi testi innovativi del Concilio non si parla per niente. Basterà che mettano la firma sotto un “preambolo dottrinale” che indica l’assenso – cui sono tenuti i fedeli cattolici – alla Rivelazione, ai dogmi della Chiesa e al “magistero” del pontefice e del collegio dei vescovi (cioè genericamente le encicliche e i documenti conciliari). Il preambolo chiarisce peraltro che nei tre livelli il grado di assenso è differente. Il Papa nemico del relativismo concede dunque ai nemici dichiarati delle riforme conciliari la relativizzazione del Vaticano II.
Il preambolo dottrinale, consegnato il 14 settembre dal cardinale Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, al superiore della Fraternità lefebvriana, monsignor Fellay, non è stato reso pubblico. I lefebvriani hanno un paio di mesi per decidere di firmarlo. In cambio saranno premiati: potranno diventare un’organizzazione autonoma con un proprio vescovo. Come l’O-pus Dei. Benedetto XVI ama le procedure segrete. Segreti sono stati gli incontri con i lefebvriani, segrete le trattative per accogliere nella Chiesa i fuoriusciti della Chiesa anglicana.
È come se Ratzinger per principio volesse escludere l’opinione pubblica cattolica e lo stesso episcopato mondiale dal partecipare al dibattito sui temi più delicati della vita della Chiesa. La riconciliazione con i negatori del Concilio lefebvriani o il modo con cui avverrà non sono di scarso interesse. Toccano il modo di essere della Chiesa nel XXI secolo. Riguardano i fedeli cattolici, ma anche ebrei, esponenti delle altre religioni e non credenti. Perché la svolta conciliare sancì nel triennio 1962-1965 la riforma liturgica, il principio della libertà di coscienza e di religione, l’archiviazione del concetto di popolo ebraico deicida e la rivalutazione dell’ebraismo.
Il Concilio inaugurò il dialogo ecumenico tra i cattolici e le altre Chiese cristiane, affermò che musulmani, ebrei e cristiani adorano l’unico stesso Dio di Abramo, riconobbe “frammenti di verità” nelle grandi tradizioni religiose dell’Asia. È esattamente ciò contro cui sistematicamente si sono scagliati per decenni i seguaci del vescovo francese Marcel Lefebvre, partecipante al Concilio e poi diventato fautore di una Chiesa parallela al punto di essere scomunicato da Giovanni Paolo II. In questo spirito di odio alle novità del Concilio si sono formati preti, vescovi e seminaristi della Fraternità Pio X. Benedetto XVI dall’inizio del suo pontificato si è prefisso l’obiettivo di “fare la pace” con i lefebvriani.
Per questo ha liberalizzato la messa preconciliare. Per questo, suscitando enormi proteste nel mondo cattolico, ha levato la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani nel gennaio 2009 (fra di loro, il prelato negazionista Williamson).
Ma la maggioranza dell’episcopato e specificatamente il collegio cardinalizio si sono sempre espressi nel senso che i lefebvriani per rientrare nella Chiesa cattolica dovessero accettare lealmente il Vaticano II. Il 4 febbraio 2009 una nota della Segreteria di Stato voluta dal cardinale Bertone assicurò che la Fraternità Pio X sarebbe stata riconosciuta dalla Chiesa solo a condizione indispensabile di un “pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II e del magistero dei papi Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI”.
DI QUESTO esplicito “pieno riconoscimento” nel preambolo elaborato dal San-t’Uffizio per riaccogliere i lefebvriani non c’è traccia. Il compromesso escogitato ricalca la formula della “Professione di fede”, cui devono sottostare dal 1989 vescovi e teologi. Ma vescovi e teologi nella vita quotidiana non provengono da movimenti costituitisi proprio per negare il Vaticano II. Sta qui l’ambiguità del “documento di pacificazione”. Sta qui il sapore di parziale svendita dell’evento fondamentale della Chiesa cattolica nell’era contemporanea. Il documento menziona il Vaticano II, interpretandolo nell’“ermeneutica della continuità” cara a papa Ratzinger, e lascia ai lefebvriani libertà di “legittima discussione” e lo “studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e del magistero successivo”. Che il Concilio diventasse un self service per volontà di un pontefice nessuno poteva immaginarlo.

Repubblica 20.9.11
Ecco la macchina che "legge" il funzionamento cerebrale anche nei pazienti che non possono più comunicare Inventata dal neuroscienziato Giulio Tononi, viene presentata oggi al convegno "The Future of Science" a Venezia
Coscienza senza segreti così potremo misurarla
La scoperta potrebbe essere utilizzata anche in tema di testamento biologico
di Carlo Brambilla


Un "coscienziometro". Uno strumento capace di misurare i diversi livelli della coscienza umana. Una sorta di "macchina della verità" in grado di stabilire, anche in pazienti che non possono più comunicare, il funzionamento cerebrale superiore. Non tanto la capacità di reagire a singoli stimoli fisici, ma la possibilità di pensare in modo complesso. Una scoperta che potrebbe rivoluzionare le teorie sul funzionamento del cervello e avere anche un utilizzo in tema di testamento biologico.
È la nuova frontiera della neuropsichiatria che verrà presentata oggi a Venezia al convegno internazionale "The Future of Science" promosso dalla Fondazione Veronesi, dedicato quest´anno alla mente. A illustrarla sarà il suo scopritore, il neuroscienziato trentino Giulio Tononi, che da vent´anni vive a lavora negli Stati Uniti, dove è attualmente docente di Psichiatria a Madison, nel Wisconsin.
Più della macchina è importante la teoria sviluppata da Tononi per spiegare cos´è la coscienza, quella che ha definito "teoria dell´informazione integrata". «La coscienza è quella cosa che sparisce ogni notte quando ci addormentiamo di un sonno senza sogni - spiega Tononi. Tutti sappiamo cosa vuol dire. Se veniamo svegliati in quella fase non ricordiamo niente di particolare. Una cosa diversa è il sonno nella fase Rem, quando si sogna, quando una forma di coscienza è attiva».
Secondo Tononi la coscienza avrebbe sede nella corteccia cerebrale. E si dovrebbe a una complicatissima serie di relazioni tra i neuroni: non sarebbe tanto la quantità di informazioni possedute dal cervello a determinare la coscienza, quanto la capacità di integrare tra loro le diverse informazioni. Una capacità che può essere misurata utilizzando la stimolazione transcranica magnetica (Tms).
«Il "coscienziometro", come lo abbiamo soprannominato, in collaborazione con Marcello Massimini, docente di neurofisiologia all´Università Statale di Milano, non è altro che una macchina che genera un campo magnetico capace di generare a sua volta un campo elettrico nel cervello», spiega Tononi.
Alla testa del paziente viene avvicinata, in modo non invasivo, una sorta di farfalla di plastica a forma di otto che determina una piccola corrente, completamente indolore, nel cervello. La corrente attiva una parte di corteccia cerebrale. È come andare a bussare al cervello. Grazie a un elettroencefalogramma con 64 elettrodi, capaci di registrare ogni reazione, si vede come risponde a quello stimolo. Se il cervello risponde con una singola entità, ma con tanti stati diversi allora il paziente è cosciente. Se invece quando bussiamo si frammenta in tanti pezzi indipendenti, senza integrazione, il paziente non è cosciente.
Misurando la capacità di integrazione delle informazioni cerebrali il "coscienziometro" è in grado di determinare il grado di coscienza. Che può essere vicino a zero, come nel sonno senza sogni o sotto anestesia farmacologica, o in casi di coma, oppure più elevata, in altre fasi del sonno, o nei casi di torpore.
Tononi non vuole entrare nel merito della eventuale prognosi del paziente. Ma, senza dubbio, i neurologi potranno avere uno strumento in più nelle loro mani per fare diagnosi nei casi più difficili. Ma quale parte del cervello è necessaria per sviluppare il pensiero? «Dagli studi sulle lesioni e sulle stimolazioni ci siamo persuasi che, per esempio, l´attività di alcune regioni cerebrali, come la corteccia e il talamo sia più importante dell´attività di altre regioni - spiega Tononi. Mentre il cervelletto non avrebbe un ruolo importante nella coscienza».
Il cervello resta una giungla in gran parte inesplorata, che pesa circa 1300 grammi, ma contiene cento miliardi di cellule nervose. La corteccia cerebrale, da sola, ha un milione di miliardi connessioni, le sinapsi. «Se contassimo una sinapsi al secondo - ricorda Tononi - finiremmo il nostro conteggio fra 32 milioni di anni».
l’Unità 21.9.11
Il leader palestinese al Palazzo di Vetro non chiude ad una intesa in extremis con Israele
Abu Mazen apre uno spiraglio: «Pronto a incontrare Netanyahu»
«Sono pronto a incontrare qualsiasi rappresentante di Israele in qualsiasi momento, ma se non c’è nulla di tangibile sarebbe inutile». Così il leader dell’Anp impegnato a New York nella «missione della mia vita»
di Umberto De Giovannangeli


«Sono pronto a incontrare qualsiasi rappresentante di Israele in qualsiasi momento, ma se non c'è nulla di tangibile sarebbe inutile». Parola di Mahmud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità nazionale palestinese. A 48 ore dal suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il leader dell’Anp dice alla rete televisiva americana Fox News di essere disposto a incontrare il premier israeliano Benyamin Netanyahu a New York in margine all'Assemblea generale dell’Onu. «Sono pronto a parlare con qualsiasi rappresentante di Israele in qualsiasi momento», sottolinea Abu Mazen alla Fox. «Certo ha poi aggiunto se non c'è niente di concreto sarebbe inutile». Alla vigilia della sua partenza per New York, l’altro ieri sera Netanyahu aveva fatto diffondere un comunicato in cui chiede al presidente palestinese di incontrarlo per poter riaprire un «negoziato diretto» in terra americana e poi portarlo avanti a Gerusalemme e Ramallah.
STRETTA DIPLOMATICA
Abu Mazen intende ottenere una decisione del Consiglio di sicurezza sulla domanda di riconoscimento dello Stato palestinese che presenterà venerdì all'Onu, prima di prevedere «altre opzioni», spiega uno dei negoziatori dell’Anp, Nabil Shaath. «Il presidente ha detto: “vogliamo una decisione del Consiglio di sicurezza. Dopo, tutte le opzioni sono aperte”», aggiunge Shaath, membro della delegazione palestinese impegnata in questi giorni al Palazzo di Vetro. Rivolgendosi autonomamente all'Onu, ribatte Mark Regev, portavoce di Netanyahu i palestinesi violano «nello spirito e nella lettera» gli accordi fra le parti (ossia le intese di Oslo del 1993), poichè «cercano di imporre una soluzione attraverso un diktat internazionale». Un atteggiamento a cui Israele si riserva il diritto di rispondere «con diverse opzioni», stando al monito del portavoce, che su questo punto è rimasto tuttavia volutamente evasivo: evitando toni o scenari da ultima spiaggia. palestinesi, ha quindi proseguito Regev, «non possono separare la questione del loro stato da quella della pace». Nè pretendere un riconoscimento prima di negoziare con Israele gli elementi centrali del contenzioso: i confini, i profughi, Gerusalemme, le misure di sicurezza. Da parte palestinese, ha accusato il portavoce, «sembra però che vi sia una strategia deliberata di evitare i negoziati con Israele». Riferendosi infine agli sforzi intrapresi dalla comunità internazionale per trovare «una formula» in grado di riportare l'Anp al tavolo della trattativa, Regev ha detto che Israele «ne è parte». E ha aggiunto di «sperare ancora» che queste iniziative possano evitare che la leadership palestinese si attesti su posizioni rigide da cui sarebbe «virtualmente impossibile retrocedere».
Alla vigilia del voto il leader dell’Anp, che ieri ha incontrato il presidente francese, Nicolas Sarkozy, continua il suo pressing diplomatico: secondo la stampa israeliana ha già ottenuto l'appoggio di sei, forse sette Paesi dei 15 che siedono in Consiglio di Sicurezza; e sta ora cercando di ottenere l'adesione di Gabon, Nigeria e Bosnia-Erzegovina: raggiungerebbero a quel punto l'ambito bottino di 9, forse 10 Stati, che non assicurerebbe ai palestinesi il «via libera» (gli Usa hanno il diritto di veto e hanno promesso di utilizzarlo, se necessario), ma che rappresenterebbe comunque una vittoria morale. Secondo il ministro degli Esteri, dell’Anp, Riad al-Malki, il Gabon sarebbe ormai convinto a votare per i palestinesi e rimangono dunque ancora incerti solo gli altri due Paesi. Per essere approvata dal Consiglio di Sicurezza, ogni decisione necessità di 9 voti affermativi e che nessuno dei membri permanenti apponga il diritto di veto.
Al momento sono tre gli Stati che si sono nettamente schierati contro: Usa, Germania e Colombia. Francia e Germania rimangono incerti. Il Portogallo, finora presentato come un indeciso, si sarebbe adesso convinto, secondo fonti israeliane, a votare con i palestinesi. Intanto Israele e gli Usa lavorano freneticamente per bloccare le ambizioni palestinesi e premono sui Paesi ancora indecisi (Nigeria, Bosnia-Erzegovina e Gabon, appunto). Gli Usa vogliono risparmiarsi il diritto di veto, che metterebbe in grave imbarazzo l’amministrazione Obama.

l’Unità 21.9.11
L’Italia dica sì alla richiesta dei palestinesi
di Roberto Gualtieri e Antonio Panzeri, parlamentari europei


Su l'Unità di lunedì Lapo Pistelli, dopo aver correttamente affermato che «ci sono tutte le ragioni per dire sì» alla richiesta palestinese di riconoscimento da parte delle Nazioni Unite, suggerisce al Governo di astenersi. Ci sembra una posizione discutibile e contraddittoria e vorremmo spiegare perché.
Come è noto, l'Autorità Palestinese ha deciso di sottoporre all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite la richiesta di conferimento dello status di “Stato non membro”, analogo a quello della Città del Vaticano. Non si tratta quindi della piena membership, che dovrebbe ottenere il via libera del Consiglio di Sicurezza, ma di un sostanziale upgrading dello status di osservatore che i palestinesi (per la precisione l'Olp) già hanno, attraverso il passaggio dal concetto di “entita'' a quello di “Stato”.
Per il successo dell'iniziativa non occorrono i due terzi dei voti ma è sufficiente la maggioranza semplice, che sarà agevolmente raggiunta indipendentemente dal comportamento degli europei. Sul New York Times della settimana scorsa, due personalità non certo accusabili di ostilità nei confronti di Israele, come l'ex Presidente finlandese e premio Nobel per la pace Martti Ahtisaari e l'ex segretario generale della Nato e Alto Rappresentante dell'Ue Javier Solana, hanno illustrato con chiarezza le ragioni che dovrebbero indurre i paesi dell'Ue a esprimere un voto favorevole. Un sì, che oltre ad essere coerente con il forte sostegno politico dell'Ue alla soluzione “due popoli e due stati”, darebbe forza alla richiesta di una ripresa dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi, attualmente bloccati a causa della decisione israeliana di proseguire la politica di espansione delle colonie nei territori occupati.
A tali argomenti, che si riconnettono all'esigenza di offrire una risposta adeguata alla “primavera araba” evitando l'accusa di avere due pesi e due misure, vorremmo aggiungerne altri due. In primo luogo, l'acquisizione dello status di “stato non membro”, che determina un formale riconoscimento dello Stato di Israele all'interno dei confini del 1967, archiviando definitivamente e irreversibilmente l'argomento della sua illegittimità e di quella delle acquisizioni territoriali ottenute con la prima guerra arabo-israeliana del 1948-49.
Non è un caso che Hamas, ben consapevole di tale implicazione, abbia espresso la sua contrarietà all'iniziativa di Abu Mazen. In secondo luogo, non va sottovalutata l'originalità e la novità di una campagna che, a differenza delle precedenti “Intifada”, si colloca integralmente sul terreno della non-violenza, del diritto e del dialogo con la comunità internazionale.
Di tale dialogo l'Unione europea deve essere protagonista, anche per “coprire” in qualche modo la comprensibile difficoltà degli Stati Uniti ad assumere una posizione netta alle Nazioni Unite ed evitare un pericoloso isolamento della “comunità” euroatlantica su una linea antipalestinese.
Infine, non va dimenticato che i palestinesi non hanno ancora presentato il loro testo, e che, pur nell'ambito di una strategia generale che ormai appare chiara e che non vedrà passi indietro (arrivare a un voto in Assemblea generale, evitando invece quello in Consiglio di Sicurezza sulla piena membership) vi sono ancora numerose opzioni aperte, a cominciare da un'eventuale rinuncia, magari condizionata alla ripresa dei negoziati, alla facoltà che i palestinesi acquisirebbero con il nuovo status di appellarsi al Tribunale penale internazionale.
Più che prefigurare astensioni in un voto non ancora calendarizzato su un documento non ancora presentato, ci piacerebbe, dunque, che il Pd invitasse il governo a contribuire agli sforzi dell'Alto Rappresentante Ashton per definire una posizione unitaria (o largamente maggioritaria) dell'Ue, capace di sostenere l'iniziativa di Abu Mazen rendendola al tempo stesso il più possibile coerente con l'opzione di una rapida ripresa dei negoziati.
E sarebbe utile che il suo responsabile esteri esprimesse il sostegno alle legittime aspirazioni dei palestinesi (e all'altrettanto legittimo interesse di Israele alla propria sicurezza) in modo inequivoco e coerente con le migliori tradizioni della politica estera italiana e con i valori di riferimento del Partito Democratico.
*Europarlamentari Pd

il Fatto e The Independent 21.9.11
Lo stato di Palestina non nascerà per colpa di Obama
Il presidente tiene più alla rielezione che alla giustizia
di Robert Fisk


Beirut. Questa settimana non nascerà lo stato della Palestina, ma i palestinesi avranno dimostrato – sempre che ottengano in seno all’Assemblea dell’Onu la maggioranza dei voti – che meritano un loro Stato. Insomma, d’ora innanzi israeliani e americani non potranno più schioccare le dita e aspettarsi che gli arabi scattino sull’attenti. Gli Stati Uniti hanno perso l’appuntamento con la storia: “processo di pace”, “road map”, “accordo di Oslo”, tutta roba ammuffita e finita in soffitta.
 Sono del parere che oggi quello della “Palestina” sia un sogno di difficile realizzazione. Troppo territorio è stato sottratto dai coloni israeliani. Se non mi credete, andate a dare uno sguardo in Cisgiordania. È piena di insediamenti israeliani, di norme che vietano ai palestinesi di costruire case di più di un piano, di “cordoni sanitari”. La rete stradale riservata ai coloni israeliani ha trasformato la Cisgiordania nel parabrezza infranto di un’auto incidentata. Solo l’ostinazione dei palestinesi ha impedita lo nascita della “Grande Israele”.
 Comunque sia il voto all’Onu dividerà l’Occidente – gli americani dagli europei – e dividerà gli arabi dagli americani. Porterà alla luce le divisioni esistenti in seno all’Ue: tra europei occidentali ed europei orientali, tra Germania e Francia e, ovviamente, tra Israele e Europa.
 Decenni di potere, di brutalità militare e di colonizzazione da parte di Israele hanno generato una enorme sensazione di rabbia. Milioni di europei, pur consapevoli della loro responsabilità storica per l’Olocausto degli ebrei e della violenza delle nazioni musulmane, non temono più di criticare Israele per paura di essere accusati di antisemitismo. Esiste in Occidente – e temo che esisterà sempre – un radicato razzismo contro musulmani e africani e contro gli ebrei. Cos’altro sarebbero, se non una espressione di razzismo, anche gli insediamenti israeliani in Cisgiordania?
 Ovviamente la stessa Israele subisce le conseguenze di questa tragedia. Il suo governo estremista ha condotto la popolazione su una strada senza uscita. Basti ricordare lo sciocco timore dell’instaurarsi della democrazia in Tunisia ed Egitto – e non è un caso che a pensarla come Israele sia rimasta la sola Arabia Saudita – e il crudele rifiuto di chiedere scusa per l’uccisione dei nove turchi l’anno passato e per l’uccisione, di recente, di cinque poliziotti egiziani.
 IN MENO di dodici mesi Israele ha perso i due soli alleati nella regione: la Turchia e l’Egitto. Il governo israeliano è composto di ministri intelligenti e moderati quali Ehud Barak e di estremisti come il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, l’Ahmadinejad della politica israeliana. Sarcasmo a parte, Israele merita di meglio.
 Si può discutere sull’opportunità di dare vita allo Stato di Israele – ne è una prova la diaspora palestinese – ma non v’è dubbio che la nascita dello Stato di Israele fu legale e legittima. E i padri fondatori furono perfettamente in grado dopo la guerra del 1948-’49 di trovare con re Abdullah di Giordania un accordo che prevedeva la divisione della Palestina tra ebrei e arabi. Ma il destino della Palestina era stato deciso dall’Onu il 29 novembre 1947 quando venne riconosciuta la legittimità di Israele e oggi – ironia del destino – è proprio Israele che fa di tutto, con l’appoggio degli Usa, per impedire all’Onu di riconoscere la legittimità di uno Stato palestinese. Israele ha il diritto ad esistere? Una domanda che in realtà è una trappola, regolarmente e stupidamente tirata fuori dai cosiddetti sostenitori di Israele. Sono gli Stati a riconoscere agli altri Stati il diritto di esistere. L’anomalia è che nemmeno Israele si avventura a dire chiaramente dove si colloca la sua frontiera orientale. Lungo la vecchia linea dell’armistizio indicata dall’Onu? Lungo il confine del 1967 così amato da Abu Mazen e odiato da Netanyahu? Di Israele fa parte tutta la Cisgiordania o ne fanno parte solo gli insediamenti? In sostanza una nazione esiste all’interno di confini certi e accettati.
 DELLA CARTA del Regno Unito fanno parte la Scozia, il Galles, l’Inghilterra e l’Irlanda del Nord. Se mi facessero vedere una carta del Regno Unito che includesse le 26 contee dell’Irlanda indipendente e nella quale Dublino venisse indicata come città britannica e non irlandese, direi che quella nazione, con quelle frontiere non ha il diritto di esistere. Per questa ragione quasi tutte le ambasciate occidentali in Israele hanno la loro sede a Tel Aviv e non a Gerusalemme.
 Nel nuovo Medio Oriente, nel bel mezzo del “Risveglio arabo” e delle rivolte per la libertà e la dignità, questo voto dell’Onu rappresenta non solo un’altra pagina della storia, ma anche il fallimento dell’impero. La politica estera americana e i membri del Congresso degli Stati Uniti sono diventati così succubi degli interessi israeliani che questa settimana l’America non ci appare come il Paese di Woodrow Wilson con i suoi 14 principi di auto-determinazione, come il Paese che ha combattuto il nazismo, il fascismo e il militarismo giapponese, non ci sembra il faro della libertà, ma una nazione “avara”, spaventata, egoista il cui presidente, dopo tante belle parole di apprezzamento per il mondo arabo, si vede costretto a sostenere le ragioni di una potenza occupante contro il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato.
 DOBBIAMO dire “povero Obama” come abbiamo fatto in passato? Non credo. Dopo la vuota retorica dei bei discorsi al Cairo e ad Istanbul a pochi mesi dal suo insediamento alla Casa Bianca, questa settimana Obama si appresta a dimostrarci che la sua rielezione è più importante del futuro del Medio Oriente, che la sua personale ambizione conta più delle sofferenze di un popolo occupato. Questa settimana gli Stati Uniti sacrificheranno sull’altare delle ragioni del governo israeliano la loro influenza politica in Medio Oriente. Un bel sacrificio nel nome della libertà.
 © The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 21.9.11
Cina, sgambetto agli Usa “Sì allo Stato palestinese”
Washington in difficoltà. Il Quartetto: congeliamo il riconoscimento e trattiamo
di Maurizio Molinari


Pechino fa lo sgambetto a Washington nella battaglia alle Nazioni Unite sul riconoscimento dello Stato palestinese mentre il Quartetto lavora ad una formula di compromesso per scongiurare la crisi e rilanciare i negoziati in Medio Oriente. E questa mattina Barack Obama vedrà Abu Mazen e Benjamin Netanyahu.
Il passo cinese è arrivato con una dichiarazione del portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei, che ha espresso «comprensione, rispetto e sostegno» per la richiesta dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di «diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite» recapitando all’amministrazione Obama la richiesta di «non ostacolarla adoperando il veto al Consiglio di Sicurezza». Per Pechino si tratta di «ripristinare i legittimi diritti etnici palestinesi ed arabi» al fine di «garantire una pacifica coesistenza fra palestinesi e Israele in Medio Oriente». L’irritazione dei diplomatici americani era palpabile, ieri mattina nel quartier generale del Waldorf Astoria, perché si tratta di un passo compiuto in coincidenza con l’arrivo di Barack Obama a New York, teso a cercare un compromesso attraverso consultazioni con tutte le parti. Alcune fonti diplomatiche, chiedendo l’anonimato, hanno parlato di «intervento a gamba tesa» da parte dei cinesi, lamentando il rischio di «spingere l’Anp sulla linea dura nel momento in cui si sta tentando di salvare il negoziato in Medio Oriente».
Per comprendere l’entità della trattativa in corso bisogna ascoltare i diplomatici europei che affiancano Lady Ashton, Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, che ipotizzano un «congelamento» della richiesta di riconoscimento palestinese da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu subito dopo la formale presentazione, che il presidente Abu Mazen farà venerdì. Il «congelamento» da parte del comitato delle ammissioni consentirebbe, poche ore dopo o nella giornata di sabato, la presentazione da parte del Quartetto di una formale proposta di ripresa del negoziato sulla quale Anp e Israele stanno lentamente convergendo. Il testo prevede, secondo indiscrezioni, la ripresa dei negoziati diretti entro poche settimane, il raggiungimento di un’intesa sui confini entro una massimo di sei mesi, frontiere «basate» su quelle del giugno 1967 «con concordati scambi di territori» e «garanzie di sicurezza» per Israele dopo il ritiro dalla Cisgiordania. Il fatto che il Quartetto (Ue, Onu, Usa e Russia) stia convergendo su questa posizione, tenendo aggiornati Anp e Israele, prospetta una possibile via d’uscita alla crisi ma «la situazione resta fluida», assicura un diplomatico coinvolto nei negoziati, e ciò spiega le mosse delle opposte parti. Nabil Shaath, consigliere di Abu Mazen, ribadisce che «la scelta di presentare la richiesta di adesione è stata fatta e avverrà venerdì nonostante i rischi che comporta e le minacce subite» mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu, in volo per New York, ammette di «aspettarsi una situazione difficile all’Onu» promettendo di «dire la verità su come stanno le cose in Medio Oriente».
Netanyahu ribadisce di essere «pronto alla ripresa dei negoziati» e il Segretario di Stato Hillary Clinton lo sostiene perché «è l’unica strada attraverso la quale i palestinesi possono arrivare ad avere un loro Stato» come previsto dagli accordi di Oslo del 1993. Anche il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, lascia intendere di credere nell’iniziativa del Quartetto auspicando «una ripresa dei negoziati in un quadro bilanciato fra le due parti».
Ma poiché la trattativa può fallire, Anp e Netanyahu si preparano ad affrontare la gara dei voti. Il primo match sarà al Consiglio di Sicurezza e il presidente israeliano Shimon Peres ha telefonato ai colleghi di Gabon, Nigeria e Bosnia - che ne sono membri - per chiedere di contro il riconoscimento dello Stato palestinese, al fine di far mancare il quorum di 9 voti favorevoliche obbligherebbe Washington a mettere il veto. Abu Mazen, ieri, al termine dell’incontro con il presidente franceseSarkozy, ha ribadito che in caso di bocciatura al Consiglio di Sicurezza la contromossa sarebbe andare al voto in Assemblea Generale. Ma il passaggio che potrebbe essere decisivo nella giornata di oggi sono i due incontri che il presidente americano avrà con il leader di Anp e Israele.

il più importante scrittore palestinese: Murid Barghouti
Corriere della Sera 21.9.11
«Lo Stato palestinese? Per noi profughi è un tradimento»
Lo scrittore Barghouti: Abu Mazen sbaglia
intervista di Cecilia Zecchinelli


«Abu Mazen lo chiami pure Stato, perfino impero se preferisce: anche se avrà il sì dell'Assemblea generale dell'Onu e parlerà di trionfo, quella resterà un'entità sotto occupazione, cantoni isolati tra loro, senza sovranità né un'economia. Non cambierà niente, anzi sarà un passo indietro».
È il più importante scrittore palestinese a parlare: Murid Barghouti, 67 anni, poeta e autore del celebrato romanzo Ho visto Ramallah, racconto del breve ritorno nel suo villaggio dopo 30 anni di un esilio che dura ancora tra Il Cairo e Amman. Un libro chiave per capire la ghurba, l'estraniamento di milioni di palestinesi lontani dalla loro patria. «Saremo noi, gli esiliati, i rifugiati, quelli che vivono in Israele i grandi perdenti della mossa di una leadership che non è nostra».
Perché parla di perdenti?
«Con il seggio all'Onu dello "Stato" perderemo quasi di certo quello di osservatore permanente dell'Olp, rappresentante di tutti i palestinesi, non solo in Cisgiordania e Gaza, l'unico organismo titolato a discutere di autodeterminazione, confini, rifugiati mentre l'Autorità palestinese è solo un'entità amministrativa. La si chiami pure "Stato" non potrà far niente sul diritto al ritorno, gli insediamenti, perfino Abu Mazen per muoversi dovrà sempre avere il permesso degli israeliani. E l'Anp non è stata eletta, il suo consiglio legislativo non esiste nemmeno più, molti membri sono in carcere. Invece di quell'inutile voto, l'Anp dovrebbe disdire gli accordi di Oslo, ascoltare la gente, indire nuove elezioni di tutti i palestinesi, anche quelli in esilio, non solo dei "suoi"».
Ma nemmeno nell'Olp nessuno crede più.
«È vero, Arafat l'aveva già ucciso: l'ultima volta che il suo consiglio nazionale si riunì fu nel 1996 a Gaza per cambiare lo statuto dopo Oslo. Ma Abu Mazen ora lo sta seppellendo, non capisce che quel voto finirà come tutte le risoluzioni dell'Onu: calpestato dagli stivali militari degli israeliani».
Eppure in Occidente molti pensano che il voto servirà almeno a sbloccare la lunghissima impasse.
«L'Occidente s'illude: lasciare a negoziare occupante e occupato non ha senso. Dovrebbe muoversi invece come fece contro l'apartheid in Sudafrica. Anche quei pochi israeliani che dicono di volere una soluzione giusta appena il loro governo è in difficoltà l'appoggiano, non come in Sudafrica dove molti scrittori bianchi si iscrissero perfino all'Anc di Mandela. Israele è ben più potente dei leader sudafricani d'allora, anche se oggi è indebolita dalla perdita di alleati come Egitto e Turchia. Ma certo non ci si può arrendere ai poteri ingiusti. Pure l'Europa ne ha subiti poi sono caduti».
Israele dice di sentirsi minacciata, teme nuove Intifada, gli estremisti islamici.
«La nostra lotta non è mai stata religiosa, è contro i carri armati in giardino e nella stanza da letto, Islam e antisemitismo non c'entrano. La gente vuole giustizia e pace. E non credo in un'altra Intifada, i palestinesi hanno poche aspettative dal voto all'Onu. Piuttosto sono ottimista che il vento della primavera araba arrivi fin qui. I diseredati, gli oppressi, la gente "normale" ha alzato la testa, vinto la paura. E i giovani sono diversi: il nostro amore per la Palestina con gli anni è diventato amore per l'idea della Palestina. La nuova generazione vive invece nella realtà».

l’Unità 21.9.11
La protesta del sindaco «Abbandonati dal governo, ora le gente si difenderà con i manganelli»
Immigrati in fuga La struttura è praticamente inagibile, centinaia costretti a dormire all’aperto
Tunisini in rivolta a Lampedusa In fiamme il centro di accoglienza
Le fiamme, molto probabilmente appiccate dagli stessi ospiti della struttura, hanno completamente distrutto un padiglione e seriamente danneggiato un secondo. «Ignorati tutti i nostri segnali d’allarme».
di Manuela Modica


Il cielo sopra la terra è malfermo. Si accende di rosso prima, e si rabbuia di fumo, poi. Riflette la vivibilità del Cpsa di Lampedusa. Dove ieri pomeriggio è scoppiato un incendio che ha incenerito uno dei 5 plessi interni e gravemente danneggiato un altro. Non ci sarebbero feriti, ma alcune persone sarebbero rimaste intossicati dal fumo che, spinto dal maestrale, ha raggiunto il centro cittadino. Anche l’aeroporto dell’isola è stato chiuso per la scarsa visibilità.
Le prime ricostruzioni di quel che è accaduto ipotizzano che siano stati i tunisini là dentro ad appiccarlo, in protesta per i rimpatri. Così il fuoco dei migranti avrebbe fatto esplodere il Centro di accoglienza di Contrada Imbriacola, e rotto le catene della reclusione. Dalla terra ferma e rinchiusa del centro, è stata una fuga generale per salvare la vita, in 800, poi rintracciati facilmente (sono 1200 i migranti in questo momento presenti sull’isola). Questo è successo ieri, solo pochi giorni dopo la visita del Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che rassicurava tutti: «Le condizioni di vita lì sono buone». Tanto buone che gli operatori di Save the Children avevano nei giorni scorsi denunciato «la tensione all’interno del Cpsa – spiega la portavoce sull’isola, Flore Murard Abbiamo anche chiesto il trasferimento delle famiglie con minori da 0 a 7 anni, che per fortuna abbiamo ottenuto prima dell’incendio. Si trovavano, infatti, in uno dei due plessi andati a fuoco. Quando si sono alzate le fiamme, invece, c’erano 10 minori che stiamo cercando di rintracciare».
I migranti ora si trovano in altri punti dell’isola: una parte al campo di calcio, un’altra al molo Favoloro. Come all’inizio di quest’ultima ondata migratoria verso l’Europa, quando a gennaio furono costretti a dormire al molo, all’addiaccio. Otto mesi dopo si ritorna all’aperto. Un centinaio, invece, sono stati fatti rientrare al Cpsa, dove però manca la luce.
IL SINDACO EVOCA LA GUERRA
E il sindaco Dino De Rubeis, intanto, soffia sul fuoco: «È capitato quello che avevano previsto, inascoltati dal governo nazionale. Lampedusa li ha accolti e loro hanno commesso un danno gravissimo al territorio. Adesso tocca al governo: faccia venire subito le forze dell'ordine, porti qui le navi militari affinché sgomberino l'isola, perché questo è uno scenario di guerra. C’è una popolazione che non sopporta più, vuole scendere in piazza con i manganelli, perché vuole difendersi da sola, in quanto chi doveva tutelarla non l'ha fatto». Di tutt’altro tono le parole del capogruppo del Pd al consiglio comunale, Giuseppe Palmeri: «Questo nuovo incendio (un altro incendio era stato provocato anche nel 2009, ndr) dimostra che il governo nazionale ha trasformato l’isola di Lampedusa in un carnaio di esseri umani tipo le carceri di Guantanamo o di Alcatraz come se Lampedusa non fosse Italia. Non si spiega diversamente il fatto che negli ultimi giorni sull’isola sono stati inviati circa un migliaio fra militari e forze dell’ordine, qualcuno forse si aspettava che la situazione potesse precipitare».
«Siamo amareggiati commenta la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiatu (Unhcr), Laura Boldrini, è frutto della crescente tensione dovuta al trattenimento prolungato dei migranti all'interno della struttura. Adesso è urgente trovare una sistemazione adeguata per i 1.200 migranti che sono rimasti senza un riparo. Inoltre, siamo preoccupati per il futuro poiché l'isola si troverà sprovvista di una struttura di accoglienza per coloro che arriveranno via mare». Duro, invece, Sergio D’Antoni, responsabile delle politiche territoriali del Pd: «Lampedusa non ha mai smesso di essere trattata dall’esecutivo alla stregua di una colonia penale portando cittadinanza e migranti all’esasperazione ed esponendo civili e le forze dell’ordine a rischi del tutto inaccettabili».

l’Unità 21.9.11
Le primavere arabe approdano a Salina
Documentari da tutto il Medioriente per raccontare i giorni della rivolta È il tema centrale del Festival in corso nell’isola siciliana fino al 25 settembre Un ponte per unire i giovani precari di Tunisi con quelli di Palermo...
di Gabriella Gallozzi


All’improvviso un ritorno di coscienza ha pervaso il paese producendo una determinazione e un coraggio inaspettati, che hanno fatto scappare un dittatore con le mani sporche. Questo slancio è infatti una meravigliosa lezione di umanità e di creatività che bisognerebbe promuovere in tutto il pianeta. Un intero popolo ha riscoperto uno dei suoi valori fondamentali, la dignità, e si colloca ormai sulla carta della modernità». Parole del cineasta e poeta tunisino Hichem Ben Ammar. Parole che racchiudono il senso di un festival che, giunto alla sua quinta edizione, non ha mai perso di vista la realtà con le sue tensioni e trasformazioni sociali. Stiamo parlando, infatti, di SalinaDocFestival, la rassegna del documentario narrativo, diretto da Giovanna Taviani che, in corso nell’isola delle Eolie fino al 25 settembre, ospiterà da oggi proprio Ben Ammar, protagonista tra gli altri della «primavera araba», tema centrale di questa edizione.
«I fatti che stanno sconvolgendo i paesi arabi in questo inizio 2011 si legge nel sito del festival chiedono al nostro paese di aprire gli occhi su quel che accade al di là dei nostri confini e di lavorare su un orizzonte comune che possa finalmente unire la riva sud e la riva nord del Mediterraneo, i giovani precari di Tunisi con quelli di Palermo, i figli della rivoluzione di Bengasi con quelli del Cairo, senza dimenticare le donne del Maghreb che hanno fatto scoccare la scintilla della primavera araba».
Questo l’obiettivo del festival. E del tanto cinema che tutto questo vuole documentare. A partire proprio da quello di Ben Ammar che, in 53 anni vissuti in pieno regime di Ben Alì, non ha mai smesso di sfidare il potere raccontando la realtà della Tunisia. Come in O Capitaine del mers tra i titoli in rassegna dedicato ad intere generazioni di pescatori. «A lui spiega Giovanna Taviani dobbiamo la scoperta di alcuni giovani filmakers tunisini, come Omrani Rafik, che hanno documentato in diretta i giorni della rivoluzione e verranno sull’isola a mostrarci in anteprima i loro filmati, spesso realizzati in corsa con l’aiuto delle nuove tecnologie digitali, in uno spazio che vogliamo immaginare come spazio comune di riflessione sullo stato e il destino di quella che è stata e sarà la nuova primavera araba».
Egitto, Palestina, Marocco, Iraq. I giorni della rivolta, ma anche i drammi sociali vissuti dalla popolazione, esplodono sugli schermi del SalinaDocFest.
Dal Cairo (in Living Skin di Fawzi Saleh) arriva la denuncia sull’infanzia violata: ragazzini poveri, affamati e senza casa costretti ad abbandonare la scuola per lavorare in condizioni allucinanti. La rivolta di piazza Tahrir, poi, raccontata attraverso l’esperienza degli stessi protagonisti (Tahrir di Stefano Savona), giovani arrivati al Cairo da ogni capo dell’Egitto.
L’iraq ancora. Uno dei grandi protagonisti della rassegna con l’omaggio a Mohamed Al-Daradji presente a Salina -, uno fra i più giovani e promettenti cineasti iracheni. Tra i suoi lavori è atteso il recente Iraq: War, Love, God & Madness, «resoconto durissimo dell’odissea personale del regista e dei suoi collaboratori durante la lavorazione a Baghdad del suo film d’esordio, Ahlaam, dove la vita della troupe, catapultata al centro di una zona di guerra “a bassa tensione”, segnata dagli attacchi terroristici e dall’occupazione delle truppe americane, è messa continuamente a repentaglio».
Ancora nel concorso internazionale, spiccano Women of Hamas di Suha Arraf, racconto-confronto di quattro donne palestinesi militanti di Hamas che vivono nella striscia di Gaza. E sempre dalla Palestina (My name is Ahlam di Rima Essa) arriva pure la storia al femminile di una madre della West Bank che si deve battere per far curare adeguatamente la figlia malata di leucemia. Il tema dell’omosessualità, poi, che si scontra con la religione è affrontato in Wild Sky di Rachid B.: coraggioso autoritratto al capezzale di un padre morente a cui confessare il suo viaggio esistenziale, dal Marocco a Parigi.
Un lungo percorso attraverso il Medioriente, insomma, quello del SalinaDoc. Che quest’anno ha deciso di aprire anche alla musica: dopodomani farà tappa sull’isola Vinicio Capossela, col suo tour di lancio del nuovo Marinai, profeti e balene. In tema, evidentemente, col festival.

Repubblica 21.9.11
Lo strano silenzio della Chiesa
di Barbara Spinelli


Il sostegno che i vertici della Chiesa continuano a dare a Berlusconi è non solo uno scandalo, ma sta sfiorando l´incomprensibile.
Che altro deve fare il capo di governo, perché i custodi del cattolicesimo dicano la nuda parola: «Ora basta»? Qualcosa succede nel loro animo quando leggono le telefonate di un Premier che traffica favori, nomine, affari, con canaglie e strozzini? Non sono sufficienti le accuse di aver prostituito minorenni, di svilire la carica dimenticando la disciplina e l´onore cui la Costituzione obbliga gli uomini di Stato? Non basta il plauso a Dell´Utri, quando questi chiamò eroe un mafioso, Vittorio Mangano? Cosa occorre ancora alla Chiesa, perché si erga e proclami che questa persona, proprio perché imperterrita si millanta cristiana, è pietra di scandalo e arreca danno immenso ai fedeli, e allo Stato democratico unitario che tanti laici cattolici hanno contribuito a costruire?
Un tempo si usava la scomunica: neanche molto tempo fa, nel ´49, fu scomunicato il comunismo (il fascismo no, eppure gli italiani soffrirono il secondo, non il primo). Se Berlusconi non è uomo di buona volontà, e tutto fa supporre che non lo sia, la Chiesa usi il verbo. Ha a suo fianco la lettera di Paolo ai Corinzi: «Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!».
Anche l´omissione è complicità. Sta accadendo l´intollerabile dal punto di vista morale, in politica, e i vertici della Chiesa tacciono: dunque consentono. Si può scegliere l´afonia, certo, o il grido inarticolato di disgusto: sono moti umani, ma che bisogno c´è allora di essere papa o vescovo? (avete visto, in Vaticano, Habemus Papam?). Dicono che parole inequivocabili son state dette: «desertificazione valoriale», «società dei forti e dei furbi», «cultura della seduzione». Ma sono analisi: manca la sintesi, e le analisi stesse son fiacche. D´un sol fiato vengono condannati gli eccessi dei magistrati, pareggiando ignominiosamente le condanne. Da troppo tempo questo è, per tanti laici cattolici scandalizzati ma non uditi, incomprensibile. Quasi che il ritardo nella presa di coscienza fosse ormai connaturato nella Chiesa. Quasi che l´espiazione (penso ai mea culpa di Giovanni Paolo II, nobili ma pur sempre tardivi) fosse più pura e santa che semplicemente non fare il male: qui, nell´ora che ci si spalanca davanti.
Un gesto simile a quello di Cristo nel tempio, un no inconfondibile, allontanerebbe Berlusconi dal potere in un attimo. Alcuni veramente prezzolati resterebbero nel clan. Ma la maggior parte non potrebbero mangiare insieme a lui, senza doversi ogni minuto giustificare. Non è necessario che l´espulsione sia resa subito pubblica, anche se lo sapete, uomini di Chiesa: c´è un contagio, del male e del malaffare. Forse basterebbe che un alto prelato vada da Berlusconi, minacci l´arma ultima, la renda nota a tutti. Questa è l´ora della parresia, del parlar chiaro: la raccomanda il Vangelo, nelle ore cruciali.
Sarebbe un´interferenza non promettente per il futuro, lo so. Ma l´interferenza è una prassi non disdegnata in Vaticano, e poi non dimentichiamolo: già l´Italia è governata da podestà stranieri in questa crisi (Mario Monti l´ha scritto sul Corriere: «Le decisioni principali sono prese da un «governo tecnico sopranazionale»), e Berlusconi d´altronde vuole che sia così per non assumersi responsabilità.
Resta che gli alleati europei possono poco. E una maggioranza che destituisca Berlusconi ancora non c´è in Parlamento. Lo stesso Napolitano può poco, ma la sua calma è d´aiuto, nel mezzo del fragore di chi teme chissà quali marasmi quando il Premier cadrà. Il marasma postberlusconiano è fantasia cupa e furba, piace a chi Berlusconi ce l´ha ormai nelle vene. Il marasma, quello vero, è Berlusconi che non governa la crisi ma si occupa di come evitare i propri processi: tanti processi, sì, perché di tanti reati è sospettato. L´Italia è un battello ebbro, il capitano è un simulacro. Non ci sono congiure di magistrati, per indebolire la carica. Il trono è già vuoto. Il pubblico ministero, organo dello Stato che rappresenta l´interesse pubblico, deve per legge esercitare l´azione penale, ogni qualvolta abbia notizia di un reato, e in molte indagini Berlusconi è centrale: come corruttore o vittima-complice di ricatti. Gli italiani non possono permettersi un timoniere così. Se sono economicamente declassati, la colpa è essenzialmente sua.
Berlusconi non farà passi indietro, gli oppositori si ridicolizzano implorandolo senza mai cambiare copione. Oppure vuole qualcosa in cambio, e anche questo sarebbe vituperio dell´Italia. Il salvacondotto proposto da Buttiglione oltraggia la Costituzione. Casini lo ha smentito: «Sarebbe tecnicamente e giuridicamente impossibile perché siamo in uno Stato di diritto».
Perché la Chiesa non dice basta? Si dice «impressionata» dalle cifre dell´evasione fiscale, ma la vecchia domanda di Prodi resta intatta: «Perché, quando vado a messa, questo tema non è mai toccato nelle omelie? Eppure ha una forte carica etica» (Famiglia cristiana, 5-8-07). E come si spiega tanta indulgenza verso Berlusconi, mentre Prodi fu accusato di voler essere cristiano adulto? Pare che sia la paura, ad attanagliare i vertici ecclesiastici: paura di perdere esenzioni fiscali, sovvenzioni. Berlusconi garantisce tutto questo ma da mercante, e mercanti sono quelli che con lui mercanteggiano, di quelli che Cristo cacciò dal tempio rovesciandone i banchi. E siete proprio sicuri di perdere privilegi? Tra gli oppositori vi sono persone a sufficienza, purtroppo, che non ve li toglieranno. Paura di un cristianesimo che in Italia sarebbe saldamente ancorato a destra? Non è vero. Non posso credere che lo spauracchio agitato da Berlusconi (un regime ateo-comunista)abbia ancora presa. Oppure sì? Penso che la Chiesa sia alle prese con la terza e più grande tentazione. Alcuni la chiamano satanica, perché di essa narra il Vangelo, quando enumera le prove cui Cristo fu sottoposto: la prova della ricchezza, del regno sui mondi: «Tutte queste cose ti darò, se prostrandoti mi adorerai». La Chiesa sa la replica di Gesù.
Il Papa ha detto cose importanti sulla crisi. Che agli uomini vengon date pietre al posto del pane (Ancona, 11 settembre). La soluzione spetta a politici che arginino i mercati con la loro autorevolezza. Non saranno mai autorevoli, se ignorano la quintessenza della decenza umana che è il Decalogo. Ma neanche la Chiesa lo sarà. Diceva Ilario di Poitiers all´imperatore Costanzo, nel IV secolo dC: «Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l´anima con il denaro».

Repubblica 21.9.11
I fondamentalisti dell’economia
di Zygmunt Bauman


All´epoca dell´Illuminismo, di Bacone, Cartesio o Hegel, in nessun luogo della terra il livello di vita era più che doppio rispetto a quello delle aree più povere. Oggi il paese più ricco, il Qatar, vanta un reddito pro capite 428 volte maggiore di quello del paese più povero, lo Zimbabwe. E si tratta, non dimentichiamolo, di paragoni tra valori medi, che ricordano la proverbiale statistica dei due polli.
Il tenace persistere della povertà su un pianeta travagliato dal fondamentalismo della crescita economica è più che sufficiente a costringere le persone ragionevoli a fare una pausa di riflessione sulle vittime collaterali dell´«andamento delle operazioni».
L´abisso sempre più profondo che separa chi è povero e senza prospettive dal mondo opulento, ottimista e rumoroso – un abisso già oggi superabile solo dagli arrampicatori più energici e privi di scrupoli – è un´altra evidente ragione di grande preoccupazione. Come avvertono gli autori dell´articolo citato, se l´armamentario sempre più raro, scarso e inaccessibile che occorre per sopravvivere e condurre una vita accettabile diverrà oggetto di uno scontro all´ultimo sangue tra chi ne è abbondantemente provvisto e gli indigenti abbandonati a se stessi, la principale vittima della crescente disuguaglianza sarà la democrazia. Ma c´è anche un´altra ragione di allarme, non meno grave. I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; del resto, arricchirsi è un valore tanto desiderato solo in quanto aiuta a migliorare la qualità della vita, e «migliorare la vita» (o almeno renderla un po´ meno insoddisfacente) significa, nel gergo degli adepti della chiesa della crescita economica, ormai diffusa su tutto il pianeta, «consumare di più». I seguaci di questo credo fondamentalista sono convinti che tutte le strade della redenzione, della salvezza, della grazia divina e secolare e della felicità (sia immediata che eterna) passino per i negozi. E più si riempiono gli scaffali dei negozi che attendono di essere svuotati dai cercatori di felicità, più si svuota la Terra, l´unico contenitore/produttore delle risorse (materie prime ed energia) che occorrono per riempire nuovamente i negozi: una verità confermata e ribadita quotidianamente dalla scienza, ma (secondo uno studio recente) recisamente negata nel 53 per cento degli spazi dedicati al tema della «sostenibilità» dalla stampa americana, e trascurata o taciuta negli altri casi.
Quello che viene ignorato, in questo silenzio assordante che ottenebra e deresponsabilizza, è l´avvertimento lanciato due anni fa da Tim Jackson nel libro Prosperità senza crescita: entro la fine di questo secolo «i nostri figli e nipoti dovranno sopravvivere in un ambiente dal clima ostile e povero di risorse, tra distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazioni di massa e inevitabili guerre». Il nostro consumo, alimentato dal debito e alacremente istigato/ assistito/amplificato dalle autorità costituite, «è insostenibile dal punto di vista ecologico, problematico da quello sociale e instabile da quello economico». Un´altra delle osservazioni raggelanti di Jackson è che in uno scenario sociale come il nostro, in cui un quinto della popolazione mondiale gode del 74 per cento del reddito annuale di tutto il pianeta, mentre il quinto più povero del mondo deve accontentarsi del 2 per cento, la diffusa tendenza a giustificare le devastazioni provocate dalle politiche di sviluppo economico richiamandosi alla nobile esigenza di superare la povertà non è altro che un atto di ipocrisia e un´offesa alla ragione: e anche questa osservazione è stata pressoché universalmente ignorata dai canali d´informazione più popolari (ed efficaci), o nel migliore dei casi è stata relegata alle pagine, e fasce orarie, notoriamente dedicate a ospitare e dare spazio a voci abituate e rassegnate a predicare nel deserto.
Già nel 1990, una ventina d´anni prima del volume di Jackson, in Governare i beni collettivi Elinor Ostrom aveva avvertito che la convinzione propagandata senza sosta secondo cui le persone sono naturalmente portate a ricercare profitti di breve termine e ad agire in base al principio «ognun per sé e Dio per tutti»non regge alla prova dei fatti. La conclusione dello studio di Ostrom sulle imprese locali che operano su piccola scala è molto diversa: nell´ambito di una comunità le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto. È tempo di chiedersi: quelle forme di «vita in comunità» che la maggior parte di noi conosce unicamente attraverso le ricerche etnografiche sulle poche nicchie oggi rimaste da epoche passate, «superate e arretrate», sono davvero qualco-sa di irrevocabilmente concluso? O, forse, sta per emergere la verità di una visione alternativa della storia (e con essa di una concezione alternativa del "progresso"): che cioè la rincorsa alla felicità è solo un episodio, e non un balzo in avanti irreversibile e irrevocabile, ed è stata/è/si rivelerà, sul piano pratico, una semplice deviazione una tantum, intrinsecamente e inevitabilmente temporanea?
(Questo brano è un estratto  dalla nuova prefazione  di Bauman alla nuova edizione di Modernità liquidità in uscita per Laterza

l’Unità 21.9.11
Classi insicure in tutta Italia. E soltanto il 41% degli istituti dispone del certificato di agibilità
Cittadinanzattiva: nell’89% degli immobili servono interventi ordinari, nel 31% straordinari
Inagibilità scolastica: nove edifici su dieci hanno bisogno di cure


Ci vorrebbero 13 miliardi per intervenire (solo nelle aree sismiche) ma i soldi non ci sono. E così passano in secondo piano l’assenza di porte anti-panico, pavimenti sconnessi, finestre rotte, persiane e tapparelle inesistenti.
«Che nessun genitore debba più piangere i suoi figli», così si era detto Antonio Morelli, dopo il crollo della scuola di San Giuliano di Puglia, 31 ottobre 2002. «Da allora, nulla è stato fatto perché quello che è accaduto ai nostri figli non si ripeta nel resto d’Italia», recita la sua denuncia amara, nove anni dopo. «Avremmo dovuto imparare da San Giuliano: e invece sette anni dopo, a L’Aquila altri ragazzi sono finiti sotto le macerie», gli fa eco Carlo Fonzi, abruzzese, che di mestiere fa il preside, mentre scorre le immagini della Casa dello studente sbriciolata. «La scuola che dirigo attualmente si salvò, perché più periferica», racconta. Questione di fortuna, in un certo senso. Perché l’istituto magistrale Collecchi, come la maggior parte degli altri edifici scolastici abruzzesi, non aveva neppure il certificato che ne garantisse l’agibilità statica. Quello arrivò postumo. «Ma ancora oggi mancano il certificato anti-incendi e quello igienico-sanitario», denuncia.
Voci dalla scuola che frana. E cire, non meno drammatiche, quelle raccolte da Cittadinanzattiva nel suo IX Rapporto sulla Sicurezza degli edifici scolastici. Illustrato alla presenza anche del capo della protezione civile Franco Gabrielli, già prefetto de L’Aquila. Il 42% delle scuole italiane si trova in una zona sismica. E ancora oggi, solo il 41% possiede quel maledetto certificato di agibilità. Su 88 edifici scolastici esaminati a campione lungo tutta la penisola, dalla Sicilia alla Lombardia, ben diciassette presentano lesioni strutturali. Mentre i distacchi di intonaco sono ancora più diffusi. Presenti nel 18% delle aule scolastiche. Quelle in cui gli studenti vengono stipati anche in più di 30. Che secondo Cittadinanzattiva sono l’l’1,7 ogni cento e non lo 0,6% come dice il ministro, che comunque, tradotto in cifre vuol dire: 66mila alunni stipati in 2220 classi pollaio. Pavimenti sconnessi (nel 21% dei casi), finestre rotte (33%), banchi e sedie rotte (rispettivamente nel 13% e nel 18% dei casi), tapparelle o persiane che non esistono (56%).
In sintesi: nell’89% delle scuole ci sarebbe bisogno di interventi ordinari. Mentre nel 31% di interventi straordinari. Eppure quando la scuola chiede che siano effettuati anche con urgenza, una volta su tre, non ottiene risposta. E il problema non è solo l’agibilità statica. L’88% delle aule non ha porte anti-panico. Il certificato anti-incendio, ce l’ha poco più di una scuola su 4 (28%). Quello igienico-sanitario è assente nel 60% dei casi. Un dato drammatico, che il Rapporto non riesce a rilevare, riguarda la presenza di amianto. C’è però un rapporto riservato del ministero dell’Istruzione, citato da Cittadinanzattiva, che fa venire i brividi: l’amianto, sarebbe ancora presente in 2.400 scuole. Una stima che purtroppo, potrebbe essere sbagliata per difetto. Visto che il 44% delle scuole è stato costruito tra il 1961 ed il 1980: «Anni in cui osserva Cittadinanzattiva si faceva massiccio utilizzo dell’amianto».
E lo stato che fa? Ci vorrebbero 13 miliardi solo per intervenire nelle aree sismiche.
Ma il sottosegretario Mantovani suggerisce che è meglio «non demoralizzarsi» più di tanto: «Il ministro Gelmini è riuscito a strappare dalle unghie di Tremonti, un miliardo di fondi Fas», sorride, snocciolando le cifre di quello che lui considera un successo. Ossia di quel miliardo, appena 161milioni sono stati ad oggi impegnati per interventi in 1588 istituti. Mancano all’appello altre 200 scuole e altri 197 milioni della prima tranche da 358 milioni, sbloccata dal Cipe a maggio 2010. La seconda tranche da 400milioni è ancora sub judice. E sarà oggetto domani di un primo confronto tra Stato e Regioni.
«Non vedo cosa ci sia da essere soddisfatti», osserva la deputata Pd Rosa De Pasquale, che presenterà una interrogazione per conoscere come siano stati spesi quei soldi. Mentre la senatrice Pd Mariangela Bastico ricorda che gli enti locali hanno le mani legate dal Patto di stabilità, che non risparmia neppure questa voce di spesa. E un osservatorio permanente per sapere che fine fanno i soldi destinati all’edilizia scolastica è ciò che chiede anche Cittadinanzattiva. Insieme all’anagrafe degli edifici, non ancora ufficializzata dal ministero.

il Riformista 21.9.11
Radicali: «Sull’amnistia noi non trattiamo»
Oggi seduta straordinaria al Senato, Bonino: «Convocata solo altre due volte in sessant’anni»
di La. Lan.

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il Riformista 21.9.11
Il negazionismo naviga nella Rete
Fb vuole cancellare Anna Frank
di Cinzia Leone

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Repubblica 21.9.11
Se le neuroscienze non danno la felicità
I dati sulla fiducia accordata dall´opinione pubblica agli studi sul cervello
Quando si parla di sentimenti gli italiani cercano risposte filosofiche o psicologiche
di Massimiano Bucchi


conoscere i meccanismi del cervello ci aiuterà a risolvere alcune delle sfide del nostro tempo, dalla lotta alle malattie fino alla comprensione dei fondamenti che guidano le nostre passioni e i nostri gusti? La domanda ormai non interessa più solo gli specialisti. Le neuroscienze sono infatti sempre più al centro dell´attenzione popolare: dai mezzi d´informazione, visto che i nuovi sviluppi sono spesso riportati con grande enfasi, alle fiction, dove compaiono frequentemente come supporto investigativo o soluzione per sanare le ferite d´amore, come per Jim Carrey nel film Se mi lasci ti cancello.
Ma qual è la percezione che il pubblico ha davvero di questi temi? Quali sono le aspettative verso gli studi neuroscientifici? Quale rilevanza gli attribuiamo, anche rispetto ad altri ambiti interpretativi e culturali?
I risultati, in questo senso, sono abbastanza chiari. Le neuroscienze suscitano grandi aspettative soprattutto sul piano terapeutico ma questo non si traduce in un ruolo significativo sul piano filosofico. Questa forte ambivalenza è messa in luce dai nuovi dati dell´Osservatorio Scienza Tecnologia e Società, presentati in questi giorni in anteprima a Venezia al Convegno The Future of Science organizzato dalla Fondazione Veronesi.
Da un lato infatti emergono ampie aspettative nei confronti delle neuroscienze, soprattutto per le loro implicazione pratiche: il 71,6% degli italiani confida che possano offrire la cura per patologie come il Parkinson o l´Alzheimer. Oltre due su tre sono anche convinti che con queste ricerche si possa comprendere lo sviluppo del linguaggio umano.
Queste aspettative divengono addirittura più elevate man mano che crescono il livello di istruzione, il cosiddetto ‘alfabetismo scientifico´ e il grado di esposizione a contenuti scientifici nei media. Oltre tre quarti dei soggetti più istruiti e competenti sul piano scientifico riconoscono il potenziale delle neuroscienze nella lotta alle patologie neurodegenerative; tra i più assidui consumatori di informazione scientifica, quasi il 90% le considera in grado di chiarire i meccanismi che governano facoltà umane quali il linguaggio.
D´altra parte, la maggioranza del pubblico ascrive alle neuroscienze un campo d´azione molto circoscritto, soprattutto quando lo si mette a confronto con quello di altri ambiti di riflessione e interpretazione.
Solo un italiano su cinque pensa che esse possano occuparsi in modo significativo di dipendenze comportamentali come alcolismo e tossicodipendenza. L´attribuzione di competenza diminuisce ulteriormente se si passa ad aspetti quali la tristezza e l´infelicità, l´innamoramento e gli affetti, la coscienza. Su questi temi il ruolo delle neuroscienze appare, in termini di percezione pubblica, molto limitato rispetto a quello di ambiti quali la psicologia, che molti indicano come punto di riferimento privilegiato su tutte le suddette questioni. Il ruolo della psicologia appare egemone tra gli intervistati di sesso femminile: sei donne su dieci attribuiscono una ‘competenza dominante´ alla psicologia su temi come tristezza e infelicità o innamoramento e affettività. Il dominio della psicologia si ridimensiona allorché la riflessione investe questioni come coscienza e (soprattutto) spiritualità, ma ciò avviene principalmente a beneficio di filosofia e religione.
Su entrambe le questioni, infatti, la rilevanza che il pubblico attribuisce alle neuroscienze resta marginale: meno del 5% degli intervistati vede nella ricerca neuroscientifica una possibilità sostanziale di indagare il tema della spiritualità. E anche alla filosofia è riconosciuto un ruolo più rilevante delle neuroscienze nella riflessione su coscienza, innamoramento e affettività.
Lo sguardo delle diverse fasce di pubblico verso le neuroscienze non è omogeneo, né scontato. Se infatti le aspettative più concrete verso le neuroscienze crescono all´aumentare di istruzione, alfabetismo scientifico ed esposizione alla scienza nei media, l´attribuzione di competenza prioritaria alle neuroscienze non solo non aumenta, ma in certi casi diminuisce proprio tra i più istruiti e competenti: al livello più elevato di alfabetismo scientifico, quasi il 60% non vede nelle neuroscienze un interlocutore primario per nessuna delle questioni proposte.
In altre parole, la percezione pubblica delle neuroscienze vive - forse in modo particolarmente marcato e persino emblematico - un dualismo che è abbastanza tipico dell´immagine pubblica della scienza, soprattutto nel nostro Paese. A notevoli aspettative sul piano pratico non corrisponde un effettivo orientamento a considerarle un punto di riferimento in grado di affrontare le grandi questioni della nostra vita dando risposte rilevanti. Più in generale, e a dispetto di uno stereotipo largamente diffuso: non è la cultura scientifica che manca, ma un senso della scienza come parte integrante della cultura.
(I dati dell´indagine sono stati raccolti su un campione di 1001 casi, rappresentativo della popolazione italiana)

Repubblica 21.9.11
La morale tecnologica
Libertà e diritti brevi istruzioni per l´uomo che verrà
di Stefano Rodotà


Bisogna stabilire confini diversi da quelli del corpo inviolabile e della normalità naturale
Si sta delineando un ordine sociale della tecnica che rivendica una propria autonomia
In un mondo in cui le macchine influenzano la nostra vita è necessario ripensare l’antropologia e i confini dell´etica

Che cosa è oggi la disumanizzazione, quel congedo dall´umano il cui timore ricorre nei mille titoli di una letteratura che analizza le derive verso questo esito fatale? Il futuro prende le forme di un corpo innervato e trasformato dalle tecnologie, annuncia il cyborg, lascia intravedere una inquietante "natura" robotica. La ragione tecnologica prende il sopravvento, l´uomo diviene "antiquato", il diritto viene espropriato della sua "causa finale", la tutela della persona. E proprio il conflitto tra l´immagine dell´uomo espressa dalle costituzioni e il sapere tecnico-scientifico venne precocemente segnalato non da un giurista, ma da Paul Valéry.
Molte voci s´intrecciano. Ascoltiamo quella di Kazuo Ishiguro in Non lasciarmi. «Mentre ti osservavo ballare quel giorno, ho visto qualcos´altro. Ho visto un nuovo mondo che si avvicinava a grandi passi. Più scientifico, più efficiente, certo. Più cure per le vecchie malattie. Splendido. E tuttavia un mondo duro, crudele. Ho visto una ragazzina, con gli occhi chiusi, stringere al petto il vecchio mondo gentile, quello che nel suo cuore sapeva che non sarebbe durato per sempre, e lei lo teneva fra le braccia e implorava che non la abbandonasse». Ritorna il conflitto tra vecchio e nuovo mondo, uno che si tinge con i colori della nostalgia, l´altro portatore di un progresso che sembra voler prendere definitivamente congedo appunto dall´umano.
Come misurare, allora, l´eventuale distacco dall´umano? E questo avviene solo per effetto della tecnologia o vi sono anche altre tecniche che possono determinarlo? Se ricorriamo al criterio di un uomo che diviene "antiquato", non dobbiamo guardare soltanto al futuro e all´innovazione scientifica e tecnologica. Dobbiamo con altrettanta intensità considerare una disumanizzazione determinata dalla qualità dei rapporti sociali. E qui ci si imbatte in un apparente paradosso: l´uomo antiquato non per la sua proiezione nel futuro, ma per il ritorno di un passato che la modernità aveva cancellato. Sembra quasi che il nastro del tempo si riavvolga vertiginosamente all´indietro, riportandoci all´era precedente a quella in cui John Locke affermava la proprietà dell´uomo sul proprio lavoro, risvolto di una sua libertà, pur problematica, nel mondo delle relazioni sociali. Oggi le tecniche riconducibili alla sola logica economica impongono una considerazione del lavoro senza più rapporto con la libertà, pura merce che trascina l´intera persona del lavoratore in una dimensione in cui la sua umanità viene messa in discussione, facendo comparire non un soggetto nella pienezza dei suoi diritti, bensì l´oggetto del potere impersonale del mercato. Ecco le vite precarie, le vite "di scarto". La retribuzione non deve più garantire "una esistenza libera e dignitosa", come vuole l´articolo 36 della nostra Costituzione, ma inclina pericolosamente verso una attenzione per la pura sopravvivenza biologica. La riduzione della persona alla sua biologia la consegna nuda al potere, a qualsiasi potere, negando la sua biografia, vero connotato dell´umano. La persona "costituzionalizzata" scompare, diviene antiquata.
Vi è una relazione con la "macchina" che rende immediatamente evidenti questi segni dei tempi. La macchina alla quale la persona viene collegata per prolungarne la sopravvivenza; la macchina, un computer che il lavoratore deve indossare, che consente all´imprenditore di dirigerlo e controllarlo a distanza. Qui la libertà, e con essa l´umanità, possono scomparire, sopraffatte dalla tecnica. Al morente può essere rifiutato il diritto di "staccare la spina". Il lavoratore è degradato a oggetto.
Desti dall´ipnosi tecnologica, possiamo scorgere un mondo in cui sono diverse le modalità della disumanizzazione. Ma è giusto continuare ad adoperare solo questa parola con la sua evidente carica negativa? O non è più corretto, e aderente alla realtà, parlare di un oltre l´umano, di un post-umano? Una questione di frontiere, dunque, di una soglia varcata la quale si entra in una dimensione diversa. E allora il problema diviene quello di stabilire il criterio con il quale si segna il confine, che non può essere quello di una normalità "naturale", di un corpo inviolabile.
Proprio perché il corpo occupa la scena del mondo, per il congiungersi di fattori culturali, tecnologici e scientifici, cogliamo in esso la tensione che Günther Anders descrisse parlando di un uomo che «si allontana sempre di più da sé stesso, si "trascende" sempre di più». Ma questo "trascendersi" non porta necessariamente verso la perdita dell´umanità. Indica nuovi orizzonti dove, insieme ad una più estesa libertà di scelta, può raggiungersi una pienezza dell´umano che libera pure dai vincoli imposti dalla materialità del corpo. Non a caso il protagonista di Neuromante di William Gibson teme la ricaduta nella "prigione della carne". L´umanità vera si va dislocando dal reale al virtuale?
Non siamo di fronte a tragitti lineari, a separazioni e fratture radicali. Se si guarda a taluni documenti giuridici come la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, si coglie il tentativo di ricomporre una unità non post-umana, ma "post-tecnologica", della persona. Questa ricostruzione esige una integrità del corpo, che riconcili soma e psiche, ed una unità tra persona reale e virtuale, realizzata attraverso una comunanza di strumenti, il consenso informato e il diritto all´autodeterminazione in primo luogo. Ma richiede pure una analisi di problemi nuovi, a cominciare dalla legittimità del ricorso a qualsiasi opportunità resa disponibile dall´innovazione scientifica e tecnologica.
Anche se può dirsi che il corpo si avvia ad essere una macchina "nano-bio-info-neuro", per il concentrarsi su di esso degli strumenti offerti da queste diverse tecnologie, bisogna distinguere tra quello che può contribuire ad un suo potenziamento e quel che rende possibili controlli sempre più intensi; tra le decisioni che si esauriscono nella sfera dell´interessato e quelle che incidono sulla vita degli altri; tra le offerte che ampliano il potere di fare scelte libere e informate e quelle che incidono sulla persona trasformandola in un gadget. E così, mentre si continua giustamente ad insistere sull´acquisita centralità del corpo nelle nostre organizzazioni sociali e nel discorso pubblico, si deve riflettere seriamente anche sul fatto che la costruzione dell´identità delle persone è sempre più intensamente affidata ad algoritmi che ne definiscono i caratteri e ne individuano le dinamiche future. La persona di nuovo consegnata all´astrazione, disincarnata, ridotta a fantasma tecnologico? Si sta delineando un ordine sociale e giuridico delle macchine che rivendica una propria autonomia e che non solo può determinare conflitti con la tradizionale autonomia delle persone, ma produce una nuova antropologia?
Se i problemi sono nuovi, e sconvolgenti, le soluzioni vanno cercate partendo da parole note, e irrinunciabili. La libertà delle scelte, l´eguaglianza tra le persone, il rispetto della dignità di ognuno. Sono queste le garanzie perché l´umano possa sopravvivere, quali che siano le tecniche che l´investono.

Il dibattito sul «personalismo»
l’Unità 21.9.11
Ma come si diventa «persone»?
di Bruno Gravagnuolo


Due grandi temi alla base del rapporto tra sinistra e cultura cattolica. Il dibattito sul «personalismo» (cfr. su l’Unità Manconi e Castagnetti, 16 e 18 settembre). E il «tormentone» dell’alleanza col terzo polo di Casini (erroneamente contrapposta a quella con Sel e Idv). Risolvere i due punti aiuta il Pd a rafforzare identità e prospettiva. Bene, il personalismo è certo dottrina cattolica democratica (Renouvier, Mounier) basata sull’idea del valore della persona, anteriore e superiore allo stato. Persona che si rispecchia in altre persone, come in una simmetrica sacralità reciproca. Di qui la responsabilità etica, la solidarietà, etc. Nulla da eccepire. Salvo che la dottrina della persona (maschera) è originariamente giuridica e romana: persona è l’uomo non servile, titolare di diritti. Poi la persona torna negli stoici, a significare che ogni uomo, egalitariamente, ha un suo specifico ruolo e destino in vita. E poi c’è Tommaso, che rielabora Aristotele: la persona è il soggetto razionale. E da ultimo c’è tutto il pensiero laico: Locke, Kant...fino alla Carta Onu dei diritti dell’uomo (Hans Kelsen). Ma in tal senso la sinistra occidentale, socialista, è da gran tempo «personalista». Solo che la persona, laicamente intesa, è l’individuo concreto con tutto il corredo dei diritti, civili, sociali ed economici. E con dentro lavoro, corporeità e stili di vita, nel quadro di una democrazia che è norma a se stessa (con diritti inviolabili, ma senza ipoteche trascendenti extrastatuali). Dunque, «riempiamola» insieme la «persona»! Cattolici e laici, liberando al contempo tutti gli individui dall’oppressione. E il nesso con Casini? Da coltivare, anche se lui non ci sta. Ponendo però attenzione al fatto che il Mattarellum, oltre a creare coacervi elettorali, Casini ce lo rende per forza nemico. Spingendolo dall’altra parte, per difendere a destra il suo cattolicesimo moderato.

La Stampa 21.9.11
Lévinas, la prigionia fa bene agli aforismi
Esce lo zibaldone del filosofo ebreo. Lo scrisse su taccuini di fortuna quando era detenuto in Germania
di Alessandra Iadicicco


Ebreo, ucraino, ma dal 1930 cittadino francese, durante la Seconda guerra mondiale il filosofo Emmanuel Lévinas fu fatto prigioniero dopo l’invasione tedesca della Francia, nel 1940. Dapprima rinchiuso negli stalag di Rennes e di Laval, fu trasferito nel ‘42 a Vesoul, e infine in Germania, a Fallingsbostel, vicino a Hannover, dove restò fino al ‘45 segregato in baracche per prigionieri israeliti cui era proibita ogni pratica del culto. I tedeschi lo impiegarono come interprete dalla lingua russa. I compagni di sventura riferirono di averlo visto prendere appunti su un minuscolo taccuino: la bozza dell’opera chiave Dall’esistenza all’esistente , si supponeva, pubblicata subito dopo la guerra nel '47. Gli appunti raccolti dal pensatore prigioniero, invece, si rivelarono una mole sterminata. Vergati su fogli di piccolo formato, sì: stringatamente, stenograficamente e per lo più a matita, per ovviare alla penuria di carta, sfuggire alle perquisizioni e per poterli portare con sé in ogni luogo e scrivere ovunque. Annotati però con indefessa continuità tra il 1940 e il ‘45 (anche se le prime note risalgono già al 1937, e le ultime arrivano fino al 1950), tanto da riempire i sette Quaderni di Prigionia proposti ora in prima edizione italiana da Bompiani (pp. 510, 25).
Questo straordinario documento di intelligenza e di attenzione più ancora che di vita, questa testimonianza in presa diretta di concezione teoretica e, nei passaggi più sorprendenti, di immaginazione letteraria, è solo oggi disponibile alla lettura grazie alla laboriosa trascrizione di Rodolphe Calin e Catherine Chalier - complicata dalla grafia illeggibile, la matita cancellata, i bordi delle pagine consumati - e dalla cura del francese JeanLuc Marion e dell’italiano Silvano Facioni. Il grosso inedito - zibaldone di pensieri, magma di idee, repertorio di immagini poetiche (le proprie e degli autori prediletti), collezione di progetti e di domande - si legge come una rivelazione. Per un filosofo la cui ricezione è stata rallentata dall’edizione rapsodica degli scritti e imperniata soprattutto sui temi della fenomenologia Lévinas fu infatti l’importatore del pensiero di Husserl e Heidegger in Francia - e dell’etica, lo studio di un inedito di questa mole vale come punto di partenza per una rinnovata e complessiva interpretazione. L’eterogeneità dei temi trattati nei quaderni si può ordinare suggeriscono i decifratori del manoscritto - su tre filoni, corrispondenti a tre diverse scritture: filosofica, critica e letteraria. Se i motivi di pensiero ricorrenti in queste note ruotano attorno alla disfatta della patria, la perdita del senso e la sua ricerca attraverso la lettura e il commento del testo biblico, è dai maestri della letteratura - Dante, Ariosto, Proust, Bloy, Tolstoj, Dostoevskij… - frequentati assiduamente in prigionia, che Lévinas trae spunti originali e consolazione esistenziale. Quanto al vissuto quotidiano del prigioniero, nei Quaderni è quasi assente, appena accennato o trasfigurato nel materiale di un possibile romanzo. Persone incontrate e scene di vita si trasformano sulla pagina in personaggi e spezzoni di una trama romanzesca che Lévinas (come l’altro filosofo letterato, Jean-Paul Sartre) credeva potesse cogliere meglio di una riflessione o di un saggio l'elemento «fantastico» dell'esistenza: «Una realtà - scriveva - che pur essendo nel reale è al di là del reale».