giovedì 22 settembre 2011

l’Unità 22.9.11
Migranti in rivolta La popolazione si ribella, aggredite due troupe giornalistiche. Quattordici i feriti
Tensione alle stelle Il Viminale: via tutti in 48 ore. «Siamo esasperati dalle promesse non mantenute»
Lampedusa è una polveriera. Scontri e cariche sull’isola
Dopo l’incendio al Cpa di martedì, mattinata di violenze sull’isola: i migranti hanno minacciato di far saltare alcune bombole di gas e la gente ha cercato di aggredirli. Poi le cariche della polizia.
di Mariagrazia Gerina


È tregua piena di rabbia quella che cala su Lampedusa, al termine della giornata. La guerra delle pietre che hanno com- battuto al mattino ce l'hanno anco- ra tutti scolpita in faccia. Sembrano tanti reduci. I lampedusani, che tornano a riunirsi nei crocicchi, dopo una sorta di spontaneo coprifuoco.
E i tunisini, che rientrano nel centro di Contrada Imbriacola, chi con la testa fasciata, chi con un braccio legato al collo. «È stata la polizia», dice un ragazzo indicando il punto dove è stato colpito, coperto ora da un vistoso bendaggio. Un ragazzo con i calzoncini a stelle e strisce sorregge un altro che non ce la fa nemmeno a stare in piedi. Aspettano. Di qua, nella prima parte del cortile, quelli che seduti attendono di essere portati via con i primi pullman diretti verso l’aeroporto. Verranno trasferiti nei Cie e da lì rimpatriati, fa sapere il Viminale. Ma non a loro. Di là, quelli che vengono fatti mettere in fila per essere ispezionati, prima di rientrare in quello che resta del centro. Il secondo che viene distrutto in pochi anni. L’altro, incendiato nel 2009 quando Maroni inaugurò la politica dei respingimenti di massa per chi arrivava dal mare, era un Cie, dove si entrava per essere espulsi. E stava dall’altra parte dell'isola. Questo un centro di primo soccorso e di accoglienza. Ma non fa molta differenza. Per chi ci sta rinchiuso da più di venti giorni. Senza che nessuno gli abbia spiegato se ha ancora dei diritti. Visto dall’alto, in questo momento, fa ancora più impressione. Il vento che ha spazzato l'isola si è portato via il fumo. E ora quel palazzone annerito sembra un vascello fantasma. Lo chiamavano “il gabbio”. «È stato un incidente», giurano i tunisini che hanno paura di quello che potrà succedere ancora. Eppure, il giorno prima dell’incendio, esasperati andavano dicendo: «Basta, ora diamo fuoco a tutto».
ISOLA IN RIVOLTA
«Uno tsunami ci vorrebbe per portarseli via tutti», si fa ancora gonfiare le vene del collo un signore con la faccia cotta dal sole e i capelli bianchi che tiene banco sul muretto accanto alla pompa di benzina, scenario della povera guerra, scoppiata sotto il sole del mattino. Il sindaco aveva appena finito di dire alle telecamere che la polizia non poteva aspettare ancora, che doveva caricare. Quando sono partite le prime pietre. «I tunisini avevano preso delle bombole dal ristorante vicino e volevano far esplodere tutto», giurano i lampedusani che hanno partecipato alla “rivolta”. Loro l’hanno vissuta così. «Abbiamo dovuto reagire noi per primi, difenderci con le nostre mani». Poi la carica invocata dal sindaco è arrivata. E i tunisini hanno cominciato a cadere giù per diversi metri dal muretto che costeggia la pompa di benzina, uno dopo l’altro. A terra, sulla sabbia, ci sono ancora i sacchetti della spazzatura con dentro le loro cose. Qualche vestito, un asciugamano. «Ma avevano anche pezzi di legno, lo sapevano che sarebbe successo», dicono i lampedusani. E la rabbia non è solo per i tunisini, ce n’è anche per i giornalisti e per gli operatori umanitari. Aggredito un operatore di EveryOne, una troupe Rai e una di Sky, tra le proteste della Federazione Nazionale della Stampa.
«Ma non siamo mica tutti così», grida, anche lei piena di rabbia, Giusy Nicolini, la presidente locale di Legambiente, esponente della cosiddetta “società civile” che mai come in queste ore si è sentita impotente. «E però non ne posso più di sentire parlare dell’esasperazione dei lampedusani: sono espasperati perché Berlusconi non ha fatto nulla per loro e allora perché se la prendono con i tunisini?». Alla testa della rivolta – dice – ci sono sempre gli stessi: «Quelli che il giorno in cui il premier era venuto a Lampedusa a promettere mari e monti a noi non ci hanno fatto neppure tirare fuori uno striscione di dissenso». Altro che esasperazione: «Questa è violenza», dice. «Se sono delinquenti i tunisini che danno fuoco al centro perché dobbiamo giustificare i lampedusani che si mettono a tirare pietre?».
LA CONTA DEI FERITI
Al Pronto soccorso, nel Poliambulatorio dell’isola, dopo la “guerra” si contavano i feriti. Sette poliziotti, carabinieri, forze dell'ordine da una parte. Sette tunisini dall'altra. Il più grave, con un trauma facciale, ha bisogno di essere tenuto sotto osservazione e viene trasportato all’ospedale di Palermo. Altri due si sono fratturati i talloni cadendo dal muretto, schiacciati dalla carica della polizia. «Per il resto contusioni, non gravi», spiega il medico di guardia. «Poteva essere una strage», dice il sindaco, in collegamento con Radio Padania. «Il presidente Napolitano parla di Italia unita, venga qui a Lampedusa, porti anche qui la presenza dello stato italiano», dice, rinnovando l’aggressivo invito che al mattino aveva corretto con delle scuse. Sembra di sentire parlare un perfetto padano. «La linea dura di Marroni è la mia», prosegue, sbandierando la proclamazione di «Lampedusa porto non sicuro» e gli 11 voli «che in quarantotto ore libereranno l'isola». Troppo tardi per la processione della madonnina di Porto Salvo, che ogni anno il 22 settembre sfila per le via di Lampedusa. Il vescovo di Tunisi, però, invitato per l'occasione, verrà lo stesso. «Un rifugio sicuro è quello di cui abbiamo bisogno tutti in questo momento – dicono due signore devote – noi e loro, tutte vittime, abbandonate dallo Stato». E dal governo. Il convitato di pietra che il sindaco si dimentica di chiamare in causa. Se non per raccontare delle sue telefonate con Maroni e dei soldi che il premier ha voluto spendere di tasca sua sul suolo lampedusano per comprarsi una villa. «Vengano a riferire in parlamento», chiedono piuttosto senatori e deputati del Pd. «Quella che si è compiuta a Lampedusa è una tragedia annunciata e il governo ha precise responsabilità».

l’Unità 22.9.11
Assemblea delle Nazioni Unite Il presidente Usa: «Sì allo Stato ma dopo il dialogo con Israele»
Onu, Obama gela la Palestina
Il numero uno degli Stati Uniti dice no al riconoscimento unilaterale dello Stato Palestinese. «La pace in Medio Oriente si ottiene con i negoziati, non con comunicati o risoluzioni dell'Onu».
di Umberto De Giovannangeli


ll mondo discute di Medio Oriente, del processo di pace israelo-palestinese. E della nascita di un nuovo Stato: lo Stato di Palestina. E lo fa nella sede più rappresentativa del consesso internazionale: l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Ad aprire gli interventi è il segretario generale del’Onu, Ban Ki-moon. «Da tempo – afferma Ban siamo oramai d'accordo sul fatto che i palestinesi meritano di avere uno Stato. Mentre Israele ha bisogno di sicurezza. Entrambe vogliono la pace. E noi promettiamo di produrre tutti gli sforzi, senza pause, per aiutare il raggiungimento di questa pace, grazie ad un accordo negoziato». Il discorso più atteso inizia alle 10:20 ore di New York (le 16:20 in Italia). A pronunciarlo è il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama. «La pace non è solo assenza di guerra, ma libertà e dignità», esordisce il capo della Casa Bianca. Ma oggi non è tempo di enunciazione di principi. E’ tempo di scelte impegnative. Di “sì” e di “no” destinati a segnare un futuro che si fa presente. E un “no”, Obama lo afferma chiaro e forte dalla tribuna delle Nazioni Unite: è il “no” a un riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina. «La pace in Medio Oriente si ottiene con i negoziati, non con comunicati o risoluzioni dell'Onu – rimarca il capo della Casa Bianca -.Sono convinto che non ci siano scorciatoie per mettere fine a un conflitto che dura da decenni. La pace non verrà attraverso note ufficiali o risoluzioni delle Nazioni Unite».
DOCCIA FREDDA
«In definitiva – insiste Obama sono gli israeliani e i palestinesi, non noi, che devono trovare un accordo, sui problemi che li dividono, sulla sicurezza e sui confini, sui rifugiati e su Gerusalemme». Il dialogo diretto non ha alternative,tanto meno scorciatoie: «La pace – insiste il presidente Usa si fonda sui compromessi tra popoli, che dovranno vivere assieme a lungo dopo che i nostri discorsi saranno finiti e i nostri voti saranno stati contati». Vogliamo un futuro «in cui i palestinesi vivano in un loro Stato sovrano, senza limiti per ciò che possano raggiungere», dice ancora Obama, aggiungendo che «non c'è dubbio che i palestinesi hanno visto questa prospettiva ritardata troppo a lungo». Il presidente Usa ha quindi ribadito «l'impegno dell'America verso Israele», sottolineando che «ogni pace duratura deve riconoscere le vere preoccupazioni per la sicurezza che Israele deve affrontare ogni giorno». Un discorso teso, appassionato, quello di Obama, pieno di buoni propositi ma che nella sostanza pende più verso Tel Aviv che Ramallah.
REAZIONI
«Noi accetteremo di tornare al tavolo dei negoziati nel momento in cui Israele accetterà di fermare la colonizzazione e i confini del 1967», commenta a caldo Nabil Abu Rudeina, portavoce di Abu Mazen. Replicando ancora ad Obama, il portavoce palestinese aggiunge: «Siamo convinti che non esistono scorciatoie alla fine di un conflitto che dura da decenni. La pace non verrà che da dichiarazioni e risoluzioni dell'Onu». Una presa di posizione nervosamente interlocutoria, in attesa del faccia a faccia tra il presidente Usa e il leader dell’Anp previsto nella notte italiana. In precedenza, il capo della Casa Bianca ha un lungo colloquio con il premier israeliano. «Voglio ringraziarla, signor Presidente – dice un compiaciuto Netanyahu rivolto ad Obama per stare dalla parte di Israele e nel sostenere la pace. Penso che questo sia una (posizione degna di una) medaglia e voglio ringraziarla per essersene voluto fregiare». Dalla tribuna prende la parola anche Nicolas Sarkozy. Con una proposta che ha il sapore di una mediazione in extremis: il presidente francese si dice d’accordo nel riconoscere «uno statuto provvisorio di Stato osservatore». «Un veto al Consiglio di Sicurezza – avverte l’inquilino dell’Eliseo che propone un accordo di pace con Israele entro un annopotrebbe alimentare una spirale di violenze in Medio Oriente». Mentre al Palazzo di Vetro si susseguono gli interventi, nei Territori palestinesi si susseguono manifestazioni a sostegno dell’Intifada diplomatica: cortei e happening a Nablus, Ramallah, Hebron, Gerico, Betlemme ... Molti i cartelli inneggianti al numero magico 194. Ma anche gli slogan d'incoraggiamento alla leadership dell'Anp a non cedere «alle pressioni e alle minacce» israeliane, americane o di chiunque altro, per frenare un progetto che a quasi tutti i palestinesi appare solo un passo in avanti «minimo e doveroso». «Chiediamo il più scontato dei diritti, quello a una patria», commenta Sabrina, una donna di mezza età. «L' istanza all'Onu è soltanto un primo gradino, un grido di dolore alla comunità internazionale, altro che rinvii o passi indietro».

l’Unità 22.9.11
La geopolitica del voto in un mondo diviso
di U.D. G.


L’ultimo “sì” è di quelli pesantissimi. Perché viene dal Gigante cinese. Ad annunciarlo è il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hong Lei, che ha espresso “comprensione, rispetto e sostegno” per la richiesta dell’Autorità nazionale palestinese di “diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite”. L’ultima parte del pronunciamento cinese è un messaggio a Obama. Pechino, dice Hong Lei, chiede agli Usa di “non ostacolare la richiesta (palestinese) utilizzando il veto del Consiglio di Sicurezza”. Da Pechino a Mosca. La Russia appoggerà «di sicuro» la richiesta di riconoscimento e di conseguente ammissione come Stato indipendente che si appresta a presentare il presidente dell'Anp: ad affermarlo è il vice ministro degli Esteri russo, Mikhail Bogfanov. «Certo, è ovvio», taglia corto Bogfanov quando gli è stato chiesto dai giornalisti se il Cremlino sia disposto a sostenere l'iniziativa palestinese. Il numero due della diplomazia di Mosca ha aggiunto peraltro di sperare che, nonostante tutto, Israele non rifiuti il dialogo con l'Anp.
«Finora molte posizioni sono state espresse da un punto di vista meramente emotivo», osserva, «ma, quando i politici responsabili valutano la situazione con freddezza e saggezza», sottolinea Bogfanov, «è possibile che non si rilascino più dichiarazioni dettate dall'emotività, e che ambedue le parti trovino la volontà di sedersi al tavolo dei negoziati».
Il “Fronte del no”: Israele e Stati Uniti. Spesso, all'Assemblea Generale alcune piccole isole da Narau alle Isole Marshall si allineano alla posizione Usa. Molti delegati potrebbero astenersi o non presentarsi in aula. – “Fronte del sì”. Dai Paesi musulmani (Algeria, Indonesia, Libano, Libia, Oman, Pakistan, Qatar, Siria) all'Iran, alla Turchia, alla maggior parte dei Paesi di Africa e America del Sud (con la sola eccezione della Colombia). I diplomatici palestinesi al Palazzo di Vetro sostengono di poter contare su 128 voti favorevoli.
Fronte degli indecisi”. L’Unione europea. Si cerca un compromesso tra il fronte «pro Palestina» (Belgio, Cipro, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Portogallo, Spagna e Svezia) e quello dei Paesi che non condividono a pieno l’idea del riconoscimento e che insistono per la ripresa di negoziati diretti tra le parti (Germania, Italia, Olanda, Polonia e Repubblica Ceca). Gran Bretagna e Francia non hanno finora espresso una posizione chiara.
La maggior parte della popolazione nel mondo è favorevole a un riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente in sede Onu. Lo rivela un sondaggio condotto dall'emittente britannica Bbc in 19 Paesi su 20.466 persone. Il risultato è di un 49 per cento di favorevole al riconoscimento dello Stato palestinese contro un 21 per cento secondo cui il proprio governo dovrebbe opporsi a questa ipotesi. Il sondaggio, condotto dalla Bbc con GlobeScan, sottolinea come la maggior parte di coloro che sostiene lo Stato palestinese si trovi nei Paesi musulmani, oltre alla Cina. Ma anche nei Paesi dove i governi hanno mostrato un'opposizione più strenua si nota, a livello di popolazione, un sostegno più alto rispetto alla posizione contraria espresso dall'esecutivo. Ad esempio negli Usa, come nelle Filippine, il 36 per cento della popolazione è contrario alla risoluzione. Il 45 per cento degli americani e il 56 per cento dei filippini, invece, sostiene il riconoscimento dello Stato palestinese all'Onu. I più favorevoli al riconoscimento palestinese all'Onu sono gli egiziani, con il 90% dei consensi, contro il 9% di chi ha espresso parere contrario. A seguire i cinesi, con il 56% dei favorevoli e solo il 9% dei contrari. Di contro, i Paesi in cui l'opposizione è più forte sono gli Stati Uniti (45% di contrari, 36% favorevoli), il Brasile (41% di sì e 26% di no), l'India (32% a favore, 25% contro). Nei tre Paesi dell'Unione europea in cui è stato effettuato il sondaggio i pareri favorevoli hanno avuto la meglio sui contrari: Francia (54% si sì, 20% di no), Germania (53% di sì, 28% di no), Regno Unito (53% di sì e 26% di no).
In Russia il 37% della popolazione interpellata si è detta favorevole al riconoscimento, ma una persona su due non ha dato una risposta o pensa che il paese dovrebbe astenersi dal prendere posizione.

il Riformista 22.9.11
Obama a un passo dalla madre di tutte le disfatte diplomatiche
di Luigi Spinola

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il Riformista 22.9.11
In Palestina è già iniziata la festa
Israele teme l’escalation sul campo
di Virginia Di Marco

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il Riformista 22.9.11
Il tempo è scaduto per tutti
di Emanuele Macaluso

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il Riformista 22.9.11
Immigrati: la sfida democratica del futuro
di Danilo Di Matteo

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il Riformista 22.9.11
Sit in dei radicali per l’amnistia. Nitto Palma: «È una tantum»
di Angela Gennaro

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il Fatto 22.9.11
Coppie senza diritti
In Italia 30 anni di convivenza non valgono un matrimonio e un accordo sulla legge è lontano
di Silvia D’Onghia


 Da quel momento io sono stata un fantasma: non esistevo più per nessuno. Non sono stata invitata alla Veglia funebre al Vittoriano, né ai funerali di Stato, né ad altre commemorazioni di seguito. Non ho avuto diritto all’assistenza psicologica né a indennizzi dello Stato e nemmeno a donazioni dei privati”. Così scriveva qualche anno fa Adele Parrillo, la compagna di Stefano Rolla, il regista morto nell’attentato di Nassirya il 12 novembre 2003. Non la moglie, la compagna.
 Già, perchè in questa Italia che accetta senza battere ciglio che il presidente del Consiglio si diverta nei suoi festini passando il crocifisso tra i seni delle sue ospiti, non c’è alcuna legge che tuteli le persone che convivono. Ogni tanto il dibattito si riaccende (spesso sotto elezioni), ma tutte le proposte di legge presentate negli ultimi anni, dai Pacs ai Dico, alla fine sono state sepolte dalla polvere dei Palazzi. E quindi ci vanno di mezzo coppie che magari si amano da 30 anni, ma alle quali viene negato il diritto all’assistenza in punto di morte. Come è accaduto pochi giorni fa a Rossana Podestà, attrice degli anni Sessanta e compagna di una vita di Walter Bonatti, l’esploratore morto il 14 settembre.
 In un’intervista a Vanity Fair, la Podestà rivela gli ultimi giorni trascorsi accanto al suo uomo, portato via da un cancro al pancreas, e quell’impossibilità di stringergli la mano in sala rianimazione, negli ultimi momenti di lucidità. “Non è la moglie, non ha alcun diritto”. Una frase che fa tornare alla memoria storie simili, quelle finite sui giornali, e storie anonime, vissute ogni giorno tra le aule dei tribunali o le corsie di un ospedale.
 ADELE PARRILLO, appunto, sei anni di convivenza con Stefano Rollo e un indomani iracheno di diritti negati. “Il 12 novembre 2003, giorno della tragedia – racconta Adele – Stefano mi telefonò alle 8 ora italiana prima che io andassi in ufficio e prima che lui uscisse dalla base militare di White Horse per sopralluoghi. Per tutto il giorno ho tentato di chiamare Stefano a Nassirya senza esito. Nessuno durante la giornata ha comunicato con me. I vertici della Difesa e del ministero degli Esteri hanno comunicato la morte di Stefano ad uno dei produttori, Achille De Luca. Io l’ho saputo da lui”. Oppure Alessandra Biancalana, compagna del panettiere Antonio Farnocchia, una delle vittime della strage di Viareggio, il 29 giugno 2009. Tredici anni di vita insieme, una figlia e un uomo visto morire in una fiammata. Compagna, non moglie. E per questo esclusa da ogni tipo di risarcimento. “Il testo del provvedimento prevede che l’indennizzo venga assegnato alla convivente more uxorio solo nel caso che l’ex coniuge sia formalmente divorziato”. Antonio non lo era.
 Rossana, Adele e Alessandra sono state donne che hanno trovato il coraggio di denunciare, sfidando il muro di omertà e bigottismo che soffoca l’Italia delle olgettine. Ma non sono certo le uniche ad aver subìto un’ingiustizia. “Potremmo raccontare centinaia di storie”, commenta con amarezza Sergio Rovasio, segretario dell’associazione radicale “Certi diritti”, che sta preparando un libro-raccolta di tutte le norme che possono aiutare le coppie di fatto. “Le persone non lo sanno, ma ci sono meccanismi che rendono meno ampio il divario col matrimonio. Per esempio la ‘famiglia anagrafica’, un certificato che i Comuni dovrebbero rilasciare e nel quale si indica che le tali persone che vivono in quel determinato posto sono una coppia convivente. Questo potrebbe essere sufficiente a superare l’opposizione all’accesso in ospedale o alle visite in carcere. Il problema è che quasi nessuno lo sa e soprattutto quasi nessuno lo fa, prima che accada un evento spiacevole. Alla signora Podestà sarebbe bastata la mutua designazione dell’amministratore di sostegno per seguire il marito nel suo percorso finale. Un semplicissimo atto notarile sarebbe stato la migliore medicina per il cuore”.
 E se vengono discriminate le famiglie (di fatto) eterosessuali, figuriamoci quelle gay, vittime spesso anche dei pregiudizi familiari. “Nel pescarese un uomo di 75 anni, rimasto vedovo del suo compagno 80enne – racconta Rovasio – si è visto portare via la casa dai parenti. Ha trovato i suoi vestiti fuori dalla porta, chiusi nei sacchi della spazzatura. Si è visto negare persino i mobili. Qualche anno fa un ragazzo disoccupato ha litigato col convivente col quale stava da dieci anni, che lo ha buttato fuori di casa e ha chiamato la polizia. ‘Non può rivalersi, questa casa è del signore’ si è sentito rispondere il giovane”.
 IL 12 NOVEMBRE 2004, a un anno dall’attentato di Nassirya, Adelle Parrillo è entrata, non invitata, nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli dove si svolgeva la solenne cerimonia di commemorazione e si è fermata al centro della navata. Le si è avvicinato Pier Ferdinando Casini e le ha chiesto perché fosse lì. “Gli ho risposto che se per una legge del loro governo l’embrione è un essere umano, allora io ero a tutti gli effetti la moglie di Stefano Rolla, il civile che loro si apprestavano a commemorare come fosse cosa di loro proprietà. Quindi il mio posto era tra le vedove”.

Corriere della Sera 22.9.11
I rom ai lavori forzati
Iniziativa choc in Ungheria
di Luigi Ofeddu

qui
http://www.scribd.com/doc/65884140/Corriere-della-Sera-22-9-11-Ungheria-I-rom-ai-lavori-forzati

Repubblica 22.9.11
Lo scrittore Liao Yiwu e l´addio al suo Paese "Impossibile restare in una colossale prigione "
"Zaino e due libri così sono fuggito dall´inferno-Cina"
di Liao Yiwu


"Il mio piano era segreto: sono andato al confine col Vietnam e sono riuscito a superare il check-point alla frontiera"
"Il mio amico e Nobel Liu Xiaobo ha pagato un alto prezzo per i suoi scritti. Io non volevo ricalcare le sue orme"

La provincia dello Yunnan, nella Cina sudoccidentale, rappresenta da tempo la via d´uscita per i cinesi che vogliono rifarsi una vita all´estero. Da lì è possibile uscire clandestinamente dalla Cina via terra, oppure via acqua, navigando sul fiume Lancang finché questo non confluisce nel Mekong. Ogni volta che vi mettevo piede, la mia immaginazione si scatenava.
Dopo essere stato rinchiuso in carcere per quattro anni per aver scritto una poesia di condanna per la brutale repressione delle proteste studentesche del 1989, mi è stata negata l´autorizzazione a lasciare il Paese ben 16 volte.
Fino all´inizio di quest´anno ero riuscito a resistere all´impulso di scappare. Avevo scelto di restare in Cina e di continuare a documentare la vita di coloro che occupano il gradino più basso della scala sociale. Poi, dopo le proteste democratiche nel mondo arabo e le esortazioni su Internet a dare il via ad analoghe manifestazioni di piazza anche in Cina, il governo è caduto nel panico e ha inscenato una dimostrazione concertata di forza su scala nazionale.
La polizia ha fatto retate tra i difensori dei diritti civili, scrittori e artisti. L´artista Ai Weiwei ad aprile è scomparso e da quando è stato liberato, a metà giugno, vive sotto stretta sorveglianza. Quando i funzionari della sicurezza sono venuti a sapere che i miei libri sarebbero stati tradotti all´estero hanno iniziato a telefonarmi e a farmi visita spesso. «Pubblicare in Occidente è vietato dalla legge cinese» mi dicevano, minacciando che rifiutando di revocare il contratto con gli editori occidentali avrei dovuto affrontare conseguenze legali.
Poi mi è arrivato un invito da Salman Rushdie per presenziare al PEN World Voices Festival di New York. Ho chiesto alle autorità un permesso di uscita dalla Cina e ho prenotato il biglietto aereo. Ma il giorno prima della partenza, un funzionario di polizia mi ha invitato a «prendere un tè» e mi ha comunicato che la mia richiesta era stata respinta. Ha anche aggiunto che qualora avessi insistito e mi fossi recato in aeroporto mi avrebbero fatto sparire. Proprio come Ai Weiwei.
Per uno scrittore - e ancor più per uno scrittore che si prefigge di testimoniare che cosa stia accadendo in Cina - la libertà di parola e di stampa vogliono dire molto più di ciò che sembra. Il mio carissimo amico Liu Xiaobo, insignito del Nobel, ha pagato un prezzo molto alto per i suoi scritti e il suo attivismo politico. Non volevo ricalcarne le orme. Non avevo intenzione di tornare in prigione. Avrei potuto scrivere e pubblicare liberamente soltanto fuggendo da questa prigione colossale e invisibile di nome Cina. Avevo una responsabilità precisa: quella di far conoscere al mondo la vera Cina che si nasconde dietro l´illusione del boom economico. Una Cina indifferente al rancore in ebollizione della popolazione.
Non ho fatto parola con nessuno del mio piano. Ho messo in uno zaino alcuni vestiti, il mio flauto cinese, il mio gong tibetano e due miei libri preziosi, The Records of the Grand Historian e I Ching, e me ne sono andato mentre i poliziotti non stavano guardando. Mi sono diretto nella provincia di Yunnan e ho cominciato a frequentare la gente del posto. Sapevo che se avessi cercato, alla fine avrei trovato come uscire dalla Cina.
Con il mio passaporto e visti validi per la Germania, gli Stati Uniti e il Vietnam ho raggiunto una piccola cittadina lungo il confine. Lì, oltre un fiume, si poteva vedere il Vietnam. Il mediatore locale che avevo trovato mi ha detto che avrei potuto pagare qualcuno per portarmi sull´altra riva di nascosto, ma ho rifiutato. Avevo un passaporto valido. Ho scelto quindi di attraversare il checkpoint al confine, su un ponte.
Alle 10 di mattina del 2 luglio ho percorso a piedi i novanta metri che mi separavano dalla postazione al confine, pronto al peggio. Invece è accaduto un miracolo. Il funzionario ha controllato i miei documenti, mi ha fissato in volto per qualche secondo e poi ha timbrato il mio passaporto. Senza mai fermarmi mi sono diretto ad Hanoi, da lì mi sono imbarcato su un volo per la Polonia e poi su un altro aereo ancora per la Germania. Quando la mattina del 6 luglio sono uscito dall´aeroporto Tegel di Berlino, ho trovato ad attendermi il mio editore tedesco Peter Sillem. «Dio mio! Dio mio!» ha esclamato in preda alla commozione, incapace di credere che mi trovassi davvero su suolo tedesco. Fuori dall´aeroporto l´aria era fresca e mi sono sentito libero.
Dopo essermi sistemato, ho telefonato ai miei familiari e alla mia fidanzata, che erano stati interrogati dalle autorità. La notizia della mia fuga è circolata molto rapidamente. Un amico pittore mi ha detto di essere andato a trovare Ai Weiwei, che è ancora sotto stretta sorveglianza. Quando gli ha riferito che ero misteriosamente arrivato in Germania, gli occhi del vecchio Ai si sono spalancati, e incredulo ha chiesto: «Davvero? Davvero? Davvero?».
© The New York Times - La Repubblica
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 22.9.11
Perché la memoria è un’arte
Coltiviamo i ricordi sono la nostra vita
di Joshua Foer


Il viaggio di Joshua Foer, fratello minore di Jonathan Safran, tra le tecniche e i misteri del cervello
Da questa facoltà dipende la capacità di cogliere il lato ironico delle cose e di formulare idee
Ho allenato la mente non solo a memorizzare ma a essere più presente, a prestare attenzione al mondo

Dopo aver passato più di un anno a cercare di migliorarla, cosa era successo alla mia memoria? In base ad alcuni parametri oggettivi, qualcosa era senz´altro migliorato. Il mio Digit Span, il sistema aureo con cui si misura la memoria operativa, era raddoppiato da nove a diciotto. Rispetto ai test dell´anno passato, ricordavo più versi poetici, più nomi di persone, più informazioni casuali tra quelle che mi venivano proposte. Eppure, a distanza di pochissimi giorni dal campionato del mondo che avevo vinto, ero uscito a cena con una coppia di amici, ero tornato a casa in metropolitana, e soltanto nel momento in cui avevo varcato la soglia della casa dei miei genitori mi ero ricordato di essere uscito in macchina. Non avevo soltanto dimenticato dove l´avevo parcheggiata, mi ero proprio scordato di averla.
Ecco il paradosso: malgrado le acrobazie mnemoniche che adesso ero in grado di compiere, mi portavo ancora dietro la stessa memoria sgangherata che metteva fuori posto macchine e chiavi. Avevo aumentato in modo incredibile la capacità di rievocare quel genere di strutturate informazioni che si possono stipare in un palazzo della memoria, ma la maggior parte delle cose che avrei voluto ricordare nel quotidiano non erano fatti o figure o poesie o carte da gioco o cifre binarie.
Sì, sapevo memorizzare i nomi di dozzine di invitati a un cocktail party e la cosa poteva tornarmi utile. E se mi aveste consegnato l´albero genealogico dei monarchi inglesi, i periodi di permanenza in carica dei segretari di Stato americani o le date delle grandi battaglie della seconda guerra mondiale, avrei imparato i dati piuttosto in fretta e li avrei persino ricordati per un bel po´. Al liceo sarebbe stata una manna. Ma, nel bene e nel male, è raro che la vita somigli al liceo.
Facevo la stessa fatica di sempre a conservare le informazioni che non si potevano convertire in immagini e depositare in un palazzo della memoria. Avevo aggiornato il software della memoria, ma l´hardware sostanzialmente sembrava rimasto immutato.
Eppure, era evidente che fossi cambiato. O quanto meno, era cambiato il modo in cui consideravo me stesso. La lezione più importante che avevo appreso nell´anno trascorso in mezzo agli atleti della mente non era il segreto per imparare le poesie a memoria, ma qualcosa di più generale che nella vita mi sarebbe stato ben più utile. La mia esperienza aveva convalidato il vecchio adagio che la pratica rende perfetti, ma solo se è una pratica intensa, autocosciente e intenzionale.
Avevo sperimentato sulla mia pelle che, disponendo della capacità di concentrazione, della motivazione e, soprattutto, del tempo, la mente può essere addestrata a compiere imprese straordinarie (...).
Più di un anno prima, quando avevo intrapreso il viaggio dal fondo dell´auditorium della Con Edison con il mio taccuino da giornalista in mano, non sapevo dove mi avrebbe portato, quanta parte della mia vita avrebbe assorbito, se e come mi avrebbe cambiato. Adesso che ho imparato a memorizzare poesie e numeri, carte e biografie, sono convinto che il miglioramento della memoria sia soltanto uno dei benefici – senz´altro il più evidente – dei tanti mesi di duro lavoro.
In realtà, ho allenato il cervello non solo a memorizzare, ma a essere più presente, a prestare attenzione al mondo.
Si ricorda solo ciò che si sceglie di osservare. (...) Nessuno desidererebbe sentirsi costretto a prestare attenzione a qualsiasi inezia, ma qualcosa va pur detto sull´importanza di non essere soltanto di passaggio in questo mondo, e sulla necessità di fare qualche sforzo per afferrarlo, se non altro perché provandoci ci si abitua a osservare, e ad apprezzare.
Confesso di non essere mai diventato abbastanza esperto da riempire al volo i palazzi della memoria tanto da aver voglia di fare a meno del dittafono e del taccuino. E dal momento che il mio mestiere prevede che sappia di tutto un po´, le mie letture sono troppo vaste perché possa praticare, se non di tanto in tanto, la lettura intensiva e la memorizzazione che predica Ed. Sebbene io abbia mandato a memoria qualche poesia usando le tecniche mnemoniche, non ho mai affrontato un´opera letteraria più lunga del Canto d´amore di J. Alfred Prufrock. E quando arrivai al punto di saper accantonare più di trenta cifre al minuto in un palazzo della memoria, mi servii solo sporadicamente delle tecniche per memorizzare i numeri di telefono delle persone che volevo davvero chiamare. Era troppo semplice premere un tasto sul cellulare.
Di tanto in tanto memorizzavo liste della spesa, indicazioni, elenchi di commissioni, ma solo se – e non capita spesso – non avevo a portata di mano una penna per annotarli. Non voglio dire che le tecniche non funzionino. Io sono la prova vivente del contrario. Il fatto è che sono così rare le occasioni per usarle nel mondo reale dove la carta, i computer, i cellulari e i post-it possono occuparsi di ricordare al posto mio.
Allora perché prendersi la briga di investire nella propria memoria in un´epoca dominata dalle memorie esterne? La risposta migliore che posso dare è quella che ho ricevuto involontariamente da EP, che aveva perduto la memoria al punto di non saper più collocare se stesso nel tempo o nello spazio, o in relazione alle altre persone. Ovverosia: il modo in cui percepiamo e agiamo nel mondo dipende da ciò che ricordiamo e da come lo ricordiamo. Gli esseri umani sono solo un fascio di abitudini modellate dai ricordi. Controlliamo la nostra vita quando modifichiamo a poco a poco quelle abitudini, vale a dire quando alteriamo la rete dei ricordi.
Nessuna memoria esterna ha mai prodotto una battuta, un´invenzione, un´intuizione o un´opera d´arte che durino nel tempo. Non ancora, almeno. La capacità di cogliere il lato ironico della vita, di stabilire legami tra concetti fino a quel momento separati, di formulare nuove idee, di condividere la stessa cultura sono azioni essenzialmente umane che dipendono dalla memoria. Ora più che mai, in un´epoca in cui il ruolo della memoria nella nostra cultura si sta sgretolando a ritmi inauditi, dobbiamo coltivare la nostra capacità di ricordare. Sono i nostri ricordi a renderci quello che siamo, sono loro la sede dei nostri valori e la fonte della nostra personalità. Concorrere per sapere chi memorizza più in fretta pagine e pagine di poesie di second´ordine può sembrare fuori tema, invece è un modo per prendere una posizione forte contro la smemoratezza e per tenerci strette capacità fondamentali che fin troppe persone hanno perso. Ecco quello che Ed ha cercato di insegnarmi fin dal principio: la memoria non va allenata soltanto per fare qualche trucchetto a una festa, ma per nutrire un qualcosa di profondamente ed essenzialmente umano.
(Traduzione di Elisabetta Valdrè) © 2011

Repubblica 22.9.11
Le critiche di Redi, accademico dei Lincei, nel suo libro
"La biologia è democrazia ma in Italia la ignorano tutti"
"Ogm, embrioni e staminali sono temi chiave. Ma Chiesa e politici li stravolgono"
di Luca Fraioli


Non risparmia nessuno: politici e filosofi, gerarchie vaticane e giornalisti. «Sono indignato con chi ha le redini del nostro Paese, i politici e i grandi (si fa per dire) pensatori. Non mostrano la benché minima umiltà nel chiedere di sapere, nell´informarsi sulle conoscenze biologiche necessarie per condurre una società laica e giusta». Carlo Alberto Redi, accademico dei Lincei e genetista dell´Università di Pavia si autodefinisce "biologo furioso". Che poi è titolo del saggio appena mandato in libreria per Sironi Editore (pagg. 224, euro 18). «Ho cercato di fare chiarezza su alcuni dei temi più controversi del momento: dalla tutela degli embrioni alla vita artificiale, dalle cellule staminali agli Ogm. Ma nei capitoli finali mi sono lasciato andare anche a qualche divagazione più "leggera"». Imperdibili i capitoli sull´origine delle mestruazioni e sul perché è bene convincere la propria ragazza a lasciarsi baciare almeno per sei mesi prima di troncare la relazione.
Ma torniamo all´indignazione. Perché è furioso, professor Redi?
«La nostra è una società del sapere e della conoscenza: nell´Ottocento era la chimica, nel Novecento la fisica, ora sono le scienze della vita. Eppure l´attenzione per questi temi è pari a zero. I politici si guardano bene dal chiedere un parere alle istituzioni scientifiche quando c´è da affrontare il fine vita, l´uso delle staminali o gli Ogm. Straparlano di argomenti che non conoscono, per cui non fanno nulla. Con un paradosso: si formano giovani scienziati e poi li si regala agli altri paesi che grazie a loro si arricchiscono di conoscenze».
Tuttavia negli anni ´70 e ´80 l´Italia ha partecipato a grandi progetti: dal Cern di Ginevra ai Laboratori del Gran Sasso. I fisici erano più bravi di voi biologi a convincere i politici, o i democristiani erano più attenti alla scienza di quanto lo siano destra e sinistra oggi?
«Propendo per la seconda spiegazione: in quegli anni democristiani sono state fatte cose importantissime, oggi si investe in ricerca meno della Tunisia. E così si mette a rischio la democrazia».
La democrazia?
«Certo. Negli anni Ottanta i cittadini potevano anche ignorare la fisica delle particelle, potevano non sapere cosa fosse il bosone di Higgs. Ora invece si devono conoscere i risultati ottenuti dai biologi, perché riguardano tutti. Riguardano il modo in cui verranno alla luce i nostri figli, ciò che mangeremo, come moriremo. Ed ecco il rischio: creare un mondo dove solo una piccola parte dei cittadini, informata e dotata di carta di credito, potrà accedere ai servizi biologici. E questa non è democrazia».
Il biologo furioso se la prende anche con la Chiesa.
«Le posizioni delle gerarchie ecclesiastiche su temi come le staminali e l´uso dell´embrione sono contro ogni evidenza scientifica. E pensare che fino a 50 anni fa dell´embrione non importava a nessuno. Ora lo considerano una persona. E chiedono di non toccare i 50mila embrioni conservati nei freezer, "condannandoli" così a morte certa. Mentre invece potrebbero essere impiegati per aiutare la vita».
Passiamo ai filosofi...
«Abbiamo un grande bisogno di filosofi...».
Però?
«Però sono ancora fermi alla fisica, alla mela di Newton che cade dall´albero. Pochi studiano la biologia. Habermas parla dei pericoli della "genetica liberale" e chiede di chiudere i laboratori. Lo vada a dire a chi soffre di patologie gravi che possono essere curate solo grazie alle biotecnologie. E poi in biologia esistono genetiche mendeliane, molecolari, quantitative... ma liberali no».
Possibile sia solo colpa degli altri? Che in tutto questo i biologi italiani non abbiano alcuna responsabilità?
«Sono pronto a riconoscere che è anche colpa nostra. Non possiamo più chiuderci nei laboratori, dobbiamo andare in strada e spiegare alla gente perché negli esperimenti abbiamo bisogno dei topolini. E non dobbiamo "pompare" ogni risultato delle ricerche pur di avere fondi. L´effetto collaterale è che si finisce per spaventare i cittadini sulle possibili applicazioni».
Ma perché il nostro Paese ha così paura della scienza?
«La risposta è scritta sul palazzo della Civiltà e del Lavoro all´Eur: siamo un popolo di santi, poeti, artisti, navigatori... solo in ultimo di scienziati. È il retaggio neoidealista che privilegiava la cultura umanista. Ma oggi bisogna sapere di scienza per poter decidere su argomenti come il nucleare, gli Ogm, la fecondazione in vitro. È giusto combattere le grandi aziende che vogliono il monopolio, ma non le conquiste scientifiche come gli Ogm che potrebbero servire per combattere la fame».
Nell´introduzione invita i lettori a stracciare i giornali... Che ne facciamo di questa intervista?
«Naturalmente è una provocazione contro quei media che con i loro titoli a effetto distorcono il senso della ricerca scientifica. Ho visto con i miei occhi ministri italiani prendere decisioni anche molto delicate in base alla rassegna stampa. In Inghilterra Cameron decide dopo aver sentito il parere della Royal Society».

La Stampa 22.9.11
Terry e le radici dell’etica del successo
di Franca D’Agostini


Ricordate il «tipo strano», quello che «ha venduto per tremila lire sua madre a un nano»? Personaggio formidabile, compare verso la fine de «La città vecchia», la famosa canzone di Fabrizio De André. Ora il tipo in questione non sembra essere più molto strano, a giudicare dalla filosofia di vita esposta da Terry De Nicolò, amica di Gianpi Tarantini, in un’intervista televisiva poi diventata un video che circola in rete. Dice Terry, senza mezzi termini: «Per avere successo devi essere pronta a venderti tua madre».
Il nichilismo etico di Terry si esprime in un sistema di vita molto chiaro e conciso: chi vuole avere successo deve vendersi l’anima ed eventualmente la mamma; così è, e così, dice, «è giusto che sia», e chi la pensa diversamente è un moralista invidioso e «lofio».
Simili dichiarazioni hanno suscitato, come è giusto, commenti perplessi e inorriditi. Ma vorrei provare a chiedermi: se Terry ha torto, dove e come esattamente ha torto? Perché in definitiva «non è bene» vendere la propria madre, ed eventualmente bambine esili in tubino nero, a un nano?
Gli argomenti contrari normalmente sono due: l’etica e la legge. Quanto alla legge, la risposta è chiara, e Tarantini la conosce bene: vendere, comprare, trafficare non paga molto perché prima o poi si finisce in galera. Già, però molti dei comportamenti consigliati da Terry non sono propriamente perseguibili: chi riesce davvero a distinguere prostituzione (o ricatto) da un amichevole e benevolo scambio di favori? I giudici conoscono bene questo terreno scivoloso: è il fenomeno della vaghezza giuridica, di cui ovviamente si avvantaggia il trasgressore.
Tutto sta dunque nell’essere furbi, sgusciare tra le maglie del sistema, e a delitto non segue castigo. Dio sa quanto questa prassi sia consolidata. Conosciamo un gran numero di persone che condividono in dettaglio le tesi etico-pratiche di Terry, senza averne la straordinaria ancorché stolida onestà. Persone che di questo tipo di regola conoscono bene il meccanismo, e non si lasciano intercettare. Semplicemente: contrattano, vendono e comprano, ma non per telefono.
Dunque dobbiamo passare all’etica. Ma come funziona l’etica? Perché mai è meglio essere leali, generosi, onesti, piuttosto che scaltri, opportunisti, manipolatori e menzogneri? La letteratura sull’argomento è vastissima. Ma chiaramente Terry non ci sente da quel lato: l’etica è già scartata a priori. In effetti, il suo ragionamento non è per nulla toccato da considerazioni morali: se si concepisce l’etica nel senso dell’ethos, come un regime di valori collettivi, corrispondenti a sentimenti collettivi, Terry vince, non c’è dubbio. Chi decide che tu, che hai il senso della collettività, che sei buono, e generoso, sei meglio di me, che ho il senso dell’opportunità, e sono furbo ed egoista? È chiaro: lo decide la collettività degli uomini, il famoso senso civile; ma questa collettività, come insegna Nietzsche, potrebbe sbagliare, ed essere costruita precisamente su valori sbagliati, che bloccano e reprimono le libere forze della vita. Di qui si passa con facilità da Nietzsche al darwinismo, e il quadro è completo.
Ora quel che è interessante però è che tanto Nietzsche quanto Darwin sono autori dell’Ottocento. Terry senza saperlo ha come maestri (a parte Sgarbi, l’unica auctoritas citata) signori che vivevano in un’epoca molto diversa dalla nostra, e non avevano a disposizione un buon numero di risorse intellettuali e tecniche di cui invece oggi disponiamo. Per esempio, non conoscevano la teoria delle decisioni e dei giochi, non avevano la più pallida idea di come la matematica potesse far funzionare la logica e poi i computer, non conoscevano neppure lontanamente la possibilità di avere una visione globale, e tuttavia dettagliata, dei fenomeni.
A parte le effettive tesi di Nietzsche e Darwin (che evidentemente non sono affatto da appiattirsi su una specie di Wille zur Macht generico come è quello professato dalla nostra amica), è assolutamente evidente che il problema rappresentato da Terry non è la mancanza di etica: è solo una questione di conoscenza a metà. Terry ha incominciato a riflettere, a darsi ragione dei fenomeni, quindi si è fermata: esattamente al punto in cui si fermavano i nichilisti dell’Ottocento, e a cui sono ancora fermi molti autorevoli intellettuali contemporanei.
In effetti, se Terry esaminasse da vicino la natura dell’egoismo sociale da lei professato, scoprirebbe cose interessanti: per esempio, scoprirebbe che i comportamenti cooperativi sono sempre preferibili, non sul piano etico, ma precisamente sul piano economico. Così, l’altruismo è economicamente vantaggioso, mentre l’egoismo crea alla lunga individui e società poveri, o mediocri. È il famoso risultato di Nash, raccontato in A Beautiful Mind , ma ampiamente sviluppato da schiere di filosofi ed economisti, di cui non si parla mai, preferendo invece ostinarsi su qualche pseudo-Nietzsche o pseudo-Darwin.
Se continuasse le sue riflessioni, forse scoprirebbe anche, con sorpresa ancora maggiore, che i suoi argomenti sono già stati sconfitti nel V secolo avanti Cristo. Il punto principale in effetti - così direbbe Socrate redivivo - non è il vendere la madre, sono le tremila lire. Devi sempre chiederti: quanto? Per quanto sei disposto a venderti e a vendere? E quanto o che cosa sei disposto a cedere, in cambio? Ti accorgerai che non c’è limite: quando avrai venduto la madre dovrai vendere qualcosa d’altro, e poi ancora e ancora. Quella vaghezza che è il problema dei giudici nel catturare il trasgressore è anche il problema del trasgressore, nel fermarsi. D’altra parte, abbiamo di fronte agli occhi un ottimo e ineccepibile esempio: Fabrizio De André non ci dice nulla del destino del tipo strano, ma quanto alla parabola del nano, la conosciamo, e non ci sembra per nulla invidiabile.
*docente di Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino e autrice di «Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico»

La Stampa 22.9.11
Da Cicerone a Wang la Cina è latina
Il professore di Pechino premiato dalla Fondazione Canussio: “Per i nostri nuovi codici ci ispiriamo al diritto romano”
di Maurizio Assalto


Il professor Wang Huansheng ha 72 anni e insegna in Cina la lingua latina

In un film circolato questa estate nelle sale italiane, Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma , un giallo ambientato nella Cina del 690 d.C., si vede all’inizio un certo Flavius, generale romano arrivato a Luoyang per assistere all’incoronazione della prima donna sul trono del Celeste Impero. «Quam insigne!» esclama davanti al colossale stupa a forma di Buddha costruito per solennizzare l’evento. E avanti così per qualche minuto, con il generale che parla latino e la traduzione nei sottotitoli.
Chi fosse rimasto sorpreso nel sentir risuonare l’antico idioma di Cicerone & C. in un film di produzione cinese dovrebbe ascoltare questo professore dell’Istituto di Letterature straniere dell’Accademia cinese di Scienze sociali, Wang Huansheng, venuto in Friuli per seguire l’annuale convegno di classicisti riuniti dalla Fondazione Canussio, e per ritirare la medaglia conferita dal Presidente della Repubblica alla stessa Fondazione, e da questa girata a lui per i suoi meriti negli studi del latino e del greco. Età indefinibile comunque molto distante dagli effettivi 72 anni, il prof. Wang ha alle spalle un’imponente bibliografia, fatta di studi specialistici (una sua Storia dell’antichità romana , pubblicata dalla Casa della Letteratura popolare di Pechino, è stata giudicata tra i dieci libri più importanti del 2006 in Cina) e di svariate traduzioni, dei tragici e dei commediografi greci e latini, di Omero, Cicerone, Properzio, Tito Livio. Dopo avere avviato la conquista dell’economia mondiale, colonizzato l’Africa, dopo essersi infilati in tutti gli interstizi produttivi dell’Occidente, adesso i cinesi ci stanno soffiando anche gli studi sulla classicità?
Il prof. Wang sorride cortesemente: «La cultura e l’economia hanno uno stretto legame. Da quando in Cina, con Deng, si è iniziata l’epoca delle riforme, c’è stata un’apertura anche in campo culturale. Non solo per quanto riguarda lo studio della nostra cultura, ma anche di quelle esterne». Lui però ha cominciato un po’ prima. «E’ vero. Nel 1960 fui scelto dallo Stato per andare a seguire un corso quinquennale al Dipartimento di Filologia di Mosca - allora le relazioni tra Cina e Urss erano ottime. Ci facevamo studiare sodo: non per diventare dei professionisti in qualche campo, ma per diventare degli studiosi. Io ero molto lusingato e mi sono impegnato al massimo per ripagare».
Inutile domandargli se nella sua vocazione abbia agito qualche sogno infantile, magari un mostro mitologico o un eroe greco-romano al posto del dragone. Tutt’al più concede che «a scuola la parte dedicata alla Grecia e a Roma non era molta, ma è stata sufficiente a farmi scattare l’interesse. Poi approfondendo gli studi mi sono reso conto dell’importanza di questa cultura».
Quanti siano oggi in Cina i giovani che si accostano alle lingue classiche è difficile dire. «Anche perché magari, all’inizio, mi trovo in un’aula affollata. Poi però, quando capiscono com’è difficile... Ma, in parallelo alla diminuzione del loro numero, aumenta il livello qualitativo di chi è deciso a continuare».
Certo le difficoltà, per uno studente cinese, sono davvero grandi: «La grammatica, il differente contesto, i passaggi di significato. Ci sono termini latini e greci che rinviano a realtà per noi senza corrispondenze. Civitas , per esempio. Oppure rex , o basileus : potrei tradurre con guowang , che però non è la stessa cosa. Del resto anche il basileus dei poemi omerici non è la stessa cosa del rex romano». E poi vuoi mettere, rendere in cinese gli esametri di Virgilio? «Mi sarebbe piaciuto, ma esiste già una traduzione dell’ Eneide , sebbene condotta sulla versione inglese».
Nonostante gli ostacoli, tuttavia, in Cina c’è molto interesse per il mondo romano antico. Anche per la sua utilità ai fini della codificazione, che sta procedendo a grandi passi dopo il periodo di cosiddetto «nichilismo giuridico» seguito alla Rivoluzione culturale, e che guarda con particolare interesse all’Urbe. «Il diritto e l’esercito sono le due principali ragioni del suo successo», spiega Wang. «E nell’ispirarci alle legislazioni di altri Paesi il riferimento al diritto romano è obbligato». Grazie all’Osservatorio sulla Codificazione fondato una ventina di anni fa dal prof. Sandro Schipani, con la partecipazione di Università e enti italiani e cinesi, sono già state tradotte ampie parti del Codice di Giustiniano, e il lavoro prosegue.
Si ha l’impressione che prima dei valori universali della nostra cultura classica, per i cinesi vengano altri interessi, molto più pragmatici. «Studiando il latino e il greco si può capire meglio la storia di Roma e della Grecia. E quindi si può capire meglio anche l’Occidente di oggi», fa notare il prof. Wang. Insomma, si direbbe che la Cina ci abbia messo sotto la lente: ci guarda dentro, guarda come siamo e come eravamo, per capirci meglio. Per poterci meglio tenere in pugno, tra qualche anno?

mercoledì 21 settembre 2011

l’Unità 20.9.11
L’Anp all’Onu: Stato palestinese, è ora di dire sì
Abu Mazen formalizza la richiesta. I promotori: altre 120
Obama non ferma Abu Mazen «L’Onu voti sul nostro Stato»
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite entra nel vivo. Oggi Obama incontra Sarkozy ed Erdogan. Occhi puntati sul dossier-Palestina. Il leader dell’Anp formalizza il ricorso sullo Stato. Trattative frenetiche...
di Umberto De Giovannangeli


«Il popolo palestinese e il suo governo passeranno attraverso momenti molto difficili dopo che la Palestina si rivolgerà al Consiglio di Sicurezza per ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese in base ai confini del 1967, con Gerusalemme est come capitale». Non si fa illusione Mahmud Abbas (Abu Mazen): il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) è da ieri a New York per partecipare alla 66ma Assemblea generale delle Nazioni Unite, durante la quale verrà presentata la mozione per il riconoscimento dello Stato palestinese.
RINCORSA AI NUMERI
Parlando con i giornalisti, Abu Mazen ha ammesso di essere stato oggetto di pressioni internazionali per l’iniziativa, che divide anche l’Unione Europea. «Abbiamo deciso di rivolgerci all’Onu, perché tutti i negoziati, diretti e indiretti, sono falliti a causa della testardaggine di Israele», insiste il leader palestinese, che terrà il suo discorso davanti all’Assemblea generale venerdì prossimo. Abu Mazen ha incontrato ieri il numero uno del Palazzo di vetro, Ban Ki-moon e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, ma non il presidente americano Barack Obama, alla luce del fatto che gli Usa stanno cercando di convincere i Paesi membri del Consiglio di sicurezza a opporsi o astenersi sulla risoluzione. Se non otterrà almeno 9 voti su 15, la mozione palestinese verrà respinta evitando agli Stati Uniti di imporre il diritto di veto. Una mossa imbarazzante per Obama, che esattamente 12 mesi fa aveva detto di voler vedere uno Stato palestinese all’ Onu entro un anno. Il ricorso palestinese all'Onu è l'occasione per «avvicinarci al nostro appuntamento con la libertà»: rilancia il premier dell’Anp, Salam Fayyad, dopo un colloquio a New York con il ministro degli Esteri norvegese, Jonas Gahr Stoere. In serata, l’annuncio ufficiale: il presidente palestinese Abu Mazen ha «informato il segretario generale (dell'Onu Ban Ki-moon) della sua intenzione di presentare allo stesso segretario generale, questo venerdì, una richiesta di adesione come Stato delle Nazioni Unite». A riferirlo è il portavoce del segretario generale dell’Onu, Martin Nesirky, sottolineando che, nel corso dell'incontro, Ban ha ribadito «il suo desiderio affinchè la comunità internazionale e le due parti in causa possano trovare la strada per riprendere i negoziati all'interno di una cornice legittima e ben bilanciata».
SOSTEGNO POPOLARE
Anche e se rischia di avere ripercussioni negative sul terreno, è giusta la decisione del presidente Abu Mazen di rivolgersi al Consiglio di sicurezza per esigere la piena adesione all’Onu dello Stato di Palestina. Questa la convinzione espressa dall’83% dei palestinesi in un sondaggio condotto negli ultimi giorni su un campione di 1.200 persone in Cisgiordania e a Gaza dal «Centro Palestinese per la ricerca politica» (Pcpsr)del dottor Khalil Shikaki. Nel sondaggio, il 78% prevede che Israele risponderà a questo sviluppo congelando il versamento di dazi doganali dovuti all’Anp, con la erezione di nuovi posti di blocco e con una ripresa della colonizzazione. Il 64% teme inoltre che gli Stati Uniti sospendano gli aiuti finanziari all'Anp. Il ritorno dei palestinesi alla lotta armata è sostenuto solo dal 35% , mentre il 64% si oppone e propende piuttosto per una resistenza non-violenta e per la organizzazione di marce popolari. In caso di nuove elezioni presidenziali, Abu Mazen otterrebbe il 59% dei consensi, mentre il leader politico di Hamas a Gaza riceverebbe solo il 34%.
Una divisione tra Ue e Usa sulla richiesta palestinese di ottenere un seggio all’Onu «sarebbe catastrofica», rileva il ministro degli Esteri Franco Frattini, da New York, ribadendo anche l'importanza di una posizione unitaria all'interno dell'Europa. «Nei prossimi giorni cercheremo tutti di evitare una contrapposizione a New York e un inasprimento della situazione. La via verso la pace in Medio Oriente e verso una giusta soluzione con due Stati passa attraverso i negoziati», gli fa eco il capo della diplomazia tedesca, Guido Westerwelle. Israeliani e palestinesi devono intavolare «una trattativa diretta» per risolvere al questione mediorientale. È l’appello lanciato dalla Casa Bianca. «Israeliani e palestinesi devono negoziare un compromesso», ha affermato il portavoce Jay Carney. Ma forse è troppo tardi.

l’Unità 20.9.11
Intervista a Saeb Erekat
«Non tradiremo le aspettative del nostro popolo»
Il capo negoziatore dell’Anp: «Un sì allo Stato palestinese aiuterebbe la leadership di Abu Mazen. Il veto Usa rafforzerebbe i falchi israeliani»
di U.D.G.


È uno degli ideatori dell’«Intifada diplomatica». Negoziatore capo dell’Autorità nazionale palestinese, consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), parlamentare di Al-Fatah, Saeb Erekat ha vissuto da protagonista tutti i momenti cruciali del processo di pace israelo-palestinese. «I prossimi giorni saranno decisivi per il popolo palestinese», dice a l’Unità Erekat, guardando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si è aperta ieri a New York. «Il riconoscimento della Palestina sarebbe un contributo alla soluzione dei Due Stati e un tentativo di salvaguardare il processo di pace dinanzi alle ostruzioni di Israele che lo ha messo in pericolo con la costruzione di insediamenti illegali», afferma Erekat che sarà a fianco di Abu Mazen al Palazzo di Vetro. «Non esiste pertanto alcuna giustificazione pertinente per l’uso del veto da parte degli americani». E al premier israeliano Benjamin Netanyahu che denuncia l’unilateralismo dell’Anp, Erekat ribatte: «Proprio lui parla di unilateralismo...Netanyahu ha avuto tutto il tempo per riaprire un serio negoziato, ma non c’è stato un solo atto del suo governo che ha rappresentato questa volontà, a partire dalla colonizzazione di Gerusalemme Est e dei Territori palestine-
si». Sull’esito del voto in Assemblea Generale all’Onu, il capo negoziatore palestinese si dice ottimista: «Riteniamo – afferma – di poter contare almeno su 126 voti favorevoli. Comunque andrà, è un dato politico di straordinaria rilevanza: la gran parte degli Stati al mondo supportano il diritto dei Palestinesi a vivere in uno Stato indipendente a fianco d’Israele».
C’è chi sostiene, non solo Israele, che la richiesta dell’Anp all’Onu di un riconoscimento dello Stato di Palestina rappresenti una fuga in avanti, una forzatura che rende ancor più problematica la ripresa di un negoziato diretto con Israele.
«È vero l’opposto. Il riconoscimento della Palestina sarebbe un contributo alla soluzione dei Due Stati e un tentativo di salvaguardare il processo di pace dinanzi alle ostruzioni di Israele che lo ha messo in pericolo con la costruzione di insediamenti illegali».
Di questo avviso non sembrano essere gli Stati Uniti. Il presidente Obama sembra intenzionato ad esercitare il diritto di veto in Consiglio di Sicurezza.
«Mi auguro che ciò non avvenga. Il presidente Obama sa bene che la linea del negoziato è una scelta strategica per l’attuale dirigenza palestinese, ma sa anche che questa determinazione si è scontrata con le chiusure oltranziste del governo israeliano. Il presidente Obama ha più volte parlato di un “Nuovo Inizio” nei rapporti tra l’America e il mondo arabo: opporsi al riconoscimento dello Stato di Palestina verrebbe visto da quel mondo con cui il presidente Obama intende dialogare alla pari, come una riproposizione della vecchia e deleteria politica dei due pesi e due misure in Medio Oriente». L’Europa si presenta divisa a questo appuntamento...
«Una divisione che indebolisce fortemente il ruolo che l’Europa potrebbe e dovrebbe giocare in Medio Oriente. Sappiamo di poter contare sul voto favorevole di diversi e importanti Stati dell’Ue...». Tra questi sembra non esserci l’Italia...
«I rapporti di amicizia tra i due popoli non sono in discussione, ed è proprio per questo che un voto negativo dell’Italia sarebbe doloroso, molto doloroso...».
Israele, e non solo l’attuale dirigenza, ha sempre sostenuto che una soluzione a due Stati non può riportare le lancette del tempo indietro di oltre 30 anni, ai confini del ’67. «Quella che speriamo emerga all’Onu è una determinazione politica che rafforzi l’idea di un accordo fondato sul principio “due popoli, due Stati”. Per quanto ci riguarda, ribadiamo la disponibilità a sedersi a un tavolo per affrontare tutte le questioni legate ad una intesa globale: dai confini allo status di Gerusalemme, dal diritto al ritorno dei rifugiati al controllo delle risorse idriche...Sui confini, abbiamo affermato la possibilità di revisioni territoriali, limitate, fondate sul criterio della reciprocità. Il “sì” dell’Onu allo Stato di Palestina rafforzerebbe la leadership di Abu Mazen a proseguire nella strada del dialogo e nella ricerca di un compromesso equo per le due parti».
Netanyahu si dice certo che Abu Mazen subirà uno smacco all’Onu... «Staremo a vedere. Netanyahu è nervoso, e scambia le sue illusioni con la realtà».

il Fatto 20.9.11
Stato di Palestina “L’alternativa è solo violenza”
Carter: sono necessari colloqui diretti con Israele
di Jimmy Carter *


Nel settembre del 1978 Anwar Sadat e Menachem Begin firmarono gli “accordi di Camp David” che facevano seguito a quattro guerre arabo-israeliane nelle quali l’Egitto aveva fornito alla coalizione, che si proponeva la cancellazione di Israele, la maggior parte degli uomini e dei mezzi.
Il Parlamento egiziano e la Knesset di Israele ratificarono a schiacciante maggioranza l’accordo che prevedeva l’accettazione, in tutti i suoi aspetti, della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Una delle disposizioni chiave era la “inammissibilità dell’acquisizioni di territori a seguito di operazioni militari e la necessità di operare in vista di una pace giusta e duratura che consentisse a ogni Stato della regione di vivere in condizioni di sicurezza”.
Gli accordi prevedevano in particolare il ritiro di tutte le forze militari e civili israeliane dai Territori occupati e la concessione della “piena autonomia” ai palestinesi. Sei mesi dopo fu concluso tra le due nazioni un trattato di pace che imponeva a Israele l’obbligo di ritirarsi dal Sinai egiziano, consentiva a Israele l’utilizzo del Canale di Suez e stabiliva normali rapporti diplomatici tra egiziani e israeliani. Da allora sono stati sostanzialmente rispettati i termini del trattato di pace, ma le disposizioni principali degli “accordi di Camp David” sono state ignorate. Dopo la morte di Sadat, il presidente Hosni Mubarak non ha esercitato alcuna pressione per ottenere il rispetto dei diritti dei palestinesi sebbene la maggior parte degli egiziani abbia continuato a chiedere ad Israele di onorare gli impegni presi.
IL PRINCIPALE elemento di preoccupazione va individuato nell’occupazione da parte di Israele della Cisgiordania e di Gerusalemme Est e nella costruzione di insediamenti israeliani nei territori palestinesi confiscati. Nell’importante discorso pronunciato al Cairo nel marzo 2009, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha riconosciuto la centralità della questione auspicando il congelamento immediato di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele.
Successivamente, nel maggio 2009, il presidente Obama ha dichiarato che alla base di qualsivoglia accordo di pace deve esserci il riconoscimento delle frontiere antecedenti la guerra arabo-israeliana del 1967, fatte salve alcune modifiche di poco conto riguardanti pochi insediamenti israeliani nei pressi di Gerusalemme.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto entrambe le proposte: la costruzione degli insediamenti è proseguita e il governo israeliano ha avanzato ulteriori, inaccettabili richieste aventi per oggetto una presenza militare israeliana permanente nella valle del Giordano e il riconoscimento di Israele come “Stato ebraico” (circa il 25% dei cittadini israeliani non sono ebrei). Gli Stati Uniti da allora non hanno partecipato attivamente al processo di pace. I palestinesi e altri arabi hanno interpretato questo passo indietro come il tacito riconoscimento da parte degli Usa della legittimità dell’occupazione militare israeliana e come la spia di un atteggiamento pregiudizialmente negativo nei confronti dei palestinesi. I palestinesi, convinti di non avere altre alternative, sperano che il riconoscimento del loro Stato arrivi ora dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea delle Nazioni Unite (venerdì prossimo Abu Mazen, presidente dell’Anp, presenterà il ricorso ufficiale all’Onu, ndt).
IN EGITTO i dimostranti hanno assalito l’ambasciata israeliana. Tenuto presente che, malgrado il veto degli Stati Uniti, lo Stato palestinese verrà riconosciuto da quasi tutti i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza, quali sono le prospettive per il futuro?
Con la leadership dell’Europa, gli Stati Uniti e gli altri membri del Quartetto (Russia, Unione europea e Nazioni Unite) potrebbero mettere sul tappeto una proposta di pace compatibile con la politica americana, con le risoluzioni dell’Onu e con le precedenti richieste del Quartetto.
Non v’è dubbio che la proposta di pace araba potrebbe essere modificata di conseguenza. A ciò potrebbe seguire il pieno impegno degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite a svolgere un’azione di mediazione volta a favorire colloqui diretti o indiretti tra Israele e i palestinesi.
Lo stesso approccio potrebbe essere adottato per risolvere il problema delle alture del Golan con la Siria. I palestinesi dovranno rinunciare alla violenza, accettare il diritto di Israele a esistere in pace all’interno dei confini del 1967 (con le eventuali modifiche negoziate), accettare una presenza di lungo periodo in Palestina delle forze di peacekeeping dell’Onu e il diritto al rimpatrio dei palestinesi della diaspora (un certo numero dei quali in Israele). Analoghi impegni dovranno prendere gli israeliani.
QUESTO percorso potrebbe portare alla pace tra Israele e i suoi vicini. In questo modo gli Stati Uniti riconquisterebbero una posizione di leadership nella regione, una leadership basata sulla libertà, la democrazia e la giustizia. E verrebbe meno nel mondo arabo una delle principali cause di avversione nei confronti degli americani. L’alternativa a questa iniziativa di pace non potrebbe che essere il riaccendersi della violenza e la morte della speranza .
* 39° presidente degli Stati Uniti (dal 1977 al 1981), è fondatore del Carter Center che opera per la pace e la salute nel mondo © 2011 The International Herald Tribune - Distributed by The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 20.9.11
“La Palestina in quattro giorni” Lo scontro all’Onu
Il braccio di ferro diplomatico sul voto per il riconoscimento
Scelta popolare. L’89% dei palestinesi appoggia la richiesta di riconoscimento all’Onu promossa da Abu Mazen
di Maurizio Molinari


Maratone negoziali negli hotel di Midtown, duelli diplomatici nel Consiglio di Sicurezza, il Congresso di Washington in ebollizione e il timore di un’esplosione di violenza in Medio Oriente: è l’inizio della battaglia per il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Onu che tiene banco in coincidenza con l’apertura della nuova sessione dell’Assemblea Generale minacciando di innescare un’escalation dagli esiti imprevedibili.
Da un punto di vista formale il tentativo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di ottenere dall’Onu lo status di «Stato membro» inizierà venerdì con l’invio da parte del presidente Abu Mazen di una lettera al Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon nella quale affermerà che la «Palestina» - questo il nome prescelto - è uno Stato «che ama la pace e accetta la Carta dell’Onu». Abu Mazen ha preannunciato ieri, sul volo in arrivo a New York, che illustrerà i contenuti della richiesta nel discorso dal podio dell’Assemblea Generale e dopo la recapiterà a Ban, a cui spetterà di esaminarla prima di inviarla al Consiglio di Sicurezza, che decide l’ammissione di nuovi Stati.
Il passo di Abu Mazen irrompe nelle trattative diplomatiche in atto, che vedono il Quartetto - composto da Usa, Ue, Onu e Russia tentare di modificare il corso degli eventi per evitare il collasso degli accordi di Oslo del 1993, siglati da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sotto l’egida di Bill Clinton, nei quali Israele e palestinesi si impegnarono a raggiungere l’obiettivo dei «due popoli e due Stati» in «pace e sicurezza» procedendo «attraverso negoziati». Poiché la richiesta di riconoscimento dell’indipendenza da parte dell’Onu è un atto unilaterale dell’Anp, ciò minaccia di far venir meno la validità di Oslo riproponendo il conflitto totale fra Israele e palestinesi precedente al 1993. È questo scenario che spiega i venti di guerra in Medio Oriente, lo schieramento in forze delle truppe israeliane in Cisgiordania e il monito dell’ex premier britannico Tony Blair, inviato del Quartetto, secondo il quale «bisogna inquadrare il desiderio dei palestinesi di essere riconosciuti dall’Onu in una credibile cornice negoziale» ovvero salvando Oslo.
La maratona di incontri in più hotel di Midtown a Manhattan vede protagonisti Blair, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, l’Alto rappresentante europeo Lady Ashton, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il Segretario generale dell’Onu assieme a ministri di Anp e Israele, nel tentativo di redigere un testo capace di far ripartire da subito il negoziato, arenato da oltre un anno, spingendo l’Anp ad accettare un successo politico in cambio della rinuncia della richiesta all’Onu. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu incalza, e si è detto «interessato» a incontrare Abu Mazen direttamente all’Onu. Cruciale è il ruolo di Mosca, che sulla carta è la più vicina all’Anp. «Bisogna dare ai palestinesi concretezze, non illusioni», riassume il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini.
È un negoziato assai difficile perché punta a risolvere in 4 giorni i nodi che da 12 mesi paralizzano le trattative: Israele non è disposta a riconoscere allo Stato palestinese i confini antecedenti il giugno 1967, l’Anp non vuole riconoscere Israele come «Stato ebraico» e non vi sono intese né sullo status di Gerusalemme né sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi del 1948. L’altro possibile compromesso a cui il Quartetto lavora è concordare con l’Anp il testo di una risoluzione dell’Assemblea Generale accettabile anche da Israele ovvero senza riferimento ai confini. Gli inviati Usa Dennis Ross e David Hale hanno proposto ad Abu Mazen una risoluzione capace di assegnare all’Anp «attributi di Stato senza la sovranità» al fine di evitare l’adesione al Tribunale penale internazionale che consentirebbe di denunciare Israele per «crimini di guerra» - o di essere denunciati da Israele per lo stesso reato aprendo un contenzioso giuridico rovente. La risposta di Abu Mazen è giunta ieri, quando ha detto che «oramai è troppo tardi» visto che la lettera a Ban è in arrivo.
Nel tentativo di ottenere un ripensamento in extremis da Abu Mazen, Europa e Stati Uniti non lesinano pressioni. I Paesi dell’Ue fanno presente che senza un riconoscimento di Bruxelles l’indipendenza palestinese sarebbe politicamente debole così come l’amministrazione Obama fa trapelare la possibilità di cedere alle pressioni del Congresso di Washington, dove i leader repubblicanie democratici suggeriscono il blocco degli aiuti economici all’Anp - 600 milioni di dollari annui - se Ramallah «rinuncerà ai negoziati». Abu Mazen è consapevole di tali rischi ma sembra volerli affrontare, preannunciando ai palestinesi che «il periodo seguente al voto dell’Onu per noi sarà molto duro».
Se il Quartetto non riuscirà a impedire il passo di Abu Mazen, da venerdì si aprirà la partita dei voti. Al Consiglio di Sicurezza infatti gli Stati Uniti dispongono del diritto di veto ed hanno minacciato di farvi ricorso per bloccare la richiesta palestinese ma la Casa Bianca, spiegano fonti diplomatiche, non vorrebbe adoperarlo per evitare attriti con il mondo arabo nel bel mezzo della «Primavera» di rivolte. Da qui i tentativi per riuscire a far mancare il sostegno di almeno 7 dei 15 Paesi membri del Consiglio di Sicurezza, perché ciò significherebbe respingere il testo senza dover opporre il veto. Washington conta sul «no» di Francia, Gran Bretagna, Colombia, Germania e Portogallo con la Bosnia in bilico ma Parigi e Londra ancora non si sono pronunciate perché l’altra questione aperta è l’assenza di una posizione coesa dell’Ue, dovuta anche al fatto che al momento manca il testo definitivo della richiesta dell’Anp.
Se comunque Washington dovesse riuscire a bloccare la strada del riconoscimento come «Stato membro», per l’Anp si aprirebbe la possibilità di chiedere all’Assemblea Generale lo status di «Stato non membro», come il Vaticano. L’approvazione di una tale risoluzione richiede un quorum di due terzi dei 193 Stati membri, ovvero 129 favorevoli, e i delegati palestinesi all’Onu hanno fatto circolare la lista di 127 nazioni che hanno già promesso il «sì». Ciò significa che questo risultato è a portata di mano, anche se raggiungerlo al prezzo di una crisi di rapporti con Usa ed Europa, senza contare l’abbandono di Oslo e il collasso dei rapporti con Israele, potrebbe rivelarsi un prezzo molto alto per Abu Mazen che in questa battaglia si trova contro anche i leader di Hamas. Da Gaza lo accusano di «voler tradire il popolo palestinese legittimando Israele» perché dichiarando lo Stato nei confini del 1967 si rinuncia ai territori su cui Israele fu creato nel 1948.

Repubblica 20.9.11
Palestina, primo passo per il riconoscimento "Venerdì presenteremo la richiesta all´Onu"
Abu Mazen incontra Ban Ki-moon. Frattini: disastro se Usa e Ue si dividono
di Angelo Aquaro


NEW YORK - Adesso è solo una corsa contro il tempo per evitare che le Nazioni Unite si ritrovino disunite come mai. Il presidente dell´autorità palestinese Abu Mazen ha ufficialmente informato il segretario dell´Onu Ban Ki-moon che venerdì prossimo presenterà la «richiesta di adesione come stato dell´Onu».
Dovrebbe essere una festa per tutti. Era stato lo stesso Barack Obama ad augurarsi che entro il 2012 le Nazioni Unite avrebbero potuto accettare il loro 194esimo stato. E invece proprio il presidente Usa - che a New York parlerà domani - sarebbe costretto ad apporre il veto. Il riconoscimento doveva arrivare attraverso i colloqui di pace: promossi dagli stessi americani ma falliti di fronte al rifiuto del premier Benjamin Netanyahu di fermare gli insediamenti nei Territori e a Gerusalemme Est.
La mossa palestinese è una implicita ammissione dell´impossibilità del dialogo. E quindi una sfida. Lo dice sempre Abu Mazen di prevedere un «periodo difficile»: un eufemismo per indicare quella «esplosione di violenza» evocata ieri dal ministro degli Esteri francese Alain Juppè. Hamas ha annunciato l´accordo con Fatah per «annullare tutte le manifestazioni»: ma che potrebbe succedere nei Territori se la richiesta si infrangerà contro il no del Consiglio?
Il fatto è che la sfida palestinese ha tutti i crismi della giurisdizione internazionale: e per questo mette in imbarazzo l´Unione europea. «Una divisione tra Usa e Ue sarebbe catastrofica» ha detto il ministro Franco Frattini a New York per l´Assemblea generale. Aggiungendo però che «bisogna dare ai palestinesi qualcosa di tangibile». Ma cosa? Gli americani minacciano piuttosto qualcosa da togliere: gli aiuti da 500 milioni di dollari all´anno. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha incontrato il commissario europeo Catherine Ashton. E lo stesso Ban Ki-moon ha partecipato alle riunioni del Quartetto (Onu, Ue, Usa e Russia) accavallatesi tra domenica e ieri. La Casa Bianca continua a sperare che palestinesi e israeliani negozino «un compromesso» attraverso una «trattativa diretta». Ma a questo punto gli scenari si intrecciano vertiginosamente.
Il più ottimista è la controproposta su cui lavora proprio il Quartetto per dissuadere in extremis i palestinesi: facendo ripartire i colloqui proprio nella meravigliosa cornice dell´Onu oggi ridipinto in scenografia da guerra. Ma Abu Mazen ha già rispedito al mittente l´offerta che l´ex premier inglese ha confezionato con i due inviati Usa Dennis Ross e David Hale: e che avrebbe detto alla Palestina «gli attributi di uno stato» senza però la qualifica. Piccolo particolare: l´Autorità palestinese avrebbe così potuto sedere in tutte le organizzazioni internazionali. Tranne in quelle giudiziarie: dove invece come stato membro potrebbe portare gli israeliani davanti alla Corte di giustizia o alla Corte criminale internazionale.
Senza accordo Abu Mazen venerdì presenta quindi la sua richiesta che va al Consiglio di Sicurezza. E qui scatterebbero gli scenari due, tre e quattro. I palestinesi ottengono i 9 voti su 15 necessari: ma già sei Stati sarebbero contro e gli Usa stanno lavorando sul numero per evitare di porre il veto. Scenario numero tre: il Consiglio di sicurezza passa la richiesta e gli americani la bloccano. Per la Turchia di Recep Tayyip Erdogan - che ha da tempo raggelato le relazioni con Israele, sempre più isolato, e ora in freddo anche con l´Egitto - la posizione americana sarebbe «difficile da comprendere e sostenere». Ma a questo punto saremmo già allo scenario numero quattro: la proposta bocciata viene presentata all´Assemblea generale. Qui per i palestinesi i numeri ci sarebbero. L´Assemblea ha il potere di conferire lo status di "Stato osservatore". E la qualifica riservata oggi solo alla Città del Vaticano ma permette l´accesso a tutte le organizzazioni internazionali - e quindi anche a quelle giudiziarie.
Ma i tempi? Ecco: sui tempi del voto - da quello del Consiglio a quello eventuale della Assemblea - è ancora tutto da decidere. E qui si aprirebbe lo scenario numero cinque. Il Consiglio potrebbe rispondere alla richiesta palestinese istituendo una bella commissione incaricata di esaminarla. L´ultimo disperato tentativo per prendere quello che in queste ore freneticamente manca: il tempo.

Corriere della Sera 20.9.11
«Palestina sì, ma democratica»
L'arabo Khalidi: strategia non violenta che mobiliti le masse
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Rashid Khalidi, direttore del Middle East Institute della Columbia University, l'intellettuale palestinese più celebrato d'America, è scettico. «Un voto pro-Palestina all'Onu cambia poco della situazione sul terreno», spiega lo studioso nato a New York nel 1948. «Non cambia la realtà dell'occupazione e degli insediamenti né la complicità degli Usa, fallimentare nel rilanciare il processo di pace».
Obama ha deluso i palestinesi?
«Non più dei predecessori. Bush padre e il suo segretario di Stato Baker sono stati gli unici che hanno cercato di portare le parti davvero insieme a Madrid. L'elezione di Obama non ha certo fatto sparire la lobby ebraica Aipac. Quando Netanyahu ha parlato davanti al Congresso Usa l'applauso era calorosamente bipartisan. Giorni fa la democratica Pelosi si è appellata ai leader europei perché all'Onu votino no».
Ma gli americani hanno cercato più volte di riavviare il processo di pace.
«Non esiste processo di pace oggi, ma solo un'impasse che ha reso la pace impossibile. Gli insediamenti israeliani sono triplicati in 20 anni, rendendo il controllo israeliano sui territori ancora più forte. Gli unici a trarne vantaggio sono Israele e i politici Usa che pensano solo all'elettorato».
Secondo alcuni un sì dall'Assemblea generale rafforzerebbe il profilo diplomatico dei palestinesi.
«Certo, darebbe loro accesso alla Corte penale internazionale, all'Unesco e ad altre istituzioni mondiali. Ma la prospettiva di un popolo palestinese con più peso contrattuale non va giù ad americani e israeliani che vogliono una Palestina debole, divisa, ricattabile e isolata».
Che passi consiglierebbe alla leadership palestinese?
«Organizzare elezioni vere e una riconciliazione nazionale che nasca in un consenso sull'approccio da tenere nel conflitto. Serve una strategia non violenta che mobiliti le masse palestinesi. Senza questi elementi, il voto Onu è solo un addobbo da vetrina. Anche i palestinesi hanno le loro colpe, il vero problema sono loro. Hamas e Fatah continuano ad anteporre il proprio interesse al bene nazionale. Il fatto che potenze esterne quali Israele, Usa e Iran traggano vantaggio da questa discordia è secondario».
Non basterebbe che Hamas rinunciasse alla violenza riconoscendo Israele?
«Il giorno in cui gli israeliani riconosceranno lo Stato palestinese si potrà chiedere a questi ultimi di fare lo stesso. L'idea che questo non deve essere un processo completamente reciproco tra gente alla pari è inaccettabile. Dov'è il riconoscimento israeliano della patria palestinese? E perché i palestinesi dovrebbero rinunciare alla violenza se non lo fa anche Israele?».
Se si arriverà mai alla pace, sarà attraverso i negoziati?
«Io non sono un pacifista eppure penso che questo conflitto non sarà risolto con la violenza ma quando il rapporto di forza cambierà. Oggi Israele si sente troppo sicura e protetta e non ha incentivi alla pace. Dovrebbe capire che la realtà nella regione è stata stravolta dalla primavera araba e che la sua politica oppressiva verso i palestinesi l'ha lentamente delegittimata di fronte al mondo. Il suo futuro dipende dalla capacità di capire e risolvere queste due insidie. Perché la sua stessa sopravvivenza dipende dalla creazione di uno Stato Palestinese».

Repubblica 20.9.11
Israele è in pericolo se si isola dal mondo
di Thomas L. Friedman


NON sono mai stato tanto preoccupato per il futuro di Israele. Lo sgretolamento dei pilastri della sicurezza di Israele - la pace con l´Egitto, la stabilità della Siria e l´amicizia con Turchia e Giordania - abbinato al governo più inetto dal punto di vista diplomatico e più incompetente dal punto di vista strategico della sua storia hanno messo lo Stato ebraico in una situazione pericolosissima.
Il governo americano è stufo marcio di questi leader israeliani, ma è ostaggio della sua inettitudine, perché in un anno di elezioni la potente lobby filoisraeliana può costringere la Casa Bianca a difendere lo Stato ebraico all´Onu anche quando sa che il governo di Tel Aviv sta portando avanti politiche che non sono né nel suo interesse né nell´interesse degli Stati Uniti.
Israele non è responsabile del rovesciamento del presidente egiziano Hosni Mubarak o delle rivolte in Siria, o della decisione della Turchia di cercare di ritagliarsi un ruolo guida a livello regionale scagliandosi cinicamente contro Israele per aver spaccato il movimento nazionale palestinese fra Gaza e Cisgiordania. Quello di cui il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu è responsabile è di non aver messo in campo, in risposta a tutte queste trasformazioni, una strategia in grado di difendere gli interessi di Israele sul lungo periodo.
Anzi no, una strategia Netanyahu ce l´ha: non fare nulla, rispetto ai palestinesi o rispetto alla Turchia, che lo costringa ad andare contro la sua base, a scendere a compromessi con le sue idee o a inimicarsi il suo principale partner di coalizione, l´estremista di destra Avigdor Lieberman, che ricopre l´incarico di ministro degli Esteri. Dopo di che, chiedere aiuto agli Stati Uniti per bloccare il programma nucleare iraniano e per farsi tirar fuori da pasticci di ogni genere, ma fare in modo che il presidente Barack Obama non possa chiedere nulla in cambio mobilitando i Repubblicani al Congresso per mettergli i bastoni fra le ruote e incoraggiando i principali esponenti della comunità ebraica a insinuare che Obama è ostile a Israele e sta perdendo i voti degli ebrei. Ecco qua: non si può certo dire che Netanyahu non abbia una strategia.
«Anni di sforzi diplomatici per far accettare Israele in Medio Oriente sono crollati in una settimana con l´espulsione degli ambasciatori dello Stato ebraico da Ankara e dal Cairo, e con la frettolosa evacuazione del personale dell´ambasciata da Amman», ha scritto Aluf Benn sul quotidiano israeliano Haaretz. «La regione sta rigettando lo Stato ebraico, che si rinchiude sempre di più dietro mura fortificate, sotto la guida di una leadership che rifiuta qualsiasi cambiamento, movimento o riforma […] Netanyahu ha dato prova di una passività totale di fronte ai drammatici cambiamenti avvenuti nella regione e ha consentito ai suoi rivali di prendere l´iniziativa e fissare l´agenda».
Che cosa avrebbe potuto fare Israele? L´Autorità Palestinese, che negli ultimi cinque anni ha fatto grandi passi avanti nella costruzione delle istituzioni e delle forze di sicurezza di uno Stato in Cisgiordania, alla fine si è detta: «I nostri sforzi per costruire lo Stato non hanno indotto Israele a fermare gli insediamenti o a impegnarsi per giungere alla separazione dei Territori Occupati, perciò in pratica non stiamo facendo altro che sostenere l´occupazione israeliana. Andiamo alle Nazioni Unite, facciamoci riconoscere come Stato all´interno dei confini del 1967 e combattiamo Israele in questo modo». Una volta resosi conto della situazione, Israele avrebbe dovuto proporre un suo piano di pace o cercare di influenzare la diplomazia dell´Onu con una risoluzione che riaffermasse il diritto sia del popolo palestinese che di quello ebraico di avere uno Stato all´interno dei confini storici della Palestina, e facendo ripartire i negoziati.
Netanyahu non fatto nessuna delle due cose e ora gli Stati Uniti si stanno barcamenando per disinnescare la crisi, per non essere costretti a opporre un veto alla proposta di creare lo Stato palestinese, una mossa che potrebbe rivelarsi disastrosa in un mondo arabo che marcia sempre più verso l´autogoverno popolare.
Quanto alla Turchia, la squadra di Obama e gli avvocati di Netanyahu in questi ultimi due mesi hanno lavorato instancabilmente per risolvere la crisi nata dall´uccisione di civili turchi da parte di agenti delle forze speciali israeliane nel maggio del 2010, quando la flottiglia turca cercava in tutti i modi di sbarcare a Gaza per portare aiuti alla popolazione. La Turchia pretendeva scuse ufficiali. Poi però Bibi ha smentito i suoi stessi avvocati e ha respinto l´accordo, per orgoglio nazionale e per paura che Lieberman lo usasse contro di lui. Risultato: la Turchia ha espulso l´ambasciatore israeliano.
Quanto all´Egitto, la stabilità lì ormai è un ricordo e qualunque nuovo Governo al Cairo dovrà fare i conti con pressioni populiste antisraeliane più forti che mai. Tutto questo in parte è inevitabile, ma perché non mettere in campo una strategia per minimizzare il problema proponendo un vero piano di pace?
Ho grande simpatia per il dilemma strategico di Israele e non mi faccio nessuna illusione sui suoi nemici. Ma Israele oggi non offre ai suoi amici - e Obama è fra loro - nessun elemento per difenderlo. Israele può scegliere di combattere contro tutti oppure può scegliere di non arrendersi e attutire il colpo ricevuto con un´apertura, sul fronte delle trattative di pace, che gli osservatori equilibrati possano considerare seria, in modo da limitare il suo isolamento.
Purtroppo oggi Israele non può contare su un leader o su un esecutivo capace di simili sottigliezze diplomatiche. Non resta che sperare che gli israeliani se ne rendano conto prima che questo Governo precipiti ancora di più lo Stato ebraico nell´isolamento, trascinandosi dietro l´America.
Traduzione di Fabio Galimberti

l’Unità 20.9.11
Bersani «Urgenti norme per bilanci certificati, codici etici e garantire la partecipazione»
Violante: oggi più che ai tempi di Tangentopoli bisogna reagire alla delegittimazione
Trasparenza dei partiti
La sfida Pd: subito la legge
Il leader Pd contro le «correnti terziste» e il Pdl che non è un partito: «C’è un padrone». E ricorda il Gran consiglio del fascismo che decretò la caduta di Mussolini. «Oggi non siamo neppure lì».
di Simone Coillini


Il plebiscitarismo di Berlusconi, certo, e il populismo leghista, ma poi c’è da fare i conti anche col terzismo di chi va avanti dando un colpo a destra e uno a sinistra, il conformismo di chi ha ruoli di direzione e di orientamento nella società, per non parlare dell’antipolitica che invade le piazze, quelle vere e quelle virtuali. Nel Pd nessuno si fa illusioni: già ora è difficile, ma anche quando finalmente questo governo andrà a casa, il lavoro per l’unico partito che si chiama Partito e che si chiama Democratico sarà ancora tutto da svolgere.
Non a caso in queste ore convulse sul piano politico, giudiziario ed economico, i vertici del Pd si sono chiusi per una giornata in una sala convegni di Montecitorio per discutere di una questione all’apparenza assai lontana dalla stretta attualità: «I partiti e lo spirito della Costituzione». E non a caso Pier Luigi Bersani ha chiesto ai suoi parlamentari di farsi promotori di un’iniziativa che porti in tempi rapidi alla discussione di una legge sui partiti che attui i principi costituzionali e che richieda a tutte le forze politiche di dotarsi di bilanci certificati, precisi meccanismi di partecipazione e codici etici, pena l’inammissibilità alla presentazione delle liste elettorali.
A mettere in evidenza il rischio che si corre, tutti, anche una volta superato Berlusconi, è Luciano Violante, che nella relazione d’apertura dei lavori definisce «certamente necessario e non più rinviabile» un cambio di governo, aggiungendo però: «Non dobbiamo cadere nello stesso errore in cui molti di noi caddero ai tempi di tangentopoli quando, accecati dalla possibilità della vittoria, perdemmo di vista la crisi di sistema». Per il responsabile del forum Pd sulla Riforma dello Stato, la fase attuale è anche più grave di quella dei primi anni 90, perché «il processo di delegittimazione colpisce la politica nella sua interezza». L’antipolitica oggi è anche più pericolosa, dice Violante, perché «ha preso le vesti di tendenze autodistruttive del sistema». Per questo una forza come il Pd deve «individuare i vizi veri della politica e proporre credibili e rigorose via d’uscita, ricostruendo un rapporto di fiducia tra cittadini e politica». Infine, un richiamo: «La Costituzione prescrive che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche sono tenuti ad adempierle “con disciplina e onore”. Quello che vale per chiunque ricopra pubbliche funzioni deve valere anche per i partiti politici» e, per quanto riguarda il Pd, «dobbiamo chiedere a noi la medesima correttezza che chiediamo ai nostri avversari». Dotte relazioni sono affidate a Enzo Cheli sulle forme di organizzazione, a Mario Dogliani sulla separazione della politica e dell’economia, a Valerio Onida sul partito e le autonomie territoriali.
Ma se anche nel corso degli inerventi il tema dell’antipolitica è quello che torna con più frequenza, Bersani chiudendo i lavori e prima di salire al Colle per discutere con Napolitano dell’attuale situazione politica chiarisce che il Pd non dovrà fare i conti soltanto con questo fenomeno. Oggi in Italia ci sono infatti anche «correnti terziste» convinte che «dando un colpo a destra e un colpo a sinistra alla fine si aprano le acque come nel Mar Rosso senza bagnarsi troppo». Un’atteggiamento che per il leader del Pd non è meno pericoloso dell’antipolitica, perché tende a sottovalutare il ruolo fondamentale dei partiti: «Attenzione, non è detto che finito Berlusconi ci troveremo in una situazione senza più populismo. Non è detto che la malattia produca la medicina. Quando andrà via la destra ribalterà il tavolo creando un terreno minato. Ci vuole una partecipazione organizzata con meccanismi esigibili di trasparenza, prima del leader devono venire le istituzioni, non basta l’idea del leader carismatico che suona il piffero e tutti dietro».
Anche perché i frutti di questo modello sono sotto gli occhi di tutti. «Ci rendiamo conto del perché siamo finiti in una situazione in cui tutto il mondo chiede le dimissioni di Berlusconi e lui non le dà? Perchè il Pdl non è un partito, c’è un predellino e c’è un padrone. Non siamo in Spagna, dove il partito chiama Zapatero e lo invita a considerare nuove elezioni per il bene del paese. E non siamo neppure dice facendo riferimento alla riunione del ‘43 che provocò la caduta di Benito Mussolini al Gran consiglio del fascismo che si è riunito straordinariamente per dire passiamo la palla al Re».

Corriere della Sera 20.9.11
Sponda moderata o unione a sinistra

Quali alleanze per il Partito democratico
di Paolo Franchi


Ci mancava solo la foto di Vasto, quella che ritrae insieme sorridenti Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e (un po' meno allegro) Pier Luigi Bersani. Davvero sta riprendendo corpo, a sinistra, il fantasma dell'Unione, come teme Walter Veltroni? Oppure ha ragione chi, come Paolo Gentiloni, paventa che a Vasto sia stata posata la prima pietra di una minialleanza di sinistra, votata in partenza alla sconfitta?
Almeno a prima vista, l'Unione, che malamente sorresse tra il 2006 e il 2008 il secondo governo di Romano Prodi, non c'entra molto. Le foto di allora, non ancora ingiallite, ritraggono il più eterogeneo gruppone di protagonisti, comprimari, caratteristi e comparse che si possa immaginare («da Mastella a Bertinotti», si sintetizzava ironici all'epoca); stavolta, di moderati non c'è proprio traccia. E però, quanto a eterogeneità, non scherza nemmeno il trio visto all'opera nella ridente cittadina abruzzese: è altamente probabile, per esempio, che Di Pietro (a modo suo con qualche ragione) non amerebbe affatto sentirsi definire «di sinistra», e che tanto Bersani quanto Vendola avrebbero molte difficoltà a considerarlo tale. In realtà, i raffronti polemici con i fallimenti del passato, si tratti dell'Unione o della «gioiosa macchina da guerra» progressista di Achille Occhetto, aiutano molto poco e, in ogni caso, possono appassionare (si fa per dire) soltanto una platea sempre più ristretta di aficionados. A una platea molto più vasta, non solo e non necessariamente di sinistra, occorre dare risposte chiare e convincenti su altre questioni, di quelle che una volta si sarebbero definite strategiche. E il compito di fornirle spetta, non c'è dubbio, in primo luogo al Pd.
Sarebbe importante, anzi, è decisivo sapere, per cominciare, quali alleanze il Pd considera più indicate non solo per battere Silvio Berlusconi, ma anche, e soprattutto, per governare questo Paese e trarlo fuori dalla tempesta. Per essere più precisi: il segretario Bersani è ancora persuaso che l'unica prospettiva vincente, per oggi e per domani, sia quella dell'intesa tra una sinistra a netta prevalenza riformista e una parte, la più grande possibile, dell'Italia moderata (Francesco Cossiga avrebbe detto: del centro-sinistra, con il trattino), o si è venuto anche lui convincendo che al centro c'è poco o nulla da fare? Giureremmo, nonostante Silvio Berlusconi faccia di tutto e di più per propagandare le ragioni dell'antiberlusconismo senza aggettivi, che il segretario del Pd non ha cambiato idea. Ma, se è così, ci sarebbe bisogno che questa idea venisse confermata e argomentata, e che per affermarla in primo luogo a sinistra, dove è minoritaria assai più che ai tempi del vecchio Pci, si aprisse quella battaglia politica e culturale che fin qui, colpevolmente, non è stata data: lo stalinista Palmiro Togliatti, si perdoni l'incauta citazione, non invocò Baffone (correva l'anno 1950) ma un nuovo Giolitti, il socialdemocratico Bersani non dovrebbe avere troppi problemi, nel 2011, a invocare subito, e con forza, una stagione di collaborazione e insieme di competizione (seconda citazione incauta) con i moderati. Senza fermarsi per prendere atto che non c'è niente da fare, anche se il tempo stringe drammaticamente, davanti al primo, al secondo o al terzo no di Casini o di chi per lui.
L'obiezione è nota: incamminandosi per questa strada, il segretario del Pd scambierebbe il certo (e cioè i voti di Vendola e di Di Pietro, nonché quelli dei suoi elettori che hanno i centristi in gran dispetto) per l'incerto di un'alleanza con forze la cui consistenza è ancora largamente da verificare, e i cui leader sono peggio che riluttanti all'idea. Ma, a parte il fatto che altre strade per la sinistra riformista non ce ne sono, proprio a questo servono le battaglie politiche: a modificare orientamenti diffusi e all'apparenza immodificabili, a convincere, a guadagnare consensi. E non è scritto nelle stelle che, cercando di costruire le condizioni per un patto di salvezza nazionale con i moderati, il Pd si condannerebbe, con tutte le conseguenze del caso, a tagliare i ponti con Idv e Sel: Di Pietro, poche ore dopo aver additato Casini all'indignazione popolare, ha subito fatto retromarcia invocando il gioco di squadra per battere Berlusconi, Vendola sarà magari una collezione vivente di difetti, ma tutto è fuorché un settario votato alla sconfitta. Un centro-sinistra (con il trattino) che si candidi non solo a vincere, ma a governare in tempi calamitosi, ha bisogno di un centro e di una sinistra più grandi di quanto siano ora. Credibili non perché mettono dei paletti per vietare l'accesso a questo o a quello, ma per le loro leadership e i loro programmi.

il Riformista 20.9.11
Ferrara, dì al Cav la verità
di Emanuele Macaluso

qui

il Riformista 20.9.11
La pornostar, eletta, come Toni Negri, nelle liste radicali
Cicciolina va in pensione

qui

l’Unità 20.9.11
Se nel campionato dei maschi brillanti la minaccia è donna
Luisella Costamagna, conduttrice con Luca Telese di In Onda (La7), è stata sostituita senza consenso dal vicedirettore
del Giornale, Porro, nella nuova edizione del programma
di Guia Soncini


È colpa di Mentana. Si è messo a fare il sommario editorialeggiante, quello in cui lega tra loro le notizie del giorno spiegandoti anche come leggerle, trascurando l'avvertenza «Non provate a rifarlo da soli», come sulle immagini di sport pericolosi. Quindi adesso i conduttori di In onda fanno i loro due bravi editorialini iniziali, che dovrebbero farci capire che in quel programma ci siano due punti di vista, come Nicola Porro sia l'Arturo Diaconale del ventunesimo secolo. (Era il 1995 quando, tanto per far rimpiangere Angelo Guglielmi che non ne era più direttore da poco, a Rai3 si provò una di quelle idee buone solo sulla carta: Ad armi pari prevedeva che la destra fosse rappresentata da Diaconale e la sinistra da Renzo Foa. Il programma non è rimasto nella storia della tv).
A Luisella Costamagna sconsiglierei di sottolineare che, con la nuova conduzione, il pubblico si è dimezzato (ad agosto In onda superava agevolmente il sei per cento; sabato, la puntata d'esordio con Nicola Porro non è arrivata al tre): sarebbe facilissimo, per chi l’ha sostituita, cavillare. Il palinsesto estivo, la trasmissione quotidiana, le cavallette. Taccia, l'ex conduttrice, anche su quegli editoriali, che quasi fanno sentire la mancanza dei commenti sui di lei vestiti. Luca Telese, con lei, entrava in studio con una goffaggine che quasi faceva tenerezza, con l’aria di chi si chiede cosa ci faccia, questa signora bionda, nella stanza in cui gli uomini fumano il sigaro e parlano di cose serie, invece di stare di là a ricamare. Entrava in studio e non azzardava editoriali. Si limitava alle battutine. Che lei liquidava con l'aria serena di chi era la più bella della scuola e in più non aveva bisogno di farsi passare il compito; con la grazia che non si può non avere verso chi, dentro, è ancora il bambino paffuto che nessuno invitava alle feste e nessuna voleva baciare.
Poche cose urtano gli ex bambini grassi come la condiscendenza delle belle donne, anzi, solo una: che le belle donne giochino nel loro stesso campionato. Quello degli uomini riconosciuti come brillanti. Quello il cui territorio presidiano ferocemente, con tutta la tigna post-traumatica di chi deve dimostrare troppe cose a troppe persone, di chi non supererà mai i traumi infantili – non importa quanti successi professionali consegua, o quanti adulti lo invitino, da adulto, a giocare con loro.
Quest'estate, quando già smaniava per avere in trasmissione qualcuno a lui più affine (prima di Porro, il ruolo della Costamagna era stato offerto a Filippo Facci: non sarò certo io a dedurne che, al Fatto, Telese passi le giornate a rimpiangere i compagnucci del Giornale), Telese ha rilasciato un'intervista a Diva e donna. L'intervista conteneva molti teneris-
simi tentativi di disegnarsi come il bambino popolare che ha confidenza con il più figo della scuola («Con Mentana abbiamo una frequentazione goliardica, da compagni di banco»), ma la parte sociologicamente più interessante erano i passaggi sulla co-c\onduttrice.
Prima un «Sul mio sito non puoi sapere quanti, nelle ricerche, mettono come parole chiave “Luisella Costamagna cosce”» (tradotto: mica è colpa mia se lei è obiettivamente innanzitutto un paio di cosce); poi, rivelando il proprio dramma di uomo dalla bellezza soprattutto interiore: «Vorrebbe essere riconosciuta come la grande intellettuale della sinistra ma anche che le guardino le tette». La tragedia che unifica il presidente del Consiglio e il conduttore televisivo e finisce in farsa: perché lei è in grado di fare un lavoro d’intelletto, e in più è pure bellissima? Come si permette? È un’ingiustizia cosmica. Allora la mamma mi mentiva, quando diceva che non si poteva avere tutto, che il mio essere bruttino e antipatico era il pegno che dovevo pagare per la mia intelligenza.

l’Unità 20.9.11
La dipendenza da sesso
Luigi Cancrini sisponde a Fabio D.P.


Un sacco di chiacchiere, tanti approfondimenti, ma la verità l'ha già detta Veronica Lario anni fa. Quest'uomo è malato. Qualcuno provveda, anche con un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Fine del discorso.
RISPOSTA Dal sito di Psicolinea.it alla voce Sessuologia, Giuliana Proietti scrive: «Il National Council of Sexual Addiction definisce la dipendenza da sesso come una persistente e crescente modalità di comportamento sessuale messo in atto nonostante il manifestarsi di conseguenze negative per sé e per gli altri. L’individuo percepisce la sessualità come elemento centrale della sua vita (“faccio il premier a tempo perso”, ndr) ed agisce quindi in risposta ad un impulso (sessuale) irrefrenabile. Il legame psicologico con l’oggetto (gli oggetti) di tale impulso assomiglia a quello del bambino che entra in un negozio di caramelle. La sua autostima dipende dal numero delle prede conquistate (“erano in undici me ne sono fatte otto”, ndr) o dal numero di rapporti avuti in una settimana o in una notte più che alla qualità dei rapporti personali e alla rete di relazioni sociali. Per guarire, dovrebbe rendersi conto di avere un problema, sapere di essere vittima di una dipendenza». Un risultato, questo lo aggiungo io, che si ottiene solo con l’aiuto delle persone che gli stanno intorno e gli vogliono bene (se ce ne sono).

«la scoperta impietosa della vera natura del mondo dell’il y a, del c’è, il mondo dell’essere nella sua inumana neutralità, prossimo all’Es giebt di Heidegger»
l’Unità 20.9.11
La libertà nelle prigioni  di Levinàs
Gli appunti del filosofo nel campo di reclusione, a partire dagli anni ‘30 Negli scritti si permette di «evadere» attraverso la metafora: «I prigionieri, sotto l’occhio delle sentinelle, hanno conosciuto una vita più ampia»
di Beppe Savaste


Non è molto agevole parlare in un giornale dell’opera di Emmanuel Lévinas «maestro travestito da filosofo», scrissi, «ebreo travestito da greco», scrisse Jacques Derrida. Fondazione di un’etica che ha aperto e ecceduto la filosofia verso l’esperienza dell’altro, degli altri, in una tensione trascendentale che ne fa in realtà un im»menso trattato dell’ospitalità, inanellando sinonimi vertiginosi come Dio, l'Infinito e il Volto del prossimo.
Se è auspicabile che chi si occupa di cose pubbliche e di beni comuni ne facesse l'esperienza, sappiamo quanto oggi il pensiero, perfino il linguaggio non orientato a uno scopo immediato, non godano di buona fama, o siano addirittura visti con sospetto. Forse per questo, paradossalmente, un buon viatico all’opera di Lévinas è proprio la raccolta dei suoi scritti di prigionia fino a oggi inediti, l’umile laboratorio delle idee di uno dei più grandi maestri del Novecento. In questi cahiers de captivité, «quaderni di prigionia», scritti a partire dalla fine degli anni ’30 in uno stalag, campo di prigionieri militari (ma gli appunti continuano fino al 1961), si trovano le basi dell’opera futura di Lévinas che culminerà in Totalità e infinito (1961) e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974).
IL MONDO INFRANTO
Il lettore e il discepolo di Lévinas vi trova l'emozione di autentiche scoperte. Prima di tutto il fatto che, dieci anni dopo il suo primo libro dedicato alla fenomenologia di Husserl e Heidegger, Lévinas desse pari dignità nei suoi appunti alla critica letteraria e alla filosofia. Nel campo di prigionia legge Dante, Ariosto, Proust, Edgar Allan Poe, Leon Bloy, e addirittura si progetta romanziere. Triste opulenza, poi ribattezzato Eros, è uno dei romanzi abbozzati in quel periodo, suscettibile di illuminare le sue idee filosofiche: come la descrizione del «mondo infranto», che prima ancora della prigionia dice la disfatta di fronte all’hitlerismo della Francia e dell’Europa; mondo della «caduta dei drappi», delle istituzioni, che è la caduta stessa della realtà. Ma è anche la scoperta impietosa della vera natura del mondo dell’il y a, del c’è, il mondo dell’essere nella sua inumana neutralità, prossimo all’Es giebt di Heidegger: «Le cose si decompongono, perdono il loro senso: le foreste divengono alberi tutto ciò che nella letteratura francese voleva dire foresta scompare (...) Ma non voglio parlare della fine delle illusioni; piuttosto della fine del senso (il senso stesso come illusione)». L’avversione per Heidegger, detto per inciso, precede l’adesione al nazismo di quest’ultimo.
Altra scoperta di questi appunti, forse la più emozionante per chi scrive, è quella della fecondità del linguaggio, del suo potere di significare al di là di quanto dice, e del miracolo della «metafora», che Lévinas preferisce al «concetto»: meraviglia per la potenza della parola ordinaria che per suo tramite si innalza fino a lambire tendere, indicare, significare il Divino, l’Infinito, che per Lévinas è (anche) sempre metafora dell’altro, del prossimo, della relazione sociale.
LA SORPRESA
Meraviglia che condividiamo, leggendolo, per il potere rivelativo del linguaggio, assistendo alla genesi dell'inconfondibile e iperbolico stile della sua opera, che nasce nella scrittura. L’esaltazione della potenza polifonica delle parole ordinarie («il più abita il meno»), della loro trascendenza (trans, attraversamento, e scando, risalita), salda in una sorta di etica del sublime-umile il piano del linguaggio e quello della relazione e della condizione umana.
Infine, è nella prigionia che Lévinas scopre l’ebraismo, come condizione elettiva (pur essendo un prigioniero militare francese, Lévinas era raggruppato con altri israeliti). Paradosso di un uomo che combatté in difesa della lingua francese e scoprì la lingua ebraica, cui si dedicherà all’indomani della Liberazione seguendo i corsi di Chouchani, base dei suoi celebri «scritti talmudici».
Vorrei illustrare l'ultimo punto, che in realtà sarebbe il primo: la scoperta, grazie alla prigionia, di quella nuova soggettività che trova l’infinito nel finito.
È la prigionia (certo non paragonabile a quella dei campi di sterminio, ma pur sempre un’esperienza della sospensione del senso) che permette a Lévinas una singolare evasione, simile a quella affermata qualche anno prima in un'opera filosofica anti-heideggeriana dal titolo appunto Dell’evasione: «Si tratta di uscire dall'essere per una nuova via al rischio di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni sembrano le più evidenti». Ed ecco allora la più scandalosa e commovente delle «scoperte».
Nel 1945 Lévinas scrive retrospettivamente della miseria della prigionia, della «monotonia delle recinzioni di filo spinato», delle «mattinate piene di bruma in cui ci si muove per andare a lavorare».
Eppure, continua, i prigionieri, «per paradossale che possa sembrare, nella recintata distesa dei campi hanno conosciuto un’estensione di vita più ampia e, sotto l’occhio delle sentinelle, una libertà insospettata. Non sono stati dei borghesi, ed è qui la loro vera avventura, il loro vero romanticismo». «Il prigioniero, come un credente, viveva nell’al di là. Non ha mai preso sul serio la stretta cornice della sua vita», «si sentiva impegnato in un gioco che oltrepassava infinitamente questo mondo di apparenze», «mangiava fissando gli oceani e il vento delle steppe russe cullava il suo sonno».
Scandalosamente, Lévinas descrive «una privazione che ha restituito il senso dell’essenziale»: «La mano sacrilega del sorvegliante poteva sfogliare finanche le lettere e come penetrare nell’intimità dei ricordi. Ma abbiamo scoperto che non se ne moriva.
Abbiamo imparato la differenza tra avere e essere. Abbiamo imparato quanto poco spazio e quante poche cose occorrano per vivere. Abbiamo imparato la libertà».

il Fatto 20.9.11
Ritorno al passato
Papa Ratzinger riaccoglie i seguaci di Lefebvre che accusano ancora gli ebrei di deicidio
di Marco Politi


Il Concilio diventa un optional. Ai seguaci di Lefebvre, feroci negatori del Vaticano II, papa Ratzinger concede di non sottoscrivere un’accettazione solenne dei testi conciliari. Dopo un biennio di negoziati con il movimento lefebvriano il Sant’Uffizio ha trovato un’ambigua formula di riconciliazione.
I rappresentanti del movimento scismatico Lefebvre potranno sottoscrivere un documento in cui dei grandi testi innovativi del Concilio non si parla per niente. Basterà che mettano la firma sotto un “preambolo dottrinale” che indica l’assenso – cui sono tenuti i fedeli cattolici – alla Rivelazione, ai dogmi della Chiesa e al “magistero” del pontefice e del collegio dei vescovi (cioè genericamente le encicliche e i documenti conciliari). Il preambolo chiarisce peraltro che nei tre livelli il grado di assenso è differente. Il Papa nemico del relativismo concede dunque ai nemici dichiarati delle riforme conciliari la relativizzazione del Vaticano II.
Il preambolo dottrinale, consegnato il 14 settembre dal cardinale Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, al superiore della Fraternità lefebvriana, monsignor Fellay, non è stato reso pubblico. I lefebvriani hanno un paio di mesi per decidere di firmarlo. In cambio saranno premiati: potranno diventare un’organizzazione autonoma con un proprio vescovo. Come l’O-pus Dei. Benedetto XVI ama le procedure segrete. Segreti sono stati gli incontri con i lefebvriani, segrete le trattative per accogliere nella Chiesa i fuoriusciti della Chiesa anglicana.
È come se Ratzinger per principio volesse escludere l’opinione pubblica cattolica e lo stesso episcopato mondiale dal partecipare al dibattito sui temi più delicati della vita della Chiesa. La riconciliazione con i negatori del Concilio lefebvriani o il modo con cui avverrà non sono di scarso interesse. Toccano il modo di essere della Chiesa nel XXI secolo. Riguardano i fedeli cattolici, ma anche ebrei, esponenti delle altre religioni e non credenti. Perché la svolta conciliare sancì nel triennio 1962-1965 la riforma liturgica, il principio della libertà di coscienza e di religione, l’archiviazione del concetto di popolo ebraico deicida e la rivalutazione dell’ebraismo.
Il Concilio inaugurò il dialogo ecumenico tra i cattolici e le altre Chiese cristiane, affermò che musulmani, ebrei e cristiani adorano l’unico stesso Dio di Abramo, riconobbe “frammenti di verità” nelle grandi tradizioni religiose dell’Asia. È esattamente ciò contro cui sistematicamente si sono scagliati per decenni i seguaci del vescovo francese Marcel Lefebvre, partecipante al Concilio e poi diventato fautore di una Chiesa parallela al punto di essere scomunicato da Giovanni Paolo II. In questo spirito di odio alle novità del Concilio si sono formati preti, vescovi e seminaristi della Fraternità Pio X. Benedetto XVI dall’inizio del suo pontificato si è prefisso l’obiettivo di “fare la pace” con i lefebvriani.
Per questo ha liberalizzato la messa preconciliare. Per questo, suscitando enormi proteste nel mondo cattolico, ha levato la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani nel gennaio 2009 (fra di loro, il prelato negazionista Williamson).
Ma la maggioranza dell’episcopato e specificatamente il collegio cardinalizio si sono sempre espressi nel senso che i lefebvriani per rientrare nella Chiesa cattolica dovessero accettare lealmente il Vaticano II. Il 4 febbraio 2009 una nota della Segreteria di Stato voluta dal cardinale Bertone assicurò che la Fraternità Pio X sarebbe stata riconosciuta dalla Chiesa solo a condizione indispensabile di un “pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II e del magistero dei papi Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI”.
DI QUESTO esplicito “pieno riconoscimento” nel preambolo elaborato dal San-t’Uffizio per riaccogliere i lefebvriani non c’è traccia. Il compromesso escogitato ricalca la formula della “Professione di fede”, cui devono sottostare dal 1989 vescovi e teologi. Ma vescovi e teologi nella vita quotidiana non provengono da movimenti costituitisi proprio per negare il Vaticano II. Sta qui l’ambiguità del “documento di pacificazione”. Sta qui il sapore di parziale svendita dell’evento fondamentale della Chiesa cattolica nell’era contemporanea. Il documento menziona il Vaticano II, interpretandolo nell’“ermeneutica della continuità” cara a papa Ratzinger, e lascia ai lefebvriani libertà di “legittima discussione” e lo “studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e del magistero successivo”. Che il Concilio diventasse un self service per volontà di un pontefice nessuno poteva immaginarlo.

Repubblica 20.9.11
Ecco la macchina che "legge" il funzionamento cerebrale anche nei pazienti che non possono più comunicare Inventata dal neuroscienziato Giulio Tononi, viene presentata oggi al convegno "The Future of Science" a Venezia
Coscienza senza segreti così potremo misurarla
La scoperta potrebbe essere utilizzata anche in tema di testamento biologico
di Carlo Brambilla


Un "coscienziometro". Uno strumento capace di misurare i diversi livelli della coscienza umana. Una sorta di "macchina della verità" in grado di stabilire, anche in pazienti che non possono più comunicare, il funzionamento cerebrale superiore. Non tanto la capacità di reagire a singoli stimoli fisici, ma la possibilità di pensare in modo complesso. Una scoperta che potrebbe rivoluzionare le teorie sul funzionamento del cervello e avere anche un utilizzo in tema di testamento biologico.
È la nuova frontiera della neuropsichiatria che verrà presentata oggi a Venezia al convegno internazionale "The Future of Science" promosso dalla Fondazione Veronesi, dedicato quest´anno alla mente. A illustrarla sarà il suo scopritore, il neuroscienziato trentino Giulio Tononi, che da vent´anni vive a lavora negli Stati Uniti, dove è attualmente docente di Psichiatria a Madison, nel Wisconsin.
Più della macchina è importante la teoria sviluppata da Tononi per spiegare cos´è la coscienza, quella che ha definito "teoria dell´informazione integrata". «La coscienza è quella cosa che sparisce ogni notte quando ci addormentiamo di un sonno senza sogni - spiega Tononi. Tutti sappiamo cosa vuol dire. Se veniamo svegliati in quella fase non ricordiamo niente di particolare. Una cosa diversa è il sonno nella fase Rem, quando si sogna, quando una forma di coscienza è attiva».
Secondo Tononi la coscienza avrebbe sede nella corteccia cerebrale. E si dovrebbe a una complicatissima serie di relazioni tra i neuroni: non sarebbe tanto la quantità di informazioni possedute dal cervello a determinare la coscienza, quanto la capacità di integrare tra loro le diverse informazioni. Una capacità che può essere misurata utilizzando la stimolazione transcranica magnetica (Tms).
«Il "coscienziometro", come lo abbiamo soprannominato, in collaborazione con Marcello Massimini, docente di neurofisiologia all´Università Statale di Milano, non è altro che una macchina che genera un campo magnetico capace di generare a sua volta un campo elettrico nel cervello», spiega Tononi.
Alla testa del paziente viene avvicinata, in modo non invasivo, una sorta di farfalla di plastica a forma di otto che determina una piccola corrente, completamente indolore, nel cervello. La corrente attiva una parte di corteccia cerebrale. È come andare a bussare al cervello. Grazie a un elettroencefalogramma con 64 elettrodi, capaci di registrare ogni reazione, si vede come risponde a quello stimolo. Se il cervello risponde con una singola entità, ma con tanti stati diversi allora il paziente è cosciente. Se invece quando bussiamo si frammenta in tanti pezzi indipendenti, senza integrazione, il paziente non è cosciente.
Misurando la capacità di integrazione delle informazioni cerebrali il "coscienziometro" è in grado di determinare il grado di coscienza. Che può essere vicino a zero, come nel sonno senza sogni o sotto anestesia farmacologica, o in casi di coma, oppure più elevata, in altre fasi del sonno, o nei casi di torpore.
Tononi non vuole entrare nel merito della eventuale prognosi del paziente. Ma, senza dubbio, i neurologi potranno avere uno strumento in più nelle loro mani per fare diagnosi nei casi più difficili. Ma quale parte del cervello è necessaria per sviluppare il pensiero? «Dagli studi sulle lesioni e sulle stimolazioni ci siamo persuasi che, per esempio, l´attività di alcune regioni cerebrali, come la corteccia e il talamo sia più importante dell´attività di altre regioni - spiega Tononi. Mentre il cervelletto non avrebbe un ruolo importante nella coscienza».
Il cervello resta una giungla in gran parte inesplorata, che pesa circa 1300 grammi, ma contiene cento miliardi di cellule nervose. La corteccia cerebrale, da sola, ha un milione di miliardi connessioni, le sinapsi. «Se contassimo una sinapsi al secondo - ricorda Tononi - finiremmo il nostro conteggio fra 32 milioni di anni».