venerdì 23 settembre 2011

l’Unità 23.9.11
Il Pd: «Il 5 novembre in piazza nel nome del popolo italiano»
Bersani attacca il premier «impresentabile» all’Onu e dà appuntamento alla manifestazione del 5 novembre a Roma. Cesa ai parlamentari Udc dopo il voto su Milanese: «Preparatevi al voto a marzo»
di Simone Collini


Il 5 novembre il Pd scende in piazza «in nome del popolo italiano». Pier Luigi Bersani lascia Montecitorio dopo il voto su Marco Milanese parlando di «giornata amara per il Parlamento». In ogni caso. Perché se anche quel no all’arresto sancito dai voti di Pdl e Lega fosse stato «ispirato da una continuità di governo, dall’esigenza di sopravvivere», dice il leader Pd, anche questo sarebbe «da irresponsabili». Mentre tutti gli occhi sono puntati sul crollo della Borsa, l’impennata dello Spread, il ministero del Tesoro che rivede al ribasso il Pil, il governo ancora una volta si mostra incapace di affrontare la crisi economica e il «premier a tempo perso» è impegnato in sempre più numerose vicende giudiziarie («Italiani a tempo pieno» è la campagna d’affissione lanciata ieri, mentre da stamattina sui muri delle città del nord compariranno i manifesti sulla Lega «salva-cricca»). Per questo Bersani lasciata Roma e arrivato a Cortona dove apre la scuola di formazione politica del Pd che andrà avanti fino a domenica dà appuntamento alla manifestazione del 5 novembre con lo slogan «in nome del popolo italiano». «Noi non siamo semplicemente l’opposizione, noi vorremmo interpretare un’esigenza di riscossa per la ricostruzione di questo Paese». Vuole una piazza «larga», il leader del Pd: «Cercheremo di chiamare tutti». Perché a questo punto la priorità è «rimettere il Paese all’altezza della sua dignità».
Il voto su Milanese non è che una goccia. Le notizie sulle vicende giudiziarie del premier, le intercettazioni, le battute, hanno fatto il giro del mondo. Scuote la testa, Bersani: «Noi siamo la settima potenza industriale, siamo uno tra i primi dieci Paesi del mondo. Ma possiamo essere ridotti che all'Onu si parla di Palestina e Frattini interverrà lunedì, in coda a tutti, perché noi mandiamo il ministro degli Esteri e non mandiamo il presidente del Consiglio. E non lo mandiamo perché è impresentabile».
Bersani non si capacita di come il governo si arrocchi nonostante si dimostri ogni giorno incapace di far fronte alle «condizioni reali del nostro Paese». Per il leader del Pd serve «un nuovo inizio, una discontinuità, un gesto»: «Cosa ci vuole ancora per cambiare governo? Abbiamo uno Spread di oltre 400 punti e le imprese sono con l’acqua alla gola», twitta sul cellulare.
Dar vita a un governo di transizione è l’ipotesi sempre in campo. Anche se, nella stessa Udc, strenua sostenitrice del governo di responsabilità nazionale, dopo il voto di ieri iniziano ad emergere perplessità sulla possibilità di andare a una soluzione come questa. Avrebbe detto infatti il segretario dei centristi Lorenzo Cesa ai parlamentari del suo partito: «Preparatevi al voto. Ormai è chiaro che dopo oggi non vi è alternativa alle elezioni anticipate. Servirebbe un governo di responsabilità nazionale, ma senza sponde nel Pdl l’ipotesi è impraticabile. Dunque, non perdiamo tempo e prepariamoci perché a marzo si vota»
Nel Pd la soluzione del governo di transizione rimane in cima alle ipotesi, ma Bersani non si vuole far trovare impreparato di fronte al rischio di una precipitazione verso le urne. Per questo sta impegnando il partito in una serie di iniziative che culmineranno, dopo la giornata di mobilitazione straordinaria del 15 ottobre, con la manifestazione del 5 novembre a Roma. E il candidato premier? Bersani ribadisce che non vuole mettere «il carro davanti ai buoi» e che il modello dell’uomo solo al comando si è già visto che non funziona. «Adesso bisogna lavorare al progetto, poi viene coalizione e infine il candidato, che si sceglierà con meccanismi di ampia partecipazione. Finalmente entreremo in una democrazia seria».❖

l’Unità 23.9.11
Sono 4,5 milioni gli stranieri in Italia. Aumentano, ma con ritmo minore


Hanno superato quota 4,5 milioni gli stranieri residenti in Italia, aumentati in un anno di 335 mila unità, meno dell’anno precedente, raggiungendo così quota 7,5% della popolazione (+0,5% rispetto all’anno precedente). E più di uno straniero su cinque è romeno. La «fotografia», aggiornata al 1 gennaio 2011, è dell’Istat, nel rapporto su «La popolazione straniera residente in Italia». Che ha raggiunto quota 4.570.317, in costante crescita anche se l’incremento è leggermente inferiore a quello registrato nel 2009 (343 mila unità). Nel 2010 in Italia sono nati circa 78 mila bambini stranieri, il 13,9% del totale dei nati da residenti. Più dell’anno precedente (+1,3%) ma l’aumento è stato nettamente inferiore a quello (+6,4%) registrato nel 2009. Riguardo alla distribuzione geografica, l’86,5% degli stranieri risiede nel Nord e nel Centro Italia, il restante 13,5% nel Mezzogiorno. Gli incrementi maggiori della presenza straniera rispetto all’anno precedente, anche nel 2010, nel Sud (+11,5%) e nelle Isole (+11,9%). Al 1 gennaio 2011 i cittadini rumeni, con quasi un milione di residenti (9,1% in più rispetto all’anno precedente), rappresentano la comunità straniera prevalente in Italia (21,2% del totale). Nel corso del 2010 è cresciuto il numero dei cittadini dei Paesi dell’Europa centro-orientale: oltre alla Romania, soprattutto Moldova (+24,0%), Federazione Russa (+18,3%), Ucraina (+15,3%) e Bulgaria (+11,1%). Aumentano nche i cittadini dei Paesi del sud-est asiatico: Pakistan (+16,7%), India (+14,3%), Bangladesh (+11,5%), Filippine (+8,6%), Sri-Lanka (+7,6%). La presenza di questi cittadini stranieri è molto importante anche nel settore agricolo: secondo Coldiretti, nei campi un lavoratore su dieci è immigrato e la presenza di queste persone è diventata indispensabile per le grandi produzioni. La vendemmia 2011 in Italia, ad esempio, è andata in porto precisa Coldiretti anche grazie all’impegno di 30 mila lavoratori stranieri.

l’Unità 23.9.11
Diritto di voto e cittadinanza
Partita da Roma la raccolta firme


«È una vergogna che ci siano 50 mila bambini che ogni anno nascono o arrivano in Italia, che frequentano le nostre scuole, che si ritrovano poi a 18 anni senza sapere se sono italiani o sono immigrati: bisogna che noi diciamo loro che sono italiani». Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha commentato così la scelta di aderire alla campagna “L’Italia sono anch’io” mettendo la propria firma alle due proposte di legge di iniziativa popolare per la riforma della cittadinanza e il diritto di voto alle elezioni amministrative per gli immigrati. Una campagna promossa da una nutrita schiera di organizzazioni che vede, fra gli altri, Acli, Caritas, Fondazione Migrantes, Centro Astalli. Quindi Arci, Asgi (Associazione studi giuridici sull'immigrazione), Cgil, Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità d'accoglienza), Emmaus Italia, Federazione delle Chiese evangeliche, Lunaria, Razzismo Brutta Storia, Rete G2 (Seconde Generazioni), Sei Ugl, la Tavola della Pace e Terra del Fuoco. E ieri, oltre a Bersani e ad un gruppo di parlamentari del Pdl, hanno firmato per le due leggi di iniziativa popolare anche il leader di Sinistra Ecologia e Libertà, Nichi Vendola, il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, il leader dei Verdi Angelo Bonelli, l’autore e attore Ascanio Celestini, il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio, lo scrittore e sceneggiatore Claudio Piersanti, il presidente del settore giovanile Federcalcio Gianni Rivera e il regista Andrea Segre. «Concedere la cittadinanza e il diritto di voto, a partire da quello amministrativo, a chi da anni contribuisce al progresso del nostro paese lavorando e pagando le tasse ha spiegato Bonelli è una questione di civiltà prima ancora che una questione politica». I testi delle due proposte di legge sono stati depositati nei giorni scorsi in Cassazione e ieri è partita ufficialmente la raccolta firme in tutta Italia. Ci sono infatti sei mesi di tempo per raggiungere l'obiettivo delle 50 mila firme in calce a ciascuno dei due testi.

l’Unità 23.9.11
A Cervia il segretario dei metalmeccanici vara una piattaforma contrattuale pragmatica
La minoranza di Durante pronta a votare a favore. Critica invece l’ala sinistra di Cremaschi
Fiom apre una nuova stagione Sintonia tra Landini e Camusso
Riconquistare il contratto nazionale». All’assemblea nazionale Fiom, Landini propone una piattaforma pragmatica che prevede una moratoria sugli scioperi. Susanna Camusso apprezza e viene applaudita.
di Massimo Franchi


Dialettica, ma non dualismo. La prima giornata dell’Assemblea nazionale Fiom a Cervia (Ravenna) segna un’inedita sintonia fra la relazione di Maurizio Landini e l’intervento di Susanna Camusso. Gli applausi reciproci (cinque quelli riservati a Camusso, da una platea che appena 6 mesi fa proprio a Cervia fischiò Vincenzo Scudiere) sanciscono un riavvicinamento inaspettato, un clima nuovo, in special modo se si considera che avviene il giorno dopo la firma del segretario genenerale della Cgil sul contestato (dalla Fiom e dalla minoranza) accordo del 28 giugno.
La pax intraconfederale è figlia soprattutto del profilo assai pragmatico che Landini ha voluto dare alla piattaforma per il rinnovo (o meglio, «la riconquista») del contratto nazionale dei metalmeccanici. L’obiettivo viene perseguito mettendo al centro l’idea di partecipazione dei lavoratori alle scelte organizzative delle aziende. Per fare questo si concede l’uso di uno strumento come «la clausola di raffreddamento», una sorta di moratoria sugli scioperi. Dove le aziende si impegnano a discutere con i sindacati su organizzazione e prospettive, il sindacato si impegna alla sospensione di iniziative unilaterali e quindi, sostanzialmente, di scioperi.
Landini ha parlato soprattutto di contratto, facendo un solo riferimento sull’accordo del 28 giugno: «Esiste una differenza di valutazione con la Cgil, il punto che non mi convince è che non c’è in quell’accordo, sul terreno della democrazia, una soluzione per validare un contratto ed evitare un accordo separato. Io considero che non aver risolto questo problema è un punto di debolezza del sindacato». Per il resto il segretario generale dei metallurgici ha ribadito l’idea di un referendum contro l’articolo 8.
Camusso ha apprezzato la relazione sottolineando come «la codeterminazione è una sfida difficile, ma la straordinarietà della crisi chiede di determinare le stagioni del cambiamento». Pur rimarcando le divergenze di vedute sull'accordo del 28 giugno («ancora più necessario ha spiegato dopo l'articolo 8»), Camusso ha voluto sottolineare soprattutto i punti di unione: «Landini ha proposto con nettezza il tema dell'essere nella Cgil, ci deve essere una giusta valorizzazione della dialettica, che però non può diventare un dualismo che indebolisce tutti. Non ci sono più organizzazioni che si guardano, ma una grande organizzazione, che è la Cgil, e che è per forza un'organizzazione plurale. Se l'idea è quella di stare insieme ha concluso la Cgil sarà con voi tutti i giorni». E ad apprezzare la relazione di Landini è anche la minoranza interna, vicina a Camusso, guidata da Fausto Durante. «Il segretario ha premesso di non parlare a nome dell’intera segreteria sottolinea Durante un elemento di discontinuità importante. Se il testo della piattaforma sarà coerente con la relazione di Landini, noi voteremo a favore». Molto critica con segretario federale e confederale è invece l’ala sinistra guidata da Giorgio Cremaschi e dal segretario nazionale Sergio Bellavita.
LA PIATTAFORMA
Landini ha spiegato che il testo della piattaforma «deve escludere le deroghe», «chiedendo a Fim, Uilm, Federmeccanica un atto di responsabilità per arrivare ad un nuovo contratto nazionale» ed «evitare di estendere il modello Fiat a tutte le imprese del nostro Paese cancellando i diritti». Al centro della piattaforma c’è il tema «della democrazia, far votare i lavoratori il più spesso possibile», puntanto sulla «riunificazione dei processi produttivi e la riduzione della precarietà, per evitare che la competizione sia scaricata solo sui lavoratori». Riguardo alla questione salariale «la richiesta economica proposta è di 206 euro di aumento per il triennio». Landini ha concluso spiegando che la lotta per la riconquista del contratto è «una battaglia comune di tutta la Cgil e non riguarda solamente i lavoratori metalmeccanici». Oggi l’assemblea si chiuderà varando il testo della piattaforma da sottoporre al voto dei lavoratori.

il Fatto 23.9.11
Dopo l’accordo sindacati-confindustria
Maurizio Landini, segretario Fiom
“Sfidiamo il governo, referendum sull’articolo 8”
di Salvatore Cannavò


I rapporti tra Fiom e Cgil iniziano a mutare. Merito, forse, della riuscita della sciopero generale del 6 settembre, degli attacchi del governo ai diritti. Ieri, all’assemblea dei delegati Fiom riunita a Cervia per discutere della nuova piattaforma dei metalmeccanici in vista del rinnovo del contratto (che scade a dicembre) il dissenso con Susanna Camusso sull’accordo del 28 giugno, pur ribadito, ha lasciato spazio all’intesa sulla piattaforma contrattuale, contestata invece dalla sinistra interna. E soprattutto su una condivisione della battaglia contro l’articolo 8 voluto dal ministro Sacconi nella manovra (quello che stravolge lo Statuto dei lavoratori, aggirando l’articolo 18). Una norma che la Fiom propone di abrogare mediante un referendum popolare.
 Cosa sta cambiando dentro la Cgil?
 C’è un nuovo clima in buona parte perché lo sciopero del 6 settembre è andato molto bene e all’interno delle fabbriche registriamo un consenso molto ampio sulle nostre posizioni. Se c’è dissenso sull’accordo del 28 giugno, siamo d’accordo però sul fatto che occorra contrastare l’articolo 8 della manovra economica. Su questo proclameremo un pacchetto di otto ore di sciopero per dare continuità a quello di settembre e proponiamo che si discuta l’organizzazione di un referendum abrogativo. Ma ci batteremo anche contro la chiusura delle fabbriche, a partire da Termini Imerese e dalla Irisbus.
 La Cgil però ha firmato
 l’accordo del 28 giugno con Confindustria che voi contestate...
 E infatti rimane il giudizio negativo su quell’accordo. Penso, tra l’altro, sia stato sbagliato aver firmato senza la consultazione preventiva degli iscritti. Al momento la nostra piattaforma è più importante perché è con quella che vogliamo riconquistare il contratto nazionale senza deroghe e affermare le regole democratiche nei luoghi di lavoro. Proporremo a Cisl e Uil e alle controparti di sancire delle regole per evitare di fare altri accordi separati.
 Una Fiom più pragmatica?
 No, è una Fiom che vuole riconquistare il contratto che non c’è e che usa la pratica di quest’anno e mezzo, gli accordi e le battaglie fatte per raggiungere l’obiettivo. È una Fiom in coerente continuazione con il proprio percorso. Del resto, a non volere il contratto è proprio la Fiat.
 Cosa propone la vostra piattaforma?
 La lotta contro la precarietà con l’introduzione di una retribuzione oraria a parità di mansione per tutte le forme di lavoro. Una retribuzione più alta per i contratti atipici, fermi restando i percorsi di stabilizzazione. Poi c’è la questione salariale: chiediamo, per il quinto livello, un aumento di 206 euro nel triennio. Chiediamo il blocco dei licenziamenti e l’introduzione dei contratti di solidarietà.
 E alle imprese cosa chiedete?
 Avanziamo una proposta che sfida le imprese sul piano della partecipazione: chiediamo la disponibilità a negoziare con i lavoratori le modifiche organizzative, prima di prendere le decisioni, con un confronto preventivo. Chiediamo, cioè, la possibilità per le Rsu di avanzare delle proposte su quel piano. Preferiamo concordare delle modifiche piuttosto che ricorrere ad azioni di mobilitazione. È i un segnale forte di responsabilità.
 Che possibilità di successo ha la Fiom di contare sulla sponda Fim e Uilm?
 Il tentativo della Fiat di cancellarci è fallito, il consenso nei luoghi di lavoro alla Fiom è aumentato. Le imprese sono sensibili su questo punto. Credo sia interesse anche delle altre organizzazioni definire insieme delle regole democratiche. La Fiom non pretende egemonie, ma semplicemente ribadire che votare gli accordi è un diritto dei lavoratori. Le imprese devono scegliere se proseguire sulla strada degli accordi separati o intraprendere quella del confronto collettivo. Non sarà facile conquistare il contratto ma credo ve ne siano le condizioni e sarebbe un atto di responsabilità da parte delle imprese accettare una condivisione delle regole.
 Il governo Berlusconi è un ostacolo in questo?
 Il governo va cambiato, la manovra non è accettabile anche perché registra una distanza crescente dai cittadini. Anche per questo, oltre che per difendere la democrazia nei luoghi di lavoro, il contratto e contestare l’articolo 8, scenderemo in piazza il 15 ottobre a Roma. Occorre andare a votare e formare così un nuovo governo con politiche diverse, con al centro il lavoro e gli investimenti, la patrimoniale, la tassazione delle transazioni finanziarie, il rifiuto di nuovi tagli alle pensioni.

il Riformista
Il sindacato unito può essere protagonista
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/66019404

l’Unità 23.9.11
All’Assemblea generale delle Nazioni Unite oggi l’atteso discorso del presidente Abu Mazen
Obama ribadisce il veto americano al Consiglio di Sicurezza. Le critiche dei pacifisti israeliani
Onu, il mondo diviso sullo Stato palestinese Rabbia nei Territori
Nel cuore di Tel Aviv. Intellettuali e uomini di cultura: la Palestina deve essere riconosciuta
Atteso il discorso di Abu Mazen mentre il presidente Usa ribadisce il no dell’America. Manifestazioni di protesta a Ramallah e da oggi anche nelle capitali della primavera araba. Le critiche dei pacifisti israeliani
di Umberto De Giovannangeli


A dar conto della rabbia e della delusione di un popolo è il «Gandhi» palestinese. Barack Obama e l'amministrazione Usa hanno «scelto d'inviare al mondo un messaggio molto negativo, tradendo le promesse fatte al popolo palestinese»: a sostenerlo è Mustafa Bargouthi, una delle figure più autorevoli e stimate della società palestinese, deciso assertore di una risposta popolare e non violenta all’occupazione israeliana. «L'amministrazione americana denuncia ha scelto d'inviare al mondo un messaggio molto negativo, tradendo de facto le promesse fatte al popolo palestinese e confermando la propria mancanza d'imparzialità rispetto a ogni ipotesi di soluzione del conflitto con Israele. Soluzione che, non va mai dimenticato, noi aspettiamo da 63 anni». Bargouthi oggi dà voce alla delusione generale dei palestinesi per l'atteggiamento degli Usa e le esitazioni di altri Paesi occidentali.
DOLORE E RABBIA
Monta la rabbia anti-Usa in Cisgiordania dopo il discorso alle Nazioni Unite con il quale Barack Obama ha ribadito il suo «stop» al tentativo palestinese di ottenere un riconoscimento come Stato al Palazzo di Vetro. All'indomani dell'intervento, circa un migliaio di palestinesi si sono riuniti a Ramallah e successivamente decine di loro si sono raccolti dinanzi agli uffici dell'Autorità Nazionale Palestinese, nel centro cittadino. Molti gli striscioni di contestazione: uno liquidava Obama come un «ipocrita», un altro sosteneva che il presidente degli Stati Uniti si è schierato «con gli assassini contro le vittime», «l'America è la testa del serpente», recitava un altro. Per oggi, al termine delle preghiere del venerdì, sono state convocate dimostrazioni di protesta dinanzi alle ambasciate americane in Libia, Egitto e Tunisia, i Paesi protagonisti della “Primavera araba”». Quello di Obama, rileva in proposito Bargouthi, è un ««tradimento» che a suo giudizio finirà per ripercuotersi sulla credibilità di Washington in tutto il mondo islamico percorso dai fremiti di quella «Primavera araba» che «a parole la Casa Bianca e l'Occidente affermano di sostenere».
Rabbia, dolore, speranza. E un’attesa febbrile per il discorso che oggi il presidente dell’Anp Mahmud Abbas (Abu Mazen) pronuncerà dalla tribuna del Palazzo di Vetro. «Se non avranno altra scelta» gli Usa utilizzeranno il loro potere di veto per bloccare la richiesta palestinese di ammissione come Stato membro all' Onu: Obama lo ha confermato ad Abu Mazen, durante il loro incontro, avvenuto l’altro ieri a margine dei lavori dell'Assemblea generale. A riferirlo, in un briefing alla stampa, è stato il portavoce della Casa Bianca, Ben Rhodes. «Saremo costretti ad opporci a qualunque iniziativa intrapresa in seno al Consiglio di Sicurezza e, se necessario, a porre il veto», ha precisato Rhodes.
«Riconoscere la Palestina per il bene d'Israele». È questo lo slogan con il quale sotto un insolito sventolio di bandiere palestinesi nel cuore sionista di Tel Aviv nomi illustri della cultura israeliana e di veterani della politica, delle forze armate e della diplomazia hanno rilanciato ieri la loro campagna pacifista, e controcorrente, a favore del riconoscimento di quello Stato palestinese che il presidente Abu Mazen sollecita all’Onu, nei confini antecedenti la guerra dei Sei Giorni del 1967. L'elenco a sorpresa comprende 28 vincitori del Premio Israele la massima onorificenza assegnata annualmente dallo Stato ebraico -, due ex ambasciatori, l'ex ministra pacifista Shulamit Aloni e Yael Dayan, già deputata di sinistra e figlia dell'eroe nazionale Moshe Dayan. Ci sono poi intellettuali del calibro di Amos Oz, Avishai Margalit, Yoram Kanyuk e artisti di fama come Ari Folman (vincitore di un Golden Globe) o Chana Meron, l'anziana attrice sfuggita al nazismo e a un attentato dei feddayn entrata di recente nel Guinness dei primati per la sua lunghissima carriera (ben 83 anni sulle scene). Ma non solo. Invoca la «Palestina libera» persino il generale Shlomo Gazit, ex capo dell’intelligence militare israeliana. Il luogo dell'incontro Rothschild Boulevard 16 non è stato scelto a caso. È lo stesso in cui, nel 1948, il padre della patria David Ben Gurion lesse e firmò la dichiarazione di indipendenza dello Stato ebraico. Un passo che anche Abu Mazen sostengono coraggiosamente i partecipanti avrebbe ora il diritto di fare. Se non altro perchè come si legge in un appello «l’indipendenza parallela dei due popoli rafforzerebbe alla fine l'uno e l'altro».

Repubblica 23.9.11
Il giorno più lungo della Palestina "Ma l´America ci ha tradito"
Nei Territori fra speranza e tensione. Oggi Abu Mazen all´Onu
di Fabio Scuto


HEBRON - Se ne sta chino sulla macchina da cucire a pedali Nabil, il fabbricante di bandiere più famoso di tutta la città. Messe da parte quelle del "Barcelona F.C." e del "Real Madrid" che si vendono come niente nella Città vecchia di Gerusalemme, da giorni sotto i suoi sfilano chilometri di stoffa bianca, rossa, verde e nera: i colori della bandiera palestinese. Migliaia e migliaia sono uscite da questo laboratorio che di colpo si è affollato di parenti vicini e lontani di Nabil, venuti a cucire per far fronte alle richieste di queste settimane. «Il mio sogno è di confezionare quella destinata a sventolare davanti al Palazzo di Vetro dell´Onu, la mia vita sarebbe appagata, uno Stato e la nostra bandiera che sventola con tutte quelle altre a New York».
Il sogno di Nabil però per il momento è destinato a aspettare, si infrange sul muro di gomma alzato dal presidente americano Barack Obama sulla richiesta di riconoscimento all´Onu che Abu Mazen a nome della Palestina intende chiedere. Fra i due ieri notte a New York c´è stato un nuovo incontro – il capo della Casa Bianca ha visto anche il premier israeliano Netanyahu – che però non ha mutato la sostanza: l´America metterà il veto al Consiglio di Sicurezza perché rifiuta "la scorciatoia" – così il presidente ha definito la richiesta palestinese – delle Nazioni Unite. Abu Mazen non intende cedere alle pressioni e alle velate minacce americane e porterà il caso all´Assemblea generale dell´Onu, dove oggi pronuncerà il discorso più importante della sua vita da quando è succeduto a Yasser Arafat nel gennaio 2005 per chiedere un seggio per la Palestina.
C´è più rabbia che sorpresa nelle strade di Hebron – sulfurea città dove Hamas alle ultime elezioni ha fatto il pieno ma che ora è sotto il controllo militare dell´Anp - per il «tradimento» di Obama. I palestinesi se l´aspettavano. «Quando è arrivato alla Casa Bianca le sue idee e le sue aspirazioni ci hanno dato speranza. Quel che ha detto all´Onu dimostra che non è differente dai suoi predecessori», incalza Mohammad Zidane delegato della federazione sindacale mobilitata a sostegno del discorso che Abu Mazen terrà a New York. Manifestazioni pacifiche sono previste in tutti i centri della Cisgiordania, con discorsi nelle piazze, canti, balli tradizionali. «Deve essere un giorno di festa e facciamolo restare tale», ha ordinato il presidente palestinese prima di partire ai capi della sicurezza. Ma la tensione è palpabile, l´incendio potrebbe essere improvviso.
L´ultimo sondaggio dice che Abu Mazen non è mai stato così popolare da quando è presidente, oltre l´83% dei palestinesi sostiene il ricorso all´Onu. Ed è piaciuta alla gente anche quella sua fermezza davanti alle pressioni di Usa e Europa, non sempre benevole. Ma è un appoggio intriso di cautela e scetticismo e passare con facilità dalla disillusione alla rabbia. «E´ la prima cosa positiva in vent´anni e forse è l´ultima chance per una soluzione pacifica per i due Stati», dice Abdul Rahman, direttore di una Ong palestinese, il futuro della Palestina non è così roseo visto da Hebron. Qui, dove vivono 165 mila palestinesi, ci sono 3000 soldati israeliani che proteggono 300 coloni asserragliati a ridosso del mercato nel centro della città. E´ un continuo di intemperanze, provocazioni, sassaiole e scontri sfociati spesso nel sangue.
Chi spera di ballare sulle ceneri della richiesta palestinese all´Onu sono gli uomini di Hamas, che hanno sempre visto con scetticismo l´iniziativa pronti a sfruttare una possibile débacle di Abu Mazen a loro favore. «E´ stato sbagliato in partenza andare all´Onu», dice al telefono da "Gazastan" Sami Abu Zuhri, portavoce del movimento che controlla la Striscia dal 2007. «Il discorso di Obama riflette la tendenza americana a favore di Israele e dell´occupazione militare, dimostra che gli arabi e i palestinesi hanno sbagliato a continuare a puntare sugli americani».

l’Unità 23.9.11
Israele, il Labour punta sul rosa Il neo segretario è donna
Ex giornalista televisiva di successo, «colomba» pacifista e sostenitrice delle istanze sociali che sono alla base del movimento degli «indignados» israeliani: è Shelly Yachimovich, neo segretaria del Labour israeliano...
di U.D.G.


Dopo Golda, Shelly. Nel momento più difficile della loro storia, i laburisti israeliani affidano il loro destino politico a una donna: ex giornalista televisiva di successo, «colomba» pacifista e sostenitrice delle istanze sociali che sono alla base del movimento degli «indignados» israeliani. La nuova leader del partito laburista israeliano, Shelly Yachimovich eletta l’altro ieri al secondo turno, ha esortato il premier Benyamin Netanyahu «a proporre il riconoscimento di uno stato di Palestina, al fianco di Israele, nel quadro di un negoziato di pace». L’unilaterale proclamazione di uno Stato palestinese aprirebbe invece, a suo dire, scenari pericolosi per Israele. Yachimovich, che è la seconda donna a prendere la guida del partito laburista, dopo Golda Meir (1969-1974), ha superato l’ex segretario generale del partito e ex ministro della Difesa Amir Peretz, ottenendo il 54% dei voti rispetto al 46%.
CON GLI INDIGNADOS
Malgrado l’appello all’unità nelle file del partito che ha una lunga tradizione di spietate guerre intestine il rischio di un’aperta animosità col campo guidato da Peretz appare reale, a giudizio degli osservatori. Nel discorso di investitura Yachimovich detto: «È giunto il momento di ricostruire il Paese in uno spirito di giustizia, uguaglianza, senso di responsabilità per il popolo e socialdemocrazia». «Torneremo a essere ha detto il partito del Paese, come i laburisti sono sempre stati». Yachimovich, 51 anni, nata a Kfar Saba (vicino a Tel Aviv), popolare ex giornalista di sinistra, assume le redini di un partito intimamente legato alla storia di Israele, che si trova da anni in profondissima crisi, dopo essere precipitato da 44 seggi sui 120 della Knesset nelle legislative del 1992 ad appena 13 nelle ultime elezioni, per scendere poi a otto dopo la scissione di cinque deputati guidati dal ministro della Difesa Ehud Barak, ex leader del partito. Nel conflitto con i palestinesi Yachimovich si schiera nel campo delle «colombe» dichiarandosi a favore di uno Stato di Palestina in pacifica coesistenza con Israele. Yachimovich, che è entrata in politica appena sei anni fa ed è deputata alla Knesset, ha ricevuto telefonate di congratulazione dal premier Netanyahu e dalla leader del partito di maggioranza relativa Kadima, all’opposizione, Tzipi Livni. Quest’ultima ha auspicato una stretta cooperazione tra i rispettivi partiti. Una cooperazione tra donne dal carattere forte e dalle idee molto chiare. Nel 2009, Shelly interviene al Comitato centrale del Labour chiamato a pronunciarsi sulla partecipazione del partito al governo guidato da Benjamin Netanyahu (Likud, destra). L’ingresso è perorato dall’allora leader laburista, Ehud Barak. Shelly si oppone strenuamente. «Nel nuovo governo a dare il tono saranno Bibi (Netanyahu), Avigdor Lieberman e gli ortodossi di Shas», scandisce Shelly l’«indignata». Quanto agli impegni di portare avanti il processo di pace con i vicini arabi, Yachimovich, espresse grande scetticismo: «Sulla carta si può scrivere qualsiasi cosa», annotò. Andando al governo, concluse in un tumulto di applausi e contestazioni, «i laburisti si avviano verso una morte vergognosa». Un declino a cui Shelly Yachimovich cercherà di porre fine. Un’impresa titanica, ma a cui «Shelly l’indomita» crede fermamente. A l’Unità che l’ha raggiunta telefonicamente nel suo nuovo ufficio a Tel Aviv, la neo segretaria del Labour dice: «Giustizia sociale e pace sono le due facce di una stesa medaglia: quella di un Paese che vuole investire sul futuro e non chiede altro di essere un Paese “normale”, non più costretto a vivere in trincea, ma profondamente integrato in un Medio Oriente attraversato dalle “primavere arabe”». E sul «patto tra donne», Yachimovich si mostra più che possibilista: «Con Tzipi (Livni, ndr) abbiamo deciso di incontrarci nei prossimi giorni per costruire un fronte comune contro il peggiore governo nella storia d’Israele».

La Stampa 23.9.11
Tradizione o rivoluzione? Il Talmud alla prova delle donne
Haim Cipriani, l’unico rabbino riformato riapre la questione che vale anche per cristianesimo e islam
di Elena Loewenthal


Qualche giorno fa in Israele quattro allievi ufficiali sono stati espulsi dal corso perché colpevoli di un ammutinamento alquanto singolare. Durante una rappresentazione riservata ai cadetti, nell’istante in cui sul palco è salita una donna - nello specifico una soldatessa - e ha cominciato a cantare, loro hanno lasciato la sala. In un modo non necessariamente plateale, ma sufficiente per mandare su tutte le furie il loro comandante che, trattandosi non di uno spettacolino di lap dance o canti folkloristici ma di una seria commemorazione, aveva ordinato a tutti di restare.
I quattro disertori sono ebrei ortodossi. Molto ortodossi. Secondo un’interpretazione talmudica (non un comandamento, beninteso), ascoltare una donna che canta equivale a vederla nuda, ed è severamente vietato. Almeno a chi ammette tale, indubbiamente ardita, similitudine.
La notizia ha destato scalpore in Israele, dove è scottante il tema della partecipazione dei religiosi alla vita civile, e soprattutto militare, del Paese: gli ultraortodossi, infatti, di solito sono esentati dal servizio militare, e questo privilegio genera malcontento, per non dire risentimento, nella società laica. Ma al di là dell’amenità e del sorriso di sufficienza che questa notizia strappa, insieme a un certo sgomento (chissà che cosa avrà augurato a quei quattro la soldatessa cantante, chissà come si sarà sentita), si tratta di un caso quasi emblematico per una questione cruciale dei nostri tempi, che va ben al di là dei confini d’Israele. Perché questo curioso episodio porta alla ribalta un’evidenza tanto ovvia quanto difficile da digerire. Soprattutto per il sesso forte.
L’ovvietà dimostrata dai quattro cadetti refrattari alle voci di donne è che la questione femminile è una questione femminile (il bisticcio era inevitabile), ma nondimeno una questione maschile: condurre la donna sullo stesso piano dell’uomo, abolire discriminazioni ataviche ed emarginazioni socioreligiose, non è tanto una generosa concessione che il maschio fa o farà nei confronti del sesso debole, bensì una virata culturale che ci riguarda tutti nello stesso modo. Non è, insomma, un dare, un regalare al sesso debole, bensì una diversa taratura dell’umanità in generale, uomini e donne.
Che la faccenda dei diritti delle donne riguardi tanto il femminile quanto il maschile, lo spiega molto bene Haim F. Cipriani nel suo saggio Ascolta la tua voce. La donna nella legge ebraica (Giuntina editrice, pp. 186, € 14). Ancora una volta, l’ambito ebraico risulta un buon terreno di indagine utile per «leggere» anche le altre religioni monoteistiche e le culture dominanti. Al pari del cristianesimo e dell’islam (per quest’ultimo la questione femminile è più che mai all’ordine del giorno), l’ebraismo ha sviluppato un sistema di emarginazione. È pur vero che la donna ebrea ha sempre avuto i suoi spazi - non in sinagoga, ma in casa. Ma non le sono mancati, per contro, limitazioni, ostacoli, divieti. Tanto è vero che nell’agenda dell’ebraismo riformato l’istanza prima è quella di una parità fra i sessi indispensabile per affrontare il presente: e se Haim Cipriani è il primo e al momento unico rabbino italiano riconosciuto membro del collegio rabbinico progressivo europeo, il volto riformista d’Israele ha già una lunga storia in fatto di donne rabbino. La prima ad accedere al ministero fu infatti Regina Jonas, a Berlino nel 1935. Morì ad Auschwitz pochi anni dopo, ma da allora l’ebraismo riformato ha visto una costante presenza femminile sul pulpito e nella casa di studio, abolendo ogni barriera fra i sessi
Ora si tratta di imboccare una di queste due strade: o sondare la tradizione in cerca di quegli spunti capaci di «ritoccare» la concezione della donna e dei sessi. Oppure ammettere che il presente, ma soprattutto il futuro, esigono un affrancamento da quella tradizione che, per questo e altro, resta un vicolo cieco.
È un discorso molto delicato, che in fondo vale per ogni tradizione. Guardando la Bibbia, dobbiamo soffermarci sulle figlie di Zelofad, che esigono e ottengono da Mosè il diritto di avere l’eredità del padre (in assenza di figli maschi), o rassegnarci ad accantonare i passi più «misogini» (in fondo la lapidazione non si pratica più, anche se sta scritta nel testo sacro…).
Qualunque sia la via da intraprendere, è innegabile che oggi come oggi la posizione della donna rappresenti un’infallibile cartina di tornasole per misurare la potenzialità di progresso civile e umano di culture e religioni. Proprio perché non è una faccenda di galanteria - di cui i quattro cadetti israeliani non hanno certo dato grande prova - ma riguarda tanto il fronte femminile quanto quello maschile dell’umanità.

l’Unità 23.9.11
Iniezione letale nella notte di mercoledì scorso, dopo l’ultimo no della Corte Suprema
Condannato per l’omicidio di un agente, 7 testimoni su 9 avevano poi ritrattato le accuse
Davis giustiziato in Georgia «Sono innocente, Dio vi perdoni»
Troy Davis è stato giustiziato in Georgia, dopo 22 anni trascorsi nel braccio della morte. Si è proclamato innocente fino alla fine. «Non sono stato io ad uccidere ha detto cercate la verità. Dio abbia pietà di voi».
di Marina Mastroluca


«Non ho ucciso vostro figlio, vostro padre, vostro fratello. Sono innocente, ciò che è avvenuto quella sera non è stato colpa mia, non avevo una pistola». Fino alla fine Troy Davis, 42 anni, ha proclamato la sua innocenza. Anche quando si è rivolto ai parenti del Mark MacPhail, il poliziotto della cui morte è stato accusato. «Tutto quello che posso dire è di guardare più a fondo in questo caso, per trovare davvero la verità».
L’ultimo appello alla Corte Suprema non è servito che a rinviare di poco più di tre ore l’esecuzione. Troy Davis è stato ucciso mercoledì notte in Georgia da un’iniezione letale. Per lui si erano mobilitati in tanti. Gente qualsiasi, che ha firmato una petizione sottoscritta da oltre 630.000 persone, e nomi importanti, come papa Benedetto XVI, i Nobel per la pace Desmond Tutu e Jimmy Carter, 51 membri del Congresso e persino sostenitori della pena di morte come l’ex direttore dell’Fbi William Sessions. Troppi dubbi sulla effettiva colpevolezza di Davis, troppe pecche nell’indagine, troppi punti interrogativi per non chiedersi se qualcosa non fosse andato storto al processo. Troppi anche i neri dietro alle sbarre, più facilmente colpevoli dei bianchi. Contro quello che all’epoca della condanna era poco più di un ragazzo non è stata trovata nessuna prova materiale: non l’arma del delitto, né impronte digitali, né tracce di Dna. Dei nove testimoni d’accusa, sette hanno poi ritrattato, accusando la polizia di averli forzati a riconoscere in quel giovane nero il colpevole.
Condannato 22 anni fa, Davis è diventato un simbolo per la battaglia contro la pena di morte e contro lo stesso sistema giudiziario americano, sbilanciato sul piano razziale.
Dal 2007 per quattro volte la macchina della giustizia che lo ha condannato si è fermata a un passo dal baratro, concedendo altro tempo, un rinvio, una revisione parziale, quando mancavano pochi minuti all’esecuzione. I familiari, gli avvocati e gli attivisti che mercoledì hanno atteso davanti alla prigione l’ultima parola della Corte Suprema speravano che il miracolo potesse ripetersi ancora. Avevano sollecitato l’utilizzo della macchina della verità, per dimostrare l’innocenza di Davis. La Naacp, organizzazione per i diritti dei neri, si è rivolta persino ad Obama, chiedendo di evitare quello che il New York Times ha definito «un terribile errore». Il presidente ha fatto sapere di non poter interferire nelle «procedure di uno Stato federato».
Entrato nella camera della morte alle 11 di sera, Troy Davis è stato dichiarato morto otto minuti più tardi. Non ha voluto l’ultimo pasto, Wende Gozan Brown, di Amnesty international, ha raccontato che ha pregato e che fino all’ultimo ha conservato il suo spirito battagliero. «Non smetterò di lottare fino al mio ultimo respiro. La Georgia si prepara a sopprimere un uomo innocente», le sue parole prima di avviarsi a morire.
A cose fatte i familiari dell’agente ucciso hanno mostrato un certo sollievo, la moglie ha negato che Davis possa essere considerato una vittima. «Noi siamo le vittime ha detto -. Ci sono delle leggi in questo Paese per evitare il caos. Non abbiamo ucciso Troy perché ci andava».
Per tutti quanti hanno sostenuto la causa di Davis per tutti questi anni, l’esecuzione è stata un dolore e una sconfitta. «Se uno dei nostri concittadini può essere giustiziato nonostante così tanti dubbi sulla sua colpevolezza, allora il sistema della pena di morte nel nostro Paese è ingiusto e obsoleto», ha detto Jimmy Carter. «Profonda deplorazione» anche dall’Unione Europea, che aveva chiesto un atto di clemenza.
«Possa Dio avere pietà delle vostre anime», ha detto Davis prima di morire. Ieri un altro uomo è stato giustiziato in Texas: Lawrence R. Brewer, bianco, aveva ucciso un nero nel ‘98 per puro odio razziale.

l’Unità 23.9.11
Via Rasella è stata una scelta che rifarei
Anticipiamo qui un brano delle memorie di uno dei più importanti protagonisti della nostra Resistenza: racconta l’antifascismo, la guerra partigiana, l’impegno politico. E smaschera tutte le menzogne sull’azione del ’44
di Rosario Bentivegna, partigiano


Il mio impegno militare e politico contro il fascismo e per la democrazia non si è mai trasformato in carriera politica, anche se negli anni successivi sono stato un «militante impegnato». Finita la guerra non ho piú avuto nemici ma solo avversari, anche se mi capita spesso di essere oggetto di odiose persecuzioni e aggressioni personali, soprattutto per l’azione militare di via Rasella che condussi insieme ad altri undici compagni dei Gap.
La feroce strage compiuta dai nazifascisti tedeschi e italiani alle Ardeatine sta a dimostrare quanto fossero efficaci le consistenti iniziative militari della Resistenza, cosí com’è accaduto in tutta l’Europa occupata, e quanto male avesse fatto la Resistenza a quel nemico.
Le condanne assolutamente uniformi che ne sono conseguite nei tribunali internazionali e nazionali, militari e civili sono uno dei riconoscimenti piú significativi, anche dal punto di vista storiografico, della correttezza delle iniziative militari dei partigiani europei nel corso del secondo conflitto mondiale, malgrado i piagnistei che esalano dal coro, stonato seppur consistente, che canta la «Saga dei Vinti».
Nel corso della mia vita non mi sono mai pentito di aver partecipato a quell’azione di guerra, anzi l’ho sempre rivendicata con orgoglio. Centinaia di giornali, di manifesti, di oratori nei comizi ci hanno fatto oggetto di una campagna di calunnie, di diffamazione, di menzogne. Ho ricevuto lettere anonime di fascisti (e non) con insulti, volgarità, con grottesche ma violente minacce di morte, o telefonate di gente che non dichiara mai la propria identità. Alla Camera dei deputati, durante i dibattiti parlamentari, onorevoli gentiluomini, deputati della destra postfascista, insultarono Carla Capponi, «grande invalida» e «medaglia d’oro al valor militare», per la sua partecipazione alla Resistenza romana, e in particolare per l’agguato condotto dai Gruppi di Azione Patriottica garibaldini in via Rasella contro «quei poveri, bravi poliziotti nazisti», dandole della «donnaccia» e indirizzandole inequivocabili gesti osceni. Alla faccia di De Gasperi, che l’aveva proposta per la medaglia d’oro al valor militare, e di Einaudi che gliela aveva concessa.
Nostra figlia Elena si sentí spesso ripetere dai professori di scuola che suo padre e sua madre erano degli assassini; molti suoi compagni di scuola (e persino «docenti») la schernivano al motto di «mamma partigiana, mamma p......».
Episodi che hanno dimostrato a lungo non solo la volgarità e la malafede di certa gente, ma anche la vigliaccheria. D’altro canto l’attacco ai Gap garibaldini e a me in particolare, che ero stato destinato dal mio comando a un ruolo centrale in quella vicenda, fu subito scatenato qualche giorno dopo la strage delle Ardeatine, proprio dal segretario romano dei repubblichini, Pizzirani, il quale, per primo, propalò ai suoi «camerati» il miserabile falso degli avvisi nazisti che invitavano i partigiani di via Rasella a costituirsi per evitare l’illegittima ritorsione nazista.
Il partito mi ha sempre difeso in maniera totale e permanente, spesso anche in modo fastidiosamente retorico, presentandomi come un «eroe della Resistenza» (e ciò mi ha provocato sempre un profondo fastidio): non credo negli «eroi» o nei «capi», ma negli uomini che al momento giusto e nel posto giusto sappiano trovare l’indicazione della giusta via, costi quel che costi. Quello che il partito non fece, fu di confutare sempre e con efficacia le menzogne e i falsi che erano stati diffusi sugli avvenimenti di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, in particolare la leggenda metropolitana dei manifesti che tanti imbecilli ancora difendono.(...)
Mi sono sempre difeso sulla base di dati oggettivi e non ho mai avuto bisogno di nascondermi dietro il dito degli ordini ricevuti, come fanno in genere gli assassini nazisti e fascisti. E in oltre mezzo secolo non ho fatto altro che farmi carico (molto spesso da solo), di ristabilire la verità, di confutare le mistificazioni di cui io e i miei compagni siamo stati fatti oggetto, di difendermi e reagire sempre in ogni sede (compresi i tribunali). È una fatica di Sisifo e ogni volta mi sembra di dover ricominciare da capo.
Nel 2006 anche il noto giornalista Bruno Vespa, costretto ad ammettere che i manifesti non ci furono (dopo un lungo carteggio con me e l’obbligo di correggere quanto scritto in un suo libro), ha inventato però, in una pubblicazione successiva, che i partigiani dovevano sapere che ci sarebbe stata la rappresaglia perché i nazisti avevano preavvertito (altro falso, e fu lo stesso Kesselring a dichiararlo); disse anche che i poliziotti in divisa nazista erano in realtà degli italiani padri di famiglia. Come se vestire l’uniforme di un esercito occupante non fosse un’aggravante per un italiano e come se il fatto di essere anziani in realtà l’età media dei Bozen era di trentatre anni fosse un’attenuante delle azioni criminali commesse da quei reparti. L’unica cosa che gli interessava come del resto a tutti quelli che mi hanno sempre accusato era di negare il significato dell’azione partigiana e con essa di tutta la Resistenza. (...)
Aggiungo di aver pagato cara la mia scelta. Via Rasella allontanò da me parenti e amici, anche se e nel cambio ci guadagnai, in numero e qualità me ne avvicinò altri. Uno dei ricordi piú struggenti è quello di mia nonna Marietta, invalida e avanti negli anni, che con il suo bastone di tartaruga se ne andava in giro per i «comizietti», durante le prime campagne elettorali, a litigare con la gente che parlava male di me.
Ciò è capitato, in tempi ormai lontani, a me e ad altri miei compagni, di incontrare gente che rifiutava di stringerci la mano, che non voleva sedersi a tavola vicino a noi al ristorante, e altre sgradevolezze del genere, cosí come di essere fermati e salutati con entusiasmo, per la strada e altrove, da sconosciuti che ci esprimevano la loro solidarietà. Ma tutto questo non ha mai avuto troppa importanza perché io mi sento orgoglioso di essere stato il piú odiato dei partigiani dai fascisti, dagli imboscati e dai vili, anche se mi sento di essere stato soltanto un soldato della Libertà e della Pace, e non mi piace la retorica che troppe volte mi ha messo francamente in imbarazzo.
(...) Recentemente qualcuno ha fatto notare che in via Rasella non c’è alcuna targa commemorativa di un fatto cosí importante nella storia moderna di Roma: una lastra, un’insegna o qualcosa che ricordi che cosa accadde il 23 marzo 1944 nella Roma occupata dai nazisti. Poco male.
Le giovani generazioni non hanno piú molto interesse per queste vicende e in qualche modo credo sia giusto cosí. Hanno la loro vita e il loro tempo davanti e non possono rimanere ancorati a vecchi miti o leggende retoriche di marca reducistica, destinati a scomparire.
Resta il fatto, però: che io a via Rasella ci sono stato perché ci volevo stare, ci sono sempre rimasto e ci sto ancora.

il Fatto 23.9.11
“Povera Rai obbligata all’ignoranza”
Philippe Daverio e il suo Passepartout
di Nanni Delbecchi


Nemmeno al telefono Philippe Daverio perde una piuma del suo garbo suadente, nemmeno il giorno dopo in cui è stata ufficializzata la sospensione della nuova serie di Passepartout, le cui repliche stanno peraltro andando in onda su Raitre (mentre Rai 5 continua a trasmettere regolarmente l'altro suo programma, Emporio Daverio). “Mi scusi, cominciamo l'intervista tra un attimo, qui c'è una persona troppo carina e sorridente che mi sta chiedendo l'autografo. Non posso non farglielo.”
 Prego, ci mancherebbe.
 Non si preoccupi per la penna, ce l'ho io... Come si chiama? Chiara? Fantastico...
 Mi perdoni, ma sa, Passepartout è molto amato dal pubblico.
 Sento. Se non l'ha preparata apposta...
 Ah ah, no davvero. Succede spesso che gli ascoltatori mi fermino per strada, e non sono quasi mai i tromboni che ci si potrebbe immaginare. Sono quasi sempre giovani, quel pubblico che per l'Auditel non esiste perché non è considerato target da supermercato.
 Prego?
 Ma sì, lo saprà anche lei che i parametri dell'Auditel si fondano esclusivamente sullo scaffale del supermercato. Tutti gli altri consumatori non esistono.
 Ci faccia capire meglio.
 Perché la Rai ha deciso di cancellare il suo programma di divulgazione artistica, che ha sempre considerato un fiore all'occhiello a costi minimi?
 Se vuole glielo spiego, ma è molto complicato. Alla base ci sono una serie di complesse eccezioni giuridiche, le stesse che hanno portato alla fine di Parla con me.
 Non saranno formalismi usati come pretesti, con il vero scopo di cacciare la Dandini?
 Questo è certo, anche se...
 La scusa è a prova di bomba.
 Non parli così. Diciamo piuttosto che l'eccezione giuridica è funzionale.
 Nel suo caso che accadrà? Dovrà cambiare il titolo della trasmissione e tutto continuerà come prima?
 Ma certo, finirà così, anche perché sarebbe un vero peccato non mandare in onda le puntate che ci sono state commissionate, e abbiamo già realizzato. Ce ne sono alcune particolarmente utili, come le tre dedicate alla mutazione urbanistica della Cina. I miei concittadini milanesi ancora aspettano un programma che gli spieghi che cos'è stata l'Expo di Shanghai.
 Dunque la Rai è consapevole che Passepartout è un programma che pesa più di quanto conta.
 Certo, anche perché non conta niente, e poi svolge una funzione fondamentale per scaricarsi la coscienza.
 La classica foglia di fico?
 La classica penitenza del confessore. Tre pater, ave e gloria e io ti assolvo da tutti i tuoi peccati.
 La cultura in Rai conta così poco?
 Devo dirle la verità. Secondo la mia esperienza, la gente che lavora in Rai ha molta più passione per la cultura di quanto non riesca a esprimerla nei programmi che arrivano sui palinsesti.
 Sicuro?
 Sicurissimo, anche se posso parlare solo per Raitre, l'unica rete con cui ho lavorato, e non tanto per questioni di appartenenza, ma di presentabilità internazionale.
 Non si sente affine a Raitre?
 Non mi sento affine a niente. Io sono un giacobino anarchico , e credo che si capisca al primo sguardo.
 Tornando alla tv, come spiega questo strano fenomeno della rimozione della cultura?
 È come se dicessero: ci piacerebbe tanto fare delle cose diverse, ma purtroppo dobbiamo fare la televisione, e c'è questo imperativo secondo cui la televisione deve essere per forza incolta.
 L'ignoranza dell'obbligo?
 Più o meno. Bisogna per forza cosiderare la tv come generica, il problema è tutto qui. Il generico è necessariamente transpopolare; di conseguenza, tutto quello che esula dalla banalità è visto con sospetto. Da quando sono nate le reti private, le cose sono peggiorate. Anche le reti pubbliche si sono allineate per il timore di uscire dal mercato.
 Se questo è vero, vuol dire che le è riuscito un piccolo miracolo. Esclusi i suoi programmi, quali spazi dedicati alla divulgazione culturale vede nella programmazione di viale Mazzini?
 C'è la famiglia Angela. E poi La storia siamo noi, anche se anche qui con taglio ferocemente filopopolare.
 Vale a dire?
 Vale a dire che si parla sempre di Mussolini. Nei 150 anni dell'Unità, non si è stati capaci produrre una seria trasmissione sulla storia d'Italia. Provi a interrogare un italiano sui primi 50 anni della storia dell’Italia unita. Buio pesto. E anche sulla storia degli ultimi 50 anni, ha fatto molto più il cinema della televisione. Assurdo. Però poi a La Storia siamo noi c'è lo speciale sulla cognata del portinaio della casa di vacanze di Mussolini.
 Qualche volta si parla anche di Hitler
 Come no? Un bello speciale sull'allenatore del cane di Hitler. Anche se si parla si storia, c'è sempre il solito imperativo, Freud lo chiamerebbe il superego, che dice: “Ricordati che fai la televisione nazional-popolare”. Quasi impossibile uscirne, anche se noi, nel cnostro piccolo, abbiamo dimostrato che uscendone si può funzionare benissimo. Alle 13.20, quando il programma comincia, partiamo con 150mila spettatori. Quarantacinque minuti dopo, chiudiamo a un 1milione 200mila.
 Quindi non solo chi la fa,
 ma anche chi vede la tv sarebbe più interessato alla divulgazione culturale di
 quanto non si creda.
 Se la Rai avesse il coraggio di commissionare delle serie indagini di mercato e di ripristinare il vecchio indice di gradimento scoprirebbe un sacco di cose molto preziose per la sua sopravvivenza, a cominciare dal suo proprio declino. Se esistesse il rating delle televisioni, Standard&Poors l'avrebbe declassata da un pezzo. E questo vale anche per la nostra pubblicità, che ha completamente perso la creatività per cui era celebre un tempo.
 Dipende dai punti di vista. Solo da noi l'ultimo libro
 di Alfonso Luigi Marra può essere reclamizzato da
 Ruby Rubacuori.
 Appunto. Vuol dire che siamo completamente rimbambiti. D'altra parte, basta guardare il resto d'Europa per capire che la nostra comunicazione è obsoleta, esclusivamente legata ancora una volta alla logica dello scaffale del supermercato.
 Ma la conoscenza non dovrebbe essere considerata un lusso?
 È l'ennesimo paradosso. Questa consapevolezza non ce l'hanno gli emittenti, ma gli spettatori sì, motivo di più per avere paura del gradimento.
 Il superego che vuol tenere tutto sotto controllo qual è? La politica?
 La politica controlla da sempre la Rai, ma è vero che da qualche anno l'ha anche occupata al 90 per cento.
 Fornendo uno spettacolo piuttosto sottoculturale.
 Vero. Ma proprio per questo, se qualcuno riesce a dare un prodotto diverso, scopre che gli spazi di mercato ci sono eccome, come tra l'altro dimostra la vicenda del “Fatto quotidiano”. Il vostro è l'unico giornale non finanziato dalla politica, tuttavia ha una posizione politica, e ha immediatamente trovato uno spazio di mercato che ha sorpreso un po’ tutti. Una strada che altri avrebbero potuto seguire, anche se finora nessun altro editore ha avuto il coraggio di uscire da quell'ambito di protezione che dà la garanzia soffice della sopravvivenza.
 L'importante è tirare a
 campare.
 Già. Ma tirando a campare non si vive mai.

il Fatto Saturno 23.9.11
Pensiero debole o forte?
Amici filosofi, anche la scienza è dubbiosa
Risposta a Nicla Vassallo: la fisica moderna non impone certezze, ma una visione probabilistica del mondo
di Vittorio Pellegrini


CARI FILOSOFI REALISTI, neorealisti, del pensiero forte. A me sembra che questa discussione rimbalzata tra le pagine di molte riviste e quotidiani in questa estate ormai finita non possa più prescindere dal considerare ciò che la scienza moderna ci dice della realtà. Le conquiste scientifiche del ventesimo secolo sono state così rivoluzionarie e complesse che è forse comprensibile la difficoltà del pensiero umanistico a considerarle e assimilarle fino a renderle senso comune. Ma così continuando sarà inevitabile che la stessa di scussione s’impoverisca. Insomma, forse è venuto il momento di fare un passo decisivo verso l’integrazione dei diversi saperi. Proprio da queste pagine di «Saturno», due settimana fa Nicla Vassallo ammoniva del pericolo di un ritorno allo scientismo ed esaltava il dubbio come motore della conoscenza. Vero. Ma questo è proprio quello che la scienza moderna ci racconta della realtà. Dubbiosa perché dominata da eventi probabilisti ci, non da fatti certi. Facciamo un esempio. Se una tela di un unico colore fosse davanti a noi, non esiteremmo a proclamare: la tela è rossa. E così, a parte casi sporadici, farebbero altre persone poste dinanzi alla medesima tela. Ma se questa tela fosse dinanzi a un cieco, se anzi tutti noi fossimo ciechi, di che colore sarebbe quella tela? Rossa ancora? Con che grado di certezza potrei affermare senza osservarla che quella tela è rossa? Ecco. Questo è il nocciolo della questione. La scienza moderna ci insegna che ogni evento non osservato non avviene in modo deterministico ma manifesta la sua natura più intima in termini probabilistici. Forse è opportuno che filosofi e scienziati uniscano i propri sforzi per capirne le implicazioni profonde. Per fare un passo in questa direzione ci viene in aiuto il lavoro di un tizio che si divertiva a suonare bongo nei locali di spogliarelliste. Questo signore, Richard Feynman, era anche un fisico teorico e di successo, visto che vinse il Nobel per la fisica nel 1965 per aver inventato i diagrammi di Feynman, cruciali per calcolare le ampiezze di probabilità dei processi fisici. La congettura di Feynman fu quella di supporre che qualsiasi evento che compone la nostra realtà ha una infinità di storie possibili, ciascuna con una determinata probabilità che dimostrò calcolabile tramite un’elegante teoria matematica basata sul concetto dei path integrals (integrali di cammino). Un’idea piuttosto vincente e a tutt’oggi immune da numerosi tentativi di falsificazione. Impariamo così che per descrivere un “fatto” elementare come una particella che va da A a B, due punti dello spazio, dobbiamo ammettere come possibili un’infinità di cammini che la particella percorre per andare da A a B. Dal segmento in linea retta a quello, sicuramente meno probabile ma possibile, che parte da A gira intorno a B tre volte poi compie due giri intorno alla nostra galassia per poi arrivare a B. Per comprendere il processo fisico che porta la particella da A a B si devono considerare tutte queste storie possibili e sommare con pazienza le relative probabilità. Come, in effetti, se esse avvenissero in parallelo. Con questo approccio si spiega, per esempio, il fatto che singoli elettroni lanciati su uno schermo con due fenditure possono fare interferenza con loro stessi, effetto che implica che i singoli elettroni passano in contemporanea sia da una fenditura che dall’altra e senza dividersi, essendo l’elettrone indivisibile. Così anche per la tela del nostro esempio iniziale. Tutti i colori sono possibili. Ogni evento, il colore della tela o un particolare cammino della particella da A a B è un mondo possibile, è una storia possibile. Ma allora che fine fanno tutte queste storie possibili quando procediamo a osservarle? La fisica quantistica ci insegna che cessano di essere giacché con l’osservazione scegliamo, noi osservatori, una storia particolare. E così quando ci proponiamo di osservare in quale delle due fenditure è passato l’elettrone, il fenomeno dell’interferenza scompare perché di tutte le storie possibili ne selezioniamo una in particolare con la nostra osservazione. È questo l’inizio di una rivoluzione paragonabile a quella copernicana. L’osservatore determina la storia e non diversamente. E quindi cosa è il reale? Ciò che noi con l’atto di osservare determiniamo o il fondo di eventi probabilistici, di storie possibili, da cui noi osservatori attingiamo?

il Fatto Saturno 23.9.11
Materia e psiche
Jung e il Nobel
di Yamina Oudai Celso


 FIN DAI TEMPI del celebre carteggio epistolare tra Freud ed Einstein, una reciproca e feconda curiosità è parsa intercorrere fra gli indagatori della psiche e i cultori della fisica, innescando sodalizi e scambi interdisciplinari che riecheggiano il ben più ampio e fascinoso dibattito relativo al rapporto tra psicologia e scienza. Un tema che affiora, assai sapientemente orchestrato, perfino nell’ultimo film di Cronenberg A Dangerous Method, teso a indagare la controversa relazione intellettuale e umana tra il lucidamente scientista Freud (un notevolissimo Viggo Mortensen) e l’esoterico-misticheggiante allievo Jung, impersonato dal neovincitore della Coppa Volpi Michael Fassbender. È davvero possibile – paiono chiedersi incessantemente i protagonisti – decifrare un oggetto evanescente e multiforme come la mente umana avvalendosi delle sole risorse del pensiero razionale? È sensato prospettare l’idea della guarigione da nevrosi e psicopatologie? Ma soprattutto quali affinità e differenze metodologiche possono sussistere tra l’analisi psicologica e i percorsi della conoscenza scientifica? Questioni epistemologiche cruciali, che tornano nuovamente in auge anche grazie alla concomitante uscita del volume Pauli e Jung. Un confronto su materia e psiche, in cui gli autori Silvano Tagliagambe e Angelo Malinconico evocano appunto le affinità elettive tra il celebre psicologo svizzero e il premio Nobel per la fisica, suo ex paziente in quel di Zurigo. Alcolizzato, rissoso e traumatizzato sia dal suicidio della madre sia dal naufragio del primo matrimonio, Pauli trae dall’incontro con Jung, oltre ad alcuni immediati vantaggi terapeutici, l’occasione di un assiduo confronto teorico, che confluirà addirittura nella pubblicazione di un libro comune. Entrambi perseguono, ciascuno nel proprio ambito, l’obiettivo squisitamente kantiano di esplorare lo scarto fra la realtà fenomenica e il soggetto percipiente. Pauli afferma che non è possibile, contrariamente agli schemi deterministici della fisica classica, misurare con esattezza le proprietà di un oggetto se non in via probabilistica, dal momento che alcune di esse restano necessariamente indeterminate. Nella prospettiva junghiana si pone invece l’accento su come gli archetipi dell’inconscio collettivo agiscano sincronicamente innescando una realtà virtuale e simbolica che si sovrappone a quella fisica e materiale razionalmente accessibile. Ma in verità, a ben guardare, il carattere a-logico dell’inconscio e la sua attitudine a derogare alle nozioni comuni di spazio e di tempo erano già stati ampiamente scandagliati dallo stesso Freud, il cui approccio scientista tutt’altro che riduzionista aprirà la strada a quel proficuo dialogo tra scienze dello spirito e scienze della natura confluito in alcuni importanti settori delle neuroscienze contemporanee.
 S. Tagliagambe e A. Malinconico, Pauli e Jung. Un confronto su materia e psiche, Raffaello Cortina, pagg. 339, • 27

il Fatto Saturno 23.9.11
Shaw: Cristo era comunista
Anticipazione
Esce“Sia fatta la sua volontà”, una riflessione sul Cristianesimo
di Luigi Zoja


L’INTELLETTUALE impegnato attraversa da protagonista l’Occidente fra il XIX e il XX secolo, quasi fosse un proseguimento laico di santi e profeti. Pochi interpretarono questa figura in modo completo come George Bernard Shaw. Il suo prestigio si è diffuso nello spazio e nel tempo, attraversando i continenti e la sua lunga vita. Questo credito fu messo al servizio delle idee che ininterrottamente creava e che investivano ogni campo dell’esistenza. L’economia, la religione, la sessualità, la famiglia, la nutrizione: ventenne, si convertì in vegetariano radicale, dichiarando (ben prima di Gandhi, infinitamente prima dell’attuale gioventù ambientalista) che non avrebbe più mangiato cadaveri. In ogni forma di rapporto con gli altri uomini, ma anche con le altre specie, metteva a fuoco gli eccessi di potere e le carenze di giustizia, per poi trafiggerli con l’ironia e il paradosso.
 Shaw scriveva solo opere che, a suo avviso, contribuissero a rendere il mondo un po’ migliore (o almeno più consapevole o meno ignorante, il che non è molto diverso): eppure oggi lo ricordiamo come un autore irresistibile, più come un amico che intrattiene che come un maestro che insegna. Nel 1914, all’inizio della prima guerra mondiale, Shaw aveva dato ancora una volta scandalo, pubblicando Common Sense about the War (Buon senso sulla guerra): in questo scritto considerava la Gran Bretagna e i suoi alleati responsabili del conflitto tanto quanto la Germania, chiedendo immediate trattative e cessazione delle ostilità. È su questo sfondo che dobbiamo leggere anche Sia fatta la sua volontà. Formalmente si tratta di una prefazione alla commedia Androclo e il leone, sostanzialmente è una riflessione su come, dopo millenni di cristianesimo, l’Europa neoindustriale stesse estendendo la sua industrializzazione allo sfruttamento e al massacro. In soli due anni le stragi della guerra già superavano quelle di tutto il secolo precedente. Di questa contraddizione terrificante Shaw era ben consapevole, così come intuiva (è profetica la denuncia che qui fa del massacro degli armeni) che un’altra novità assoluta del secolo XX erano le stragi assolute.
 Il testo di Shaw discute le possibilità di un cristianesimo moderno in quell’ora fatale. Il messaggio di Cristo, scrive, è un’immensa opportunità che non è mai stata messa in pratica. Esistono, è vero, una chiesa cattolica e molte altre chiese cristiane, ma sembrano non essersi mai accorte di quel messaggio. L’insegnamento di Gesù – qui l’autore passa in rassegna con un certo dettaglio tutti e quattro i vangeli – ha riformulato sia i legami familiari, sia quelli sociali, sia, infine, quelli economici. Il rapido ristrutturarsi della società industriale renderebbe comunque urgente una revisione di tutti questi rapporti: quale momento migliore per applicare la soluzione proposta da Cristo, cioè una vera distribuzione comune della ricchezza? Shaw crede nell’attualità di un radicale comunismo, ma sembra immaginare la propria proposta soprattutto come una provocazione intellettuale: non sa ancora che, solo un anno più tardi, una rivoluzione comunista prevarrà nel più grande paese della Terra; e da lì, per gradi, dilagherà prima in metà dell’Europa, poi in una metà del pianeta. La sua immaginazione oltre che fertile è profetica: ma i fatti anticipano chi li prevede. Nella convinzione di Shaw una riforma dello Stato in senso comunista è la via che può metabolizzare le nuove ingiustizie della modernità e insieme preservarne lo spirito cristiano. Il suo sguardo, pur così anticipatore, non può spingersi avanti di un intero secolo, e immaginare che anche oggi l’idea resta attuale e impossibile insieme: che essa sopravvive, cioè, in una dimensione economica inscindibile da quella tragica.
 Il secolo XX è stato l’epoca dell’industrializzazione anche nel racconto. Quindi della sua massificazione, commercializzazione e banalizzazione. A questo riduzionismo, a una visione unilaterale e razionalista dell’uomo (che è la più irrazionale fra le creature) Shaw finì sotto diversi aspetti col cedere, posseduto com’era dal bisogno di essere progressista e ottimista: dopo esser stato spina dorsale del Fabianesimo – socialismo non violento e umanista cui aderì molta della classe intellettuale inglese – arrivò a dichiararsi ammiratore dell’Unione Sovietica e dello stesso Stalin. In altre parole notiamo che Shaw, il quale nel superare con costanza e genialità gli ostacoli della vita aveva inconsciamente finito col dotarsi di un personale credo positivo, finì (come vedremo anche in questo testo) col negare l’evidenza che la vita affrontata con sincerità e la tragedia sono, per molti aspetti, la stessa cosa; e, come accade negando qualcosa che si dovrebbe riconoscere interiormente, fu condannato a viverla esteriormente, in forma inconsapevole e proiettata.
 Nel suo insieme, la rilettura del cristianesimo in chiave politica proposta da Shaw sopravvive oggi nella tensione continua tra la dimensione economica delle ingiustizie e dell’oppressione e quella tragica della profonda ambiguità dell’essere umano, cioè di colui che di quelle stesse ingiustizie deve rispondere.
 Questo testo è uno stralcio dell’Introduzione a George Bernard Shaw, Sia fatta la sua volontà, Chiarelettere, pagg. 155, • 7, in libreria da oggi

il Fatto Saturno 23.9.11
Vito Mancuso
Si può avere fede senza obbedire
di Lucia Ceci


È UN TEOLOGO coraggioso Vito Mancuso. Si dichiara cattolico, aggiunge che vuole rimanerlo, ma prende di petto affermazioni centrali nella dottrina della Chiesa. Pure quelle definite dogmi. Secondo «La Civiltà Cattolica» di dogmi Mancuso ne avrebbe svuotati almeno una dozzina. Anche nel suo ultimo libro, Io e Dio (Garzanti), discute principi affermati da Benedetto XVI e da un numero consistente di suoi predecessori. Ma essere cristiano, sostiene, «non si può ridurre all’obbedienza al papa». Vi può essere un’obbedienza alle direttive ecclesiastiche che non esprime il vero cristianesimo e una disobbedienza che invece lo esprime. E fa un esempio. Recente, chiaro a tutti, drammatico. Potete bestemmiare, avere problemi con la giustizia per frodi e prostituzione minorile, avere rapporti sessuali illeciti dichiarandovi orgogliosi di farlo, ma se date l’apparenza di rispettare l’autorità della Chiesa, voi siete un cattolico gradito alla Santa Sede. Essa «contestualizzerà» persino le vostre pubbliche bestemmie. Potete al contrario essere un uomo retto, ma se non condividete una norma etica della Chiesa e vi assumete il coraggio di dichiararlo pubblicamente, magari arrivando a decidere di non voler più vivere attaccato a una macchina, voi non siete un cattolico per la Chiesa. E quando morirete i suoi capi giungeranno a negarvi i funerali religiosi, che pure voi e la vostra famiglia avete richiesto. Perché in Dio ci credete sul serio.
 La direttiva in certi casi non viene dal papa in persona, ma il succo è lo stesso: per la gerarchia ecclesiastica non conta la vita concreta, conta la professione esteriore di obbedienza. Gli esempi possono continuare, ma non è necessario per chiarire l’obiettivo che Mancuso assegna al volume: promuovere un cambiamento di paradigma, il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità.
 È questo lo snodo decisivo attorno a cui si articola un libro ambizioso, che l’autore definisce «opera di teologia fondamentale», cioè riflessione sul fondamento del discorso umano su Dio. Una definizione che scoraggerebbe ogni lettore non specialista. Ma uno dei meriti principali di Mancuso, si sa, consiste nella sua capacità di rendere comprensibili temi la cui profondità non sempre è andata di pari passo con la decifrabilità. Certo Mancuso va di moda, i suoi ultimi libri sono entrati nel canone culturale del lettore di sinistra; tanto più ora che ha mollato Mondadori. Egli intercetta una domanda di religiosità che non trova risposta nella Chiesa di oggi; porta la teologia a contatto con l’esperienza reale. Forse è per questo che, in Io e Dio, riesce a essere più convincente nella pars destruens. Quella in cui presenta alla Chiesa il conto dell’autoritarismo dottrinale, mostrando come alcuni principi del vero cristianesimo (per esempio la libertà religiosa, il no alla tortura e alla pena di morte) si siano affermati in Occidente «contro» le gerarchie vaticane. Credere non si può ridurre a obbedire. Anzitutto perché «la fede di Gesù-Yeshua non ha nulla a che fare con l’obsequium, con la sottomissione».
 Cosa poi, in positivo, significhi credere è più oscuro. «Io credo in Dio – scrive Mancuso evocando la celebre conclusione della Critica della ragion pratica di Kant – perché ciò mi consente di unire il sentimento del bene e della giustizia dentro di me con il senso del mondo fuori di me». Il discorso, come nel titolo, è articolato nella prima persona singolare a sottolineare che si può parlare di Dio «in modo veridico» solo a partire dall’«Io». Sulle orme di Kant, Mancuso propone una teologia che parte dall’etica: la «verità» consiste in una «vita giusta e buona», non nell’adesione a una dottrina. Entusiasmo e incanto sono alcune delle categorie che descrivono la fede autentica nel suo rapporto con la verità e la bellezza.
 Categorie appassionanti, è indubbio. Viene da chiedersi se siano sufficienti, da un punto di vista cattolico, ad articolare l’atto di fede, sia pure nel senso minimalista di «punto fermo», avanzato nelle pagine finali del libro. Ma in ultima istanza, per Mancuso, «non si tratta di essere cattolico; si tratta molto più radicalmente di coltivare una libertà che senza etichette e forzature cerchi di vivere e pensare la vita alla luce del primato ontologico e morale dell’amore, con tutto lo spirito di verità e sincerità di cui si è capaci». Pensieri audaci, poco conformi alla dottrina ufficiale. Eppure, come scriveva Bonhoeffer dal carcere di Tegel, occorre rischiare di dire cose contestabili, se ciò permette di sollevare questioni di importanza vitale.
Vito Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, pagg. 496, • 18,60

il Fatto Saturno 23.9.11
Aldo Capitini asceta della nonviolenza
di Raffaele Liucci


«HO LASCIATO LA pratica della religione cattolica da ragazzo. Sono tornato ad occuparmi di temi religiosi, dopo circa sei anni, alla fine della Grande Guerra, ma senza riprendere né la pratica né la fede della religione tradizionale». Già nell’incipit di questo straordinario libro di Aldo Capitini, Religione aperta, edito per la prima volta nel 1955 e ora riproposto da Laterza, c’è tutto il contegno del suo autore: scarno, umile, ascetico, senza una sbavatura né un grammo di retorica. Un «protagonista appartato» della cultura italiana, un’opera per molti versi ancora attuale.
 Innanzitutto, il presente libro è un antidoto allo spaventoso rigurgito di clericalismo e di superstizione che sta ammorbando il nostro tempo. Per Capi-tini, religione non significa affatto credere in dogmi cervellotici (la trinità) e bislacchi (l’immacolata concezione). O pensare che le stimmate di padre Pio siano il frutto di un intervento soprannaturale (e non, invece, delle fialette di acido fenico che l’astuto frate cappuccino si procurava sottobanco). Per Capitini, la religione è un’etica dello sguardo, un’«apertura» sul mondo. Una religione laica, laicissima, la sua, che non deprime il libero pensiero, ma lo fortifica, in una comunione («com-presenza») con tutti gli esseri viventi, dagli uomini agli animali sino alle piante. Proprio come insegnano le dottrine orientali non trascendenti, il buddismo in primis, che tanto affascinarono anche Schopenhauer.
 In secondo luogo, in queste pagine non si parla di Dio, ma di uomini. In effetti, come diceva Benedetto Croce, i libri che discutono di Dio in astratto, separandolo dall’umanità, «fanno sbadigliare». Che cos’è, la teologia, se non una raffinata crestomazia di masturbazioni mentali (il solo tipo d’onanismo ammesso dai catechisti)? Secondo Capitini, invece, il mondo è fatto dai «singoli individui», e «la vita fondamentale è quella che li considera nella loro singolarità insostituibile».
 In terzo luogo, qui non c’è traccia di preti, rabbini ortodossi, mullah e altri ragni velenosi. Gli unici sacerdoti, dice Capitini, sono gli apostoli «dell’amorevolezza e del sacrificio, della nonviolenza e della nonmenzogna». Tanto più che un vero sacerdote «non chiederà mai un merito speciale, un riconoscimento esterno». Chissà cosa ne pensa monsignor Fisichella.
 In quarto luogo, Capitini rifugge dall’etica sado-maso della Passione. La vita non è affatto quella «ruota di dolore che ti stritola», come sostengono compiaciuti molti «credenti» (madre Teresa di Calcutta spiegava ai malati terminali che le loro pene erano come «baci di Gesù»). Proprio perché il dolore è insensato e non dona alcuna purificazione, esso va combattuto e mai santificato nelle messe piagnucolose: «Non vi pare religioso la mattina della festa, invece di andare in una chiesa, recarsi in un ospedale, assistere un moribondo, e sentire che quella persona non va nel nulla, ma, lasciato il suo corpo, si unisce all’intima presenza con tutti?». Non è un caso – e siamo all’ultimo punto – che il pensatore perugino dedichi alcune delle pagine più ispirate a confutare l’idea del Dio assoluto e onnipotente, propria del monoteismo. In verità, più che un Dio amorevole, costui sembra un autentico psicopatico, che si delizia alla vista dei tormenti inflitti alle sue creature. Un «diavolo», scrive Capitini, un demonio pompato da quelle fiabe maligne che sono i testi sacri.
 Per concludere. Capi-tini credeva in una religione interiore e nonviolenta, «rivolta non alla liberazione dalle conseguenze del peccato, ma alla liberazione dal peccato stesso». Una scommessa perduta, vista con sospetto anche dai comunisti, che lui non amava («lavano con l’acqua sporca»). Per tacer della Chiesa. Eppure, ancor oggi la sua voce non è afona, per chiunque voglia ascoltarla. Un maestro di minoranze eretiche, una solitudine senza isolamento.
 Aldo Capitini, Religione aperta, prefazione di Goffredo Fofi, introduzione e cura di Mario Martini, Laterza, pagg. 248, • 20,00

il Riformista 23.9.11
Le idee di Lévinas
Così l’ontologia si apre all’etica
Quaderni di prigionia. Esce per Bompiani una raccolta di riflessioni e appunti del filosofo francese. Un testo frammentario, che ricostruisce la genesi di un pensiero influenzato dall’esperienza del carcere

qui
http://www.scribd.com/doc/66019404

il Fatto Saturno 23.9.11
Architetti del Principe. Anche Foster e Koolhaas lavorano per i tiranni
Un mestiere da sempre al servizio dei potenti
di Luigi Prestinenza Puglisi


NON CREDETE TROPPO agli architetti che si professano di sinistra ed esaltano il dovere di servire la comunità. Molti di loro, per realizzare le proprie idee, non hanno esitato a soggiacere ai capricci dei ricchi e dei potenti cioè di coloro che hanno le risorse economiche per costruire. Norman Foster ha progettato per il dittatore Narzabayev gli edifici monumentali della capitale del Kazakistan, Astana. E architetti di tutto il mondo accorrono nei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo per realizzare, per despoti ancora più impresentabili, programmi urbanistici che fanno tabula rasa dei tessuti edilizi locali.
DEL RESTO Le Corbusier, uno dei maggiori protagonisti della rivoluzione architettonica del novecento, cercò senza successo di essere ricevuto da Benito Mussolini a Roma, nella Francia di Vichy si unì al regime collaborazionista e provò a lavorare per Stalin. Il taciturno Mies van der Rohe tentò di lavorare per Hitler. E al concorso per la biblioteca di Persia, fatto bandire dallo scià Reza Pahlavi, parteciparono oltre settecento gruppi di progettazione. Indifferenti all’appello di chi reputava opportuno il boicottaggio di un regime tirannico. Mentre la moglie dello scià, Soraya, già studente di architettura a Parigi, aveva chiamato a Teheran i rivoluzionari, a parole, architetti Hans Hollein e James Stirling.
 George Orwell, nel saggio che prima di morire dedicò al rapporto tra politica e cultura, notò sarcasticamente che «certe arti o quasi arti come l’architettura potrebbero persino giudicare benefica la tirannia», mentre solo lo scrittore di prosa «non avrebbe altra scelta che il silenzio o la morte». La frase anche se tranciante, colpisce nel segno. Senza arrivare ad Adolf Hitler, un architetto mancato che conosceva a memoria la planimetria dell’Opéra Garnier di Parigi o di Stalin che metteva nelle vetrine dei negozi privi di generi alimentari le sue foto che lo ritraevano con piante e matita in mano, non c’è despota del novecento da Mao a Kim Il Sung sino a Saddam Hussein, artefice della moschea denominata La madre di tutte le battaglie, che non sia voluto passare alla storia per delle grandi opere. Compresi il più democratico François Mitterand, che ha lanciato i grandi progetti per Parigi, e i presidenti degli Stati Uniti che lasciano, al termine del loro mandato, una biblioteca con i documenti relativi alla loro attività. Inoltre anche nei regimi democratici oggi si gareggia per realizzare grattacieli costosi e inutili, se non per il segno che lasciano e per i profitti che generano. Ma non troverete nessun architetto da Cesar Pelli a Jean Nouvel da Norman Foster a Renzo Piano che lo ammetterebbe per i propri. Così come difficilmente Richard Rogers ammetterebbe il fallimento della Millennuim Dome di Londra, un monumento voluto da Tony Blair per celebrare il proprio premierato.
 A ricordarci questi e altri episodi è il libro di Dejian Sudjic, Architettura e potere, uscito sei anni fa per la Penguin Press e oggi tradotto in italiano per i tipi della Laterza. Nonostante il tempo, il libro è ancora attuale. Sudjic, che è stato direttore della rivista “Domus” ed è critico di architettura per l’“Observer” e direttore del Design Museum di Londra, ha organizzato una narrazione che, a dispetto delle 365 pagine senza neppure una fotografia, sa essere accattivante. In particolare quando affronta le vicende dei mostri sacri, come Rem Koolhaas che hanno proclamato a destra e direi soprattutto a sinistra il loro animo liberal, e poi non hanno esitato a servire padroni così diversi come la liberticida televisione cinese a Pechino con un grattacielo costato vicino al miliardo di dollari, le ultrachic Miuccia Prada con boutique costate milioni e Thomas Krez con quel flop gigantesco che è stata la filiale del museo Guggenheim a Las Vegas. O quando ricorda le vicende grottesche che hanno visto scannarsi tra loro architetti del calibro di Daniel Libeskind, Rafael Vinoly e David Childs di SOM per realizzare il più grande progetto del millennio, la ricostruzione di Ground Zero.
 Peccato, solo, che nel libro di Sudjic ci siano pochi rimandi alle vicende italiane dove abbondano architetti di opposizione e di governo sempre pronti a resistere in teoria e a prendere incarichi in pratica.
 Li vogliamo allora mettere alla gogna questi architetti? Direi di no, almeno sino a quando non superano certi limiti. In fin dei conti non fanno che il loro dovere: procurarsi del lavoro. Il tempo provvederà a cancellare dai loro palazzi le tracce delle malefatte dei potenti che li hanno commissionati. Chi oggi, davanti alle opere di Michelangelo, si ricorda più dei papi simoniaci e guerrafondai? O davanti al museo Guggenheim di Frank Ll. Wright e al Getty di Richard Meier pensa alle storie non sempre trasparenti di queste famiglie?
 In Fondo gli architetti sono come il colonnello inglese Nicholson protagonista del film Il ponte sul fiume Kwai: vogliono realizzare a tutti i costi la loro opera incuranti che poi a goderne nel-l’immediato sia proprio il nemico di cui loro stessi sono prigionieri.

La Stampa 23.9.11
“I neutrini superveloci smentiscono Einstein”
“Sembrano più rapidi della luce”. Oggi l’annuncio del test italiano al Gran Sasso
di Valentina Arcovio


I neutrini sono più veloci della luce, almeno secondo i dati dell’esperimento italiano «Opera», nel quale un fascio di neutrini viene lanciato dal Cern di Ginevra e raggiunge, dopo 730 km, i Laboratori Nazionali del Gran Sasso.
Questa è la notizia che da giorni circolava nella comunità scientifica. Poi, ieri, Antonino Zichichi, rompendo a sorpresa il rigoroso embargo imposto alla comunità scientifica internazionale, ne ha dato conferma, anticipando lo scienziato che è il portavoce del team internazionale che ha effettuato l’osservazione. Si tratta di Antonio Ereditato, un cervello italiano che lavora all’Università di Berna. Il fisico ha ammesso che i neutrini, nel corso di 3 diverse misurazioni, sono arrivati sull’obiettivo con un anticipo di 60 nanosecondi rispetto a quanto avrebbero fatto, se avessero viaggiato alla velocità della luce.
L’Infn e il Cern, però, rispondono con un secco «no comment». Senza un «paper» ufficiale i due enti di ricerca optano per un prudente silenzio. I dati dovrebbero essere diffusi dal sito www.arxiv. org, ma, più importante, oggi è previsto un seminario al Cern di Ginevra, in cui gli scienziati autori della scoperta presenteranno i loro dati, confrontandosi con la comunità scientifica internazionale. La posta in gioco, infatti, è troppo alta per permettersi falsi passi: questa scoperta farebbe crollare uno dei pezzi più importanti della fisica attuale.
Lo stesso Albert Einstein verrebbe messo in discussione. Se i neutrini sono per davvero più veloci della luce, la teoria della Relatività speciale subirebbe un duro colpo. Nella concezione relativistica lo spazio ed il tempo formano un’unica entità, il «continuo spazio-tempo», con quattro dimensioni: tre dimensioni spaziali ed una temporale.Se gli scienziati dovessero confermare l’osservazione, questo «continuo» non esisterebbe, così come il «principio di casualità», e si aprirebbero scenari inediti.
Fino ad oggi si riteneva impossibile che i neutrini, particelle con una massa infinitesimale, potessero viaggiare più veloci dei fotoni, particelle senza massa che raggiungono una velocità di circa un miliardo di chilometri l’ora. Adesso - ci si chiede - tutta la fisica moderna è destinata a cambiare? E con questa anche il lavoro, presente e futuro, dei laboratori di ricerca di tutto il mondo?
Ora, comunque, la palla passa alla comunità scientifica che, con i dati alla mano, dovrà capire se confermare o smentire l’osservazione. E’ inevitabile che a questo esperimento, destinato a far discutere, dovrannoseguirne molti altri prima di arrivare a una risposta che si possa definire certa. «Siamo piuttosto sicuri dei nostri risultati - ha detto, laconico, Ereditato -. Ma abbiamo bisogno che altri colleghi li confermino».

La Stampa 23.9.11
Esperimento italiano fra Ginevra e il Gran Sasso: in dubbio la teoria della relatività
Il neutrino che batte la luce e sfida Einstein
di Giovanni Bignami


Chissà cosa è successo davvero tra Ginevra e il Gran Sasso. Certo i neutrini non si sono fermati a bere un caffè, anzi, sembra che, come nei fumetti, siano andati più veloce della luce. Ci vorrà un po’ di tempo per capire cosa è successo davvero. Perché, anche se piccola, i neutrini una massa ce l’hanno. Anzi, proprio questa è stata una scoperta recente, premiata con un Nobel nel 2002.
Ma Einstein ci ha insegnato che un corpo con massa non può andare al di là della velocità della luce, anzi neanche uguagliarla. E allora? Ai posteri l’ardua sentenza. Il risultato, se di risultato si tratta, si gioca sulla precisione della misurazione dei tempi di transito. E qui la fisica non perdona: la luce avanza a 300 mila km al secondo e, per decidere chi arriva prima tra fotoni e neutrini, bisogna avere un fotofinish di straordinaria precisione.
Per il momento, si tratta di un passa-parola tra fisici a metà tra lo scettico e l’entusiasta. Noi, però, non possiamo non notare l’importanza sempre maggiore dei neutrini per il futuro della comprensione dell’universo. Se i neutrini italo-svizzeri fossero davvero superluminali, cambierebbero non solo fondamentali paradigmi della fisica, ma forse anche alcune nostre idee sulla formazione e composizione dell’universo. Penso soprattutto alla materia oscura, il grandissimo problema della cosmologia moderna. Ma penso anche ai neutrini viaggiatori, portatori di messaggi ancora non letti dal cielo.
Finora abbiamo visto solo due sorgenti celesti di neutrini: il nostro Sole ed una Supernova nella Grande Nube di Magellano. Proprio dalle osservazioni del Sole abbiamo capito che i neutrini devono avere una massa e che perciò, fino a ieri, non potevano andare alla velocità della luce. Vien da pensare al risultato annunciato due giorni fa a Bradford, Inghilterra, da Carlos Frenk, grande cosmologo anglomessicano, che mette in dubbio le poche idee che ci eravamo fatti sulla natura delle particelle responsabili della materia oscura. Potrebbero non essere quello che pensavamo e potrebbero anche non essere alla portata del Cern. E allora? Non ho la minima idea se i due risultati siano connessi e comunque entrambi hanno bisogno di conferma. Certo, parlando dei neutrini e delle loro strane proprietà, viene voglia di spalancare il cielo ad una nuova astronomia, fatta appunto con i neutrini, dopo che da migliaia di anni ci accontentiamo dei messaggi portati dal fotone viaggiatore.
E’ la fine del monopolio dell’astronomia elettromagnetica, cioè quella fatta con i fotoni che anche i nostri occhi possono vedere? Sarebbe affascinante fare astronomia con i neutrini, perché intorno a noi c’è un universo dove vanno e vengono neutrini senza che riusciamo a cogliere il messaggio che portano. Se poi fossero più veloci della luce, sarebbe anche più divertente. Ma attenzione: tutte le volte che abbiamo messo seriamente alla prova la relatività generale di Einstein, il vecchio Albert è uscito vincitore.

La Stampa 23.9.11
Relatività in crisi? Così potrebbe cambiare la concezione del cosmo
Nuove dimensioni e strane curvature dello spazio-tempo
di Barbara Gallavotti


Non sono giorni normali per i fisici. Da qualche tempo si sussurrava di risultati importanti ottenuti dall'esperimento «Opera». L'attesa per la presentazione ufficiale dei dati era palpabile, ma il sentimento predominante era una sorta di entusiastico scetticismo. Nessuno si lasciava andare ad analisi tecniche, perché la collaborazione «Opera» non aveva ancora terminato di analizzare i dati e la prima comunicazione ufficiale è prevista per oggi. Ciò nonostante, poteva capitare che qualcuno accettasse di immaginare cosa avverrebbe della nostra visione dell'Universo, se i risultati fossero confermati e, dunque, si scoprisse che i neutrini possono viaggiare più veloci della luce.
Ad essere in gioco è uno degli assunti fondamentali della Relatività, quello secondo il quale nulla può viaggiare più veloce della luce, perché, se così fosse, cambiando il sistema di riferimento dell'osservatore, potrebbe avvenire di vedere un fenomeno prima del verificarsi delle sue cause (il che è assurdo). I neutrini sono particelle speciali, le uniche nel mondo dell'infinitamente piccolo ad essere dotate di massa, seppur minuscola, ma prive di carica elettrica. Questa peculiarità non basta però a giustificare il risultato di «Opera» e dunque, se fosse confermato, bisognerebbeimmaginare delle drastiche correzioni alla Relatività (cancellarla sembra impossibile, perché sono troppe le prove a favore della sua validità). Si dovrebbe quindi pensare all'esistenza di nuove dimensioni o a strane curvature dello spaziotempo che permettano ai neutrini di prendere inedite scorciatoie. Un po’ come se, dovendo unire su un atlante L'Aquila e Ginevra, anziché tracciare una linea sulla carta si piegasse il foglio, portando le due città a coincidere, e poi le si congiungesse, forando il foglio con una matita.
Dopo la fuga di notizie, l'atmosfera fra i fisici è cambiata e ieri era praticamente impossibile trovare qualcuno che accettasse di toccare ufficialmente l'argomento della velocità dei neutrini prima del seminario di oggi. L'entusiasmo per una possibile scoperta che cambierebbe il volto della fisica è stato soverchiato dall'urgenza di non farsi travolgere dagli eventi e di procedere nel valutare con cura i dati. Del resto, anche se i fisici del Gran Sasso saranno convincenti, bisognerà attendere che altri analoghi esperimenti confermino l'esistenza del fenomeno. Negli Usa e in Giappone si stanno probabilmente attrezzando a ripetere la misura, ma occorrerà aspettare almeno un anno prima di sapere se l’Universo è tanto diverso da come pensavamo. La scienza ha tempi lunghi e anche a Stoccolma sono abituati ad attendere.

Corriere.it 23.9.11
«Superata la velocità della luce»
Il Cern mette in dubbio Einstein
La scoperta potrebbe rivoluzionare la teoria della relatività. Margherita Hack: sarebbe la prima smentita

di Giovanni Caprara
qui segnalazione di Nuccio Russo
http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/11_settembre_23/caprara_superata_velocita_luce_2bd1eba8-e5a6-11e0-b1d5-ab047269335c.shtml

Repubblica 23.9.11
Tra Lucrezio ed Einsten
La teoria della relatività non prevedeva affatto che la velocità della luce non potesse essere superata
di Piergiorgio Odifreddi


"Non vedi quanto più veloci e lontano devono andare, e percorrere una maggiore distesa di spazio, nello stesso tempo che i raggi del Sole riempiono il cielo?". A parlare è Lucrezio, nel suo capolavoro La natura delle cose, riferendosi ai simulacri che fluiscono di continuo e in ogni direzione sulla superficie delle cose, e producono le impressioni visive negli occhi degli osservatori. Ma a parlare potrebbe anche essere il portavoce del Cern, che oggi ha annunciato che alcuni esperimenti mostrerebbero che i neutrini possono andare a velocità superiore a quella della luce, appunto.
Prima di Lucrezio, la teoria di Epicuro assegnava ai simulacri una velocità ovviamente inferiore a quella della luce. Analogamente, prima dell´annuncio di oggi, facevano i fisici con i neutrini: particelle che, in qualche modo, sono sempre state collegate alle ricerche italiane. Infatti, alcune delle intuizioni più profonde al loro riguardo erano state fatte da Bruno Pontecorvo, fratello del regista. Intuizioni che, opportunamente sviluppate e confermate, portarono molti scienziati al premio Nobel(nel 1988, 1995 e 2002). Ma il premio non andò mai a Pontecorvo, che fu punito per essere scappato nella direzione sbagliata (in Unione Sovietica) dopo la guerra.
Se le osservazioni effettuate dal team di Antonio Ereditato fossero confermate, la memoria di Pontecorvo sarebbe finalmente vendicata da un italiano. Il condizionale, però, è d´obbligo. Già altre volte, infatti, i neutrini hanno riservato sorprese. Ad esempio, a lungo si pensava che non avessero massa, e andassero alla velocità della luce. Poi si scoprì che una massa ce l´avevano, e che dunque dovevano andare un po´ più lenti. Oggi, ci dicono che invece vanno un po´ più veloci. Certamente una delle tre alternative è quella giusta, ma quale? E, se fosse quella annunciata oggi, che succederebbe?
Sgombriamo subito il campo da un´interpretazione sensazionalistica, che è circolata ad arte insieme alla notizia dell´esperimento. La relatività di Einstein non prevede affatto che la velocità della luce non possa essere superata! Lo si dice continuamente, ma questo non significa che sia vero. Ciò che la relatività prevede, è soltanto che ci debba essere una velocità limite che non può essere superata. Gli esperimenti finora sembravano indicare che questa velocità insuperabile fosse quella della luce nel vuoto, e forse dovremo cambiare espressione: invece di dire che non si può superare la velocità della luce, magari un giorno diremo che non si può superare quella dei neutrini.
Una possibile riformulazione dell´annuncio, dunque, è semplicemente che la velocità massima prevista da Einstein non è quella della luce, bensì qualcosa di molto prossimo ad essa: la differenza sembra essere di 60 nanosecondi sul tempo di percorrenza della distanza di 730 chilometri tra il Gran Sasso e il Cern, tra i quali si è fatto l´esperimento. E questa differenza infinitesimale sarebbe appunto sfuggita negli esperimenti fatti finora sulla luce: un fatto sperimentale interessante,ma certo non una tragedia teorica.
Coloro che preferiscono le rivoluzioni, si chiederanno se l´errore non stia invece, più che nelle misure sulla luce, nella relatività stessa. Tentare di buttare giù dal piedestallo Einstein, come lui aveva fatto con Newton, è una tentazione troppo grande per resisterle. Purtroppo per i giovani turchi della fisica, la relatività è confermata da miliardi di esperimenti, e non ne basterà uno solo a scalzarla. D´altronde, era Einstein stesso a dire che "la scienza non è una repubblica delle banane, dove le rivoluzioni succedono ogni giorno": ovvero, ribellarsi è giusto, ma il successo non è garantito.

Repubblica 23.9.11
"Un passo verso la fantascienza ipotizzabili anche i viaggi nel tempo"


Roma - «Il problema non è solo smentire Einstein». Gian Francesco Giudice è uno dei fisici teorici del Cern chiamati a risolvere il dilemma dei neutrini più veloci della luce.
Cos´altro?
«La relatività nasce come teoria. Ma è stata confermata da un numero enorme di esperimenti. Quelli come facciamo a smentirli?»
Cosa cambia da domani?
«L´esperimento di Opera per essere considerato valido deve assolutamente essere ripetuto da altri. È l´unico modo per escludere l´ipotesi di un errore sistematico»
Se il dato fosse vero?
«Ci penso da quando ho visto quei dati. Entreremmo in un campo vicino alla fantascienza. Smetterebbero di essere implausibili i viaggi indietro nel tempo. Potremmo immaginare che i neutrini arrivino al Gran Sasso ancora prima che vengano sparati dal Cern».
Sicuramente voi fisici teorici avevate già speculato su un´ipotesi del genere.
«Certo, ma non fino a questo punto. L´entità dell´effetto misurato è enorme. Stupisce perfino noi». (e. d.)

Corriere della Sera 23.9.11
Artemisia la «pittora»
«Sulla tela vendicherò il mio stupro»
articoli di Francesca Montorfano Annalena Benini e Francesca Bonazzoli

due pagine qui
http://www.scribd.com/doc/66019366

Repubblica 23.9.11
Espressionismo
Colori accesi e forme primitive così l´io del ´900 conquistò la tela
di Lea Mattarella


A Villa Manin di Passariano di Codroipo oltre 100 dipinti ripercorrono la stagione esplosiva del gruppo nato a Dresda

Dresda 1905, Facoltà di Architettura del Politecnico: è questo il luogo di incontro di quattro giovani pittori, Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Karl Schmidt-Rottluff e Fritz Bleyl. Dalle loro discussioni infervorate nasce un vero e proprio movimento che chiamano Die Brücke, Il Ponte, immaginando di poterlo attraversare per raggiungere altri artisti appassionati proprio come loro, ma anche per stabilire un contatto tra la propria creatività e il mondo.
Si inaugura così quella tendenza a "fare gruppo" che accomuna le principali correnti del XX secolo, sorretta dalla consapevolezza che l´arte abbia un ruolo fondamentale nella società. Il programma di questi temerari costruttori di ponti certamente non è rigido. Lo incide in una xilografia Kirchner nel 1906: "È dei nostri – afferma – chiunque riproduca con immediatezza e senza falsificazioni ciò che lo spinge a creare". E, con l´enfasi tipica dei suoi 25 anni, sottolinea: "come gioventù che reca in sé il futuro, vogliamo conquistarci libertà d´azione e di vita, contro le vecchie forze tanto profondamente radicate".
Ai quattro iniziatori, ben presto si uniscono Emil Nolde, Max Pechstein e Otto Müller. Il risultato è l´Espressionismo. Ovvero quadri carichi di pathos, di verità istintiva, di energia vitale. Qualche volta anche di disperazione e di dolore per il destino dell´uomo. Che è il soggetto privilegiato dei loro dipinti. Dopo il secolo dell´Impressionismo l´io entra con prepotenza in scena, e si mette al centro della tela.
Un centinaio di opere, nate da questo urgente bisogno di soggettività, sono in mostra a Passariano di Codroipo (Udine) nelle belle sale di Villa Manin dal 24 settembre al 4 marzo in una mostra straordinaria, curata da Magdalena Moeller e Marco Goldin. Arrivano tutte dal Brücke Museum di Berlino, città dove nel 1910 il gruppo si trasferisce trovando un nuovo stimolo per la propria produzione: la metropoli allucinata, livida, una specie di giungla in cui la sopravvivenza è dura, il cammino carico di insidie e anche i cabaret e i locali notturni diventano luoghi sinistri. Tutto il contrario della quasi contemporanea mitologia della città moderna del Futurismo.
La rassegna rintraccia e ricostruisce i singoli percorsi di tutti gli artisti, gli sguardi incrociati e le differenze, le loro affinità e le inevitabili distanze.
Cosa unisce questo manipolo di ardenti sperimentatori è subito chiaro. In primo luogo l´uso esplosivo del colore. Rossi infuocati, verdi accessi, blu profondissimi, gialli senza esitazioni, a volte acidi, come fossero ammalati. Accostati in maniera dissonante perché non è più l´armonia che conta, ma la forza espressiva, il modo diretto di colpire, di afferrare la propria anima, denudarla sulla tela e metterla in relazione con quella di chi guarda. Per rivelare la parte più segreta di noi, i temi sono soprattutto nudi e paesaggi. Che quando sono in relazione tra loro, nella migliore tradizione del Romanticismo tedesco, non rassicurano. La natura può essere infatti ostile e minacciosa. Otto Müller, l´ultima recluta del gruppo, entrato nel Ponte nel 1911, due anni prima del definitivo scioglimento, suggerisce però che compito dell´artista sia quello di ritornare a un contatto originario con la terra. Le sue adolescenti nude dai tratti spigolosi e i corpi allungati abitano paesaggi sospesi tra fiaba e mistero. Ma nel suo lavoro, nelle bagnanti come negli zingari, c´è la nostalgia di un paradiso perduto per sempre, che si può solo rievocare con malinconia. Lo stile di questo artista, così riconoscibile, si nutre degli stessi amori e delle medesime suggestioni dei suoi compagni di strada. La differenza è soltanto nella scelta di un cromatismo più pacato, meno gridato, come è evidente in questo Nudo disteso tra le dune.
L´allungamento delle figure, che accomuna gli artisti dell´Espressionismo, è una rivisitazione della forma gotica, il segno spezzato con cui costruiscono l´immagine, reso ancora più potente dalla pratica abituale di incidere il legno, trova una giustificazione anche nell´arte extra-europea, in quella scultura nera che avrebbe cambiato il corso dell´arte occidentale. Kirchner a questo proposito aveva scritto nel suo taccuino di "aver trovato nel Dresden Völkerkundemuseum le travi degli isolani di Palau, le cui figure presentano esattamente lo stesso linguaggio formale utilizzato da me". L´altra grande passione di tutti questi ‘artisti contro´ è Lucas Cranach, uno dei protagonisti del Rinascimento tedesco capace di far coincidere la bellezza con l´espressività e non con l´ideale classico. L´uso dell´incisione e della stampa, così utilizzato dai giovani del Ponte da divenire un elemento caratterizzante del loro stile, gli arriva da Dürer. La pennellata vibrante e costruttiva, evidente in opere come Il giovane uomo di Heckel o Il vivaio di Schmidt-Rottluff, è quella di Van Gogh, che con Munch e Gauguin, è il precursore di questa tendenza pittorica che scava visceralmente il sentire dell´uomo, fino a coglierne gli aspetti più drammatici.
Autore di capolavori in questo senso è proprio Kirchner. Qui in mostra, oltre a diverse ritratti di grande intensità emotiva, c´è la sua superba Marcella, aspra e appuntita interprete di un´adolescenza incerta di cui finisce per essere un manifesto visivo. Anche il pittore tedesco, proprio come l´olandese, si toglierà la vita. Accade nel 1938. Kirchner viveva in Svizzera da vent´anni ed è inutile dire che, nel 1937, le sue opere, come tutto il meglio della pittura dell´epoca, saranno considerate dai nazisti esempi di "arte degenerata".
Se si pensa allo spazio espressionista è subito claustrofobia, mancanza d´aria. Oppure vertigine. Succede però, come nel Piccolo paesaggio marino di Heckel o nella Casa della famiglia Jäger ad Alsen di Nolde, che l´occhio si riposi. Per poi ricominciare il suo peregrinare nervoso a caccia di una verità radicale. Con l´ansia tipica dell´uomo del Novecento.

Repubblica 23.9.11
Il movimento di Kirchner e le radici nella cultura germanica
Perché "il Ponte" poteva solo essere tedesco
La ricerca dei fondatori si rivolgeva anche al Rinascimento e a Dürer
di Cesare De Seta


L´Espressionismo nacque col gruppo "Die Brücke" (il ponte), nel giugno 1905, una data precocissima rispetto a tutti i movimenti dell´avanguardia artistica del Novecento: erano di là da venire "De Stijl" , Cubismo e Futurismo. Solo il gruppo francese dei Fauves (selvaggi) è pressoché contemporaneo e condivide l´intenzionalità di dare all´espressione degli stati d´animo un senso primario, puntando su una tavolozza in cui la violenza del colore ha una carica eversiva. L´area tedesca e danubiana era nettamente dominata dalla tradizione Jugendstil e dal simbolismo, così come quella francese dall´Art Nouveau, e dal postimpressionismo. I giovani allievi dell´Accademia di Dresda Ernst Ludwig Kirchner, Fritz Bleyl, Erich Heckel e Karl Schmidt, scompaginando le carte, non ebbero esitazione nel volgere le spalle all´eleganza stilistica dominante. I giovani si diedero da fare e invitarono, per l´evidente affinità che riconobbero nella loro pittura, Emil Nolde, Kees van Dongen, che aveva conosciuto Pechstein a Parigi, l´amburghese Nölken e lo svizzero Amiet. Scrissero anche ad Henri Matisse, il quale rifiutò. La ricerca dei fondatori si rivolgeva non solo ad artisti contemporanei come quelli ricordati, ma – ed è questo un elemento essenziale per capire le loro intenzionalità – alla grande tradizione della pittura tedesca compresa tra primo Rinascimento e Cinquecento. La grafica di Dürer esercitò su questi giovani una grande influenza così come quella di Grünewald: essi in sostanza cercavano di dare una nuova vita alle radici tedesche. Una rifondazione culturale che voleva essere germanica e in quanto tale opporsi all´indistinto magma che essi ritenevano fosse parte del naturalismo mediterraneo e decadente, rispetto alle loro intenzionalità rivoluzionarie. L´altra anima dell´Espressionismo ebbe per centro la capitale meridionale dell´arte tedesca: a Monaco fu fondato "Der Balue Reiter". Il testo teorico del "Cavaliere azzurro" viene redatto nel 1911 in occasione della prima mostra e a scriverlo sono Kandinskij, Macke e Marc. Mentre i tedeschi restano legati a temi figurativi (la serie degli animali di Macke e i paesaggi di Marc), il russo Wassilij Kandinskij, con alle spalle un´intensa attività in ambito figurativo, volge la sua pittura monacense verso l´astrazione e la totale dissoluzione del soggetto. Ma l´Espressionismo dilaga nell´architettura (Gropius, Mies, Taut), nel teatro (Bertolt Brecht), nella scenografia (Erwin Piskator), nella grafica (Lionel Feininger), nella letteratura (si pensi a Heinrich Mann), nella foto (Moholy-Nagy), e trova uno straordinario punto di aggregazione nella teoria della Gesamntkunswerk, nell´aspirazione, cioè, ad un´opera d´arte totale. Nel 1919 Walter Gropius fonda a Weimar il primo Bauhaus, dove sperimenta una nuova grammatica della forma chiamando a collaborare molti amici espressionisti. Il mito della Gesamntkunstwerk contamina gli olandesi di "De Stijl" e il Futurismo milanese, mentre Parigi resta distante. È il segno che nell´arte europea d´avanguardia ci sono due grandi poli di aggregazione che cercheranno ognuno di affermare la propria egemonia.