domenica 25 settembre 2011

il Fatto e The Independent 25.9.11
Gerusalemme senza speranza. Nessuno crede nell’Onu
Tutti qui si aspettavano il voto di Obama
i turisti stranieri alzano le spalle di fronte ai soprusi dei soldarti israeliani
di Robert Fisk


Gerusalemme. Sulla “Via Dolorosa” di Gerusalemme mi è capitato di scambiare quattro chiacchiere con un tizio di mezza età che indossava una t-shirt rossa, aveva un filo di barba e un tappeto per la preghiera arrotolato sotto il braccio sinistro.
Ovviamente gli ho chiesto cosa ne pensava del discorso di Barack Obama. Mi ha risposto con una specie di smorfia quasi sapesse che immaginavo cosa stava per dire: “Che potevamo aspettarci?”, mi ha chiesto. Perfetto. Dopo tutto in settimana Haaretz aveva già parlato del “presidente Barack Netanyahu” proprio mentre il ministro degli Esteri razzista di Israele, Avigdor Lieberman, aveva reso noto che avrebbe sottoscritto quel discorso con tutte e due le mani. Forse – riflettevo – Obama voleva veramente essere eletto... alla Knesset. 
Ma quello che più colpiva per le strade di Gerusalemme era la sensazione di rassegnazione, di stanca accettazione. I giornali israeliani avevano parlato del pericolo di gesti di violenza, ma la folla riunitasi di primo mattino a Al-Aqsa per la preghiera si era limitata a srotolare il tappeto e aveva mostrato scarso interesse a commentare il discorso di Obama. Forse il veto degli Stati Uniti all’Onu accenderà qualche reazione più appassionata, ma francamente ne dubito. È un po’ come all’indomani delle foto sulle torture nella prigione di Abu Ghraib quando gli americani limitarono il numero di quelle che potevano essere rese pubbliche nel timore   di scatenare la rabbia degli iracheni. Quel giorno ero a Baghdad e ricordo che nessuno mostrò nè sorpresa nè rabbia. Che mi aspettavo? In fondo gli iracheni sapevano già tutto di Abu Ghraib. La stessa cosa è accaduta a Gerusalemme   . I palestinesi osservano da 44 anni l’acritica accettazione da parte degli americani dell’occupazione israeliana: la più lunga occupazione della storia. Sapevano già tutto. Solo noi occidentali ci lasciamo stupire e scandalizzare dalle foto delle torture e dall’ipocrisia di Obama.
I PALESTINESI hanno persino accettato le regole imposte da Israele riguardo alla preghiera del mattino. Nessuna persona al di sotto dei 50 anni di età è ammessa a pregare sulla spianata delle moschee. Per questa ragione quanti non hanno avuto la possibilità di entrare hanno srotolato il tappeto sull’asfalto e sul selciato dando l’impressione che la spianata delle moschee fosse ancora più grande. Persino la polizia di frontiera   israeliana e gli agenti delle forze dell’ordine si sono comportati come se nulla fosse. C’era una sensazione di normalità interrotta dalle urla isolate di un giovane. Ma un po’ tutti – palestinesi e israeliani – scrollavano le spalle indifferenti   .
Al posto di frontiera il capitano non mi ha nemmeno chiesto il passi che viene rilasciato alla stampa; ha fatto un gesto stanco con il capo e ha alzato la sbarra. Le troupe televisive israeliane hanno ovviamente filmato gli israeliani che impugnavano le armi di assalto e i manganelli. E dal momento che per me la verità è sacra, non faccio fatica ad ammettere che in questo momento non credo ci sianoaltrenazionidelMedioOriente con una polizia disposta a com-portarsi in maniera così indifferente dinanzi alle telecamere. Inutile dire che i coloni israeliani della Cisgiordania, almeno i più esagitati, non amano essere filmati o fotografati. Per questo si coprono il viso con i fazzoletti quando attaccano i palestinesi. E certo imbrattare   il muro della moschea di Qusra, a 30 miglia da Nablus, con la scritta in ebraico “Maometto è un porco” non mi è sembrato un gesto utile a migliorare le relazioni arabo-israeliane. I palestinesi hannocancellato“èunporco”,maovviamente non hanno toccato il nome del Profeta. Lo stesso spettacolo potete ammirarlo sui muri dell’insediamento ebraico di Hebron.
MA ORMAI, come ho detto, una sorta di stanca normalità avvolge tutto come una nebbia, anche il muro che isola Gerusalemme e sfregia il paesaggio e che è una odiosa cicatrice che dovrebbe accecare sia i palestinesi sia gli israeliani. Noi occidentali abbiamo smesso di parlarne. Per questo forse lo chiamiamo “barriera di sicurezza” e non muro. Insomma un problema che, per dirla con le parole di Obama, va risolto “dalle parti in conflitto”. E l’altro giorno è successa una cosa che fa capire meglio di cosa sto parlando. 
Terminata la preghiera sulla spianata delle moschee la polizia era pronta per rientrare in caserma e i negozianti si apprestavano a riaprire le loro botteghe quando una vecchia palestinese vestita di nero si è avvicinata con andatura incerta tenendo in mano due grosse scatole di cartone vuote. Le ha posate in terra e ha cominciato a mettere sopra gli scatoloni la povera merce che aveva da vendere: vestiti per bambini dall’aspetto pacchiano e scarpine di plastica decorate con delle stelline.
A quel punto un soldato le ha ordinato di spostarsi di un metro. Non si capiva il motivo di quell’ordine – forse era annoiato, ho pensato, e voleva divertirsi un po’ – ma la vecchia ha cominciato ad urlare in arabo che “era tutto finito”. Credo volesse dire che era “finito” per i palestinesi o forse per gli israeliani. Il soldato si è messo a ridere e ha ripetuto le parole della vecchia in arabo. “Sì, è tutto finito”, ha detto e forse pensava alla preghiera del mattino.   E mentre il soldato continuava a sbeffeggiare la vecchia e a prendere a calci le scatole di cartone, dalla Via Dolorosa è arrivato un gruppo di turisti. La vecchia si allontanava urlando e i turisti – biondi, occhi azzurri, tedeschi – capivano benissimo cosa stava succedendo.
Senza girare la testa hanno sbirciato in direzione della vecchia che urlava e del soldato che prendeva a calci gli scatoloni di cartone. Sono rimasti impassibili come se quella scena disgustosa fosse un aspetto normale della vita di Gerusalemme. Non hanno avuto il coraggio di guardare apertamente verso la donna e il soldato. E certamente non hanno pensato nemmeno per un attimo di intervenire. Ma hanno tirato dritto indifferenti per la loro strada.
© The Independent Traduzione  di Carlo Antonio Biscotto

Corriere della Sera 25.9.11
«Le difficoltà della Chiesa perché la fede è in crisi»
Benedetto XVI: il nostro male è l'eclissi di Dio
di G.G.V.


FRIBURGO — «La vera crisi della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede». Ci sono parole che dette da un Pontefice suonano come la denuncia di una situazione drammatica. E Benedetto XVI, il Papa che ha lamentato «l'eclissi di Dio» e ha paragonato il nostro tempo a quello del «crollo dell'impero romano», a metà giornata arriva a Friburgo, in una storica enclave cattolica nel Sud della Germania, e parte dai fondamentali. Il problema è la «questione su Dio» che Benedetto XVI ha ricordato l'altro giorno elogiando la «passione» spirituale di Lutero. Così ieri sera, davanti a 35 mila giovani e altrettante fiaccole accese per la veglia di preghiera, ha scandito: «Ripetutamente, nella storia, persone attente hanno fatto notare che il danno per la Chiesa non viene dai suoi avversari, ma dai cristiani tiepidi».
Nel corso della giornata il Papa torna su alcuni suoi punti fermi: la polemica contro il «relativismo subliminale» e la difesa della vita contro «ogni intervento manipolatore e selettivo», della «integrità e singolarità del matrimonio tra un uomo e una donna» rispetto «a ogni interpretazione sbagliata». È secco sul movimento «riformatore» cattolico «Noi siamo Chiesa», che vorrebbe il sacerdozio femminile o la partecipazione dei fedeli nella scelta dei vescovi: «Non ci può mai essere una maggioranza contro gli apostoli…». Ma la questione essenziale è un'altra: la Chiesa in crisi di fede. In Germania «è organizzata in modo ottimo» eppure non basta, il calo dei fedeli è costante: «Dietro le strutture, si trova anche la forza spirituale, la forza della fede in un Dio vivente?». La domanda retorica del Papa non è solo una sferzata alla Chiesa tedesca. «C'è un'eccedenza di strutture rispetto allo Spirito», dice, ed è tutta la Chiesa dell'Occidente — a cominciare da vescovi e sacerdoti — che dovrebbe pensare anzitutto a «evangelizzare». Perché «se non arriveremo a un vero rinnovamento della fede, tutta la riforma strutturale resterà inefficace».
Arrivava dall'Est, Benedetto XVI. E a Erfurt aveva ricordato la sofferenza della gente sotto il nazismo prima e il comunismo poi: «Nell'allora Ddr avete dovuto sopportare una dittatura "bruna" e una "rossa" che per la fede cristiana avevano l'effetto che ha la pioggia acida». Con la libertà e il benessere, però, non sono finiti i problemi della fede. «Nel nostro ricco mondo occidentale c'è carenza della bontà di Dio». E coi giovani è andato oltre: «A quanto appare il mondo in cui viviamo, nonostante il progresso tecnico, non diventa più buono. Esistono tuttora guerre, terrore, fame e malattia, povertà estrema e repressione senza pietà». Perché «il male esiste».
Si capisce così anche l'urgenza del Papa di mettere insieme le forze, tra cristiani, e l'invito alla Chiesa ortodossa a ristabilire la «piena unità». Per Benedetto XVI è «indispensabile»: si tratta di arrivare a una «giusta comprensione» della «questione del primato» del vescovo di Roma. Una sfida epocale e ardua, dopo lo scisma del 1054 e la frattura tra le due Chiese. Ma non è un momento facile. Tanto che assume un significato quasi simbolico l'incontro privato tra il Papa ed Helmut Kohl, il grande cancelliere (cattolico) della riunificazione tedesca, ormai anziano e molto malato e costretto a una sedia a rotelle.

Corriere della Sera 25.9.11
Putin
«Folle come Ivan il Terribile. Ma il popolo si ribellerà»


MOSCA — A 68 anni Eduard Limonov ama ancora stupire il suo interlocutore, impersonando quel ruolo di dissidente totale che si è cucito addosso fondando il partito nazional-bolscevico o combattendo a fianco di Radovan Karadzic in Jugoslavia. Lo scrittore (Diario di un fallito, Russian Attack), che ora è nell'opposizione con i democratici, non usa mezzi termini: «È come l'ultima follia di Ivan il Terribile. Da presidente a premier, poi di nuovo presidente. Inaudito. Non c'è Paese dove ciò sia possibile».
Se lo aspettava?
«Certo, Medvedev era l'amministratore ad interim e ora il vero padrone, il capo-branco è tornato».
Voi dell'opposizione che ne pensate?
«Io dico che è meglio, Putin è un bersaglio più comodo. Un dirigente odioso che di fatto si sta trasformando in una specie di Duce è più prevedibile dello pseudo-intellettuale Medvedev. Putin è un avversario assoluto».
E i segnali di apertura che Medvedev ha dato in questi anni?
«Sono serviti solo a ingannare una parte degli oppositori, quelli liberali. I flaccidi intellettuali si facevano tentare, ma io non mi sono mai fatto incantare da Medvedev. Non ha mai avuto la statura per un simile incarico».
Qualcuno teme ora una fuga all'estero di intellettuali e scienziati.
«Forse programmatori, tecnici. Ma i professori universitari, gli altri, dove potrebbero mai andare? Niente di grave, comunque. I codardi scapperanno, i forti rimarranno».
La Russia vive un nuovo periodo di stagnazione?
«Da un pezzo. La società è pietrificata. Non c'è più limite alla stagnazione. Ma il popolo forse si ribellerà...».
Cosa porterà la nuova presidenza Putin?
«Intanto aspettiamo, perché non è ancora diventato presidente. Certo, è forte la possibilità che venga eletto in consultazioni falsate, ma tutto è da vedere. Come dicevo, il popolo forse si scrollerà dal sonno. Comunque non credo affatto che Putin riuscirà a reggere fino alla fine del suo mandato. Nei prossimi due anni subirà uno scossone».
Dal basso?
«Intanto le opposizioni potrebbero unirsi. Adesso hanno sputato in faccia al miliardario Mikhail Prokhorov. Lui ha ingoiato il rospo, ma se è un uomo forte, obbedirà per ora e aspetterà il momento opportuno».

Corriere della Sera 25.9.11
I bambini perduti d'Albania murati in casa per sfuggire alle faide
Dal 1991 a oggi sono 10 mila le vittime delle rappresaglie fra clan
di Ettore Mo


SCUTARI (Albania) — Due fratelli di 17 e 15 anni, Darjan e Vladimir (nomi fasulli sotto cui si celano autentiche persone) hanno trascorso l'infanzia e l'adolescenza barricati in casa e non ne sono mai usciti neanche per andare a scuola. Un totale, quasi disumano isolamento dovuto solo in parte alla decisione dei genitori di risparmiare ai figli il contatto prematuro col mondo degli adulti, una comunità particolarmente rissosa e violenta.
Ma non si tratta di un caso isolato. In questi ultimi anni si è fatta sempre più fitta l'emigrazione dei montanari albanesi che, abbandonati case, stalle e ovili sulle alture della regione settentrionale, sono scesi a valle in cerca di lavoro e di pace. Soprattutto di pace. Perché lassù la vita è tutt'altro che idilliaca.
L'intero territorio è conteso dalle faide sanguinose di 20 mila famiglie — l'una contro l'altra armate — che dal 91 ad oggi hanno causato la morte di quasi 10 mila persone e impedito a più di mille bambini di imparare l'alfabeto.
La carneficina è cominciata una notte d'estate del duemila in un villaggio di montagna con una rissa d'osteria, quando secondo la testimonianza di un giornalista inglese un ubriaco — certo Pellumb Morevataj — sparò a un compagno di bisboccia che aveva insultato la sua famiglia, uccidendolo. Negli anni successivi una serie di vendette e controvendette fece altre vittime, tra cui lo stesso Pellumb e i suoi fratelli poiché sta scritto nel Kanun (il codice del 1400 che copre e regola, in Albania, tutti gli aspetti dell'esistenza) «il sangue deve essere pagato col sangue».
Anche nelle copie più recenti del libro, apparse all'inizio del ventesimo secolo, il Kanun sostiene la necessità di mantenere la tradizione della vendetta mentre al tempo stesso viene incoraggiato ogni tentativo nel processo di riconciliazione nazionale, affidato ai cosiddetti Moderatori cui spetta il compito di avviare approcci pacifici tra le due parti con «rituali — scrive un giornale con macabra ironia — dove si bevono bicchieri di brandy, misto al sangue degli uni e degli altri».
Uno di questi mediatori, Alexander Kola, si è dovuto occupare un giorno di un caso che non comportava certo una vendetta mortale: l'uccisione di un gelataio che s'era rifiutato di vendere un cornetto a un bambino. «Per fortuna — dice — questi eventi barbarici sono in diminuzione. Oggi si parla meno di vendetta e assai più di riconciliazione. La gente deve tornare allo spirito del Kanun, che viene dal cuore e si diffonde soprattutto nella nostra provincia: per noi, chi uccide un compagno uccide se stesso. Durante gli anni della dittatura non ci furono vittime perché Hoxha aveva bandito la tradizione della vendetta, che è riemersa, ma più timidamente, dopo la sua morte».
Davanti al mio albergo, al centro della città, si erge la cupola di una moschea mentre appena più in là, a un chilometro circa di distanza, svetta il campanile di una chiesa cattolica: e così, appena sveglio, puoi ascoltare contemporaneamente il canto dei muezzin e i rintocchi delle campane, due linguaggi che non riescono mai a fondersi. «In realtà — commenta Kola — esiste nel Paese una buona armonia nel rapporto tra cristiani e musulmani».
A soffrire punizioni, persecuzioni e vendette non sono soltanto gli autori del crimine ma, quando ve ne siano, i parenti maschi della famiglia ritenuta responsabile: come infatti è accaduto a Samir Zizo, fratello di Sheptim, condannato all'ergastolo per aver violentato e ucciso una ragazzina di 10 anni, che trascorre i suoi giorni in una vecchia fabbrica sovietica di Tirana, da tempo inattiva. Solo, depresso, con il cervello e lo stomaco che funzionano ormai a scartamento ridotto, ha ammesso che preferirebbe essere rinchiuso in carcere come Samir: ma la sua richiesta di perdono o, quanto meno, di cambiamento e riduzione della condanna è stata freddamente respinta dalla famiglia della vittima. Il dramma dei fratelli Darjan e Vladimir, barricati in casa e incollati alle facezie del televisore da mane a sera, è condiviso in Albania da legioni di alunni e studenti che faticano a conseguire un semplice attestato, per non parlare di diploma o di laurea. È quanto emerge dalla conversazione col vicepreside della scuola di Bardhaj, Leke Pjetri, che ha dedicato gran parte della sua vita all'insegnamento, elementari e medie: «Sono tante le famiglie che non mandano i figli a scuola — esordisce — per il timore che vengano aggrediti o rapiti dagli uomini dei clan famigliari più violenti. Di conseguenza, il ministero ha deciso che tocchi agli insegnanti andarli a trovare nelle loro case. È ciò che io stesso faccio gratis con mia moglie, mia figlia e gli altri maestri. Con gli alunni non parliamo mai del fenomeno delle vendette. È una cosa mostruosa e non capirebbero». Non sorprende che sulle pareti nude dell'aula sia stato tracciato a lettere cubitali il messaggio che Pjetri ha impartito ai suoi 15 ragazzi perché lo trasmettano ai genitori, soffocati nell'indifferenza: «Sì alla vita, no alle vendette».
Messaggio che senti vibrare con intensità in una casetta di Tropoja, un villaggio di montagna raggiungibile in sei ore di macchina lungo una strada tortuosissima, tutta sassi e curve. Ci attende Sokol, un vecchietto di 78 anni, alto e un po' curvo, una matassa compatta di capelli bianchi, il pigiama a righe, il sorriso e la parola di chi non è vissuto invano.
«Mi uccisero il papà quando avevo due anni e mezzo — racconta — , esperienza che ha ferito mortalmente la mia infanzia: ma, allo stesso tempo mi ha arricchito nello spirito ed ero ancora un adolescente quando maturai la decisione di impegnarmi nella lotta per fermare il ciclone delle vendette, diventando uno dei Mediatori. Un'altra grande sofferenza avrebbe però turbato la mia vita: quando ammazzarono mio figlio, una cosa atroce che mi è difficile perdonare nonostante l'impegno assunto nel processo di riconciliazione. Ma non poche famiglie mi hanno chiuso la porta in faccia. Grazie anche alla collaborazione del prete e dell'Imam, cioè di cattolici e musulmani, sono riuscito talvolta a combinare incontri tra famiglie dichiaratamente nemiche, a farle sedere allo stesso tavolo e a far loro mangiare il pane del perdono».
In quanto ad Enver Hoxha, il giudizio è netto e tagliente: «Durante il suo "regno" — sentenzia Sokol —, mentre il Kanun e la Bibbia venivano messi al bando, è stato l'unico dittatore a sopprimere la tradizione delle faide e delle vendette. Non ha fatto nient'altro di buono, che io sappia». Toccherà agli storici intervenire sulla valutazione del suo mandato: ma il fatto che la salma sia stata rimossa dal cimitero degli eroi per essere risepolta in un comune camposanto stimola qualche suggerimento. A questo punto, Sokol mi mostra un ritratto con dedica di Madre Teresa di Calcutta con un sorriso d'orgoglio e venerazione, come volesse sottolineare che eroismo e santità sono una merce molto rara.
Come poi il dio della vendetta abbia potuto abbattere in pieno giorno un uomo alieno alle faide quale il pastore evangelico di nome Tani, 34 anni, ce lo spiega la moglie Elona, trentenne, che incontriamo nella sede della Congregazione religiosa del defunto sposo: «Tre anni fa — racconta — lo zio di mio marito uccise un uomo e da quel momento tutti i suoi parenti — 24 uomini — e i bambini maschi scomparvero dalla circolazione e si rifugiarono per 6 mesi in un luogo segreto. Tani era da tempo impegnato nella lotta contro le vendette del sangue, un movimento che aveva adottato come parola l'ordine Fjala e Krishtit, la parola di Cristo».
Tornato dall'Inghilterra dopo un paio di mesi (mentre aveva progettato di trascorrervi tre anni) Tani decise di uscire allo scoperto per continuare la sua battaglia contro le vendette del sangue, che per il governo albanese «non esistevano». «Quella mattina — prosegue la vedova — era uscito dal locale della Congregazione per andare a prendere a scuola in macchina i nostri bambini. Lo ammazzarono nel centro di Scutari».
Quanto segue ha un risvolto meno brutale. «Tani — ha poi rivelato Elona — aveva parlato con suo fratello, al quale aveva detto testualmente: "Se mi uccidono, non voglio che mi vendichiate. È chiaro?". E tre giorni dopo il delitto, il fratello mantenne la promessa e dichiarò solennemente che non l'avrebbe vendicato. All'assassino vennero inflitti 16 anni di detenzione, ma la gente tiene ancora nel cuore il messaggio del mio sposo, che li incita a desistere dalla vendetta».
Sfuggono ad ogni verifica i dati e la quantità dei nuclei famigliari tuttora coinvolti nelle faide di sangue, che in Albania sarebbero più di 3 mila, mentre Alexander Kola riduce il totale a 1.400. A Scutari, secondo la valutazione di Simone, che presiede la casa-famiglia della comunità Papa Giovanni XXIII, sono circa una sessantina le famiglie su cui gravano tuttora le minacce di vendetta, anche se per il sindaco della città «è un problema di cui non si deve parlare perché non esiste».
Per Luigi Mila — segretario generale della Commissione di Giustizia e Pace albanese — «le faide di sangue sono un fenomeno tipico delle società in cui la legge non è abbastanza forte e pertanto la famiglia e i rapporti tra parenti costituiscono la fonte principale dell'autorità». Due, secondo lui, potrebbero essere le soluzioni: la prima, a lungo termine, informando dettagliatamente la popolazione sulla vastità e complessità del problema; la seconda, a breve scadenza, con l'arresto e la punizione immediata delle persone responsabili di questo genere di crimini. «Si tratta di un fenomeno — precisa Mila — che affonda le proprie radici in tempi remoti, fino a duemila anni fa, come risulta da documenti storici, quale il codice di Lek Dukagjin».
Atterrito dalla totale incompetenza sull'argomento storico-scientifico, trovo rifugio nell'abitazione di una gentile signora che finisce per raccontarmi la sua storia: per la verità del tutto simile alle tante che ho raccolto nel mio breve pellegrinaggio sulle montagne albanesi.
Il suocero messo in galera per quattro mesi che se ne esce dopo quattro anni; il fratello del marito che uccide l'uomo che lo ha denunciato; il marito che non esce più di casa per paura d'essere ammazzato; lei che ogni giorno deve accompagnare i figli a scuola, di dodici e sette anni, altrimenti proprio non ci vanno.
Ed ecco infine l'ultimo lamento per la donna albanese, considerata dal sacro codice «come qualcosa di superfluo in famiglia», che se ne sta quasi sempre chiusa in casa anche se il Kanun non glielo impone e, deprivata com'è di qualsiasi diritto, a differenza del più miserabile dei maschi, non è neanche degna del martirio.

Corriere della Sera 25.9.11
Neutrini, il dissenso dei trenta
Gli autori della ricerca divisi: «Uno su 5 non l'ha sottoscritta»
di Giovanni Caprara


MILANO — Nella presentazione della scoperta dei neutrini che viaggiano più veloci della luce non c'è stata unanimità.
Una parte del gruppo dei fisici appartenenti a 30 istituzioni di 11 nazioni non condivideva appieno i passi che si stavano per compiere diffondendo un dato che avrebbe messo a soqquadro le radici della fisica moderna.
«Circa 30 dei 160 scienziati internazionali impegnati nell'impresa — dice Marco Gianmarchi del Cnr, coordinatore della fisica astro-particellare dell'Infn di Milano, responsabile del gruppo Aegis sulle ricerche dell'antimateria al Cern e membro dell'esperimento Borexino al Gran Sasso — non hanno firmato il preprint diffuso prima della conferenza del Cern. Avevano dubbi e avrebbero preferito pubblicarla innanzitutto su una rivista internazionale la quale, prima di accettare il lavoro, lo avrebbe sottoposto al tradizionale vaglio di altri esperti. Ciò mi lascia perplesso, anche se l'esperimento appare fatto bene».
«Sì, alcuni non lo hanno sottoscritto» conferma Antonio Ereditato alla guida del gruppo autore del risultato che sta scuotendo il mondo della scienza per le implicazioni che comporta, capaci di stravolgere la visione dell'Universo. Con questo dissenso di fondo iniziano domani gli esami sui neutrini da record. Contemporaneamente, nei laboratori del Gran Sasso dell'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e in Giappone sarà presentata e discussa la clamorosa scoperta.
Ora, dunque, i fisici sono lanciati nella caccia all'errore, unica via per fugare le incertezze. «Prima di gettare nel fuoco le teorie di Einstein vorrei vedere i risultati di altri esperimenti indipendenti» dichiara John Ellis, illustre teorico del Cern. «È possibile che anche se le conclusioni sono accurate, queste non dimostrino che i neutrini viaggiano più veloci della luce — afferma David Kaiser del Mit — ma invece siano la spia di un altro effetto esotico sconosciuto». «Dopo la conferenza al Cern ho ricevuto 650 email di osservazioni — dice Antonio Ereditato — ed è quello che deve succedere. Ciò che abbiamo constatato è choccante. Per questo prima di tutto ci siamo fatti gli esami all'interno del gruppo secondo le regole standard e poi abbiamo messo ai voti il lavoro svolto. Sapevo che l'articolo preparato era particolare e perciò ho chiesto libertà di coscienza nell'esprimere le personali valutazioni. Il consenso è stato grande ma un certo numero di colleghi per una serie di ragioni personali non lo ha condiviso. Dai nuovi incontri di domani mi aspetto nuove idee — aggiunge Ereditato — soprattutto originali non emerse a Ginevra».
L'unanimità tra scienziati è difficile da trovare normalmente e ancor di più quando la materia è scottante. «La prima reazione — dice Stefano Forte, fisico teorico dell'Università di Milano — è che ci sia qualche elemento non considerato che potrebbe far rientrare l'effetto misurato». E nei blogger degli scienziati che si sono scatenati tra i continenti i ricercatori guardano in particolare alla misura del tempo, alla sincronizzazione fra i due orologi tra Cern e Gran Sasso tra i quali c'è una differenza di 2,3 nanosecondi con una tolleranza di 0,9 nanosecondi. Ne abbiamo tenuto conto, rispondono gli autori della scoperta. La sfida della verifica è aperta. «Attendo conferme da altri laboratori» sottolinea Ereditato.

Corriere della Sera 25.9.11
Parole e segnali dalla preistoria ai philosophes
di Carlo Formenti


Perché scarseggiano le storie della civiltà che assumano il fenomeno della comunicazione come punto di vista privilegiato? Perché prima del XIX secolo, caratterizzato dalla nascita della società di massa, la comunicazione è rimasta «invisibile»; non essendosi ancora incarnata in un poderoso apparato tecnologico, essa si presentava come un fenomeno «naturale», scontato in quanto immanente all'essenza di una specie dotata di parola. A sostenere tale tesi è Stefano Cristante, docente di Sociologia della comunicazione presso l'Università del Salento, nel volume Prima dei mass media (Egea editore), in cui siamo invitati a superare la distorsione prospettica per cui la comunicazione appare, alternativamente, tutto (oggi) e nulla (nel mondo premoderno). L'indagine storico-sociologica segue tre assi privilegiati: la creazione di reti sociali, lo sviluppo e la trasmissione delle conoscenze e l'esercizio del potere politico, economico e religioso. Nell'impossibilità di riassumere la notevole mole di materiali raccolti dall'autore, preferisco indicare quelli che sono, a mio giudizio, i temi caratterizzanti dell'opera. Nel primo capitolo l'autore, dopo avere ricordato come lo stesso corpo umano abbia funzionato da dispositivo di comunicazione prima dell'acquisizione del linguaggio articolato, ricostruisce la lunga e complessa transizione dall'oralità alla scrittura. Nel secondo è l'analisi della scrittura come medium della propaganda religiosa a svolgere un ruolo centrale, finché la sua funzione egemonica viene depotenziata dall'espansione delle classi mercantili e delle università come centri laici di trasmissione della conoscenza.
Il terzo e ultimo capitolo descrive l'irresistibile ascesa della stampa (sia in quanto tecnica e settore industriale, sia come comunità in espansione dei cittadini-lettori) fino alla nascita della moderna sfera pubblica borghese, che tiene a battesimo le rivoluzioni inglese, americana e francese. È soprattutto sull'ultima che si concentra l'attenzione di Cristante, attraverso una brillante rilettura degli eventi che precedono e seguono il 1789 come «guerra di propaganda» fra le fazioni in campo (notevoli i paragrafi sulle vicissitudini editoriali della Encyclopédie firmata da Diderot e d'Alembert).

Corriere della Sera 25.9.11
Un nuovo tiranno incombe sulla donna: il bimbo idealizzato
di Rossella Valdrè


Un nuovo tiranno sembra incombere sull'impegnata donna di oggi: no, non è l'uomo, il marito o il capo. È il bambino. O meglio: non tanto il bambino reale in carne ed ossa, ma il bambino immaginario, il bambino idealizzato a cui deve rispondere, e corrispondere, una madre altrettanto idealizzata. Eccolo, dunque, il nuovo insidioso tiranno del terzo millennio: l'idealizzazione. A lanciare l'allarme, non nuova a questi argomenti (si ricordi La strada degli errori del 2004), è la filosofa francese Élisabeth Badinter, il cui ultimo libro Il conflitto. La donna e la madre esce per Corbaccio (pp. 178, 16) in questi giorni (orrenda la traduzione del titolo in italiano, Madri cattivissime). Il «nuovo» paradosso si annida in quella che ci sembrava (che è, anche) una conquista: la libertà. Da quando la maternità da destino obbligato è diventata frutto di libera scelta, le cose si sono complicate: io scelgo, dunque devo essere all'altezza. La Badinter denuncia come, dopo i gloriosi anni del culturalismo e del femminismo nella sua genuina radice di rottura (da De Beauvoir in poi), dagli anni 80 è in corso una strisciante involuzione che ha per oggetto le conquiste di tempo e libertà ottenute in precedenza dalle donne, «un'offensiva» — la definisce — che vede la complicità del neonaturalismo con le politiche neoconservatrici, ma non è estraneo un certo politically correct di sinistra (per il quale bisogna essere buoni). Involuzione insidiosa e ben mascherata, ma pericolosa: si poteva avercela col genere maschile, ma come prendersela col bambino? Il «nemico» contro cui battersi diventa non più l'Altro, ma la donna stessa.
Miscela esplosiva: sotto le cannonate colpevolizzanti del nuovo naturalismo (niente biberon, allattamento al seno, niente pannolini sintentici che «fanno male», ritorni in auge del parto naturale ecc...), unite al taglio al welfare imposto dalla crisi, a farne le spese è sempre, sì, di nuovo la donna, ma con una novità. Sono le donne stesse a volere questo; le neonaturaliste francesi sono giovani che si ribellano alle madri e alle loro conquiste. Cosa è avvenuto? Corsi e ricorsi della storia, o fenomeni che vanno approfonditi?
Dal naturalismo a fare del bambino un piccolo despota, il passo è breve: tutto gli va concesso. Perché cresca senza limiti imposti, secondo la sua natura. Perché non ha scelto di nascere, non gli si può dire di no, bisogna assecondarlo. Sennò, non sei una brava madre: non si può riconoscere l'ambivalenza (l'epoca televisiva non sembra tollerarla, o tutto bello o tutto brutto), il fallimento dell'essere genitori, la delusione che talvolta ci perseguita. Dati e statistiche alla mano, la Badinter non scava nel profondo, ma mette in luce come solo certe nicchie privilegiate, donne istruite e abbienti, si permettano di disobbedire alla legge dell'idealizzazione e a far di testa loro secondo coscienza. Dunque, un altro regresso che non ci aspettavamo: la disuguaglianza non va cercata tra uomo e donna, ma tra donna e donna, quella con gli strumenti economici-culturali, e quella che ne è priva... Ci siamo illusi che la libertà avviasse un circolo virtuoso? Che la libertà, come un file del pc, aprisse altre porticine di libertà? Presto per dirlo forse, ma non sembra essere andata così. Viviamo nell'epoca degli imperativi paradossali, per cui quelle che sembravano conquiste in libertà, si sono rivoltate nel loro contrario. Non solo devi essere una madre perfetta, ma devi godere, divertirti, essere sana, sembrare più giovane. Simpatica Badinter quando rivendica il diritto ad essere stata una madre mediocre! Tre figli, una bella carriera, una vita piena: ha fatto quello che ha potuto... E se ce lo dicessimo un po' più spesso? D'altronde, niente di così nuovo sotto il sole, se già il Grande Inquisitore di Dostoevskij ci aveva avvertiti. Volete rendere un uomo infelice? Complicargli la vita? Dategli la libertà.

Corriere della Sera 25.9.11
«Siamo in ritardo di una generazione». Voci della primavera araba
di Felicew Cavallaro


SALINA (Messina) — La speranza e tante delusioni, il coraggio, la paura e le contraddizioni di cui sono ricche le primavere arabe esplose sotto l'altra riva del Mediterraneo diventano occasione di racconto civile per una schiera di giovani registi che documentano con la macchina da presa rivolte e occupazioni, violenze e grandi prove di umanità.
È una sorta di neorealismo che il cinema scopre uscendo dall'incubo di regimi che hanno trasformato il «potere del linguaggio» in «linguaggio del potere», come spiega inquieto Hichem Ben Ammar, poeta e regista cinquantenne maturato sotto Burghiba e Ben Alì, «quando eravamo muti». Adesso riconquista la parola e propone pure lui le immagini di una storia raccontata dal nuovo cinema egiziano, marocchino, tunisino con decine di attualissimi film e documentari presentati per la prima volta in un festival che dedica la sua quinta edizione interamente a un tema sintetizzato in due parole: «Confini e orizzonti».
Titolo scelto da Giovanna Taviani, figlia d'arte, direttrice del SalinaDocFest, una kermesse che si conclude dopo una settimana di proiezioni stasera nella più verde delle isole Eolie, eletta a laboratorio di analisi di una svolta che segna la nostra epoca, appunto tra confini e orizzonti, «termini antitetici e complementari», come li considera la regista incoraggiata da padre e zio, i fratelli Taviani: «Non si ha percezione di un orizzonte se non a partire da un confine». Pensa a un orizzonte comune che possa unire riva sud e riva nord del Mediterraneo: «I giovani shebab di Tunisi e i precari di Palermo, i ragazzi in rivolta a Bengasi o al Cairo con gli Indignados di Madrid, le donne egiziane che hanno fatto scoccare la scintilla della primavera araba...».
Ci sono le immagini crude di piazza Tahrir al Cairo o di scontri e presidi alla Casbah di Tunisi, ma c'è anche la poesia di affreschi come quello di Anès, a dieci anni musicista prodigio innamorato di Mozart e Beethoven, seguito per tre anni da Tunisi a Londra dall'obiettivo di Hichem Ben Ammar: «La metafora serve a chiedersi se in Europa c'è qualcuno pronto a studiare il liuto classico arabo o i canti berberi. Noi guardiamo all'Europa, ma l'Occidente deve facilitare la nascita di un nuovo mondo per evitare le catastrofi da una parte e dall'altra».
È il tema delle opportunità rivendicate dai giovani, dai figli, come ammette autocritico Ammar, capofila dei registi conquistati dalla documentazione delle primavere: «A differenza di noi hanno avuto il coraggio di dire no, senza richiamarsi a partiti e religioni, usando Facebook e non il Corano, scoprendo una creatività fatta di umorismo, derisione, intelligenza di espressione: eravamo capaci di tutto questo e non lo sapevamo».
Bisogna ascoltare il travaglio interiore di questo poeta che parla mentre a Salina scorrono le immagini e riecheggiano slogan, appelli, paure: il popolo vuole rovesciare il governo, finché il regime non crollerà teniamoci per mano, cercano di corromperci con mille dinari per tornare a casa... E Ben Ammar decodifica riflettendo su se stesso: «La mia generazione ha sperato per decenni e tutto accade ora. Anche se resta una frustrazione. Potevamo agire noi contro Burghiba e Ben Alì. L'hanno fatto loro, i giovani. Ho partecipato col cuore. E poi devo aver somatizzato il passaggio. Anche con un gran mal di schiena. Non riuscivo a camminare. Ci saranno altre ragioni, ma mi sono convinto che a quel punto mi ero sentito mancare qualcosa e che dovevo ricominciare a camminare da solo. Senza appoggiarmi a burocrazia, potere, dittatura, come avevamo finito per fare noi vecchi adattandoci. Adesso io cammino di nuovo...».
Un cammino che il cinema racconta riappropriandosi del linguaggio, dando voce al giovane contadino arrivato dal confine libico a Tunisi: «Sappiamo perché combattiamo, non sappiamo come dirlo». E Salina fa da altoparlante.

Repubblica 25.9.11
Così Artemisia vendicava le donne con la pittura
di Natalia Aspesi

Giaele addormentato, Sisara dalle robuste braccia ficca nella tempia a martellate un grosso chiodo; a Sansone immerso nel sonno, una Dalida molto scollata sta per tagliare i riccioli bruni; ma il maschio cui Artemisia Gentileschi dedica i suoi maggiori furori pittorici è il generale assiro Oloferne, dalla bella testa barbuta, anche se mozzata. Dal tardo Medioevo in su, l´eroina Giuditta che decapita il pover´uomo aveva ispirato una folla di artisti: e Luca Cranach l´aveva ritratta con un vezzoso cappellino, e Botticelli aveva messo la testa tagliata del generale assiro sul capo della domestica come fosse un cesto della biancheria. Caravaggio ne aveva fatto una giovinetta disgustata dal fiotto di sangue che usciva dal collo semistaccato di Oloferne ancora vivo e con occhi e bocca spalancata.
Ma è Artemisia a dare alle bibliche femmine vendicatrici la massima e divampante ira: come si vede nella grande, importante mostra a Palazzo Reale a Milano (sino al 29 gennaio 2012) intitolata Artemisia Gentileschi, storia di una passione, curata da Roberto Contini e Francesco Solinas, con scenografie di Emma Dante, promossa dal ‘Gruppo 24 ore Cultura´ (anche editore del catalogo) e dall´assessorato alla cultura di Milano. Nelle rosse stanze arricchite da giochi di specchi, le opere certe della somma ‘pittora´ sono una quarantina: e osservando il ritratto che le fece Simon Vouet nel 1623, lei trentenne, si capisce che le Susanne e le Cleopatre e le tante Maddalene non sono che autoritratti; e lo sono anche le sue assassine che infieriscono sulle vittime maschio. C´è Sisara, c´è Dalida, e di Giuditte ce ne sono in mostra almeno sei: dipinte dal 1610 (attribuzione incerta), a Roma sua città natale, al 1645, a Napoli, dove morirà attorno al 1654.
In queste donne armate di spada, in questi suoi dipinti meravigliosi, spesso illuminati dal blu acceso ottenuto dal costoso lapislazzulo per cui la pittrice si indebitava, c´è una collera nuova, una violenza cieca, una sete invincibile di vendetta, una calda complicità tra donne (Giuditta e la sua serva), gesti assassini ma sapientemente domestici come trinciare un pollo o affettare un pezzo di carne; oppure l´eroina Giuditta, a macello compiuto, elegantissima in velluti e ricami, i bei riccioli rossi fermati da un gioiello, tiene in mano senza orrore la testa recisa o l´affida alla serva, avvolta in uno straccio o deposta in un cesto casalingo di vimini.
A rendere il suo segno, la sua immaginazione così pieni di rabbia fu la rivalsa di una ragazzina orfana di madre, maltrattata da un padre violento, suo padrone e maestro, quell´Orazio Gentileschi, artista alla moda che diventò poi pittore alla corte di Carlo I, il monarca inglese cui fu tagliata la testa come ad Oloferne? O fu il ricordo dello stupro (definito da Contini e Solinas ‘accadimento amaramente banale´!), subìto a 17 anni da parte di Agostino Tassi, collega di Orazio? O forse fu l´orrendo lungo processo contro il violentatore, durante il quale la ragazzina, esposta al ludibrio pubblico e per sempre rovinata, fu più volte interrogata da giudici implacabili (maschi) in latino, (lei era allora semianalfabeta); ed era tale il disprezzo per le donne, che fu lei, la vittima, per accertarne la sincerità, ad essere sottoposta alla ‘sibilla´, il supplizio che consiste nel legare con cordicelle le dita delle mani sino a stritolarle. O fu anche la delusione per un marito, padre dei suoi quattro figli (tre morti in tenera età) il fiorentino Pierantonio Stiattesi, che per sposare nel 1612 una disonorata, aveva ottenuto dei favori da Orazio, e che pur proteggendola e aiutandola a preparare tele e colori, si faceva mantenere completamente.
A riconciliarla con il mondo degli uomini non era bastato neppure il grande amore, ricambiato, per il nobiluomo fiorentino Francesco Maria Maringhi, ricco uomo d´affari suo coetaneo, che conobbe a 23 anni, con il beneplacito del marito poi abbandonato. Solo recentemente sono state trovate le lettere (cinque sono esposte in mostra) di Artemisia e dello Stiattesi, al gentiluomo fiorentino. Il marito ossequioso tiene informato l´amante e protettore della moglie della vita di famiglia e della di lei arte; Artemisia, sgrammaticata e colta, alterna passione e scenate di gelosia a pressanti richieste economiche.
Nel suo tempo, quello dei caravaggeschi e di Bernini, di Rubens e di Rembrandt, lavorando a Roma, Firenze, Venezia, Napoli, e fuggevolmente a Londra, Artemisia Gentileschi era stata una ‘pittora´ di massima celebrità, richiesta dalle varie corti per la sua originalità. Nell´Ottocento di lei si persero le tracce, come di tante donne di talento che il pensiero patriarcale dominante non poteva accettare. Solo agli inizi del ‘900 si cominciò a riscoprirla, prima come vittima, col ritrovamento degli atti del processo per stupro, poi finalmente come artista geniale, restituendole il giusto valore che aveva conquistato da viva. Per le donne, e il femminismo, è diventata dagli anni ´70 un mito. Per questo l´eccezionale mostra milanese che arriva vent´anni dopo quella fiorentina di Casa Buonarroti, è sponsorizzata da ‘Di Nuovo Milano´ del movimento ‘Se non ora quando´ e da ‘Valore D, Donne al Vertice´. Dice la presidente Alessandra Perrazzelli, responsabile degli affari internazionali di Intesa San Paolo: ‘Per la prima volta ci occupiamo d´arte, in omaggio a un´artista di clamoroso talento, che in quanto donna subì violenze e umiliazioni ma seppe imporsi per il suo genio. Noi crediamo che la gestione aziendale abbia bisogno della cultura, della cultura femminile, per avere davvero un futuro.´

Repubblica 25.9.11
L'Apocalisse che Buñuel non girò mai
di Mario Serenellini


Nel 1978 il regista di "Belle de jour" ha in mente un film che lo ossessiona: la storia di un attentato terroristico e l´avvento di una nuova era. Non farà in tempo a finirlo Oggi Jean-Claude Carrière, che lavorava con lui a quel progetto, ci mostra quegli storyboard rimasti segreti

L´11 settembre era già stato immaginato, programmato, scritto. Oltre vent´anni prima dell´attentato alle Twin Towers. Nell´estate del 1978, due uomini, chiusi per tre settimane in un alberghetto nella Spagna più disabitata e solitaria, avevano preparato grafici e scene del terrore: il disegno di un´apocalisse fastosa e assurda, iperbolica e definitiva, paradossalmente possibile, come l´aveva prospettata al cinema, nel ´64, l´allucinazione comica del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Anche questa nuova ecatombe, che avrebbe avuto per teatro e prima deflagrazione il Louvre a Parigi, era un´ipotesi-cinema: non comica, ma surreale. Perché i due uomini al lavoro si chiamavano Luis Buñuel e Jean-Claude Carrière. Ma il film, Agôn o Agonia, «concepito e scritto in ventitré giorni, dal 4 al 27 agosto 1978», come si legge in una nota manoscritta dello stesso cineasta, non è mai stato realizzato. Sarebbe stato l´ultimo diretto da Buñuel che, quasi ottantenne, si considerava però inadeguato a nuove regie: morirà nel 1983 in Messico.
«Peccato», sospira Carrière, ottant´anni lo scorso 17 settembre, sceneggiatore del regista spagnolo nei suoi ultimi vent´anni di vita, dal Il diario di una cameriera a Quell´oscuro oggetto del desiderio. «Il film, percorso dagli smarrimenti e dalle violenze di fine anni Settanta, avrebbe lanciato segnali profetici su quel che ci allarma oggi, dal terrorismo alla mondializzazione, dalla minaccia nucleare all´intolleranza sempre più diffusa». Infatti, al centro di Agôn (gara, in greco) o Agonia (lotta, in latino), che in Francia si sarebbe intitolato Une cérémonie somptuese (l´attentato, secondo la provocatoria definizione surrealista), c´è il ricatto alla Terra di un gruppo terroristico che fa scivolare sulla Senna verso il Louvre un´imbarcazione imbottita d´esplosivo: inedito bateau-bomba che polverizzerà il museo più famoso del mondo. «Attentatori ultimo grido», glossa Carrière, «fautori d´un terrorismo anti-culturale». Prima che scada l´ultimatum fiammeggiano atti dimostrativi «minori»: l´assassinio d´un arcivescovo, «gesto giudicato da alcuni terroristi un po´ troppo frivolo e démodé», raffiche di mitra sugli astanti dal tavolo della conferenza stampa... Insomma, piccoli attentati tra amici, scoppiettii intimidatori di gravità progressiva, fino all´attentato supremo - la disintegrazione culturale - cui segue quella del pianeta.
È qui che esplode, alla lettera, la trovata più surreale e irridente del cinema di Buñuel: dai fumi della distruzione più cieca e totale, tra le residue nebbioline letali di quel nulla chiamato uomo, ecco apparire il volto di Gesù. «È il fenomeno della parusia universale», spiega l´antico complice del cineasta, «il sogno religioso che la materia si dissolva in spirito, con l´epifania del divino ovunque nell´ex-mondo, nella stupefazione generale di chi non ne aveva mai sentito parlare». Dove s´indovina la perfidia di Buñuel, «ateo per grazia di Dio» come si definiva, che fa coincidere distruzione e benedizione, riscatto dell´aldilà sulla pelle dell´al di qua, suggerendo che il trionfo cosmico del Cristo necessita di un solido incipit terroristico.
«Per avere un´idea del paradosso e del suo effetto grande schermo», avverte Carrière, «basterebbe ripensare il nuvolone immenso di Ground Zero dopo l´attentato di dieci anni fa come ribalta per l´apparizione a sorpresa dell´icona una e trina sui teleschermi dell´intero pianeta. La tragedia dell´11 settembre è stata solo una briciola, una modesta prova generale rispetto al cataclisma concepito da Buñuel ventitré anni prima». «Fantasy realistico, politico-religioso», come il film è definito, giocando sugli opposti, in un appunto a mano degli autori sulla copertina dello script originale, rimasto sceneggiatura - ora edita in Spagna e pubblicata in estratto, con disegni d´allora di Carrière, sui Cahiers du Cinéma - condivide il suo limbo cinematografico con altri due progetti inconclusi, Il monaco, da Lewis, e Là-bas, da Huysmans, «uno dei tre scrittori francesi di fine Ottocento, con Mirbeau e Pierre Louïs, che lo perseguitavano dalla giovinezza, l´unico che non sia riuscito a portare sullo schermo», ricorda Carrière.
Ma è in questo mancato film della fine - della carriera e della vita - che scalpita più che mai uno dei suoi temi più ossessivi: l´incognita del terrorismo. Era il suo refrain avvelenato, insieme a altri due tormentoni prediletti: le sfide dell´eros nella gabbia borghese (Belle de jour) e la cappa di piombo del cattolicesimo (La Via Lattea). «Il terrorismo è stato il suo tarlo», spiega Carrière, «da quando, ragazzo, in Spagna, era stato scioccato dall´uccisione d´un vescovo». L´incubo terrorista segna l´intera parabola del suo cinema, da L´Âge d´or a Quell´oscuro oggetto del desiderio, infarcito di attentati, tra cui, segnala Carrière, «l´esplosione dell´auto ironicamente guidata dal suo fedele produttore Silberman... In Francia, più volte, durante il Sessantotto, Buñuel si faceva sorprendere, smarrito, tra barricate e lacrimogeni, nel Quartiere Latino, dove di solito ci incontravamo».
E dove prendevano corpo, cinematograficamente, le sue ossessioni? «L´elaborazione di una sceneggiatura ci chiedeva ogni volta un lavoro metodico, appartato, monastico», risponde Carrière. «Il ritiro era di norma in Messico o in Spagna, dove andavamo sul finire dell´inverno, in hotel appena riaperti, freddolini, con la neve dintorno. La scrittura ci prendeva due mesi: due mesi di solitudine a due. L´albergo in Spagna era vicino a un convento, dove i frati ci invitavano una volta alla settimana, e mangiavano con noi in silenzio. La giornata era scandita da orari e impegni precisi. I dialoghi, di uomini e donne, li recitavamo insieme, ogni volta, per capire se avrebbero funzionato. Buttata giù la prima stesura, ci ritrovavamo due mesi dopo per rivederla e rimetterla a posto. Ci è capitato spesso di riscrivere la sceneggiatura quattro o cinque volte. Lavorare con Buñuel era vivere con Buñuel: non dovevi avere famiglia, moglie, figli. Ma con lui non si smetteva mai di imparare. Avevo fatto mio il principio di André Gide: bisogna sempre seguire quelli che cercano la verità e fuggire quelli che l´hanno trovata».

Repubblica 25.9.11
Il business della malinconia contemporanea
di Massimo Ammaniti


Nel libro di Gary Greenberg Storia segreta del male oscuro (Bollati Boringhieri) si intrecciano due storie diverse, una più personale ed una scientifico-sociale. La prima riguarda l´autore, uno psicoterapeuta che lavora nel Connecticut, che ha il "primo attacco di depressione" all´età di 30 anni, in occasione della sua crisi matrimoniale. Improvvisamente il suo mondo si oscura, ore ed ore al buio, tormentato da un dolore insanabile. Nonostante i suoi studi psicologici e le conoscenze scientifiche, Greenberg consulta psichiatri che lo sottopongono a test e questionari clinici che confermano la diagnosi di depressione e prescrivono le pillole della felicità, i farmaci che dovrebbero curarla. Ma Greenberg non è un paziente come tutti gli altri, è in grado di capire che la depressione è diventata il grande business negli ultimi 20 anni e che esiste un rituale di iniziazione per cui una persona tormentata diviene un malato. Non più un´esperienza soggettiva d´infelicità, la depressione - secondo la psichiatria attuale - viene legata a molecole cerebrali che regolano il tono dell´umore. Non a caso il percorso curativo di Greenberg inizia con la fine degli anni ´80 quando la depressione viene sancita come una malattia che disturba l´adattamento personale e la vita di relazione.
La seconda storia del libro traccia invece il percorso che - da Freud ai giorni nostri - modifica lo statuto della depressione. Le tappe di questo percorso, dopo le prime ipotesi sull´origine della melanconia, sono contrassegnate dalle scoperte delle amine cerebrali, ossia quei neurotrasmettitori che intervengono anche nella regolazione dell´umore. Da qui si apre il capitolo dei farmaci antidepressivi: ampiamente pubblicizzati, vengono prescritti in misura crescente non solo da psichiatri ma anche da medici generici. Nel 2006 gli antidepressivi rappresentano la classe di farmaci più prescritti negli Stati Uniti, con costi annui pari a 13,5 miliardi di dollari. Una diffusione che avviene in base ad una spregiudicata campagna di marketing che minimizza gli effetti collaterali ed esagera l´efficacia terapeutica.
Questa ricca documentazione rappresenta la parte più interessante del libro, che mette in luce il percorso della malattia depressiva: si fa una diagnosi e si prescrivono farmaci antidepressivi che sono diventati sempre più numerosi, senza chiedersi le origini del malessere individuale che non possono essere identificate con una disfunzione cerebrale. La ricerca ha messo in luce modificazioni cerebrali, anche se non specifiche, che si riscontrano nelle persone che soffrono di depressione, ma è utile distinguere, come metteva in luce il biologo e genetista Ernst Mayr, le cause legate alle disfunzioni dei neurotrasmettitori, da quelle che hanno le loro radici nella storia personale. Questa è anche la conclusione di Greenberg: dopo le cure farmacologiche e i ripetuti trattamenti, ha imparato a convivere col suo male oscuro, che costituisce senz´altro una forte limitazione personale ma può rappresentare, anche, un´occasione di ripensamento e di arricchimento personale.

sabato 24 settembre 2011

l'Unità 24.9.11
Onu, il giorno della Palestina
di Umberto De Giovannangeli
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l'Unità 24.9.11
Intervista a Yael Dayan
«Riconoscere loro tutela la mia gente
Solo così si liberano due popoli»
di U. D. G.
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l'Unità 24.9.11
Una pace senza scorciatoie
di Furio Colombo, Piero Fassino ed Emanuele Fiano
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il Fatto 24.9.11
L'ulivo di Abu Mazen
Chiesto ufficialmente all’Onu lo Stato di Palestina “Non è contro Israele, ma le colonie sono una minaccia”
di Barbara Schiavulli

La pistola non c’è più. Arafat nel 1974 dallo stesso palco chiese di non fargli scivolare l’ulivo dalle mani: aveva un revolver nella fondina. Ieri, Abu Mazen sventola il ricorso  

La mano che tremava e il solito vestito grigio scuro. Il viso teso all’inizio tranquillo e poi sempre più animato, fino al sorriso finale che non ha saputo trattenere, quasi intimidito da quella folla di rappresentati alle Nazioni Unite che fino al discorso precedente erano un po’ sonnacchiosi e improvvisamente, si ritrovavano in piedi per applaudire la voglia di pace di un popolo che la chiede da 60 anni. Abu Mazen non è mai stato l’uomo della piazza. L’ha evitata tutta lavitagiocandonelleretrovie,negoziando   , parlando, pianificando. Ma la Storia sa prendersi beffe dei riservati e ha sbattuto il presidente dell’Autorità palestinese sul podio davanti al mondo. Ha chiesto che il popolo palestinese possa entrare a pieno diritto come Stato nelle Nazioni Unite. Poco prima aveva consegnato la sua domanda a Ban Ki Moon, il segretario dell’Onu (Twitter ha dato la notizia), e poco dopo ne ha sventolata una copia come se lì fossero racchiuse tutte le speranze di un popolo che non ha più voglia di aspettare e che non ha più niente da perdere.
Abu Mazen non ha dato scadenze   , non ha posto condizioni, aspetta che le Nazioni Unite votino, conscio che è probabile che con il voto contrario degli Stati Uniti non porti a niente, ma se politicamente quel signore che sembra il vecchietto della porta accanto più di un presidente, rischia di perdere, ha vinto moralmente il suo posto all’Onu. Perchélasuaèstataunasfidaproprio contro gli Stati Uniti. Convincere il mondo a entrare nel problema palestinese, significa che neanche il premier Nobel per la pace Obama, è riuscito a ottenere qualche risultato. Pace sì, ma fino a che accadrà, sarà permessa la resistenza pacifica, ha garantito Abu Mazen, mostrando il fianco a chi leggerà questo come una minaccia. 
“ABBIAMO tentato tutte le strade per la pace”, così ha esordito, elencando poi tutti gli errori degli israeliani, concentrandosi sugli insediamenti che continuanoaesserecostruitieche“minano l’esistenza stessa dell’Autorità palestinese”, non dimenticando i migliaia di prigionieri, i profughi, quella Gerusalemme Est che vorrebbero capitale e quella vita da occupati che sono costretti a vivere.
“Israele continua la sua campagna demolitrice e la sua pulizia etnica verso i palestinesi”, ha detto ancora, aggiungendo che lo stato ebraico“minacciainostriluoghisacri”. Ha ripercorso la storia di negoziati che durano da decenni e che sono sempre falliti. Colpa degli uni e degli altri. Quaranta minuti di discorso, sei interruzioni per applausi, due standing ovation, Abu Mazen non può che essere soddisfatto.   Ha ricordato a tutti quel conflitto che esiste da talmente tanto tempo che sembra una cosa normale, ma che non lo è per chi vive nei Territori occupati. “Il cuore del problema è che Israele si è rifiutato di rispettare gli impegni”, è stata la sua accusa. “Il fallimento dei negoziati di pace israelo-palestinesi è colpa della politica colonialista di Israele, della occupazione militarizzata dei Territori e della discriminazione razziale praticata nei confronti dei palestinesi”, ha proseguito, aprendo subito al   tavolo delle trattative se si ferma la costruzione degli insediamenti.
“COME disse Arafat, ho un rametto di ulivo in mano, non lasciate che cada”, ha mormorato Abu Mazen, citando il simbolo della lotta per la liberazione palestinese, scatenando un altro applauso e ricordando a tutti la prima apparizione di Arafat all’Onu nel 1974, quando in una mano aveva una pistola e nell’altra un’offerta di pace, appunto. Fu lui che firmò gli accordi di Oslo, quando per un attimo   sembrò che tutto fosse possibile. Sono trascorsi 18 anni.
 “Ho chiesto di essere ammessi con tutti i diritti alle Nazioni Unite, come Stato indipendente, libero e legittimo, ma la questione è semplice: o si pensa che siamo un popolo che non merita nulla, o che sia necessario uno Stato anche per noi. Abbiamo bisogno che il mondo ci sostenga e ora spero che non dovremo aspettare a lungo. Abbiamo sofferto per 63 anni. È abbastanza. È abbastanza. È abbastanza”. 

il Fatto 24.9.11
Palestinesi, il giorno più lungo davanti ai maxi-schermi
Pochi chilometri da Gerusalemme a Ramallah, ma arrivare nei territori è un'odissea
Lacrimogeni e scontri con i coloni
di Roberta Zunini

Gerusalemme-Ramallah. Al check point di Qalandia, il più grande varco militarizzato tra Gerusalemme e la Cisgiordania, utilizzato soprattutto per andare e venire da Ramallah, uno schieramento di camionette blindate delle forze di sicurezza israeliane impediscono di passare. Un centinaio di ragazzini palestinesi stanno tirando pietre alle torrette di avvistamento dove i soldati di Israele montano la guardia 24 ore su 24. Alle pietre, che finiscono soprattutto contro il muro di separazione eretto da Israele per sigillare la Cisgiordania, le forze di sicurezza in assetto antisommossa rispondono sparando gas lacrimogeni e pallottole di gomma. Un quindicenne palestinese l’altroieri ha perso un occhio: le pallottole di gomma hanno un’anima di acciaio e sparate ad altezza uomo possono anche uccidere. Ma anche le pietre, se centrano la testa. Nel   frattempo arriva il capo di Stato maggiore israeliano. La tensione sta crescendo in tutta Gerusalemme Est e in Cigiordania. Tutto può succedere tra le pieghe di queste colline desertiche dove crescono solo gli ulivi e l’odio reciproco. Proviamo a raggiungere un altro check point: dobbiamo arrivare a Ramallah in tempo per assistere sul maxi-schermo, installato a piazza Arafat, alla diretta televisiva del discorso di Abu Mazen all’Onu. È ancora presto, mancano sei ore ma se l’esercito israeliano dovesse decidere di chiudere tutti gli ingressi per la Cisgiordania, i pochi chilometri che ci dividono dalla capitale amministrativa e provvisoria dell’entità nazionale palestinese, si trasformerebbero in una distanza siderale.
Avvicinandoci al campo profughi di Anata, in area C (la zona della Cisgiordania sotto il controllo totale delle forze di sicurezza israeliane), il tempo cambia e inizia a piovere: la prima   volta dopo 5 mesi di caldo e siccità. La gigantesca nube nera che si alza dietro un’altura però non dipende dal cambiamento climatico: decine di ragazzi palestinesi stanno bruciando copertoni di auto. Mentre diminuiamo la velocità per non finirci dentro, il fumo acre aumenta e improvvisamente si mischia all’inconfondibile odore dei gas lacrimogeni. Dietro alla curva altri soldati li stanno sparando contro altri palestinesi che con la fionda tirano altre pietre.
Nel frattempo veniamo a sapere da un fotografo americano, con elmetto e maschera anti gas che nella zona sud di Nablus, a circa un’ora e mezzo da qui, i coloni si sono scontrati con gli abitanti di un villaggio e un palestinese di circa quarant’anni è stato ucciso forse da una sventagliata di mitragliatore M16, l’arma preferita dei coloni, che si ostinano a fondare avamposti nella valle del Giordano, considerata dall’Onu Cisgiordania, e   da Israele parte della Cigiordania, sotto il totale controllo della polizia palestinese. Una telefonata ci avvisa che vicino a Hebron un bimbo palestinese è morto in un incidente. In macchina cala il silenzio e con i colleghi di France Presse ci guardiamo sperando che l’incidente non sia stato provocato da un colono. Se così fosse, addio al clima di festa che in questi giorni   si respirava soprattutto a Ramallah, feudo del presidente Abu Mazen e del suo partito al potere, Fatah. Un’altra telefonata ci avvisa che nel quartiere di Gerusalemme Est, Ras al Amud ci sono stati altri scontri e alcuni giovani palestinesi sono stati arrestati. Gerusalemme Est, secondo la legge internazionale, è territorio palestinese e qualora dovesse nascere davvero lo Stato   palestinese dovrebbe diventarne la capitale. E questo, con il ritorno dei profughi, è il nodo più difficile da sciogliere di questa storia infinita.
Per gli ebrei tutta Gerusalemme, non solo la zona Ovest, appartiene a Israele, al popolo ebraico. E per i musulmani di tutto il mondo, e non solo per i palestinesi, Gerusalemme Est, dove sorge la moschea di al Aqsa, è la seconda capitale spirituale, il luogo di culto che viene dopo solo alla Mecca. Irrinunciabile. Dopo un’ora circa la sassaiola finisce e riusciamo a ripartire. Finalmente arriviamo a Ramallah. La piazza è gremita da migliaia di persone. Tutti sventolano la bandiera della Palestina. Quando sullo schermo gigante lo speaker dell’Assemblea delle Nazioni Unite annuncia l’ingresso di Abu Mazen tra gli applausi qui tutti si azzittiscono. La parola ora passa alla Storia, comunque andrà. E nonostante la contrarietà di Hamas. 


La Stampa 24.9.11
Intervista/1
“Una mossa necessaria era l’unico modo per rilanciare il dialogo”
Moussa: inutile discutere se le colonie crescono
di Alberto Mattioli

Diplomatico Amr Moussa, 75 anni, è stato ministro degli Esteri egiziano e segretario della Lega Araba

Appoggiamo la decisione dei palestinesi, perché dopo venti anni di fallimenti è l’unica possibilità di far ripartire sul serio i negoziati e trovare una soluzione politica. Il riconoscimento come Stato darà ad Abu Mazen le garanzie di cui ha bisogno per trattare». Amr Moussa è stato a quel tavolo e potrebbe tornarci presto da protagonista. Ha fatto il ministro degli Esteri in Egitto, è stato segretario della Lega araba fino al giugno scorso, e ora è il candidato forte alla presidenza del suo Paese.
I critici dei palestinesi dicono che la mossa all’Onu non servirà a far nascere il nuovo Stato, ma solo ad esacerbare gli animi. Lei come risponde?
«A cosa sono serviti venti anni di negoziati? Nulla, nessun risultato. Questo è il vero problema che minaccia la stabilità dell’intera regione. Quando avremo due Stati entrambi riconosciuti, decideranno loro cosa fare, ma potranno discutere su un piano di parità, con tutte le garanzie necessarie».
Quindi lei vede questa iniziativa come un passo verso la ripresa della trattativa?
«È chiaro che abbiamo bisogno di una soluzione politica, ma deve essere giusta. Per raggiungerla, sono necessari dei negoziati veri».
I palestinesi dicono che la chiave per tornare al tavolo è il congelamento degli insediamenti israeliani. È d’accordo?
«Questa è la posizione dei palestinesi e la condividiamo. Non si può discutere di pace mentre si allarga l’occupazione».
Crede ancora al potere di mediazione degli Usa?
«La questione è stata spostata all’Onu ed è giusto che sia così. Abbiamo ancora bisogno del sostegno americano, ma a patto che sia sincero e venga affiancato allo sforzo di altri protagonisti. Qualunque interlocutore che abbia un pregiudizio a favore di una delle parti, non è più utile al negoziato. Ora devono trattare le Nazioni Unite».
La Francia ha proposto di alzare lo status della Palestina all’Assemblea Generale, riprendere i negoziati entro un mese e concluderli in un anno. È una base di partenza possibile?
«La stiamo studiando, è un contributo interessante. A patto che si parta dai confini del 1967».
Non teme che l’iniziativa presa all’Onu, se verrà bocciata, deluda la gente palestinese e la spinga alla violenza?
«Spero di no, ma non dobbiamo dimenticare che anche i coloni israeliani hanno condotto spesso azioni violente: perché nessuno si preoccupa del loro comportamento, e si punta il dito contro i palestinesi?».
Israele teme che lo stato voluto da Abu Mazen minacci la sua sicurezza.
«Allora faccia la pace, è l’unica via d’uscita».
Lo Stato ebraico è anche isolato nella regione: se lei diventerà presidente egiziano, rispetterà gli accordi di Camp David?
«Quelli sono accordi firmati da due Stati e restano in vigore. Naturalmente bisogna essere in due a rispettarli, ma se gli israeliani faranno la loro parte, l’Egitto farà la propria».

La Stampa 24.9.11
Intervista/2
“Soltanto la trattativa potrà portare allo Stato palestinese”
Yehoshua: sì ai confini del ‘67 e sia smilitarizzato
di Alberto Mattioli

Scrittore Abraham Yehoshua 74 anni, scrittore e saggista israeliano, vive a Gerusalemme

Anche sulla questione palestinese, la Francia gioca in solitaria. Nicolas Sarkozy è andato all’Onu a proporre un compromesso che salva sia la capra dei buoni rapporti con gli Usa e con Israele (Sarkò è il più americano dei presidenti della Quinta repubblica) sia i cavoli del prestigio francese nel mondo arabo, perso in Tunisia ma riconquistato in Libia. L’idea è quella di ammettere la Palestina all’Onu ma, per il momento, solo come osservatore, senza diritto di voto. Come il Vaticano, insomma.
Dalla sua casa in Israele, lo scrittore Avraham Yehoshua (fra due mesi esce in Italia l’ultimo romanzo, «La cena perduta») approva: «L’idea francese non è male. Può essere lo stimolo per continuare il processo di pace e tornare finalmente a negoziare. L’importante è uscire dallo stallo, il come è secondario».
Ma per lei uno Stato palestinese deve esserci?
«Certamente. Non mi interessa se all’Onu si discute di un riconoscimento de facto o de iure. Va bene tutto, purché si riesca a evitare il veto americano e una disfatta palestinese. Il problema non è il riconoscimento, ma l’esistenza dello Stato palestinese. E questa si ottiene solo negoziando: se va bene alle Nazioni Unite, se va male in altre sedi».
Uno Stato palestinese, ma come?
«Basato sui confini del ‘67, quindi con la Cisgiordania. Smilitarizzato, come il primo ministro israeliano ha giustamente chiesto. E che viva in pace con noi».
Perché i palestinesi hanno fatto questo passo all’Onu quando sanno benissimo che non ha nessuna possibilità di successo?
«Perché anche loro hanno interesse, in questo momento, a rivitalizzare il negoziato. E sperano che il dibattito all’Onu lo farà ripartire. Sono perfettamente consapevoli che, anche se le Nazioni Unite dovessero riconoscere la Palestina, in pratica non cambierebbe nulla».
Come al solito, l’Europa agisce in ordine sparso. Perché?
«Guardi che l’europeo è lei, io sono israeliano. Però credo che l’Europa, lasciando tutto il dossier mediorientale in mani americane, stia perdendo una grande occasione. I principali Stati europei, la Francia, l’Italia, la Germania e la Gran Bretagna, dovrebbero prendere l’iniziativa di riconoscere la Palestina, purché smilitarizzata, offrendo in cambio a Israele una garanzia sulla sicurezza».
Tanto più che si è visto in Libia che alcuni Stati europei possono prendere l’iniziativa e portarsi dietro gli Usa...
«Esatto. E qui non si tratta nemmeno di bombardare. Una garanzia militare è molto meno impegnativa di un’operazione militare. E molto più facile da mettere in pratica».
Se Obama metterà il veto in Consiglio di sicurezza sarà per ragioni di politica estera o interna?
«Non credo che sia colpa della solita lobby ebraica. La relazione sentimentale, molto profonda che esiste fra gli Stati Uniti e Israele tocca in realtà milioni di cristiani americani, che vedono negli ebrei dei fratelli maggiori e hanno una visione un po’ mitica di Israele. Ma proprio perché la politica americana è così vile si aprono ampi spazi per l’Europa. Basta che voglia prenderseli. E, del resto, a pace fatta l’Europa ci potrebbe anche dare un modello».
E quale?
«Il Benelux. Io sogno un Benelux mediorientale formato da Israele, Palestina e Giordania, legati da vicinanza territoriale e vincoli di collaborazione economica. E in pace, finalmente».


La Stampa 24.9.11
Ma il momento non è ancora venuto
di Marta Dassù

È venuto il momento»: nel suo discorso di ieri alle Nazioni Unite, fra applausi scroscianti, il Presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha motivato la richiesta per l’ammissione all’Onu di uno Stato indipendente e sovrano, all’interno dei confini del 1967.
È venuto il momento, ha ripetuto varie volte un vecchio leader, deciso a scrollarsi di dosso l’eredità di Yasser Arafat. È venuto il momento, anche se Barack Obama ha già annunciato che Washington metterebbe il suo veto in Consiglio di sicurezza. È venuto il momento, anche se il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha ribadito a una gelida platea di New York ma dove Israele può ancora contare su una «minoranza morale» - che l’unica soluzione possibile resta la pace, prima dello Stato.
Ecco, il problema è che il momento non è ancora venuto. La richiesta di Mahmoud Abbas, è giusto saperlo, è soprattutto simbolica. Perché ci vorrà del tempo per andare ai voti. E l’esito è scontato in anticipo: senza un accordo negoziato con Israele, uno Stato palestinese sovrano non nascerà. Solo il Consiglio di sicurezza, infatti, può ammettere un nuovo Stato a pieno titolo; e non accadrà, in assenza di un accordo con Israele. Il massimo a cui Abbas può aspirare è il riconoscimento della Palestina, da parte dell’Assemblea generale, come Stato osservatore permanente senza diritto di voto. È la soluzione «vaticana» per lo Stato palestinese: secondo parte degli europei, a cominciare da Nicolas Sarkozy - il Presidente francese più filo-israeliano dal 1967 in poi ma anche il Presidente deciso a tentare il grande rilancio della Francia nelle terre d’Arabia - è la soluzione su cui puntare, insieme alla ripresa di un negoziato bilaterale in tempi certi e stretti. Il Quartetto (Stati Uniti, Ue, Un, Russia) ha proposto negoziati entro un mese, da New York. E si continua a discutere in che modo una Risoluzione «vaticana» potrebbe tranquillizzare Israele su uno dei punti principali: che la Palestina rinunci a usare la Corte criminale internazionale per perseguire le politiche dello Stato ebraico.
Gli scenari reali - fra discorsi, diplomazia e simboli - sono questi. Per Abbas è decisivo presentarli come una vittoria, almeno parziale; se perdesse, il vincitore sarebbe Hamas e l’Autorità palestinese si troverebbe con un’intifada in casa, prima che contro Israele. È un punto di cui Netanyahu deve essere consapevole. Per il premier israeliano, d’altra parte, il discorso di Barack Obama all’Assemblea di New York - con l’opposizione esplicita del Presidente americano, ormai in campagna elettorale, a uno Stato palestinese dichiarato per mezzo di Risoluzioni dell’Onu, invece che di negoziati con Gerusalemme - è già un mezzo successo. Israele, dopo avere perso l’alleanza privilegiata con Ankara e il pilastro dell’Egitto di Mubarak, ritrova almeno l’America. O quello che ne rimane sulla scena medio-orientale.
Il principio sollevato da Abbas a New York non è controverso. È semplice e noto: come prevedono le Risoluzioni dell’Onu, dal 1947 in poi, i palestinesi hanno diritto al loro Stato, esattamente come gli israeliani. Gli Stati Uniti (da Clinton a Bush figlio a Barack Obama), l’Unione europea (al di là delle sue divisioni fra governi filo-israeliani e governi filo-arabi), l’élite politica israeliana (Netanyahu incluso, nonostante gli errori compiuti e gli insediamenti accumulati) sono d’accordo su questo, sono d’accordo che la soluzione al conflitto israelo-palestinese è fondata su due Stati. In discussione non è il principio, quindi. In discussione è se l’iniziativa diplomatica del Presidente palestinese, specchio delle frustrazioni della sua gente e del timore dell’Anp di perdere legittimità all’interno, aumenti o riduca le possibilità di un accordo con Israele che, con l’ultimo governo, ha fatto di tutto meno che negoziare sul serio.
Può insomma funzionare una «terza via alla Palestina» - per usare la definizione del Foreign Affairs? Dopo la fase della lotta armata e quella del negoziato senza fine promosso da Washington, il tentativo palestinese è di fare leva sui risultati ottenuti da Salam Fayyad (il premier tecnocratico, che per quattro anni ha puntato a costruire le condizioni economiche e le istituzioni del futuro Stato) e sulla legittimità del passaggio alle Nazioni Unite. Riuscirà? Il rischio vero è che, dopo New York, i negoziati per la riconciliazione con Hamas e le future elezioni premino paradossalmente il partito - Hamas, appunto - che ancora respinge la soluzione dei due Stati. E che è pronto a descrivere il passaggio all’Onu di Abbas come una sconfitta, più che una vittoria.
Il che ci riporta al problema principale, scontato ma quasi dimenticato nei commenti di questi giorni. L’Anp sta chiedendo a New York il riconoscimento della propria sovranità su un territorio che non è in grado di controllare del tutto. Finché Hamas resterà al comando a Gaza, uno Stato palestinese unitario non sarà credibile. Anche per questo, non è così ovvio che l’iniziativa diplomatica palestinese, combinata alla pressione internazionale, riesca a far funzionare un negoziato con Israele. Al di là delle responsabilità negative del governo Netanyahu, la realtà è che lo Stato ebraico è in una situazione strategica difficilissima. Per la prima volta da decenni, il pericolo di un progressivo isolamento non è immaginato ma è reale. Una situazione che, si dice con troppa facilità dall’esterno, dovrebbe spingere gli israeliani a capire che la nascita di uno Stato palestinese è nei loro migliori interessi. Sì, ma se sarà uno Stato unitario e deciso a vivere in pace con lo Stato ebraico. Il timore di Israele è che la richiesta palestinese alle Nazioni Unite generi invece nuove violenze anche nella West Bank; in un contesto, quello dei rivolgimenti arabi, molto più delicato di prima. Difficile fare previsioni, quindi. Ma la sensazione è netta: l’alternativa a una soluzione negoziata non sarà la nascita per via unilaterale di uno Stato palestinese, poi sanzionata sul piano internazionale; sarà un nuovo conflitto, con ramificazioni regionali più rischiose che in passato.


Corriere della Sera 24.9.11
Il Segretario generale dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (Oic) Ekmeleddin Ihsanoglu
«Soltanto due Stati sullo stesso piano possono negoziare»
di Alessandra Farkas

NEW YORK — In un'intervista al Corriere, nel settembre 2009, aveva definito Barack Obama «un presidente americano diverso da tutti gli altri»; «il primo a riconoscere la sofferenza dei palestinesi, collegandola a quella degli ebrei e degli afroamericani». Ma due anni più tardi, ha cambiato registro.
«Avrei tanto voluto vedere il presidente Obama mantenere la promessa fatta alla 65a Assemblea generale Onu», spiega il leader della seconda più grande organizzazione intergovernativa dopo l'Onu, con 57 Stati membri in 4 continenti, «nel 2010 egli auspicò la creazione di uno stato palestinese indipendente e sovrano entro un anno».
Obama vi ha deluso?
«La leadership politica non è uno scherzo. Obama deve fare i conti con fattori di politica interna e bilanciarli. Non voglio aggiungere altro».
Come giudica la decisione dei palestinesi di dare più tempo al Consiglio di sicurezza prima del voto?
«La nostra posizione è chiara: non esistono motivi per cui il Consiglio di sicurezza o l'Assemblea generale debbano rifiutarsi di votare e approvare subito la richiesta di Abu Mazen sulla creazione di uno stato».
Perché non aspettare una ripresa dei negoziati diretti tra Israele e Palestinesi?
«Aiutare i palestinesi adesso è un imperativo morale. La risoluzione Onu del 1947 prevedeva la creazione di due stati, uno ebraico e l'altro palestinese, uno vicino all'altro. Da allora il primo è diventato realtà, il secondo no. È tempo di risultati».
Molti, non solo in Israele e in Usa, temono gli effetti di un'azione unilaterale.
«Una volta che saranno finalmente una realtà, Stato ebraico e Stato palestinese potranno tornare ad incontrarsi per negoziare la pace, ex aequo. Solo allora si potranno decidere i confini del nuovo Stato, secondo parametri stabiliti dalla comunità internazionale».
E la parte dei palestinesi che non si riconosce nel nuovo stato?
«Le differenze finiranno per ricomporsi di fronte alla gioia di avere una nazione dopo 64 anni. Le fazioni che oggi dividono i palestinesi lasceranno il passo a un processo democratico vero. Si deve iniziare con un referendum sullo Stato, per passare poi a elezioni democratiche».
Israele è assediata da Stati che mettono in discussione la sua stessa esistenza.
«Quando esisterà uno Stato palestinese, tutti riconosceranno i due Stati, che coopereranno tra loro invece di farsi la guerra. Solo allora la regione diventerà un luogo di prosperità, invece che di terrorismo».
Nel suo libro The Islamic World in the New Century lei parla dell'importanza del processo di democratizzazione nei paesi musulmani.
«L'ho scritto nel 2009, prima della primavera araba. Sostengo da sempre che i paesi islamici vivono fuori dalla storia e che prima o poi cercheranno di entrarvi, come hanno fatto tanti ex regimi totalitari, dall'Europa dell'Est all'America Latina. Sono profondamente convinto che dalla primavera araba scaturirà una vera democrazia, anche se sarà un cammino lungo e tortuoso».

il Fatto 24.9.11
Dal Cpa alle navi. Reclusione continua
700 tunisini bloccati nel porto di Palermo
di Silvia D’Onghia e Giuseppe Lo Bianco

Li hanno imbarcati sui C 130 dell’aeronautica militare diretti all’aeroporto di Palermo, da qui con i pullmann della polizia li hanno trasportati al porto, blindato per l’occasione da 500 agenti che hanno chiuso al traffico commerciale il molo di Santa Lucia, e li hanno caricati sui traghetti “Moby Fantasy” , “Audacia” e “Moby Vincent”, trasformati in “centri di raccolta galleggianti”. Ordine pubblico in allarme per il trasporto da Lampedusa di oltre 700 immigrati tunisini, da ieri “ospiti” di tre traghetti, con il divieto di scendere a terra e in attesa di un trasferimento in un Cie e infine del reimpatrio. E così, mentre l’isola si svuota, il suo futuro è legato alle parole di Maroni, che ha promesso di sottrarre Lampedusa all’assalto degli immigrati: con un semplice tratto di penna toglierà alla toponomastica marina l’aggettivo   “sicuro” per costringere chi opera nella zona Sar (lo spazio marino in cui lo Stato è competente per il servizio di Search and Rescue, ricerca e salvataggio) a cambiare rotta con il suo carico umano. Non più Lampedusa, ma Porto Empedocle. Peccato che, più che una decisione, appare una meravigliosa illusione: secondo la convenzione di Amburgo del 1979 per la zona Sar è il comandante dell’imbarcazione a decidere rotta e approdo, che deve essere non solo sicuro ma anche “il più vicino”.
NEL LUNGO libro nero della gestione dell’immigrazione clandestina, dunque, il governo scrive un’altra pagina dell’emergenza, sulla spinta della violenza esplosa a Lampedusa: sono 700 i tunisini guardati a   vista dagli agenti giunti da tutta Italia e coordinati dal vice questore Manfredi Borsellino, a capo del commissariato di Cefalù e figlio di Paolo, il giudice assassinato dalla mafia.   Poca la tensione a bordo delle navi, dove fino ad oggi non si sono registrati incidenti o scontri con le forze dell’ordine; a bordo gli immigrati sono assistiti dai volontari delle organizzazioni umanitarie e da Medecins sans frontieres, ma non c’è il console tunisino, assente da Palermo fino a martedì.
Le “prigioni galleggianti” sono un approdo temporaneo, in attesa di smistare i migranti verso i Cie di tutta Italia, ma finora non si conosce la disponibilità dei posti e non si sa neanche fino a quando i migranti resteranno in rada nel porto di Palermo. La tensione che sembra essere scemata nel capoluogo siciliano è rimasta alta, invece, nelle Pelagie: a Linosa, il traghetto di linea “Palladio” partito da Lampedusa e diretto a Porto Empedocle è   stato bloccato in porto per la protesta dei 98 tunisini che si trovavano ancora sulla piccola isola.
A Lampedusa, invece, svuotata dai clandestini ma preda di nuovi atti di violenza, legati al   fenomeno dell’immigrazione, un imprenditore ha denunciato il furto del suo peschereccio (“sono stati i tunisini”) e ieri mattina è stata incendiata l’auto del responsabile della struttura Lampedusa Accoglienza, Cono Galipò che gestisce il Cpa, ormai andato in fumo. La sua Ford era posteggiata vicino l'hotel Medusa. “Era l’auto che usavamo io e il direttore dell’azienda – ha detto Galipò – non aveva particolari segni di riconoscimento, ma tutti sapevano che era   quella nostra. Mi lascia molto perplesso il fatto che in questo posto, dove ci sono peraltro parecchie forze dell’ordine, un’auto possa venire bruciata”. Galipò non si spiega le ragioni del gesto: “Nonostante ci fosse molta tensione in giro – ha detto – nessuno mi aveva avvicinato, nè detto qualcosa, nè rivolto minacce verbali. Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto con il popolo di Lampedusa e ci è stato sempre riconosciuto un ruolo importantissimo, riuscendo ad essere   anche nei momenti più difficili accanto agli isolani”. E alla fine aggiunge, sibillino: “Facendo a volte anche cose che non ci competevano”. Si riferisce forse alle accuse di truffa aggravata per le quali è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Patti, per la sua gestione del centro di Sant’Angelo di Brolo: i magistrati lo accusano di avere trattenuto più a lungo, nel centro, alcuni rifugiati per intascare 500 mila euro in più del dovuto.
“QUEI PROFUGHI hanno semplicemente aspettato di essere trasferiti da un centro a un altro – ha replicato Galipò – ho fiducia nella magistratura”.   La stessa attesa che a Lampedusa ha scatenato la rabbia dei tunisini, che hanno incendiato il Cpa e per ognuno dei quali la struttura di Galipò incassa 33,41 euro al giorno, come prevede la convenzione con il ministero degli Interni, da moltiplicare per decine di migliaia di presenze giornaliere dall’inizio dell’anno. Un episodio, insomma, che rischia di illuminare il lato nascosto del volto accogliente dello Stato, che nel fronteggiare un’ondata migratoria riesce a volte a trasformare l’emergenza in business, coniugando assistenza e lucro in un’area sottratta alla trasparenza ed ai controlli, dove la continua pressione migratoria costringe a non andare troppo per il sottile. Sull’incendio doloso dell’auto indagano i carabinieri. 

l'Unità 24.9.11
Cittadinanza e voto ai migranti
Migliaia di firme per i diritti
di Vincenzo Ricciarelli
qui

l'Unità 24.9.11
Intervista ad Andrea Segre
Un passaggio fondamentale per la nostra storia
di Toni Jop
qui

l'Unità 24.9.11
Il pacifismo del Pci
La lunga strada da Stalin ai cattolici
con una lettera di Togliatti a Capitini del 1961
di Gianluca Fiocco
qui
La Stampa 24.9.11
Oltre la luce, fisica sottosopra
“Super-neutrini? Li ho scoperti quasi per caso”
Antonio Ereditato, “padre” dell’esperimento “Ci vogliono altre prove, ma i dati sono esatti”
di Barbara Gallavotti

L’annuncio al Cern «Con i Gps e gli orologi atomici abbiamo fatto misure altamente sofisticate»
Lo studioso Antonio Ereditato è nato a Napoli nel 1955 e insegna fisica all’Università di Berna. Coordina il team di «Opera», il programma che impegna 160 studiosi

Intervista
Alla fine, ieri, è arrivato l’annuncio ufficiale. È la notizia che potrebbe rivoluzionare il modo di vedere l’Universo: i neutrini sembrano viaggiare più veloci della luce, stando alle misure eseguite dai ricercatori dell’esperimento Opera, in corso ai Laboratori del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. In alcuni casi i neutrini prodotti al Cern di Ginevra sarebbero arrivati al Gran Sasso con 60 miliardesimi di secondo di anticipo sul tempo che avrebbero impiegato viaggiando alla velocità della luce. Forse, li ricorderemo come i 60 miliardesimi di secondo che hanno cambiato la fisica.
Professor Antonio Ereditato, lei è il coordinatore del test Opera: come ha vissuto questa giornata?
«Dal punto di vista delle coronarie, impegnativa. I nostri risultati non sono facili da credere, le persone che sono intervenute al seminario, qui al Cern, ci hanno sottoposto a un fuoco di domande. Ma siamo riusciti a far fronte agli interrogativi. Noi stessi non sappiamo ancora se i neutrini sono davvero più veloci della luce. Ma al momento questa è la nostra osservazione e volevamo che la comunità scientifica riconoscesse che abbiamo fatto bene il nostro lavoro. Forse poi risulterà che tutto è dovuto a un qualche fenomeno per ora non previsto: la scienza funziona così».
Dobbiamo credervi? Il vostro rapporto è sobrio, ma si chiude con una frase irrituale che rivela la straordinarietà dell’annuncio: «Nonostante l’ampia significatività della misura riportata e la stabilità dell’analisi, il potenziale grande impatto dei risultati motiva la continuazione degli nostri studi».
«Si tratta di un risultato così inaspettato che ci obbliga ad essere cauti. Ogni misura può essere alterata da due tipi di errori. In primis gli errori statistici, che possono derivare dalla scarsità dei casi esaminati: per questo abbiamo preso in considerazione un elevato numero di eventi, 15 mila, e continueremo a raccogliere i dati. Il secondo tipo di errore è sistematico e può essere dovuto a difetti delle strumentazioni. Ecco perché è necessario che le misure vengano ripetute altrove: esistono strumenti adatti sia negli Usa che in Giappone».
Nonostante le cautele, definite i vostri risultati «molto significativi»: perché?
«Le nostre stime dell’effetto combinato dell’errore statistico e di quello sistematico ci portano ad un margine di incertezza di 10 miliardesimi di secondo: anche nella peggiore delle ipotesi i neutrini avrebbero un netto vantaggio rispetto alla luce. Questo almeno risulta dall’analisi dei dati, che abbiamo svolto al meglio delle nostre competenze e tenendo conto degli effetti oggi conosciuti».
I neutrini sono particelle praticamente invisibili, ma misurate la loro velocità con incredibile precisione. Gli strumenti di Opera sanno registrarne l’arrivo, ma come capite quando partono?
«Produciamo dei protoni, che urtano contro un bersaglio e generano delle particelle chiamate pioni, che decadono e producono i neutrini. Di questo processo, l’unica cosa che possiamo controllare con precisione è il momento in cui si producono i protoni, ma è abbastanza per calcolare l’esatto istante di partenza dei neutrini».
Dovevate conoscere in modo precisissimo sia la distanza fra il Cern e il Gran Sasso che il tempo di percorrenza. Come avete fatto?
«Ci siamo affidati a esperti di geodesia della Sapienza di Roma e di istituti svizzeri e tedeschi. Per misurare le distanze sono stati utilizzati dei Gps sofisticati, mentre per i tempi di percorrenza abbiamo adoperato degli orologi atomici sincronizzati».
Un aspetto paradossale è che la misura è una sorta di «effetto secondario» dell’esperimento Opera.
«È vero. Opera è stato concepito per studi diversi, sull’oscillazione del neutrino. La misura della velocità l’abbiamo fatta quasi per scrupolo, ma ora ovviamente diventerà un filone importante dell’esperimento».
Come cambia la nostra visione dell’Universo?
«Non ne ho idea. Voglio concentrarmi sulla solidità di questa misura e, se verrà confermata, qualsiasi spiegazione teorica risulterà molto eccitante».
E la fisica sperimentale come cambierebbe?
«Nella fisica delle particelle ci sono tre filoni. Uno che esplora l’ignoto alle massime energie possibili, come si fa con l’acceleratore Lhc, un secondo che si concentra su misure di precisione, come nel caso di Opera, e un terzo filone che studia le particelle cosmiche. Penso che questi tre tipi di indagine debbano integrarsi e occorrerà portare avanti esperimenti congiunti».
Lei è un italiano che lavora a Berna, in Svizzera. È un cervello in fuga?
«Mi definirei un cervello che ha fatto i suoi conti. Fino a pochi anni fa avevo una posizione come dirigente di ricerca nell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, quindi ero al vertice della carriera. Però ho visto che a Berna era vacante un posto da professore ordinario e direttore del laboratorio di alte energie. Un ruolo attraente e così ho partecipato alla selezione. E ho vinto».


La Stampa 24.9.11
“Pochi soldi e tanta competizione Le nostre vite al Gran Sasso”
In miniera tra i computer a spiare i segreti dell’Universo
di Eglie Santolini

Come i sette nani di Biancaneve. E alla fine, dalla miniera salta fuori il diamante della superscoperta. Turni pesanti nella pancia della montagna, sotto 1400 metri di roccia: così lavorano i ricercatori del progetto Opera nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso. «Se fa freddo, là sotto? Dipende. Quando ti metti vicino alle apparecchiature arrivi ai 20 gradi, altrimenti siamo sui 17. Più che altro è umido. Scendi in galleria direttamente in macchina, entrando dall’autostrada. Guai dimenticarsi il pile». Alessandro Paoloni, quarant’anni, 1700 euro al mese, è dipendente dei Laboratori di Frascati dell’Infn. Al Gran Sasso ha curato la fase d’installazione del detector: «un periodo febbrile, nei laboratori dalle 9 alle 19».
Emergi di lì e son serate monacali: un libro in camera, negli alberghi sotto la funivia, a Paganica o ad Assergi. Magari un piatto di arrosticini o di maltagliati al tartufo con i colleghi. O una partita di pallavolo, «come in un normale campus universitario». Per i salutisti, la mattina, due ore di jogging nel Parco Nazionale. Perfino nei momenti più duri resta la sensazione, come dice Paoloni, «di fare quello che si è scelto di fare. Ha presente lo spot dell’Amaro Montenegro?». Già, il veterinario, l’aereo da far decollare, lo spirito di squadra. Il primo pensiero di Antonio Ereditato è stato proprio per il gruppo. Nessuna traccia di competitività? «Eccome», segnala Giovanni Mazzitelli , ricercatore dell’Infn, autore del blog «Io Non Faccio Niente» (notare le iniziali): «la competitività è naturale nel nostro mestiere. Ma è sana perché il lavoro si misura con criteri oggettivi. E non manca mai il dialogo fra noi e con la comunità scientifica».
A metà strada fra Teramo e L’Aquila («il terremoto? Non ha fatto danni, abbiamo ripreso a lavorare nel giro di un mese»), questi sono i più grandi laboratori sotterranei al mondo, per gli esperimenti di fisica delle particelle. Il cuore del bunker sono tre grandi sale sperimentali, ciascuna lunga 100 metri, larga 20 e alta 18, incastonate nella montagna. La roccia dolomitica riduce il flusso dei raggi cosmici in ragione di un milione, e di migliaia di volte il flusso dei neutroni. Fuori, nei cosiddetti laboratori esterni, gli uffici amministrativi e di servizio, la mensa, la biblioteca.
Chiara Sirignano, 33 anni, ha uno stipendio di 1500 euro e, «come direi l’80 per cento di quelli che lavorano qui», un contratto a tempo determinato. Ha trovato casa da un mese, ma bazzicaqui da dieci anni e cioè dai tempi dell’Università. «Ho fatto la spola a lungo da Salerno, vivevo in albergo, con un rimborso spese per vitto e alloggio. È un’esperienza faticosa ma gratificante, c’è un bel po’ di routine, ma anche una parte di lavoro che cambia di giorno in giorno». Lei vive in camera oscura, controlla le pellicole fotografiche che hanno registrato gli esperimenti. Poi sguardo incollato al microscopio, per esaminare le lastre, e infine al computer, per analizzare i dati. «Ogni giorno qui gireranno una trentina di fisici, venti stabili più quelli che arrivano dalle istituzioni internazionali che collaborano al progetto. Una metà sono giapponesi. Mi hanno offerto una buona opportunità, a mia volta ho passato quattro mesi in Giappone». Chiara crede che rimarrà al Gran Sasso «ancora un paio d’anni», Alessandro coltiva un rapporto quasi di famiglia col suo detector e spera di poter lavorare un po’ di più all’analisi dei dati. Ma si sente sempre più oppresso «dalla burocrazia e da montagne di carte: anche comperare un alimentatore del computer da 70 euro pare un affare di Stato».
"MONACI MODERNI «Si sta al gelo e i contratti sono quasi tutti a tempo determinato»"

l'Unità 24.9.11
Rivoluzione che va oltre Einstein
di Pietro Greco
qui
 
l'Unità 24.9.11
Maiani: Cambierà lo spazio-tempo
di Cristiana Pulcinelli
qui


il Fatto 24.9.11
Neutrini birichini
Anche Einstein non si sente troppo bene
Margherita Hack: per la prima volta la relatività è messa in discussione
di Francesca Gambarini

Cosa vuol dire questa scoperta? Che anche Einstein non era perfetto”, ride Margherita Hack, 89 anni, con quel suo caldo accento toscano che ti fa sentire subito a casa tua anche quando si parla di fotoni, acceleratori, relatività, neutrini e nanosecondi. Ieri, alla conferenza stampa internazionale convocata nel Cern, il più grande laboratorio scientifico del mondo, è arrivata la conferma di ciò che da qualche giorno si vociferava nei corridoi di Ginevra. La velocità della luce è stata superata. La Teoria della Relatività, figlia prediletta del papà della fisica moderna, si sarebbe frantumata, sbriciolata, disintegrata di fronte ai risultati raggiunti dopo tre anni di esperi-menti che dimostrano che sì, c’è qualcosa, nell’universo mondo, che va più veloce di 300 mila chilometri al secondo.   Qualcosa di infinitamente piccolo, i neutrini, inafferrabili particelle elementari, che possono viaggiare a una velocità stimata di due millesimi di percento superiore a quella della luce. Eppure la celebre astrofisica, stuzzicata sull’incredibile rivelazione, che da un paio di giorni ha messo in subbuglio l’intera comunità scientifica internazionale, non si scompone.
Qual è la sua prima considerazione, professoressa?
Io la vedo così. Penso che l’uomo sia indissolubilmente legato al concetto di infinito, di immenso. Siamo attratti da ciò che non possiamo spiegare. La scienza non è niente altro che questo bisogno tradotto in formule ed equazioni, teorie e manuali. Ecco perché uno scienziato vero non si preoccupa di mettere in dubbio qualunque teoria, sempre e comunque. Anche quando si tratta di Einstein   .
Come hanno appena fatto gli scienziati del Cern di Ginevra.
Il loro studio potrebbe, in futuro e, attenzione, qui lo dico e lo ridico, solo se confermato e riconfermato, aprire ma anche spalancare nuovi universi.
Ci faccia anche un solo esempio.
Oggi, per esempio, si pensa che non sia possibile percorrere le enormi distanze cosmiche che separano un sistema solare da un altro, proprio perché si considerava che non fosse possibile andare oltre la velocità dei fotoni, superando la barriera della luce.
E domani?
Domani chissà... Chissà che, dopo questo esperimento, tra qualche anno, non cambi davvero la geografia astronomica e che non si riesca a coprirle, quelle distanze. Ma è presto per dirlo. 
Per i profani della fisica, a parte lo stordimento iniziale, la questione è difficile da capire.
Sì, lo comprendo. Avvicinarsi a queste cifre, ponderare questi dati, immaginarsi, anche solo per gioco, che cosa significhino, è estremamente difficile.
Quasi impossibile. In sintesi estrema che cosa cambia nella nostra percezione?
Secondo Einstein, nessun corpo dotato di materia può andare oltre la velocità della luce, anzi, nemmeno eguagliarla. Per   farlo, dovrebbe avere una massa infinitamente grande, in base alla formula E=mc². Il che ovviamente è assurdo. Invece i neutrini, che hanno una massa, seppur minima, questa velocità se la sono mangiata.
E quindi?
È la prima volta che la teoria del vecchio Albert non viene confermata. È dal 1905, l’anno in cui la elaborò, chiamandola Teoria della relatività ristretta, che si prova e si riprova a montarla e smontarla. L’abbiamo messa in discussione non so nemmeno dirle quante volte, ma i dati sperimentali gli hanno sempre dato ragione. Inequivocabilmente.
Se si confermeranno per veri   i risultati del Cern, bisognerà riconsiderare quella che finora era stata ritenuta da tutti gli scienziati la teoria dell’universo, e riscrivere i libri di fisica?
Ma questo non vuol dire che la vecchia relatività sia tutta da buttare. Può darsi che si dimostri una teoria imperfetta, come molte altre. E il genio di Einstein rimarrebbe comunque intatto.
Certo, si tratta di una di quelle scoperte che colpiscono l’immaginario collettivo: c’è già chi parla di viaggi nel tempo, chi di inesplorati universi paralleli ora finalmente alla portata umana... 
Suvvia (ridacchia un poco, ma subito si fa seria, ndr). Questa è fantascienza, divertissement, semplice pour parler. Con la scienza si deve sempre aspettare prima di gridare al miracolo. Il punto di partenza, e non è male, è che i dati ci sono. E da ieri sono a disposizione della comunità scientifica perché li verifichi. Intanto c’è subito una cosa da fare. Provare di nuovo. Uno degli assiomi della scienza è la riproducibilità dell’esperi-mento. È un passo fondamentale. Se un dato è verificato una sola volta, il risultato a cui porta non esiste, per la scienza.
Allora mi vuole dire che c’è molto da aspettare e niente nel mondo cambierà dopo  tutto questo stupirsi e sconvolgersi? 
Certo che sì. La scienza ha bisogno dei suoi tempi. E infatti nessuno degli scienziati del Cern ha azzardato interpretazioni teoriche. Bisogna incrociare i dati tra loro, magari studiare lo stesso esperimento su altre particelle dotate di massa più grande, come l’elettrone, capire come sono stati misurati i neutrini. C’è n’è di lavoro... 

Corriere della Sera 24.9.11
«Come abbiamo battuto la luce
Il futuro? I viaggi nel tempo»
di Giovanni Caprara

MILANO — Dopo l'annuncio della scoperta che i neutrini viaggiano più veloci della luce non poteva andare diversamente. Alle ore 16 l'auditorium del Cern di Ginevra traboccava di scienziati, oltre cinquecento, seduti dovunque, anche per terra. Il fisico Dario Autiero, rappresentante dei 160 scienziati dell'esperimento Opera incaricato di illustrare risultati, è stato bersagliato di domande. Nessun cedimento. Per tutti c'era una risposta adeguata. «L'esame è stato molto efficace soprattutto sulla qualità del lavoro svolto. Quindi confido nel risultato — commenta Antonio Ereditato alla guida dell'esperimento —. Indicazioni importanti sono arrivate da chi ci ascoltava e altre ne aspettiamo da coloro che non erano presenti». Con estrema attenzione ascoltava anche il Premio Nobel Samuel Ting che manifestava apprezzamenti. La velocità della luce è stata superata di venti parti su un milione, cioè dello 0,0002 per cento arrivando 60 nanosecondi prima del previsto. Il tempo di volo rilevato ha un errore possibile intorno a 10 nanosecondi, e nella distanza di 730 chilometri tra il Cern e il laboratorio del Gran Sasso c'è un'incertezza di 20 centimetri.
Ma questo non sembra intaccare la sostanza del risultato ottenuto dopo la valutazione di 15 mila eventi che raddoppieranno entro l'anno prossimo. «Ora ci saranno verifiche negli Stati Uniti e in Giappone» nota Roberto Petronzio, presidente dell'Istituto nazionale di fisica nucleare che raggruppa la cinquantina di italiani partecipanti all'esperimento costato 70 milioni di euro.
In realtà l'obiettivo della ricerca puntava a studiare le trasformazioni del neutrino muonico e la scoperta è nata, in un certo senso, per caso. «Date le possibilità dello strumento — racconta Ereditato — pensavamo di compiere altre verifiche compresa la velocità della luce. E qui siamo stati colti di sorpresa. Volevamo misurare un dato consolidato e invece ci siamo resi conto del superamento dei 300 mila chilometri al secondo stabilito da Einstein».
Qualche scienziato al Cern nei corridoi non ha condiviso la scelta dell'annuncio giudicato prematuro. «Ma a questo punto era giusto procedere nella presentazione ufficiale — spiega Sergio Bertolucci direttore scientifico del Cern —. Valutazioni e controlli di ogni genere effettuati dal gruppo si erano esaurite. Nessun problema era emerso ed era quindi etico scientificamente aprire l'esame all'intera comunità dei fisici. È evidente che solo una conferma da parte di altri esperimenti condotti altrove e in maniera indipendente potrà convalidare il risultato».
Fino ad allora la prospettiva annunciata apre fantastici scenari. «Il superamento della velocità della luce contraddice tanti aspetti delle teorie odierne — precisa Bertolucci — e ci può portare verso una realtà con più dimensioni, a viaggi nel tempo. Ma le teorie di Einstein sopravviveranno come rimasero quelle di Newton. La scienza procede».

Corriere della Sera 24.9.11
Il napoletano che legge Asimov a capo del team
di Giov. Cap.

MILANO — «Mi sono preparato a Napoli — dice con orgoglio Antonio Ereditato, 56 anni e oggi primo protagonista di una scoperta che, se confermata, sarà epocale per la scienza e la conoscenza dell'Universo —. Nella mia città natale mi sono laureato e nella stessa università Federico II ho raggiunto pure il dottorato. Inoltre, lo dico subito, sono un tifoso del Napoli».
Poi, come ogni scienziato che deve consolidare un'esperienza sul campo è volato via, ma non lontanissimo, a Strasburgo, in Francia, entrando nelle file del Cnrs, il consiglio nazionale delle ricerche d'Oltralpe. Come era ovvio per un fisico transitava quindi al Cern, la mecca della ricerca subnucleare, e poi tornava a casa, sotto il Vesuvio. Per poco però. «Mi guardavo intorno — racconta Ereditato — e così affrontai e vinsi un concorso all'Università di Berna, in Svizzera, salendo in cattedra e diventando il direttore del Laboratorio di fisica delle alte energie». Era il 2006 e da allora lo scienziato napoletano è entrato a far parte di numerose ricerche al Cern, in Giappone e infine anche nell'esperimento Opera condotto assieme all'Istituto italiano di fisica nucleare.
«La scienza — prosegue — è sempre stata la passione della mia vita anche se da giovanissimo non capivo bene che strada prendere. Poi è arrivata la fisica e l'esperienza che sto conducendo con i neutrini, da tempo la mia specializzazione, è diventata esaltante per le prospettive che apre. Ma lascio agli altri descriverle. Io sono impegnato in un'indagine che per il momento riguarda il loro comportamento e la loro natura. E tanti sono gli aspetti ancora da decifrare».
Ma non c'è solo la scienza per Ereditato. «Mi piaceva e mi piace leggere la fantascienza, le grandi storie di Asimov e Clark. Però confesso che con altrettanta passione seguo il calcio e affronto la storia della fisica e i suoi straordinari personaggi».
Quali sono stati i grandi scienziati del passato a cui ha guardato? «Certamente Enrico Fermi e in particolare Bruno Pontecorvo. Da giovane ricercatore andai nel suo laboratorio di Dubna, in Russia, dove viveva dopo l'abbandono dell'Italia. Da lui, grande genio dei neutrini, ho imparato molto e rimane per me un costante riferimento».
E la scelta della Svizzera è stata una fuga dall'Italia? «Per niente. A parte la vicinanza e il fatto che con la comunità dei fisici italiani lavoro quotidianamente, la Svizzera mi ha offerto delle opportunità maggiori per la mia vita di scienziato, come ad esempio coordinare grandi gruppi di ricerca, e quindi sono arrivato qui accettando un'ardua selezione. Mi hanno accolto molto bene e ne sono felice».


Repubblica 24.9.11
Un balzo enorme del sapere umano si potrà scardinare il concetto di tempo
Siamo entrati in una nuova era. Eppure tanti colleghi dicevano l´esperimento non sarebbe servito a nulla
di Luciano Maiani

Talvolta, il progresso della scienza avviene a scossoni, balzi in avanti che si sprigionano da un´idea o da un risultato inattesi. Non saprei come meglio definire il risultato annunciato dai Laboratori dell´Infn del Gran Sasso e dal Cern.
L´annuncio di un piccolo eccesso di velocità dei neutrini rispetto alla luce, circa 2 parti su 100mila, proviene da una collaborazione di provata capacità, da laboratori internazionali di tutto rispetto, con l´impiego delle tecnologie più avanzate per la misura di distanze e tempi. La portata del risultato è tale, tuttavia, da consigliare prudenza. Non possiamo ancora dire se si tratta di un falso allarme o di uno scossone capace di modificare la visione di spazio e tempo sviluppata da Einstein e consolidata in più di cento anni di esperimenti. Esperimenti effettuati su particelle elettricamente cariche che siamo capaci di accelerare e misurare nei laboratori (quindi non sui neutrini, privi di carica elettrica).
Con il fascio di neutrini dal Cern al Gran Sasso per la prima volta riusciamo a controllare la partenza e l´arrivo di particelle elettricamente neutre su distanze tali da permettere la misura con una precisione mai raggiunta prima. Neutrini raggiungono la Terra anche dal Sole e dalle grandi stelle che esplodono, le supernove. Nel primo caso, vediamo l´arrivo ma non sappiamo quando è avvenuta la partenza. Delle supernove, conosciamo solo un esempio (del 1987) in cui l´arrivo dei neutrini è avvenuto senza anomalie. Ma anche in questo caso la sorgente era fuori del nostro controllo e i neutrini così pochi da non permettere un test stringente.
La possibilità di inviare al Gran Sasso un fascio di neutrini di alta energia è stata considerata negli anni ´80, quando Antonino Zichichi promosse la costruzione dei laboratori sotto il Gran Sasso, e infatti le sale dei laboratori vennero orientate in direzione del Cern. Solo alla fine del secolo, tuttavia, il progetto venne concretizzato e sostenuto da una collaborazione internazionale che vedeva come protagonisti il Cern, allora sotto la mia direzione, e l´Infn, diretto da Enzo Iarocci.
Cosa cambierebbe se Opera avesse ragione? Secondo Einstein, il tempo che passa tra la partenza e l´arrivo di un segnale dipende dal sistema di riferimento da cui guardiamo i due eventi. Se il segnale viaggia a velocità superiore alla luce, cambiando riferimento, ad esempio guardando da un´astronave a grandissima velocità, potremmo vedere un tempo zero - partenza e arrivo simultanei - o addirittura un tempo negativo - il segnale arriva prima di partire! In entrambi i casi, si perderebbe la relazione causa-effetto tra invio e ricezione del segnale. Per questo, nella teoria della relatività i segnali "superluminali" sono proibiti. È troppo presto per dire come queste idee dovranno essere modificate e quali concetti dovremo abbandonare per rispondere a un eventuale comportamento anomalo dei neutrini (aspettiamo la conferma dai fasci di Stati Uniti e in Giappone). Certo, non sarà cosa dappoco.


Repubblica 24.9.11
Troppo presto per archiviare Einstein nella fisica le rivoluzioni sono rarissime
Ma se il dato fosse vero bisognerebbe ripensare tutto e capire dove abbiamo sbagliato fino a oggi
di Carlo Rovelli

La cautela è d´obbligo. Una misura deve essere ripetuta prima di diventare credibile, e sviscerata a fondo prima di trarne conclusioni, a maggior ragione se sembra contraddire tutto quello che misuriamo da un secolo. Altri annunci di clamorose scoperte non hanno poi resistito a una analisi serrata. Ne sono consapevoli gli autori della bellissima misura della velocità dei neutrini, che concludono il loro articolo sobriamente ("riteniamo opportuno continuare questa ricerca per studiare possibili effetti sistematici non conosciuti che potrebbero spiegare l´anomalia osservata") e ne è consapevole il cautissimo comunicato del Cern ("interpretare i risultati di questa nuova misura come indicazioni di una modifica della teoria di Einstein è poco plausibile"). È un po´ come se qualcuno dicesse di aver visto di notte un pinguino in piazza di Spagna: prendiamolo sul serio e cerchiamo il pinguino, magari c´è davvero. Ma non saltiamo subito alla conclusione che di certo ci sono pinguini in giro per Roma.
Se dovesse essere confermato, il risultato sarebbe eccezionale. Non tanto perché contraddica il senso comune: non stupisce nessuno che qualcosa si possa muovere molto veloce; è la teoria di Einstein, dove la velocità della luce è un limite invalicabile, ad essere controintuitiva. Il motivo dell´eccezionalità, piuttosto, è che se il risultato fosse confermato sarebbe necessario rivedere praticamente tutta la fisica moderna. La fisica delle particelle, la fisica gravitazionale, l´astrofisica, la cosmologia, e perfino l´elettromagnetismo, implicano tutte l´esistenza di questa velocità massima. Ci sono innumerevoli previsioni, confermate, che seguono da teorie che includono questa assunzione. Se questa assunzione fosse violata, bisognerebbe ripensare tutto, e capire come abbiamo fatto a fare predizioni corrette basate su un´assunzione sbagliata.
Sarebbe splendido. Saremmo sbalzati dalla situazione comoda ma un po´ noiosa in cui siamo oggi, in cui le teorie esistenti sono estremamente potenti e non abbiamo quasi esperimenti che le contraddicano, in una situazione in cui c´è tutto da rifare. Sarebbe il sogno dei fisici teorici, che smetterebbero di sentirsi un po´ inutili a pensare a mondi paralleli. La tentazione di prendere subito sul serio queste misure è forte, e certo usciranno presto decine di ipotesi di spiegazione.
Speriamo che sia vero, anche perché il team internazionale che ha fatto la misura è di altissimo livello, e il loro lavoro è di grande qualità. Hanno misurato la distanza fra il Cern e i laboratori all´Aquila con una precisione di qualche centimetro, e il tempo volo dei neutrini con una precisione di dieci miliardesimi di secondo. Meriterebbe che la Natura dicesse sì. Ma teniamo presente che scoperte così clamorose, che contraddicono tutto quanto ci si aspetta, sono rarissime, se non inesistenti, nella storia della fisica. In generale, i segnali del nuovo iniziano lenti e confusi. Perfino le sorprendenti osservazioni di Galileo si inquadravano in fondo bene nel modello di Copernico, scritto un secolo prima. Stiamo a vedere.

Corriere della Sera 24.9.11
Narcisiste o possessive
Le mamme cattivissime
di Paolo Di Stefano

Esiste l'istinto materno? O si tratta di un mito oscurantista da sfatare? La psicoanalista Marina Valcarenghi ritiene di sì: «Esiste in noi donne come esiste negli altri mammiferi e il contrario dovrebbe, credo, essere dimostrato». In attesa della confutazione, bisogna dunque chiedersi se l'istinto materno risolve tutti i problemi. Risposta: tutt'altro, a volte li complica, perché anche nell'istinto materno si nasconde una ambivalenza che genera conflitti e grovigli magari inespressi o inesprimibili: egoismi, rabbie, paure, frustrazioni. Specie in una fase di passaggio e di incertezza antropologica come la nostra. Ed è proprio l'incertezza a gettare qualche ombra sulla maternità, come spiega bene Valcarenghi nel libro in uscita Mamma non farmi male (Bruno Mondadori editore). La maternità ha sempre comportato disturbi psichici tradizionalmente legati a una vita prestabilita dai modelli collettivi indiscutibili: madri sofferenti perché si sentono «nate solo per essere madri» e a questa missione pensano di consacrare la loro vita: sono le madri «totali», cui basta un niente perché si infranga questa presunta totalità. Le madri «nere» come le seppie sono deluse, scontente, avvolte da nuvole cupe che estendono alla famiglia. E ancora: madri vittime e lamentose; madri narcisiste che rispecchiano nei figli le proprie aspettative di successo; madri che ritorcono la loro misoginia contro le figlie; madri isteriche e madri ingombranti, istrioniche, per cui i figli provano spesso vergogna. Un ampio repertorio di patologie che hanno conseguenze più o meno profonde nella prole.
La maternità al tempo dell'insicurezza ne ha cancellate diverse, ma ne ha aggiunte altre: se nella stabilità sociale, anche quando è una prigione, è garantito un equilibrio, la precarietà diffusa e la crisi dell'assetto patriarcale hanno finito per cambiare il modo di vivere la maternità. Ora, è ovvio che esistono anche le madri felici o quelle che se proprio non sono felici per loro fortuna non soffrono di alcuna patologia degna di analisi. E dunque va da sé che Valcarenghi prende in considerazione quella che chiama «madre negativa», senza per questo negare che ci siano madri positive (e saranno sicuramente il 90 per cento!). Detto ciò, la madre depressa non è certo una novità. Cambiano le cause: non ultimo il senso di colpa per non sapere riconoscere i propri desideri e amministrare una nuova libertà nelle dinamiche familiari. A una mamma depressa corrisponde spesso un bambino che vuole aiutarla assumendosi responsabilità che non gli spettano.
L'ansia materna è in aumento. Quante volte le mamme si attaccano al telefono: «Dottore, non mangia... Dottore, non dorme... Dottore, continua a piangere...»: stati d'animo che la psicoanalista junghiana attribuisce a una «mancanza di fiducia nelle proprie capacità forse dovuta a un sapere dimenticato» ma anche a un desiderio di protezione in una società instabile. Una volta non era così, esclamano i pediatri più anziani: mai viste tante mamme ansiose. Facile passare dall'ansia all'apatia, alla tristezza, alla depressione. Le madri assenti non sono quelle che non hanno tempo, sono quelle che non hanno interesse per i loro pargoli e che magari mettono al mondo figli che non conosceranno mai sentendosi colpevoli della loro latitanza. «Grazie di avermi voluto fra i tuoi pazienti» è la frase che la Valcarenghi si è sentita rivolgere da un bimbo abbandonato. E non si tratta necessariamente di un ex infante recuperato da un cassonetto. «Sono in aumento le madri che chiudono la porta, lasciando i bambini al marito, ai nonni, o a loro stessi». Oltre alle cattive madri esistono anche le madri cattive, nonostante l'istinto archetipico di cui si diceva? Beh, ci sono anche quelle, indubbiamente, e sono in crescita. Maltrattamenti, abusi, punizioni fuori misura, persino l'infanticidio. «Non è cambiata la violenza, sono cambiate le sue ragioni». Mentre un tempo erano il degrado e l'emarginazione a favorire questi comportamenti, oggi la violenza, per lo più sommersa, riguarda tutte le classi sociali. Valcarenghi intravede una delle cause in un desiderio di «possesso totale» che qualche volta si perpetua: è una pretesa di controllo sul figlio che talvolta si spinge fino a una deriva violenta.
«Il figlio è mio e solo io posso decidere su di lui». La casistica è molto ampia e comprende la donna che ogni mattina sveglia la piccola Irene con un pizzicotto («non piange perché ormai si è abituata»). Ma anche la madre frustrata che fa pagare ai figli la decisione di abbandonare una brillante carriera prendendoli a calci, mordendoli, minacciandoli. Casi estremi, certo. Ma «in questi anni le donne sono molto più sole nella maternità e un Io debole, con poca energia e solidità, può crollare sotto il peso dei figli». La violenza è nell'aria, nella realtà, per le strade, in televisione: una violenza «decodificata», non solo fisica ma soprattutto psichica, che invade anche la famiglia: urlare, far volare un piatto, chiudere un bambino al buio non sfiora il corpo del bambino ma gli procura terrore. «La madre perfetta non esiste», sostiene Elisabeth Badinther, la filosofa femminista francese, nel suo nuovo libro intitolato Mamme cattivissime? (Corbaccio). Il vero reato è l'apologia della buona madre, quella che trionfa nella retorica imperante non solo nella pubblicità ma anche presso le stesse donne. L'autoretorica che le vuole pacificate, attive, efficienti, sensibili, affettuose. Esaltando quell'istinto materno a cui Badinther alla fine non crede.

Corriere della Sera 24.9.11
Il lungo viaggio di Colletti oltre le utopie della sinistra
Marxista libertario, accettò le dure repliche della storia
di Giuseppe Bedeschi

Il 3 novembre di dieci anni fa scomparve Lucio Colletti, uno dei protagonisti della cultura filosofico-politica italiana della seconda metà del Novecento, e una delle personalità più discusse di quegli anni difficili e tormentati. La sua storia intellettuale fu contrassegnata da appassionate e drammatiche «svolte» o «fratture», nelle quali egli ebbe la forza di mettere in discussione il proprio precedente patrimonio ideale, e di avviare una fase interamente nuova. Credo che questo sia stato l'aspetto più interessante (e, certo, il più inquietante) della personalità del filosofo romano.
La prima «svolta» fu la sua adesione al marxismo, pochi anni dopo la laurea (che aveva conseguito sotto la guida del filosofo crociano Carlo Antoni). Durante gli studi universitari, infatti, e nel periodo immediatamente successivo, Colletti non era su posizioni marxiste, bensì su posizioni liberaldemocratiche. La sua adesione al marxismo, e la sua decisione di entrare nel Partito comunista, maturarono tra il 1949 e il 1950, in piena guerra fredda, quando egli aveva 25-26 anni (era nato nel 1924). Colletti ha raccontato che fu la lettura di un testo filosofico di Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, a determinare la sua conversione al marxismo. Se devo essere sincero, non ho mai creduto a questa testimonianza di Colletti (pronunciata certo in buona fede). Penso piuttosto che la sua svolta in direzione di Marx e del comunismo abbia avuto la sua molla (come accadde a tanti intellettuali) nel messaggio salvifico del marxismo: la nascita di una società interamente nuova e unificata.
Ciò è confermato dal fatto che il filosofo romano, dopo le rivoluzioni popolari in Polonia (Poznan) e in Ungheria, nel 1956, non fu tra i numerosissimi intellettuali che abbandonarono il Pci. Beninteso, egli visse con grande passione e drammaticità quegli avvenimenti, e anzi fu tra gli estensori della «lettera dei 101» (fra i quali figuravano parecchie delle personalità più prestigiose che avevano aderito al Pci: da Natalino Sapegno a Carlo Muscetta, da Luciano Cafagna ad Alberto Caracciolo, per fare solo alcuni nomi). In quel documento — che fu inviato alla direzione del partito, con richiesta di pubblicazione su «l'Unità» (richiesta che fu respinta) — si denunciava lo stalinismo che dominava nell'Urss e nei Paesi satelliti, la dura coercizione sulle masse popolari, la soppressione delle libertà civili e politiche, l'instaurazione di rapporti fra gli Stati socialisti basati sull'ingerenza e sulla subordinazione; e si denunciava altresì che il Pci, fino a quel momento, non aveva condannato lo stalinismo, e ne aveva minimizzato i crimini, definendoli «errori» o addirittura «esagerazioni».
E tuttavia, nonostante Colletti fosse, come si è detto, uno degli estensori della lettera dei 101, non uscì dal partito (come fece gran parte degli altri firmatari). Restava intatta la sua fede nel comunismo, quale delineato da Marx, di cui lo stalinismo era non una conseguenza (pensava il filosofo romano), bensì una spaventosa negazione.
Senonché il marxismo di Colletti era un marxismo eterodosso, che lo avrebbe portato a confliggere sempre più col Pci (dal quale uscì nel 1964). Da un lato, infatti, sul piano filosofico-teorico, egli (vicino in ciò a Galvano Della Volpe) rifiutava il «materialismo dialettico» (che era il marxismo ufficiale di tutti i partiti comunisti) con la sua dialettica della natura e della storia, ed esigeva un ritorno all'opera di Marx, che era essenzialmente (così pensava allora il filosofo romano) una analisi sociologico-scientifica della società capitalistica; dall'altro lato, sul piano politico, rivendicava l'«autogoverno dei produttori», cioè la democrazia consiliare o diretta, con la salvaguardia di tutte le libertà civili e politiche. Il marxismo di Colletti assumeva così una dimensione libertaria, e al tempo stesso veniva a collocarsi alla sinistra del Pci, di cui criticava la difesa della Costituzione italiana, che era — egli diceva polemicamente — una costituzione democratico-parlamentare borghese.
Erano posizioni, queste di Colletti, destinate a entrare in crisi. Sotto le dure repliche della storia — l'impossibilità di qualunque rinnovamento del «socialismo reale», e al tempo stesso la vitalità e la produttività sempre più elevata del capitalismo — il filosofo romano, a partire dalla sua celebre Intervista politico-filosofica del 1974, incominciò a mettere in discussione l'opera di Marx, che (seguendo le indicazioni di Hans Kelsen, ma approfondendole e rielaborandole attraverso una eccezionale conoscenza del pensiero kantiano) gli parve fondata sulla confusione (già centrale in Hegel) fra «opposizione reale» e «contraddizione». Il conflitto sociale fra operai e capitalisti era appunto un conflitto, cioè una opposizione, ma non era una contraddizione, e non postulava affatto il proprio superamento e la propria soppressione.
Quanto alle libertà civili e politiche, Colletti finì con l'accettare l'obiezione formidabile che gli rivolse Norberto Bobbio nei suoi famosi saggi apparsi nel 1975 sulla rivista socialista «Mondoperaio». «Per salvare capra e cavoli — scrisse Bobbio — Colletti sostiene che altro è il parlamentarismo di cui il futuro Stato socialista potrebbe fare a meno, altro sono le libertà civili e politiche, come la libertà di stampa e il diritto di sciopero, senza le quali non ci può essere, a suo giudizio, socialismo. (…) Mi domando come Colletti creda veramente possano essere difese e conservate le libertà cui tiene senza un organo centrale in cui siano rappresentate le varie parti che compongono la società civile e in cui la discussione e le deliberazioni che ne seguono siano rette dalle regole del gioco democratico». Accettando pienamente questa obiezione, Colletti era ormai fuori del marxismo e sempre più vicino al pensiero liberale. Ricevette perciò molti attacchi dai suoi antichi compagni di fede, e anche delle vere e proprie irrisioni (la pretesa «crisi del marxismo», gli disse un teorico dell'estrema sinistra, era solo una miserevole «sceneggiata»). Ma egli procedette tranquillamente per la propria strada, incurante delle scomuniche e degli strepiti, come sempre aveva fatto in passato.

Corriere della Sera 24 .9.11
Autobiografia di un partigiano
di Dino Messina

È il nome più conosciuto della Resistenza romana, perché ne fu indubbio protagonista e soprattutto perché a lui il comandante Carlo Salinari assegnò il compito rischioso di far scoppiare il 23 marzo 1944 al passaggio del Battaglione Bozen in via Rasella un carrettino pieno di tritolo che uccise 32 soldati nazisti. A quell'azione, decisa da Giorgio Amendola e dal comando delle formazioni garibaldine, parteciparono dodici partigiani dei Gap (Gruppi di azione patriottica), ma Rosario Bentivegna, classe 1922, medico del lavoro e militante del Partito comunista sino al 1985, è rimasto l'unico testimone diretto dell'episodio che determinò il giorno successivo la terribile rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine, con 335 vittime selezionate soprattutto tra i prigionieri politici ed ebrei.
Via Rasella, con le polemiche, anche interne alla sinistra, durate oltre mezzo secolo, è il cuore del nuovo libro di Bentivegna, scritto con la consulenza della giovane storica Michela Ponzani (Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, Einaudi, pp. 422, 20). Il saggio tuttavia non è né una cronaca di via Rasella né una storia della Resistenza romana. È anche questo, ma è soprattutto l'autobiografia di un militante del secolo delle ideologie, che ancora oggi, nonostante il fallimento del «socialismo reale», continua a dichiararsi comunista. Un «comunista antistaliniano», ma sempre ammiratore di Luigi Longo e della «spinta propulsiva» data da Palmiro Togliatti con la «svolta di Salerno».
Anche se Bentivegna ha raccontato la sua verità già in un libro apprezzato da Renzo De Felice, Achtung Banditen, edito da Mursia nell'83 e nel 2004 in una versione aggiornata, la lettura di queste «memorie di un antifascista» è utile sia per conoscere la realtà della Resistenza, sia per seguire la formazione e il percorso anche internazionale di un militante comunista negli anni della guerra fredda. Su un fatto Bentivegna ha ragione, così come hanno stabilito una serie infinita di sentenze dei tribunali: dopo l'attentato di via Rasella, non venne affisso nessun manifesto che invitava i partigiani a consegnarsi. La rappresaglia delle Ardeatine fu decisa e realizzata in gran segreto, anche se qualcosa trapelò in Vaticano. La prima notizia della strage venne pubblicata il 25 marzo sul «Messaggero», a cose fatte. Più controversa è la questione se l'attacco al battaglione Bozen fosse necessario dal punto di vista militare, come sostiene Bentivegna, per far cessare il transito di truppe naziste a Roma e di conseguenza interrompere i bombardamenti sulla capitale da parte dell'aviazione alleata.
Grato ai generosi romani che aiutarono nella clandestinità lui e i suoi compagni, Bentivegna è rimasto alla battuta del generale nazista Kurt Maeltzer secondo cui mezza Roma nascondeva l'altra metà. Così nega l'esistenza di una «zona grigia» e considera mistificazioni le ricerche di uno storico come Aurelio Lepre, che in un pamphlet del 1996 basato sulle intercettazioni telefoniche documentava le critiche dei romani all'attacco di via Rasella. Un'azione considerata un attentato terroristico, e in quanto tale «non necessaria», se non dannosa, anche dal filosofo Norberto Bobbio che negli anni di piombo ingaggiò con Bentivegna una polemica serrata. Il partigiano «Paolo», questo il suo nome di battaglia, non ha cambiato opinione. Così sembra irrigidito su vecchi punti di vista rispetto al dialogo avviato proprio sul «Corriere della Sera» con il «ragazzo di Salò» Carlo Mazzantini dopo lo storico discorso pronunciato dal presidente della Camera Luciano Violante che invitava a «capire le ragioni dei vinti».
L'ortodossia, vorremmo dire una certa rigidità del punto di vista, non toglie tuttavia interesse all'autobiografia di Bentivegna. Nelle pagine iniziali, quando racconta la vita di un giovane borghese nella Roma fascista, nel racconto dell'avventura in Jugoslavia con la Brigata Garibaldi, quando dovette schivare le pallottole dei partigiani titini. O nella narrazione dell'impresa compiuta alla fine degli anni Sessanta alla guida di un motoscafo d'altura per mettere in salvo i dirigenti del Partito comunista greco, perseguitati dai colonnelli.

La Stampa Tuttolibri 24.9.11
Nei gulag di Stalin dove morì il sogno lituano
di Elena Loewenthal

Ruta Sepetys La scrittrice di origini baltiche rompe il silenzio sulle deportazioni del 1941
Ruta Sepetys AVEVANO SPENTO ANCHE LA LUNA ptrad. di Roberta Scarabelli Garzanti, pp. 300, 18

Giugno del 1941. Lituania. Una giovane donna e i suoi due figli, un bambino e una adolescente, vengono prelevati a forza da casa. Lina non ha neanche il tempo di cambiarsi, lascia casa per sempre con la camicia da notte. Insieme ad altri lituani, smarriti e spaventati, vengono caricati su un camion e portati lontano. Un lungo, lunghissimo viaggio in treno, assiepati in puzzolenti e bui vagoni merci, li porterà in un campo di lavoro.
Ma questa storia che Ruta Sepetys narra in Avevano spento anche la luna non è quello che ci si aspetta. O forse sì, perché le tragedie così si assomigliano tutte, i destini si sovrappongono, il dolore si accumula e tutto resta incomprensibile. Ci strappa un «perché?» indignato e rabbioso. Perché quella di Lina, di Jonas e della loro madre Elena, non è la storia di una famiglia ebraica in cammino verso la Shoah. È qualcosa d'altro, ma in fondo anche lo stesso. Qui, invece delle SS c'è la polizia sovietica, e gli ordini arrivano da Stalin. Il progetto è quello di azzerare ogni forma di dissidenza o anche solo di identità nazionale, nei paesi baltici. Lituania, Lettonia, Estonia. Piegare una resistenza anche solo virtuale, sgombrare il campo - in senso politico e materiale. Centinaia di migliaia di persone furono così prese, malmentate, deportate verso una lontananza inimmaginabile, torturate e uccise.
L'autrice è figlia di un ufficiale lituano. Non ha conosciuto direttamente questa storia, ma quasi. Ha, soprattutto, deciso di renderle onore, attraverso la memoria narrativa. Raccontando la storia di queste tre anime che il regime sovietico decide di far peregrinare per gli spazi sconfinati dell'Asia Centrale, impantanare per quasi un anno negli Altaj a tirare fuori barbabietole dalle gelida terra. E poi rimettere su un treno, settimane di viaggio ancora, verso la Siberia estrema, il circolo polare artico. Molta di questa gente tornò a casa, se tornò - e trovando degli sconosciuti a casa propria, in Lituania - solo a metà degli anni Cinquanta. Nel frattempo, cercò di costruire qualcosa fra i ghiacci, lassù.
Sepetys racconta questa storia con intensità, e anche le scene più crudeli e assurde risultano purtroppo credibili, in quello scenario. Tutto ruota intorno a Lina, la protagonista, quindicenne all' inizio del libro: figlia del rettore dell'Università - che sparisce e non tornerà più - è vissuta negli agi, finché da un giorno all'altro si ritrova catapultata in una realtà dove una buccia marcia di patata è un bene da tenersi caro. Anzi da divorare prima che qualcuno te lo strappi via di mano. Lina è un'artista, o meglio la aspetterebbe un futuro di artista: disegna in modo strepitoso e L'Urlo di Munch è il suo modello. Sui treni, nei campi di lavoro, nelle steppe siberiane ghiacciate dove non c'è nulla se non un'umanità abbandonata a se stessa, troverà ispirazione. Per intanto, racconta la tragedia attraverso brevi scene in sequenza incalzante: succede di tutto in quei luoghi.
Oltre a Lina e alla sua famiglia, c'è nel libro una galleria di personaggi accomunati dal destino eppure spesso distanti fra loro, quasi ostili. Il libro è pieno di piccoli e grandi eventi quotidiani, di imprevisti, tragedie, momenti toccanti. Tutto sembra quasi incredibile se non fosse che la storia è calco di una realtà, di vite veramente vissute così. Ruta Sepetys ha fatto ricerche, si è documentata, segue i suoi personaggi in un itinerario tanto assurdo quanto reale, dal Baltico fino all' estremo nord est, non lontano dal Polo. Con ciò, riesce a strappare da questa storia lo spesso velo d'invisibilità sotto il quale era rimasta nascosta, come capita a quei poveri prigionieri un giorno al porto, in Siberia, quando le guardie sovietiche li rinchiudono nella yurta per più di cinque ore, per tenerli nascosti alla nave americana attraccata per scaricare merci.

Corriere della Sera 24.9.11
Il lungo sogno dell'arte sovversiva
Caravaggio fu il primo pittore a stravolgere i modelli precostituiti
Nell'800 toccò agli Impressionisti e un secolo dopo alle avanguardie
di Francesca Bonazzoli

«Con la fede nello sviluppo in una nuova generazione di creatori e di fruitori noi convochiamo l'intera gioventù e in quanto giovani portatori del futuro intendiamo conquistare la libertà di vivere e di operare opponendoci ai vecchi poteri costituiti. È dei nostri chiunque sappia dare forma direttamente e senza falsificazioni a ciò che lo spinge a creare».
Il proclama della Brücke è uno dei tanti che nel Novecento ha trasformato la storia dell'arte, da cammino ordinato verso la progressiva conquista della mimesi a percorso accidentato, compiuto a balzi all'indietro per distruggere la strada percorsa.
Per secoli il sistema delle botteghe, presso cui gli artisti imparavano il mestiere fin da ragazzini cominciando a ricopiare i disegni degli allievi più grandi, aveva funzionato come anello fluido e ininterrotto di trasmissione del sapere. Gli allievi superavano il maestro per bravura, non per conflitto. Anche quelli più dotati, come per esempio Leonardo nella bottega del Verrocchio, non si distinguevano mai in opposizione al maestro ma piuttosto come il fiore all'occhiello, degno di collaborare alla pari come fecero i due nel «Battesimo di Cristo». Le rivalità fra gli artisti esistevano ma ognuno di loro aveva la certezza di partecipare alle «magnifiche sorti progressive della pittura», ovvero di riuscire a superare il grande modello della classicità.
Caso a parte fu Caravaggio, l'unico artista che lavorò «contro», poiché pretendeva di affermare la sua pittura dal vero, «dal naturale», contro l'artificiosità manierista basata sulla consueta ripetizione dei modelli passati. Sbeffeggiato dai principi dell'Accademia, portato addirittura in tribunale a difendere la sua onorabilità di pittore e censurato dagli altari delle chiese, la sua rivoluzione durò solo una trentina d'anni e poi fu schiacciata dalla «controriforma» barocca.
Bisogna aspettare l'Ottocento per ritrovare un'analoga rottura, quando gli Impressionisti, come Caravaggio, fanno della ribellione il manifesto della loro pittura e della distruzione delle convenzioni la loro forza. Dagli Impressionisti in poi, la storia dell'arte si trasforma in una continua rivendicazione di rottura delle regole che ostacolano la creatività bloccandola in modelli ripetitivi, accademici e percepiti come vecchi. Possiamo dire che, da allora, l'arte diventa una faccenda per giovani e una liberazione dai vincoli borghesi.
Pensiamo ai secessionisti di Vienna, ai futuristi, dadaisti, suprematisti, espressionisti, cubisti, surrealisti, con tutti i loro proclami sfacciatamente giovanilisti e provocatori, il rifiuto dello storicismo e il loro disprezzo per le regole perbeniste e le buone maniere sociali. Quello che vogliono è shoccare, ribaltare il tavolo, stupire, fare «arte col martello», attirare anatemi, fino all'estrema provocazione, quella di Piero Manzoni, che a ventott'anni mette la merda in scatola e la vende allo stesso peso dell'oro.
Con le avanguardie, termine derivato dal linguaggio militare e che entra in uso proprio nel Novecento, l'arte smette di marciare al passo con lo spirito del tempo per stravolgerlo e criticarlo dal di fuori. L'artista non vuole più servire ma sovvertire. La sua ribellione è anche sociale perché scardina modelli di vita ordinata, esalta la bohème, l'anarchia, abbatte i valori consolidati. Può presentarsi anche con caratteri messianici, di rigenerazione dell'intera società, come fecero i suprematisti e, ancora negli anni Settanta, figure carismatiche come Joseph Beuys. Si sente minoranza rispetto al pensiero dominante; un antagonista, non organico al potere. Non vuole più lavorare per l'oligarchia ma per un'élite che lo comprende.
È in questo contesto che nasce anche la critica, sostituendosi alla storiografia. Oggi, però, la spinta propulsiva delle avanguardie si è esaurita. Gli artisti fanno quello che vogliono dal momento che non ci sono rimaste più regole da abolire. E poiché la ribellione artistica non ha più ragion d'essere, si è spenta di conseguenza anche quella sociale. Le uniche a sopravvivere sono ancora le grida dei critici, ultima quella di Jean Clair nel phamplet «L'hivier de la culture» che denuncia la degenerazione dell'arte contemporanea. Ma c'è una grande differenza: le cannonate dei critici sparano a salve perché sono rivolte contro l'arte e non contro la società, come facevano gli artisti. Le loro polveri sono bagnate perché le rivoluzioni le hanno sempre fatte, le fanno e le faranno gli artisti. Nonostante i loro critici.


Corriere della Sera 24.9.11
L'amnistia di Togliatti
Perdonare per ricostruire
risponde Sergio Romano
qui

Repubblica 24.9.11
Hilary Putnam
"Filosofi, fate i conti con il senso comune"
Lo studioso e il dibattito sul ritorno al pensiero forte, al centro di un convegno
Intervista  di Mario De Caro

Siamo davvero nell´epoca del neo-realismo? Il dibattito sulla fine del postmoderno, lanciato su Repubblica da Maurizio Ferraris (e che si basa su tre punti chiave: l´indipendenza del reale rispetto alla conoscenza che ne abbiamo, l´essenziale istanza critica e la fiducia negli ideali illuministici), ha coinvolto molte voci, tanto che il 7 novembre a New York ci sarà un convegno sul tema a cui parteciperanno, tra gli altri lo stesso Ferraris, Umberto Eco, Riccardo Viale e Armando Massarenti. L´introduzione sarà fatta, insieme al sottoscritto, da Hilary Putnam, professore emerito a Harvard, uno dei più influenti filosofi contemporanei. A Stoccolma, tra un mese, gli verrà consegnato il Rolf Schock Prize, l´equivalente del Nobel per la filosofia e la logica. E il tratto unificante della sua riflessione filosofica, degli ultimi 50 anni, è proprio il tema del realismo. Per questo abbiamo chiesto proprio a lui che cosa significa "essere realisti" e come è cambiato nel tempo questo concetto, anche in relazione al postmoderno.
Come ha sviluppato questo tema nel corso degli anni?
«Sono alla ricerca della miglior forma di realismo filosofico sin dal 1957, quando iniziai a dissentire con il positivismo logico di Rudolf Carnap (un filosofo che ammiravo moltissimo). Scrissi allora un saggio in cui sostenevo che termini teorici della scienza come "energia" non servono solo a facilitare le predizioni, ma si riferiscono a fenomeni reali e generalmente vengono preservati anche quando le teorie scientifiche cambiano. Su questa base sviluppai poi una concezione, il "Realismo metafisico", secondo la quale la realtà è descrivibile in un unico modo, un modo che fissa definitivamente la nostra ontologia. Da metà degli anni Settanta al 1990 difesi invece il "Realismo interno", una concezione vagamente kantiana secondo la quale la verità coincide con ciò che è conoscibile in "condizioni epistemiche ideali". Oggi trovo entrambe queste concezioni inaccettabili: la prima perché presuppone una struttura della realtà eterna e immodificabile, che richiede un unico vocabolario per essere descritta e determina un´unica ontologia; la seconda perché subordina la realtà alla sua conoscibilità da parte degli esseri umani».
Il "Realismo del senso comune" che lei difende oggi è immune da queste due obiezioni?
«Sì, perché da una parte ritengo che l´ontologia sia indipendente dalla possibilità di conoscerla e dall´altra penso che ci siano molte descrizioni corrette della realtà. Per esempio, in contesti differenti una sedia può essere correttamente e utilmente descritta nel linguaggio della fisica, in quello della falegnameria o in quello del design. Nessuna di queste descrizioni ha priorità assoluta sulle altre e nessuna può essere sostituita dalle altre nel proprio contesto, senza che vada persa l´utilità esplicativa».
In che senso questa concezione è diversa da quella dei relativisti come Richard Rorty?
«Nella filosofia di Rorty non c´è posto per nozioni come realismo e oggettività. E lo stesso concetto di "razionalità" è a suo giudizio irrimediabilmente etnocentrico. Anche se Rorty era un mio caro amico, il nostro dissenso su questo tema era totale. E dissentivamo anche sul senso stesso dell´indagine filosofica. L´idea della "fine della filosofia" (difesa da molti heideggeriani e wittgensteiniani, da Derrida e da Rorty) è secondo me totalmente errata. D´altra parte, come scrisse una volta Etienne Gilson, "la filosofia seppellisce sempre i suoi becchini". La filosofia, la buona filosofia, può svolgere una fondamentale funzione "illuministica"; e diverse forme di filosofia possono svolgere questo ruolo in maniere differenti. Con le loro argomentazioni rigorose, i filosofi analitici possono aiutarci ad evitare varie forme di irrazionalità; ma anche le riflessioni sulle modalità della nostra esistenza e su come dovremmo vivere (le riflessioni che si trovano per esempio in Kierkegaard, Thoreau, Emerson, Marx e Sartre) sono una componente essenziale della filosofia. In entrambi i casi la filosofia può svolgere un´importante funzione critica e contribuire così alla nostra emancipazione».
Lei ha sempre difeso l´idea che le nostre migliori teorie scientifiche non sono solo un utile strumento per fare predizioni, come pensano i convenzionalisti e gli strumentalisti, ma ci dicono veramente com´è fatto il mondo.
«Ho sempre creduto che la scienza possa descrivere correttamente il mondo naturale, anche nelle sue componenti non osservabili. Abbiamo ottime ragioni, ad esempio, per pensare che gli elettroni non siano solo costrutti teorici ma che esistano veramente anche se non sono osservabili».
Un cavallo di battaglia dei postmoderni sono i fatti sociali, ovvero i fatti la cui esistenza dipende senza dubbio dalle nostre pratiche. Gli antirealisti sostengono che i fatti sociali, essendo meri costrutti o convenzioni, non hanno alcuna realtà indipendente e per questo non possono essere valutati oggettivamente. Cosa pensa di questo ragionamento?
«Usiamo un esempio. La storia della sessualità è un campo di studi iniziato da Foucault, a cui Arnold Davidson ha dato contributi fondamentali studiando gli "stili di ragionamento". In particolare, nel trattare il tema dell´omosessualità, Davidson ha mostrato come agli inizi essa fosse trattata come una "perversione", come un "peccato", senza che se ne desse alcuna interpretazione medica. Più tardi si tentò di spiegare questa presunta perversione ipotizzando anomalie genitali. Ma quando si scoprì che i dati anatomici non confermavano questa tesi, i medici postularono deformazioni anatomiche nel cervello. In seguito, verso la fine dell´Ottocento, queste spiegazioni furono prima integrate e poi sostituite da teorie che trattavano l´omosessualità come un sintomo nevrotico: e ciò diede origine a nuovi usi del concetto di omosessualità. Oggi, infine, non si parla più di malattia ma di un fenomeno psicologico. Prima dell´epoca psichiatrica si parlava di "peccati" (come la sodomia); oggi invece una frase come "un omosessuale può non compiere mai atti omosessuali" è diventata intelligibile. E nessuna persona mentalmente aperta direbbe più che l´omosessualità è una malattia o il sintomo di una malattia!».
In Italia la cosa non è così pacifica, purtroppo! Comunque, un postmoderno risponderebbe che questi dati confermano la sua posizione.
«È vero che per Davidson molti "fatti" relativi alla natura umana sono costruzioni sociali. Ma nei suoi studi non c´è assolutamente nulla che impedisca di ricostruire queste vicende in una prospettiva realistica. Ciò che se ne desume è che studiando i fenomeni sessuali abbiamo progressivamente superato vari errori (anche di carattere morale, come le persecuzioni contro gli omosessuali), giungendo gradualmente a una comprensione più precisa e corretta di quei fenomeni. E questo modo di porre le cose, che a me pare convincente, è perfettamente in linea con il realismo filosofico».

Repubblica 24.9.11
Il boom dei single, in Italia sono ormai sette milioni
Il Censis: dai giovani agli anziani, in dieci anni i nuclei con una sola persona sono cresciuti del 40%
Nella fascia di età tra i 15 e i 45 anni la crescita è stata addirittura del 66% De Rita: "È una nuova forma di fragilità sociale"
di Caterina Pasolini

ROMA - Soli ma socievoli, senza famiglia o coinquilini per scelta, e non solo per età o destino. Eccoli, sono i single italiani del nuovo millennio: 7 milioni di persone che abitano case e monolocali senza compagni, mogli o figli a riempire serate e silenzi, a creare confusione, scatenare litigi o risolvere assieme problemi. Sempre di più, sempre più spesso gli italiani si ritrovano a non condividere la vita quotidiana e in dieci anni è stato un vero e proprio boom: le famiglie composte da una sola persona sono infatti cresciute del 39%.
Lo dicono le cifre, elaborate dal Censis su dati Istat, che fotografano un paese dove si convive sempre meno e avere figli tra crisi e lavoro precario è un´impresa. Così se i single crescono del 39% e le coppie aumentano solo del 20%, molte culle restano vuote. Tanto che le famiglie con figli calano complessivamente del 7 per cento. Pochi i nuovi genitori (un misero più 2 %) mentre i nuclei con cinque e più persone (tre bambini o i nonni a carico) crollano del 18%.
Ma chi sono i nuovi unici padroni di casa che, stando ai dati della Confesercenti, si ritrovano a spendere per acquisti alimentari 71% in più rispetto a chi vive in coppia, ovvero 320 euro contro 187? Vedove, anziani, si sarebbe detto fino a poco tempo fa, ma ora le cose sono cambiate: «Vivere da soli è una condizione di vita che ormai coinvolge tutte le fasce di età», conferma Giuseppe de Rita, presidente del Censis.
In effetti, se è vero che dei sette milioni meno della metà sono pensionati, dall´altro lato si moltiplica in maniera esponenziale il numero delle persone che vive sola da quando è giovane. Tra i 15 e i 45 anni è infatti cresciuto rispetto al duemila del 66% (pari a 790mila unità) il numero di chi non condivide quotidianamente tavola e letto. Tra gli over 45 ma non ancora in pensione, negli ultimi dieci anni è più 59,9% (pari a 628mila) di non conviventi mentre tra gli anziani c´è un aumento del 19% (540mila persone).
Sono più giovani del previsto i single del nuovo millennio, e hanno le idee chiare su cosa faranno nei prossimi dieci anni. Quali luoghi e persone frequenteranno. Il 60% si vede con amici e parenti, il 29% va a cinema teatro, concerti e musei. Il 21% è decisamente attratto dai centro commerciali mentre il 17 vorrebbe partecipare a manifestazioni di piazza. L´11% pensa di coccolarsi in centri benessere, studi estetici e palestre. Chi può, un dieci per cento, punta a riposarsi nella seconda casa mentre i più giovani (4%) amano andare in discoteca.
L´esercito fotografato dal Censis, rappresenta il 13,6% della popolazione italiana dai 15 anni in su. Nel complesso sono più le donne degli uomini a vivere da sole (il 15,5% a fronte dell´11,6%). Ma se si guarda alle fasce di età, la fotografia del paese racconta storie di uomini solitari e padri separati con i figli affidati alle compagne, visto che tra i 15 e i 64 anni sono soprattutto i maschi a vivere non in coppia o in famiglia. Tra gli anziani le donne padrone di casa assolute sono invece molte di più (38% contro il 15%) a testimoniare la longevità femminile.
«Vivere da soli - dice Giuseppe De Rita - non vuol dire essere una monade, ma rappresenta comunque una fragilità sociale, visto che in genere, in caso di bisogno, ci si rivolge al coniuge o al convivente. Per questo il nuovo welfare deve moltiplicare al suo interno le relazioni, soprattutto quelle che nascono dal volontariato e dall´associazionismo, che costituiscono forze di coesione cruciali».

Repubblica 24.9.11
Troy Davis
Una morte sbagliata
di Alexander Stille

Che vergogna e che tragedia la morte di Troy Davis. Come si fa a mandare a morte una persona sulla cui colpevolezza esistono dei dubbi molto seri? Eppure la Corte Suprema americana ha deciso di negare ogni ulteriore appello dopo la sentenza dello Stato della Georgia, uno Stato dove il razzismo non è un fenomeno sconosciuto. Sette dei nuovi testimoni che hanno deposto al processo di 22 anni fa hanno ammesso di aver reso falsa testimonianza, sei di loro hanno dichiarato che la polizia li ha messi sotto torchio affinché identificassero Davis. Non c´erano prove materiali per mettere in relazione Davis con il delitto e uno dei testimoni che lo ha inchiodato ha poi confessato di aver commesso il reato.
Eppure la Corte Suprema ha negato ogni appello. E pensare che uno dei no è stato proprio di Clarence Thomas, un uomo di colore della Georgia, uno che potrebbe essere lui stesso un Troy Davis - un nero che muore perché si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato - ma che dedica la sua carriera da giurista a dimostrare in un modo contorto, degno di una tragedia di Shakespeare, che la razza non esiste. Alcuni anni fa, il governatore dell´Illinois, tra l´altro un repubblicano (di quelli moderati, una specie in via d´estinzione), ha deciso di sospendere la pena di morte nel suo Stato perché il sistema era talmente inquinato dal razzismo, talmente arbitrario nella sua esecuzione che era impossibile definirla giustizia.
Tutti gli studi sulla pena di morte negli Usa dimostrano che gli imputati neri, a parità di reati commessi, vengono condannati alla pena di morte con maggiore frequenza rispetto ai bianchi. Quando la vittima del reato è bianca e l´imputato è nero le probabilità che l´imputato venga condannato alla pena capitale salgono alle stelle. La mappa della pena di morte assomiglia stranamente a una mappa della vecchia confederazione schiavista. Molte condanne si fondano su testimonianze oculari che sono (contrariamente a quello che si potrebbe pensare) le meno affidabili. Spesso smentite da prove del Dna, inconfutabili. E molti studi scientifici hanno dimostrato la prevedibilità degli errori giudiziari indotti dalle testimonianze oculari. Quando il poliziotto conosce l´identità della persona sospettata quando conduce il line-up dei soliti ignoti oppure mostra foto di possibili colpevoli, consciamente o inconsciamente indirizza il testimone verso la persona "giusta". A volte il poliziotto sbaglia in buona fede, altre volte un po´ meno. Nel caso di Clarence Brandley, un nero condannato per la morte di una ragazza bianca il poliziotto che lo ha arrestato nel Texas gli ha detto: «Uno di voi morirà per questo e, dato che tu sei il negro, scelgo te». Dopo dieci in carcere, Brandley è stato totalmente scagionato. Il governatore del Texas Rick Perry, candidato repubblicano per la presidenza, ha mandato a morte più persone di qualunque altro, 234 per l´esattezza. Quando gli è stato chiesto, durante un dibattito, se abbia mai avuto dei dubbi o se abbia perso almeno una notte di sonno pensando alla possibilità di aver mandato a morte un innocente, Perry ha risposto di no e il pubblico ha applaudito. Un suo elettore ha scritto al New York Times: «Ci vuole comunque un bel po´ di fegato per condannare un uomo innocente». Come se fosse una virtù. Eppure, durante i dieci anni di Perry alla guida del Texas, quarantuno persone condannate a morte sono state poi scagionate da prove del Dna e in 35 di questi casi - ben l´85 per cento - si è scoperto che i testimoni oculari si erano sbagliati. Eppure la Corte Suprema non ha voluto riconsiderare il caso di Troy Davis e concedere l´appello. Che vergogna.

Repubblica 24.9.11
L'America sovietica
Quell´estetica socialista celebrata negli Stati Uniti
A New York la mostra sull´arte dell´ex Urss
di Leonetta Bentivoglio

Troneggiano, nelle bacheche degli spazi espositivi, arnesi obsoleti della vita quotidiana, tipo una vecchia antenna televisiva a forma di doppio rombo: un residuato aguzzo che Vladimir Arkhipov trasforma in opera pop. Appartamenti asfittici, ripresi in video o immortalati da lavori fotografici, segnalano dimensioni di estrema marginalità, come nel caso delle immagini ambientalmente squallide, e ciò nonostante vitali, realizzate dal rumeno Ion Grigorescu, dove uomini nudi ballano tra pile caotiche di libri, sfidando la claustrofobia delle loro abitazioni con gesti sfrenati. Un altro aspetto è il senso di un maniacale isolamento: emerge, per esempio, nell´opera di Viktor Pivovarov, con la sua mappa solipsistica del regime giornaliero di un uomo. Un desolato cronometro, suddiviso in 24 fasce orarie, è architettato in modo che a ogni ora corrispondano compiti e ruoli imposti dai doveri sociali.
Percezioni di memorie profonde, senza riscatti né indulgenze, affiorano dalle foto in bianco e nero di Nikolay Bakharev: un´adolescente troppo magra, abbattuta e inerme, spicca distesa sull´erba con un bikini leopardato; e sono carnalissimi i quadri fotografici anni Settanta di vasti gruppi di famiglia all´aria aperta, ritratti da Bakharev in raduni estivi o in pic-nic. Tutti indossano ruvidi costumi da bagno, e pargoli mocciolosi si appendono ai corpi flosci di donne che testimoniano destini stanchi, logorati dal lavoro e dalle maternità. Comunicano struggimenti e acute mancanze anche le immagini di Helga Paris, bravissima fotografa dell´ex Germania est, che schiaccia in impietosi primi piani iperrealisti i volti di operaie delle fabbriche tedesche: occhiaie fosche, grembiuli sformati, sguardi obliqui che fuggono altrove.
Sono alcune delle cadenze del viaggio tra i luoghi e gli oggetti del tramontato comunismo che compie Ostalgia, mostra ospitata (prorogata con successo fino al 2 ottobre) dal New Museum, il cui edificio è un mastodontico blocco ferrigno che si erge come un monolite incongruo tra i colori pittoreschi della Bowery di New York. Vi sono esposte le opere di una cinquantina di artisti di diverse generazioni, operativi lungo un periodo che dagli anni precedenti alla caduta del Muro arriva fino a oggi. Provenienti da vari paesi, e in particolare da Germania, Russia, Polonia, Romania ed ex Jugoslavia, sono identità condizionate dall´esilio e dalla perdita, e legate da una rete di emblemi e ricordi che li uniscono e li tormentano, in un intreccio di rapporti psicologici e simbolici che supera le differenze culturali e le contingenze territoriali.
Il titolo dell´esibizione (il cui epicentro temporale è il passaggio sconvolgente durante il quale si sono verificati il dissolversi dell´Unione Sovietica, la fine del Patto di Varsavia e il primo governo della Germania unita), coincide con un neologismo tedesco che amalgama le parole "Ost" (cioè Est) e "Nostalgie". Il termine prese a circolare in Germania negli anni Novanta, dov´era usato per descrivere il rimpianto dei trascorsi socialisti. D´altronde, come nota a più riprese nel suo bel testo di presentazione della mostra Massimiliano Gioni, un cambio di marcia di proporzioni tanto gigantesche non poteva essere assorbito all´improvviso: l´interiorità delle persone si muove con molta più lentezza della Storia.
Scandita per un verso da narrazioni originali, e per un altro dalla ricostruzione (psicologica, sociale, culturale) del passato prossimo, Ostalgia incorona, come cuore del discorso, l´estetica e gli assiomi del socialismo sovietico, con i vari annessi consapevoli o inconsci. Molte delle opere mirano all´enfasi di personaggi eroici, come Once in the XX Century, dove Deimantas Narkevicius filma la resurrezione di un monumento a Lenin, reinstallato su un piedistallo con strombazzanti fanfare. È ossessiva la presenza delle parole e del linguaggio, sia come attaccamento alla burocratizzazione tipica degli Stati socialisti, sia come uso martellante di slogan politici, sia come culto di una letteratura e di un giornalismo sotterranei, distribuiti clandestinamente. C´è qualcosa di commovente nella volontà passatista di Andrei Monastyrski di disseminare di strani e verbosi striscioni le distese innevate del paesaggio russo. È la voglia di invadere gli spazi di ricordi.
Un´altra peculiarità della mostra newyorkese è l´abbondanza di documentari e video, che ci dicono il peso della funzione avuta dalla tivù nel diffondere il verbo ideologico dei regimi dettati dal totalitarismo sovietico, come nei film di certe interminabili sessioni dei congressi comunisti, dove l´incontinenza delle arringhe sconfina nel comico. E nel suo diario Lithuania and the Collapse of the Urss, Jonas Mekas, un espatriato che vive a New York, monta un collage di programmi televisivi americani votati a ciò che accadde in Lituania nel ´91, quando il paese cominciò a staccarsi dall´Unione Sovietica.
L´aspetto più pervasivo della mostra è il senso di vissuto, consunto e dismesso di visioni e cose che compongono l´atlante mnemonico di Ostalgia. Al confronto delle prospettive "ostalgiche", l´Occidente è saturo, lustro, acido e volgare: un mondo dove tutto – arredi, corpi, vestiti, pubblicità, automobili, panoramiche urbane – si espone come patinato, impudente, artefatto ed eccessivo. Invece i fisici "ostalgici" non sono mai palestrati. Le facce non sono liftate. Gli abiti non sono alla moda. Le pettinature sono casuali o selvagge. E in questo slittare all´indietro dei simulacri consumistici, sbalza in superficie una specie di romantica innocenza. Il sentire "ostalgico" è tenue e discreto, oltre che permeato dalla lotta all´oblio: un tema, non a caso, caro ai due più importanti scrittori sovietici della seconda metà del Novecento, i Nobel Joseph Brodsky e Aleksandr Solzhenitsyn.
Quando l´impero s´incanala in mille rivoli rompendosi in tanti staterelli, come riferisce l´impressionante esplorazione compiuta dal libro di Ryszard Kapuscinski Imperium (Feltrinelli), esplodono contaminazioni culturali e linguistiche che riportano il mondo alla violenza del crollo della Torre di Babele. Si reagisce al trauma attaccandosi al passato, soprattutto nell´ex Germania est, dove la malinconia attanaglia chi si culla nel ricordo dei vantaggi del vecchio sistema – sanità e istruzione pubbliche, sicurezza sociale, basso costo della vita – dimenticando tutto il resto. E mentre si assiste a un revival di vecchie marche della Ddr, Berlino continua a nutrirsi di riflussi: lungo i marciapiedi dell´Unter den Linden, così come sulle bancarelle dei mercati domenicali, si vendono medaglie, bandiere, divise e onorificenze del periodo socialista. Un fantasticare che fu ben tradotto, qualche anno fa, da un film di successo, Good Bye, Lenin!, di Wolfgang Becker, esplicitamente pieno di Ostalgia. Fenomeno che è la vendetta dell´umano contro l´accelerazione imposta dai rivolgimenti esterni: i miti, per venire sradicati, hanno bisogno di un tempo assai più lungo di quello in cui ci catapultano gli eventi.

Repubblica 24.9.11
Stanno per essere pubblicate le lettere dal fronte dello scrittore
"Italiani coraggiosi" parola di Hemingway
di Gabriele Pantucci

«Gli italiani hanno mostrato al mondo quello che sanno fare. Le loro sono le truppe più coraggiose di tutti gli eserciti alleati», scrive Ernest Hemingway il primo novembre 1918 e più avanti, nella stessa lettera alla famiglia, aggiunge che l´Italia ha sempre combattuto e «merita tutto il credito del mondo».
Lo ribadisce dieci giorni dopo quando, in una lettera ai genitori, racconta del suo amore per l´esercito italiano. Queste sono tra le ultime della quarantina di lettere e cartoline che lo scrittore inviò dall´Italia nel corso di un soggiorno di poco più di sette mesi. Da giugno quando arrivo´ dalla Francia, volontario della Croce Rossa (l´Esercito l´aveva scartato per un lieve difetto alla vista) le sue corrispondenze abbondano di riflessioni positive sul nostro paese che visita per la prima volta a 19 anni.
Non ci troverete una sola critica al nostro paese. Ci sono le note scherzose nelle cartoline ai colleghi del Kansas City Star (dove ha lavorato negli ultimi sei mesi come novizio giornalista) in cui esalta l´imponenza delle Alpi su cui sta "guidando in FIAT". Queste note, curiose e appassionate, si scoprono soltanto ora nel primo volume della sua corrispondenza che Cambridge University Press pubblicherà il mese prossimo.
Leggiamo di Milano: città prospera e deliziosa «la più moderna e vibrante d´Europa», con la descrizione dello splendido Duomo «con le colonne che finiscono in cielo». Sentiamo l´entusiasmo quando annuncia al padre, il 9 giugno, «domani andrò al fronte».
La descrizione della trincea sul Piave a 40 metri dagli austriaci: le esplosioni, gli orrori della guerra: e già emerge quello stile così "economico", ridotto all´osso, efficace e ricco d´attenuazioni ironiche che avrebbe poi contribuito a rivoluzionare la prosa americana. Le battute spiritose e l´ebbrezza della grande avventura sono interrotte dalla lunga e pacata missiva che l´amico Theodore Brumbach indirizza a Clarence, il padre di Ernest. Il racconto è drammatico. Suo figlio è stato ferito al ginocchio e in un piede ha più di 200 schegge; un soldato accanto a lui è morto sul colpo, un altro ha perduto entrambe le gambe. Ernest, prima di crollare a terra è riuscito – già ferito – a trascinare al sicuro un altro soldato. Per questo è stato proposto per la medaglia d´argento al valor militare. In calce alla lettera dell´amico, Ernest ha aggiunto due righe per rassicurare che è vivo.
Le lettere riprendono dall´ospedale americano di Milano. Brillanti, rapide, ma sempre ricche di battute di spirito. Sono quattro feriti in ospedale, curati da 18 infermiere. Parla italiano tutto il giorno e aggiunge che scrive anche in italiano. Scrive alla sorella maggiore, Marceline, l´8 agosto: «Caro mio, perché non scrivere? Multo giorno niente epistola!», per lamentare che non riceve lettere e incoraggiarla ad imparare l´italiano, che lui invece parla correntemente e forse sa scrivere, come si evince dal testo riportato sopra, un po´ meno correttamente. Infatti, quello che diventerà uno degli scrittori più celebrati, aggiunge che i suoi discorsi potranno essere scarsi in grammatica ma sono abbondanti per conoscenza del vocabolario.
Il primo volume delle sue lettere arriva fino al 1922 e ne contiene 263. Nell´edizione critica diretta dalla Professoressa Sandra Spanier ne seguiranno altri 15 nel giro di vent´anni, per accomodare seimila lettere.