martedì 27 settembre 2011

l’Unità 27.9.11
La nostra vera sfida
di Alfredo Reichlin


Non possiamo essere spettatori passivi di questo fosco tramonto del governo Berlusconi. Giorno dopo giorno si stanno bruciando i raccolti e avvelenando i pozzi di questa povera Italia. Ma non è vero che non c’è niente da fare. Mi chiedo: è davvero chiaro ciò che sta accadendo? A me non pare.
Mi colpisce la pochezza delle idee e la mancanza di nuovi orizzonti. La devono smettere di parlare di economia come si parla di un evento naturale. L’economia è un rapporto tra uomini, non tra cose.
Si sono rotti gli equilibri e le strutture del mondo nelle quali vivevamo da secoli. Il tema è questo, non è solo economico. È la ricchezza dell’Europa che si sta spostando altrove. È la sovranità degli Stati e del cittadino, sono i diritti del lavoro umano, è quella cosa grandissima che l’Europa inventò secoli fa e che si chiama democrazia: è tutto questo che viene rimesso in discussione. È molto chiaro ed è molto semplice. Basta guardare la distruzione in atto del popolo greco per evitare troppe perdite alle banche tedesche e francesi. E ciò mentre i capi di Stato europei si interrogano, impotenti, ogni mattina su cosa farà la Borsa. Mai era stata così vera la vecchia battuta secondo cui i mercati finanziari governano e prendono le grandi decisioni, i tecnici e i corpi separati (magistratura compresa) amministrano e i politici vanno in televisione per rispondere alle domande dei giornalisti.
La verità è che il declino dell’egemonia americana e il modo in cui l’oligarchia finanziaria ha condizionato e continua a condizionare il processo della mondializzazione hanno scatenato una guerra monetaria che sta aggravando tutti gli squilibri geopolitici e lacerando antichi tessuti sociali. E, come tutte le guerre, anche questa sta provocando morti e feriti: la Grecia oggi, domani forse noi.
Se le cose stanno così, cacciare Berlusconi è davvero vitale ma mi chiedo se stiamo misurando tutto lo scarto tra la realtà e il dibattito italiano. Bersani ha cercato di dirlo nel suo discorso di Pesaro e ha chiesto al suo partito uno scatto, un salto per ridefinirsi come una forza che è nuova in quanto, a fronte di una crisi che mette in gioco la nazione, si pone come il partito della patria, la forza che si fa garante dell’unità nazionale, e non a parole ma in quanto da voce alle forze profonde e vitali, all’intelligenza umiliata, al lavoro sfruttato e reso precario, all’impresa produttiva. Soprattutto alle nuove generazioni. Si è fatto il silenzio. Anzi, in polemica con Bersani si è scoperto che Renzi è niente meno che più giovane (caspita!) ma soprattutto che il “grande dilemma” della sinistra italiana è: Vendola o Casini. Insomma, il vecchio caro, indimenticabile dibattito se il centro-sinistra debba avere o no il trattino. Che palle.
Intendiamoci bene. Anch’io vedo (per le cose stesse che sto dicendo) tutto il vecchiume di una certa sinistra italiana. Il problema italiano ed europeo di oggi non sta più nelle vecchie “narrazioni”. Ma per le stesse ragioni non credo che esista il “centro” come lo spazio politico autonomo dove una grande forza si colloca per mediare. Mediare tra quali cose? Il punto è questo. Ovviamente, so anch’io che la politica è anche mediazione e anch’io penso che le risposte da dare oggi possano essere anche moderate, tali cioè da raccogliere il più vasto campo di forze. Ma il fatto è che i problemi da affrontare, quelli sì, sono molto radicali. Riguardano il modo di essere della società italiana, i suoi compromessi sociali, l’interrogativo se e fino a che punto resteremo padroni del nostro Stato rispetto a non si sa quale nuovo super-potere mondiale oggi ancora senza nome. Siamo, quindi, molto lontani dai comizi di Di Pietro ma anche da ogni illusione secondo cui i problemi che ci sfidano possano ridursi al dilemma: Casini o Vendola? Il nostro problema è certamente quello di spingere il Pd a stare in Europa per occupare il centro. Parlo del centro dello scontro tra le forze reali che oggi rappresentano il progresso oppure la reazione. Ma sia le une che le altre forze non corrispondono più alle vecchie nomenclature. Chi è a destra e chi è a sinistra? E chi è Berlusconi? È un regime autoritario, caduto il quale arrivano i partigiani e c’è la democrazia? Oppure è il simbolo di una cosa più profonda: la sconfitta, non solo della sinistra, ma della democrazia e non solo in Italia? E a cui corrisponde la vittoria di chi sottomette tutto al potere dei soldi e trasforma la società in società di mercato?
Dopo Berlusconi non ci sarà un vuoto da riempire con i buoni sentimenti: continuerà ad esserci il volto sfigurato dell’Italia con cui fare i conti. E mi chiedo se non stia già cominciando a prendere forma un nuovo blocco politico e culturale di destra la cui forza sta proprio nell’accettare il declino dell’Italia, nel farsi ricco in una società che diventa sempre più “castale” ed egoista, che non ha bisogno dello Stato ed è indifferente al mondo.
Di che combinazioni politiche per il “dopo Berlusconi” stiamo parlando se non diamo battaglia su questo terreno “reale”? Che poi (dopotutto non sono pessimista) è lo stesso terreno dove vivono e crescono anche gli antagonisti, cioè i movimenti sociali, le domande di valori, il bisogno di futuro. La politica è morta se non riparte dal futuro. È per questo che bisogna pensare con serietà e calma a un cambio di generazione.

l’Unità 27.9.11
Il presidente della Feps: «L’Internazionale socialista riflette un mondo che non c'è più»
«Le forze di centrosinistra devono ristabilire il primato della politica. Al centro l’eguaglianza»
D’Alema:
«In Europa nuova stagione progressista»
«Sono venute meno le premesse del modello socialdemocratico», ha detto D’Alema facendo riferimento al superamento dei paradigmi del lavoro fordista, dello Stato nazione. «Ma il movimento socialista c’è».
di Simone Collini


Dire che la crisi è figlia del modello neoliberista non basta. L’«urgente» spinta al cambiamento non verrebbe soddisfatta se ci si limitasse a denunciare i guasti provocati in questi anni dalla convinzione che la globalizzazione si potesse cavalcare, che la disuguaglianza potesse essere motore di sviluppo, che il primato spettasse all’economia con la politica relegata al ruolo di ancella. «Una nuova stagione progressista» può aprirsi, ma solo se le forze socialiste sapranno fare i conti con il loro passato, riusciranno a dotarsi di una nuova identità e saranno in grado di formulare nuove strategie per affrontare le sfide di questa epoca. L’argomento viene affrontato da Massimo D’Alema e Pierluigi Castagnetti in un convegno promosso dall’associazione di Cesare Damiano «Lavoro & Welfare».
Per oltre due ore si vola alto, lasciando fuori dalla porta le beghe del governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti, con D’Alema che prima di prendere la parola in un’affollata sala delle conferenze al terzo piano della sede del Pd si limita a dire che la proposta del suo partito rimane «una larga alleanza tra moderati e progressisti per risanare il Paese» («Bersani è il nostro candidato») e che la «premessa» perché si vada a un governo di responsabilità nazionale è che Berlusconi vada via («questa è la vera emergenza»). Per il resto, il presidente del Copasir si attiene al tema «Socialdemocrazia, eclisse o rilancio» – notando che le recenti elezioni in Danimarca e i sondaggi che circolano sia in Germania che in Francia fanno ben sperare su un mutare del vento ma che le forze socialiste europee per essere all’altezza della situazione devono compiere una «svolta radicale», fare una «scelta coraggiosa» ed uscire dalle «barriere ideologiche» per diventare protagonisti del nuovo movimento progressista globale.
«Sono venute meno le premesse del modello socialdemocratico», dice D’Alema facendo riferimento al superamento dei paradigmi del lavoro fordista, dello Stato nazione e anche di una visione antropologica animata da una fiducia nel progresso. E tuttavia il «movimento socialista» c’è. E anzi si presenta come «la forza senza la quale non è possibile una nuova stagione progressista». Ma proprio per questo, e proprio perché «in questo momento c’è urgenza di un cambiamento», per il presidente della Feps (la Fondazione europea per la politica progressista) «emerge la necessità di una riflessione critica sul passato per non commettere di nuovo gli stessi errori».
Quelli della Terza via blairiana, che si è mostrata subalterna al pensiero neoliberista, e quelli del «socialismo ortodosso» del Ps francese, una parte del quale al referendum sull’Europa ha votato contro. Le forze socialiste dovranno ristabilire il primato della politica e mettere al centro il tema dell’eguaglianza. Ma dovranno anche capire che l’europeismo dovrà essere «un pilastro» e che serviranno nuove strategie per ridurre le disuguaglianze in un’epoca in cui diminuiranno le risorse pubbliche. La sfida sarà ardua, e per D’Alema le forze socialiste potranno riuscire solo se prenderanno atto di un «limite» non da poco in tempi di globalizzazione: non aver mai varcato i confini europei. Ecco perché per il presidente della Feps «ha perso significato» un contenitore come l'Internazionale socialista, che «riflette un mondo che non c'è più» visto che l'Europa «ormai rappresenta solo una piccola porzione della politica e dell'economia». L’invito, facendo riferimento anche ai governi progressisti ma non socialisti di India, Sud America e Sud Africa, è a prendere atto che «si è conclusa una storia e bisogna costruire su basi nuove un profilo progressista su scala globale, nel quale i socialisti sono solo una parte di un movimento più ampio».

Repubblica 27.9.11
"Il socialismo europeo è storia passata"
D´Alema apre ai movimenti progressisti: "Non è più tempo di Internazionale"


ROMA - «Una nuova stagione progressista è possibile», ma il socialismo europeo deve «prendere atto che si è conclusa una storia». Massimo D´Alema parla a un seminario del Partito democratico sulla socialdemocrazia. E mette una pietra sopra alla storia. «Una nuova stagione progressista non sarà più secondo i modelli classici anche se i socialisti ne saranno protagonisti - ha spiegato D´Alema -. Muoverà sulle basi di una coalizione progressista, con un progressismo plurale basato su nuovi principi, avrà l´europeismo come pilastro ma soprattutto dovrà avere consapevolezza dei limiti del passato».
Su questo crinale si sta muovendo ormai da mesi D´Alema che è anche presidente della Fondazione dei progressisti europei (Feps). L´ex premier ha invitato tutti a riflettere sul fatto che nel mondo «le grandi forze progressiste al governo non hanno matrice socialista». Per questo D´Alema chiede che «i socialisti europei vadano oltre i confini della loro esperienza storica e geografica». Perchè «l´Internazionale socialista riflette un mondo che non c´è più». Bisogna cioè prendere atto che si è conclusa una storia, costruire su basi nuove il profilo del socialismo europeo secondo basi di un movimento più ampio che non può non definirsi progressista. «Prendere atto di tutto ciò con una svolta radicale sarebbe una scelta storica».
È l´ulteriore evoluzione di un pensiero già espresso in passato. A un altro seminario organizzato in gennaio dai gruppi parlamentari D´Alema aveva sottolineato che la sfida per i socialisti «è allargare i confini» legati alla vicenda europea. L´Internazionale socialista, diceva allora, è «figlia del secolo scorso». Il modello immaginato per l´Europa e per il mondo è in fondo lo stesso che D´Alema auspica per l´Italia. Il compito dei socialisti è lavorare per costruire una «coalizione ampia» di forze di sinistra, ambientaliste, democratiche e di centro in grado di rappresentare «un´alternativa robusta» alle destre e al populismo, era il messaggio di gennaio. E in Italia serve la medesima ricetta. «Lavorare a un´alleanza tra progressisti e moderati». Guidata da chi? «Bersani - ribadisce il presidente del Copasir - è il nostro candidato premier».

La Stampa 27.9.11
Governo, la svolta della Cei
Il premier e la Chiesa, amici per forza
Dalle “zie suore” e dagli studi dai salesiani alla difesa delle posizioni ecclesiastiche sui temi etici
di Mattia Feltri


È trascorso un anno esatto dall’uscita del libro dell’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, nel quale l’autore illustrava con precisione i motivi per cui le gerarchie ecclesiastiche tolleravano il libertinaggio berlusconiano: «È (...) più grave la presenza di principi non accettabili nel programma che non nella pratica di qualche militante, in quanto il programma è strategico ed ha un chiaro valore di cambiamento politico della realtà più che le incoerenze personali» (il libro si intitola “Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa”). Il parere, di per sé molto autorevole, ebbe nella prefazione del cardinale Angelo Bagnasco un insuperabile sigillo di qualità: non restava che alzare le mani. Soltanto pochi mesi più tardi, in occasione della dura prolusione del gennaio 2011, Bagnasco segnalò «un evidente disagio morale». E adesso saranno gli esegeti dei documenti episcopali a indicare quale punto di non ritorno sia stato raggiunto, ma ripensando all’avvento di Silvio Berlusconi nella disputa politica, diciotto anni fa, non si può negare che le cose siano molto cambiate.
Era un Berlusconi, quello, che cercava di accreditarsi in Vaticano coi suoi modi da dopocena, per il tramite delle zie suore o ricordando gli studi dai salesiani o nel collegio dell’Opus Dei, e siccome l’aspirante leader aveva i suoi talenti, andò al nocciolo della questione ricordando sé ragazzino, seduto al convitto Sant’Ambrogio ad abbeverarsi ai racconti dei sacerdoti fuggiti in Italia dai comunisti russi e polacchi. E offrì il trait d’union raccontando d’aver esordito tredicenne alla politica, nel 1948, quando attaccava i manifesti della Democrazia cristiana intanto che qualche ragazzaccio comunista scrollava la scala per farlo cascare giù, e dargli quel che gli spettava. Primi passi eroici (fidarsi sulla parola non è mai stato un problema), praticamente una marcia al rullo di tamburi per una Chiesa che, perduta la Dc, non sapeva a che santo votarsi. A proposito del Partito popolare di Mino Martinazzoli, il vaticanista Sandro Magister avrebbe poi scritto che «mai il grosso dell’elettorato democristiano, modernizzante, pragmatico, soprattutto del Nord, avrebbe potuto continuare a votare un gruppo dirigente fattosi all’improvviso puritano, pauperista, giacobino, satellite di comunisti e postcomunisti».
Per Berlusconi è già un grande successo che in pubblico il presidente della Conferenza episcopale italiana, Camillo Ruini, lo accolga senza manifesti pregiudizi, a differenza del resto del mondo, e tenga la celebre linea dell’equidistanza nel 1996, quando a capo del centrosinistra c’è Romano Prodi, cattolico dossettiano di cui Ruini ha celebrato il matrimonio. Durante il quinquennio dell’Ulivo, la Chiesa sottolinea le sue aspettative sulla scuola, sulla famiglia, sulla difesa della vita, ma trova molti più interlocutori all’opposizione che al governo e prende posizione senza infingimenti (tanto che il segretario dei popolari, Franco Marini, sostiene che l’Avvenire sembra l’house organ di Forza Italia). Eh sì, è nato un fruttuoso sodalizio.
Da lì in poi per Berlusconi è stata una cavalcata al fianco dei porporati d’Italia (e difatti si racconta della premonizione offerta da Ruini a Prodi, che sarà usato «dai comunisti» e poi gettato come un cencio). Dopo le leggi ad personam, la produzione più massiccia dei governi di centrodestra riguarda le norme care al Vaticano, quelle varate e quelle bloccate. Sono i famosi «principi non negoziabili» attorno i cui si stringe un’alleanza ferrea. E nemmeno tanto campata in aria visto che nel 2005, ai referendum sulla procreazione assistita e sulla produzione degli embrioni, ottiene l’annullamento della consultazione per mancanza di quorum: un successo evidente. E due anni dopo il trionfo è del Family Day a piazza San Giovanni a Roma, una manifestazione contro i Dico, cioè le unioni di fatto sia fra eterosessuali che fra omosessuali. Lo straordinario è che si tratta di un corteo di cattolici contro la cattolica Rosi Bindi (che ha firmato la legge insieme con la ex comunista Barbara Pollastrini), ed è un corteo che ottiene il risultato di imbarazzare il centrosinistra, visto che in strada, insieme con Berlusconi, scendono cattolici vicini a Prodi come Savino Pezzotta, Clemente Mastella e Giuseppe Fioroni: la rivendicazione di un cattolicesimo adulto avanzata dal premier viene bruscamente ed efficacemente respinta. E dunque niente procreazione assistita, niente Dico (o Pacs o altro), sì alle agevolazioni fiscali, finanziamenti alle scuole, qualche sterile ma gradito distinguo sull’aborto: il centrodestra non molla l’osso ed è una falange nel caso di Eluana Englaro e nei pasticci successivi che impantanano una legge annunciata in quarantotto ore, e ancora oggi in studiata fase di pre-elaborazione. Quello raccolto da Silvio Berlusconi è un credito inestimabile al punto che, quando racconta una barzelletta contenente una rotonda bestemmia, monsignor Rino Fisichella si immola e sostiene che il nome di Dio si può pronunciare invano: talvolta dipende dal contesto. Ed è proprio il problema del contesto, ora, a vanificare tanti meriti conquistati in battaglia.

Repubblica 27.9.11
Non possumus
di Barbara Spinelli


Parlando in nome della Chiesa italiana, il cardinale Bagnasco ha usato parole molto chiare, ieri, davanti al Consiglio permanente dei vescovi. Il nome del presidente del Consiglio non viene fatto, ma è di Berlusconi che parla: quando denuncia «i comportamenti licenziosi e le relazioni improprie», quando ricorda il «danno sociale (che essi producono) a prescindere dalla loro notorietà».
Quando cita l´articolo 54 della Costituzione e proclama: «Chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell´onore». Non è la prima volta che il Presidente della Cei critica l´immoralità insediatasi ai vertici del governo italiano, ma questa volta le parole sono più precise e dure, il tono si fa drammatico perché il Vaticano ormai ne è consapevole: la personalità stessa del premier è elemento della crisi economica che sta catturando l´Italia, e all´estero la sua figura non è più giudicata affidabile. Tra le righe, Bagnasco fa capire che le dimissioni sarebbero la via più opportuna: «Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili. La storia ne darà atto».
Come in altre occasioni, non manca la critica parallela alla magistratura: critica che Berlusconi ha abilmente sfruttato a proprio favore, per lungo tempo, presentandosi come politico vicino alla Chiesa e da essa appoggiato. Il Cardinale ha dubbi «sull´ingente mole di strumenti di indagine messa in campo, quando altri restano disattesi e indisturbati» e giunge sino a dirsi «colpito dalla dovizia delle cronache a ciò dedicate»: sono dubbi e sbigottimenti non del tutto comprensibili, perché è pur sempre grazie alla magistratura e alla dovizia delle cronache che la Chiesa stessa, infine, ha dovuto constatare i «comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui»; «l´improprio sfruttamento della funzione pubblica»; i «comitati d´affari che, non previsti dall´ordinamento, si autoimpongono attraverso il reticolo clientelare, andando a intasare la vita pubblica con remunerazioni, in genere, tutt´altro che popolari»; l´evasione fiscale infine, «questo cancro sociale» non sufficientemente combattuto. Senza le inchieste della stampa indipendente, senza le intercettazioni ordinate dai pubblici ministeri, senza la documentazione sugli innumerevoli reati imputati al premier, la Chiesa non potrebbe fondatamente pronunciare, oggi, il suo «non possumus».
Anche in questo caso tuttavia, Bagnasco cambia tono rispetto agli anni scorsi. Pur esprimendo dubbi su magistrati e giornalisti, si rifiuta di metter sullo stesso piano le condotte degli uni e degli altri: «La responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano (...) La questione morale, complessivamente intesa, non è un´invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro ambito privato o pubblico, essa è un´evenienza grave, che ha in sé un appello urgente».
La questione morale non è un´invenzione mediatica: lo dicono da tempo tanti cattolici, laici e non, e la Chiesa italiana sembra volerli ascoltare, meno riottosamente di ieri. Si capisce che non faccia nomi espliciti, che non usi l´arma ultima che è la richiesta esplicita di dimissioni: sarebbe un´interferenza nella politica italiana, non promettente per il futuro anche se comprensibilmente invocata da molti. La Chiesa già interviene molto sulle scelte delle nostre istituzioni (il testamento biologico è un esempio), e non sarebbe male se in tutti gli ambiti osservasse la prudenza politica che manifesta verso Berlusconi, non nominandolo espressamente. Forse la condanna che oggi pronuncia - che questo giornale ha chiesto con forza - non può che essere spirituale, al momento: il cristiano non compra l´amore, non compra il consenso, non mente, non inganna, non privilegia i ricchi contro i poveri, non presta falsa testimonianza. Su questi e altri peccati ce ne sono, di cose da dire.
La vera questione, a questo punto, concerne i cattolici che sono nella maggioranza, e che dovranno giustificare ora le innumerevoli connivenze, i silenzi così tenaci e vili. Cosa pensano Formigoni, o Giovanardi, delle parole che vengono dal vertice della Conferenza episcopale italiana? Con che faccia il ministro Rotondi parla di Berlusconi come di un «santo puttaniere»? Perché "santo"? Per tutti costoro, più che per la Chiesa, vale oggi il comandamento di Gesù: «Sia invece il vostro parlare «sì sì», «no no», il di più viene dal maligno». Il Cardinale sembra avere in mente questi politici quando constata: «Colpisce la riluttanza a riconoscere l´esatta serietà della situazione al di là di strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a tratti si procede, dando l´impressione che il regolamento dei conti personali sia prevalente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità».
Non è escluso che il Papa abbia avuto il suo peso, nel linguaggio più aguzzo cui la Chiesa italiana ricorre. Da quando si è inasprita la crisi, Benedetto XVI ha usato parole di grande severità contro le ingiustizie e le diseguaglianze che lo sconquasso economico sta dilatando. Va in questa direzione l´omelia pronunciata l´11 settembre a Ancona. E nel viaggio in Germania il Pontefice non ha esitato ad ammettere che la Chiesa per prima è oggi scossa alle fondamenta: che per sopravvivere e rinascere deve "demondanizzare" se stessa, deve farsi scandalosa. Nel discorso al Konzerthaus di Friburgo ha ricordato che uno dei tanti fattori che rendono "poco credibile" la Chiesa è il suo apparato, e sono le sue ricchezze materiali.
Demondanizzarsi, riscoprire l´umiltà e la povertà: è un progetto di vita alto, è l´antica denuncia che Antonio Rosmini fece nelle Cinque Piaghe della Chiesa (inizialmente la Sacra Congregazione dell´Indice condannò il grande libro, nel 1849). «La Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?» lo ha chiesto a Friburgo il Papa, stavolta, e quel che ha chiesto è importante anche per l´Italia, alla cui costruzione e alla cui unità tanti cattolici laici hanno contribuito. Così come è essenziale anche il discorso sulla povertà. È già un passo non irrilevante la disponibilità di Bagnasco a farsi giudicare, sulle sovvenzioni che la Chiesa riceve dallo Stato italiano: «Facciamo notare che per noi, sacerdoti e vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti».

Corriere della Sera 27.9.11
la Nuova Partita dei Cattolici Laici Così Bagnasco vede «l'incubazione» di un'entità che «interloquirà» con la politica
di Andrea Ricciardi
, Comunità di Sant’Egidio

La prolusione del cardinal Bagnasco, alla riunione dei maggiori vescovi italiani, legge la situazione del Paese in modo diverso rispetto alla cronaca gridata o alle fredde rilevazioni sociologiche. Lo storico Gabriele De Rosa (che per anni indagò la storia d'Italia) era convinto che la «pastoralità» cogliesse la realtà sociale in modo profondo. Così le parole del presidente della Cei danno voce al «senso di insicurezza diffuso nel corpo sociale, rafforzato da attonito sbigottimento a livello culturale e morale». Bagnasco non parla sotto la pressione dei media, ma addita una via d'uscita nel cambiamento e in un diverso clima politico e sociale. Non si troveranno nella prolusione risposte alle domande della cronaca, se non la garbata riaffermazione di come le risorse della Chiesa vengano spese per la gente e per i poveri. Il testo del cardinale abbozza una visione generale per il Paese: il momento è grave e bisogna far appello a tutte le energie per compiere la traversata che la crisi impone.
Si tratta di una svolta? La vera svolta è la drammatica transizione di una crisi lunga e dolorosa. Ognuno deve fare la sua parte, innanzi tutto la politica: «La globalizzazione — dice Bagnasco — resta non governata, e sempre più tende ad agire dispoticamente prescindendo dalla politica». Per il presidente della Cei tutti gli attori debbono uscire dal clima di rassegnazione e dal culto dell'interesse particolare. Ci sono cambiamenti profondi da operare. La Chiesa crede che bisogna mettere in discussione l'idolo mercatista («crescere senza ideali e senza limiti»). Il tema della sobrietà degli stili di vita è all'ordine del giorno da tempo nel cattolicesimo. Eppure proprio oggi, mentre crescono i poveri, aumenta l'esibizione del lusso. È anche il frutto del progressivo tramonto e dell'umiliazione dei ceti medi, protagonisti di parte considerevole della storia italiana. La lotta all'evasione fiscale definita «cancro sociale» è un capitolo importante della costruzione del domani, come lo è dare futuro alle nuove generazioni, mentre si salva il sistema pensionistico. Bisogna rilanciare l'Italia: è l'imperativo non utopico del cardinale. Il credito internazionale del Paese è decisivo: «La collettività guarda con sgomento gli attori della scena pubblica e l'immagine del Paese all'estero ne viene pericolosamente fiaccata».
L'idea è riattivare, con un afflato nuovo, la democrazia italiana, «il sistema di rappresentanza... cominciando a riconoscere ai cittadini la titolarità loro dovuta». È necessario un dibattito politico meno gridato, più attento al bene comune, più costruttivo. Ma è anche ineliminabile colmare il fossato (dovuto al sistema elettorale, ma anche al divario reale) tra il potere politico e la gente. La Chiesa farà la sua parte: «In quanto vescovi non possiamo essere spettatori intimiditi; nostro compito è proporsi come interlocutori animati di saggezza...». Interlocutori, interloquire sono espressioni che ritornano nelle pagine del cardinale, suggerendo che la Chiesa (pur consapevole dei vari protagonisti del futuro) intende essere sul campo, dire la sua, non rassegnarsi al degrado. «Né indignati, né rassegnati»: è la posizione suggerita da Bagnasco ai cattolici (vescovi, clero o laici).
In proposito si segnalano alcune pagine del cardinal Bagnasco, che non sono solo un auspicio a un nuovo impegno politico dei cattolici, ma la rilevazione di un processo. C'è una parte che giocheranno i laici cattolici. Il cardinale nota come questi abbiano colto «la rinnovata perentorietà di rendere operante la propria fede», mentre tra loro c'è una maggiore unità. È un processo in corso: «Una sorta di incubazione» (peraltro negli ultimi mesi sbrigativamente qualificata come voglia di nuova Dc). Per Bagnasco, sta nascendo qualcosa: «Sembra rapidamente stagliarsi all'orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che... sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni». In un'Italia dove tanti attori debbono prendersi le loro responsabilità, i cattolici laici hanno storicamente una partita da giocare. È un investimento di un patrimonio di energie e di cultura sul futuro. Del resto, la Chiesa italiana crede in questo futuro, come si è visto nelle celebrazioni dei 150 anni dell'Unità. Tanto che il cardinal Bagnasco, nella sua prolusione, ha accenti di speranza patriottica, che raramente sentiamo in questi tempi: «L'Italia ha una missione da compiere, l'ha avuta nel passato e l'ha per il futuro. Non deve autodenigrarsi! Bisogna dunque reagire con freschezza di visione e nuovo entusiasmo, senza il quale è difficile rilanciare qualunque crescita, perseguire qualunque sviluppo».

l’Unità 27.9.11
Un neutrino tira l’altro. Ora misure con metodi diversi
L’esperimento del Cern ha prodotto un risultato memorabile, un brivido da Superenalotto
Ma gli scienziati non possono sedersi a festeggiare. Perché se scoprire è bene, verificare è meglio
di Carlo Bernardini


L’’esperimento Opera di cui tanto si parla in questi giorni nei media italiani, è senza dubbio il risultato di uno sforzo eccezionale di ricerca di base di un gruppo numeroso anche di nostri fisici al Cern di Ginevra; meriterebbe perciò un risultato memorabile come quello di cui si parla. Ma proprio per questo motivo la prudenza è d’obbligo. Un sorgente di neutrini del tipo «mu», cioè prodotti dai mesoni detti mu nel loro decadimento in volo, è generata a seguito delle collisioni dei protoni energici del Super Proton Sincrotrone contro un bersaglio materiale all’imbocco del canale detto Cngs (Cern Neutrino verso il Gran Sasso) che punta verso il Laboratorio dell’Infn sotto la montagna abruzzese (Lngs). I neutrini di decadimento, dopo avere attraversato circa 730 km di sottosuolo terrestre, possono arrivare sull’apparato che sta nel Lngs e hanno una piccola probabilità di essere identificati. Ma, dai e dai, in 3 anni di raccolta gli «arrivi» registrati sono circa 15.000. Quanto basta per fare una buona «distribuzione» dei tempi di arrivo. Questa distribuzione è confrontata con quella dei mesoni mu possibili genitori di quei neutrini, senza però che si possa sapere chi è il padre di chi: si può solo dire che la distribuzione dei padri si allarga rispetto a un istante centrale che, confrontato con la distribuzione in tempo degli eventi generati dai figli, corrisponde a una velocità di circa 6 km/s superiore a quella della luce. Apriti cielo! E come la mettiamo con la relatività speciale di Einstein che, come verificato in un numero incredibile di esperimenti con particelle subnucleari di ogni tipo eccetto i neutrini, sembrava fondarsi sul fatto che la velocità della luce fosse un limite invalicabile dai corpi con una massa, cioè dello spostamento di materia nello spazio? Quei neutrini già sono stravaganti per i fatti loro: perché ne esistono di tre tipi, il tipo «e» associato ai decadimenti con elettroni (per esempio dei neutroni nella radioattività beta), il tipo «mu» come abbiamo già detto e il tipo «tau» associato a certi «superelettroni» detti tau, di recente scoperta; ma il bello è che un neutrino che viaggia ha la straordinaria proprietà di oscillare tra le tre possibilità e, nato mu, può morire tau, come nel caso del Gran Sasso. Questo permette la teoria quantistica e questo succede. Già visto, anche da altri (giapponesi, americani). Ma che, oscillando, superino la velocità della luce, è nuova. Vi ho detto come: lo si vede confrontando le distribuzioni di partenza e di arrivo, 730 km dopo. Sarà vero? Sperarlo è bene, verificarlo è meglio. L’errore statistico (dalle distribuzioni) è confrontabile con l’errore sistematico (la distanza dal Cern è proprio 730 km con 10 cm di errore? La misura dei tempi quanto è precisa? Ecc.). Finora, sembra che l’errore statistico e quello sistematico siano confrontabili e che la velocità della luce non sia in contraddizione con le distribuzioni ma solo piuttosto improbabile. Un brivido da Superenalotto. Che fa un vero fisico, in questa situazione? Aspetta una nuova misura, possibilmente con un metodo diverso. La pazienza non manca, intanto possiamo ridere degli sfondoni ministeriali e non, per far passare il tempo con mesta allegria.

il Sole 24 Ore 25.9.11
Filosofia minima

Zichicche più veloci della luce
di Armando Massarenti


Dunque se i conti si riveleranno corretti, e il margine di errore ragionevole, i neutrini sono più veloci della luce. Con l'esperimento Opera del Cern, partendo da Ginevra, i neutrini arrivano al laboratorio sotterraneo del Gran Sasso con un piccolissimo anticipo (sessanta miliardesimi di secondo) rispetto al previsto. La notizia era sui giornali di giovedì. Ma Antonino Zichichi ha cercato di essere più veloce dei neutrini. Prima ancora del comunicato ufficiale del Cern, ha telefonato a «Il Giornale» per anticipare la notizia: «Qui gira voce di una scoperta straordinaria».
Con il senso della misura che lo contraddistingue, ci ha regalato una delle sue deliziose Zichicche (così le aveva battezzate Piergiorgio Odifreddi in un libro esilarante di alcuni anni fa). Zichichi ha pensato bene di seminare il panico epistemologico, sostenendo che la scoperta «farebbe saltare uno dei pilastri fondamentali della nostra fisica, il principio di causalità». In altri termini, gli effetti potrebbero in qualche circostanza precedere le cause – un'eventualità piuttosto sgradevole, e non solo per la fisica –.
Per esempio, mentre mi accingo a scrivere queste righe, l'effetto (cioè questo stesso scritto) potrebbe aver preceduto la causa (l'atto di battere i tasti della tastiera), e io arriverei dopo, magari ritrovandomi stampate frasi che non condivido o errori madornali. Qualcosa del genere potrebbe essere successo al ministro Gelmini che ha diramato un comunicato, divenuto subito di culto nel popolo del web, in cui si legge che «alla costruzione del tunnel tra il Cern e i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l'esperimento, l'Italia ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile intorno ai 45 milioni di euro». Che siano inesistenti, oltre che il tunnel, anche i finanziamenti? Per fortuna, le cose non stanno così.
Come spiega ogni buon libro di relatività, il principio di causalità richiede unicamente l'esistenza di una velocità limite universale, cioè di una velocità che nessun corpo e nessun segnale possono superare. Basta questo a garantire che la successione temporale tra due eventi connessi causalmente non si inverta se cambia il sistema di riferimento. L'esperimento del Cern non mostra che una velocità limite non esiste, ma solo che potrebbe non essere uguale a quella della luce, come previsto dalla relatività einsteiniana. Se i risultati di Opera saranno confermati, alcune idee sullo spazio-tempo dovranno essere riviste, ma, con buona pace di Zichichi, continuerete sempre a leggere queste righe (oltre che gli strafalcioni del ministro) solo dopo che le avrò scritte.

il Fatto 27.9.11
L’Arabia Saudita e l’urna di Pandora che (forse) cambierà il mondo arabo
Emma Bonino: “Il voto alle donne non basta, ma è un inizio”
di Giampiero Gramaglia


 A parlarne da fuori, può parere una piccola cosa. Ma per chi ci vive lì, è un risultato importante, un’opportunità da cogliere, uno spiraglio da allargare”. Emma Bonino, vice-presidente del Senato e leader radicale, è una donna che conosce bene i problemi delle donne nel mondo: lei che ha vissuto al Cairo, e ancora vi trascorre del tempo quando può, e che, da commissaria europea, tenne testa ai talebani in Afghanistan non storce la bocca, commentando per Il Fatto la decisione ieri annunciata dal re saudita Abdullah bin Abdul Aziz: le donne entreranno nella Shura (il Consiglio consultivo, un Parlamento non eletto) dalla prossima sessione, cioè dal 2015, e potranno votare e candidarsi alle prime elezioni municipali dopo quelle di giovedì, ancora vietate, e che dovrebbero pure svolgersi nel 2015.
 Re Abdullah ha spiegato la sua decisione proprio davanti alla Shura: “Dato che ci rifiutiamo d’emarginare le donne in tutti i ruoli della società che sono conformi alla sharia (la legge dell’Islam, ndr), abbiamo stabilito, dopo esserci consultati con i nostri consiglieri religiosi… d’inserire le donne nella Shura a partire dalla prossima sessione”.
 L’annuncio ha avuto un enorme rilievo mediatico mondiale. E questa, per la Bonino, oltre che essere di per sé positivo, è “una garanzia”: “L’Arabia Saudita ha adesso puntati addosso gli occhi delle donne del mondo, e non solo”. E il segnale che viene da Riad, per quanto parziale, modesto e non ancora soddisfacente, va al di là della penisola arabica e accresce le speranze di successo altrove, in altri Paesi, su altri fronti dei diritti negati.
 La Bonino conferma che la notizia è giunta inattesa: non solo qui da noi, ma anche nel Golfo, dove – testimonia, dopo molte telefonate con amiche e militanti - l’eccitazione è molta. “Qui da noi, siamo sempre bravissimi a scoprire le cose che tutti dovrebbero già sapere e a volere di più. C’è chi lamenta che le donne potranno votare e candidarsi ‘solo alle elezioni municipali’, ma in Arabia Saudita quelle municipali sono le uniche elezioni, perché il regime non è di per sé democratico; e c’è chi segnala che là le donne devono ancora andare in giro velate e non possono guidare. Eppure, bastava leggere ‘La ragazza di Riad’”, un libro di una giovane saudita, Rajaa al-Sanea, 25 anni, che denuncia l’oscurantismo del Regno e le umiliazioni delle donne.
 Le donne saudite sapranno “sfruttare l’occasione” che è loro data?
 “Chi vive lì e conosce problemi e situazioni capisce che questa può essere un’opportunità: saranno le stesse donne saudite a rivendicare maggiori spazi, a esempio al momento di fare campagna elettorale. Come possiamo farla, se non possiamo guidare?, chiederanno; e come possiamo essere riconosciute?, se dobbiamo sempre esser velate”. Così, da una concessione, scaturiranno delle conquiste. Ma la strada è lunga. Domenica, Najalaa Harir, attivista che sfidò in tv il divieto di guidare, facendosi riprendere alla guida di un’auto a Gedda, veniva interrogata dagli inquirenti, proprio mentre il re faceva il suo annuncio. Secondo il suo avvocato, la Harir sarà portata in giudizio: è una delle decine di saudite che partecipano alla campagna “Il mio diritto, la mia dignità”.
 Che cosa può avere indotto il monarca a prendere la decisione?
 “Ci si può certo leggere un altro frutto della Primavera Araba. Ma c’è ancora chi risponde alle proteste della sua gente sparandole addosso, mentre re Abdullah ha scelto di compiere un gesto di apertura. Meglio così, non c’è debbio”. Anche perché l’esempio saudita può contaminare altri Paesi del Golfo.
 L’Arabia Saudita è l’ultima frontiera del disagio femminile?
 “Ci sono Paesi in cui le donne stanno peggio: per esempio, dal punto di vista delle violenze che devono subire, l’Etiopia e anche il Sudan. E nella stessa Arabia Saudita c’è un problema di violenza domestica non ancora affrontato. E ci sono crudeltà come le mutilazioni genitali femminili che non sono state ancora debellate”.

«Israele, se davvero vuole stabilire un migliore rapporto demografico con la popolazione araba, dovrebbe ritirarsi al di là dei confini del 1967»
Corriere della Sera 27.9.11
Gerusalemme nell’Ottocento capitale di tre religioni
risponde Sergio Romano


In una risposta lei ha fatto un po' la storia della presenza ebraica in Palestina. Già nel 1867 la popolazione ebraica di Gerusalemme era superiore alla musulmana. Gli ebrei erano una minoranza oppressa, ma sempre presente in quanto rimasta nel proprio Paese anche dopo la vittoria di Tito e la repressione di Adriano. Inoltre ai tempi dell'impero ottomano la Palestina era molto più estesa includendo parte della Siria e del Libano: è stata ridotta quando è stata creata la Giordania che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese.
G. Luccardi

Caro Luccardi,
La data da lei indicata è molto interessante. Secondo ricostruzioni statistiche pubblicate da Karen Armstrong in un libro apparso in Italia presso Mondadori nel 1996 («Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e Islam»), gli ebrei, nel 1800, erano soltanto 2.000, contro 4.000 musulmani e 2.750 cristiani. Quarant'anni dopo, nel 1840, erano ancora soltanto 3.000, ma divennero 6.000 nel 1850, 8.000 nel 1860, 11.000 nel 1870. Nel 1840, '50 e '60, il loro numero era inferiore alla somma dei fedeli della altre due grandi religioni monoteiste (cristiani e musulmani); nel 187o il numero degli ebrei era eguale alla somma degli altri.
Ma il fenomeno, in quegli anni, non era ancora il segno di un crescente patriottismo sionista. Era legato alla modernizzazione della città, alla crescita demografica della comunità ebraica, all'apparizione in Palestina di alcuni grandi mecenati ebrei (Moses Montefiore, la famiglia Rothschild) che finanziarono ospedali, scuole, fattorie agricole, piccole aziende. Un ruolo, paradossalmente, lo ebbe persino il proselitismo delle organizzazioni protestanti. Gli ebrei aumentavano anche e soprattutto perché Gerusalemme divenne allora una specie di agorà religiosa in cui ciascuno dei tre grandi monoteismi proclamava la propria verità, valorizzava i propri luoghi santi, inaugurava scuole per la formazione dei propri sacerdoti e fedeli, favoriva una piccola immigrazione, soprattutto religiosa, e il benessere di quella esistente.
Le grandi potenze, intanto, usavano le comunità religiose per promuovere le loro strategie politiche e giustificare le loro ambizioni regionali. La Russia proteggeva gli ortodossi, la Francia del secondo Impero proteggeva i cattolici e la Gran Bretagna cercava di assumere la tutela degli ebrei. Il governo di Londra sfruttava in tal modo i sentimenti filogiudaici di quei protestanti non anglicani che avevano, come scrive Karen Armstrong, un «vecchio sogno millenaristico»: «San Paolo aveva profetizzato che tutti gli ebrei si sarebbero convertiti al cristianesimo prima del secondo Avvento e un numero crescente di cittadini britannici si sentiva in dovere di portare a compimento la profezia e di rimuovere ogni ostacolo alla Redenzione finale». Vi furono effettivamente alcune conversioni di ebrei al protestantesimo che ebbero l'effetto, come era prevedibile, d'incoraggiare la comunità ebraica a dare maggiori prove di solidarietà con iniziative che erano al tempo religiose ed economiche. Debbo confermare quindi, caro Luccardi, che gli insediamenti ebraici di quegli anni erano, come quelli arabi e cristiani, presidi religiosi, non avanguardie politiche. In Palestina i venti del nazionalismo cominciano a soffiare negli anni seguenti.
Accetto volentieri la sua osservazione sulle diverse dimensioni della Palestina ottomana, più vasta perché comprensiva anche dei territori divenuti parte del regno di Transgiordania. Si tratta soprattutto della Cisgiordania, oggi occupata da Israele e sede ormai, a quanto pare, di circa 400.000 coloni israeliani. Una ragione di più per ricordare che Israele, se davvero vuole stabilire un migliore rapporto demografico con la popolazione araba, dovrebbe ritirarsi al di là dei confini del 1967.

Repubblica 27.9.11
La rivolta dell´America "Pena di morte, ora basta"
L’affondo del New York Times: "Aboliamola"
Ma il candidato dei repubblicani Rick Perry non si "pente" e promette il pugno duro
di Vittorio Zucconi


La siringa «colpisce come il fulmine», racconta lo studio definitivo sui 35 anni di pena capitale in America da quando fu riammessa nel 1976, senza logica, senza senso, senza umanità. Ma soprattutto senza giustizia. Cade su chi cade, non necessariamente sui criminali più efferati, spesso addirittura su innocenti che hanno soltanto la colpa letale di essere neri o di vivere negli Stati del Sud dove ancora regna il culto del taglione, di non avere i soldi per assumere gli avvocati migliori. Nessun ricco è mai stato mandato sul patibolo. L´omicidio di Stato è un grottesco privilegio riservato ai poveri.
Non c´è ormai quasi più giurista sensato, associazione o circolo di studiosi e criminologi che la difenda od osi sostenerne l´efficacia deterrente, che è sempre l´ultimo rifugio dei forcaioli. Nel 2010, gli omicidi volontari negli Stati Uniti sono stati più di 15 mila e le esecuzioni, per delitti consumati a volte undici anni prima, come nel caso di Troy Davis ucciso la scorsa settimana dopo che tutti i testimoni contro di lui avevano ritrattato e ammesso di avere mentito, sono state 46. Un´esecuzione ogni 326 omicidi non può rappresentare un deterrente per futuri assassini, per uomini e donne che già, nella loro decisione di uccidere un altro essere umano, si sono posti fuori dal timore delle conseguenze. «La possibilità pur remota del supplizio - ha scritto l´Associazione nazionale degli avvocati - spaventa soltanto coloro che non hanno nessuna intenzione di commettere un delitto».
Se la forca continua a ergersi, nella sua versione paramedica attuale con barelle, flebo e aghi, è soltanto grazie alla ottusa, demagogica viltà opportunistica di imbonitori della politica che mungono e coltivano gli istinti più primitivi e irrazionali degli elettori. L´applauso più sonoro e l´ovazione più convinta ascoltati finora nella serie di dibattiti elettorali fra repubblicani in lotta fra di loro per sfidare Obama nel novembre 2010 sono stati riservati all´impresentabile eppure popolarissimo governatore del Texas, Rick Perry. Quando si è lanciato in un´apologia di quella pena che il suo Stato da decenni, già sotto il governo di George W Bush, usa con più passione di tutti gli altri stati i suoi condannati, dietro il "muro" rosso del penitenziario mattatoio di Huntsville, la platea ha esultato. Sono stati 476 in 25 anni, già undici nell´anno in corso, le vittime del Texas. Per trovare il secondo Stato americano in questa lugubre olimpiade di sedie elettriche, camere a gas, fucilazioni, cappi, si deve scendere ai 109 della Virginia, meno di un quarto. Dunque, o il Texas è una terra brulicante di assassini, o l´assassino peggiore è lo Stato del Texas.
Neppure l´osservazione che il patibolo resta in funzione in alcuni dei più osceni sistemi giudiziari del mondo, come la Cina, Cuba o l´Iran, sembra convincere gli ultrà della morte della barbarie iniqua della forca. Per una nazione come gli Stati Uniti, che si vanta di avere «il miglior sistema giudiziario del mondo», una vanteria che almeno cinesi e iraniani ci risparmiano, la certezza che tra quei 1.270 messi a morte dal 1976 a oggi almeno il 3% erano innocenti del crimine contestato in base alle ricerche post mortem, leggermente tardive, dovrebbe imporre almeno una moratoria immediata.
La invoca, non per moralità ma per praticità, l´Associazione Legale Americana, che dopo anni di lavoro si è arresa: il sistema non funziona, è arbitrario, è iniquo e non è riformabile. Tre dei massimi giudici che nella Corte Suprema del 1976 formano con altri la maggioranza che reintrodusse le esecuzioni, ma «temporaneamente» precisò, rinnegarono poi il proprio voto. E addirittura l´autore e promotore del referendum che in California riaprì le camere della morte nel 1978, il magistrato repubblicano Don Heller, ha sconfessato la propria iniziativa, la scorsa settimana, in una lettera aperta di scuse. «Un sistema fallimentare da abolire subito, che costa fortune ai contribuenti, molto più della detenzione a vita». Quattro miliardi di dollari sono stati spesi in California dal 1978 a oggi per uccidere 13 detenuti: 300 milioni per ogni esecuzione.
«Indifendibile», «grottesca» secondo il New York Times la barbarie che continua a macchiare la reputazione del sistema giudiziario americano e cammina ancora sulle gambe di una democrazia diretta e spiccia che negli Stati del Sud più forcaioli non tollera che i candidati di destra osino mettere in dubbio il diritto di uccidere nel nome dello Stato. Non ci sono argomenti o casi che possano piegare la demagogia e la "cultura del vigilante" che attanaglia coloro che si credono giusti. Neppure vedere il serial killer Gary Ridgeway che confessò quarantotto omicidi ma, collaborando con i magistrati, ebbe salva la vita mentre Teresa Lewis, accusata di complicità in un omicidio e riconosciuta semi inferma mentale fu messa a morte in Virginia, smuove la dipendenza emotiva e irrazionale di tanti nella formula dell´"occhio per occhio". I suoi complici furono risparmiati.
Fino a quando una nuova generazione di leader politici della destra sudista, quella che a volte si ammanta della blasfema etichetta di "cristiana", resterà succube delle ovazioni che hanno salutato il forcaiolo Rick Perry (possibile futuro presidente) per vincere le elezioni, la siringa continuerà a pompare veleni nella braccia di chi le capita sotto. L´ascensore per il patibolo porta innocenti a morire e colpevoli a governare.

Repubblica 27.9.11
L’editoriale del NyTimes
Un sistema che uccide anche innocenti
Molti degli imputati che rischiano la vita non hanno i mezzi per pagarsi un legale. Solo i più ricchi possono salvarsi


Quando, 35 anni fa, la Corte Suprema ripristinò la pena capitale, lo fece in via provvisoria. E da allora si è sforzata di mettere a punto una serie di standard giuridici ai quali gli Stati avrebbero dovuto attenersi per applicarla con correttezza, evitando le discriminazioni e gli arbitri che nel ´72 avevano portato alla sospensione di tutte le norme statali in questa materia. Come dimostra ancora una volta l´iniqua, inaccettabile esecuzione di Troy Davis avvenuta la scorsa settimana in Georgia, la Corte suprema non è riuscita nel suo intento. Di fatto, si trattava di un´impresa impossibile, perché la pena di morte è immorale e grottesca. E perciò deve essere abrogata.
Una condanna alla pena capitale è ovviamente arbitraria quando ignora le circostanze aggravanti o attenuanti; ma lo è anche quando queste circostanze sono tenute in considerazione, dato che a valutarle sono i giurati, la cui decisione è soggettiva e legata alle rispettive tendenze sui temi politici, razziali e di classe che influenzano tutti gli aspetti della vita negli Usa. Ecco perché in questo Paese l´applicazione della pena di morte è sempre stata caratterizzata dalla discriminazione e dall´arbitrio.
Molti degli imputati che rischiano la pena di morte non hanno i mezzi per pagarsi un legale. Secondo uno studio commissionato dalla Commissione Giustizia del Senato, circa due quinti degli errori commessi nei casi di condanne alla pena capitale sono da ascriversi a «un patrocinio di difesa sommamente incompetente». Oltre tutto, in tutte le fasi di giudizio, questi processi risultano economicamente più onerosi di quelli che non contemplano la pena capitale. Infine, l´onnipresenza della politica in questo campo aggrava il rischio di una gestione arbitraria: in genere nelle giurisdizioni che prevedono la pena di morte, i pubblici ministeri sono eletti e quindi interessati a ottenere sentenze più dure.
Finora quest´orrendo sistema ha portato alla condanna a morte di un gran numero di innocenti, poi scagionati grazie a prove ottenute dall´esame del Dna (17 casi) o per altre vie (112 casi). Tranne poche eccezioni, le nazioni sviluppate hanno abolito la pena capitale. È tempo che anche gli americani si rendano conto che la pena di morte è inconciliabile con la Costituzione, e indifendibile da ogni punto di vista.
(New York Times 2011 - Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Stampa 27.9.11
L’Italia e le Br, quel che i francesi non riescono a capire
In un film-documentario su Arte largo spazio ai carnefici, non alle vittime
di Alberto Mattioli


Guardando queste due ore abbondanti di vecchi tg e recentissime testimonianze si capisce perché i francesi non capiscono. Perché c’è stato un caso Battisti e perché ce ne potrebbero essere tanti altri quanti sono i terroristi italiani che girano per le strade di Parigi. E perché, insomma, tra Italia e Francia gli anni di piombo non passano. Resta un contenzioso fatto non solo di passi diplomatici, ricorsi in giustizia e sottigliezze legali, ma soprattutto di un’incomprensione talmente forte da diventare rabbia.
Domani sera Arte, la raffinata rete culturale pubblica franco-tedesca, trasmetterà in prima serata Ils étaient les Brigades rouges , «Erano le Brigate rosse», un film del documentarista Mosco Levi Boucault che, ironia della sorte, è figlio di un bulgaro fuggito dal comunismo. Al di là del contenuto, la confezione è impeccabile, di qualità Arte. Si alternano le immagini terribili di ieri, quei bianco-e-nero dei morti sdraiati sul selciato, con il corpo coperto da un telo e le chiazze di sangue accanto, e le interviste di oggi a quattro terroristi, Prospero
Gallinari, Valerio Morucci, Raffaele Fiore e Mario Moretti. Fa effetto vedere Gallinari in un tranquillo interno borghese mentre schizza la piantina del carcere di Moro o Fiore che sorride spiegando che tutto cominciò «come un gioco». Una voce fuori campo commenta dal punto di vista di una militante di sinistra. Frasi come: «Il processo alla Dc eravamo in molti a volerlo, ma non in queste condizioni» (e già questo non è molto realistico, perché nessuno dice che l’Italia democristiana sarà anche stata inefficiente, corrotta, collusa, ma non era il Cile di Pinochet e nemmeno l’Urss di Breznev e che, alla fine, i democristiani governavano perché vincevano libere elezioni).
Loro, quelli che ammazzavano, ripetono quel che dicono sempre nelle molte tribune messe a loro disposizione. Colpisce la freddezza dei sofismi: «Le Br non erano un’organizzazione terroristica, ma un’organizzazione che faceva politica con le armi», assicura Morucci. Per Moretti, il giudice Sossi sequestrato «è un fascista», per Morucci «i giornalisti scelgono il campo della controrivoluzione e li trattiamo di conseguenza», e la foto della vittima seguente è quella di Carlo Casalegno. «Capisco che da un punto di vista umano la morte di un uomo sia un avvenimento drammatico, ma da un punto di vista rivoluzionario è diverso», spiega didattico Gallinari che lui, sì, capisce.
Però in due ore non c’è mai la voce delle vittime. I morti non parlano, ovvio, ma non parlano nemmeno le loro vedove e i loro figli. Perché? «Ma si vede la foto terribile della signora Croce accanto al cadavere del marito - risponde Levi Boucault -. Le vittime cosa possono dire? Possono portare la testimonianza del loro dolore, che io capisco e rispetto. Però la mia è un’inchiesta. Io non sono affatto d’accordo con quello che hanno fatto le Brigate rosse e lo faccio dire dalla mia voce. Ma cerco di capire perché l’hanno fatto, perché a un certo punto degli italiani normali, dei vicini di pianerottolo, hanno iniziato a uccidere. Non erano mostri né semplici delinquenti. Erano degli italiani».
E qui è il punto. Ancora una volta, per chi racconta da fuori il nostro terrorismo non c’è da una parte uno Stato, certo discutibile ma democratico, e dall’altro degli assassini. No: Stato e anti-Stato, vittime e carnefici, democrazia e P38 sembrano sullo stesso piano. Levi Boucault, è giusto dare voce a chi ha ucciso? «Per capire, sì. E poi hanno pagato, sono persone segnate, che hanno sofferto. Non sono sicuro che la notte dormano bene». Però i francesi i loro terroristi li hanno chiusi in cella e hanno buttato via la chiave. E se escono, ed escono solo quando sono dei rottami, nessuno si sogna di intervistarli... «Action directe? Ma quelli erano un gruppuscolo, quattro gatti. Invece il terrorismo italiano è stato un movimento sociale, a un certo punto per fatti di terrorismo in galera c’erano cinquemila persone».
E quindi tutto viene di conseguenza: la dottrina Mitterrand («Una vecchia tradizione francese, applicata anche ai fuoriusciti dall’Urss, dalla Grecia dei colonnelli, dal Cile», e dài), l’ospitalità per gli assassini («Anche l’esilio è duro, doloroso»), la fuga aiutatissima di Battisti («Braccarlo che senso ha? Se sta in galera cambia qualcosa? L’ho incontrato, è un’altra persona»), l’idea che sia stata una specie di guerra civile e che quindi «bisogna voltare pagina, guardare al futuro, altrimenti non si finisce mai».
Insomma, tutto quello che ci dicono ifrancesi ogni volta che chiediamo loro di spiegarci il loro incomprensibile atteggiamento e cerchiamo di spiegare la nostra comprensibilissima rabbia. Ma lei, Levi Boucault, il suo film lo farebbe passare alla tivù italiana? «Solo se fosse preceduto dall’intervento di uno storico che dica: è doloroso, ma bisogna capire. Trasmetterlo così, no, non avrebbe senso». Sì, davvero non ha senso.

La Stampa 27.9.11
L’uomo più ricco della Cina entra nel Comitato centrale del Partito
Mister 9 miliardi, leader comunista
Paperone nel club dei comunisti
Nel Paese monta l’ostilità per i milionari
di Ilaria Maria Sala


Mentre i senza terra continuano le rivolte a Lufen, nel Guangdong, in una delle migliaia di periodiche violente crisi che vedono contadini in assetto di guerra ribellarsi agli sgomberi voluti da promotori immobiliari che intendono edificare sulle loro terre, i nuovi ricchi cinesi danno la scalata anche al potere politico, monopolizzato dal Partito comunista.
Ieri, la stampa cinese dava notizia della possibilità che Liang Wengen, 57 anni, l’uomo più ricco della Cina (con una fortuna stimata a 9,3 miliardi di dollari), sia accolto fra i trecento membri del Comitato Permanente del Partito Comunista Cinese nel corso del Congresso che si terrà il prossimo anno. Se questo avvenisse, come lascia pensare l’annuncio di ieri secondo cui la procedura per il suo ingresso nella «stanza dei bottoni» è già ben avviata, sarebbe la prima volta che un imprenditore privato è accolto nei ranghi dell’élite di Partito più esclusiva. Liang deve la sua fortuna alla sua azienda Sany, che produce macchinari per la costruzione immobiliare, uno dei settori che hanno maggiormente beneficiato del boom economico cinese degli ultimi anni.
Ma la Cina odierna è una società divisa, come mostrano le rivolte di Lufen, e il risentimento nei confronti dei nuovi ricchi non è un mistero per nessuno; in particolare non lo è per chi frequenta le chat room o i servizi di microblogging tipo Twitter cinesi. In questi giorni, una delle vicende che maggiormente infiammano i media cinesi riguarda il caso dei «Quattro playboy della capitale»: ricchissimi, dai 29 ai 36 anni, figli di imprenditori e imprenditrici e che dalla nascita a oggi hanno conosciuto solo un tenore di vita da nababbi, che si trovano ora a capo di importanti aziende create dai genitori, ma che si sono resi noti in particolare per le loro numerose fidanzate nel mondo della moda e dello spettacolo.
I quattro - Wang Yu, Wang Xiaofei, Wang Shuo e Wang Ke (hanno tutti lo stesso cognome pur non essendo parenti) - appartengono a quella «seconda generazione» di danarosi, detestata dall’opinione pubblica cinese ancor più che non la prima: se i loro genitori si sono arricchiti se non altro facendo qualcosa (pur prendendosi molte libertà con la legge) i loro rampolli sono semplicemente stati depositati nei privilegi dalla cicogna, e il loro stile di vita non ha fatto nulla per far perdonare loro questi natali fortunati.
I peggiori dei quattro, al momento, sono considerati Wang Ke (nella finanza) e Wang Shuo (nell’immobiliare). Lo scorso dicembre i due erano impegnati in un duello automobilistico per le vie di uno dei quartieri ricchi di Pechino, intorno a Wangfujin, dove giocavano a rincorrersi con le loro macchine di lusso senza troppo badare alla possibilità di investire dei passanti. Quando entrambi hanno sbandato, Wang Shuo ha fatto retromarcia andandosi a scontrare contro l’auto di Wang Ke, che si è incendiata. Wang Shuo a questo punto avrebbe minacciato Wang Ke con una pistola, e avrebbe poi incaricato il servizio di sicurezza della sua azienda di andare a distruggere le immagini registrate dalle videocamere per la strada (onnipresenti nelle città cinesi). A rendere più piccante l’intero episodio è stato che l’Audi di Wang Ke aveva una targa militare, mentre l’auto di Wang Shuo ne aveva una governativa - entrambe targhe privilegiate, non accessibili alle masse.
Ma questa volta, nonostante il sangue blu dei rampolli coinvolti, è stato aperto un caso giudiziario. Una perquisizione a casa di Wang Shuo ha fatto rinvenire pistole e proiettili, e il dorato «gentiluomo» adesso dovrà comparire davanti al tribunale. Prima d’ora, Wang Shuo era arrivato sulle pagine dei giornali per un breve fidanzamento con l’attrice Zhou Xun, per la quale aveva speso una fortuna in fuochi d’artificio al di lei compleanno (anche se i fuochi d’artificio privati sono illegali in Cina).
Wang Yu, figlio dell’ex sindaco di Shanghai, e Wang Xiaofei, figlio dell’imprenditrice Zhang Lan, creatrice di catene di ristoranti di prestigio, a parte i loro amori pubblici e glamour sono meno scandalosi, ma il Web non li esonera: in uno dei Paesi a maggior inegualità al mondo, essere ricchi come lo sono loro, e per merito dei genitori e delle loro connessioni importanti, è visto con ovvio rancore. Così, quando Wang Xiaofei è rimasto implicato nello scandalo dell’olio di scolo (olio tossico recuperato dalle immondizie, purificato e rivenduto ai ristoranti), il Web non ha esitato ad attaccarlo: dapprima, si è difeso negando, poi dicendo che l’olio di scolo riciclato era utilizzato solo per i pasti dei dipendenti, e non quelli dei clienti. E non sorprenderà che gli agguerriti netizen cinesi non l’hanno ancora perdonato, malgrado il suo favoloso matrimonio con Barbie Hsu, un’incantevole attrice taiwanese.

il Riformista 27.9.11
Torce umane in Tibet
E la Cina detta legge sulla reincarnazione
di Piero Verni

qui
http://www.scribd.com/doc/66504181

Repubblica 27.9.11
I ribelli di Mosca
Quei bravi ragazzi anti Putin
I nuovi oppositori al regime di Putin sono ragazzi normali che usano Internet. Combattono contro corruzione e ingiustizie. E hanno un seguito
di Nicola Lombardozzi


Mentre il leader russo si ricandida al Cremlino e Medvedev silura il ministro delle Finanze Kudrin, loro continuano imperterriti le loro battaglie
Viktor protesta contro le infrazioni delle auto blu, Evgenia difende la foresta che circonda casa sua Mentre Aleksej denuncia i corrotti Sono i nuovi eroi popolari russi Hanno migliaia di sostenitori su Internet. Un seguito che comincia a far paura. Persino al governo

Hanno facce da bravi ragazzi, un po´ anonime, non proprio da leader. Uno si è fissato con le auto blu che spadroneggiano per il centro ignorando limiti e semafori. Un´altra fa la mamma e l´ingegnere, ma quando può difende la foresta che circonda casa sua. Poi c´è quello che vuole salvare i tossicodipendenti dimenticati dal governo. E quell´altro che si studia ogni appalto pubblico fino a quando non trova il marcio e denuncia la tangente.
Eppure nella Russia che ha appena scoperto l´immutabilità dell´era Putin, rappresentano l´unica possibile sfida a un potere totale e senza fine. I professionisti dell´opposizione, anche i più coraggiosi, hanno visto come una condanna per le loro speranze la decisione di Vladimir Putin di candidarsi per un mandato di sei anni al Cremlino. Qualche ricco imprenditore e molti intellettuali sono rimasti sconcertati dal passo indietro di Dmitri Medvedev - che ieri, dopo uno scontro, ha licenziato il ministro delle Finanze, Kudrin - e delle sue aperture democratiche. Uno sconsolato Mikhail Gorbaciov ammette: «Siamo in un vicolo cieco». Loro invece, i difensori delle piccoli grandi cause, continuano imperterriti le loro battaglie personali. E con un seguito che comincia a far paura, persino al governo: un esercito invisibile di centinaia di migliaia di sostenitori che comunicano, dibattono, si organizzano sulle pagine di Facebook, dei più svariati siti Internet e sul social network più diffuso di Russia, Vkontakte, "In contatto".
Può capitare infatti che operai e ingegneri che si apprestano a distruggere una bella fetta della foresta di Khimki per costruire una nuova pista dell´aeroporto internazionale di Sheremetevo, si ritrovino una mattina circondati da una folla di duemila persone che bloccano i loro camion e invadono le loro aree riservate, con un´organizzazione meticolosa e ben studiata. Secondo antico e consolidato copione, la decisione di aggredire la foresta era stata presa in alto e prudentemente ignorata da giornali e tv. Eppure il tam tam ha funzionato, fuori da ogni controllo tra la rete e il passaparola del gruppo guidato dalla signora Evgenia Cirikova, un´icona per la gente del più popoloso sobborgo di Mosca e per tutti gli ecologisti del Paese.
Sempre lo stesso giorno succede che in Procura si presenti un gruppo di giovani del Far, il movimento degli automobilisti russi, guidato da Viktor Klepikov. Da mesi lo stesso Presidente Medvedev ha promesso impegno e dispiego di forze per fermare lo strapotere e l´arroganza delle auto dei politici e degli oligarchi. Ma risultati non se ne vedono. I ragazzi del Far ci hanno pensato da soli: telecamere e rudimentali autovelox, si sono piazzati sul Kutuzovskij Prospekt e hanno rilevato ben 60 pericolose infrazioni al codice della strada commesse dai veicoli di Stato in una sola ora. Dati, fotografie, numeri di targa e nomi degli illustri passeggeri sono stati consegnati al giudice, ma soprattutto offerti e ai giornali e gettati in pasto alla rabbia della rete.Possono una cinquantina di alberi e qualche eccesso di velocità, mettere in crisi un sistema di potere? Gli stessi protagonisti non ci credono molto. Ma nelle stanze del capo del governo, che si prepara a tornare Presidente, l´intero staff di Putin registra un calo di popolarità mai visto prima e un dilagare di associazioni e movimenti mirati ai singoli problemi della vita di ogni giorno. Niente a che vedere con la cosiddetta antipolitica. Piuttosto una politica "basica" fatta di singole questioni pratiche e perseguita da volontari disposti a tutto. Partiti storici di opposizione come il democratico Yabloko, o gli stessi comunisti dell´intramontabile leader Zjuganov hanno fiutato l´occasione e hanno cominciato il corteggiamento dei nuovi eroi popolari. La loro capacità di spostare voti è ancora sconosciuta, ma potenzialmente enorme. Loro resistono ma cominciano a rendersi conto del nuovo ruolo. Evgenia Cirikova, 34 anni, bionda, abbigliamento sempre e ostentatamente "casual", continua a ripetere che la carriera politica non le interessa, ma tutte le volte che rievoca per giornali e tv la sua trasformazione in una bandiera della difesa della natura, finisce per evocare storie di speculazioni, arroganza del potere e connivenze che smuovono gli animi più di ogni intervento politico tradizionale. Tutto è cominciato con una piccola protesta davanti alla porta di casa, poi è diventata una campagna vera e propria con militanti spontanei, marce, raduni.
Ancora più pericoloso viene considerato Aleksej Navalnyj, 36 anni, che si definisce "combattente Internet" e che da tre anni almeno ha messo in crisi amministrazione pubblica e governo. Sul suo sito "Rospil" (un gioco di parole che si può tradurre come "Russiacorrotta") pubblica i dettagli di ogni ordinazione, commissione o finanziamenti pubblici e invita il suo pubblico a darsi da fare e indagare. Alcuni dati pubblicati sono scandalosi in sé come l´offerta di 150mila euro per disegnare un sito web ufficiale del teatro Bolshoj. Su altre arrivano prontamente segnalazioni che spiegano chi si è aggiudicato l´appalto e soprattutto come. Con una intuizione da quiz televisivo, Navalnyj mette in bella mostra sul sito la cifra del denaro speso dallo stato in maniera evidentemente illegale, una sorta di jackpot della corruzione. L´altro giorno l´indicatore segnava già 40 miliardi di euro.
Biondo, alto, espressione da duro, Navalnyj finge di non avere idee politiche: «Il mio è un mestiere come un altro. Denunciare la corruzione tira, funziona». Nel suo ufficio di via Letnikovskaja dove lavorano avvocati e giovani entusiasti militanti, cominciano ad arrivare anche finanziamenti spontanei. Da quando ha cominciato ad accettarli, in pochi mesi ha raccolto 125mila euro inviatigli da 10mila sostenitori. Incredibile per gli standard russi. Ma ancora più sorprendente è il successo personale. Almeno tre siti "Navalnyj for president" lo invitano a candidarsi alle presidenziali e lo gratificano di decine di migliaia di consensi. Un sondaggio attendibile ha dimostrato che, se la carica fosse elettiva, Navalnyj sarebbe da tempo sindaco di Mosca. Il partito liberale Parnas gli offre la candidatura a Procuratore generale. Lui risponde che l´idea di scendere in politica non lo sfiora, ma non esclude niente. Una vaghezza che suona come una minaccia.
Alla politica tradizionale stava invece per cedere un altro dei giovani rampanti del web, Evgenij Roizman impegnatissimo nella lotta alla tossicodipendenza, prima nella sua città a Ekaterinenburg, e poi a livello nazionale. Aveva accettato di partecipare alle politiche nel partito del miliardario Prokhorov poi liquidato da un complotto interno. Proprio Prokhorov che lo aveva scelto aveva spiegato, da vero scopritore di talenti, quale sia l´importanza dei giovani eroi del web: «Si occupano di un solo problema, ma mirano a risolverlo senza tanti fronzoli». E questo in una democrazia limitata è già sufficiente per molti.
Ivan Kurilla, docente di storia della società russa all´Università di Volgograd ci ha scritto un saggio che ha messo, manco a dirlo, su Internet. Dice: «È come se fossimo tornati agli Anni ´90, alla fine del comunismo, quando lo Stato abbandonò di colpo molte delle sue responsabilità. La gente capì la necessità di autoorganizzarsi. Fu il primo piccolo boom dell´attivismo spontaneo. Adesso che il governo si occupa solo di macroeconomia e di pochi privilegiati si sente il bisogno di fare tutto da soli».

Repubblica 27.9.11
Lo scrittore dissidente: "Il potere sta perdendo il suo monopolio"
Indignati di Mosca le nuove bollicine della democrazia
di Viktor Erofeev


La libertà concessa ai russi nella vita privata in cambio della loro fedeltà politica è stata l´asso nella manica di Putin in quest´ultimo decennio. Le regole del gioco non sono mai state esplicitamente dichiarate, eppure si sono diffuse nell´atmosfera della Russia conferendole un aroma particolare. Tutti coloro che avevano un buon fiuto sono stati pronti a sfruttare questa libertà per i propri fini personali. Chi si è costruito una villa con piscina, chi è diventato un settario, chi un playboy. Ognuno si divertiva a modo suo.
Sembrava che questo gioco non comportasse alcun pericolo per il potere. Eppure questa libertà nella vita privata, che i russi non si aspettavano, ha cominciato a produrre germogli inattesi. Ragionando con la propria testa, non soggetta al controllo dello Stato, la parte più attiva della società, invece di osannare il potere che le aveva concesso la libertà di spassarsela, ha cominciato ad avere idee indipendenti sui temi più disparati. È apparso subito chiaro che si trattava di un gioco rischioso per il Cremlino, ma il potere non ha saputo trovare nemmeno un´idea nazionale, nemmeno un´utopia che fosse adatta a coinvolgere la società.
Naturalmente il potere in questo caso ha preferito giocare la carta del patriottismo per indirizzare le idee dei russi nella direzione per esso più conveniente, ma invece del patriottismo è cresciuto il rovo di un aggressivo nazionalismo che ha finito per mettere in allarme lo stesso potere, che è sostanzialmente privo di un robusto scheletro ideologico. Del resto, il nazionalismo è solo la prima fase dell´autocoscienza nazionale in Russia. È ripugnante, ma fa il suo dovere – destabilizza il potere. La sua esplosione si è avuta nel dicembre 2010, quando i nazionalisti allevati e cresciuti dal potere si sono ribellati contro la sua ipocrisia sulla piazza del Maneggio, vicino al Cremlino, protestando contro l´assassinio di un tifoso di calcio originario del Caucaso.
Eppure la disperata sortita dei nazionalisti ha liberato dall´interno le forze del campo opposto, che erano rimaste fino ad allora sopite. Sulla superficie della vita russa sono affiorate nuove bollicine di democrazia dai colori affascinanti. La gente è stanca soprattutto di esser presa per idiota dal potere, che crede di poterle rifilare qualunque cosa, dalle affermazioni sulla libertà delle elezioni fino ai notiziari TV che ricordano la demagogia sovietica.
Le nuove bollicine di democrazia in Russia sono nate dagli attentati del potere al buon senso. È questo ciò che le accomuna. Il movimento dei "secchielli blu" a prima vista può sembrare semplicemente un movimento di automobilisti indignati per la prepotenza dei funzionari che sfrecciano al centro della carreggiata nelle loro limousine con il lampeggiante blu sul tetto. In realtà si tratta di una coraggiosa sfida a tutta la burocrazia satolla. Lo stesso vale per i guerrieri capeggiati da Evgenija Chirikova che difendono il bosco di Khimki nei pressi di Mosca, condannato all´abbattimento per costruire la nuova autostrada Mosca – San Pietroburgo. Un altro esempio di un´autorità dalla crescita spontanea è quello del blogger Aleksej Navalnyj, che ha scoperchiato il tema scottante della corruzione e del comportamento ambiguo che il potere tiene nel contrastarla.
Questi movimenti parrebbero agire con l´ingenuo pretesto della lotta contro un male concreto; ma nello scontro essi mettono a nudo il male in ogni cellula dell´organismo statale e si trasformano in generalizzazioni politiche. Lo stato per disfarsi di questi movimenti deve modificare la propria natura. Deve rinunciare alle sue pretese di democraticità e passare all´aperta intimidazione, deve pestare i piedi di continuo e ringhiare come una belva. Ma è già talmente indebolito dall´avidità e dalle menzogne dei suoi dignitari che non può rispondere a tono a un´opposizione spontanea. Il potere sa come affrontare l´opposizione estranea al sistema, con i suoi meeting – per quello c´è il manganello della polizia. Ma non ha ancora imparato a lottare contro gli amanti dei funghi e dei frutti di bosco, contro i blogger dall´indole romantica e contro tutti coloro la cui indignazione si diffonde nell´aria.
Il potere sta perdendo il suo monopolio non sulla piazza politica, ma nelle teste di molti cittadini russi. Le opinioni della gente spesso sono polarmente opposte, e il nazionalismo resta il movimento più affermato, ma il brusio della protesta si fa sentire in tutto in paese. Il risultato di tutto ciò è che la scelta di Putin di ricandidarsi al Cremlino è solo una scelta interna al circolo del potere e non porrà certo fine alle discussioni. Il Paese ha bisogno o di un nuovo Stalin che soffochi nel sangue ogni genere di idee, oppure della trasformazione di queste nuove bollicine politiche in una società civile a responsabilità illimitata verso le sorti della Russia. Ma per il momento non ci sono né Stalin, né una società civile. Pertanto, aspettando il domani, accogliamo con gioia ogni sorta di nuove bollicine.

Repubblica 27.9.11
L’anticipazione/ Il dialogo tra un sociologo e uno psichiatra
Anticipiamo parte del dialogo tra Borgna e Bonomi contenuto nel libro dal titolo "Elogio della depressione" (Einaudi)
Se la fragilità ci fa sentire più vivi
I due autori riconoscono la malinconia come un valore per l´esistenza
di Aldo Bonomi e Eugenio Borgna


Eugenio BORGNA: L´elogio della fragilità non significa l´elogio della sofferenza che fa parte della fragilità; ma l´elogio della fragilità vuole solo sottolineare, sia pure radicalizzando il mio discorso (ma se non si scende alla radice delle cose umane nulla, o quasi nulla, di esse si capisce), come nella fragilità, dimensione ineliminabile dalla vita, ci siano valori che danno un senso alla vita: alla vita di ciascuno di noi. L´essere consapevoli di questo, della fragilità come esperienza necessaria, significa accogliere, e rispettare, la fragilità degli altri; senza disconoscerla e senza ferirla. Ma significa anche che, nella fragilità, nella nostra e in quella degli altri, si abbia la percezione del valore della debolezza e della insicurezza che fanno parte della vita e che si contrappongono a ogni forma di onnipotenza e di violenza. Non è forse, questo, il pensiero di san Paolo quando, nella prima lettera ai Corinzi, dice che la debolezza è la nostra forza?
ALDO BONOMI: Mi pare che oggi riusciamo a leggere la fragilità diffusa solo attraverso il potente circuito paura-rancore, mentre ci piacerebbe che essa esprimesse la sua potenza in forme sociali che richiamassero a valori quali la fraternité, la solidarietà, la mutualità, e così via. Ma il discorso pubblico che lavora meglio in questa fase, è quello che letteralmente "lavora" sulla potenza primordiale delle emozioni. L´economia è una sofisticatissima macchina che produce, distribuisce e si autoregola attraverso il management delle emozioni (capitalismo delle emozioni), mentre la forma assunta dalla politica è essenzialmente governo del consenso emotivo (essenza dei populismi).
La fragilità diventa quindi un campo dell´esistenza umana, della vita nuda, che viene trattata in quanto serbatoio emotivo dal quale estrarre valore economico e politico. Quando parlo di psicotizzazione, seguendo l´approccio foucaultiano al disvelamento dei codici attraverso i quali si esercita la disciplina sociale, mi riferisco a questa intima e immediata connessione emotiva tra la personalità dei singoli individui e le dinamiche collettive che regolano la vita economica e politica. Credo che stia qui l´origine di alcuni potenti cortocircuiti come quello che ci porta a pensare di fare inclusione sociale solo con il mercato, oppure di trasformazione dell´arena politica in uno scontro di istanze pre-politiche di cui la fragilità è uno dei giacimenti di materia prima più infiammabile. Dal mio punto di vista ho analizzato le fenomenologie incendiarie della fragilità che diventa rancore e deriva securitaria: quella, per dirla con le parole di Dostoevskij, che tende a rinchiudere il proprio vicino per convincersi del proprio buonsenso. Mi sembra invece che tu abbia tematizzato soprattutto la questione dell´indifferenza che reclude l´individuo in uno spazio mentale sempre più costretto. In questo contesto qual è il significato di quella che chiami «comunità di destino»?
BORGNA: Sì, l´indifferenza è davvero la malattia più crudele e inesorabile della vita psichica, e in essa siamo prigionieri di un deserto della speranza che non consente alcuna reale comunicazione, alcuna sincera relazione, con il mondo delle persone e delle cose. Nella indifferenza siamo immersi in una solitudine arida e pietrificata, che nulla ha a che fare con la solitudine interiore, con la solitudine creatrice, e che diviene isolamento. Nell´isolamento diveniamo monadi senza porte e senza finestre: negati a qualsiasi slancio altruistico, e solo incentrati sui ghiacciai di un individualismo implacabile, e dilagante. Nella indifferenza si inaridisce, e si spegne, ogni possibile comunità di destino che è invece la cifra tematica, la immagine, la metafora palpitante e viva, di una condizione di vita che rende la vita degna di essere vissuta anche nel dolore e nella sofferenza, nell´angoscia e nella disperazione.
Avviandomi a una preliminare definizione di comunità di destino non potrei se non dire che in essa si vuole tematizzare una visione del mondo, una Weltanschauung, nella quale si esca dalla nostra individualità, dai confini del nostro egoismo, e non si riviva il dolore, la sofferenza altrui, come qualcosa che non ci interessi, come qualcosa che non ci appartenga, come qualcosa che nemmeno sfiori la nostra ragione di vita, ma invece, e sinceramente, come qualcosa che ferisca anche noi: come qualcosa, cioè, che non ci sia estraneo, o indifferente, e nel quale si sia tutti implicati. Insomma, si forma una comunità di destino, una comunità solo visibile agli occhi del cuore, quando ciascuno di noi sappia sentire, e vivere, il destino di dolore, di angoscia, di sofferenza, di disperazione, di gioia e di speranza, dell´altro come se fosse, almeno in parte, anche il nostro destino: il destino di ciascuno di noi. (...)
BONOMI: La tua espressione per cui la comunità di destino è una comunità visibile solo agli occhi del cuore mi intriga perché va oltre il mio ragionare di comunità di cura. Mi stai dicendo che ognuno di noi prima di sentire una tensione collettiva verso la comunità di cura, la comunità operosa o la comunità del rancore, dovrebbe interrogarsi se nelle sue relazioni quotidiane (professionali, familiari, nella scuola, ecc.) sente dentro di sé la condivisione di un destino nella fragilità dell´altro. Mi pare che parlare di destino comune sia affascinante quanto inquietante.

il Riformista 27.9.11
Il segreto dei conservatori? Risiede nella psiche umana
di Edoardo Petti

qui
http://www.scribd.com/doc/66504190

Repubblica 27.9.11
Ebbene sì, la terra è rotonda
Perché non tutte le teorie sono equivalenti
Non sempre è decisivo il contesto culturale: i cinesi hanno accettato Eratostene
Lo studioso interviene nel dibattito e spiega il punto di vista della scienza: non si possono costruire dei modelli indipendenti dalla realtà
di Carlo Rovelli


Il Zhou Bi Suan Jing (il "Classico dell´Aritmetica") è uno dei più antichi testi di matematica cinesi, completato intorno al III secolo a. C. Il libro discute, tra l´altro, della variazione dell´altezza del sole andando verso sud (a Palermo il sole è più alto nel cielo che a Milano). Basandosi sull´idea che la Terra sia piatta, lo Zhou Bi Suan Jing calcola che il Sole sia a circa 10.000 "li" sopra alla nostra testa: poche migliaia di chilometri. Più o meno nello stesso periodo, in Egitto, il direttore della Biblioteca di Alessandria, Eratostene, utilizza la stessa misura, ma si basa sull´idea che la Terra sia una sfera, e conclude che il Sole è lontanissimo e il perimetro del nostro pianeta è 252.000 "stadi", cioè 40.000 chilometri: la dimensione della Terra riportata oggi negli atlanti. Il contesto culturale della Cina della dinastia Han è molto diverso da quello del Mediterraneo Ellenistico, e culture diverse danno interpretazioni diverse della stessa osservazione. L´occidente continuerà a immaginare la Terra come una sfera (pensate a Dante), e il Sole molto lontano e grande; mentre la Cina continuerà a pensare che il Sole sia una pallina, e la Terra sia piatta.
Eratostene e lo Zhou Bi Suan Jing hanno egualmente ragione, ciascuno all´interno del proprio contesto culturale? Oppure Eratostene è più vicino alla realtà? Per usare la bellissima domanda con cui Gianni Vattimo chiude il suo dialogo con Maurizio Ferraris su Repubblica: dando ragione ad Eratostene, «credi davvero di parlare from nowhere?», di accedere alla realtà, parlando da un luogo fuori da ogni contesto culturale? Se diciamo che Eratostene ha ragione, non stiamo forse esprimendo nient´altro che assunzioni arbitrarie del nostro contesto culturale? Vattimo e Ferraris ripropongono, in versione un po´ italiana, una vasta questione che ha interessato la filosofia europea ed americana, la cui eco era giunta al pubblico italiano nel "dibattito fra Analitici e Continentali" lanciato diversi anni fa da Armando Massarenti. È difendibile il realismo, messo in discussione da Vattimo e difeso da Ferraris, cioè la tesi che cose e proprietà esistano indipendentemente dalle convinzioni, dagli schemi concettuali, o dal contesto culturale?
Torniamo in Cina. Verso la fine del 1500 arrivano in Cina i gesuiti, guidati da Matteo Ricci, colto astronomo. Quando i gesuiti vengono a conoscenza delle idee dell´Istituto Imperiale di Astronomia, sorridono. Quando i Cinesi ascoltano dai gesuiti le idee astronomiche occidentali, in brevissimo tempo rinunciano al proprio punto di vista, e adottano la prospettiva occidentale. Si badi, erano tempi politicamente non sospetti: l´esercito del Celeste Impero avrebbe spazzato via facilmente qualunque armata europea. Non è certo stata la forza politica a convincere i Cinesi che l´"interpretazione" occidentale fosse migliore. Cos´è stato?
L´osservazione che i valori del vero e del falso sono intimamente influenzati dal contesto culturale è profonda ed intelligente. Parliamo dall´interno di sistemi di credenze, più o meno coerenti. Ma da questo non segue che non si possano mettere a confronto idee diverse, confrontarle, scegliere fra queste e imparare qualcosa "sulla realtà". Soprattutto non segue che la scelta sia solo questione di rapporti di potere o fattori irrazionali. La scelta può essere, anzi, il più delle volte effettivamente è determinata da un serio uso della ragione critica, che ci aiuta a vedere quale fra due alternative sia migliore: più coerente, più efficace e più confortata dai fatti.
Il motivo è che i nostri sistemi di pensiero non sono chiusi in sé stessi. Sono strutturalmente rivolti all´esterno e in continuo dialogo e scambio. Il nostro pensiero è pensiero sulla realtà, ed è in relazione costante sia con fatti inaspettati, con "la realtà, dura e irriducibile, che ci fa cambiare idea", sia con idee diverse. In questo confronto cresce, si modifica, e apprende. Il dialogo, se è sereno, può arrivare a mostrare chi ha ragione e chi ha torto. L´intera storia della scienza, antica e moderna, è una lunga dimostrazione dell´efficacia della ragione: i dibattiti sono feroci, ma prima o poi si arriva a comprendere chi ha ragione e chi ha torto. La Terra è rotonda, non è piatta.
Ragione e torto dal punto di vista di chi? Dal punto di vista from nowhere? No, dal punto di vista degli stessi dialoganti. Il confronto con opinioni diverse e con i fatti esterni conforta una posizione e ne indebolisce un´altra, per quanto la «realtà dei fatti» sia filtrata dalle interpretazioni. Per quanto si voglia interpretare la Terra come piatta, arriva comunque il giorno in cui fare i conti con la nave di Ferdinando Magellano, partita verso occidente e tornata da oriente. Impariamo qualcosa sulla realtà.
L´Italia, ha una difficoltà particolare ad accettare l´idea che si possa dialogare serenamente, cambiare idea ascoltando altri, e arrivare a trovare insieme una convinzione più fondata o una soluzione migliore. Manchiamo di una tradizione di democrazia, dove questo modo di mettersi a confronto abbia avuto tempo di affinarsi. Siamo abituati a lasciar decidere dominatori stranieri, principi, vescovi, o capi carismatici, invece che cercare soluzioni ragionevoli discutendo. Ci facciamo forti di alleanze e reti di amici, piuttosto che di argomenti convincenti. Siamo l´unico paese del mondo in cui nei dibattiti televisivi si toglie la parola all´altro; in ogni altro paese, chi interrompe è giudicato poco credibile dal pubblico: vuol dire che non ha buoni argomenti. Condividiamo con l´Iran il dubbio primato di essere i paesi che si fanno più influenzare da una potente casta sacerdotale. Io ho simpatia per il ribellismo irriducibile di Gianni Vattimo e la sua voglia di cambiamento. Ma dalla democrazia di Atene alla rivoluzione francese, un´arma di cui l´umanità dispone per difendersi dalla concentrazione del potere, come dalla dittatura mediatica, è la ragione.
Credo che l´equivoco di fondo sia confondere conoscenza e certezza. L´umanità vorrebbe un´àncora alla quale aggrappare certezze. Per il pensiero antico poteva essere la fiducia in negli dèi, un Sacro Testo, gli Ayatollah, o il Santo Padre. All´inizio del mondo moderno i limiti della Tradizione diventano palesi e la certezza è cercata nell´esperienza o nella ragione astratta. Nel XIX secolo sembra che la Scienza possa fornire risposte certe, prima di scoprire che perfino le efficacissime teorie di Newton sono poi messe in dubbio da Einstein. Abbiamo imparato che non esistono garanzie su cui fondare certezze. Ma questo non toglie che possiamo riconoscere le soluzioni più ragionevoli e il sapere più credibile. Possiamo ragionevolmente conoscere la realtà indipendente da noi. L´irriducibilità dell´esperienza e l´accordo a cui arriviamo sono le nostre garanzie, imperfette ma sufficienti, che stiamo parlando di una realtà indipendente da noi. Tra chi predica che la Verità è Unica, Assoluta (e lui ne è depositario), e chi sostiene che non c´è criterio generale per scegliere fra le opinioni, esiste una terza strada: quella della discussione e della ragione.
La Cina di oggi sta lentamente avviandosi a tornare quella che è stata per la maggior parte dei cinquanta secoli di civiltà umana: la più grande potenza del pianeta. Non sappiamo se ci riuscirà, né che idee porterà. Ma certo tra queste non ci sarà l´idea che il sole sia a 10.000 "li" e la Terra sia piatta. Perché? Semplicemente perché nonostante le differenze iniziali, grazie al dialogo e al confronto sereno fra interpretazioni diverse, abbiamo trovato ottime ragioni per credere che la Terra sia "realmente" rotonda.

il Fatto 27.9.11
Il Corriere senza i baci di Alberoni
di Silvia Truzzi


che ospita la sua rubrica del lunedì dal lontanissimo 1973 (con una parentesi a Repubblica). Ieri l’articolo di saluto è stato il più visitato del sito del Corriere e i commenti facevano più o meno tutti così: “Maestro, ci consoleremo con i baci Perugina, dove all'interno è possibile ritrovare il condensato del suo ‘pensiero’”. Basta scorrere i titoli dei suoi articoli per rendersi conto di quanto fosse invecchiata e ripetitiva la rubrica: “L'elasticità che serve per essere un buon capo, chi guida un'impresa deve saper fare gioco di squadra”.
 OPPURE: “Basta poco per scordare il bene e trasformare l'amore in odio: i divorziati cancellano i periodi felici per ricordare solo i torti”. E ancora: “Il sogno del buon cittadino: una vita ordinata e solidale”. Ode alla banalità, lo hanno detto in molti, ribadirlo è superfluo e soprattutto rischia di far cadere il critico nello stesso errore dell’oggetto della critica: l’ovvietà. Ha scritto il sociologo nel suo addio al Corriere: “Non ho mai attaccato o deriso nessuno, ho sempre cercato di capire le ragioni del comportamento umano convinto che, quando conosciamo noi stessi, possiamo cambiare o migliorare”. Affermazione che ha una doppia lettura: non ha mai dato fastidio a nessuno. Di solito gli scomodi non finiscono nel cda Rai o alla presidenza di Cinecittà, né sulla soglia degli 80 anni alla guida del Centro sperimentale di cinematografia. La seconda lettura invece rivela uno sguardo non arrogante nei confronti delle persone. I suoi best-seller (tra i molti, Innamoramento e amore del 1979) sono stati tradotti praticamente in tutto il mondo: di questo – entusiasti o detrattori – è giusto prendere atto, senza puzza al naso. “Pubblico e privato”, a quasi quarant’anni di distanza, sono categorie radicalmente mutate. Soprattutto si è trasformato il loro rapporto reciproco. Parlare di erotismo e amore non è più socialmente significativo, tanto-meno rivoluzionario.
 CERTO NON sostenendo che “femmine e maschi cercano di comportarsi come se fossero uguali mentre invece, sul piano erotico, sono diversissimi” (Pubblico e privato, 19 settembre scorso). Oggi, questo titolo, si presterebbe a ben più interessanti riflessioni, visto il continuo sconfinamento – è l’esempio più lampante – di una politica sempre più spregiudicata che ha smarrito completamente l’idea della res pubblica. Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, in calce al saluto di Alberoni, ha lasciato uno stringato ringraziamento: “Caro Franco, grazie per tutti questi, straordinari, anni e auguri per i tuoi nuovi impegni”. Normale scadenza contrattuale di un rapporto ormai logorato. Già un paio d’anni fa si parlava dell’addio di Alberoni e diversi direttori (molti tra i ringraziati dal professore) hanno cercato di staccare la spina. Ma Rcs ha anche una divisione libri, e perdere uno degli autori più venduti avrebbe causato un danno. Così, tra una trattativa e l’altra (per Rizzoli pubblica anche la moglie, Rosa Giannetta), Alberoni è arrivato fin qui. I prossimi impegni cui accenna il non affranto De Bortoli sono quasi certamente Il Giornale di Berlusconi (si dice abbia già firmato per una rubrica). Parabola strana (avrà chiesto consiglio a Forattini?) per uno che nel 1968 ha fondato la Facoltà di Sociologia a Trento e si potrebbe serenamente concedere, all’alba degli 82 anni, di uscire di scena con eleganza. L’età è una spia, specie nel paese dei giovani fino a cinquant’anni. Più di questo però, vale l’incapacità di dire qualcosa di nuovo.

Repubblica 27.9.11
"Salviamo l´asilo perfetto" la gara di Reggio Emilia per restare in cima al mondo
Pochi fondi, via all´azionariato popolare. Appello a mamme, nonni ed ex alunni
Nidi e materne sono un esempio imitato in tutto il pianeta, dagli Stati Uniti alla Cina
di Maria Novella De Luca


«Il bambino ha cento lingue, ma gliene rubano novantanove... Ha cento mani, cento pensieri, cento modi di stupire, di amare... e poi cento, sempre cento». Così scriveva negli anni Ottanta il pedagogista Loris Malaguzzi, ispiratore e fondatore dei famosi asili di Reggio Emilia.
ASILI considerati fino a ieri tra le scuole più belle del mondo, ma che oggi nell´assedio feroce di tagli e di riduzioni agli enti locali, rischiano una veloce erosione di qualità ed eccellenza. E per salvare questo esperimento educativo unico in Italia, la grande rete degli asili chiede aiuto, lanciando una fondazione a cui chiunque potrà partecipare, una sorta di "azionariato popolare" che chiama all´appello ex bambini e genitori, nonni ed insegnanti, cuoche ed ex cuoche, partner famosi e semplici cittadini.
E bisogna entrare in un asilo comunale di Reggio Emilia, in questi spazi ariosi e luminosi fatti di legno e colore, di vetri e leggerezza, immersi tra le piante, i disegni, i giochi d´acqua e di ombre, l´odore di buon cibo e gli arredi che ricordano le onde del mare o gli oblò delle navi, per capire e vedere i "cento linguaggi" di cui sono fatti i bambini, così come li descriveva Loris Malaguzzi. Un pensiero educativo forte e radicato a cui si ispirano oggi ottanta servizi frequentati da quasi settemila alunni, che fanno di Reggio Emilia la città italiana con il più alto tasso di scolarizzazione dai zero ai sei anni, e che nel 1991 portò Newsweek ad inserire gli asili emiliani nella lista delle scuole più belle del pianeta. Adesso però, dopo 40 anni in cui il "Reggio approach" è stato esportato e adottato in centinaia di scuole, dagli Stati Uniti alla Cina, la grande rete degli asili e dei nidi rischia di dover dimezzare orari, personale, materiali, strutture. «Tra due giorni - spiega Claudia Giudici, presidente dell´Istituzione scuole e nidi d´infanzia del Comune di Reggio - nascerà la "Fondazione internazionale Reggio Children Centro Loris Malaguzzi", che servirà proprio a raccogliere fondi per mantenere alta la qualità pedagogica delle nostra scuole, e il funzionamento stesso degli asili. Perché il taglio di risorse è ormai drammatico, da noi come nel resto d´Italia, nonostante il Comune destini gran parte delle risorse ai servizi educativi, e basta pensare che se quattro anni fa per la manutenzione delle strutture avevamo a disposizione 800mila euro, quest´anno per 80 asili i fondi sono stati soltanto di 130mila euro». Una specie di grande sottoscrizione popolare, di micro e grandi donazioni. Tra i soci fondatori, oltre ai network internazionali, il Gruppo Feltrinelli, da sempre vicino all´esperienza degli asili di Reggio ed editore di Howard Gardner, psicologo di Harvard e grande sostenitore della filosofia di Loris Malaguzzi.
Nella "piazza" della scuola dell´infanzia e primaria del "Centro internazionale Malaguzzi", una struttura avveniristica inaugurata nel 2009 e ricavata dentro gli ex magazzini Locatelli, i bambini, tra cui tanti piccoli immigrati ghanesi e cinesi, lavorano in piccoli gruppi, assemblano oggetti, inventano, sperimentano forme sui tavoli luminosi. Le maestre li osservano discretamente, prendono appunti, ogni tanto consigliano. Altri bambini invece passano negli "atelier", dove una figura ad hoc, l´atelierista, li guida in ambienti in cui si crea con le piante, l´argilla, le pietre e i travestimenti, i computer, la fotografia, tra specchi e riflessi dove i bambini, proprio come Alice nel paese delle meraviglie cercano di scoprire se stessi, rispondendo alla domanda «Chi sono dunque io? Ditemi questo prima di tutto... «. «In ognuno dei nostri asili - racconta Maddalena Tedeschi, pedagogista, una lunghissima esperienza nei nidi del "Reggio approach" - è presente uno spazio centrale che noi chiamiamo "piazza". Il bambino infatti, così pensava Loris Malaguzzi, è un cittadino dotato di diritti e saperi, che deve essere ascoltato, e può scegliere da solo cosa fare e come muoversi nello spazio, uno spazio simile ad un acquario, con grandi oblò che rendono i muri trasparenti, dove tutto diventa esperienza. Dalla lettura di una favola al cibo, dalla sperimentazione della luce ai giochi che si fanno lavandosi le mani, in vasche pensate proprio per divertirsi con l´acqua, alla torta preparata in cucina con le cuoche. E i bambini non vorrebbero mai andare via... «.

La Stampa 27.9.11
Derrick De Kerckhove
Nell’era di Facebook siamo tutti Pinocchio
Internet è il mezzo «Così direbbe il mio maestro McLuhan: già nel ’61 aveva previsto gli sviluppi del Web»
Parla il massmediologo canadese, guru dei nuovi media: “Oggi il burattino di Collodi è la macchina che mente sulla nostra condizione e alla fine chiede di tornare umana”
di Anna Masera


Derrick De Kerckhove, 67 anni, è autore di diversi saggi fra cui in italiano La pelle della cultura: un’indagine sulla nuova realtà elettronica (Costa & Nolan)

In Italia è conosciuto come l’erede di Marshall McLuhan, di cui è stato allievo e poi assistente per oltre 10 anni. Tra l’83 e il 2008 è stato direttore del programma McLuhan in cultura e tecnologia all’Università di Toronto. È pure canadese (naturalizzato) come il celebre massmediologo, di cui quest’anno si è festeggiato il centenario. Ma Derrick De Kerckhove, 67 anni portati con allegria, occhi azzurri sotto una massa di capelli argentei ribelli e fisico dinoccolato, di canadese si riconosce solo lo sguardo critico verso gli Usa, l’ingombrante superpotenza vicina di casa. Nato in Belgio, vive tra Nizza, Barcellona e Napoli, dove insegna sociologia. Parla almeno quattro lingue con disinvoltura, tanto che a volte le lingue si mischiano e, per dirla con McLuhan, il mezzo diventa il messaggio. Non sembra un problema per i suoi studenti, che lo considerano un guru. Lo abbiamo incontrato agli Stati Generali della Cultura Popolare in corso in questi giorni a Torino (oggi la chiusura).
«Il mezzo è il messaggio» è un’espressione che ha ancora senso?
«Già nel 1961, quando Internet era un sogno, McLuhan parlava di un nuovo medium che “non sarebbe stato contenuto nella tv, ma l’avrebbe contenuta in sé, avrebbe reso obsoleta l’organizzazione delle biblioteche e sviluppato in ciascuno il potenziale enciclopedico”. Basta pensare al Web di oggi, con YouTube e Wikipedia, per capire che McLuhan aveva previsto tutto. Oggi direbbe “Internet è il mezzo”».
Come cambia l’oralità ai tempi del Web?
«Il linguaggio della scrittura finché non è diventato elettronico era silenzioso, interiore. Oggi siamo produttori della nostra oralità, che è pubblica perché condivisa in Rete alla velocità della luce con un linguaggio allo stesso tempo interiore ed esteriore. Internet aiuta a recuperare tutto e rende le librerie obsolete: è cambiata per sempre l’organizzazione del sapere. McLuhan aveva previsto uno strumento come Wikipedia, che recupera il nostro potenziale enciclopedico, e persino lo spionaggio trasparente di Wikileaks, che non permette più ai potenti di tenere le masse all’oscuro. È un’oralità che avviene per lo più con lo smartphone, che può diventare una banca dati enorme sempre a disposizione. McLuhan diceva che quando sei al telefono non hai più il corpo: secondo me in realtà rende possibile la clonazione virtuale di noi stessi, non a caso quando parliamo al telefono gesticoliamo come se la persona con cui parliamo fosse davvero davanti a noi. E la socializzazione, lo scambio di informazioni che avviene sui social network, è potente: dopo tanti tentativi di rivolta, in Egitto la prima ad andare in porto è stata quella nata su Twitter, un sistema nato per registrare brevi chiacchiere (“twit” in inglese significa “scemo”) che si è trasformato in un modo per mandare via “gli scemi al potere”».
Come aveva profetizzato McLuhan, siamo nell’era del «villaggio globale». Ma l’abilità tecnologica del cittadino medio per districarvisi è piuttosto scarsa. Qual è il rischio di non alfabetizzarsi nel nuovo mondo digitale?
«C’è il rischio di impigrirci, delegando le nostre decisioni a strumenti sempre più complessi, che usiamo senza sapere come siano fatti. Oggetti come l’iPad a molti appaiono magici. Presi nel vortice di computer e social network, noi siamo dei Pinocchio 2.0».
In che senso?
«In senso antropologico: Pinocchio è il superamento dell’uomo sulla macchina, nasce come risultato della meccanizzazione del gesto umano, è la macchina che mente sulla nostra condizione e alla fine chiede di tornare umana. Ai tempi di Carlo Collodi, molti lasciavano la Toscana per andare a lavorare nelle fabbriche del Nord Italia. Lì si disumanizzavano e quando ritornavano a casa (Pinocchio che entra nel ventre della balena, grande madre metaforica) non sapevano più chi erano. Ma Pinocchio lì dentro smette di essere macchina e ne esce per diventare uomo in carne e ossa. Nel mondo digitale cosiddetto 2.0 di oggi, dove il nostro Sé esiste solo in connessione a tutti gli altri, la problematica di Pinocchio si è moltiplicata».
Tanto che il protagonista di Avatar , il film di James Cameron, sceglie invece di restare virtuale, preferisce il mondo delle macchine a quello umano...
«È l’altra faccia della medaglia. Con la tecnologia 3D si possono ottenere meravigliose ricostruzioni di Pompei, ma questo non ci esime dal recuperare la Pompei storica. Anche se presto avremo doppi digitali, i rapporti umani in carne e ossa non diventeranno obsoleti. Non stanchiamoci di coltivarli».
Come vede l’Italia, nel villaggio globale?
«L’Italia è in coda all’Europa per l’accesso alla Rete per volontà politica. Il vostro premier sa bene che il popolo si controlla con i media: controlla gli italiani con la televisione, riducendo l’importanza di Internet».
Crede che arriverà anche una primavera italiana, almeno per quello che concerne la cultura digitale?
«Sì, i segnali ci sono tutti, ma sarà una battaglia fra generazioni. In Italia manca la consapevolezza dell’esistenza di una cultura popolare - “pop” - condivisa che è oggi più vicina al Web, piuttosto che al patrimonio classico».
Viviamo in un mondo senza più privacy, all’insegna della trasparenza totale, ma anche dell’invasione della sfera privata. È necessario rifondare una Carta dei diritti dell’uomo?
«Sì. Un sistema di connessione globale ha anche i suoi rischi. Siamo sempre reperibili, quindi schedati e controllati. McLuhan diceva che l’elettricità, come l’alfabetizzazione, rivela tutto ciò che è nascosto».
È un bene o un male?
«Non abbiamo scelta, non si può tornare indietro, bisogna prenderne atto e attrezzarsi per questo Brave New World ».
Come si pone personalmente di fronte all’utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione?
«Uso l’iPhone, Facebook e il mio bigliettino da visita contiene il codice QR per la realtà aumentata. Ma la sera preferisco avere in mano un libro anziché un ebook».

Repubblica 27.9.11
"Io vivo nel futuro", il saggio del guru di Internet Nick Bilton
Quando Twitter diventa la preghiera del mattino
di Riccardo Staglianò


Nell´avvenire, prossimamente sui nostri vari schermi, conterà sempre più l´esperienza personalizzata: i giornali saranno a nostra immagine e somiglianza

l messaggio è il messaggio. Il medium non conta niente. L´unica differenza, ormai, la fanno lunghezza e larghezza. Del "contenuto" e dello schermo. Altrimenti testi, audio, video sono tutti, indifferentemente, dati. Goodbye Marshall McLuhan, hello Nick Bilton. In un´ipotetica scala di entusiasmo nei confronti delle rivoluzioni digitale, da uno a cento il giornalista del New York Times e professore alla New York University si colloca in zona novantanove. Nel suo Io vivo nel futuro (Codice Edizioni, pagg. 217, euro 23) argomenta senza riserve sul perché oggi è meglio di ieri e il domani sarà ancora più luminoso. A chi, ancora, accosta il web alle sette piaghe d´Egitto della cultura, rammenta che le stesse immotivate paure avevano attanagliato le società alla vigilia di altre discontinuità, dalla locomotiva al telefono. Liquida i tecnoscettici («perlopiù assurdità»), su tutti Nicholas Carr che in un libro si interroga se Internet stia cambiando la pasta cognitiva di cui siamo fatti. Ingaggia un corpo a corpo con un giornalista del New Yorker reo di aver sostenuto che il magma di Twitter assomiglia più all´inferno che al paradiso dell´informazione. Pensare che lui, Bilton, l´ha hegelianamente promosso a "preghiera del mattino dell´uomo moderno": «La quantità di informazioni che scorreva sul mio schermo era assolutamente esagerata e, spesso, ridondante. Ora vado su Twitter; lì trovo il meglio di chiunque scelga di seguire».
E qui, con tutto l´ottimismo della ragione telematica, non riesco davvero ad andargli dietro. Perché se c´è un posto dove si celebra l´apoteosi della ridondanza è proprio il servizio di microblogging. Se l´autore però ci sguazza senza affogare è perché vive i social network come «comunità àncora», ovvero luoghi dove le scelte collettive dei membri, «l´intelligenza dello sciame» teorizzata dallo studioso Gerardo Beni, lo aiutano a scremare (a proposito: si impara anche che l´opposto di "nativi digitali" è "immigrati digitali", e che la dicotomia è di Marc Prensky). Bilton si fida più dell´indistinta nebulosa dei suoi simili piuttosto che dei colleghi giornalisti. Ricorda che, dal 1985 al 2009, la fiducia degli americani nell´accuratezza delle notizie è precipitata dal 55 al 29%. E indica, nella socializzazione della loro selezione, un possibile antidoto. Il suo ragionamento, come ogni buon guru che si rispetti, è corroborato da una serie di slogan, immagini e neologismi. Convincenti nella sostanza, meno nella forma. Distingue tra «byte, snack e pasti», ma semanticamente il primo termine è un intruso. «Sul mio cellulare» spiega «ora leggo libri, articoli, guardo film e navigo». Ex-oggetti diversi che differiscono ormai solo per le dimensioni. E ancora tra «30, 60, 3», le tre taglie della fruizione. Lo smartphone si tiene a 30 centimetri dagli occhi. Il portatile a 60. La tv a tre metri. Battezza la categoria dei «consumivori», che oltre a consumare creano i contenuti, dimenticandosi però che l´aveva già fatto Alvin Toffler nel 1980. Con il vantaggio che «prosumer» si capiva al volo (producer più consumer), mentre l´alternativa biltoniana suona come un pleonasmo. Al netto di queste sbavature, il futuro che immagina è verosimile. A contare sarà sempre più l´esperienza personalizzata. Un giornale online, con la complicità di telefonini intelligenti, potrà servirci notizie diverse a seconda che sappia dove ci troviamo o che è l´ora di pranzo. Per onestà, era già stato previsto. Alla fine degli anni ´90 da Walter Bender del Media Lab di Boston. Adesso però ci siamo più vicini. «Ora il mondo digitale segue voi, non il contrario» assicura il nostro, «e se siete un´azienda che si occupa di media potete tranquillamente eliminare la seconda sillaba della parola. Esiste solo il "me"». Forse, ma non sono sicuro che ci sia da festeggiare. I daily me, i giornali a nostra immagine e somiglianza, rischiano di diventare finestre egocentriche sul mondo. Se, come società, abbiamo ancora argomenti comuni di conversazione lo dobbiamo anche al fattore serendipity di cui i quotidiani sono portatori sani.

Repubblica Salute 27.9.11
Sesso perfetto
Ansie addio, è la rivincita della coppia
di Roberta Giommi


In controtendenza rispetto alle mode trasgressive: fare l´amore non è solo atto fisico Ci vuole testa e cuore
Consapevoli, informati, più attenti al rapporto a due, meno paure e tabù: due recenti ricerche raccontano il nuovo rapporto tra gli italiani, le italiane e il sesso

Il maschio ha assunto nella ricerca sessuologica un ruolo centrale: ci si occupa molto di lui soprattutto dal punto di vista delle disfunzioni, della salute sessuale, delle ansie di cui è portatore. Ma sta aumentando anche l´attenzione alla coppia, alla relazione maschio/femmina, a quello che in età diverse rappresenta lo stile di relazione sessuale. E se da più di 10 anni vediamo sempre più una forte consultazione di coppia, è la donna più facilmente il motore della consultazione. Le coppie giovani chiedono aiuto poco tempo dopo la comparsa dei sintomi sessuali, sia maschili che femminili.
Due ricerche svolte da Astra Ricerche per Eli Lilly su "Gli italiani, i rapporti sessuali e la disfunzione erettile" confermano che sono passati alcuni messaggi che fanno parte della consulenza e della terapia sessuale di coppia. Su un campione di italiani, età 30-60 anni, in cui uomini e donne rispondono sulle condizioni che ritengono più valide e soddisfacenti per fare l´amore, troviamo l´80% che considera importante l´assenza di ansia (era il 58% due anni fa), il 62% che parla del valore della spontaneità, il 58% della passione, il 52% del bello di non avere fretta. Queste informazioni corrispondono al modello di intervento dei sessuologi che chiedono alla coppia di trovare il tempo per fare l´amore e di esprimere amicizia nell´affrontare la relazione e la sessualità. Mentre nelle risposte al questionario si nota una controtendenza rispetto al messaggio di sesso trasgressivo che sembra così diffuso: gli intervistati (sia nel 2011 che nel 2009) hanno risposto che la coppia è più felice quando l´amore non è solo un atto fisico, ma permette di dare e ricevere piacere, di condividere la scelta, di coinvolgere la testa e il cuore. Questo dato fa pensare che 30 anni di educazione alla sessualità e alla relazione abbiano prodotto un risultato anche nella condivisione di contenuti tra maschi e femmine.
Nella consultazione di coppia usiamo interviste strutturate per indagare il piacere, il fastidio, il dolore e la valutazione di cosa viene ritenuto giusto o sbagliato, per poter poi intervenire nella ricomposizione di una sessualità piacevole e condivisa. Ed è interessante notare come in questa ricerca gli atteggiamenti e le valutazioni del sesso come «schifo», «ribrezzo», «stanchezza» vanno dall´1% al 3% mentre prevalgono le valutazioni positive. Ancora più interessante è il dato in cui emerge che sono componenti importanti per il benessere sessuale «gioia», «felicità», «allegria», «buon umore», «curiosità» e «attenzione». Compare anche un altro dato molto interessante: gli intervistati pensano nel 58% dei casi che i problemi possono avere una componente psicologica. Anche nella consultazione sessuologica, successiva o precedente alla consultazione medica, si sta affermando l´idea che è importante parlare con un esperto in problemi di coppia e di sesso. Alcuni strumenti importanti per la soluzione dei problemi della sessualità richiedono infatti la conoscenza delle tecniche relazionali di coppia e cognitivo comportamentali per leggere il significato del sintomo, elaborare le resistenze, dare le prescrizioni. La capacità di leggere la coppia come risorsa può portare ad un risultato molto forte dell´intervento e ad un uso complice del farmaco se necessario.
* Sessuologa Irf, Firenze

Repubblica Salute 27.9.11
Il 95% conosce il disturbo, l´87% anche l´effetto dei farmaci I consigli dell´esperto per una corretta diagnosi e una terapia efficace
Se finalmente il maschio sa cos´è la disfunzione erettile
di Aldo Franco De Rose


Il 95% degli italiani conosce il deficit erettile (DE), mentre all´87% dei maschi è noto l´effetto benefico delle famose "pillole dell´amore". A differenza del passato sembra quindi che la De non sia vissuta più come un tabù, ma viene considerata come un disturbo risolvibile, anche se da considerare un problema di salute. Spesso, infatti, la disfunzione erettile dipende da alterazioni organiche che riguardano le arterie mentre nel 77% rappresenta una spia di temibili malattie (ipertensione, ictus, diabete, infarto). Attenzione dunque alle cattive abitudine come fumo, alcolici, droghe e sedentarietà ma anche alle stesse terapie farmacologiche con psicofarmaci, ormoni, antipertensivi, antiulcera e recentemente alla finasteride, utilizzata da molti giovani contro la caduta dei capelli: nel 25% dei casi questi farmaci possono essere responsabili del deficit erettile. Quando invece alla De si associa il calo del desiderio allora bisogna ipotizzare una riduzione dei livelli di testosterone (ipogonadismo) o un aumento della prolattina.
Infine le lesioni neurologiche. Esse si riscontrano a seguito di interventi chirurgici per tumori della prostata, vescica, retto, traumi spinali, malattia di Parkinson, Alzheimer, neuropatia periferica. Quando si ipotizza una causa organica è necessario lo studio funzionale della vascolarizzazione arteriosa e venosa del pene mediante l´ecocolordoppler dinamico. Nei casi dubbi, tra deficit erettile organico o psichico, si ricorre al Rigiscan (registra le erezioni nel sonno) per tre notti consecutive: erezioni di buona qualità escludono la causa organica. Ma il primo consiglio terapeutico è la prescrizione di uno degli inibitori delle fosfodiesterasi 5 (Cialis, Levitra o Viagra), da adattare al singolo caso. Tra questi solo il Cialis 5 mg ha l´indicazione per l´assunzione giornaliera allo scopo, secondo molti, di favorire una più spontanea attività sessuale. Tutti gli altri devono essere assunti al bisogno (un´ora prima del rapporto), compreso il nuovo Levitra sublinguale. Serve sempre la ricetta medica.
Soluzioni anche nei casi estremi, e cioè quando il sangue arterioso non raggiunge a sufficienza i corpi cavernosi, quando sia presente una lesione neurologica o un eccessivo incurvamento del pene. Si impiantano protesi peniene (la più recente: idraulica tricomponente), se la puntura di prostaglandine sul pene (10 minuti prima del rapporto) risulti insufficiente o non venga accettata dalla coppia.
* Spec. Urologo e Andrologo, Clinica Urologica, Genova

Repubblica Salute 27.9.11
Riconoscere la melodia? Una capacità congenita
Daniela Perani del San Raffaele di Milano ha dimostrato che il cervello nasce già dotato delle connessioni per interpretare i suoni. Ora bisogna scoprire perché l´evoluzione ha considerato questa abilità così importante da depositarla e trasmetterla nel dna
di Arnaldo D’Amico


Le applicazioni terapeutiche della musica, in espansione da decenni, hanno dimostrato la sua potenza nell´attivare energie psichiche e capacità riparative del sistema nervoso. Non si sapeva invece che fosse addirittura vitale per la specie umana. Ma recenti ricerche non lasciano dubbi: l´evoluzione ha "impresso" la musica nel nostro Dna, facendoci nascere già pronti a coglierne l´essenza, a capire la differenza tra una melodia e una sequenza di note dissonanti. Sull´argomento lavora Daniela Perani, neuroscienziata dell´università San Raffaele di Milano e a lei si deve una importante prova della predisposizione genetica alla musica. Semplice l´esperimento, anche se condotto con strumenti sofisticati. A 18 neonati con poche ora di vita, non esposti a musica in gravidanza, sono stati fatti ascoltare brani di Mozart, Bach, ecc, delle sequenze dissonanti e il silenzio assoluto. Contemporaneamente, sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale, strumento che evidenzia le aree del cervello in funzione usando innocui campi magnetici.
«Quando vi è silenzio, nel cervello del neonato non si evidenziano zone più attive - spiega Daniela Perani - Con le sequenze dissonanti si vede l´attivazione delle strutture cerebrali che ricevono gli impulsi uditivi. Ma con la musica l´attivazione si estende alle cortecce cerebrali associative del lobo temporale destro. È la stessa che si "accende" nell´adulto e che, con il suo lavoro di elaborazione ed integrazione degli impulsi nervosi che riceve dalle vie acustiche, ci fa distinguere tra rumore e musica e godere di quest´ultima. L´esperimento quindi rivela che nasciamo con una rete di neuroni specializzati per la percezione e poi l´interpretazione della musica che è quindi già formata e comparabile a quella dell´adulto con anni di esperienza musicale».
Esperimenti simili hanno svelato, ad esempio, la predisposizione anche al linguaggio. «In particolare - continua Perani - sappiamo che nel neonato l´area del linguaggio, in parte condivisa con quella della musica, è già attiva. Non reagisce ad un racconto fatto da una voce elettronica "piatta" mentre si attiva quando il racconto è fatto da una voce umana che lo arricchisce di pause, accenti, variazioni del tono della voce e di tutti quegli elementi con costituiscono la prosodia del linguaggio».
La predisposizione genetica necessità comunque di stimoli ed esercizio per svilupparsi. I bambini "selvaggi", sopravvissuti in condizioni di totale isolamento, non imparano più a parlare. Francesi e cinesi adulti possono parlare bene italiano ma con le loro "r", arrotata i primi e una sorta di "l" i secondi, mentre i loro figli nati in Italia non hanno questo problema. «Questo a indicare quanto l´esposizione alla lingua agisca sulla plasticità del cervello. E anche sullo sviluppo delle capacità musicali quantità e qualità degli stimoli esterni saranno determinanti - Conclude Daniela Perani - Ma in che misura è tutto da scoprire. Come è da scoprire perché l´evoluzione considera la musica tanto importante per l´uomo da essersi adoprata per trasmetterla col Dna».

Repubblica Salute 27.9.11
Nei bimbi le note potenziano intelligenza, memoria e capacità di apprendimento
Cantare, suonare o solo ascoltare quando la medicina si aiuta così
Soggetti che hanno perso la parola dopo un ictus utilizzando le canzoni recuperano il linguaggio
di Silvia Baglioni


In periodi di tagli alla scuola bisognerebbe riflettere attentamente sulla mancanza di un´istruzione musicale: non solo per una questione di cultura, ma di neuroscienza. E´ ormai scientificamente dimostrato, infatti, che la conoscenza della musica migliora alcune capacità mentali con una maggiore ossigenazione delle regioni cerebrali coinvolte nell´attenzione e nel controllo cognitivo.
«La musica – spiega Luisa Lopez, direttore del reparto di Neuropsichiatria Infantile del Centro Eugenio Litta di Grottaferrata (Roma) - attiva reti di neuroni che traducono la sequenza in movimenti organizzati. Può essere uno strumento terapeutico importante e i risultati sono migliori se il paziente ha familiarità con ritmo e suono. Ad esempio, sfruttando la plasticità del cervello, è possibile utilizzare il canto per recuperare gradualmente la capacità di parlare».
Queste conoscenze scientifiche sono alla base della "terapia d´intonazione vocale", sperimentata da Gottfried Schlaug, neurologo dell´Harvard Medical School a Boston (Usa). Schlaug ha dimostrato che la musica attiva simultaneamente numerose regioni del cervello e le mette in contatto tra loro. Come in pazienti che a causa di un ictus non erano in grado di pronunciare le parole di canzoni come Happy Birthday, ma potevano cantarle con l´aiuto di una persona che gli tamburellava sulla mano sinistra il ritmo delle canzoncine.
«Oggi – spiega Lopez – con una distinzione per grandi linee, possiamo dire che la musica si somministra in due modalità: il sentire e il fare». Ascoltare certe melodie riduce l´ansia e l´ormone dello stress, il cortisolo; per questo, per esempio, viene somministrata prima di un intervento chirurgico, in gravidanza o durante gli stati depressivi. Anche i pazienti affetti da demenza senile possono trarre vantaggio dalla musicoterapia che li aiuta a questi pazienti a ripescare ricordi che parevano irrecuperabili.
«Fare musica, invece, vuol dire proporre al paziente un percorso che definirei didattico: un programma strutturato che prevede una valutazione iniziale, intermedia e finale, in modo da poter quantificare i risultati ottenuti. Una terapia riabilitativa, come l´intonazione melodica, consente al cervello di ricalibrarsi e compensare le funzionalità perdute».

Il Sole 24 Ore 25.9.11
Petrarca e l'arte della memoria
di Paolo Rossi


Nei Rerum memorandarum libri, Francesco Petrarca fa riferimento a un amico che era dotato di «una memoria inesauribile». Costui non ricorda solo le parole, ma i verbi, i tempi e i luoghi. Se vede o ascolta una cosa una volta sola, ciò per lui è abbastanza: non la dimenticherà mai. Petrarca trascorre interi giorni e lunghe notti a parlare con lui. Se, a distanza di molti anni, Petrarca fa menzione di frasi già pronunciate, l'amico si accorge se egli ha cambiato una sola parola. Ricorda perfettamente non solo le frasi già ascoltate, «ma ricorda all'ombra di quale leccio o accanto a quale fiume o su quale monte esse furono pronunciate la prima volta».
Gli esempi di memoria prodigiosa, gli sparsi accenni alla memoria artificiale presenti nell'opera di Petrarca non bastano certo a spiegare il fatto che nei trattati di arte della memoria, nei volumi di emblemi e imprese, nelle opere enciclopediche pubblicati in Europa fra il Quattrocento e il Settecento, Petrarca viene ripetutamente citato come un'autorità sul tema memoria. L'autore di questo libro intende rispondere a due domande. La prima: che influenza hanno esercitato su Petrarca i testi classici sulla memoria di Cicerone e Quintiliano, Platone e Plinio, Agostino? La seconda: è possibile rinvenire nei testi di Petrarca la «presenza attiva» delle metafore che contraddistinguono la tradizione della memoria naturale e di quella artificiale?
La risposte comprendono un esame accurato e approfondito dei testi del petrarchismo del Cinque e Seicento, lo studio delle postille di Petrarca ai manoscritti che danno testimonianza dell'ars memoriae, un'analisi sottile dei «campi metaforici del thesaurus e della scrittura». Il libro di Torre non è riassumibile. Anche il sottotitolo ce lo conferma: Spie, postille, metafore. Farò riferimento a una sola pagina: quella dedicata alla netta distinzione che fa Petrarca tra gli autori che ha letto una volta sola e in fretta, «come soffermandomi in territorio altrui», e gli autori (come Virgilio, Orazio, Boezio) che invece sono entrati dentro di lui, «non solo nella memoria, ma nel sangue», che «mi penetrarono e s'immedesimarono col mio ingegno, avendo gettato le radici nella parte più intima dell'anima mia».
Non si vedono le cose che non si cercano e (come tutti sanno) si può tranquillamente passare accanto a esse (in questo specifico caso per qualche secolo) senza vederle. In un memorabile articolo intitolato «L'arte ciceroniana della memoria», comparso nel 1956 (in un volume di scritti in onore di Bruno Nardi), Frances Yates segnalava la presenza del nome di Petrarca in un'ampia serie di testi dedicati all'ars memorativa. Relativamente al tema memoria è stato come l'inizio di un incendio. C'è stata un'epoca nella quale occuparsi della tradizione dell'ars memorandi (e del lullismo), dava la eccitante e inquietante sensazione di inoltrarsi in un continente sconosciuto. Dopo meno di cinquant'anni quel continente è diventato un luogo quasi familiare. Per merito di molti studiosi, fra i quali occupano un posto di primo piano Lina Bolzoni, e ora anche l'autore di questo libro. Per i pochi sopravvissuti "giovani esploratori" di un tempo, un libro come questo è come un regalo di Natale.
Andrea Torre, «Petrarcheschi segni di memoria», Edizioni della Normale, Pisa, pagg. 324, € 25.00

Il Sole 24 Ore 25.9.11
L'oblio della memoria
di Paolo Rossi


Le biblioteche di tutta Europa conservano migliaia di libri dedicati all'arte di una "memoria artificiale" che ponga rimedio alla debolezza della memoria naturale. L'arte si basava sul forte potere che le immagini esercitano sulla mente e sulla loro collocazione in una serie ordinata di "luoghi". Attribuita al mitico Simonide di Ceo (che dopo un distruttivo terremoto elencò i partecipanti a un banchetto ricordando il posto che occupavano a tavola) l'arte della memoria è presente nel mondo greco, attraversa la cultura latina con Cicerone e Quintiliano, viene riproposta alla cultura medievale da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, è utilizzata dai grandi predicatori, conosce una vera e propria esplosione dall'età del Rinascimento fino a oltre la metà del Settecento. Delle artes memorandi discutono Giordano Bruno, Francis Bacon e Comenio, a esse si appassiona Leibniz.
Fino all'età di Kant, tutte le persone colte sono a conoscenza dell'esistenza delle arti della memoria e del loro funzionamento. Senza aver compreso la funzione della "memoria artificiale" e i compiti che a essa venivano attribuiti non si capisce quasi nulla né della funzione delle immagini nell'arte del Cinquecento, né del grande enciclopedismo del Seicento, né delle origini della logica combinatoria, né delle prime appassionate discussioni sulle classificazioni presenti nella botanica e nella zoologia.
Dopo il Settecento l'arte memorativa scompare. Nel senso che non occupa più un posto di rilievo nella cultura. Diventa una specie di fossile intellettuale e viene riproposta, sul piano delle dimostrazioni di abilità nei teatri del tardo Ottocento e del primo Novecento. Mary Carruthers, che ha già pubblicato nel 1990 un libro importante sulla memoria nel Medioevo, lavora su un terreno molto più ampio. Il modello classico, descritto qui sopra, non è - questa la tesi centrale del libro - la principale forma di mnemonica presente nella cultura medievale. In quei mille anni le strutture meditative della retorica dei monaci medievali riprendono "solo apparentemente" lo schema classico.
Essi non utilizzano (come nella tradizione "ciceroniana") un edificio reale, ma costruiscono un edificio completamente fittizio. Fittizio non è tuttavia sinonimo di immaginario. I loro edifici mentali esistono come parole di un testo - la Bibbia - che viene di continuo rivisitato. La mente di ogni monaco contiene una serie di strutture, derivate dalla Bibbia, utilizzabili a scopo cognitivo. Carruthers distingue con finezza le varie tradizioni che compongono l'articolato mosaico della memoria, sottolinea con forza le differenze tra quelle tradizioni, insiste moltissimo sul carattere "creativo" della memoria monastica e la contrappone più volte alla tradizionale ars memorandi classica.
Molto spesso le sue critiche colgono nel segno, ma una notevole propensione a previlegiare punti di vista radicalmente originali la conducono a polemizzare non solo con Frances Yates, ma direttamente con l'ars memorandi (che viene da lei definita come la capacità di «incamerare concetti che possano poi essere rigurgitati al momento opportuno»). Quell'arte serviva proprio a ricordare nozioni in modo estremamente fedele e assai poco creativo. Proprio la «memoria inesauribile» di un amico che rigurgitava «non solo le parole, pronunciate molti anni prima, ma anche i verbi, i tempi e i luoghi» suscitava, alla metà del Trecento, l'incondizionata ammirazione di Francesco Petrarca. Resta comunque indubbio che da questo libro non potrà prescindere chiunque intenda occuparsi (da un qualunque punto di vista) del tema "memoria".
Mary Carruthers, «Machina memorialis. Meditazione, retorica e costruzione delle immagini: 400-1200», Edizioni della Normale, Pisa, pagg. 518, € 35,00

Il Sole 24 Ore 25.9.11
Alle origini dell'arte combinatoria
di Paolo Rossi


«Per evitare la prolissità e la labilità della logica tradizionale, abbiamo pensato di inventare (mediante l'aiuto di Dio) una logica nuova e compendiosa che possa essere acquisita senza troppa difficoltà e troppa fatica, possa esser conservata nella memoria completamente e totalmente e ricordata con grande facilità». Il progetto di questa impresa è contenuto nel prologo al Liber de nova logica, di Ramon Llull (nato a Palma di Majorca nel 1235) scritto in catalano a Genova, nel 1303, e tradotto in latino l'anno seguente.
Quella nuova logica era la combinatoria lulliana: una "arte generale" basata sui principi o gli elementi primi che contengono i fondamenti di tutte le scienze. Indicandoli con lettere alfabetiche e altri simboli essi vengono combinati fra loro mediante cerchi concentrici mobili. Attraverso tutte le possibili combinazioni, si troveranno i ragionamenti necessari a risolvere ogni problema, a persuadere tutti alla verità, a eliminare le controversie. La storia del lullismo è molto complicata, anche perché, già nel corso del Trecento, vennero attribuite a Lullo una numerosa serie di opere magiche e soprattutto alchemiche. Il grande progetto di Lullo attraversa tutta la cultura europea, si intreccia con il tema delle arti della memoria, con i progetti delle enciclopedie totali e delle lingue universali; giunge fino a Giordano Bruno e a Leibniz.
Alla presenza di Lullo sono dedicate varie pagine de La ricerca della lingua perfetta, il volume pubblicato da Umberto Eco nel 1993. É solo un esempio, perché di Lullo e dell'ars combinatoria oggi si parla in ogni libro dedicato a Bruno e a Leibniz. Il lullismo è diventato un'entità della quale si discorre nei manuali, nei dizionari, nelle storie della cultura. Quando ero studente di filosofia, la situazione era completamente diversa: Lullo e il lullismo venivano liquidati come incomprensibili stranezze. Il passaggio alla situazione attuale è dovuto all'opera di alcuni "pionieri". Fra i quali occupa una posizione di primo piano il padre Miquel Batllori della Compagnia di Gesù che pubblicò nel 1944 il Tentativo di sintesi che viene ora opportunamente tradotto in italiano e presentato da Francesco Santi e da Michela Pereira (che in pagine molto limpide affronta il complicato tema dei rapporti fra lullismo e alchimia). Batllori, nato nel 1909 e morto, a novantaquattro anni, nel 2003, dedicò gli anni del suo esilio in Italia a indagare i ricchi fondi manoscritti che contengono le opere di Lullo e gli scritti dello pseudo lullismo alchemico che «dal secolo XV in avanti si attorciglia e si aggrappa all'albero lulliano».
La pagine del libro sono dedicate alla enumerazione dei quindici viaggi compiuti da Lullo in Italia e a uno «studio storico della scuola lulliana in Italia». Batllori era un instancabile, gentile, grande studioso. Di esemplare sobrietà e cautela critica. Per questo mi appaiono singolarmente stonate le conclusioni della premessa scritta da Santi secondo il quale . Il superamento della quale (c'era da dubitarne?) «è evidente nei fatti, ma non ancora assunto nell'autocoscienza dell'Occidente». Dire che sono evidenti cose che a voi non sono affatto evidenti è un metodo davvero facile per dire che non avete capito nulla e per avere sempre e comunque ragione.
Miquel Batllori, «Il lullismo in Italia. Tentativo di sintesi», Edizioni Antonianum, Roma 2004, pagg. 208, € 15,00

il Sole 24 Ore 27.9.11
In memoria di Lullo
di Paolo Rossi


Il lullismo, considerato un tempo una specie di superstiziosa stranezza, è diventato, dopo la metà del Novecento, un'entità alla quale si fa cenno o della quale si discorre nei manuali, nei dizionari, nelle storie della cultura. Del catalano Ramon Llull (nato a Palma di Majorca nel 1235) si parla oggi in ogni libro dedicato a Giordano Bruno o a Leibniz o alle arti della memoria o alle lingue perfette o universali del Seicento. Ma anche gli affreschi sulla cultura fra il Trecento e il Seicento non possono non parlare della gigantesca impresa di Lullo che tentava di far corrispondere, punto per punto, la "forma logica" alla "forma della realtà".
Da questo punto di vista c'è chi ha sottolineato l'esistenza di punti in comune tra Lullo e Wittgenstein e chi ha letto nel'ars magna una sorta di precorrimento della computer science. Robert Pring-Mill (1924-2005), scozzese di origine, per più di trent'anni professore di letteratura spagnola ad Oxford, studioso delle società segrete asiatiche, della letteratura, della poesia e dei canti rivoluzionari dell'America Latina ha dedicato a Lullo molti scritti importanti. Questo suo testo è preceduto da un saggio di Michela Pereira sul contributo dell'autore agli studi lulliani (che è anche un ritratto di Pring-Mill) e seguito da una bibliografia degli studi italiani sul lullismo curata da Sara Muzzi.
Al centro della ricerca di Pring-Mill sta la ricostruzione dell'idea di quella struttura che consente di mettere in relazione i vari livelli del mondo con il linguaggio mediante il quale gli esseri umani comunicano tra loro. Pring-Mill era ben consapevole del carattere estremamente complicato ed enigmatico che quella struttura assume ai nostri occhi. Riteneva però che il dovere di uno storico e lo scopo di una ricerca storica fosse precisamente quello di mostrare che per coloro che leggevano Lullo come un contemporaneo, quella struttura rappresentava qualcosa che poteva apparire "familiare".
Dietro l'aridità linguistica di molte pagine di Lullo sta la magnifica visione di un universo «con gli angeli, le stelle e i pianeti, l'anima e il corpo dell'uomo, gli animali, le piante, i metalli, le pietre – tutta intera la creazione – integrati in un sistema unico e unitario, tutti intenti a danzare la stessa danza al suono della musica delle sfere, tutte portanti la stessa sembianza del loro Creatore».
L'arte serve a ordinare le cose del mondo in una grande enciclopedia e a costruire proposizioni vere. Vuole essere insieme e contemporaneamente una logica e una metafisica. Quando teorizzava una caratteristica Leibniz non era molto lontano da queste impostazioni: essa doveva rappresentare i nostri pensieri veramente e distintamente e «quando un pensiero fosse composto da altri più semplici, il suo carattere lo sarebbe egualmente». E concludeva: «i pensieri semplici sono gli elementi della caratteristica e le forme semplici le sorgemti delle cose».
Robert D.F.Pring-Mill, «Il microcosmo lulliano»,
a cura di Sara Muzzi, Edizioni Antonianum, Roma, pagg. 182, € 16,00

il Sole 24 Ore 27.9.11
La memoria visiva di Dante
di Lina Bolzoni


La Divina Commedia è un raro esempio di poesia che si insinua da subito nella lingua quotidiana. «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa», «più che 'l dolor potè 'l digiuno» e così via: ancora oggi il poema ci offre frasi proverbiali, ancora oggi plasma la nostra memoria. L'aveva già notato Gianfranco Contini, il quale ha anche mostrato come all'interno del testo la memoria agisca, a distanza, attraverso la ripetizione di formule ritmiche e foniche.
Di memoria, del resto, Dante era ben dotato, come ci racconta Boccaccio. E soprattutto la memoria aveva, ai tempi di Dante, un ruolo e un'importanza che noi abbiamo dimenticato, tanto che nelle scuole, nelle università, nelle comunità monastiche si insegnavano tecniche per rafforzarla. Non si trattava di una memoria puramente passiva, ma di una memoria legata all'immaginazione e quindi alla capacità di ricreare, di inventare. Si insegnava a plasmare la mente, a costruirvi complesse architetture, scale, alberi, giardini, tappe di un percorso che poteva condurre a una trasformazione interiore, fino a un incontro col divino. Sappiamo che queste tecniche venivano usate da mistici e predicatori.
E non possiamo pensare – fatte le debite distinzioni – che siano state importanti anche per la Divina Commedia? Frances Yates per prima ha fatto notare che la struttura della Divina Commedia è anche un sistema di memoria dei vizi e delle virtù; le tre cantiche delineano infatti un percorso di luoghi il cui ordine viene via via puntigliosamente spiegato. I gironi dell'Inferno, le cornici del Purgatorio, i cieli del Paradiso ci mettono sotto gli occhi il sistema morale; gli incontri con i diversi personaggi funzionano da immagini della memoria, nel senso che aiutano a capire e a ricordare la natura specifica del peccato che è condannato e della virtù che è premiata.
Che nella Divina Commedia sia presente un ordine preciso e visualizzabile è cosa nota. Basta vedere gli schemi che ancora oggi compaiono nelle edizioni del poema. Ma sono soprattutto i personaggi che restano scolpiti nella nostra memoria: i loro gesti, le loro parole, li fissano in una dimensione sospesa fra storia e eternità, in una tensione che Auerbach ha interpretato nei termini della figura biblica. Come diventano anche attori nel teatro della memoria? Harald Weinrich ha mostrato che Dante usa a questo scopo il contrappasso: lo sottolinea Bertran de Born, («Così osserva in me lo contrapasso», Inferno, XXVIII, 142), una delle apparizioni più terribili e fantastiche dell'Inferno: un busto decapitato che cammina reggendo la propria testa per i capelli.
Egli è punito tra i seminatori di discordia perché ha spinto il figlio a ribellarsi contro il padre, re d'Inghilterra: ha lacerato il corpo dello stato, ha separato la testa dal busto. Il contrappasso dantesco prende la metafora alla lettera, la reifica, ce la mette sotto gli occhi. È così che i dannati diventano immagini di memoria sia del peccato commesso sia della giustizia divina. Ma c'è qualcosa di più che rende straordinariamente efficace il lavoro di memoria che il poema mette in atto, quello che Dante chiama «la puntura de la rimembranza» (Purgatorio, XII, 20). L'atto di ricordare trascina infatti con sé le emozioni, come leggiamo in alcuni dei passi più famosi dell'Inferno. «Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria», dice Francesca da Rimini e Ugolino : «Tu vuo' ch'io rinovelli / disperato dolor che 'l cor mi preme». La memoria appassionata riguarda non solo i personaggi, ma lo stesso Dante, come vediamo subito, all'inizio del poema:
«Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / che la diritta via era smarrita. / Ahi quanto a dir qual'era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!» (Inferno, I, 1-6).
Qui, così come in molti luoghi soprattutto dell'Inferno, il tema della memoria appassionata si lega al contrasto dei tempi verbali: c'è il passato, il tempo del pellegrino, del Dante personaggio, e c'è il presente, il tempo del poeta che ricorda e commenta. Ma proprio la forza emotiva della memoria tende a rompere ogni distinzione: si intreccia con il contrappasso e cerca di annullare ogni barriera fra corpo e psiche, fino a incidersi nel corpo, nei gesti, nelle sensazioni fisiche. Pensiamo ad esempio alla Caina, dove i traditori dei parenti sono infitti nel lago ghiacciato: «Poscia vid'io mille visi cagnazzi // fatti per freddo; onde mi vien riprezzo // e verrà sempre, de' gelati guazzi» (Inferno, XXXII, 70-72).
Un'esperienza sensibile, propria del mondo terreno – la vista dei «gelati guazzi», degli stagni gelati – richiama alla mente la scena infernale. L'orrore morale si prolunga nell'orrore fisico, nell'insopportabile sensazione di gelo che l'esperienza terrena rigenera, ogni volta, per analogia. Un altro esempio ci viene dal girone dei superbi: camminano con una fatica indicibile, piegati a terra sotto il peso di macigni. Il contrappasso rende visibile il carattere della colpa e Dante a sua volta camminerà piegato, così da fare assumere al proprio corpo la stessa posizione dei penitenti, fino a quando Virgilio non lo invita a riprendere la posizione eretta. Di grande fascino è il modo in cui Botticelli illustra l'episodio. Egli sottolinea il progressivo curvarsi del personaggio Dante: alla fine il suo stesso corpo esprime la «puntura de la rimembranza» del peccato della superbia. L'immagine coglie così dal vivo quell'imprimersi della memoria nel corpo che noi abbiamo inseguito nelle pieghe del testo.

il Sole 24 Ore 25.9.11
La memoria e il suo occhio
di Lina Bolzoni


C'è una bella fotografia di dune, sulla copertina. È una scelta efficace, che subito ci introduce nel cuore di questo libro di memorie scritto da Michael Baxandall (1933-2008), un grande storico dell'arte inglese che ha allargato il campo della sua disciplina e proprio per questo è diventato punto di riferimento irrinunciabile per chi si occupa di cultura del Rinascimento, ma anche dei modi della percezione, dei rapporti fra parole e immagini, dei profondi e difficili legami che legano un'opera d'arte alla società del suo tempo.
Baxandall ha scritto questi Episodi della sua vita quando la malattia rendeva ancora più essenziale il bisogno di ricomporre la propria identità, di rimettere insieme il proprio io. E lo fa con quella sua scrittura intransigente e con quel metodo che i suoi saggi ci hanno resi familiari: un metodo che mette in discussione i propri presupposti, che si interroga su se stesso proprio mentre agisce. Le pagine in cui si dispongono i ricordi diventano allora, continuamente, anche le pagine in cui ci si interroga su come la memoria funziona, su come vengono costruiti quelle immagini, e quei suoni, quegli odori, che si presentano alla mente.
Proprio qui entrano in gioco le dune, alle quali, come scrive Carlo Ginzburg nella introduzione, Baxandall dedica, sulla soglia del testo, una descrizione lunga, analitica, ipnotica. Le dune diventano un'immagine efficace di come si costruisce la memoria: il vento agisce di continuo sui granelli di sabbia, per cui la superficie si muove e si trasforma, ma subito appena sotto, e in profondità, si creano e si solidificano i diversi strati, quelle lamine che i popoli del deserto hanno nominato con grande precisione e ricchezza.
Baxandall ripercorre dunque i propri ricordi in modo non dissimile da come ha cercato di ricostruire «l'occhio dell'età» nelle sue classiche ricerche su Giotto e gli oratori, su pittura e società nel 400 italiano, o sulla scultura lignea del Rinascimento tedesco. Al di là delle frontiere del tempo, è stata la sua sfida, si può cercare di ricostruire i modi di percepire le immagini, gli schemi che orientavano la vista e la mente. Lui l'ha fatto mobilitando una gamma davvero inconsueta di fonti: dalla retorica, ai trattati di danza e di calligrafia, ma anche il sapere dei mercanti e degli artigiani, il galateo e i testi di devozione. Ha cercato così di ridar vita a qualcosa che accomunava gli artisti, i loro committenti, e il loro pubblico. Quel che ha chiamato, appunto, con una formula famosa, l'«occhio dell'età».
Baxandall guarda dunque alla duna in movimento che costituisce la propria memoria. E ne trae momenti e ritratti di grande forza. A cominciare dal padre, bravo fotografo e esperto d'arte (diventerà direttore della Scottish National Gallery), un uomo timido, capace di grandi entusiasmi e quindi vulnerabile, come lo descrive il figlio con una sorta di autoritratto. La famiglia in cui trascorre l'infanzia è un mondo aperto agli amici, frequentato da artisti progressisti, fra cui un burattinaio pacifista. Vengono poi gli anni di Cambridge, al Downing College, caratterizzati da una formazione letteraria che lo lascia insoddisfatto. E subito dopo, una fase di libertà, di ricerca di sé al di fuori di ogni fisso impegno professionale.