mercoledì 28 settembre 2011

DIFENDI ANCHE “SEGNALAZIONI”!
IN PIAZZA DEL PANTHEON DOMANI, DALLE 15 ALLE 18
l’Unità 28.9.11
Bavaglio al web e ai cittadini. Domani in piazza
Nessuna urgenza. L’unico scopo della legge è quello di fermare le indagini
di Fulvio Fammoni


Giovedì 29 settembre dalle ore 15.00 al Pantheon manifestazione per dire NO all'ennessimo tentativo del Governo di imbavagliare l'informazione con la legge sulle intercettazioni.
Il Comitato per la libertà e il diritto all'informazione, che ha organizzato le più grandi manifestazioni in Italia a difesa della libertà di informazione, chiama ancora una volta i cittadini a manifestare perché non sia appprovato un provvedimento sbagliato che manomette diritti costituzionali.
Nel momento più grave di crisi che il paese attraversa invece di parlare di tutele del lavoro e di sviluppo, il Parlamento viene intasato dai problemi personali e giudiziari del Presidente del Consiglio.
Non esiste ovviamente l'urgenza che viene dichiarata: questa legge è ferma da più di 1 anno in Parlamento e la si riesuma solo perché si è creato l'ennesimo problema politico e giudiziario.
Nessuna tutela della privacy dei cittadini dunque, che può benissimo essere risolta dalle tante proposte presentate, ma un indebito intervento sulla libertà di informazione e sulla giustizia. Si tratterebbe in realtà della tutela di un modo inaccettabile di intendere il potere.
Chi svolge cariche pubbliche ha invece una responsabilità in più: totale trasparenza sulle proprie azioni. Per questo chiedo pubblicamente: non si dovrebbe forse sapere che un Presidente del Consiglio in carica consigli un probabile indagato di non rientrare in Italia come appare dalle intercettazioni?
Il merito dell'intervento della legge è vastissimo e riguarda il diritto di cronaca ma anche tanti aspetti meno noti, ma non per questo meno gravi. Dai reati intercettabili dividendoli arbitrariamente per gravità; dai limiti temporali delle intercettazioni ai divieti e alle sanzioni per giornalisti ed editori: dalla possibile sostituzione dei Pm anche solo se faranno dichiarazioni sul procedimento.
Norme sbagliate e punitive, non verso chi commette reati ma verso l'informazione e su due voglio soffermarmi.
La prima è l'incredibile bavaglio previsto per il web, che prevede l'obbligo di rettificare ogni contenuto pubblicato sulla base di una semplice richiesta di soggetti che si autoritengano lesi. Senza possibilità di replica e con sanzioni fino a 12mila euro.
Una misura che metterebbe in ginocchio la libertà di espressione della rete, senza possibilità di opposizione.
La seconda è quella sulle cosiddette registrazioni fraudolente, con pena fino a 3 anni di carcere, senza alcuna distinzione. Così anche chi fosse taglieggiato e volesse fare una registrazione o una ripresa video dei criminali che si presentano a riscuotere il pizzo rischierebbe di incorrere in sanzioni?
Come si vede nessuna tutela dei cittadini, ma una delle tante vie con cui questo governo interviene sull'informazione: censure, tagli di risorse come nel caso dell'editoria e delle piccole emittenti, depotenziamento del servizio pubblico, interventi sui programmi scomodi e su tanti giornalisti e operatori dell'informazione, della cultura, dello spettacolo.
Tutto questo è inaccettabile e insopportabile. Ma non è finita, dietro il cauto annuncio di qualche concessione si pensa ad ulteriori e ben più gravi peggioramenti, come il ritorno ad una norma che vieterebbe addirittura fino alla sentenza d'appello ogni pubblicazione. Si tratterebbe di anni che renderebbero irrilevante ogni notizia.
Per questo occorre impedire che una legge ingiusta e per tanti aspetti non costituzionale sia approvata. La mobilitazione delle associazioni che fanno parte del comitato per la libertà di informazione e di tante altre, la grande partecipazione dei cittadini contro leggi ad personam e per il rispetto dell'art.21 della Costituzione hanno già dimostrato di contare e di produrre risultati.
Ecco perché la partecipazione è importante ed ecco perché la nostra iniziativa durerà per tutto il percorso parlamentare, prevedendo una grande manifestazione nazionale se e quando si avvierà il dibattito in Senato.
Un cittadino formato e informato è più autonomo e quindi più libero.
È questo quello che evidentemente non si vuole e che deve essere invece salvaguardato e aumentato.
Una battaglia di civiltà e libertà che si deve vincere.

l’Unità 28.9.11
Gli ovuli congelati e il sorprendente plauso di Avvenire
Conversioni. Il quotidiano dei vescovi promuove la fecondazione assistita?
di Maurizio Mori


P er una volta siamo lieti di prendere atto che le idee laiche (o laiciste che si voglia), sia pure con un po’ di fatica, alla fine si fanno strada e ricevono il giusto riconoscimento anche da chi le aveva avversate. È infatti con piacere che abbiamo letto, niente meno che in prima pagina del quotidiano dei vescovi Avvenire, il richiamo a un ampio articolo riportato a pagina 16 in cui si dava grande risalto al successo tecnico che ha consentito a una donna di rimanere incinta dopo un tumore grazie al congelamento di ovociti.
Ovviamente siamo tutti felici che la signora abbia potuto coronare il proprio piano di vita grazie alla fecondazione assistita (in vitro, nel caso specifico), ma ci rammarichiamo per le altre tante donne che non l’hanno potuto fare proprio per la dura opposizione da parte della chiesa cattolica, la quale ha condannato ogni forma di fecondazione artificiale.
Al proposito è forse opportuno ricordare che nel 1997 quando il professor Carlo Flamigni con la sua equipe annunciò la nascita di Elena, la prima bambina nata in Italia con la tecnica della fecondazione in vitro dopo lo scongelamento di ovociti, l’allora cardinale di Bologna, Giacomo Biffi, subito stigmatizzò il fatto come un “evento bestiale”. «È veramente in gioco tutta la concezione vera dell’uomo disse allora il cardinale.Si ritiene che tutto quanto è scientificamente possibile, praticamente possibile, anche moralmente lecito. Ma questa è una pura bestialità: anche dare una coltellata a qualcuno è praticamente possibile, ma di certo non è moralmente lecito».
Ebbene, a 15 anni di distanza, Avvenire cambia la linea e dà la lieta notizia che grazie alla fecondazione in vitro Alberta, donna di 37 anni, è riuscita a realizzare il proprio sogno. Siamo contenti di registrare la grande attenzione che Avvenire ha dato alla notizia e ci auguriamo continui su questa linea, non solo riconoscendo che la fecondazione assistita è uno dei passi più importanti compiuti dal mondo moderno ma anche ampliando il discorso su altri temi, primo tra tutti quello oggi in discussione sul fine vita. Ove non lo facesse, avremo la pazienza di aspettare forse un altro decennio prima di vedere riconosciuto anche da Avvenire che le tesi attualmente sostenute dalla gerarchia cattolica sono solo frutto di preconcetti e pregiudizi derivanti da tradizioni obsolete.
Nel frattempo, noi laici ci limitiamo a proporre la via da seguire sulla scorta dell’etica laica che sa cogliere le aspirazioni umane alla luce dei progressi scientifici, e attendiamo pazientemente che, sia pure con ritardo e fatica, anche i cattolici arrivino a congratularsi con queste indicazioni e questi valori.

l’Unità 28.9.11
I numeri di Maroni «Nell’ultimo anno ne sono arrivati 4012, di cui 3739 non accompagnati»
Le denunce Respingimenti ed eccessiva permanenza nei centri. Il ministro: «Errare è umano»
«In Italia seimila minori stranieri non identificati»
Il ministro dell’Interno riferisce alla commissione bicamerale per l’infanzia e ammette le lacune del sistema di accoglienza. E le associazioni contestano Maroni e puntano il dito contro le gravi violazioni dei diritti dei minori.
di Mariagrazia Gerina


Fuggono dai loro paesi. Viaggiano, a rischio della vita, stipati tra gli adulti nelle carrette del mare, oppure nascosti sotto la pancia dei tir. Piccoli profughi, che al termine della loro odissea, o a volte solo in transito, giungono in Italia, sperando in un approdo sicuro. «Attualmente i minori stranieri presenti sul nostro territorio sono 6946, nell’ultimo anno ne sono arrivati 4012, di cui 3739 non accompagnati, solo a Lampedusa ne sono arrivati 2705, di cui 2567 non accompagnati», scandisce, trincerandosi dietro i numeri, il ministro dell’Interno Roberto Maroni, chiamato in commissione bicamerale per l’infanzia a riferire sul destino dei piccoli profughi che approdano in Italia.
Ragazzini con cui il Viminale sembra avere una difficoltà enorme a fare i conti. Persino quando si rifugia dietro i numeri: «Su 6946 minori stranieri non accompagnati presenti sul territorio italiano solo 926 sono identificati», scandisce Maroni davanti alla commissione. E gli altri seimila? Sono ragazzini senza neppure un nome? Le associazioni che si occupano di loro smentiscono. Lo staff del ministro spiega che «tecnicamente si definiscono idenfiticati solo quelli che sono in possesso di un documento di identità». Un dato tecnico. Eppure: «Considerare non identificati tutti gli altri è un errore», spiega Carlotta Bellini, di Save the Children. «C’è un lavoro profondo per ricostruire la loro storia e la loro identità, con metodologie che sono le stesse utilizzate in tutto il mondo».
Sfuggono da tutte le parti quei piccoli profughi e le loro storie di mancata accoglienza, di infanzia esposta ai rischi peggiori.
Il ministro nega. «Il nostro sistema d’accoglienza si è rivelato efficace e all’altezza anche in situazioni di emergenza come quella vissuta a Lampedusa», assicura. «Chiunque si sia occupato di quella emergenza sa che ci sono state, e ancora ci sono, gravissime violazioni delle norme internazionali a tutela dei minori stranieri non accompagnati», replica Sandra Zampa, deputata Pd e membro della Commissione Infanzia. Con sé ha uno degli ultimi rapporti stilato da Terre des Hommes sui minori a Lampedusa. Parla di ragazzini trattenuti sull’isola fino a 40 e in alcuni casi anche 60 giorni prima di essere trasferiti in comunità adatte ad accoglierli. Invece che in 48 ore dall’arrivo, come prevederebbe la legge scritta a loro tutela. Alcuni di loro sono scappati. Alcuni li hanno ritrovati a Ventimiglia. Le cronache delle ultime ore li fotografano a bordo delle navi, da giorni ferme come prigioni galleggianti nel porto di Palermo. Cinque ragazzini, rinchiusi in quei bunker, insieme agli adulti.
E non è solo questione di Lampedusa. Le storie dei piccoli profughi afghani sbarcati a Venezia, Ancona, Bari non sono molto diverse. «Li abbiamo visti aggrappati alle grate del porto di Patrasso per tentare di nascondersi sotto i tir, braccati come cani... La normativa nazionale e internazionale non consente nessun tipo di respingimento. Eppure è prassi costante che questo avvenga anche presso i nostri porti», ha denunciato proprio alla commissione infanzia la legale della comunità Giovanni XXIII: «Le forze dell'ordine ben conoscono la situazione». Anche se a volte «preferiscono non vedere». E però «abbiamo notizia di funzionari di polizia portuale di buona volontà che non hanno chiuso gli occhi, ma per giorni hanno dovuto portarsi a casa ragazzini rifugiati nell’attesa che qualcuno si interessasse alla questione». Maroni nega. Nessun respingimento di minore. Nessuna violazione di diritti. Semmai ci possono essere stati degli errori. «Errare è umano», dice il ministro.

l’Unità 28.9.11
L’esposto presentato ai magistrati di Palermo da avvocati e giuristi
Raffaele Lombardo «Condizioni disumane, accatastati come oggetti»
Inchiesta sulle navi cariche di migranti ferme a Palermo
Quelle due navi sono ferme al largo di Palermo da una settimana, cariche dei migranti “evacuati” da Lampedusa dopo il rogo del Cpa e gli incidenti con gli abitanti dell’isola. Centinaia di reclusi, come in un carcere.
di Ma.Ge.


Navi-Cie. Navi della vergogna. Prigioni galleggianti. Bunker. Adesso c’è anche un fascicolo aperto dalla procura di Palermo su quelle navi da giorni ormeggiate nel porto di Palermo, con a bordo il loro carico di migranti, portati via da Lampedusa dopo il rogo del centro di accoglienza. Molti di loro hanno ancora addosso i segni della carica della polizia e delle pietre tirate dai lampedusani. Più di mille persone trasferite in meno di quarantott’ore, per paura di altre rivolte. Si erano ribellati alle condizioni di vita nel centro di Contrada Imbriacola. E si sono ritrovati intrappolati in un’altra prigione. Ancora più inaccessibile, alle stesse organizzazioni umanitarie.
Non sono bastate le manifestazioni, i sit-in, le proteste. E allora è arrivato anche un esposto alla magistratura. A firmarlo sono stati avvocati, cittadini, esperti di diritto d’asilo come Fulvio Vassallo Paleolog. «Nessuno può essere trattenuto per più di 48 ore senza la convalida del fermo da parte dell’autorità giudiziaria. Altrimenti, come in questo caso, siamo davanti a un vero e proprio sequestro», denunciano i firmatari dell’esposto, presentato ieri presso la procura di Palermo, da cui prenderanno le mosse i magistrati palermitani. «L’apertura delle indagini conferma forti dubbi sulla legittimità del trattenimento dei migranti», rivendica Zaher Darwish, responsabile provinciale immigrazione della Cgil.
Voci tutt’altro che isolate. Persino il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, ieri attaccava: «Non esitiamo a denunciare la condizione disumana in cui si trovano gli immigrati che sono accatastati, come se fossero oggetti e non uomini, in queste navi nel porto di Palermo». Domenica scorsa era stato un medico, Tullio Prestileo, responsabile scientifico dell’Inmp Sicilia e uno dei medici incaricati dalla Regione Sicilia di verificare le condizioni all’interno del centro di Contrada Imbriacola, a parlare di «violazione dei più elementari ed inalienabili diritti umani» e «grave pericolo per la salute psico-fisica» delle persone a bordo di queste Persone.
«Quelle navi-Cie cariche di migranti sono un vero schiaffo alla dignità umana, è assurdo che dopo dieci anni di governo Berlusconi-Bossi in cui si è gridato all’invasione, non siano state predisposte delle strutture adeguate in grado di rispondere a simili situazioni di emergenza», attacca la presidente del Forum Immigrazione del Pd Livia Turco, chiedendo al più presto di porre fine a questa vicenda.
Qualcosa comincia a muvoersi. La prima delle tre navi a togliere gli ormeggi ha levato gli ormeggi l’altro giorno verso Cagliari. I 221 tunisini a bordo, ironia della rete di accoglienza, sono stati trasferiti nel centro di Elmas, gestito dalla stessa Lampedusa Accoglienza, responsabile del centro di contrada Imbriacola, messo al rogo per protesta dai suoi ospiti una settimana fa. Altri sono stati rimpatriati con i ponti aerei. Mentre una seconda nave ieri sera è salpata alla volta di Porto Empedocle. Un viaggio di ritorno per cento tunisini che lì erano stati portati una settimana fa da Linosa.

l’Unità 28.9.11
Roma, Napoli e Milano Già presentati gli esposti alla procura contro la pubblica amministrazione
Succede anche questo Bambini down che rinunciano ad alcune ore e le “prestano” a chi sta peggio
Disabili e insegnanti di sostegno I genitori passano alle denunce
Secondo un primo censimento mancano ben 65mila docenti
«Un diritto costituzionale violato». È per questo che i genitori di molti piccoli con disabilità hanno iniziato a presentare denunce alle procure per la mancanza di insegnanti di sostegno nelle scuole.
di Gioia Salvatori


Presi in giro, bistrattati, stanchi di lottare per diritti basilari. Si sentono così i genitori degli alunni disabili che hanno denunciato la pubblica amministrazione per l’insufficienza di insegnanti di sostegno all’avvio dell’anno scolastico. La denuncia penale è stata presentata ai tribunali di Roma, Napoli e Milano, i capoluoghi delle tre regioni dove maggiore è la popolazione scolastica e dove, di conseguenza, maggiori sono i disagi. A prendere le vie legali con il dubbio che «siano stati reiterati comportamenti della pubblica amministrazione lesivi del diritto allo studio dei minori diversamente abili», come si legge in un comunicato, è l’associazione di genitori di alunni disabili “Tutti a scuola”, rappresentata da Antonio Nocchetti. Che scrive: «la tutela della disabilità è sempre più un’illusione che per i diretti interessati si trasforma in delusione, o meglio sarebbe dire in maltrattamento psicologico. Eppure il diritto all’istruzione, all’educazione e all’integrazione scolastica è un diritto soggettivo pieno, non suscettibile di affievolimento, che trova il suo fondamento nella Costituzione Italiana». Amarezza, accompagnata da numeri sconfortanti: le nomine in deroga degli insegnanti di sostegno vanno a rilento (di insegnanti di sostegno ne mancavano, secondo “Tutti a scuola”, addirittura 65mila all’inizio dell’anno scolastico) e il numero di docenti spesso è ancora insufficiente. Chi si occupa delle nomine? Il Miur, gli uffici scolastici regionali e provinciali e i dirigenti scolastici. Questi ultimi richiedono il numero di insegnanti e i vari livelli ministeriali provvedono a raccogliere l’istanza e ad accontentare la scuola in base alle finanze a disposizione e alle leggi in vigore. Da qui una denuncia contro la pubblica amministrazione, sarà poi la magistratura, qualora rilevi responsabilità, a scrivere eventuali indagati nel fascicolo.
A proposito di giurisprudenza, i genitori dei ragazzi ricordano la sentenza della corte costituzionale del 2010 che «riconosce il diritto dell’alunno diversamente abile al sostegno scolastico, senza possibilità di compressione per esigenze di bilancio» eppure tanti alunni disabili, magari con tanto di ricorso al Tar vinto, non hanno il sostegno a tempo pieno.
Nel frattempo, in attesa dei docenti nominati in deroga, accade che le scuole si auto-organizzino e che, in solidarietà, il genitore di un alunno down rinunci a 4 delle 18 ore di sostegno settimanali per “prestare” l’insegnante a un disabile più grave. Succede alla media Guarino di Napoli. Lì i docenti hanno stabilito di ritardare l’orario definitivo: fin quando non ci saranno tutti i docenti di sostegno (3 su 13, il numero concordato col ministero, devono ancora essere nominati e la scuola ne aveva richiesti 19) si va con l’orario provvisorio di 20 ore settimanali. In Calabria, denuncia la Flc Cgil, nonostante 70 nomine in deroga, il rapporto disabili-docenti di sostegno è di uno a tre (esclusi 2611 casi gravissimi con supporto uno a uno); in barba non solo alla sentenza della corte costituzionale, ma anche a una legge del 2007 che fissa il rapporto in un docente ogni due inabili. In Calabria ci sono anche casi di ciechi senza sostegno, fa sapere il sindacato mentre sporge denunce.
Problemi che non riguardano solo le regioni del sud o quelle con maggiore popolazione scolastica. In Friuli l’ufficio regionale ha disposto che le scuole possono dimezzare, per patologie meno gravi, il rapporto insegnanti-alunni disabili, fissandolo a un insegnante di sostegno ogni quattro ragazzi con handicap. La Flc Cgil Friuli denuncia una riduzione di ore di sostegno anche per i ragazzi autistici sottolineando che, sono stati nominati in deroga 98 insegnanti di sostegno, la metà di quelli che servirebbero in base a un monitoraggio artigianale dei disabili fatto dal sindacato. Idem in provincia di Arezzo dove l’ufficio scolastico provinciale aveva chiesto 106 docenti di sostegno in più e ne sono invece arrivati 27. Pietro Barbieri, presidente di Fish (federazione italiana sostegno handicap) però, ridimensiona l’allarme e rileva uno squilibrio storico nella nomina dei docenti di sostegno, mai apparato: troppi in alcune zone del centro sud, pochi in aree come la Lombardia. Sottolinea come la maggioranza di governo abbia le idee poco chiare su disabilità: «Il centrodestra ha spinto molto affinché anche i dislessici venissero riconosciuti come disabili, ora, di fatto, il governo li ritrova nel conto delle persone da assistere con insegnanti di sostegno, innominabili per via dei tagli».

l’Unità 28.9.11
Israele: altre mille case in Cisgiordania
Cemento sul negoziato Il premier Netanyahu dà il via libera all’edificazione di altri alloggi a Gilo Contrari Usa e Ue, ma anche molte voci israeliane chiedono trattative vere
Burg, dirigente sionista: il premier così ci trascina in una fase di intransigenza e sangue
Aloni, fondatrice di Peace Now: campione di unilateralismo non è Abu Mazen ma Bibi
di Umberto De Giovannangeli


Risuonano ancora, in Israele, le parole pronunciate da Abu Mazen al Palazzo di Vetro per il riconoscimento dello Stato di Palestina e anche quelle affidate al suo rientro a Ramallah in un colloquio con l’Unità, quando ieri sulle speranze di un riaccendersi del percorso di pace cala l’ombra dell’ultimo annuncio del governo Netanyahu: una nuova colata di cemento autorizzata in Cisgiordania.
«Le considerazioni del presidente Abbas sul carattere non violento della protesta palestinese così come l’aver ribadito con forza che la linea del dialogo è una scelta strategica per l’attuale dirigenza palestinese, tutto questo conferma che il presidente Abbas è l’interlocutore migliore che Israele può oggi avere in un negoziato di pace. Delegittimarlo come fanno i falchi al governo, è una politica scellerata». Così dice la neo segretaria del Partito laburista israeliano, Shelly Yachimovich. «Abu Mazen – annota Yossi Sarid, leader storico del Meretz (la sinistra pacifista israeliana) ed oggi analista di punta del quotidiano progressista Haaretz – ha usato parole molto dure nei confronti di Benjamin Netanyahu, definendolo il più inaffidabile interlocutore in una trattativa. Parole dure ma rispondenti alla realtà. Perché il governo di cui è espressione e leader, è egemonizzato, culturalmente prim’ancora che sul piano politico, da quella destra oltranzista che si rifà esplicitamente all’ideologia di Eretz Israel, la Grande Israele che non accetta di dover cedere al Nemico una parte della sua Terra sacra».
«Non vi è dubbio che i toni, più ancora dei contenuti, di Abu Mazen siano quelli di un leader che vuole uscire dall’angolo e reclamare la sua centralità nello scenario mediorientale», osserva Shlomo Ben Ami, ministro degli Esteri ai tempi del negoziato di Camp David tra Yasser Arafat e l’allora primo ministro (laburista) israeliano Ehud Barack. «Da questo punto di vista – prosegue Ben Ami – Abu Mazen ha ottenuto un indubbio successo, spiazzando Hamas e ponendosi come soggetto politico di riferimento per i due Paesi che oggi sono al centro dei nuovi equilibri regionali: Egitto e Turchia». E dovrebbe far riflettere – conclude Ben Ami – che i falchi dei due campi, Hamas e la destra ultranazionalista israeliana, abbiano unito le loro voci nella critica all’iniziativa di Abu Mazen.
La primavera palestinese «A me ha colpito il riferimento fatto da Abu Mazen alla “primavera” palestinese», rimarca a sua volta Avraham Burg, già presidente della Knesset (il Parlamento israeliano). «Abu Mazen – aggiunge Burg – sa bene che al centro di rivoluzioni come quella tunisina ed egiziana, c’era una forte domanda di democrazia, di diritti, di rottura con le gerontocrazie al potere. La “primavera palestinese” se davvero sboccerà, metterà inevitabilmente in discussione anche le nomenclature di Fatah come di Hamas. Per Abu Mazen è un grande banco di prova». «Di fronte al continui rinvii e alla sfiducia reciproca, la dichiarazione palestinese di indipendenza non solo è legittima ma rappresenta anche un passo positivo e costruttivo per entrambe la nazioni», gli fa eco Avishai Margalit, vincitore del prestigioso Premio d’Israele, che, assieme ad altre venti personalità dello Stato ebraico, ha sottoscritto un documento di sostegno alla dichiarazione d’indipendenza palestinese. «L’iniziativa di Abu Mazen non mina la sicurezza d’Israele, perché la proclamazione di uno Stato sovrano e indipendente, che vivrà a fianco di Israele in pace e sicurezza, stabilirà il quadro e i parametri per adeguati negoziati sui dettagli dell’accordo fra i due Stati», sostiene l’ex presidente dell’Accademia delle scienze di Israele Menahem Yaari. C’è chi, invece, pone l’accetto sull’Intifada diplomatica avviata da Abu Mazen con il suo discorso all’Onu: «Netanyahu ha avuto la faccia tosta di accusare Abu Mazen di aver operato una forzatura unilaterale, proprio lui che è a capo di un governo che fa dell’unilateralismo più brutale il suo credo, la sua ragion d’essere – incalza Shulamit Aloni, fondatrice di Peace Now, più volte ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres -. L’unilateralismo è nell’assedio a Gaza, è nella colonizzazione della Cisgiordania, nella espulsione incessante dei palestinesi da Gerusalemme Est...».
La tomba della pace La denuncia di Shulamit Aloni trova conferma da una decisione assunta dal governo israeliano destinata a innescare altre polemiche: il ministero dell' Interno israeliano ha formalizzato ieri il via libera alla costruzione di 1100 nuovi alloggi nell'insediamento ebraico di Gilo, un sobborgo di Gerusalemme che si trova oltre la Linea Verde del 1967 e che fa parte dei territori rivendicati dai palestinesi. Il progetto rientra in una più ampia attività di rilancio dell'edilizia nella zona di Gerusalemme Est, indicata di nuovo da Abu Mazen quale capitale del futuro Stato palestinese nella richiesta di riconoscimento presentata all' Onu. Il progetto di Gilo, già annunciato nei mesi scorsi, aveva attirato polemiche e accese critiche nei confronti del gabinetto di Netanyahu, come altri messi in cantiere nei dintorni di Gerusalemme e nella parte orientale (a maggioranza araba) della città.
«Con questa misura, Israele ha risposto al comunicato del Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia, ndr) con 1.100 no», afferma il negoziatore-capo palestinese, Saeb Erekat. La decisione israeliana, rappresenta una «minaccia» per trovare una soluzione della crisi mediorientale in linea con il principio dei “due Stati”, avverte l'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea Catherine Ashton nel corso del suo intervento al Parlamento di Strasburgo.
Critiche internazionali E da Strasburgo si passa a Washington: gli Usa hanno espresso tramite il Dipartimento di Stato «profonda delusione» per la decisione israeliana di realizzare 1.100 nuovi alloggi in un sobborgo di Gerusalemme Est. Si tratta di «una decisione controproducente» che rende più difficile la ripresa dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi, rileva la portavoce Victoria Nuland. «Netanyahu – riflette preoccupato Avraham Burg, per decenni alto dirigente del movimento sionista (è stato anche responsabile dell'Agenzia Ebraica) sta trascinando sempre più la regione in un periodo di intransigenza e di spargimento di sangue ed è sottomesso agli elementi più estremisti della società israeliana».

La Stampa 28.9.11
Protestano i palestinesi: trattative a rischio
Netanyahu: Ho congelato i nuovi insediamenti per un anno e non è servito a niente
Israele, un fiume di cemento sulla pace
Via alla costruzione di mille case a Gerusalemme. Ue e Usa: decisione improvvida
di Aldo Baquis


Ha destato una tempesta internazionale la decisione del ministero degli Interni israeliano di estendere in maniera considerevole, fra Gerusalemme e Betlemme, il popoloso rione ebraico di Ghilo. L’annuncio è giunto in un momento delicato: mentre il Quartetto cerca di superare la frattura fra Israele e Anp (innescata dalla richiesta della Palestina di ottenere una piena adesione all’Onu), rilanciando trattative di pace da concludersi entro il 2012.
Il Quartetto (Ue, Usa, Russia, Onu) attendeva dunque da Israele e dall’Anp un messaggio esplicito di assenso alla trattativa. E proprio nelle ore in cui Netanyahu convocava il consiglio di difesa per confermare la disponibilità di Israele a «negoziati senza precondizioni», una commissione per l’urbanistica alle dipendenze del ministero degli Interni ha approvato l’estensione di Ghilo.
Il progetto include 1.100 alloggi, un centro commerciale e di edifici pubblici (fra cui scuole) ed anche di una promenade turistica. Disteso per chilometri sul dorso di una collina, il già popoloso rione di Ghilo rappresenta una sorta di cuneo fra Gerusalemme e Betlemme, in terre che erano sotto controllo giordano fino al 1967. Agli occhi dei palestinesi rappresenta una sorta di barriera umana concepita per separare fisicamente in quella zona Gerusalemme dalla Cisgiordania: dunque contribuisce a impedire la costituzione di uno Stato palestinese indipendente dotato di continuità territoriale.
La prima reazione dell’Anp è giunta in pochi minuti. Il premier Salam Fayad ha rilevato che da un lato Netanyahu esige dai palestinesi che non compiano mosse unilaterali (per esempio, chiedendo l’adesione all’Onu) «ma al tempo stesso Israele compie l’ iniziativa più unilaterale possibile, rilanciando progetti edili massicci su terre palestinesi». Con termini analoghi, anche il Dipartimento di Stato e Catherine Ashton, la responsabile della politica estera europea, hanno manifestato viva apprensione per l’iniziativa israeliana, ai loro occhi del tutto improvvida.
Ma in Israele questi appelli non destano emozione particolare. «A Gerusalemme - ha osservato il premier - costruiscono tutti: sia gli ebrei che gli arabi». Egli non ha peraltro alcuna intenzione di congelare i progetti edili nei Territori: «L’ho già fatto, per un anno, e non è servito a riprendere i negoziati». In occasione del Capodanno ebraico (che inizia oggi) Netanyahu ha registrato un messaggio agli israeliani e ha formulato l’auspicio che nell’anno lunare 5772 che ora comincia «saranno comunque rimessi in moto» i negoziati con i palestinesi. Nel frattempoIsraele deve assicurarsi di essere forte: «Questo è il nostro futuro. La pace - ha concluso- si fa con Statiforti».
L’annuncio del premier gela il Quartetto che sperava di arrivare a un accordo nel 2012

l’Unità 28.9.11
Turchia
Individuati con Facebook israeliani della Mavi Marmara


Avvalendosi di Facebook e Twitter, i servizi segreti turchi sono riusciti a individuare tutti i 148 militari israeliani coinvolti nel sanguinoso arrembaggio alla nave di militanti filo-palestinesi dell’anno scorso che causò la morte di 9 persone e la crisi fra Turchia e Israele. Questo almeno è quanto sostiene il quotidiano turco Sabah fornendo dettagli dell’operazione.

Corriere della Sera 28.9.11
E in Grecia la Chiesa ottiene lo sconto
di Francesca Basso


Alla fine la Chiesa ortodossa greca non dovrà pagare. Ieri sera il Parlamento di Atene ha approvato con 155 voti a favore e 142 contrari (su 297 votanti) la controversa legge per imporre una tassa sugli immobili. Ma gli edifici di culto, i monasteri e le sedi degli enti caritativi sono stati «salvati». Saranno tassate solo le proprietà ecclesiastiche adibite a esercizi commerciali. Una scelta che ha fatto discutere, così come in Italia si è dibattuto sull'ipotesi di introdurre l'Ici sugli immobili del Vaticano. Solo pochi giorni fa uno dei due vicepresidenti, il socialista Theodoros Pangalos, aveva criticato sul quotidiano svizzero La Tribune de Genève l'esenzione della Chiesa, spiegando che «dovrebbe dare l'esempio» pagando. In propria difesa la direzione dei servizi economici della Chiesa ortodossa aveva reso pubblico l'ammontare delle tasse versate nel 2010: 2,5 milioni di euro di imposte fondiarie e sui redditi. Ha fatto anche sapere di possedere 30 proprietà ad Atene e 14 a Salonicco. Il problema, mettono in evidenza i più critici, è che non esiste un modo per stabilire i redditi reali e le proprietà della Chiesa ortodossa dal momento che non esiste un catasto. Di fatto, però, è il secondo proprietario fondiario (dietro lo Stato) con 130 mila ettari di terra ed è il primo azionista della Banca nazionale greca con l'1,5% (ha anche un rappresentante nel consiglio di amministrazione). Il quotidiano conservatore Kathimerini ha riportato che i beni della Chiesa greca ammontavano nel 2008 a 700 milioni. Ma l'ex ministro dell'economia Stefanos Manos ha valutato il patrimonio in più di un miliardo di euro. Perché vanno considerati anche i beni delle parrocchie (alcune sono molto ricche), le proprietà degli 80 vescovati, i beni dei 450 monasteri. Di fronte all'emergenza bancarotta che sta vivendo la Grecia, nel marzo 2010 il governo di George Papandreou ha introdotto una tassa del 20% sui redditi commerciali della Chiesa e un'aliquota dal 5 al 10% per le donazioni ricevute. Ma resta il fatto che i 10 mila pope e i loro vescovi pesano sulle casse dello Stato per 220 milioni l'anno. L'arcivescovo di Atene Hiéronymos II si difende definendo un «mito» la presunta ricchezza della Chiesa ortodossa greca. La tassa sugli immobili, dunque, esenterà gli edifici di culto. Con la nuova imposta il governo di Atene conta di incassare dai greci circa 400 miliardi. Avrebbe dovuto essere un provvedimento d'emergenza per il solo biennio 2011-2012, ma invece diventerà permanente. Dovrà essere pagata attraverso le bollette della luce e chi si rifiuterà rischia l'interruzione dell'erogazione dell'energia elettrica.

La Stampa 28.9.11
“Cambiamo gli Usa” Davanti a Wall Street la nuova Woodstock
Michael Moore e Susan Sarandon con gli indignados “Ora chi ha dato il via alla tempesta deve pagare”
di Paolo Mastrolilli


Immaginate il concerto di Woodstock: musica, capelli lunghi, sacchi a pelo, e le mele organiche al posto della marijuana. Forse. Trasferitelo al centro di Manhattan, nello Zuccotti Park, incastonato tra Ground Zero che rinasce e la borsa che crolla. Il risultato è “Occupy Wall Street”, la protesta contro l’avidità del mondo della finanza, esplosa spontaneamente il 17 settembre, che spera di trasformare New York nel Cairo.
Ragazzi come Josh, 25 anni, studente, che presidia il “centro stampa” in mezzo al parco: «E’ cominciato tutto su internet. Abbiamo parlato della crisi e ci è venuto in mente di venire qui ad occupare simbolicamente Wall Street, che è l’origine di tutti i mali». In pochi giorni si sono organizzati. Hanno messo su la cucina da campo, l’infermeria per chi si facesse male nelle conversazioni con la polizia, e persino la biblioteca, con l’opera omnia di Walt Whitman e l’immancabile “Steal this book”, il vangelo del profeta del ’68 Abbie Hoffman. Sabato scorso hanno tentato una marcia non autorizzata verso Union Square, ma la polizia li ha bloccati facendo 87 arresti.
Il vice ispettore Anthony Bologna è stato denunciato perché ha usato spray urticante contro due ragazze. Tutto ripreso, documentato e messo su internet, perché la primavera araba ha fatto scuola. C’è anche un sito, occupywallst.org, dove si può seguire la protesta in diretta. I ragazzi hanno preso così tanto coraggio, che stanno organizzando una marcia su Washington.
Lunedì notte hanno ricevuto la visita del regista Michael Moore, che due settimane fa aveva chiesto a Obama di arrestare qualcuno a Wall Steet: «Bravi, da qualche parte bisognava cominciare! Questa è la scintilla da cui la protesta si diffonderà in tutta l’America, la maggioranza è con voi. Tutti sanno che i signori di Wall Street hanno forzato la mano e ci hanno rubato il futuro». Anche il linguista Noam Chomsky, detentore del brevetto originale di americano antiamericano, ha subito inviato la sua solidarietà via mail: «Siete la voce che si alza contro il gangsterismo della finanza: era ora».
Ieri mattina è arrivata Susan Sarandon. E’ in partenza per l’Italia, dove viene a ritirare un premio a Siena. «Questa è la democrazia, così si cambia il mondo», ha spiegato. Susan, pantaloni della tuta e scarpe da ginnastica, apprezza l’accoglienza: «L’America va a rotoli, dobbiamo alzare la testa». Ma possibile che sia tutta colpa di Wall Street? In fondo, per decenni gli investimenti di questi signori hanno prodotto ricchezza. «Guardate, io non pretendo di essere un’esperta di alta finanza, però una cosa è certa: quaggiù, negli ultimi tempi, sono stati commessi errori che sono costati il lavoro a milioni di persone. Il buon senso vuole che quando uno combina un guaio si faccia da parte. Qui, invece, sono piovuti bonus milionari». L’attrice premio Oscar non si intenderà di alta finanza, ma ha un’idea precisa di come cambiare l’America: «Io partirei da una bella riforma dei finanziamenti elettorali. Fino a quando i partiti saranno tutti foraggiati da Wall Street, è chiaro che nessuno avrà il coraggio di toccarli». Ma non toccava ad Obama di rivoluzionare il paese? «Non si è mai vista una classe dirigente che si suicida: se vuoi il potere da qualcuno, glielo devi togliere. Il cambiamento non avviene mai dall’alto, come diceva Obama, ma dal basso. Da qui».
IL REGISTA «Bravi, bisogna cominciare a ribaltare il sistema»
L’ATTRICE «Se vuoi il potere da qualcuno devi toglierglielo»

La Stampa TuttoScienze 28.9.11
Tutti in fibrillazione dopo il clamoroso e discusso esperimento al Gran Sasso sulle particelle più veloci della luce
“Un indizio per 43 dimensioni”
“Se ci sono i super-neutrini, l’idea di Universo potrebbe cambiare”
di Barbara Gallavotti


La notizia che i neutrini potrebbero essere più veloci della luce è arrivata come un filo d'acqua che si insinua nella crepa di una diga: un sussurro, seguito da un fragore assordante. Il sussurro ha causato non poche polemiche ed è venuto dalla voce di Antonino Zichichi, il padre dei Laboratori del Gran Sasso dove si è svolto l'esperimento Opera.
Professore, come mai ha deciso di parlare con i giornali prima che gli autori rendessero noto il loro risultato?
«Vorrei chiarire che non ho affatto rotto la riservatezza che circondava lo studio, perché non ho accennato né agli aspetti tecnici né ai famosi 60 nanosecondi. Ho detto che al Cern girava voce di una scoperta straordinaria, e questo lo sapevano tutti: quella mattina di mercoledì 21 ho ricevuto telefonate di 3 giornalisti italiani e 2 stranieri che mi ponevano domande sui risultati. Domande alle quali non ho risposto. Dopo 5 telefonate ho chiamato un giornalista che stimo, dicendogli che il venerdì 23 ci sarebbe stato al Cern un seminario sulle proprietà dei neutrini».
Alcuni colleghi però non l'hanno presa benissimo.
«La polemica è pretestuosa: il risultato di una ricerca deve essere tenuto riservato fino all' annuncio ufficiale degli autori. Cosa che ho fatto. L'annuncio di un seminario e il tema che sarà discusso nel seminario sono "rivelazioni"?».
Il primo intervento al termine del seminario in cui si annunciava la misura della velocità dei neutrini è stato del Nobel Samuel Ting, il quale l’ha ringraziata per aver concepito i Laboratori del Gran Sasso e aver avuto l'idea di studiare neutrini prodotti al Cern e osservati al Gran Sasso: pensa che oggi sarebbe possibile costruire qualcosa come il Gran Sasso?
«Per costruire un’infrastruttura ai vertici della ricerca ci vuole una grande idea. Nel caso del Gran Sasso era quella di studiare i fenomeni rari e i neutrini generati al Cern. Per questo le sale sperimentali sono state orientate in modo opportuno. Le caratteristiche dei laboratori sono state studiate con estrema attenzione. Una montagna "a piramide" come il Cervino non avrebbe offerto la giusta protezione dai raggi cosmici. E se le rocce non fossero state fra le meno radioattive al mondo, addio "silenzio cosmico". Infine, se non fossero stati in corso i lavori del traforo, il progetto avrebbe avuto costi proibitivi».
Si parla della SuperB, un’infrastruttura proposta dall' Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e divenuta un progetto bandiera del Miur. Che ne pensa?
«L'Italia ha i numeri per impegnarsi in grandi progetti, ma la SuperB è una cosa che non farei mai. Credo che occorra impegnare energie e risorse per ottenere risultati che portino a scoprire qualcosa di davvero nuovo. La SuperB, al contrario, è pensata per fare misure di alta precisione che poco aggiungerebbero a ciò che sappiamo. Ritengo che ci siano strade più innovative da percorrere».
I costi sono un problema?
«I costi della ricerca sono poca cosa nel bilancio di uno Stato, irrisori ad esempio rispetto a quelli della missione in Libia. E divengono ancora più piccoli se si pensa che le infrastrutture di ricerca sono finanziate da collaborazioni internazionali».
Ma, insomma, lei ai neutrini superveloci ci crede o no?
«È essenziale che la misura venga ripetuta e verificata. Il mio gruppo è impegnato a ottenere una precisione di misura del tempo di volo delle particelle subnucleari di 15 millesimi di miliardesimo di secondo. Ma come fisico mi piacerebbe che si trattasse del primo indizio di un Universo a 43 dimensioni, come vuole l'idea del supermondo. Se la struttura dello spazio-tempo fosse con 43 dimensioni, i neutrini potrebbero andare più veloci di quanto faccia la luce nell'Universo con 4 dimensioni senza violare il principio di causalità, secondo cui le cause devono precedere le conseguenze, e a cui non vorrei assolutamente rinunciare».

La Stampa TuttoScienze 28.9.11
Ma ora c’è chi cerca un “baco” nel test
La misurazione dei 60 miliardesimi di secondo potrebbe essere non corretta
di B. Gal.


Più veloce della luce, anzi dei neutrini, tra i fisici è iniziata la caccia all'errore che potrebbe far franare il risultato del test Opera. Dopo il seminario al Cern e quello che si è svolto lunedì al Gran Sasso, un punto su cui accostare la lente di ingrandimento si è trovato, e riguarda il momento della partenza dei neutrini.
Come ha spiegato a «La Stampa» Antonio Ereditato, ciò che i ricercatori misurano non è direttamente la partenza dei neutrini, ma il momento della produzione di protoni che poi, urtando contro un bersaglio, daranno origine ai neutrini. Da questa informazione si dovrebbe poter ricavare esattamente l'istante di inizio del viaggio dei neutrini. Tuttavia i protoni urtano il bersaglio in lasso di tempo pari a 10 milionesimi di secondo, mentre il presunto vantaggio dei neutrini è inferiore, circa 60 miliardesimi di secondo: proprio qui potrebbe nascondersi il «baco». Immaginiamo i protoni come una fila di auto, i neutrini come passeggeri e il bersaglio come un traguardo: man mano che le auto arrivano al traguardo, i passeggeri scendono e iniziano a correre verso il Gran Sasso. Ovviamente i corridori arriveranno a destinazione prima o dopo a seconda della vettura da cui provengono. Se tutte le auto hanno lo stesso numero di passeggeri, questo non è un problema, perché ciò che conta è la media. Ma supponiamo che, all'insaputa di tutti, i passeggeri siano concentrati nelle auto di testa, allora la misura risulterà falsata: gli ultimi arrivati giungeranno con anticipo semplicemente perché saranno partiti prima del previsto. Ora, dunque, si dovrà verificare se la produzione di neutrini è omogenea come ipotizzato. Non c'è in realtà un motivo noto per cui non dovrebbe esserlo, ma è più facile pensare a un convoglio un po' anarchico che a un universo sottosopra.

La Stampa TuttoScienze 28.9.11
Dobbiamo riscrivere la fisica?
La Relatività sa aspettare
Solo i futuri test sveleranno se i neutrini “veloci” esistono
di Carlo Rovelli
, Università di Marsiglia

Il dubbio L’ipotesi di Einstein è alla base della fisica moderna, che ha dato innumerevoli predizioni verificate Se i neutrini fossero più veloci della luce dovremmo capire come tutto possa aver funzionato così bene partendo da un'ipotesi errata e riscrivere i libri di fisica

Ha fatto clamore la notizia di una misura che indicherebbe che i neutrini vanno più veloci della luce. Cosa c'è di vero?
I fatti sono questi. Nei laboratori del CERN di Ginevra viene prodotto un fascio di neutrini, particelle subatomiche come elettroni e protoni, ma più leggere e senza carica elettrica (da cui il nome). Il fascio è indirizzato verso l'Italia e osservato da grandi rilevatori nei laboratori del Gran Sasso, vicino all'Aquila. Un neutrino interagisce pochissimo con la materia e attraversa in linea retta il sottosuolo, «tagliando» la curvatura della Terra. Oggi è possibile misurare la distanza Ginevra-L'Aquila con precisione di pochi centimetri, e il tempo di volo del fascio con precisione di qualche miliardesimo di secondo. Dividendo distanza per tempo, si ha la velocità dei neutrini. A conti fatti, l'équipe che conduce l'esperimento si è trovata tra le mani un risultato sconcertante: i neutrini sarebbero poco più veloci della luce: 60 miliardesimi di secondo in meno della luce per compiere il tragitto.
Perché sconcertante? Non perché la misura contraddice quello che ha detto Einstein, come hanno riportato molti giornali. Einstein è all'origine dell'ipotesi ben nota che niente vada più veloce della luce. Ma Einstein è stato contraddetto molte volte, e diverse sue idee si sono rivelate sbagliate.
Il risultato è sconcertante perché è un secolo che misuriamo velocità alte, per esempio negli acceleratori di particelle, nei raggi cosmici o in fenomeni astrofisici, ma sempre, anche per i neutrini, inferiori (magari di pochissimo) a quella della luce. La nuova misura contraddice quanto osservato finora. Ma c'è di più: l'ipotesi di Einstein è alla base di tutta la teoria fisica moderna, che ha dato innumerevoli predizioni verificate. Se i neutrini fossero più veloci della luce, dovremmo capire come tutto possa aver funzionato così bene partendo da un'ipotesi errata, e riscrivere i libri di fisica.
La reazione comune degli scienziati è sospettare che ci sia un errore annidato nei delicati dettagli tecnici dell'esperimento. Questa è stata anche la reazione dell'équipe che ha compiuto la misura, che è di altissima qualità scientifica. Per mesi, l'équipe ha cercato l'errore. Non trovandolo, non ha potuto che rendere pubblica l'anomalia, e chiedere che la misura sia ripetuta da altri. Lo stesso comunicato ufficiale del CERN chiarisce che una violazione dell'ipotesi di Einstein appare per ora «poco plausibile».
Nella maggior parte delle attività umane un risultato in contraddizione flagrante con tutto quanto si sa viene generalmente ignorato. Non così nella scienza migliore. La consapevolezza che, nonostante il successo, ci possano essere errori anche nel cuore del nostro sapere è proprio ciò che distingue la scienza da altre ambizioni di sapere. Per questo il mondo scientifico ha prestato immediata attenzione. Potrebbe anche essere vero. Questa apertura, io credo, è ciò che fa bella la scienza. Se il risultato fosse confermato, si aprirebbe una di quelle fasi di «rivoluzione» a cui tutti gli scienziati sognano di poter partecipare. Quindi grande cautela, ma anche emozionata speranza. L'esito considerato più probabile è che si scovi un dettaglio trascurato: falsi allarmi sono comuni. Ma l'esito che tutti sperano è che il risultato sia confermato. Laboratori capaci di ripetere la misura, come il Fermilab di Chicago, si stanno già muovendo e potrebbero esserci risultati già fra alcuni mesi. Restiamo in attesa.
In Italia la reazione alla notizia è stata un po’ scomposta. Diversi titoli hanno annunciato la rivoluzione come cosa già certa. Il prof. Zichichi ha trasmesso la notizia al «Giornale» prima dell'annuncio ufficiale, contro le buone regole della comunità. Il ministro Gelmini ha emesso un comunicato in tono trionfale, poco opportuno per un ministro della ricerca, che dovrebbe comprendere come funziona la scienza. Per peggiorare le cose, il comunicato parla di un «tunnel da Ginevra al Gran Sasso», svista forse scusabile per la fretta; ma quando l'assurdità di un tale tunnel è stata fatta notare, invece di un semplice «ci spiace, è un errore», che avrebbe meritato rispetto, il ministro ha emesso una nota infastidita, rifiutandosi di ammettere il refuso.
Al vertice dell'équipe che ha compiuto la misura ci sono scienziati italiani. La loro competenza e serietà è stata sottolineata da tutta la comunità internazionale. E' stato Dario Autiero, livornese che lavora in Francia, a presentare sabato la misura davanti a una sala del CERN piena, dove scetticismo e fascinazione erano entrambi palpabili. Il misurato, ma lungo applauso finale conferma il grande rispetto nel mondo per gli scienziati del nostro Paese. Come tutti i colleghi, spero in una conferma, che li indirizzi verso il Nobel. Ma se non arrivasse, saranno i primi, loro, a dire semplicemente «ci spiace, c'era un errore». Non per questo li ammireremmo meno.

Le cavie saranno dei topolini? «Sì, dei ratti». Non sono previsti esseri umani in laboratorio? «Per ora no»
La Stampa TuttoScienze 28.9.11
Intervista
“Vi racconto la mia caccia ai cassetti dei ricordi”

E’ italiano uno dei vincitori dell’Erc, il bando europeo più prestigioso “Nelle cortecce c’è un meccanismo che lega in modo indissolubile memorie ed emozioni”
di Gabriele Beccaria


C’è un «cassetto» segreto del cervello, dove i ricordi non sbiadiscono: lì si può trovare un suono che evoca di colpo un brivido di paura oppure un sapore capace di commuovere istantaneamente. Stimoli ed emozioni si contaminano e ogni volta che il cassetto si riapre riesplode un’avventura interiore. Se non avessimo quell’archivio, saremmo diversi da come siamo: ecco perché un neuroscienziato quarantunenne dell’Università di Torino, Benedetto Sacchetti, ha deciso che è tempo di trovarlo.
L’idea è talmente ambiziosa che l’Erc - il Consiglio europeo delle ricerche - l’ha scelta tra migliaia di altre e l’ha premiata: Sacchetti è uno dei 10 vincitori del bando 2011 e avrà a disposizione 1 milione di euro per 5 anni.
Dottor Sacchetti, la cifra è sensazionale, soprattutto per uno studioso italiano abituato, quando ci sono, a cifre ridicole.
«Eh sì... Adesso sì che potremo fare le ricerche che sognavamo».
In che modo spenderete quegli euro? E di che tecnologie avrete bisogno?
«Dovremo creare un team interdisciplinare e acquistare apparecchiature molto sofisticate: uniremo l’analisi comportamentale alle tecniche di microscopia e di registrazione dell’attività dei neuroni».
Le cavie saranno dei topolini?
«Sì, dei ratti».
Non sono previsti esseri umani in laboratorio?
«Per ora no. Vediamo che cosa troveremo e poi dopo se ne riparla tra cinque anni».
La ricerca si farà a Torino?
«Sì e qui creeremo un gruppo di ricerca, di 4-5 persone».
La sua nuova ricerca parte da uno studio pubblicato su «Science» sulla memoria emotiva, giusto?
«Sì. Tiziana Sacco e io avevamo evidenziato come le cortecce sensoriali di ordine superiore sono coinvolte nella formazione dei ricordi, piacevoli e spiacevoli. Adesso vogliamo cercare di capire come si formano queste memorie e come si conservano».
Qual è stata la vostra ipotesi di partenza?
«E’ che siano proprio le cortecce sensoriali di ordine superiore ad acquisire e conservare queste informazioni emotive».
Vi aspettate di trovare neuroni un po’ particolari?
«La speranza, in effetti, è trovare dei neuroni che, più che rispondere agli stimoli, siano capaci di reagire agli aspetti emotivi, sia piacevoli sia spiacevoli».
E quali saranno le ricadute terapeutiche?
«E’ ancora presto per parlarne. Ma potrebbe emergere che disturbi come le fobie siano dovuti a un’alterazione dell'attività delle cortecce che vogliamo studiare».
Come potrebbe cambiare la nostra idea di cervello?
«Di sicuro è destinata a cambiare: per esempio si getterà nuova luce sui circuiti delle memorie emotive. Di questi, al momento, si sa davvero poco».
Finora le emozioni si cercavano nella parte più primitiva del cervello, non è così?
«In effetti la maggior parte degli studi si è concentrata sull’amigdala: focalizzandosi su questa struttura, sono state quindi lasciate da parte altre strutture. E’ da questo contesto che nasce la nostra domanda: dov’è che l’aspetto emotivo di un determinato stimolo sensoriale viene associato allo stimolo stesso e dove viene conservata l’informazione? Secondo noi, dobbiamo cercare proprio nelle cortecce».
Dove si trovano?
«Quelle visive sono a livello occipitale, quindi dietro la nuca, e quelle uditive sono a livello temporale, mentre le cortecce olfattive si trovano in posizione frontale e temporale. Si tratta, quindi, di una rete molto distribuita. Invece di un’unica struttura per le memorie emotive ne esisterebbero tante, che elaborano in modi differenti».
Quindi come dobbiamo concepire i ricordi? Rievocando la famosa «madeleine» proustiana?
«E’ possibile: l’idea di partenza è che questo tipo di informazioni emotive si associano sempre alle nostre esperienze quotidiane».
Più l’emozione è forte, nel bene e nel male, e più intenso è il ricordo?
«Questo è un principio ormai riconosciuto. Ognuno di noi tende a conservare la memoria di esperienze dolorose o traumatiche perché è fondamentale tenere a mente un pericolo per poterlo evitare quando si ripresenta. Il nostro cervello è fatto così, anche per ciò che rappresenta una fonte di sopravvivenza e di piacere».
Torniamo al bando dell’Erc: quanto è competitivo?
«Molto. Partecipa tutta l’Europa e, quindi, i centri più prestigiosi e competitivi, dalla Francia all’Inghilterra e alla Germania. In questo caso si trattava di centinaia di progetti, molti dei quali di altissimo livello».
Chi può partecipare?
«Possono fare domanda i ricercatori che hanno un massimo di 12 anni di attività dal conseguimento del dottorato e che lavorano nel campo delle neuroscienze».
E quali sono gli altri criteri?
«L’Unione europea chiede che il progetto presentato sia altamente innovativo e che il giovane studioso presenti almeno una pubblicazione autonoma, senza il contributo del professore con cui ha fatto il dottorato. Per i criteri europei questo secondo aspetto è piuttosto scontato, perché significa che ci si è impegnati a studiare e sperimentare in una realtà più ampia di quella di partenza, ma per noi italiani, spesso, non è affatto così».

La Stampa TuttoScienze 28.9.11
Ricercatori promossi ma metà stanno all’estero
di Piergiorgio Strata, Università di Torino


Lo European Research Council (ERC) ha reso noti i risultati di uno dei principali bandi per finanziare la ricerca nell'ambito del settimo programma quadro. Per unanime consenso gli scienziati considerano l’ERC la parte migliore di questo programma della durata di 7 anni che terminerà nel 2013. L'assegnazione si basa esclusivamente sul merito ed è garantito da un’ineccepibile «peer review». Ogni progetto viene sottoposto ad una serie di valutazioni da parte dei più qualificati scienziati specializzati nello specifico progetto di ricerca.
I nuovi risultati riguardano il 4˚ bando per giovani ricercatori che hanno ottenuto il dottorato di ricerca da non più di 12 anni. Si chiamano anche «starting grants», perché vogliono stimolare in Europa l’inizio di una carriera di ricercatori indipendenti e di alta qualificazione. Il singolo finanziamento può raggiungere i 2 milioni di euro per i prossimi 5 anni, cifra che copre le spese necessarie per la realizzazione dell'intero progetto, inclusa la prestazione d'opera dei collaboratori. Pertanto l’esame dei risultati è un ottimo termometro dello stato della ricerca del nostro Paese.
Hanno presentato domanda 4080 giovani e ne sono stati selezionati 480 (il 12%) con un'età media di 37 anni. In base alla nazionalità del ricercatore l’Italia occupa il 3˚ posto con 49 progetti finanziati a fronte di 83 progetti tedeschi e 57 inglesi. Al quarto posto la Francia (47) seguita dall'Olanda (41). Invece, in base alla nazione di residenza del giovane ricercatore, l’Italia ottiene 26 finanziamenti, con 3 rimpatri dagli Usa, a fronte dei 113 inglesi (primi in classifica), dei 65 tedeschi, dei 60 francesi e dei 47 olandesi. Ciò significa che gli italiani fanno bella figura in assoluto, ma la metà lavora all'estero. Direi una bella esportazione legale di capitali.
Questa tendenza è simile a quella già manifestata nei 3 bandi precedenti e non tende a cambiare. Se osserviamo quanti stranieri ogni Paese ospiterà, troviamo, come nei bandi precedenti, che l’Inghilterra fa la parte del leone con circa il 50% di stranieri, mentre in Italia il loro numero è di 2 unità. Interessante notare che dal punto di vista geografico è quasi assente la zona a Sud di Roma, città che grazie all'Università di Tor Vergata conquista il primato nazionale con 6 assegnazioni, seguita da 3 unità della Bocconi.
Un’ultima considerazione riguarda il rapporto fra il numero di assegnazioni ed il volume della popolazione, lo «score on size». In questa classifica il nostro Paese, che occupava in valore assoluto il 5˚ posto in Europa, precipita al 16˚ posto con un valore di 0,43 progetti per milione di abitanti. Questa valutazione «on size», che ci vede nella zona di coda, riflette quella che da anni viene riportata dallo «European Innovation Scoreboard».
Mi sembra che questi dati, comunque si guardino, non abbiano bisogno di commenti. La presidente uscente dell' ERC, Helga Nowotny, afferma che «dobbiamo continuare ad investire nei nostri migliori talenti, specialmente in questi tempi di crisi, in quanto costituiscono la chiave per la futura prosperità dell'Europa». Chiederei all’ANVUR di prendere in considerazione i 26 ricercatori che lavoreranno in Italia nei riguardi dei prossimi concorsi di idoneità nazionale, che a mio parere dovrebbe essere loro attribuita con una «ope legis» per vero merito.
Il ministro Gelmini, con un provvedimento che è all'esame della Corte dei Conti, ha deliberato di assegnare l'idoneità per la posizione di ricercatore a coloro che ottengono finanziamenti nell'ambito del 7˚ programma quadro, tra i quali sono inclusi i vincitori di questo bando. Ottima scelta. Peraltro lo stesso provvedimento è stato preso anche per coloro che hanno vinto un finanziamento PRIN giovani in Italia. Al ministro chiederei che ai giovani vincitori di questo bando sia assegnata come minimo non solo un’idoneità per professore ordinario o posizione equivalente, ma anche il relativo stipendio. Questo permetterebbe a qualche dipartimento illuminato di reclutare un giovane con relativa dote ed innescare un tanto auspicato mercato.

Lancet Oncology
La Stampa 28.9.11
“Basta curare i malati terminali”
Londra, 37 studiosi: non si deve spendere per medicine inutili nelle ultime settimane di vita
Secondo gli autori dell’articolo le cure anticancro nelle ultime settimane sono anche contrarie agli obiettivi di molti malati
di Andrea Malaguti


Spaventati dalla spirale fuori controllo dei costi per la cura dei tumori, un gruppo di 37 studiosi di tutto il mondo, guidati dal professor Richard Sullivan del King’s College di Londra, ha pubblicato su «Lancet Oncology» i risultati di una ricerca di dodici mesi che sta agitando la comunità scientifica internazionale. Il senso è semplice: ogni anno circa 12 milioni di persone ricevono una diagnosi di cancro. E la cifra potrebbe salire a 27 milioni entro il 2030. I costi dei trattamenti arrivano in questo momento a 893 miliardi di dollari e solo in Gran Bretagna la spesa per le terapie oncologiche è passata dai due miliardi di sterline del 2002 ai cinque di oggi. Statistiche che agitano il professor Sullivan. «Andiamo incontro a una crisi inimmaginabile». Perfetto. Ma qual è il sottotesto di un’affermazione del genere?
Seduto in uno studio gelido della «Bbc», un fondale neutro alle spalle, il professore, un uomo duro, belloccio, disabituato a sorridere, recita a memoria il discorso pronunciato davanti a un’assemblea di medici lunedì scorso a Stoccolma. «I dati dimostrano che una sostanziale percentuale delle spese per cure anticancro avviene nelle ultime settimane e mesi di vita dei pazienti. E che in larga percentuale queste cure non solo sono inutili, ma anche contrarie agli obiettivi e alle preferenze di molti malati e delle loro famiglie». Una gigantesca truffa del dolore? Non esattamente, forse. Ma dal punto di vista dei 37 nobili firmatari del documento pubblicato su «Lancet» il ricorso costante a trattamenti inutili e costosissimi in nome di un supposto senso etico. «Stiamo correndo lungo una traiettoria che non ci possiamo più permettere. Non basta tenere a freno i costi. Dobbiamo anche ridurli. Altrimenti le disuguaglianze tra ricchi e poveri diventeranno sempre più nette». Per fare in modo che ogni sua parola cada esattamente dove è attesa, Sullivan snocciola un altro po’ di dati. Dal 1970 al 2011 nel Regno Unito i farmaci antitumore sono saliti da 35 a 100. Solo negli ultimi sei mesi ne sono stati approvati otto. Medicinali che hanno un costo medio di 2500 sterline a settimana. «È un treno che sta andando a sbattere». Non tutti la pensano come lui.
Rose Woodward, professore del James Whale Found for Kidney Cancer, è convinto che quando una persona grida il proprio dolore non crede necessariamente che qualcuno possa alleviarlo. A volte ha più bisogno che gli altri mitighino la sua solitudine. «Non è una visione solo romantica. Esiste ad esempio un farmaco chiamato Sutent con cui abbiamo prolungato la vita di pazienti malati di cancro ai reni non per settimane, ma per anni». E Andrew Wilcon, amministratore delegato della Rare Cancer Foundation, si schiera al suo fianco: «Negli ultimi trent’anni, di fronte all’innegabile aumento dei costi, abbiamo raddoppiato il numero di vite salvate. E non mi pare che questa tendenza sia in calo. I nuovi farmaci servono». Difficile dire in questo scontro chi siano i buoni e chi i cattivi.
Ci sono i numeri. Poi ci sono le storie personali. Martin Colworth, assistente sociale di Manchester, racconta che quando ha saputo che nel giro di pochi mesi sua moglie sarebbe morta di un tumore al seno gli è sembrato di impazzire. «Ha solo trent’anni e il destino è stato cattivo con lei. Abbiamo perso due bambini prima che nascessero». Ancora adesso gli sembra impossibile che tutta quella sfortuna possa entrare in un solo corpo. Spiega che ha passato la mattina di ieri a discutere con lei della ricerca di «Lancet». «All'inizio l’abbiamo presa male. Poi abbiamo cercato di ragionarci su. Anna mi fa domande difficili e io non so che cosa risponderle. Spesso ci ripetiamo in silenzio: perché è così? Non vogliamo fare da cavie, ma vorremmo avere tempo. E magari questa ricerca ce ne toglierà un po’ di quel niente che ci rimane». Stordito dal fiume in piena che gli ha allagato l’esistenza guarda fuori dalla finestra, senza sapere più che cosa pensare mentre resta appoggiato all’incomprensibile davanzale della vita.

La Stampa 28.9.11
Meno accanimento non è abbandonare il paziente
di Umberto Veronesi


Anche se a prima vista la denuncia di Richard Sullivan e dei suoi colleghi può sembrare eccessivamente cinica, plaudo a questa iniziativa perché ha il merito di affrontare un tema che tutto il mondo dell' oncologia conosce, ma raramente ha avuto il coraggio di porre al centro del dibattito della pubblica opinione.
Conosco il pensiero di Sullivan, a cui l'Istituto Europeo di Oncologia è legato da collaborazioni scientifiche, e condivido il suo attacco alla «cultura dell'eccesso». Prima di tutto eccesso terapeutico. Ho sempre pensato che sia fondamentale in tutto il percorso di cura, e tanto più nella fase terminale, ridurre al minimo la tossicità per evitare situazioni estreme in cui si aggiunge malattia alla malattia. Ma non si tratta affatto di abbandonare il malato, al contrario si tratta di offrirgli terapie di supporto avanzate e mirate per il trattamento sia del dolore fisico, che della sofferenza, che è altra cosa. Terapie, dunque, che non aggiungono tossicità. Oggi disponiamo di approcci terapeutici che tengono conto anche dell'aspetto psicologico del paziente in fase terminale.
C'è poi il problema legato all'«eccesso di costi», che il lavoro di Lancet Oncology denuncia con forza. In un momento di crisi globale in effetti è ancora più incomprensibile un utilizzo di farmaci ad altissimo costo che non portino sensibili vantaggi ai malati. Posso capire le reazioni indignate di chi istintivamente rifiuta qualsiasi ragionamento economico applicato alla malattia. Ma tengo a sottolineare che la questione dei costi in questo caso non vuol dire risparmiare, ma cambiare l’atteggiamento della medicina moderna, che non deve dar prova di tutte le sue possibilità fino a sfiorare l’«accanimento terapeutico», quanto tornare a considerare la dimensione individuale di ogni malato, la sua storia e la sua percezione personale della vita con la malattia.

La Stampa 28.9.11
Il professor Comoglio “Ma i nuovi farmaci stanno dando frutti”
di Marco Accossato


Il professor Paolo Comoglio è il direttore scientifico dell’Ircc-Fpo di Candiolo per la cura del cancro.

Come giudica l’articolo su «Lancet Oncology»?
«La rivista è una delle più autorevoli voci anche nel dibattito che si accende intorno ai problemi dell’etica della Medicina».
Davvero si può parlare di cure inutili e costi da ridurre, di fronte a un malato in fase avanzata?
«Al momento sono le terapie convenzionali - chirurgia, chemioterapia e radioterapia - a fornire le armi più efficaci per la cura. C'è tuttavia una trincea di ultima difesa che, in ancora troppi casi, viene superata dalla malattia e genera situazioni drammatiche in cui il paziente e il medico devono decidere se arrendersi o combattere ancora. Le armi per difendere questa trincea vengono dalla ricerca, in particolare dalla ricerca clinica, che vede proprio nei pazienti in stadio avanzato i potenziali beneficiari delle nuove strategie di cura».
Secondo il gruppo del King's College tutto ciò si scontra però con spese ormai insostenibili...
«Nuovi farmaci per le terapie mirate sono in studio e stanno dando i primi frutti. Questi farmaci, e gli studi clinici controllati che li hanno generati, sono estremamente costosi. Certo, il loro uso indiscriminato è inutile e può generare sprechi insostenibili, come rileva l’articolo di “Lancet”. Ma il loro uso razionale è estremamente utile per i pazienti che ne possono beneficiare, e contribuisce alle conoscenze scientifiche, in un processo che alla fine segnerà progressisignificativi nella lotta al cancro».
Seguendo la teoria del gruppo dei 37 non si rischia di creare una Sanità per ricchi, che potranno comprarsi i farmaci più costosi, e una per poveri, che non avranno questa opportunità?
«E’ un pericolo reale».
Dove passa allora la linea rossa che separa lo spreco dall’impiego razionale?
«Da una prospettiva diversa di guardare alla malattia, fornita da una nuova disciplina, l'oncologia molecolare clinica, che permette di prevedere se il paziente potrà trarre o meno beneficio dal nuovo e costoso farmaco. L'identificazione nel paziente delle lesioni genetiche che sostengono la “sua” malattia indica quali dei farmaci hanno possibilità di funzionare e quali no. In quest’ottica di impiego razionale delle possibilità terapeutiche si soddisfano sia i principi dell’etica professionale che impongono di tentare tutto il possibile a favore del paziente, sia i principi di quella economica che si preoccupano di non sprecare risorse».

l’Unità 28.9.11
L’intervista
«Amo i miti greci, raccontano l’uomo e il suo doppio»
Il filosofo Umberto Curi ha concentrato la sua ricerca sulle figure che rappresentano tutto ciò che attiene alla condizione umana. Ma i suoi saggi esplorano anche il «mythos» nel cinema. E rilegge Marx come un «classico»
di Gaspare Polizzi


Gli amici dell’Università di Padova, insieme all’associazione «Filosofia di Vita», gli hanno dedicato il 10 settembre una serata filosofica a Montegrotto Terme, per festeggiare i settant’anni della sua Passione del pensare, come recita il titolo del libro scritto in suo onore (edito da Mimesis). In dialogo con Umberto Curi, figura notevole della filosofia italiana, storico, teoreta, lettore attentissimo di classici letterari e filosofici, e di film, si sono posti allievi, colleghi e studiosi di tutto rilievo, come Giulio Giorello, Giovanni Mari, Giacomo Marramao, Salvatore Natoli, Elena Pulcini (sul Polemos); Adriana Cavarero, Antonio Da Re, Carlo Sini (per il Mythos); Remo Bodei e Sergio Givone (sullo Xenos); Maurizio Ferraris e Francesca Rigotti (sul Thauma). E Massimo Cacciari gli ha testimoniato la sua philia con una poesia, quasi un unicum nella sua produzione, della quale riportiamo gli ultimi quattro versi «Che ciò sia nostro merito o destino, / è vano domandare – solo conta / avere iscritto su ogni fallimento: / qui siamo giunti, bene navigammo». Abbiamo chiesto a Curi di fare il punto sulla sua ricerca.
«Polemos» ed «endiadi», due termini (greci) che ha assunto a titoli di due tra i suoi libri più importanti, e che toccano una costante «dialettica» del suo pensare.
«Con Endiadi, pubblicato originariamente nel 1995, è cominciata una fase nuova della mia ricerca. L’analisi si è concentrata su alcune “figure” – desunte dal repertorio mitologico antico e da alcuni testi della drammaturgia classica – capaci di esprimere un connotato fondamentale e ineliminabile, vale a dire l’intrinseca ambivalenza di tutto ciò che attiene alla condizione umana. In questa prospettiva, Narciso e Edipo, Prometeo e Orfeo (solo per citare alcuni exempla) si propongono non soltanto come personaggi letterari, ma come paradigmi dell’incancellabile presenza del due-in-uno. Polemos sviluppa questo assunto, ritrovando il conflitto come elemento costitutivo, dal punto di vista storico-empirico, e in senso ontologico. Ripercorrendo alcuni momenti nodali della tradizione culturale dell’Occidente, fra Eraclito e Heidegger, in quel libro ho cercato di far emergere la strutturalità del rapporto polemico con l’altro, come dato irriducibile a qualsiasi ipotetica mediazione «dialettica».
Nella serata a Montegrotto Terme Cacciari ha ricordato, tra le radici della sua filosofia, la riflessione sulla scienza, oggi. Come guarda a queste ricerche, ormai dell’altro secolo?
«In generale l’approccio filosofico alla scienza si esprime abitualmente in due forme, per me entrambe insoddisfacenti. Da un lato, vi sono quei filosofi che credono di poter “spiegare” allo scienziato cosa deve fare nel suo lavoro concreto (anche il troppo osannato Popper rientra in questa categoria). Dall’altro, vi sono coloro che tendono a cancellare la peculiarità dell’interrogazione filosofica, mediante lo sforzo di assimilazione della filosofia alle scienze. Senza alcuna pretesa eccessiva, con i miei contributi di carattere “epistemologico”, ho cercato di andare al di là di questa impostazione, con risultati non banali». Al cinema, forma moderna del mythos, ha dedicato quattro libri. Ci sono film «filosofici»? E la filosofia può divenire immagine filmica?
«Sul problema del rapporto cinema-filosofia, in Italia scontiamo ancora la sudditanza allo storicismo crociano, secondo il quale il cinema è forma ibrida, né propriamente arte, né economia in senso stretto. Pur non riconoscendomi completamente nell’approccio proposto da Gilles Deleuze, da dieci anni ho cercato di dimostrare concretamente fino a che punto si possa trasformare la congiunzione in copula, affermando dunque che il cinema è filosofia. A questo scopo, nei miei libri affondo nell’analisi di alcuni film, dei quali evidenzio il carattere di “testi”, rilevanti dal punto di vista dell’indagine filosofica. E non si tratta necessariamente di film russi con sottotitoli tedeschi, della durata di non meno di 4 ore, ma delle opere che ciascuno di noi va a vedere, magari il sabato sera con la famiglia o gli amici».
La sue riflessione politica persiste. Un testo per tutti: «L’Introduzione del 1857 di Karl Marx», che tiene distinta da «Per la critica dell’economia politica». Ne ha scritto nel 1975 e torna ora a introdurla.
«Su Marx sono tornato recentemente, oltre che con il saggio di “lettura” dell’Introduzione del 57, anche con un dvd, in una serie promossa dall’Espresso. Resto convinto che, smaltita la grande sbornia ideologica degli anni ‘60 e ‘70, e tramontata la prospettiva storico-politica del comunismo, sia ora finalmente possibile “trattare” Marx come merita, vale a dire come grande autore “classico”, senza il quale tutti noi non saremmo ciò che ora siamo, indipendentemente dalle diverse “collocazioni” politiche o culturali. In particolare, l’Introduzione del ’57 è un testo esemplare, per uno “stile” di analisi, rigoroso e penetrante, che ha pochi altri riscontri in tutto il pensiero contemporaneo».
Un’ultima domanda, interessata: cosa ha rappresentato per un filosofo legato come lei a doppio filo alla letteratura greca (Omero, Erodoto, Eschilo, Sofocle...) l’opera di Leopardi? «Leopardi è uno degli esempi più evidenti dell’inaffidabilità degli schemi storiografici correnti, i quali distinguono assiomaticamente letteratura e filosofia, come fossero “realtà” eterogenee, e dunque escludono dall’ambito della filosofia alcuni fra i più grandi “pensatori” antichi (Sofocle e Tucidide, per citare due nomi) e contemporanei (Kafka, Musil e lo stesso Leopardi).

l’Unità 28.9.11
«Io e Dio», la teologia da supermarket di Vito Mancuso
Un libro consolatorio. La ricerca di un nuovo senso della fede che semplifica un po’ troppo le connessioni tra cristiani e non
di Fabio Luppino


Ci sono stati laici che per una vita hanno cercato un dialogo con Dio, rinunciandovi dopo molte sofferenze. Altri, anche comunisti, hanno scelto la conversione religiosa da anziani, quando l’età lascia più tempo agli interrogativi. Altri ancora hanno speso molta parte della loro vita negando la necessità di Dio.
Vito Mancuso, teologo, semplifica e invera: Io e Dio possono toccarsi. L’altra sera Fabio Fazio ha definito il volume di Mancuso, Io e Dio. Una guida per i perplessi (pagine 488, euro 18,60, Garzanti), un libro che fa scandalo. Mah... Il teologo ha detto che Dio è un fatto personale. Allora diciamo che siamo in un altro ambito, diciamo che stiamo facendo filosofia. La forza dell’uomo, le sue scelte di sofferenza, battersi per ideali, principi, anche a costo della vita, qui è la verità secondo l’autore. Stiamo parlando di un’altra categoria che con la religiosità non ha nulla a che fare. Stiamo parlando di eroi, uomini a volte nelle mani del caso.
Genesi 22: «Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Mancuso ha raccontato da Fazio che la Bibbia non è tutta così. Lui ha rassicurato i suoi figli che mai farebbe un tale sacrificio. Si tratta di una lettura del testo che stravolge il testo stesso, annega in uno scantinato secoli di esegesi, di dottrina, la teologia, appunto. La Bibbia è un insieme di rinvii simbolici e la citazione televisiva fa credere che sia un testo da leggere, tout court.
Mancuso esalta Io e lo vede vicino a Dio. Dio è una scelta. Io e Dio viaggeranno sempre paralleli. Chi ha deciso di entrare nel mistero divino e ci è rimasto tutta la vita non risolvendolo, cercando e non trovando, non ha mai considerato Io in corsa con Dio. Negli scorsi decenni ci sono stati molti sacerdoti di base critici con le gerarchie ecclesiastiche, che non avevano scrupoli nel dire che il potere temporale della Chiesa sia stato la sua stessa negazione. Al contrario la critica è sempre stata all’assenza di Dio, di Cristo da certi altari, l’indulgenza per una pallida interpretazione dei sacramenti. Nemmeno la teologia della Liberazione si sognava di far incontrare Io e Dio, ma puntava al Dio autentico, rivoluzionario in luoghi in cui la Chiesa aveva coperto regimi sanguinari. Anche Hans Kung ha puntato il dito sul deficit di Cristo nella Chiesa: «Come Pio XII fece perseguitare i più importanti teologi del suo tempo, allo stesso modo si comportano Giovanni Paolo II e il suo Grande Inquisitore Ratzinger scrisse Kung dieci anni facon Schillebeeckx, Balasuriya, Boff, Bulányi, Curran, Fox, Drewermann e anche il Vescovo di Evreux Gaillot e l'arcivescovo di Seattle Huntington. Nella vita pubblica mancano oggi intellettuali e teologi cattolici della levatura della generazione del Concilio. Questo è il risultato di un clima di sospetto, che circonda i pensatori critici di questo Pontificato. I vescovi si sentono governatori romani invece che servitori del popolo della Chiesa. E troppi teologi scrivono in modo conformista oppure tacciono».
Io e Dio di Vito Mancuso segue nel viaggio di laicizzazione della teologia il precedente, L’anima e il suo destino. Siamo alla teologia da supermarket. Alla consolazione. Dopo averlo letto si può anche dire, pur non essendolo mai stati, in fondo anche Io sono cristiano.

l’Unità 28.9.11
Il tedesco, un paradosso italiano


È la lingua visionaria di Kafka e quella cristallina di Goethe, certo. È la «montagna magica» di Thomas Mann, è la perfezione logica di Kant e la profondità di Hegel. È la meraviglia della Zauberflöte di Mozart ed è la voce di Dio nelle Passioni di Bach. Dopodiché, è la lingua di Angela Merkel, cancelliera alle prese con un problemino non da poco: la crescente centralità della Germania non solo nel contesto europeo con il suo sguardo rivolto a Mosca e a tutto l’Est ma a livello di attore globale. Eppure, la lingua tedesca è la Cenerentola della scuola italiana, a dimostrazione della cecità culturale, oltreché politica, che ottenebra l’istruzione pubblica nel Bel Paese. Diceva Churchill che «il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che il non togliergli province e territori»: ma anche questo aspetto della questione fin troppo mercantile, se volete pare non abitare le menti dell’esecutivo. Eppure sono oltre mille le aziende a capitale tedesco operanti in Italia, queste danno lavoro a circa 148 mila persone, mentre in 80 mila sono impiegati nelle ditte svizzere e circa 220 sono le imprese austriache con una filiale in Italia. Piccolo dettaglio: dopo l’inglese, il tedesco è la lingua più richiesta nelle assunzioni delle imprese. Di tutto questo, nelle scuole italiane quasi non c’è traccia. Imbarazzante, in un mondo globalizzato.
Nasce ora un imponente progetto fortemente voluto da Germania, Austria e Svizzera che si chiama Deutschwagen e che è volto a promuovere l’insegnamento del tedesco con l’ambizione di coltivare tra i ragazzi quella che può essere una passione. Letteralmente, “deutschwagen” vuol dire «osare il tedesco», ma il gioco di parole indica anche le «macchine tedesche»: ecco che a bordo di tre autovetture insegnanti di madrelingua raggiungeranno in un tour di sei mesi più di duecento istituti medi ed elementari. La campagna, coordinata dal Goethe-Institut, è illustrata per l’occasione dalla fumettista Francesca Ghermandi (una delle più brave in Italia), che ha realizzato delle strisce ove si narra di tre ragazzini che imparano il tedesco durante le loro peripezie. Titolo (emblematico assai): Non è mai troppo tardi. R.BRU.

l’Unità 28.9.11
Guido Picelli, Che Guevara italiano nell’oblio
Con 400 Arditi del popolo mise in fuga le camicie nere di Balbo
La vita e la passione politica dell’eroe delle barricate di Parma rivive nell’appassionato documentario di Giancarlo Bocchi: «Il ribelle». Il film lascia intendere che la sua morte sul fronte spagnolo sia dovuta agli stalinisti...
di Gabriella Gallozzi


Un’immagine tra tante per ricordare un grande rimosso della storia del nostro antifascismo. La bandiera rossa alzata sul pennone di Montecitorio il primo maggio 1924, proprio all’indomani della soppressione della festa dei lavoratori da parte di Mussolini e un mese prima dell’omicidio di Matteotti. Un gesto simbolico e dirompente che dice tanto di Guido Picelli, eroico comandante delle barricate di Parma, inventore della guerriglia urbana, deputato comunista indipendente, nato nel 1889 e morto sul fronte spagnolo nel ‘37, colpito al cuore da un proiettile sparatogli alle spalle, in circostanze ancora oggi non chiarite. È proprio in quella morte, infatti, che si spiega tutto il «rimosso» messo in atto nei confronti di questo Che Guevara italiano, «ardito del popolo», politico scomodo, votato da sempre alla «causa del proletariato», come si diceva allora, che pagò con la vita il suo idealismo libertario e lungimirante che lo portò rapidamente in rotta di collisione con lo stalinismo. Partì da Mosca l’ordine di eliminarlo, alla vigila di una nuova vittoria sul fronte di Madrid del Battaglione Garibaldi che Picelli comandava?
Ne è sicuro Giancarlo Bocchi, regista parmense che alla figura del comandante ha dedicato quasi quattro anni di ricerche negli archivi di mezzo mondo (dalla Russia agli Usa), scoprendo nuovi documenti e prezioso materiale di repertorio, diventati materia prima per un film: Il ribelle, un appassionato documentario che è appena arrivato nelle sale (prima uscita al cinema Rosebud di Reggio Emilia), grazie alla distribuzione autarchica della bolognese Vitagraph che lo porterà in viaggio per una decina di città italiane. Parma esclusa. Così ha deciso il regista per protesta contro l’amministrazione di centro destra della città natale di Picelli.
Attraverso le parole dello stesso comandante, pronunciate da Francesco Pannofino, e il raccordo narrativo «letto» da Valerio Mastandrea, Il ribelle è davvero un’avvincente cavalcata nell’avventura umana e politica di un grande protagonista della storia italiana ed europea del secolo scorso. A cominciare dalle lotte sociali e il grande sciopero del 1908, per passare al Primo conflitto mondiale al quale, Picelli da non interventista, partecipa al seguito della Croce rossa. Splendidi i filmati tra le trincee tra cui uno spezzone inedito su Caporetto. Le «scoperte» si susseguono. Come l’esperienza d’attore vissuta dal giovanissimo Picelli che lascia Parma per Torino scegliendo la strada del cinema, appena nato. Eccolo al fianco del grande Ermete Zacconi in un film muto.
Ma il drammatico scenario politico lo riporta in breve nella sua città. Siamo nel ‘22 alla vigilia della Marcia su Roma. Picelli alla testa di 400 Arditi del Popolo, tra cui comunisti, cattolici, socialisti e anarchici, riesce a mettere in fuga i diecimila fascisti di Italo Balbo, durante i cinque giorni della Battaglia di Parma.
Quella storica le cui immagini hanno affiancato per anni la testata del quotidiano Lotta Continua. «È la dimostrazione dice il comandante che il fascismo si sarebbe potuto fermare». Proprio grazie all’idea di quel «Fronte popolare» che Picelli sostiene con lungimiranza, molti anni prima del Comintern.
Stimato da Gramsci e responsabile per il Pci della creazione di una struttura insurrezionale contro il fascismo, Picelli sfugge ad agguati ed attentati delle camicie nere, quando nel ‘26 è arrestato insieme ai maggiori esponenti dell’antifascismo. Gramsci compreso. Per il comandante sono cinque anni di confino e carcere. Negli anni Trenta viaggia tra la Francia e il Belgio, proseguendo la sua attività rivoluzionaria, soprattutto tra i lavoratori italiani emigrati. È nel ‘32 che approda in Urss ed è questo il momento della sua totale disillusione. Relegato in fabbrica a fare l’operaio Guido Picelli è completamente emarginato dall’attività politica. Inutili le sue lettere al compagno Ercoli (Togliatti). La risposta è sempre «niet». Anzi, in pieno periodo di «purghe» Picelli è processato in fabbrica e rischia il gulag. Il suo ardore da combattente, però, non viene piegato: riesce a lasciare l’Urss, approdare di nuovo a Parigi dove prende contatti col Poum, il partito comunista spagnolo, trozkista e antistalinista di Andrés Nin. La guerra di Spagna, dunque è l’occasione per tornare a combattere il fascismo. Al comando del Battaglione Garibaldi delle Brigate internazionali Picelli ottiene la prima vittoria repubblicana sul fronte di Madrid.
Gli emissari di Stalin, però, continuano a tenerlo sotto controllo. E lui lo sa bene. Fino a quel 5 gennaio del ‘37 quando il colpo sparatogli alle spalle lo colpisce al cuore. La ricostruzione fornita da Il ribelle suggerisce che sia stata un’esecuzione ordinata da Mosca. Fatto sta che il corpo di Picelli resta lì per un giorno. E le tesi ufficiali sulla sua morte si avvicendano, lacunose, nel tempo. Prima una raffica di mitragliatrice, poi il colpo di un «cecchino fascista». A dare l’ultimo colpo di spugna alla memoria del comandante è il divieto di Mosca di concedergli la medaglia dell’Ordine di Lenin, la massima onorificenza sovietica.

il Fatto 28.9.11
L’inconscio dell’economia
di Luigi Zoja
, psicoanalista

Anche attraverso la buona alimentazione, le buone cure, noi uomini possiamo aumentare di poco la nostra statura. Ma abbiamo inventato il prestigio. Chi sale sulle spalle di un altro impressiona. Per istinto – quello per cui l’animale china la testa di fronte al maschio alfa – rispettiamo chi è più alto. Vale anche in economia: il suo primo fattore è l’inconscio collettivo, che include gli impulsi non consapevoli né razionali della società. Niente è più solido di lui: neppure un metallo. Niente vale più di lui: neppure l’oro. Per lungo tempo la valuta della economia più forte – il Re Dollaro – è rimasta seduta sull’oro. Poi, 40 anni fa, Nixon abolì la convertibilità del dollaro in oro. Da quel momento il dollaro sedette sulle spalle di se stesso. Conservò la sua alta statura come il Barone di Münchausen che, dice la fiaba, riusciva ad alzarsi prendendosi per i capelli e tirandosi su. Così ha agito il prestigio dell’economia americana nel suo insieme. Quando le autorità europee decisero la creazione dell’euro fecero salire la nuova valuta sulle spalle di un Re Dollaro locale, che si chiamava Marco Tedesco. Perdute due guerre, perduto un terzo del territorio coi trattati e una metà delle abitazioni coi bombardamenti, la nuova identità della Germania si è infatti basata sulla solidarietà con i vicini e sull’affidabiltà, soprattutto economica. Dopo le due guerre mondiali il nazionalismo era inconcepibile; e, dopo la tragica svalutazione degli anni Venti, lo era anche l’inflazione. Oscillazioni della psicologia collettiva.
 COSÌ, L’EURO nacque bene. Ma la psiche collettiva è sempre piuttosto ansiosa e conservatrice. Ci si poteva fidare? Basandosi sulle valute che sostituiva, un euro avrebbe dovuto valere almeno quanto un dollaro. Invece, inizialmente il mercato arrivò a quotarlo solo 0,83 dollari. A quei tempi vivevo negli Stati Uniti, ma avevo in programma di tornare. Entrai in ansia; l’euro mi pareva sottovalutato. In Italia i prezzi delle case aumentavano: se anche l’euro avesse cominciato a salire avrei potuto comprare solo un monolocale. Cambiai subito tutto in euro, comprai casa e tornai. I diffidenti (cioè la maggior parte degli umani) passarono un po’ di tempo alla finestra. Poi si accorsero che l’euro stava circolando con successo. Favoriva un ricco mercato continentale, di dimensioni simili a quello americano. Così, perse l’aura di esperimento rischioso; cominciò ad acquistare il prestigio di un dollaro europeo. Tempo fa, ho espresso sul Fatto qualche opinione sulla psicologia dei Pigs, sigla inglese che sta per: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna. Questi paesi dell’area euro hanno i conti in crescente disordine e vengono temuti dai vicini dell’Europa centro-settentrionale come coloro che faranno affondare l’euro. Le popolazioni dei Pigs erano abituate all’inflazione. Anche dopo aver adottato l’euro, per loro è rimasto normale arrotondare i prezzi all’insù. In altri paesi agire contro la stabilità dei prezzi è invece considerato un’immoralità, non molto diversamente dal furto. Ogni paese percepisce i valori economici attraverso emozioni poco consapevoli , che non si modificano per decreto né in poco tempo. Così nei Pigs i prezzi nominali sono aumentati, senza che a questo corrispondessero veri aumenti di ricchezza. Abbiamo vissuto con valori artificialmente gonfiati.
 La psicologia leghista, che a molti sembra una sorgente di guai, non è purtroppo solo un’origine, ma anche un punto d’arrivo. A un leghista sembra che i soldi destinati al Meridione vengano gettati via, visto che a 150 anni dall’Unità d’Italia la condizione del Sud rispetto al Nord è addirittura peggiorata, mentre la Germania in soli venti anni ha integrato l’Est al sistema economico e legale dell’Ovest. Il dibattito politico (ed economico) italiano non gli offre spiegazioni soddisfacenti perché è rimasto nazionale: cioè, nel-l’Europa del XXI secolo, provinciale. Così il leghista fa del suo meglio per non aiutare il Sud. La mente leghista non manca di solidarietà , ma essa è culturalmente circoscritta. Gran parte del mondo occidentale e ricco è potenzialmente così. In Italia c’è però un vuoto di società civile così forte che questo atteggiamento ansioso lo riempie e diviene molto visibile.
 Il rifiuto del nazionalismo ha invece permesso in Germania solo una destra borghese e moderata. La solidarietà europea è stata fulcro della politica estera. Ma, sussurrate a mezza voce, si stanno affermando tendenze anti-europee. L’economia, essendo soprattutto l’insieme di aspettative sull’economia (di nuovo l’inconscio collettivo), arriva presto all’opzione estrema: quel che non è più sicuro viene svenduto e in un attimo può esser quotato zero. L’uomo della strada si fida sempre meno dei Pigs. Dubita che, appesantito da loro, l’euro rimanga una continuazione del marco. A Monaco di Baviera, nell’ultimo anno i prezzi delle case sono saliti del 35%, percentuale mai vista: tutti cambiano i loro euro in mattoni. Le opzioni si restringono a vista d’occhio. Nessuno crede più che l’Italia, il cui debito è di gran lunga il maggiore, metta i conti in ordine. Fra le ultime entrate il nostro governo ha iscritto propositi di elevata e astratta bellezza – l’obbligo costituzionale al pareggio di bilancio e la lotta all’evasione fiscale – comportandosi come quella prostituta che, richiesta di esami per le malattie veneree, voleva sostituirli con un voto di castità.
 CHE UN PAESE esca dall’euro è complicato, ma non impossibile. Se i Pigs non escono – pensa il leghista tedesco finora inesistente, ma ora pronto a esistere – dovrebbe uscirne la Germania. Chiede il ritorno del marco. Se ciò avvenisse, avremmo perso il gioco del cerino: conserveremmo gli euro, ma come una buccia da cui esce la polpa. Certo, le quotazioni del neo-marco schizzerebbero in alto. Gli industriali tedeschi piangerebbero perché per loro diventerebbe difficile esportare. Ma l’uomo della strada è ormai pronto a mandare al diavolo gli industriali, i sindacati e i politici tradizionali (i quali cominciano, come ha fatto Angela Merkel, a introdurre elementi anti-europeisti nei loro discorsi). L’anima umana è fedele soprattutto alle proprie insicurezze, come hanno dimostrato le vicende del Nord Italia in cui molti voti operai sono emigrati dalla sinistra alla Lega.
 Due considerazioni rendono questo scenario verosimile. Innanzitutto il patto silenzioso della società tedesca, per cui il passato non deve ripetersi, esclude una destra nazionalista tradizionale, ma non una neodestra anti-tasse e leghista. In secondo luogo , un nuovo movimento populista tedesco, che già serpeggia nei blog, ha una potenziale ideologia. Mentre il leghista italiano è obbligato legalmente a contribuire alla sussistenza di tutto lo Stato, quindi anche del Sud, e per questo si inventa una Padania, quello germanico può riferirsi al principio universalmente noto che sta alle origini degli Stati Uniti: no taxation without representation (nessuna tassazione se non c’è rappresentanza). Una (piccola) parte delle tasse pagate dai cittadini europei va alle autorità europee: ciò ha legittimazione nel fatto che questi cittadini eleggono anche un Parlamento europeo. Ma una parte di queste tasse va ora a un fondo europeo per i bilanci dei paesi in difficoltà (Pigs). Se le autorità europee danno loro direttive finanziarie, ma essi in parte le eludono, i paesi del Nord si sentono tassati a favore di un Sud che usa quel denaro sottraendosi allo scrutinio dei versanti. Con questo argomento i coloni americani rifiutarono l’autorità del Re d’Inghilterra, proclamandosi indipendenti: fu la “rivolta del tè”, ripresa dall’attuale movimento anti-tasse Tea Party. Quasi nessuno dei tedeschi di oggi ha un ricordo diretto del nazismo: inevitabilmente, la solidarietà europea nata dal ripudio della dittatura si fa ogni anno più astratta. Una destra può rinascere, non in forma di nazionalismo hard, ma di Beer Party. A quel punto per la solidarietà europea potrebbe essere troppo tardi.

La Stampa 28.9.11
Adam Smith, se questo è un profeta del neoliberismo
Un’antologia del padre dell’economia politica ne propone un’interpretazione controcorrente rispetto alla vulgata dei Chicago boys e dei loro seguaci
di Massimiliano Panarari


Adam Smith (1723-1790) ha posto le basi dell’economia politica classica La sua opera più importante, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni , uscì nel 1776. Da questo saggio e dalla Teoria dei sentimenti morali (1759) sono tratti gli scritti riuniti da Michele Bee nell’antologia L’economia dei sentimenti, pubblicata da Donzelli

ILLUMINISTA E WHIG. Ispiratore della Rivoluzione francese, arruolato suo malgrado tra gli ideologi della reazione
SIMPATIA E ALTRUISMO. Nella Teoria dei sentimenti morali sono indicati come motori del comportamento umano

Liberale, certo che sì. Neoliberista, grazie no. E se, quindi, la poderosa operazione cultural-propagandistica che ha trasformato il padre dell’economia politica Adam Smith (1723-1790) nel genitore putativo di Mr. Reagan e Mrs. Thatcher fosse storicamente assai poco corretta, oltre che politicamente molto strumentale?
Ce lo racconta l’interessante analisi condotta dallo storico dell’economia Michele Bee che ha curato un’antologia di scritti di Smith, L’economia dei sentimenti (pubblicato da Donzelli nella collana degli «Essenziali», pp. 156, 9,50), e propone una interpretazione controcorrente rispetto a quanto è stato ripetuto continuamente nel corso degli ultimi decenni, sino a diventare senso comune nelle scienze economiche e nel dibattito politicoculturale. Rileggendo alcuni testi tratti dalle sue opere fondamentali - Teoria dei sentimenti morali (1759) e La ricchezza delle nazioni (1776) lo Smith neoliberista diffuso a piene mani dai Chicago boys e dagli alfieri del neoliberalismo appare alla stregua dell’invenzione di sana pianta di una tradizione, alimentata per primo dal neoclassico e marginalista Léon Walras. Perché se è vero che dentro i libri delle grandi figure della cultura occidentale si può trovare di tutto - persino una cosa e il suo contrario, come direbbero compiaciuti i sostenitori dell’ermeneutica infinita - la serietà del lavoro di interpretazione dovrebbe imporre il rigore filologico a una serie di paletti per evitare certe letture troppo orientate. Come è avvenuto, giustappunto, con il grande filosofo ed economista scozzese - illuminista, repubblicano, Whig (ossia esponente del partito liberale che si contrapponeva ai conservatori Tory), e tra gli ispiratori della Rivoluzione francese - che, a quasi duecento anni dalla morte, si è ritrovato arruolato, suo malgrado, tra gli ideologi della controrivoluzione neoconservatrice.
Nasce così la vulgata interessata dell’estimatore della «mano invisibile» e del teorico dell’individuo come soggetto egoista e razionale che agisce nella società (quella che per la signora Thatcher, come noto, non esisteva) perseguendo unicamente il proprio interesse, ma producendo altresì, magicamente, il bene comune. Una visione sovrapponibile, a conti fatti, a quella della Favola delle api di Bernard de Mandeville, dove i vizi privati si tramutano in pubbliche virtù. Questo Smith hobbesiano e mandevilliano diventa così l’autorità a cui appellarsi per rimuovere l’intervento dello Stato (dal momento che il mercato è di per sé razionale e, quindi, non deve subire ingerenze esterne) e per separare l’agire economico, ispirato dal self-love , dalla morale che reprimerebbe le «naturali» pulsioni all’arricchimento. Se non fosse che c’è sempre un perché... - il medesimo filosofo è stato anche l’autore della Teoria dei sentimenti morali , nella quale tra i motori del comportamento individuava anche il «sentimento» della simpatia e l’inclinazione ad aiutare gli altri nel raggiungimento della felicità.
Un’apparente contraddizione: e, difatti, si tratta del cosiddetto «Adam Smith Problem», come lo chiamano gli studiosi, che i discepoli di Friedrich von Hayek hanno sbrigativamente liquidato indicando la Teoria come un’opera giovanile, piena di illusioni e trasporto verso la natura umana, che la maturità ha poi riveduto e corretto. E, invece, l’interpretazione proposta da Bee riporta proprio all’importanza di quel libro, che ci restituisce un pensiero smithiano pieno di sfumature e molto più problematico di quanto spacciato dall’ortodossia neoliberale. Il self-help del famoso macellaio e del celebre birraio (quelli dalla cui generosità non dobbiamo attenderci il pranzo) si riferisce al desiderio di ottenere il giusto prezzo per la propria merce assai più che ai furiosi spiriti animali dell’egoismo. Ha a che fare, in sostanza, con il riconoscimento della propria dignità e del proprio lavoro, perché il mercato, come dice questo campione dell’Illuminismo europeo, è, in quanto scambio, l’espressione di una tendenza naturale di un gruppo di individui sociali, e non la costruzione astratta ove operano individui perfettamente razionali. Smith, infatti, critica Hobbes e rigetta l’idea di razionalità come movente supremo dell’agire umano, andando alla ricerca dell’equilibrio economico. È von Hayek che sposta l’ottica, facendo del mercato la misura immutabile dell’equilibrio e l’unica forma possibile di regolazione sociale. Ma, in questo modo, ai quesiti si sostituiscono i dogmi, e l’economia diventa religione; proprio ciò che Smith, seguace dei Lumi, rifiutava con decisione, al pari di ogni metafisica.
Così, questi nostri anni di neoliberismo sfrenato (e di impoverimento generale) hanno consegnato il Villaggio globale a teologi e apprendisti stregoni della «voodo economics», con effetti che sono sotto gli occhi di tutti. E il fondamentalismo di mercato ha finito col tradire la filosofia morale di Smith, liberale autentico all’inseguimento dei principi dell’armonia sociale.

La Stampa 28.9.11
Il grande vecchio del comunismo
E anche Marx adesso diventa liberale
di M. P.


Chiuso il Secolo breve, non possiamo non dirci liberali. Ed è quindi sempre tempo di rivisitazioni, in tale chiave, anche di figure a prima vista insospettabili. Come il grande vecchio del comunismo, al quale Jacques Attali ha consacrato una fortunata biografia ( Karl Marx, ovvero lo spirito del mondo , Fazi), che ne esalta i tratti «liberal-progressisti»: dall’elogio della forza di emancipazione del capitalismo all’ammirazione per la borghesia rivoluzionaria che ha abbattuto l’Antico regime, sino al preveggente riconoscimento della globalizzazione. Del resto, proprio a Marx cosa apparentemente inusitata - un tempio della culturale liberale in Italia come l’Università Luiss «Guido Carli» dedica ogni anno un seminario permanente (coordinato da Corrado Ocone). Mentre lo storico Michele Battini, nel suo recente Utopia e tirannide (Bollati Boringhieri), mostra come al famoso storico delle idee francese Élie Halévy (1870-1937) sia stata attribuita la patente di neoliberale ante litteram in maniera decisamente forzata (un po’ come avvenuto ad Adam Smith).

l’Unità 28.9.11
Il Marx ortodosso di Colletti
di Bruno Gravagnuolo


Il 3 novembre è stato il decennale della morte di Lucio Colletti. Ne scrivemmo dieci anni fa il necrologio su queste pagine, rendendogli onore, ma senza nasconderne i limiti. Infatti il punto è questo, in vita o in morte: cercare di essere equanimi, senza retorica o blandizie. Viceversa sabato sul Corsera, Giuseppe Bedeschi, epigonale marxista pentito, nel ricordare Colletti ha vergato un compitino ordinato ma omissivo. Non sulle tappe biografiche benché venga celato il berlusconismo finale di Colletti quanto sul «tipo» di marxismo collettiano. Ebbene quel marxismo non era affatto «eterodosso», come scrive Bedeschi, ma al contrario «ortodosso». Persuaso della indefettibile «scientfiicità» positivista del Capitale, avverso alla democrazia parlamentare, soviettista ed estremista. Poi via via Colletti si avvide di una cosa «ovvia»: la logica dialettica (hegeliana), fatta di posizioni contraddittorie, non abita il mondo reale. Nel quale semmai vigono opposizioni e conflitti. Pertanto Colletti abbandona il «dialettico» Marx. Ma dov’è l’errore? Proprio nell’attribuire a Marx quella certa dialettica, mentre il termine in Marx designa giustappunto opposizioni e conflitti. Che vivono nella mente degli uomini come «contraddizioni» logiche, da smascherare «dialetticamente», mostrandone il reale sostrato conflittuale (sociale e storico). Roba ovvia e... vecchia! Perché certe cose le avevano già dette, Trendeleburg, Croce, Della Volpe, Bernstein, riformatori e critici della dialettica. Colletti invece buttò bambino e acqua sporca: marxismo dialettico e marxismo critico possibile. E dopo essere stato ultramarxista, finì col diventare liberal-conservatore, sulle ceneri del suo ex marxismo. Certo, fece in tempo a percepire la volgarità del suo nuovo approdo (Berlusconi). Ma gli mancò la voglia e il tempo per essere in egual misura rigoroso col Cav, come col «suo» Marx.

Repubblica R2 28.9.11
Italiani alla seconda (generazione)
tre pagine con articoli di Vladimiro Polchi e Giancarlo Bosetti

nelle edicole (non disponibile sulla rete)

il Fatto 28.9.11
Ultima cartolina da Lampedusa

Fervono i preparativi per la nuova edizione di “O Scia’”, la kermesse musicale ideata da Claudio Baglioni, che dal 2003 si tiene annualmente a Lampedusa: i finanziamenti sono arrivati, le proteste dei migranti sono state sedate a suon di pietre e mazze da baseball e stasera finalmente si canta e si balla! Però mancava un ultimo tassello per completare in fretta e furia l’opera di bonifica dell’isola: c’erano ancora alcuni minorenni extracomunitari, potenziali sovvertitori in erba. Niente paura, stamattina sono stati trasferiti anche loro (non si sa ancora dove!) e Lampedusa può inorgoglirsi di essere l’unica città italiana dove i migranti sono poco più di una decina. Che la festa canora cominci dunque: basta non “vedere” quei bambini che vengono deportati velocemente. Basta non “sapere” che nei loro occhi c’è l’ultima sbiadita cartolina di Lampedusa e che nelle loro orecchie non ci sarà nessuna musica.Paolo Izzo