giovedì 29 settembre 2011

l’Unità 29.9.11
Oggi a Roma La manifestazione promossa da Comitato per la libertà dell’informazione, Cgil e Articolo 21
Le adesioni crescono di ora in ora. E intanto nasce la «Rete delle giornaliste libere autonome»
Intercettazioni: al Pantheon contro la legge-bavaglio
Appuntamento dalle 15 alle 18 per un provvedimento «chiaramente anticostituzionale» sulle intercettazioni. L’Idv: «Governo disposto a tutto pur di coprire le proprie malefatte». Anche l’Udc voterà contro.
di Roberto Brunelli


Il Pantheon val bene una manifestazione contro il bavaglio. L’appuntamento è dalle 15 alle 18, per quella che si preannuncia come una protesta in grande stile contro il ddl intercettazioni che, tra le altre prelibatezze, contiene la cosiddetta norma «ammazza blog». Ieri pomeriggio il tam-tam era incessante: promossa dal «Comitato per la libertà e il diritto all’informazione», di ora in ora fioccano nuove adesioni, tra partiti, associazioni, gruppi di attivisti e anche singoli esponenti politici. Tra i promotori della nuova mobilitazione contro il «bavaglio ad personam», la Cgil, Libertà & Giustizia e Articolo 21, che al Pantheon distribuirà una sorta di giuramento di Ippocrate per i giornalisti e per chi si occupa di informazione: «Giuro che se e quando la legge bavaglio sarà approvata mi impegnerò a fare prevalere sempre e comunque il dovere di informare e il diritto di essere informati». La Federazione nazionale della stampa italiana spiega che l’intenzione è quella di dar vita ad un’iniziativa che «marchi a uomo» tutti i passaggi parlamentari del ddl Alfano sulle intercettazioni, nelle cui pieghe si equiparano blog e siti internet alle testate giornalistiche, introducendo, in materia di diritto di rettifica, scadenze e sanzioni molto pesanti.
Sulla natura del provvedimento su cui la maggioranza, con l’avvicinarsi del voto parlamentare, per ora sta andando a tentoni le valutazioni delle opposizioni convergono. Dice Leoluca Orlando, portavoce dell’Idv, «che il ddl intercettazioni ha l’unico scopo di nascondere le malefatte di questo esecutivo e per farlo è disposto a tutto. Anche privare i cittadini dei loro diritti». Dopo il Pd, che per primo aveva lanciato l’allarme intorno al disegno di legge, anche l’Udc sta valutando il proprio voto negativo, se il testo non sarà sostanzialmente modificato.
ALTRO CHE PRIVACY
Eh sì, perché non sfugge quasi a nessuno che qui si «manomettono diritti costituzionali», come ripete il segretario confederale della Cgil Fulvio Fammoni. Secondo Fammoni «non esiste nessuna urgenza anche se viene strumentalmente dichiarata: questa legge è ferma da più di un anno in Parlamento e la si riesuma solo perchè si è creato l’ennesimo problema giudiziario per il premier. La tutela della privacy dei cittadini non c’entra nulla. La mobilitazione delle associazioni e la grande partecipazione dei cittadini contro leggi ad personam e per il rispetto dell’articolo 21 della Costituzione hanno già dimostrato di contare e di produrre risultati. Tocca di nuovo a noi».
Il disegno di legge pare «un vecchio copione del Bagaglino», è la battuta amara di Claudio Fava. «L’unico rimedio che questo governo immagina per le proprie miserie politiche e giudiziarie è il bavaglio ai giornalisti», dice l’esponente di Sel, che sarà presente oggi al Pantheon. «Sarebbe utile che tutte le voci libere di questo Paese si facessero sentire, come hanno saputo spesso fare nel corso di questi ultimi due anni. Non è più tempo di aspettare. I colpi di coda di questa maggioranza si tradurranno in altrettante picconate al senso e alla decenza costituzionale». Angelo Bonelli, dei Verdi, fa notare che «la libertà di stampa e il diritto di cronaca sono pilastri delle democrazia moderne: il bavaglio alla libertà di stampa è una caratteristica dei regimi dittatoriali e non delle democrazie».
La mobilitazione è in pieno fermento. Per esempio, è nata ieri «Giulia», la Rete delle Giornaliste Unite Libere Autonome, che esordirà proprio oggi al Pantheon. «Le donne si legge in una nota hanno una lunga consuetudine con i bavagli, hanno dovuto lottare per conquistare il diritto a parlare e ad essere rispettate come persone, a non essere trattate come oggetti: e oggi tutto ciò viene messo in discussione. E invitiamo tutte le giornaliste a mobilitarsi con noi. Si vuole impedire ai cittadini di essere informati sulle inchieste e sugli indecorosi comportamenti dei politici che non hanno rispetto per le istituzioni che rappresentano. Si vorrebbe silenziare chi, facendo informazione, illumina un sistema di potere maschile che ha ridotto la donna a merce e tangente. Siamo indignate come donne e come giornaliste e siamo sin d’ora pronte alla disubbidienza civile».
Nel Pdl, intanto, la confusione è totale. Ora spunta un emendamento dell’azzurro Roberto Cassinelli per tentare di arginare il montare delle protesta. Il deputato propone fra le altre cose di distinguere fra i siti professionali, come quelli delle testate giornalistiche, che resteranno legati all’obbligo di rettifica entro 48 ore, e quelli amatoriali per i quali la scadenza diventa di 10 giorni e decorre dal momento in cui il blogger viene effettivamente a sapere della richiesta. Esclude la rettifica per i social network, precisa che la rettifica è dovuta «quando tecnicamente possibile», infine riduce le sanzioni pecuniarie.
Difficile che le sue proposte saranno un granché apprezzate, oggi al Pantheon.

Corriere della Sera 29.9.11
Intercettazioni, ipotesi fiducia
Blogger in piazza
di Dino Martirano


ROMA — Intercettazioni, la maggioranza è pronta all'affondo ricorrendo anche alla fiducia. La legge Alfano, riveduta e corretta con il divieto integrale di pubblicazione degli atti di indagine (anche per riassunto) previsto dal vecchio ddl Mastella, inizierà dunque il suo terzo passaggio parlamentare mercoledì 5 ottobre alla Camera con il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità. Poi, in tempi rapidissimi — visto che le opposizioni hanno otto ore di tempo per il dibattito — il governo darà il via libera all'emendamento del Pdl (ci stanno lavorando Niccolò Ghedini ed Enrico Costa) che elimina dal testo uscito dalla commissione presieduta da Giulia Bongiorno la possibilità di pubblicare atti di indagine almeno per riassunto. Via libera, poi, anche per la proposta di modifica presentata dal deputato Roberto Cassinelli (Pdl) che mira ad addolcire la norma «ammazza blog» introdotta al Senato per imporre alla Rete le regole sulla rettifica già in vigore per la stampa.
I dettagli del calendario sono stati discussi in una riunione convocata dal capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto, alla quale hanno partecipato anche Marco Reguzzoni della Lega e Silvano Moffa dei Responsabili. «Si è parlato solo di calendario, di merito non mi occupo», ha detto il capogruppo del Carroccio. Mentre Moffa ha confermato l'innesto dell'articolo 1 del testo Mastella («black out» delle intercettazioni sui media fino alla sentenza d'appello): «Il ddl di Mastella era molto appropriato e i due testi non sono incompatibili». Cicchitto, infine, ha escluso rinvii sulle intercettazioni: «Decollano, probabilmente, la prossima settimana». E che tutto sia pronto lo dimostrerebbe anche l'agenda del ministro della Giustizia, Nitto Francesco Palma, che ieri mattina è prima stato ricevuto dal capo dello Stato e poi ha incontrato a palazzo Grazioli il presidente del Consiglio e l'avvocato Niccolò Ghedini. Al Quirinale probabilmente Palma ha illustrato a Giorgio Napolitano il testo del discorso che lunedì prossimo terrà al Consiglio superiore della magistratura ma non è escluso che, nel corso del colloquio, il Guardasigilli abbia voluto fare anche il punto sulle iniziative legislative del governo e della maggioranza (intercettazioni, processo lungo, prescrizione breve, etc). Oggi alle 15, intanto, il popolo della Rete dà appuntamento a piazza del Pantheon per protestare contro la norma «ammazza blog» che prevede, tra l'altro, l'ammenda fino a 12 mila euro per i siti che non pubblicano entro le 48 ore la rettifica chiesta dall'interessato.

Repubblica 29.9.11
A Roma la manifestazione per la libertà di stampa. Numerose le adesioni, dal Pd a Fli alla Cgil
Oggi in piazza contro il bavaglio "Tornano alla carica, fermiamoli"
L´appuntamento dalle 15 alle 18 al Pantheon Forte mobilitazione su Internet
di Carmine Saviano


ROMA - Tutto è pronto. L´appuntamento è fissato per oggi pomeriggio in piazza del Pantheon, Roma, dalle 15 alle 18. Il popolo del No alla legge Bavaglio ritorna in piazza. Per protestare contro l´ennesima riproposizione del disegno di legge sulle intercettazioni, un «ricatto della maggioranza parlamentare alla democrazia italiana». E intorno al comitato promotore della manifestazione crescono le adesioni. Dai partiti del centrosinistra alle associazioni, dai cittadini ai blogger. Per restituire al mittente, ancora una volta, un provvedimento che rischia di abbassare la qualità democratica del Paese.
Tra i partiti, netta la posizione dell´Italia dei Valori. Antonio Di Pietro, annunciando la partecipazione alla manifestazione di oggi, commenta: «Anche se dovessero inserire tutto il ddl Mastella nel provvedimento, noi diremo "no" perché siamo contrari al bavaglio per la stampa». Per Claudio Fava, Sinistra Ecologia e Libertà, «sembra essere in un vecchio copione da Bagaglino: l´unico rimedio che questo governo immagina per le proprie miserie politiche e giudiziarie è il bavaglio ai giornalisti». In piazza del Pantheon ci saranno anche i Verdi, guidati dal presidente Angelo Bonelli, e la Federazione della Sinistra.
Se nel Partito democratico sono numerose le adesioni a titolo personale, non manca il sostegno dei finiani de Il Futurista e di Libertiamo. Proprio sui siti delle due associazioni sono numerosi gli articoli che criticano la «mancanza di ragionevolezza» dell´azione del governo. Scendono in campo anche la Cgil, Articolo 21, Libertà e Giustizia. La diffusione di materiali informativi e l´invito alla mobilitazione è costante. Per Roberto Natale, segretario della Fnsi, «è in questione il diritto dei cittadini di conoscere vicende di rilevanza pubblica. Non c´è nulla di privato se il presidente del Consiglio frequenta escort e faccendieri».
Sul web la mobilitazione non perde d´intensità. Le iniziative sono tante e il popolo dei post-it ha ripreso le proprie attività a pieno regime. Su Repubblica. it le foto e i messaggi dei lettori continuano ad arrivare in modo incessante. Tra le ultime proposte il «post a rete unificata». Si tratta di diffondere sui social network un vademecum che mette in luce i punti critici del disegno di legge. «Perchè la nostra non è un´indignazione automatica, ma una protesta informata», scrive Arianna Ciccone sul sito del gruppo Valigia Blu.
Non solo. Da Agorà Digitale arriva la raccolta di firme per disinnescare il comma "ammazza-blog". L´idea è quella di inviare ai parlamentari una richiesta: firmare uno dei sette emendamenti, depositati sia da esponenti della maggioranza che dell´opposizione, che possono salvare la blogosfera italiana. Un «gesto di civiltà», perché internet «è e sarà una risorsa fondamentale per la nostra democrazia». In piazza del Pantheon interverranno anche le rappresentanti di Giulia, la Rete delle Giornaliste Unite Libere Autonome. «Le donne hanno una lunga consuetudine con i bavagli, hanno dovuto lottare per conquistare il diritto a parlare e a essere rispettate. Per questo aderiamo alla protesta».

l’Unità 29.9.11
Intervista a Felice Casson
«La legge Mastella? Come quella di Alfano»
Il senatore del Pd «Testo pericoloso. Già nella precedente legislatura l’avremmo fermato»
di Susanna Turco


U no specchietto per le allodole? Macché. Per Felice Casson, capogruppo alla Giustizia al Senato per il Pd, il ddl Mastella sulle intercettazioni, che fu approvato da un ramo del Parlamento sotto il governo Prodi e che oggi il Pdl vorrebbe in parte recuperare, non ha nemmeno l’apparenza di una tentazione. Lui, del resto, quella proposta di legge la conosce bene, perché la esaminò come relatore al Senato, prima che la caduta del governo chiudesse anche quel capitolo. «E posso dirle questo: il disegno di legge Mastella era una proposta di legge pericolosa tanto quanto lo è oggi il ddl Alfano». Addirittura?
«Certo. Tanto è vero che non è morto mica da solo, nella scorsa legislatura».
Ah no?
«Quando arrivò al Senato, in commissione Giustizia avevamo deciso di cambiarlo profondamente, presentando cento e più emendamenti, dopo le proteste sia dei giornalisti che dei magistrati».
Poi il governo cadde. E Mastella, ancora oggi, di quel testo va fiero.
«Io, invece, in quella legislatura ero in grandissima difficoltà a difendere Mastella, e visto come è andata si capisce che è stato un errore considerarlo un esponente del centrosinistra».
Quale era la parte più criticabile?
«La segretezza degli atti, proprio quella che oggi pare interessi di più alla maggioranza. Secondo quel testo, anche gli atti non più coperti da segreto istruttorio sarebbero stati impubblicabili fino al giudizio di appello, vale a dire per anni e anni. In sostanza, non si sanava correttamente la questione del rispetto della riservatezza, però si cancellava completamente l’interesse della collettività a sapere quel che succede nei palazzi di giustizia, oltreché in quelli della politica. Un interesse che la Corte europea di Strasburgo ha stabilito essere, in alcuni casi, persino superiore al segreto istruttorio».
Questo non lo dica a Berlusconi. «Eh, ma è così. Ci sono ben tre sentennalisti erano stati condannati dalla giustizia francese perché, violando il segreto istruttorio, avevano raccontato di una struttura supersegreta di intercettazioni che faceva capo al Presidente della Repubblica. Ebbene in quel caso la Corte europea ha condannato la Francia, giudicando che, appunto, il diritto ad essere informati viene prima».
Ma secondo lei la disciplina delle intercettazioni andrebbe rivista?
«Una regolamentazione andrebbe fatta, senza toccare i limiti per disporre le intercettazioni, nei modi o nei tempi. Bisognerebbe predisporre una serie di filtri, per fare in modo di tutelare persone e circostanze che non c’entrano con l’indagine e non hanno rilievo penale. Si tratta di contemperare quattro interessi: l’autonomia di chi indaga, il rispetto della privacy, il diritto alla difesa, e il diritto-dovere di chi informa».
Il ddl Alfano lo fa?
«È un testo completamente squilibrato, e non credo che inserirci qualche pezzo del ddl Mastella lo migliorerà. Gli unici interessi che vedo operanti sono quelli di bloccare le indagini e le pubblicazioni».
Dicono nella maggioranza di voler tutelare la riservatezza.
«Già, ma quando fu il Pd a proporre il meccanismo dell’udienza “filtro”, con obblighi specifici per i magistrati titolari del segreto e precise sanzioni disciplinari, ebbene la maggioranza ha votato contro. Evidentemente, quindi, quella volontà di tutelare la privacy è falsa. Non è generale, quantomeno».
Il Pdl ha ripreso a ragionare su come riscrivere il ddl Alfano in modo da portare a casa un boccone soddisfacente. Ci riuscirà?
«Non credo ci troveremo mai di fronte a una qualche seria apertura. Sulla giustizia i parlamentari del Pdl e quelli della Lega accettano un input che gli viene dall’alto e che si sostanziaaunautaut:osifacomedicoio o si va a casa. Qualche mal di pancia c’è, ma non produrrà proposte più ragionevoli. L’anno scorso i senatori della maggioranza, quando c’erano le sedute notturne in commissione, spesso dormivano: dimostrazione plastica della loro impossibilità ad agire autonomamente».

Repubblica 29.9.11
Perché va strappato il bavaglio alla libertà
di Stefano Rodotà


Un simulacro di governo e una maggioranza a pezzi vogliono impadronirsi della vita e della libertà delle persone, con un attacco senza precedenti contro i diritti fondamentali. Si dice che i colpi di coda dell´animale ferito siano i più pericolosi. È quello che sta accadendo.
Dopo che l´articolo 8 del decreto sulla manovra economica ha cancellato aspetti essenziali del diritto del lavoro, ora si proclama la volontà di far approvare, con procedure accelerate e voti di fiducia, leggi che mettono il bavaglio all´informazione e negano il diritto di morire con dignità. Sarebbero così cancellati altri diritti. Quello di ogni cittadino ad essere informato, continuando così a vivere in una società democratica invece d´essere traghettato verso un mondo di miserabili arcana imperii. Quello all´autodeterminazione, dunque alla stessa libertà del vivere, che scompare nel testo sul testamento biologico. Tutte mosse in contrasto con la Costituzione. Bisogna essere consapevoli, allora, che non si tratta soltanto di opporsi a singole leggi, ma di impedire una inammissibile revisione costituzionale.
Bloccata nella primavera scorsa da una vera rivolta popolare, che aveva svegliato dal torpore i gruppi d´opposizione, torna ora, minacciosa e incombente, la legge bavaglio. Sappiamo quale sia il suo obiettivo. Impedire le intercettazioni, impedire la conoscenza dei loro contenuti. Conosciamo le sue giustificazioni. Tutelare la privacy dei cittadini, evitare uno Stato di polizia. Mai giustificazione fu più bugiarda. Se davvero le notizie riguardanti il Presidente del consiglio e la sua corte dei miracoli fossero state solo affare privato, irrilevanti per la vita pubblica e le responsabilità che essa impone, il Presidente della Cei non le avrebbe messe al centro di un vero atto d´accusa, d´una richiesta perentoria di rigenerazione della politica. Non che ci fosse bisogno di questo sigillo ecclesiale. Ma esso vale come conferma di una opinione comune.
Ricordiamo le regole di base. Nell´articolo 6 del Codice di deontologia dell´attività giornalistica (non una raccomandazione, ma una norma giuridica) si dice che "la sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica". Ho sottolineato le parole "alcun rilievo". Chi può in buona fede sostenere che il torbido intreccio tra inclinazioni personali e bisogno di soddisfarle a qualsiasi costo, che ha avvolto il Presidente del consiglio in una rete di relazioni pericolose e sulla soglia dell´illegalità, sia del tutto irrilevante per il giudizio su di lui e sul suo modo di governare? Può farlo una maggioranza che si è piegata all´imposizione e che, votando a favore di un testo che accreditava la convinzione di una Ruby nipote di Mubarak, ha scritto la pagina parlamentare più vergognosa della storia repubblicana. Ma non può farlo un sistema dell´informazione consapevole della dignità della sua funzione. Di fronte ad una norma come quella ricordata, vi è un dovere di rendere note le notizie, perché esse diventano essenziali per un corretto rapporto tra comportamento delle persone pubbliche e valutazioni dei cittadini.
Cade così la tesi della violazione della sfera privata, perché le figure pubbliche hanno una ridotta aspettativa di privacy. Non è una tesi inventata per aggredire Berlusconi, come ha insinuato qualche appartenente alla lunga schiera degli ignoranti pubblici. E´ una linea che risale ad una decisione della Corte suprema americana del 1964 e che ha trovato conferme dalla Corte europea dei diritti dell´uomo, in particolare in un caso di pubblicazione di notizie riguardanti la presidenza Mitterrand, dove è stata addirittura ritenuta legittima la violazione del segreto istruttorio, perché la pubblicazione della notizia corrispondeva alla esigenza del pubblico di essere informato. La ragione è evidente e la Corte lo ha ripetuto molte volte: "la libertà d´informazione ha importanza fondamentale in una società democratica".
Questa è la premessa ineludibile quando si vuole affrontare la disciplina delle intercettazioni, Che cosa, invece, si cercò di fare in primavera e si cerca di rifare oggi? Non impedire la pubblicazione di informazioni prive di rilievo, ma creare una situazione di totale opacità a protezione di figure pubbliche che vogliono sottrarsi al legittimo controllo dell´opinione pubblica. E si vuole raggiungere questo fine con una duplice strategia: limitare il potere della magistratura di disporre intercettazioni, per impedire indagini su reati sgraditi e restringere così il flusso delle informazioni a disposizione dei cittadini; e impedire la pubblicazione delle intercettazioni legittime. Un doppio bavaglio, dunque, tanto meno giustificato, quanto più la discussione pubblica indicava una soluzione che offriva garanzie. Una udienza-filtro, nella quale eliminare le informazioni irrilevanti e mantenere segrete quelle di rilevanza ancora dubbia, sì che diventano legittimamente pubblicabili solo le parti delle intercettazioni significative per le indagini e il giudizio.
Nel testo approvato dalla Commissione Giustizia della Camera era stata aperta una breccia in questa direzione, pur in un testo complessivamente inaccettabile per moltissimi motivi, uno dei quali riguarda una disciplina dei blog che, a parte la sostanziale ignoranza di questo mondo, introduce una inammissibile forma di censura. Ma le mosse annunciate dal Governo vanno oltre quel testo, usando pretestuosamente un vecchio e pessimo disegno di legge Mastella, travolto dalla critica dei mesi scorsi, per bloccare la pubblicazione fino alla conclusione delle indagini preliminari o dell´udienza preliminare (fino alla sentenza d´appello, per gli atti nel fascicolo del pubblico ministero). Almeno due anni di silenzio. Non avremmo saputo nulla della vicenda che portò alle dimissioni del Governatore della Banca d´Italia, nulla delle mille corruzioni che infestano l´Italia. Un black-out della democrazia, che creerebbe all´interno della società un grumo che la corromperebbe ancor più nel profondo. Le notizie impubblicabili non sarebbero custodite in forzieri inaccessibili. Sarebbero nelle mani di molti, di tutte le parti, dei loro avvocati e consulenti che ricevono le trascrizioni delle intercettazioni, gli atti d´indagine, gli avvisi di garanzia, i provvedimenti di custodia cautelare. Questo materiale scottante alimenterebbe i sentito dire, le allusioni, la semina del sospetto. Renderebbe possibili pressioni sotterranee, ricatti. Creerebbe un "turismo delle notizie", la pubblicazione su qualche giornali o siti stranieri di informazioni "proibite" che poi rimbalzerebbero in Italia.
Ancor più inquietante è il testo sul testamento biologico, violentemente ideologico, che cancella il diritto fondamentale all´autodeterminazione. Il legislatore si fa scienziato, in contrasto con sentenze della Corte costituzionale, escludendo dai trattamenti terapeutici alimentazione e idratazione forzata. Azzerando il consenso informato, riconsegna il corpo delle persone al potere politico e al potere medico, lo riduce ad oggetto, ripercorrendo la strada che ha portato alle grandi tragedie del Novecento.
Torna così la questione sollevata all´inizio. Come reagire? Grandissima è la responsabilità del Parlamento, all´interno del quale le forze d´opposizione devono adottare strategie eccezionali, perché eccezionale è la minaccia. Guai alla tentazione di misurare le iniziative sulle convenienze interne ai partiti. Per questo serve anche l´attenzione sociale, frettolosamente archiviata dopo le amministrative e i referendum, verso i movimenti che nei mesi passati si sono identificati con la Costituzione e che nulla perdoneranno ad attori politici che trascurassero questa enorme risorsa. Per questo il ruolo del sistema dell´informazione è cruciale, come lo è stato in primavera.

l’Unità 29.9.11
L’odg del pdl Garagnani per spostare la festa al 18 aprile accolto dall’esecutivo
I partigiani su Facebook: peggio che sputare sul tricolore. Il Pd: gesto vigliacco
Il governo vuole sostituire il 25 Aprile L’Anpi: «Una follia»
Il deputato azzurro Garagnani propone di «sostituire» la festa della Liberazione con il 18 aprile, giorno della vittoria Dc nel 1948. Ondata di indignazione. Persino la Lega ironizza: «Festeggiamo la legge truffa».
di Roberto Brunelli


Provarle tutte, dev’essere la parola d’ordine nel cosiddetto popolo delle libertà. L’ultima imboscata ai danni del 25 aprile era stata tentata nel gran caos della manovra, inserendo nel decreto la bizzarra norma dell’accorpamento delle feste civili alla domenica. Fallita quell’imboscata, ora l’ideona partita dal deputato azzurro Fabio Garagnani è quella di sostituire il 25 aprile con il 18 dello stesso mese, giorno in cui cade l’anniversario della vittoria elettorale della Dc degasperiana (siamo nel 1948) ai danni del fronte comunista e socialista. Forse si tratterebbe solo di un’improvvida trovata, non fosse per il fatto che l’ordine del giorno elaborato dal Garagnani è stato accolto «come raccomandazione» dal governo, ottenendo così un sostanziale via libera. Da Palazzo Chigi, fino a ieri sera, non sono giunte né smentite né conferme: fatto sta che ora tocca all’esecutivo decidere se tradurre la raccomandazione in proposta di legge o lasciarla elegantemente cadere. Per quanto riguarda Garagnini, non è nuovo a sortite del genere: fu lui denunciare il presidente delle vittime della strage del 2 agosto per vilipendio della Repubblica, fu lui a inventarsi il «telefono spia» per raccogliere le segnalazioni di docenti non politicamente corretti, ed è lui a portare avanti con pervicacia la sua personalissima crociata contro i libri di testo che darebbero del dopoguerra una chiave di lettura troppo «comunista».
Questa volta, in più, c’è l’aggravante dell’avallo del governo. Ed è per questo che le reazioni sono durissime e arrivano da tutto l’arco della sinistra, ma non solo. Sui siti dei circoli sociali e sui social network si registra la rivolta dei partigiani dell’Anpi. «Peggio che sputare sulla bandiera». Il gruppo aperto su Facebook ha fatto in poche ore il pieno, con centinaia di commenti: «Non ce la faranno mai, sono finiti», scrive Gian Marco. «Il solito, noto Garagnani continua a fare danni», scrive G.B. Perazzo. Fu lui, infatti, a chiedere di «ricordare anche le vittime dei massacri partigiani» e di «citare le pagine oscure della Resistenza». C’è chi rileva che «queste sparate arrivano sempre quando il governo è in difficoltà. Dobbiamo attendercene altre». Tra disperazione e sarcasmo: «È uno scherzo, vero?». Molti invocano la mobilitazione immediata: «In piazza subito e basta tentennamenti», scrive Enrico D. Dai vertici dell’Anpi, ossia dal presidente Carlo Smuraglia, la lapide per l’odg Garagnani: «Una provocazione e una follia». Ettore Rosato, dell’ufficio di presidenza del gruppo Pd: «Siamo di fronte ad un gesto politico vigliacco e provocatorio da parte di un governo che non sa guidare il paese e tenta di tappare i buchi con dosi massicce di propaganda». La deputata dell’Idv Silvana Mura dà una lettura politica: «Si conferma la confusione e la debolezza di un governo che, non avendo più i numeri in aula, accoglie tutti gli odg per evitare di subire ripetute sconfitte». Non fosse, aggiunge Mura, che «a nessuno democristiano sarebbe mai venuto in mente di disconoscere la ricorrenza del 25 aprile 1945: la Dc e i cattolici si riconoscevano in pieno nel movimento della Resistenza, di cui furono parte importante». Un’altra lezione di storia arriva Andrea De Maria, responsabile Pd per la comunicazione politica ed ex sindaco di Marzabotto: «Siamo di fronte a un insulto a chi si è sacrificato per la libertà dell’Italia combattendo nazismo e fascismo, in un grande movimento unitario la Resistenza che ha visto battersi insieme italiani di opinioni politiche diverse per l’obiettivo comune di sconfiggere la dittatura e conquistare la democrazia per tutti, anche per chi allora combatteva dall’altra parte». Da registrare che nemmeno la Lega è più in grado di prendere sul serio le sortite degli alleati di governo: «Allora si festeggi anche la legge truffa del ‘53».

l’Unità 29.9.11
E nel Pd esplode il caso Radicali
Possibile l’espulsione
«Hanno avuto un comportamento intollerabile». A ottobre scade la convenzione di Radio Radicale
di Maria Zegarelli


Fanno una mossa a sorpresa. Di quelle che Marco Pannella applaudirebbe a lungo. Sta per iniziare la conta quando tre radicali si alzano e leggono il loro discorso diviso in tre parti uguali. Dicono, in buona sostanza, che non parteciperanno al voto perché l’altro ieri al Senato su carceri e amnistia non è andata come avrebbero voluto. Nei banchi del Pd prima c’è sorpresa, poi partono i fischi e le urla. Loro, alzano i cartelli, «Amnistia», arrivano i commessi che li fanno sparire.
Le facce democratiche sono sempre più scure. Che stavolta non finisce qua è chiaro da subito. L’ufficio di presidenza del gruppo viene convocato già durante le votazioni, mentre partono le dichiarazioni durissime dei dirigenti Pd.
«Per quanto mi riguarda considero il comportamento dei radicali inqualificabile. Ritengo che il gruppo ne debba trarre le conseguenze e, per quanto mi riguarda anche il partito», sbotta infatti Rosy Bindi subito dopo il voto di sfiducia al ministro Romano. Rincara il capogruppo Dario Franceschini: inqualificabile e incomprensibile. Tanto inqualificabile che oggi dopo la fine della seduta d’Aula, dopo le 13, si riunirà il direttivo del gruppo «che in base allo Statuto deciderà cosa fare». Cioè se procedere con l’espulsione dei radicali dal gruppo Pd, decisione che sarà presa dopo aver incontrato i «dissidenti» stamattina alle 9.30. Michele Ventura dice che il vaso era già colmo da tempo, che non è la prima volta ma, stavolta hanno compiuto «un gesto intollerabile e nel partito c’è un’ insofferenza diffusa perché questa scelta non c’entra niente con l’amnistia». Qualcuno fa notare: entro la fine del mese scade la convenzione tra la Presidenza del Consiglio e Radio Radicale. In ballo c’è un finanziamento di un sacco di soldi. Non è questione di poco per la Radio di via di Torre Argentina.
Franceschini è furibondo. La decisione di riunire il direttivo è arrivata dopo l’ufficio di presidenza al quale ha partecipato anche il segretario Pier Luigi Bersani. «Non ci avevano detto nulla commenta il capogruppo di questa loro decisione che ha riguardato un voto pieno di significato politico. Stavamo votando la sfiducia al ministro Romano, non era una questione secondaria. Già nel voto sulle professioni sanitarie i Radicali avevano votato in modo diverso dal gruppo». Uno spettacolo, quello andato in scena ieri pomeriggio in Aula, che ha prima colto di sorpresa e poi fatto infuriare i democratici. Sono stati Maurizio Turco ed Elisabetta Zamparutti a spiegare che la loro protesta era conseguenza del sostanziale disinteresse del Senato alla loro proposta di cercare di affrontare la drammatica situazione nelle carceri. Ma i nervi democrat sono saltati quando ognuno dei radicali ha risposto alla «chiama» per il voto urlando «amnistia», stessa parola che campeggiava su alcuni cartelli che sono stati sventolati in Aula poco prima che Gianfranco Fini dichiarasse aperta la votazione. E un rapporto che era già teso e parecchio complicato, soprattutto negli ultimi tempi, va in pezzi proprio mentre Romano si gode la sua triste vittoria.
Lo Statuto del Pd prevede quattro sanzioni e su queste sarà chiamato a pronunciarsi il direttivo di oggi: il richiamo orale (pratica già consumata ieri Aula); il richiamo scritto, la sospensione e l'espulsione.
Ieri sera a Montecitorio erano davvero tanti i deputati orientati verso l’espulsione e non è escluso, quindi che oggi vada proprio così. «In un momento politico così cruciale commenta Antonello Soro che ieri ha parlatoinAulaperilPd-noncisi astiene dal voto. Questa era una mozione presentata dall’opposizione, cosa c’entra l’amnistia con il ministro Romano indagato per fatti gravi». Dal Pdl è il capogruppo Fabrizio Cicchitto a difendere i radicali: «Se il Pd decide l'espulsione dei radicali dà prova che il giustizialismo viene portato alle estreme conseguenze».

il Fatto 29.9.11
Li salvi chi può
L’aiutino dei radicali: “Amnistia, non votiamo”
Il Pd vuole l’espulsione
di Luca Telese


E Marco Pannella, nella sede di via di Torre Argentina ululò: “Andatevene affanculo, capito? Affanculooooo…”. Ce l’ha con l’autore di questo articolo, che gli chiedeva conto del voto del suo gruppo a Montecitorio. Infatti, con un colpo di scena (ma nemmeno troppo), dopo aver minacciato di dissociarsi già ai tempi della sfiducia a Berlusconi il 14 dicembre, i sei deputati radicali eletti nelle liste del Partito democratico non votano l’autorizzazione all’arresto del ministro Saverio Romano. Nel momento della verità, mentre le luci del tabellone lampeggiano, alzano dei cartelli in aula con scritto sopra: “Amnistia”. Il loro modo per dire, al momento del voto, che in segno di protesta contro il Parlamento e la sua scelta di non intervenire sulla giustizia e sull’emergenza carceri, si sottraevano alla logica di lealtà della loro coalizione.
Pannella: “Come il Pcus”
La scelta dei Radicali ha abbassato il quorum e ha contribuito al salvataggio del ministro, inquisito per i suoi rapporti con la mafia. Ma alla fine dello scrutinio, quando si è saputo che i voti della maggioranza erano stati 315, è apparso chiaro che la dissociazione dei sei deputati non è stata determinante (dal punto di vista numerico), perché esisteva comunque una maggioranza a favore del ministro inquisito. Eppure, visto che nessuno prima del voto poteva immaginare prima chi avrebbe votato e cosa, la scelta dei deputati pannelliani ha creato sconcerto in una parte dello stesso gruppo di cui fanno parte (quello del Pd, nelle cui liste sono stati eletti) con il collega Andrea Sarubbi, quello della legge sulla cittadinanza, che nel pieno del Transatlantico si sfoga inviperito: “Adesso basta! Con loro dovremo fare i conti!”. Anche Rosy Bindi affronta il tema. La presidente del Pd è arrabbiata: “Quella dei radicali è una decisione inqualificabile. Ritengo che il gruppo ne debba trarre le conseguenze, e anche il partito”. In serata la situazione precipita, e le agenzie battono la notizia che il direttivo del gruppo del Pd oggi si riunisce per prendere provvedimenti. A Torre Argentina, dove i radicali sono tornati dopo il voto, arriva in diretta la notizia che i sei obiettori di coscienza potrebbero subire provvedimenti disciplinari dal gruppo come ventilato da Sarubbi e dalla Bindi. Marco Pannella, che allo sciopero della fame ha aggiunto quello della sete (sempre per chiedere un’immediata amnistia) se la prende persino con questo giornale: “Sai che cosa dico a voi de Il Fatto Quotidiano? Andatevene affanculo! Stiamo facendo una protesta nonviolenta per la civiltà e per il diritto, ma a voi non ve ne frega nulla, come del resto agli altri giornali di regime. Scrivete di noi – si sfoga il leader radicale – solo per questa miserabile votazione, e intanto quelli del Pd lavorano per espellerci come ai tempi del Pcus. Ma che bella situazione. L’unica cosa che posso dire è questa: andatevene affanculo!”
“Diciamo no alla partitocrazia”
La dissociazione aveva preso corpo durante il dibattito: con quattro interventi a titolo personale di Maurizio Turco, Elisabetta Zamparutti, Marco Beltrandi e la segretaria, Rita Bernardini. Elisabetta Coscioni non ha avuto modo di parlare, ma è solidale con la scelta dei suoi compagni. Interrompendo la riunione accetta di parlare Maurizio Turco, che accetta di ricostruire la genesi della scelta: “Noi abbiamo saputo del testo di questa mozione dopo che era stato presentato...”. Ed è per questo che non avete partecipato al voto su Romano? “Noi non abbiamo votato perché dopo che il presidente della Repubblica ha parlato della giustizia, e del carcere, e di una illegalità sanzionata dal consiglio di Europa, e il Senato si è riunito in seduta straordinaria, per la terza volta nella sua storia, senza decidere niente!”. Allora chiedi a Turco se questo è un motivo sufficiente ad agevolare il ministro inquisito per mafia. A questo punto si arrabbia pure lui: “Noi non abbiamo salvato Romano! Tant’è vero che la maggioranza ha avuto 315 voti. Ma, visto che lei me lo chiede, le faccio una domanda io: questo articolo lo avrebbe scritto se noi avessimo votato a favore dell’arresto? Le rispondo io, perché la risposta è semplice: No”. Quindi è un voto per acquisire visibilità a prescindere dal contenuto e dagli effetti dello scrutinio? “È un voto – dice Turco – per poter dire che le migliaia di prescrizioni che ogni anno vengono decise sono tutte illegali, perché i processi sono infiniti”. Ma Romano cosa c’entra con questo? Turco sospira: “Noi non siamo entrati nemmeno nel merito delle accuse a Romano!”. Se gli chiedi che senso abbia penalizzare l’opposizione e favorire il governo che è il primo inadempiente sulle richieste dei radicali Turco si arrabbia: “Su questi temi non esistono differenze fra maggioranza e governo, che hanno la stessa indifferenza al dramma delle nostre carceri e alla situazione di illegalità istituzionale. Il nostro è stato un voto contro la partitocrazia”. Bisognerà che qualcuno lo spieghi anche a Romano. Che stasera è andato a letto felice.

Corriere della Sera 29.9.11
I radicali non votano
Il Pd valuta l'espulsione
di Al. T.


ROMA — Sei radicali che, a ogni chiama, urlano «amnistia», innalzando cartelli. Sei radicali, gruppo Pd, che non partecipano alla sfiducia sul ministro Saverio Romano. E tutto il loro gruppo Pd che urla e protesta. Per l'indignazione Rosy Bindi quasi urla: «Questi vanno cacciati». Roberto Giachetti, segretario d'aula Pd ed ex radicale, la frena: «Calma Rosy, hanno fatto una cazzata ma andiamoci piano». Eppure lo sgarbo è grosso e la parola «espulsione» evocata da molti. Tanto che viene convocato d'urgenza, per oggi alle 18, un direttivo per «processare» i radicali.
Una dissociazione non prevista e non comunicata preventivamente che fa circolare i peggiori veleni. «Si sono venduti al Pdl», dicono alcuni pd. «È per la convenzione di Radio Radicale in scadenza», dicono altri. Loro, i radicali, parlano esclusivamente di amnistia. Il giorno prima Emma Bonino era intervenuta in Senato per esprimere lo «sconforto» sul silenzio dei mass media sulla «battaglia di legalità» dei radicali: «L'amnistia non è solo un atto di clemenza, ma un modo per fare le riforme». Alla stessa logica appartiene la clamorosa dissociazione di ieri: parlare d'amnistia.
Eppure l'effetto non pare raggiunto. Rosy Bindi è tranchant: «Comportamento inqualificabile». Dario Franceschini: «Incomprensibile e intollerabile». Giachetti non l'ha presa bene: «Scelta sbagliata, grave e incomprensibile. Metodo inaccettabile. Mezz'ora prima la Bernardini non mi ha voluto comunicare il loro voto. Questo è grave». Detto questo, «prima di epurare qualcuno, pensiamoci bene. È stata una pugnalata alle spalle ma siamo pur sempre democratici. Vengano al direttivo e spieghino».
I radicali sono irraggiungibili. Rita Bernardini risponde che è «in riunione». Nel Pd, intanto, si sprecano le dietrologie. Dicono che Denis Verdini stia tessendo la trama per sottrarli all'opposizione. Prima del voto ha chiamato il radicale Maurizio Turco. Che, però, non lo ha informato della protesta.

Repubblica 29.9.11
Protesta per il no del Senato all’amnistia. Durante il dibattito tensione e insulti
La "vendetta" dei radicali "Non partecipiamo al voto" l’ira del Pd: "Li cacciamo"
di Alessandra Longo


ROMA - Alla fine ha ragione l´inquisito per mafia: «Questa mia vicenda lascerà comunque un segno nel Parlamento», dice il ministro della Repubblica italiana Saverio Romano. Davvero difficile immaginare una seduta d´aula più imbarazzante, più degradata. Il ministro in odor di Cosa Nostra si salva dalla sfiducia, allegramente sostenuto dai duri e puri della Lega, e il premier corre «soddisfatto» ad abbracciarlo. Ma la vera sorpresa arriva dal Pd che finisce tramortito da un clamoroso imprevisto: i sei radicali eletti nelle file del partito, non partecipano al voto. Forse già oggi verranno espulsi. Rita Bernardini, Maurizio Turco, Marco Beltrandi, Maria Antonietta Farina Coscioni, Elisabetta Zamparutti, Matteo Mecacci non avvisano il gruppo, come usa in caso di dissenso. Eccoli alzarsi all´improvviso. Prendono la parola in aula e annunciano la loro decisione. E´ la risposta dura, in puro stile corsaro-pannelliano, al voto contrario del Senato sulla drammatica questione delle carceri e la proposta radicale di amnistia. L´indagato, già abbastanza sicuro di sé da sfiorare ripetutamente l´arroganza, se la ride guardando il Pd in ebollizione. Rosy Bindi si alza dallo scranno e fa un gesto con le braccia che assomiglia molto ad un vaffa. Vicino a lei un inedito Enrico Letta furioso. Bersani si mette una mano sulla testa. Chiamati al voto, i sei restano al loro posto e alzano a turno un cartello: «Amnistia!». Dario Franceschini, capogruppo, schiuma dalla rabbia: «E´ una decisione intollerabile, incomprensibile». Oggi direttivo del gruppo e ufficio di presidenza del partito, alla presenza del segretario. Bindi, fuori dall´aula, rilancia: «E´ un comportamento inqualificabile, mi attendo provvedimenti conseguenti». Saranno espulsi? Oggi si saprà. Al calar della sera, scuri in volto, i deputati del Pd lasciano Montecitorio.
Romano è invece di ottimo umore: «Adesso, fino al 2013, c´è da lavorare per le riforme...». No, non l´hanno lasciato solo anche se, all´inizio della seduta, i banchi del governo sono vuoti. In piedi, proclama l´innocenza sua e della sua famiglia «fino alla settima generazione», cita Francis Bacon e «il leone che ha già una zampa sul trono». Uno alla volta, ecco arrivare alla spicciolata i colleghi. Raffaele Fitto sceglie la sedia più lontana, Calderoli passeggia senza fermarsi. In postazione la Bernini, la Prestigiacomo, la Gelmini. Stefania Craxi, sottosegretario, è annoiata: «Sono stufa di giocare a guardie e ladri». Ma è Umberto Bossi a fare la differenza quando si mette accanto a Romano. Scattano i flash. Un bel trio da immortalare: il ministro inquisito per mafia, il leader della Lega che lo salva e, più in là, Giulio Tremonti (Milanese, miracolato, intanto si aggira tra i banchi del Pdl). Il ministro del Tesoro trova anche la voglia di scherzare quando incontra il sindaco della capitale Alemanno: saluto romano prima di entrare in aula.
«Il clima è chiaramente da campagna elettorale», sentenzia Gianfranco Fini, costretto a presiedere tra insulti e schiamazzi. Ci si mettono anche i suoi, quelli di Fli, che, quando parla il «responsabile» Moffa gli danno del «traditore» e poi alzano ben in vista le vignette di Vauro sul «Porno-Stato» pubblicate dal Fatto. Roberto Menia esibisce un cartello per i «padani»: «Alla faccia della Lega-lità». Lo mostra alle telecamere. Fini ordina: «Rimuovete tutto!», mentre una fila di commessi separa padani e finiani. Turbolenze che attraversano tutto l´emiciclo: Silvio Berlusconi, che si materializza per il gran finale, si prende i fischi del Pd mentre vota; a Casini quelli del Pdl sibilano «traditore»; Di Pietro dà del «codardo» a Maroni, (assente anche lui per gran parte della seduta) e il suo gruppo produce una vignetta con una grande poltrona verde-padania.
Si alza il caratterista Scilipoti che rivendica la sua scelta di appoggiare il governo: «Rifarei tutto pur di liberare il Parlamento dai cialtroni!». Se non fosse perché c´è da vergognarsi, straordinaria la performance del leghista Sebastiano Fogliato. Parla d´altro, di vino, formaggio, di accordi di filiera e animali clonati. Sceglie di non entrare «nel merito della mozione perché non ha nulla a che fare con il ministero dell´Agricoltura».
Fuori, in piazza Montecitorio, il Popolo Viola, in formazione ridotta, dà vita ad un sit-in e ad una catena umana. Scajola, quello della casa al Colosseo, è soddisfatto della giornata. Lo sentono dire: «Sfangata!».

Corriere della Sera 29.9.11
il Paese guarda, attonito
di Aldo Cazzullo


Il partito che per quindici anni si è chiamato Forza Italia e ora si chiama Pdl nasce non solo come contenitore dei voti cattolici e socialisti. Si è proposto, sin dalla vera fondazione — il discorso della «discesa in campo» di Berlusconi —, come una forza di opposizione alla prospettiva di un Paese trasformato «in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna». Il centrodestra nasce cioè come difesa della politica dall'ingerenza della magistratura. Un obiettivo condivisibile, se non fosse stato sin dall'inizio viziato anch'esso dal conflitto tra il bene pubblico e gli interessi privati del leader, e di uomini che hanno guardato al suo partito come a un ombrello dai guai giudiziari. Garantismo e impunità sono separati da un confine ben preciso. Le vicende parlamentari di queste settimane l'hanno ampiamente oltrepassato. E il Popolo della libertà non appare più come un argine contro il dilagare delle Procure (cui in effetti accade di uscire dall'alveo), ma come il manto della Madonna della misericordia degli affreschi medievali, sotto cui corrono a ripararsi anche sedicenti perseguitati e autentici malandrini.
Le sentenze spettano solo alla magistratura. Non ai giornali. Ma neppure al Parlamento. Il Parlamento è chiamato a escludere che un eletto di cui si chiede l'arresto sia vittima di una persecuzione; o a dare una valutazione politica sull'opportunità che un ministro di un dicastero importante resti al suo posto, nonostante sia indagato per mafia. Il paragone con gli anni tra il '92 e il '94 non regge. I casi di Papa, di Milanese, di Romano non sono storie di ingranaggi della macchina del finanziamento illecito ai partiti: una macchina perversa, che però implicava una responsabilità collettiva, di sistema. Qui siamo di fronte a parlamentari accusati di ricevere regali costosi, auto di lusso, yacht in cambio di informazioni su inchieste giudiziarie o posti nei consigli d'amministrazione di aziende pubbliche; e a un ministro su cui incombono accuse che potrebbero rivelarsi anche più gravi di quelle che hanno condotto in carcere il suo ex compagno di partito Totò Cuffaro. Il garantismo impone di considerarli innocenti sino alla sentenza definitiva; l'opportunità politica e il principio di uguaglianza di fronte alla legge consigliano invece un passo indietro, sollecitato in passato dallo stesso presidente della Repubblica, nel caso infelice di Brancher, ministro per poche ore. Qui invece siamo al paradosso per cui Tremonti finisce imputato nel suo stesso partito non per avere mal riposto la fiducia nell'ex braccio destro, ma per non aver contribuito a «salvarlo».
L'opposizione ha la credibilità morale per condurre questa battaglia in nome dell'intero Paese? La risposta è no. Il caso Penati è gravissimo, e finora non sono venute risposte convincenti né dall'interessato né dai vertici del Partito democratico. E, quando fu chiesto l'arresto del senatore Pd Tedesco, nel voto segreto prevalsero le ragioni dell'impunità. È l'opinione pubblica, è l'intera classe politica che deve porsi la questione. Costruire un sistema giudiziario equo ed efficiente, che non punisca con la carcerazione preventiva — tutti i cittadini, non solo i parlamentari — ma accerti le responsabilità, è un'urgenza cui nessuno può sottrarsi. A maggior ragione i moderati e i liberali cui tocca ora chiudere al più presto questa stagione, e ricostruire su basi più solide quell'area della legalità e del merito che mai come oggi manca al Paese.

l’Unità 29.9.11
Le due Italie di fronte alla speranza della terraferma
Il dramma immigrazione
di Domenico Petrolo


«Terraferma», come il luogo sicuro che in molti sperano di raggiungere, come ideale luogo di pace, possibilità e ricchezze. Un bel film che rappresenterà l'Italia agli Oscar e racconta un pezzo della nostra storia recente. Quella degli africani che raggiungono le nostre coste, fuggendo dalla povertà e dalla guerra attraverso un lungo viaggio che spesso per alcuni finisce in mare: solo nei primi 5 mesi del 2011 sono 2532 i migranti morti nel Me-
diterraneo.
Un film semplice, diretto, che racconta la reazione e le vicissitudini degli abitanti di un’isola siciliana che si trovano ad affrontare l’arrivo dei clandestini, nel momento in cui la fisionomia sociale ed economica dell’isola stessa sta cambiando.
Si pone così il grande dilemma: pensare a se stessi e alle proprie famiglie, lasciando morire i clandestini in mare, oppure, come Antigone per suo fratello, trasgredire le leggi per salvarli. S’incontrano e si scontrano cosi due generazioni, due Italie. Una cresciuta avendo visto fratelli e sorelle emigrare, partire per luoghi lontani, rivederli dopo dieci anni o non rivederli mai più. Cresciuta obbedendo alle leggi del mare, per cui una vita, in quanto tale, va salvata al di là del colore della pelle. E una generazione cresciuta nell’opulenza, ma poi travolta, resa insicura ed egoista dagli effetti di una globalizzazione senza «ammortizzatori». Si apre cosi nell’isola un dibattito acceso: pensare a se stessi o rischiare per obbedire ad un istinto di «umanità».
Attraverso quella che è una storia vera, nel senso che si parla di tutti noi, di quello che stiamo diventando, «Terraferma» descrive un Paese impaurito, imbarbarito, arrabbiato per le difficoltà economiche che è costretto ogni giorno ad affrontare, un Paese che ormai ha smesso d’interrogarsi su chi sia l’altro, scegliendo di rifiutarlo a priori.
Per mesi il governo ha respinto barche di disperati, rispedendo coattamente i suoi carichi umani nei campi profughi libici, dove torture e stupri erano prassi. Lasciato soli i lampedusani nella gestione di un’emergenza che poi si è rivelata esplosiva.
Le spinte ideologiche o propagandistiche, al grido «fuori lo straniero», soddisfano gli istinti più semplici della gente e influenzano la vita di molti di noi.
Ma i tempi che ci aspettano non saranno semplici e per questo è ancor più necessario ritrovare uno spirito migliore. Pretendere un approccio lucido, che ci garantisca sì maggiore «sicurezza», ma che non rifiuti il concetto di «solidarietà» e che, come in «Terraferma», ci permetta di riscoprire che la parola «clandestino» coincide sempre con la parola «essere umano».

il Fatto 29.9.11
Migranti: dal centro distrutto alle mavi lager
Lampedusa, gli isolani in ginocchio aspettano lo stanziamento promesso dalla Prestigiacomo
di Silvia D’Onghia


Le fascette sembrano quelle degli elettricisti. Solo che, anziché legare fili o tubi, legano i polsi delle persone. Recluse, da una settimana, sulle navi che
 hanno svuotato Lampedusa, ma che sono diventate dei lager galleggianti. Le immagini, che poco si addicono a un paese civile, arrivano dal filmaker Enrico Montalbano e dalla fotografa Danila D’Amico. Scatti e video fatti al porto di Palermo, in cui si vedono i migranti con le fascette ai polsi, mentre mostrano cartelli con la scritta “libertà” o mentre vengono fatti salire su un pullman. “All’inizio c’erano tre navi con 700 persone a bordo – spiega Marta Bellingreri del Forum antirazzista di Palermo -. Poi hanno cominciato a svuotarle, ma anche ad allontanare i traghetti dalla nostra vista. Martedì 200 tunisini sono stati portati nel centro di Elmas, a Cagliari, ieri un’altra nave si è trasferita a Porto Empedocle”.
 NESSUNA ONG è potuta salire a bordo, Medici senza Frontiere si chiede cosa accadrà quando ne arriveranno altri. Agli immigrati sono stati sequestrati i telefoni cellulari, in modo da evitare le conversazioni con l’esterno. Su quanto sta accadendo la Procura di Palermo indaga, dopo un esposto presentato da cittadini e associazioni del Forum antirazzista. Notizie che non arrivano neanche a Lampedusa, schermata e sospesa. Sulla strada che porta al Centro di primo soccorso e accoglienza, non c’è più il posto di blocco, ma, quando arrivi, il cancello è chiuso e due militari dell’Aeronautica ti fermano. Vietato entrare, anche se dentro non c’è nessuno, anche se a Lampedusa non sono rimasti neppure i 40 minori che erano ospitati alla Base Loran. “Noi stiamo qui solo ad aprire e chiudere”, rispondono un po’ seccati i due. Se si vuole sbirciare all'interno, bisogna inerpicarsi per una collina. L’incendio appiccato dai tunisini la settimana scorsa ha ridotto il padiglione più grande del Cpsa a un ammasso di lamiere deformate. Il resto della struttura è quasi intatto (ad eccezione di un piccolo prefabbricato all’ingresso), ma il silenzio è tale che si sentono le risate di una donna delle pulizie. La cooperativa “Lampedusa accoglienza”, che gestisce i due centri dell’isola, deve garantire la presenza di dieci persone, compreso medico e autista, per presidiare il nulla. Ci sono sette uomini della polizia scientifica, provenienti dalla Sicilia e da Roma: avrebbero il compito di
 fotosegnalare gli immigrati, in questi giorni sono impiegati a fare ordine pubblico durante O’ Scià, la manifestazione di Claudio Baglioni. Nessuno di loro sa per quanto tempo dovrà rimanere, dal Viminale non arrivano disposizioni, si vive alla giornata tra una partita a carte e una battuta di pesca. “Il contratto ci scade tra due giorni – racconta Cono Galipò, presidente di “Lampedusa accoglienza” ma la Prefettura non ci ha ancora fatto sapere se ce lo rinnoverà”.
 Questa è un’isola sospesa tra la voglia di dimenticare un anno con 60 mila sbarchi (a fronte di soli 16.566 rimpatri, dato del ministero) e il timore che il brutto sogno ricominci già la settimana prossima, quando i riflettori si spegneranno e, chissà, forse all'orizzonte torneranno i barconi. Qui lo sanno tutti: è il comandante della Capitaneria di Porto a dover decidere dove scortare i natanti soccorsi in zona Sar (“Search and Rescue”, ricerca e soccorso), e non certo il ministro dell'Interno. Lampedusa è il porto più vicino alla Tunisia, questo conta per il diritto delle acque. Ne va della vita delle persone soccorse. Ma c’è da fare anche un discorso economico: quanto costa allo Stato far scortare un barcone da cinque mezzi della Capitaneria o della Finanza fino a Porto Empedocle, che è il doppio della distanza? Lasciando nel frattempo Lampedusa sguarnita? Forse soltanto il sindaco, Bernardino De Rubeis, crede ancora alle favole di un ministro che a marzo ha voluto far scoppiare il caso, svuotando l'isola quando il numero dei migranti era pari a quello degli abitanti (seimila), e poi ha promesso trasferimenti giornalieri.
 Una favola che è costata il crollo del turismo in giugno e luglio e che è durata lo spazio di un accordo al ribasso col governo provvisorio tunisino. Con le conseguenze riprese dalle telecamere la scorsa settimana, quando il Cpsa è stato bruciato e per le strade di Lampedusa si è vissuta la guerriglia. “Erano due mesi che c’era tensione tra gli isolani e gli stranieri – racconta Baglioni, che qui trascorre sei mesi all'anno e che ha scritto una lettera ai lampedusani, invitandoli a ritrovare il senso della compassione -. Si sapeva che il risentimento avrebbe provocato la rivolta. Quando senti che nessuno ti difende, l'idea di prendere sassi e bastoni è umana. Anche se con le pietre bisognerebbe costruire e non distruggere” . Del resto se si decide di tenere 1200 persone recluse per mesi in una struttura che ne può ospitare 850, si deve anche mettere in conto la rabbia del più mite tra gli uomini. Figuriamoci quella di coloro che hanno minacciato di far saltare in aria un distributore di benzina, quasi tutti con precedenti penali in Italia. E, nonostante questo, a combattere con gli stranieri erano solo 50 persone, forse sull’esempio di un primo cittadino che si è barricato con una mazza da baseball, “pronto ad usarla”. C'è chi giura che sono le stesse persone che hanno impedito la contestazione a Berlusconi, quando il 30 marzo ha annunciato il miracolo (“libereremo l’isola in 48 ore”) e l’acquisto della villa.
 FAVOLE E PROMESSE. Dopo l’esibizione, ieri sera, di Pino Daniele e Zucchero, sul palco di O' Scià potrebbe fare la sua comparsa stasera il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo. È stata lei a garantire al Comune lo stanziamento di 26 milioni di euro per riqualificare l'isola e un ambizioso progetto che renderebbe Lampedusa e Linosa “oil free”. Finora, però, non è arrivato un euro.

l’Unità 29.9.11
Domani in Cassazione le oltre 600mila firme contro il Porcellum
Parisi: «Risultato straordinario». Adesioni raccolte in meno di un mese
L’Asinello polemico con il Pd: la direzione non votò a favore dei quesiti
Domani saranno depositate in Cassazione le firme per il referendum abrogativo della legge elettorale. Dal comitato promotore: «Superata quota 600mila». Parisi: «E adesso vediamo che succede in Parlamento».
di Maria Zegarelli


«La pistola è sul tavolo e adesso possiamo dire che è carica». Oltre 600mila pallottole. Come a dire che il Porcellum ha il destino segnato. Arturo Parisi, anima e motore del referendum contro l’attuale legge elettorale, è più che soddisfatto per come è andata questa raccolta di firme che, dice, «ha dello straordinario». Per il deputato democratico è una delle poche cose positive in questa giornata parlamentare che è un’altra delle pagine nere di questa legislatura. Mentre parla Parisi aspetta il suo turno per andare a votare la sfiducia al ministro Francesco Saverio Romano, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. «In poco meno di un mese abbiamo raccolto molte più delle 500mila firme necessarie dice -. Il “Generale agosto” ha fermato ben altre armate». Non questa, che è sopravvissuta al periodo delle ferie e ha tenuto il campo malgrado la fretta con cui si è preparata la battaglia. E così domani mattina i sei leader dei partiti promotori (Idv, Sel, I democratici di Parisi, i referendari di Segni, Pli e Unione dei Popolari) depositeranno le firme in Cassazione per la convalida aprendo l’autostrada alla consultazione referendaria.
Quante firme sono state raccolte? «Dalla quantità di pacchi che ho visto nella sede di Santi Apostoli direi tante», risponde Parisi. Andrea Armaro, de I Democratici, dice che sono oltre seicentomila (100mila in più di quelle richieste dalla legge). Sono tutte là, stipate negli scatoloni dentro il salone dove si riunirono i 45 fondatori del Pd, quello stesso dove Romano Prodi riuniva l’Ulivo e l’Unione. Un tempo che sembra lontanissimo.
QUOTE RISPETTATE
Ogni partito ha rispettato, anzi è andato oltre, la quota che doveva raggiungere: 150mila firme Idv e Sel, 100mila l’Asinello di Parisi, 150mila insieme Pli, Referendari e Unione dei popolari. Esulta Antonio Di Pietro: «La raccolta firme contro l’attuale legge elettorale e per sostenere la proposta d`iniziativa popolare per l`abolizione delle Province ha superato ogni aspettativa. Solo l`Italia dei Valori, nonostante lo scetticismo di molti e il bavaglio imposto all`informazione dal governo, ne ha raccolte quasi 500mila». Dal Comitato c’è chi, sorridendo, ridimensiona: «Se fosse davvero così vorrebbe dire che ne avremmo quasi un milione di firme...».
Non si smorza invece, la polemica con il Pd. «È difficile dire per il Pd di aver raccolto le firme annota Armaro visto che né il segretario né D’Alema hanno firmato. E appena il 19 luglio scorso la direzione ha votato all’unanimità contro l’iniziativa referendaria di Parisi».
Parisi intanto si gode il doppio risultato: «Il referendum ha rianimato
anche l’interesse del parlamento per la riforma elettorale e questo era il nostro obiettivo. Il fatto che abbia firmato lo stesso presidente della Commissione Affari Costituzionali al Senato, Vizzini, dicendo che solo il referendum avrebbe riavviato il dibattito ha un significato preciso. Come la dichiarazione di Angelino Alfano che ora dice di voler restituire ai cittadini un diritto che il suo stesso partito gli ha sottratto con il referendum».
Vero è che Parisi ad Alfano attribuisce una credibilità prossima allo
zero: «Chi ha voluto il Porcellum e ha messo a repentaglio la nostra democrazia, può essere assunto a interlocutore solo se accompagnato da avvocato e carabinieri», ma è anche vero che a questo punto il tema torna in primo piano. Il Pd ha una sua proposta, sistema francese con doppio turno, mentre il Pdl pensa al sistema spagnolo rivisto, (partita aperta con la Lega), mentre è già fallita l’intesa che voleva costruire con l’Udc di Casini proprio sulla legge elettorale in vista di future alleanze.

l’Unità 29.9.11
«Indignarsi non basta» L’ottobre caldo degli universitari
Contro il governo e la crisi. «Noi studenti paghiamo più degli altri le loro scelte sbagliate»
Generazione senza futuro «Vogliamo riprenderci la politica e costruire una grande sinistra»
Manifestazioni, assemblee, sit-in. Dopo un anno gli studenti tornano a mobilitarsi. Convocati dagli indignados spagnoli, saranno in piazza il 15 ottobre. Ma rivendicano: «Più che indignati, siamo non rassegnati».
di Mariagrazia Gerina


Non chiamateli indignados. «Indignarsi non basta», preferiscono scandire i giovani italiani, citando un grande vecchio della sinistra nostrana, Pietro Ingrao. Studenti, universitari, precari, ricercatori. Lo scorso anno, sono stati i primi a muoversi contro il governo Berlusconi. Sono saliti sui tetti, hanno occupato le piazze d’Italia, assediato il Parlamento. E ora di nuovo, tornano a mobilitarsi. Con la loro miriade di sigle. Contro il governo, contro la crisi. Per difendere il loro futuro.
«Più che indignati, siamo non rassegnati», suggerisce Mario Castagna, dei Giovani democratici. «Sappiamo che per difendere i nostri diritti e per aprirci un varco nel mondo del lavoro e in generale nella società dobbiamo aprire un conflitto, generazionale e non solo, e che questo è un po’ più complicato che dire che destra e sinistra sono uguali». «Poco da sorridere, molto da combattere», recita infatti lo slogan della Rete universitaria nazionale, vicina ai Gd («anche se molti di noi non sono iscritti al Pd o votano altri partiti»), che domani e sabato hanno convocato alla Sapienza due giorni di assemblea («Espulsi dal sapere, lottano i pensieri»), con ospiti parlamentari e vertici universitari, compreso il presidente dei rettori. «Vogliamo far dialogare movimento e opposizione in Parlamento, perciò abbiamo invitato tutte le associazioni studentesche spiega il coordinatore nazionale Federico Nastasi -, il regalo più grande che potremmo fare alla destra in questo momento sarebbe dividerci, mentre la nostra forza è che quando sali su un tetto nessuno ti chiede di che partito sei».
Una miriade di sigle. E un lavorio di assemblee, incontri, appelli comuni, in corso in queste ore, per cercare di comporre di nuovo quella moltitudine che l’autunno scorso ha saputo richiamare l’attenzione dell’intero paese. Davanti, primo banco di prova, sarà proprio la data lanciata dagli indignados spagnoli: 15 ottobre, convocazione mondiale per dire che c’è una alternativa a come i governi stanno gestendo la crisi. Per i «non rassegnati» italiani sarà l’inizio di una mobilitazione, che proverà di nuovo a far sentire al paese la voce di una intera generazione di esclusi.
«Siamo la generazione che più subisce alla crisi, privata dei diritti conquistati da chi ci ha preceduto, delle tutele, delle garanzie, del futuro, ma ci mobilitiamo per cambiare le cose e non solo protestare, perciò l’appello che abbiamo firmato per convocare tutti in piazza il 15 ottobre recita “Indignarsi non basta”», spiega Luca Spadon, del coordinamento universitario Link, che ha appena lanciato una campagna per il diritto allo studio che scandisce «disoccupazione giovanile 30%, precarietà 47%, tagli alla borse di studio 95%», una equazione che non torna. Perciò gli studenti, non aspetteranno il 15 ottobre per scendere in piazza. La prima grande manifestazione l’hanno convocata il 7 ottobre gli studenti medi, ma tutta la Rete della conoscenza ha aderito. «Ora i conti li fate con noi», recita lo slogan che sarà rilanciato con cortei e sit-in in tutta Italia.
COME GLI STUDENTI CILENI
Come i cugini spagnoli. Anche se il modello è piuttosto il movimento studentesco cileno, sceso in piazza per rivendicare che l’università è un bene pubblico, suggerisce Maria Pia Pizzolante, della neonata «Tilt», che si muove tra SeL e dintorni. «Tilt come lo scossone che vorremmo dare alla a questa classe dirigente, anzi come lo scossone che abbiamo già cominciato a dare, con la mobilitazione dei precari e delle donne, con il referendum per l’acqua, con la vittoria alle amministrative». «Quello che ci separa dagli indignados spagnoli rivendica Maria Pia è che non ci piace cavalcare l’antipolitica, perché abbiamo una idea piuttosto precisa della politica e vorremmo costruire la grande sinistra che manca a questo Paese. Questa è la risposta da dare al mercato del lavoro che ci mette gli uni contro gli altri».
Al fronte dei «non rassegnati» si iscrivono ovviamente anche i ricercatori della Rete 29 aprile, quelli che lo scorso autunno salivano sui tetti contro la riforma Gelmini e la distruzione dell’università pubblica. A partire dal 10 ottobre, torneranno a fare lezione in piazza. Lezioni sulla crisi: quella economica, ma anche quella della cultura. E, ovviamente, dell’università. «Negli atenei è tutto bloccato spiega Alessandro Ferretti, uno dei leader della Rete -, i concorsi per ricercatore e per associato sono tutti fermi e quello che non è bloccato è distribuito in modo iniquo, i pochi fondi per finanziare posti da associato verranno destinati solo agli atenei che spendono meno del 90 per cento del budget per i dipendenti».

La Stampa 29.9.11
La crisi, la sfiducia nei partiti
L’onda globale dell’antipolitica
Al Cairo, Madrid, New York cresce la protesta antisistema: “Votare è inutile, prendiamoci il potere”
di Paolo Mastrolilli


Autunno occidentale Tre anni dopo il fallimento di Lehman Brothers l’economia è ancora in crisi: a Wall Street gli «indignados» chiedono che paghi la finanza

176 «primavere» i Paesi europei in Medio Oriente più «indignati»
I Paesi maggiormente Le proteste spagnole coinvolti dal 18 dicembre del 15 maggio hanno 2010 - quando Mohamed contagiato tutto Bouazizi, tunisino, si è dato il vecchio continente: fuoco per protesta - a oggi da Parigi a Londra, sono Algeria, Bahrein, passando per Roma, Egitto, Tunisia, Yemen, Atene e Berlino. Giordania, Gibuti, Libia e Sono scesi in piazza Siria. Incidenti minori sono giovani, precari, avvenuti in Mauritania, pensionati, disoccupati, Arabia Saudita, Oman, ricercatori, Sudan, Somalia, Iraq, disillusi della politica Marocco e Kuwait e della finanza globale

C’era una volta quella roba noiosa chiamata politica, che richiedeva un po’ di preparazione e molte ore nelle sedi di partito, per imparare a farsi crescere il pelo sullo stomaco, abbandonare in fretta gli ideali e vendersi agli interessi dell’establishment. C’è ancora, a dire il vero, però l’enorme ondata di proteste che sta scoppiando dal Cairo a New York, da Madrid a Nuova Delhi, potrebbe condannarla a morte.
In quelle piazze cresce la nuova generazione dell’antipolitica: in Spagna li chiamano indignados, in Egitto sono i ragazzi della primavera araba, l’economista della Columbia University Jeffrey Sachs li definisce i Millennials, e il «New York Times» li ha battezzati giovani del non voto. Le caratteristiche, però, sono simili ovunque. Ragazzi svegli tra i quindici e i trent’anni, ma anche più anziani, che hanno studiato; usano Internet, smartphone e computer con la mano sinistra; spesso non lavorano; sono liberal sui temi sociali e razziali; vogliono difendere l’ambiente senza paralizzare la crescita; pensano che i vecchi politici siano solo dei corrotti in mano ai grandi interessi; stanno perdendo fiducia nelle istituzioni tradizionali della democrazia perché tanto vengono sempre corrotte dal potere. Vogliono uno Stato che li aiuti a realizzare i loro progetti, impicciandosi il meno possibile della loro vita. Gente come Wael Ghonim, che ha inventato la rivoluzione in Egitto con i messaggi su Facebook; o Josh, studente di Denver che ha visto la protesta Occupy Wall Street a New York, è salito sopra un aereo e adesso gestisce il centro stampa di Zuccotti Park: «Il potere dice - non te lo regala nessuno. Se lo vuoi, te lo devi prendere».
Le radici forse affondano nel movimento no global, nato dalle proteste di Seattle contro la Wto, o nell’etica degli «hacker buoni» che si considerano custodi della libertà, come il leader della comunità newyorchese Emmanuel Goldstein, che aveva rubato questo suo nome di battaglia dall’avversario del Grande Fratello nel romanzo di Orwell. Da allora, però, i giovani dell’antipolitica hanno fatto parecchia strada. Sotto forme diverse, spinti dalla crisi economica globale, li abbiamo visti in azione al Cairo, in Grecia, a Londra, in Spagna, Israele, India e adesso anche a New York. Ma ci sono pure dove non si vedono. Qualche anno fa eravamo nello Yemen, patria di al Qaeda, durante il ramadan. Il nostro albergo di Sana’a organizzava cene serali per la fine del digiuno giornaliero, a cui potevano partecipare anche le ragazze. Arrivavano coperte da veli che lasciavano spazio solo agli occhi, ma sotto portavano tacchi a spillo, jeans e telefonini, con cui discutevano in perfetto inglese di un solo sogno: andare a studiare in Europa o in America, per lasciarsi alle spalle la condanna della loro società immobile.
Dove voglia andare questa generazione, dopo le proteste spontanee organizzate sulla rete, è più complicato capirlo. Incendiari a vent’anni e pompieri a cinquanta? I pirati di Kreuzberg sono entrati nel Parlamento di Berlino, con loro grande sorpresa, segnalando allo stesso tempo la possibilità di cambiare la vecchia politica, o il rischio di venirne assorbiti. Se anche Facebook e Google scendono in campo, chiunque si può candidare. Però molti di loro, come Josh di Denver, pensano che votare sia inutile, tanto è vero che «anche Obama è diventato uno strumento di Wall Street». Questi ragazzi potevano essere un serbatoio naturale di consensi per la sinistra, ancora in cerca di identità dal crollo del Muro di Berlino, ma i suoi leader non sono riusciti ad intercettarli. Il neocentrismo liberista di Bill Clinton e Toni Blair ha rappresentato forse la redenzione realistica dei baby boomers, dopo il collasso delle illusioni sessantottine, però non parla ai Millennials. Anzi, li ripugna, perché non hanno alcun peccato originale da farsi perdonare. Vogliono solo una politica più attenta al loro desiderio di partecipare, studiare, lavorare. A destra invece l’antipolitica ha preso la deriva razzista di alcuni gruppi nordeuropei, o quella anti tasse dei Tea Party americani, che però sono soprattutto persone di mezza età, non propongono idee particolarmente nuove e vogliono conservare la propria influenza sul vecchio establishment, piuttosto che rovesciarlo.
Sachs è convinto che alla fine i Millennials entreranno nella politica e riusciranno a cambiarla, costruendo una società meno basata sul consumismo e più sull’umanesimo responsabile. Il tempo sta scadendo, però, prima di perderli per sempre.

La Stampa 29.9.11
Ma in Italia i giovani si fanno ancora sedurre dai Grandi comunicatori
I sondaggisti: schifo ed entusiasmo, siamo diversi dagli Usa
di Fabio Poletti


A fare un sondaggio tra i sondaggisti e i politologi sembra che i giovani delle nostre parti siano o del tutto indifferenti alla politica e anzi un po’ schifati o appassionati come negli Usa se lo sognano. Tra i catastrofisti ma con riserva finisce Renato Mannheimer: «Gli italiani under 30 sono quelli che votano di meno. Non hanno più un’ideologia di riferimento. Sono disorientati. Ma se appare un leader che sa intercettare i loro interessi o comunicare il proprio programma il discorso cambia». A guardare le figure carismatiche apparse sulla scena politica dell’ultimo decennio o poco più - in ordine strasparso Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Antonio Di Pietro e più in piccolo Giuliano Pisapia a Milano o Luigi De Magistris a Napoli - sembra che a titillare le coscienze dei giovani siano soprattutto i «grandi comunicatori».
Ma per Luigi Crespi di Clandestinoweb - categoria gli italian guys battono gli Usa - a rendere i nostri giovani meno restii ad abbandonare il voto come strumento di democrazia ci sarebbe pure una «questione antropologica». Spiega Luigi Crespi: «Il voto in Italia è una conquista recente, arrivato dopo una dittatura. Da noi si vota di più, fosse anche con scheda bianca considerata comunque un’espressione di dissenso». Di sicuro - ma questo lo dicono tutti, proprio tutti - la benzina che spinge giovani e meno giovani ad andare a votare non è più l’ideologia, tutte le ideologie sono tramontate nel «secolo breve», ma l’appeal della proposta politica. Analizza Luigi Crespi: «Il calo del voto nei giovani non è costante. Alle penultime elezioni politiche si è avuto un picco. Segno che gli italiani sono ancora appassionati alla politica. Al massimo, piuttosto che una crisi del voto, va registrata una crisi dei politici, visti come soggetti che vivono in un loro mondo dove si ripetono senza soluzione ci continuità».
Tra i catastrofisti ci si mette il sociologo Aldo Bonomi. Nel rapporto tra i giovani e la politica, l’analista di Aaster individua tre categorie: «Gli “out”, due milioni di giovani italiani che non cercano più lavoro, non vanno più a scuola e sono estranei alla politica. Altri due milioni che se ne sono andati fuori dall’Italia e al massimo animano i blog. Poi ci sono tre milioni di under trenta, precari e animatori del terziario, che votano ancora. Li smuovono temi etici e sociali, il volontariato e l’associazionismo». A guardarli bene tra loro ci sono le protagoniste della protesta delle sciarpe bianche, il Popolo Viola, i Grillini e gli entusiasti di Pisapia o De Magistris: «Gli unici ad avere catalizzato consensi per il loro messaggio di discontinuità».
Alessandra Ghisleri di Euromedia Research li chiama «giovani virali». Nel senso che, quando sono contagiati da una novità trasmettono il virus molto velocemente, ma altrettanto velocemente sono in grado di maturare degli anticorpi se si sentono traditi. Spiega la ricercatrice: «Di sicuro sono giovani lontani dalle forme politiche tradizionali. Devono farsi affascinare dalle novità. Uno degli elementi vincenti della campagna elettorale di Pisapia a Milano sono stati i grandi concerti in piazza Duomo. Un messaggio chiaro che i giovani hanno veicolato velocemente nei social network. Se gli under trenta sono consumatori volubili, nelle cose delle politica amano farsi coinvolgere da chi li sa affascinare». Se i giovani americani hanno dimenticato in toto Abramo Lincoln quando diceva che «la democrazia è il governo del popolo, dal popolo, per il popolo» - c’è chi scommette che non se lo ricorderanno nemmeno l’anno prossimo quando si tratterrà di confermare l’ex novità Obama - i loro coetanei italiani, per Monica Fabris presidente di Gpf, fanno ancora i distinguo. Spiega la sociologa ed è quasi un avviso ai naviganti della Casta: «I giovani sono disaffezionati alla politica tradizionale. Credono in altri valori etici e sociali. Anzi: più un politico si rende lontano dalla politica più ai loro occhi è credibile. I partiti li sentono lontani ma sanno ancora emozionarsi e avere passione per certi valori».

il Riformista 29.9.11
Il diritto costituzionale alle ortiche
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/66778784

Repubblica 29.9.11
Serve una patrimoniale per rilanciare il Paese
di Susanna Camusso

qui
http://www.repubblica.it/economia/2011/09/29/news/una_patrimoniale_per_rilanciare_il_paese-22392930/?ref=HRER2-1

E poi c'è Matteo Renzi, molto ben visto da Veltroni. Il sindaco di Firenze ammette: «Sì, sto scaldando i motori per correre. La leadership del centrosinistra si vedrà con le primarie»
Repubblica 29.9.11
Pd, la mossa dei veltroniani sulla premiership
Cambiare lo Statuto: alle primarie non corre solo il segretario. Renzi: "Sono pronto"
Ieri riunione della componente: "Congresso anticipato o nuove regole"
di Giovanna Casadio


ROMA - «Gliela faranno pagare a Bersani la foto di Vasto». Paola Concia è stata facile profeta. Quella foto a tre alla festa dipietrista - Bersani con Vendola e Di Pietro - che salda la coalizione di Pd, Sel e Idv (e basta solo l´immagine per irritare l´Udc e Casini), è una crepa nella tregua interna nel partito dei Democratici. Una riunione dei veltroniani (Veltroni però era in commissione antimafia e non ha partecipato) nel primo pomeriggio di ieri ha riaperto la partita della leadership. Nessuno parla di sfiducia a Bersani («Non è il momento, sarebbe prematuro, evitiamo polemiche»), però è cominciata la corsa alla premiership del centrosinistra. Bersani è stretto da un lato dai veltroniani; dall´altro dal pressing che Vendola e Di Pietro lanceranno da piazza Navona, sabato, e che traducono in due parole d´ordine: «Bozza di programma; segnare subito sul calendario il giorno delle primarie». E poi c´è Matteo Renzi, molto ben visto da Veltroni. Il sindaco di Firenze ammette: «Sì, sto scaldando i motori per correre. La leadership del centrosinistra si vedrà con le primarie».
Nell´assemblea dei veltroniani si è alzato ieri il tam tam delle «primarie di partito». Stefano Ceccanti le chiama così. Giorgio Tonini preferisce dire «congresso anticipato». Salvatore Vassallo argomenta: «Questa è la strada maestra, se si va al voto nel 2013. Ma se la situazione politica precipita, allora si può immagine un´altra via, cioè quella di "stemperare" la norma dello Statuto del Pd per cui è il segretario, in questo caso Bersani, il candidato premier». Nega di essere stato lui a scrivere quel codicillo che ingessa un po´ tutto: «Mi ricordo bene, fu Maurizio Migliavacca, comunque a noi veltroniani stava bene».
Strada maestra o secondaria, la questione è la leadership. È la linea politica di Bersani ad essere di nuovo messa sotto stretta sorveglianza. «Alla coalizione con dipietristi e Vendola puoi arrivare, sia pure. Non puoi però partire da lì», hanno ripetuto ieri i veltroniani. E l´altro mantra: «Dov´è finita la centralità del Pd? Così andiamo a rimorchio». C´è chi è ancora più tranciante: «Avere fatto l´incontro di Vasto è un errore pari a quello di avere fatto uscire i ministri dal governo Ciampi nel 1993».
Nell´attesa di una spallata a Berlusconi che non arriva, ecco le grandi manovre del centrosinistra. Nel Pd, alla riunione dei veltroniani è seguita ieri sera quella dell´ex mozione di Ignazio Marino. Areadem di Franceschini si è convocata per lunedì mattina, poco prima della direzione del partito. Beppe Fioroni, il leader cattolico di minoranza (dato da mesi in uscita dal Pd se qualcosa non cambia e in perenne feeling con Casini e Bonanni) racconta i cattolici pronti a costituirsi in movimento, in una sorta di pre-partito: «Come pensiamo di intercettarli, con Bersani-Vendola e Di Pietro? Non credo. Non è che mi abbia mai affascinato il dibattito sulle primarie aperte però non possiamo restare inerti. Se ci chiudiamo, il Pd dà l´addio a milioni di voti». Fioroni pure ha nel cuore Renzi il "rottamatore". Il blogger Mario Adinolfi ieri consegna la tessera del Pd e la accompagna con un invito al segretario: «Un Pd così non è una speranza per il paese. Caro Bersani spero che tu te ne renda conto, che tu possa rinunciare all´idea di candidarti premier lasciando spazio a una nuova generazione di leader democratici non cooptati». Indica a sua volta Renzi come il nuovo che avanza. Rinnovamento è l´altra parola-chiave. Veltroni ne ha parlato a lungo nel seminario della "sua" scuola di politica, venerdì scorso. Ospite, non a caso, Nicola Zingaretti. Zingaretti sarà anche della convention dei trenta/quarantenni che si tiene il 16 ottobre all´Aquila, con Matteo Ricci, Andrea Orlando, Stefano Fassina. La settimana successiva kermesse a Bologna di Pippo Civati, Debora Serracchiani. E a fine ottobre Renzi convoca la "Leopolda due"; intanto pensa a far valutare da un istituto di sondaggi il proprio gradimento. Bersani mostra calma e gesso: «Di leadership si parla quando arriva il momento», ha detto. Lunedì prossimo in direzione dibattito aperto.

La Stampa 29.9.11
Così la Chiesa si riprende i voti
di Fabio Martini


I peana della sinistra per la prolusione del cardinal Angelo Bagnasco - così severa nel fustigare le esuberanze del presidente del Consiglio - si sono prima affievoliti e alfine spenti, non appena ci si è resi conto della svolta che sta maturando nella Chiesa italiana: la tentazione di lanciare un’Opa cattolica sul centrodestra del dopo-Berlusconi. Raccontano che il cardinal Bagnasco, sfogliando i giornali che recensivano la sua prolusione, abbia sussurrato la sua sorpresa.
Sul Presidente del Consiglio ci eravamo già espressi un anno fa, la novità era altrove...». Come dire: il sipario su Berlusconi la Cei aveva iniziato a calarlo già nel Consiglio permanente di gennaio, ma la svolta vera sta nel passaggio finale del documento dei vescovi, là dove la Chiesa italiana individua senza perifrasi curiali, lo «stagliarsi all’orizzonte», di «un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che coniughi l’etica sociale e l’etica della vita».
E’ finito il tempo dei Family day. Della lobby cattolica che faceva muro sulle leggi sgradite. I Dico. O la fecondazione assistita. L’appello della Cei, stavolta, è più arioso, è rivolto a tutti i cattolici: impegnatevi di nuovo in politica e fatelo a tutto tondo. Non soltanto a difesa - ecco la novità - dei cosiddetti valori non negoziabili. Con la fine di Berlusconi, la Chiesa prova a riprendersi i suoi voti. E così può finalmente affiorare in superficie il cantiere che la Cei ha aperto con grande riservatezza da più di un anno. E che produrrà due eventi senza precedenti: il 17 ottobre la galassia cattolica tutta intera - le associazioni e i movimenti ecclesiali, da Cl a Sant’Egidio, dai catecumeni ai focolarini - si ritroverà a Todi con il cardinale Bagnasco, che aprirà i lavori. E sull’onda di un evento così ecumenico che unirà «sinistra» e «destra» della Chiesa italiana, i promotori di Todi hanno intenzione di convocare - prima di Natale - un grande evento di massa, più ampio di quello che nel nome del «Family day», fece ritrovare il 12 maggio 2007 quasi un milione di persone davanti alla basilica di San Giovanni.
Attraverso il Forum delle associazioni, la Cei sta lavorando ad un obiettivo ambiziosissimo: imporsi, sia pure in modo felpato, come socio fondatore del centrodestra che prenderà forma dopo l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Lo fa capire la nota della Sir - ufficiosa ma autorevole - dedicata alla prolusione di Bagnasco: «Dopo quasi venti anni di alternanze», «l’alternativa non è l’alternanza, cioè la sostituzione dell’attuale maggioranza con l’attuale opposizione, ma la ristrutturazione del sistema». Una ristrutturazione che assegni di nuovo ai cattolici un ruolo di prima linea e si può immaginare che l’approdo sia la «sezione italiana del Ppe», «il progetto attorno al quale possono scomporsi e ricomporsi gli attuali equilibri politici italiani», come fa osservare Giorgio Tonini, già presidente della Fuci.
Dunque, una sfida che interpella anzitutto il centrodestra, ma anche la sinistra. Il mondo cattolico e anche una parte del mondo laico. A Todi, a metà ottobre, assieme alle associazioni, ai movimenti, a Cisl e Coldiretti, ci saranno alcuni «special guest», come Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa San Paolo o come Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo. Oltre, ed è ovvio, chi ha lavorato in cabina di regia, in primis il leader di Sant’Egidio Andrea Riccardi. Dal cantiere di Todi dovrà cominciare a delinearsi quella che Bagnasco informalmente definisce «una nuova classe dirigente e nuovi leader» e Oltretevere la prima scelta va ad Angelino Alfano. Purché - ecco il punto - sappia guidare lui l’accompagnamento fuori dalla scena di Silvio Berlusconi.
E dall’altra parte? Pier Luigi Bersani, anziché unirsi ai peana pro-Bagnasco che si sono alzati nel Pd, ha chiosato: «Non mi permetto di commentare la prolusione». Bersani, che ha fatto il chierichetto e si è laureato con una tesi su Gregorio Magno, ha capito l’antifona. Ma l’ambizioso progetto del cardinale Bagnasco di tornare ad una gestione politica degli elettori cattolici per il momento incontra praterie a destra, ma coglie il Pd mai così spostato a sinistra. Come dimostrano le immagini del leader democratico, impegnato a stringere mani nel corteo della Cgil e a sorridere a Di Pietro e Vendola nel comizio a tre in quel di Vasto.

Repubblica 29.9.11
Perché il mondo cattolico sogna un nuovo movimento politico
di Ilvo Diamanti


C´è un problema di identità: anche i praticanti non seguono più le indicazioni morali dei vertici se non in modo "privato"
La frammentazione ormai è la regola Dentro la Curia così come nelle organizzazioni della base
L´intervento del cardinale Bagnasco ha riproposto la questione di come i credenti possano essere rappresentati dopo la fine della Democrazia Cristiana

Le parole pronunciate dal cardinal Bagnasco al Consiglio permanente della Cei hanno sancito una condanna aspra verso lo stile di vita e "i comportamenti licenziosi" di Silvio Berlusconi. Bersaglio esplicito, anche se innominato. Tanto da suscitare le reazioni irritate del Centrodestra. Preoccupato degli effetti politici di una condanna tanto netta, visto che i cattolici costituiscono un segmento incerto e decisivo del mercato elettorale. Insieme alla Prima Repubblica, infatti, è finita la stagione dell´unità politica dei cattolici. Un "mito" (secondo Enzo Pace). Perché la Dc era un partito "di" cattolici, ma non il partito "dei" cattolici (come ha osservato il sociologo Arturo Parisi alla fine degli anni Settanta). Non a caso, già a metà degli anni Ottanta, la Cei, guidata dal cardinale Camillo Ruini, aveva scelto la via di una "Chiesa extraparlamentare" (la formula è di Sandro Magister). Che agisce senza partiti di riferimento. Attraverso il pulpito, le associazioni, i media. Come un gruppo di pressione. D´altronde, i cattolici praticanti sono ormai una "minoranza". Coloro che vanno regolarmente a messa, infatti, costituiscono meno del 30% della popolazione. E non sembrano molto disposti a seguire le indicazioni della Chiesa sul piano della morale personale e dell´etica pubblica. Tanto meno sul piano elettorale. Nella Seconda Repubblica, infatti, il voto dei cattolici (praticanti e tiepidi) si è distribuito fra gli schieramenti. Con una prevalenza – limitata – a Centrodestra. Mentre al Centro, i partiti neodc non sono andati molto più in là del 5-6% degli elettori – e del 10% dei cattolici praticanti. Impossibile, per la Chiesa, riproporre la strategia del collateralismo, in condizioni tanto incerte.
Da ciò la scelta pragmatica della Cei di Ruini. Che, non a caso, ha sempre espresso posizioni ambivalenti, sulle questioni politicamente sensibili. Vicine al Centrosinistra, sui temi della solidarietà sociale – lavoro e immigrazione. Vicine al Centrodestra, sui temi della bioetica, della famiglia, della vita. Divenuti, però, particolarmente importanti sotto il pontificato di Benedetto XVI. Quando la Chiesa ha cercato di marcare i confini etici dell´identità cattolica, in tempi di secolarizzazione e di "concorrenza" con altre religioni. Così, senza esprimere esplicite scelte di parte, la Chiesa è "scivolata" accanto a Berlusconi, il Pdl e la Lega. Da cui si è sentita tutelata, nelle questioni morali ma anche negli interessi (scuola, imposte). Assai meglio che dal Centrosinistra. I comportamenti di Berlusconi, tuttavia, hanno continuato a suscitare disagio nella base del mondo cattolico. Come dimostra l´insofferenza di molti settimanali diocesani. Lo stesso cardinal Bagnasco, d´altronde, aveva espresso critiche al ceto politico e di governo, in precedenza. Mai, però, in modo tanto esplicito. Come spiegare questa svolta?
Il primo argomento evoca la fuga precipitosa da un leader e da uno schieramento politico in rapido declino. Anche se la Chiesa è abituata a seguire logiche meno congiunturali.
Per questo mi sembrano più fondate altre spiegazioni.
La più importante riguarda l´identità cattolica. Se papa Benedetto XVI intendeva rafforzarla e delimitarla, il disegno non pare riuscito. Al contrario. Tra i cattolici praticanti, come mostrano alcune recenti indagini (di Demos), è maggiore l´indulgenza nei confronti degli "stili di vita licenziosi" di Berlusconi. In generale, i cattolici, praticanti e ancor più non praticanti, oggi non seguono le indicazioni morali della Chiesa. Se non in modo molto "privato" e personale. Secondo opportunità.
Da ciò la sensibile perdita di credibilità sociale subita dalla Chiesa. Dieci anni fa esprimeva fiducia nei suoi riguardi circa il 60% degli italiani (dati Demos), oggi meno del 50%. Anche la fiducia nel Papa appare in sensibile declino: dal 77% ai tempi di Wojtyla al 47% di Ratzinger (nel 2010). Un calo troppo rilevante per essere spiegato solamente con differenze di carisma e di immagine.
C´è poi l´esigenza di "stringere le fila", in tempi di disorientamento interno. Perché oggi non c´è più "un" Vaticano (come ha argomentato Massimo Franco). Viste le divisioni emerse tra la Cei e la segreteria di Stato vaticana, rappresentata dal cardinal Bertone. La frammentazione si è, inoltre, trasferita dentro il mondo cattolico. Certo, anche nella stagione post-conciliare la Chiesa era attraversata da esperienze plurali. Critiche nei confronti delle gerarchie. Mentre oggi si assiste alla coabitazione di associazioni, comitati, gruppi reciprocamente indifferenti. Più che "un" mondo: un arcipelago di isole e isolette (non Isolotti) isolate. (Lo chiariscono bene le ricerche di Marco Marzano, Roberto Cartocci, Franco Garelli).
Infine, la voce – e il disagio – delle parrocchie e delle associazioni locali faticano a manifestarsi, vista la centralizzazione impressa all´organizzazione della Chiesa da Ruini.
Le posizioni espresse dal cardinal Bagnasco e della Cei richiamano, dunque, un´esigenza e una preoccupazione. L´esigenza di ripensare la presenza dei cattolici in politica. Senza promuovere nuovi partiti, perché l´era della Dc ha costituito un´eccezione. Irripetibile. La preoccupazione, meglio, la consapevolezza: che Berlusconi è alla fine ma il berlusconismo ha attecchito fra i cattolici. Ne ha improntato i valori e gli "stili di vita". Come un´altra religione. Da cui la Chiesa cerca di prendere le distanze. Prima che sia troppo tardi.

Repubblica 29.9.11
Le dichiarazioni delle gerarchie ecclesiastiche
Così la Chiesa torna in campo
di Agostino Giovagnoli


La decisione di intervenire è stata presa perché oggi la situazione è troppo grave per attendere ancora È diventato urgente restituire al paese una guida politica credibile e il rispetto sul piano internazionale

Era inevitabile che si leggesse la prolusione del cardinale Bagnasco al Consiglio permanente della Cei cercando anzitutto parole di condanna morale. Già in precedenza, egli ha ricordato giustamente, la Chiesa ha condannato comportamenti che «ammorbano l´aria e appesantiscono il cammino comune», ma è noto che in tempi diversi anche posizioni identiche possono acquistare peso diverso. Ciò che monsignor Crociata chiamò tempo fa «libertinaggio gaio e spensierato» appare ora «triste e vacuo», perché ciò che era moralmente inaccettabile è diventato anche irresponsabile nel contesto, evocato con accorata partecipazione dal cardinale Bagnasco, di una crisi di cui «non si era capito, o forse non avevamo voluto capire» quanto fosse "vasta" e "devastante". Oggi, la situazione è troppo grave perché si possa attendere ancora: è diventato urgente restituire all´Italia una guida politica credibile e il rispetto sul piano internazionale.
Nel suo discorso, il cardinale Bagnasco ha manifestato grande attenzione al contesto storico. Nel 150° anniversario dell´Unità d´Italia, egli si è interrogato più volte sulla partecipazione della Chiesa alla vicenda italiana. E nella prolusione cita un bel passo del documento conciliare Gaudium et spes per invitare i vescovi ad «ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo». I cristiani, ha scritto Marc Bloch, sanno che alla salvezza si accede attraverso il tempo, che sono le scelte nel contingente a determinare il loro destino eterno. Il perseguimento del bene comune non è irrilevante anche sotto il profilo spirituale e il cardinale Bagnasco ha voluto dire che la Chiesa c´è, è presente qui ed ora e che, in questo momento così difficile, vuole dare una mano a tutti gli italiani, senza distinzioni e senza chiedere nulla in cambio. Questa semplice e disarmata dichiarazione di intenti suona assai più grave di qualunque condanna morale per una classe dirigente non all´altezza dei tempi.
Si radicano in questa scelta le parole su «un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica»: non un partito, dunque, ma una rete in grado di raccogliere i cattolici e di esprimerne la voce, senza escludere sviluppi futuri «senza nostalgie né ingenue illusioni». Il cardinale Bagnasco vede profilarsi una condensazione di idee e di energie, che sarebbe riduttivo definire prepolitica, per creare un laboratorio utile al paese. I precedenti non mancano: tutta la storia del movimento cattolico, dalle Amicizie cristiane di inizio Ottocento all´Opera dei Congressi, dalle casse rurali alle cooperative bianche, ha espresso, in modo variegato e multiforme, una presenza cattolica in Italia tendenzialmente unitaria. Dal tronco del movimento cattolico italiano sono scaturiti, inoltre, due partiti politici, il Partito popolare nel 1919 e la Democrazia cristiana nel 1942. Oggi viviamo indubbiamente in una stagione diversa. Il movimento cattolico ha avuto una forte radice papale e si è sviluppato anzitutto in difesa della Santa Sede. Questa volta, invece, a parlare non è stato il papa ma il presidente della Conferenza episcopale, che ha preso posizione sui principali problemi italiani. Ma nella lunga storia del movimento cattolico la Chiesa non si è solo difesa dall´Italia: ha anche cercato di aiutare l´Italia, soprattutto nei momenti più drammatici. E le è riuscito di difendere nel modo migliore i suoi legittimi interessi proprio quando si è adoperata in modo disinteressato per tutti gli italiani. I prossimi mesi ci diranno se i laici cattolici sapranno interpretare le preoccupazioni e realizzare le speranze del presidente della Cei.

Repubblica 29.9.11
I rapporti non sempre facili tra democristiani e Vaticano
C’era una volta la galassia dc
di Filippo Ceccarelli


Una vicenda grandiosa fatta di sostegno e dedizione ma anche di cautele segrete e tormenti nascosti Da Pio XII che fece piangere De Gasperi al cardinale Siri che voleva picchiare Aldo Moro

E sì: le orazioni, le invocazioni, le processioni, le benedizioni, le apparizioni perfino, come dimostra la vicenda del tranviere socialista Cornacchiola che voleva uccidere il papa, ma dopo aver visto la Madonna in una grotta alle Tre fontane rinunciò e quindi divenne consigliere comunale a Roma, naturalmente per la Dc. Così come è documentato – lo scrive Marco Damilano nel suo insostituibile Democristiani immaginari (Vallecchi, 2006) – che negli anni ´50 il presidente del Consiglio Zoli ebbe l´onore di un miracolo tutto per lui, avendo una statuetta di Sant´Anna preso a versare lacrime sul letto di due mezzadri in un podere di sua proprietà.
Ma poi né la Vergine né i santi riuscirono a salvare lo Scudo crociato dalla sua rovina. «Iddio ci ha voltato le spalle» disse Martinazzoli, l´ultimo segretario. Tantomeno potè la Chiesa con i suoi astuti cardinali, gli arcigni predicatori e le suorine di clausura che Giorgio La Pira, il sindaco santo, metteva a pregare. Al dunque non servirono a nulla decenni di esercizi spirituali e neanche quelle punizioni che nei primi anni ´70, abbandonarono l´ordinaria amministrazione di partito per entrare nella letteratura: vedi il Todo modo di Sciascia e la «silenziosa contrizione» dei potenti arrivati all´Eremo Zafer in auto blu sui quali «grandinava il biasimo» di don Gaetano.
Hai voglia a dire che la Cosa bianca ed eventuale nulla avrà a che vedere con la Dc. Perché in realtà l´immaginario democristiano è ancora così vivo da condizionare il giudizio su ogni possibile sviluppo. Così almanaccando su Gedda e don Camillo, la rigogliosa Fuci di monsignor Montini e la perfida scuola curiale e sapienziale di Andreotti; e concentrandosi ora su Cossiga che aspetta l´elezione al Quirinale dai rosminiani, ora sul fantastico vescovo di Vicenza, monsignor Zinato, a cui i maggiorenti locali donarono una Millequattro Fiat, ma lui pretese e ottenne un´Aurelia ministeriale, donde la litania «Sancta Aurelia, ora pro nobis», insomma aumentano le incertezze, ma pure gli equivoci.
E i grovigli di una vicenda troppo intensa. Il Fanfani che una volta disarcionato da una corrente che derivava il suo nome da un ordine di monache, scappa dove? In un monastero, e per giorni si pensò che volesse farsi monaco, come del resto non molto tempo prima si era fatto monaco Dossetti. E il crocifisso nell´aula di palazzo Sturzo, il Padre Nostro all´Ergife, e le gite a Camaldoli, le trame alla Domus Mariae, l´anatema del cardinal Martini sulla Dc di Forlani alla vigilia di Mani Pulite, fino a perdersi sul ruolo dei gesuiti nella primavera di Orlando...
Ecco, dunque: accostando questa epopea para-ecclesiastica all´odierno interesse del cardinal Bagnasco per un ipotetico «soggetto», l´impressione non è solo quella di ritrovarsi dinanzi a sogno nuovo, ma già visto, un classico del futuro remoto o del domani postumo. Il dubbio, soprattutto, è se si possa oscurare la circostanza, ormai storicamente acclarata, che fra la Chiesa e la Dc si giocò in realtà una quarantennale partita per il dominio e l´autonomia, una grandiosa vicenda e per lo più segreta fatta sì di sostegno e dedizione, ma anche di soffocatissimi tormenti ed efferate cautele.
Da Pio XII che fece piangere De Gasperi fino all´esito delle acrobazie politiche del cardinal Ruini passando per il cardinal Siri che una volta confessò di aver voluto prendere a pugni il povero Moro: «Mi trattenni perché le mie mani erano consacrate. Fortuna – aggiunse – che non mi venne in mente che i miei piedi non lo erano».

il Riformista 29.9.11
Le Acli e l’impegno
«I cattolici devono tornare protagonisti»
di Francesco Peloso

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l’Unità 29.9.11
Editoria, niente riforma. Solo tagli
Il governo annuncia «una rivoluzione» ma non dà sicurezza sulle risorse. E la Federazione degli editori «cavalca» la crisi per muovere un attacco alle testate no-profit, alle cooperative e politiche
di Roberto Monteforte


U na rivoluzione per l’editoria entro i prossimi 45 giorni». L’assicura il sottosegretario con delega all’Editoria, Paolo Bonaiuti che archiviando ogni ipotesi di riforma, lancia il suo annuncio intervenendo all’assemblea generale della stampa cooperativa, no profit, di idee e politica promossa da Mediacoop, Fnsi, il Comitato per la libertà d’informazione, la Federazione Italiana dei settimanali cattolici tenutasi ieri in una affollatissima sala del Mappamondo alla Camera dei Deputati. Non rassicura Bonaiuti. Conferma per l’anno in corso il 90 per cento degli stanziamenti, ma non è in grado di garantire la copertura per il futuro. «Ci troviamo in una crisi che impone risparmi. Parlare di riforma dell'editoria non ha senso scandisce -. Occorre invece una piccola rivoluzione in tempi brevi». Quelli che preannuncia sono ulteriori tagli alla platea degli aventi diritto. Raccoglie la sollecitazione per criteri più severi per i contributi, legati alle vendite e alla occupazione regolare. Dalla prossima settimana annuncia la riapertura del tavolo di confronto con tutti i soggetti interessati. Annuncia cambiamenti epocali, ma non è in grado di assicurare le risorse indispensabili da subito al settore. Quegli 80 milioni di euro senza i quali ben poche testate arriveranno al prossimo gennaio. Lo spiega Lelio Grassucci di Mediacoop aprendo i lavori. È preoccupata l’assemblea. Si susseguono gli interventi dei parlamentari, dei sindacalisti e dei direttori dei giornali, da Norma Rangeri del Manifesto a De Angelis del Corriere Mercantile, al presidente della federazione dei settimali diocesani Francesco Zanotti, sino al direttore de L’Unità Claudio Sardo e a quello di Liberazione, Dino Greco. Interviene Fammoni della Cgil e in collegamento dall’estero il segretario della Fnsi, Franco Siddi. Il messaggio è chiaro: bonifica immediata del settore e risorse certe, altrimenti si fa drammaticamente concreto il rischio di chiusura per oltre 100 testate. Negli interventi si ribadisce che non tutto può essere ridotto alla logica mercantile, tanto più che nel nostro paese la dinamica è inquinata dal conflitto di interessi e da un drenaggio della risorse pubblicitaria dal sistema televisivo a danno dell’editoria. Si avanzano proposte. «Occorre pulire l’aria» afferma il deputato Beppe Giulietti dell’Associazione art. 21. Ma il problema non è quello delle risorse o dei sacrifici da ripartire. «Quegli 80 milioni sono una goccia nel mare. Si trovano» assicura il presidente della Commissione trasporti del Senato, Luigi Grillo (Pdl). «Le risorse ci sono» assicura Luigi Lusi (Pd) che insiste: «Ma occorrono comportamenti coerenti da parte di tutti». Il problema è quello della volontà politica. Occorre spiegare bene le ragioni di questa scelta a tutela del pluralismo e del diritto di tutti ad una informazione libera anche per chi non ha mezzi economici. È un percorso in salita se l’opinione pubblica non comprende che in questo caso si va ben oltre al «bavaglio» all’informazione, si va allo strangolamento di 100 testate. È necessario per battere quel clima «anticasta» e chi lo usa strumentalmente.
L’affondo lo lancia il presidente della Fieg, Carlo Malinconico che dando voce agli umori prevalenti tra gli editori afferma che oltre al rigore è necessaria «una revisione profonda delle politiche di sostegno pubblico» e «che le risorse disponibili siano destinate ad interventi strutturali per il settore». Al tavolo aperto della presidenza del Consiglio la Fieg chiederà che «la contribuzione pubblica sia finalizzata allo sviluppo delle imprese editoriali e dell'intero settore e non costituisca una forma di sostentamento di imprese inefficienti o di alterazione della concorrenza». Le risorse vanno all'innovazione tecnologica, alla produttività delle imprese, per l'occupazione e alla multimedialità». Tutto va ridotto alla logica del mercato. Chi è fuori si arrangi.

il Riformista 29.9.11
Allarme rosso per i giornali Ma il governo punta sui tagli
di Giuliano Capecelatro

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Repubblica 29.9.11
"Facciamola finita con gli zingari" la guerra ai rom incendia l´Est Europa
Centinaia di arresti, i nomadi armati di machete contro i neo nazi
Scontri in Ungheria, Repubblica ceca e Bulgaria. "L´ultra destra ha trovato un nuovo nemico"
di Andrea Tarquini


BERLINO - In Bulgaria i giovani di mano si dànno appuntamento su Facebook, «facciamola finita con gli zingari». Nella repubblica cèca i cittadini dei villaggi si organizzano, e i neonazisti corrono a dar loro man forte. In Ungheria, da mesi, il "koezmunka" (lavoro utile), cioè duro lavoro manuale con indosso magliette arancioni alla Guantanamo, è obbligatorio se il disoccupato non vuol perdere i miseri assegni-povertà, e tocca essenzialmente i rom. In Slovacchia sognano di sterilizzare delle donne della minoranza. Nuova Europa, estate-autunno 2011: una guerra civile dimenticata infuria tra rom e "locali doc", focolai di violenza e notti di guerriglia urbana esplodono ovunque, dalle porte di Praga alla bulgara Plowdiw, dal confine cèco-tedesco ai villaggi ungheresi pattugliati dalla Magyar Garda con le sue tetre, nostalgiche uniformi nere.
«Alta disoccupazione superiore alla media dopo la fine del comunismo, quando almeno avevano lavori mal pagati ma sicuri, emarginazione e auto-emarginazione, basso livello d´istruzione, tanto più da quando il governo di destra ha ridotto gli anni di scuola dell´obbligo e dimezzato il numero delle università. La crisi colpisce i rom più degli altri, e così sale tra loro anche il livello di criminalità», dice il grande scrittore ungherese Gyorgy Konrad. «Per anni socialismo reale, sinistre postcomuniste, l´Europa intera, hanno sottovalutato il problema, adesso l´ultradestra ha trovato un nuovo "nemico necessario"», quasi un antisemitismo di ricambio.
In Bulgaria, gli scontri sono stati gravissimi. La scintilla: la morte di un ragazzo, il 19enne Angel Petrov, investito da un´auto dei "picciotti" di "Zar Kiro", Kiril Rashkow appunto, il capo rom accusato di attività mafiose e arrestato ieri. Reazione immediata, organizzata sui social network. Centinaia di giovanotti hanno assaltato Katuniza e dato alle fiamme le case di Zar Kiro. Sofia ha inviato in corsa la polizia antisommossa: cento neonazi sono finiti in prigione, insieme a una quarantina di rom violenti. Il premier conservatore Bojko Borissow e il presidente socialista Georgi Parvanov sono accorsi a lanciare appelli alla calma, ma invano.
I rom non ci stanno più a prendere le botte ovunque, come in Ungheria dalla Magyar Garda. Formano bande, picchiano anche loro, gridano «sporchi bianchi». Accade da settimane a Varnsdorf e a Novy Bor, nordovest cèco. Lassù, astute società immobiliari hanno trasferito molti rom, dalle case popolari presso Praga ora in restauro per rivenderle con profitto. I rom non hanno lavoro, i loro giovani si armano di machete. A volte attaccano per primi. Passo breve, dall´autodifesa dei locali alla voglia di pogrom dei neonazisti. «Liberi, sociali e nazionali», gridano le teste rapate del Dsss, il partito ultrà, «prendiamo in mano la legge», proclamano i loro leader Tomas Vandas e Jiri Moravec. Slogan ripresi dai neonazi tedeschi. Barricate, battaglie in strada, incendi. Reparti speciali inviati da Praga e specialisti antinazi della polizia tedesca non bastano come pompieri d´un incendio profondo. «Anche certi governi cavalcano slogan segregazionisti», suggerisce Konrad. I rom si preparano al peggio: violenza o esodo. «Mi vogliono nomade in eterno?», dice Roman, un 27enne gitano, a Spiegel online. «Sono disoccupato, se qui ne avrò abbastanza me ne andrò altrove in Europa». Ma se aveva speranza e voglia d´integrarsi, la guerra civile glie le ha uccise nel cuore.

il Riformista 29.9.11
Caccia agli zingari di “re Kiro”
Bulgaria, fiammate contro il popolo Rom
di Stefano Grazioli

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Corriere della Sera 29.9.11
Ucraina degli anni Trenta, la morte per fame
risponde Sergio Romano


Sono rimasto colpito nel leggere i dettagli relativi all'holodomor, il genocidio o olocausto ucraino degli anni trenta. La requisizione delle scorte alimentari e la carestia volutamente indotta dal governo di Stalin determinò, specialmente tra il 1932 e il 1933, da sette a dieci milioni di vittime. Se la cifra fosse vera, si tratterebbe di un numero addirittura superiore all'Olocausto ebraico di Hitler. Che sapeva allora il mondo della tragedia che stava accadendo in Ucraina? Perché, crollato il comunismo e a distanza di tanto tempo, l'opinione pubblica ancora fatica a prendere coscienza di quelle che furono le tragedie perpetrate dal regime sovietico? Forse che il determinante contributo alla sconfitta del nazismo abbia conferito una permanente patente di legittimità all'oblio dei crimini precedenti?
Francesco Valsecchi, Roma

Caro Valsecchi,
Genocidio, se vogliamo che le parole continuino ad avere un significato, non può definire ciò che accadde in Ucraina e nel Caucaso del nord fra il 1930 e il 1933. Dopo avere sottratto gran parte della produzione agli agricoltori con la politica dell'ammasso, il regime sovietico decise la collettivizzazione della terra e l'aggregazione forzata delle fattorie agricole che lo stesso Lenin, paradossalmente, aveva reso possibili con il decreto sulla terra ai contadini, emanato dopo la rivoluzione bolscevica. I contadini proprietari resistessero, il regime reagì con le spedizioni punitive, gli arresti, le deportazioni. Stalin sapeva che gli ucraini, in quelle condizioni, erano condannati a morire di fame (è questo il significato della parola «holodomor»); ma non vi fu una deliberata politica di massacri, camere a gas, annientamento di interi villaggi e centri urbani come nel caso della spietata lotta di Hitler contro l'ebraismo europeo. Il numero delle vittime fu straordinariamente elevato, anche se difficilmente calcolabile, ma le cause della morte furono soprattutto la carestia, l'inedia, il tifo, il carcere duro, il trasferimento coatto delle popolazioni in condizioni inumane, gli errori di una burocrazia arrogante e incompetente. La cifra di 10 milioni risale probabilmente a una conversazione fra Churchill e Stalin dell'agosto del 1942, raccontata dall'uomo di Stato britannico nelle sue memorie. Per indurre il leader sovietico a parlare di quegli avvenimenti, Churchill mise a confronto le difficoltà provocate dalla guerra che l'Urss stava combattendo contro la Germania, con quelle provocate dalla creazione delle fattorie collettive dieci anni prima. «Oh no, esclamò Stalin, la collettivizzazione ci impose una lotta ben più terribile». Churchill commentò allora osservando: «Penso che vi sia riuscita così dura per il fatto che non avevate a che fare con poche migliaia di aristocratici o di grandi latifondisti, ma con milioni di umili contadini». Stalin non esitò a rispondere: «Dieci milioni. Fu una lotta terribile che durò ben quattro anni».
La notizia di ciò che stava accadendo nella Repubblica dei Soviet giunse in Europa occidentale attraverso numerosi canali. Ma uno dei governi più dettagliatamente informati fu, probabilmente, quello italiano. Vent'anni fa lo storico Andrea Graziosi, uno dei migliori studiosi della storia sovietica, ha pubblicato presso l'editore Einaudi un libro intitolato «Lettere da Kharkov» in cui sono riprodotti i testi dei rapporti diplomatici e consolari inviati a Roma dall'ambasciatore a Mosca Vittorio Cerruti, dal console a Kharkov Sergio Gradenigo e dal vice-console a Novorossijsk Leone Sircana. Letti oggi, dopo altre rivelazioni su quella vicenda, i rapporti dei funzionari italiani sono modelli d'informazione precisa, completa e documentata. Graziosi racconta che Mussolini leggeva i rapporti attentamente annotandoli e siglandoli. E quando apprendeva l'arresto di un comunista italiano, emigrato in Urss per «costruire il socialismo», non resisteva alla tentazione di commentare: «Ve l'avevo detto io».

Repubblica 29.9.11
Il dibattito sull’uso dell’inglese nelle riviste scientifiche
Ma l’italiano rimane la lingua dell’Umanesimo
È sbagliato offuscare la dimensione nazionale, dobbiamo rilanciarla, anche attraverso l’idioma
di Michele Ciliberto


È appena il caso di sottolineare quanto sia importante la valutazione dell´attività scientifica svolta nelle università, specialmente oggi in una fase di così profonda trasformazione. Per questo è importante seguire con attenzione i lavori dell´ANVUR – l´agenzia per la valutazione della ricerca – che proprio in questi giorni si avvia a stabilire i criteri ai quali essa si dovrà conformare. E perciò ho seguito con attenzione la discussione che si è svolta in questi giorni fra Carlo Galli e Andrea Graziosi, pubblicata da La Repubblica. Devo dire con molta franchezza che mentre concordo con le valutazioni di Galli, sono invece in disaccordo con le posizioni di Graziosi.
Il centro del ragionamento di Graziosi è sostanzialmente questo: bisogna spingere gli studi italiani di area umanistica fuori dalla "tenda di Achille" nella quale si sono riparati fino ad oggi costringendoli, con le buone o con le cattive, ad utilizzare quella che si è imposta oggi come "lingua universale" nel campo degli studi – l´inglese –, rinunciando all´uso della lingua italiana ed uscendo, in questo modo, dalla condizione di provincialismo e di marginalità a cui essi rischierebbero invece di essere condannati se continuassero ad usarla. Bisogna dunque agire – aggiungo io – in modo "giacobino". Conviene sempre distinguere e non fare affermazioni di carattere generico. Una cosa sono gli studi di area strettamente scientifica; un´altra gli studi "umanistici". È naturale che oggi un fisico, un chimico, un biologo italiano scriva in inglese se vuole essere conosciuto. Altra cosa sono gli studi umanistici, ma anche in questo caso bisogna distinguere. Ci sono campi di studio – per esempio la storia dell´Unione Sovietica o dell´Afganistan – che comprensibilmente hanno bisogno della lingua inglese per poter essere apprezzati a livello internazionale. I punti di riferimento essenziali di questo tipo di ricerche, come avviene per le materie strettamente scientifiche, sono infatti dislocati fuori dall´Italia, talvolta anche dell´Europa, ed hanno come lingua di comunicazione ordinaria l´inglese. Ma gli studi sul Rinascimento o sulla prima età moderna, per fare un esempio, si presentano in modo assai diverso. In questo caso il quadro è nettamente rovesciato: sono i centri italiani che costituiscono il punto di riferimento di questo tipo di ricerca, ed è perciò ordinario che siano le collane di editori o le riviste italiane ad essere ricercate da studiosi non italiani, anche di lingua inglese, per la pubblicazione dei loro lavori. Qui, in altre parole, l´Italia ha ancora qualcosa da dire. Una rivista come Rinascimento pubblica saggi nelle lingue proprie di ciascun autore, senza pretendere che essi scrivano in italiano, ma anche senza ridursi a pubblicare tutti i propri contributi in inglese. Qui è normale che siano gli altri a conoscere l´italiano, ed anche il latino, se vogliono studiare il pensiero di Machiavelli, di Bruno, di Sarpi, cioè dei fondatori delle "libertà dei moderni"; né le riviste italiane che lavorano in questo campo di studi sarebbero comprese – anzi, credo, verrebbero derise – se stabilissero come norma di pubblicare solamente in inglese.
Naturalmente questo è solo un esempio, al quale se ne potrebbero aggiungere altri; ma il problema non è solo di ordine tecnico perché riguarda – e perciò merita di essere discusso – i caratteri e la funzione, oggi, della nazione italiana. È sbagliato, a mio giudizio – sia per quanto riguarda l´Italia che gli altri paesi europei – offuscare o diluire la dimensione nazionale nella "notte in cui tutte le vacche sono nere" (direbbe il filosofo), come avverrebbe se si rinunciasse a uno strumento centrale come la lingua; in tutti i campi di studio. Si tratta, al contrario, di rilanciarla con vigore, proprio mentre si cerca di dar vita a una dimensione europea condivisa, e di fronte a grandi processi di globalizzazione. La vita – anche quella della cultura, anche quella dell´Europa – vive di distinzioni, non di una grigia indifferenza. Oltre che un problema tecnico, è una delicata questione civile e politica: sarebbe opportuno, credo, che i responsabili dell´ANVUR ne avessero completa consapevolezza.
(L´autore, allievo di Eugenio Garin, insegna alla Normale di Pisa e dirige con Cesare Vasoli la rivista Rinascimento)

l’Unità 29.9.11
Il cervello umano? È fatto per suonare
Lo studio delle correlazioni tra la musica e i suoi effetti sulla materia grigia è stato intrapreso dai neuroscienziati da poco meno di quarant’anni grazie alle nuove tecnologie. Sorprendenti i risultati riscontrati nei test...
di Isabelle Peretz
, neuropsicologa della musica
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il Fatto 29.9.11
I diritti delle donne. la poetessa e attivista palestinese Muslech
La Rosa del deserto arabo
di Roberta Zunini


Chissà se le “colombe torneranno un giorno”? Ma Rose Shomali Muslech poetessa, scrittrice, ricercatrice universitaria palestinese ed ex direttrice del comitato per gli affari femminili non perde la speranza. Del resto nella sua vita ne ha viste tante ed è riuscita a superare anche il dramma che l'ha afflitta mentre viveva in Libano: “Gli israeliani non mi diedero il permesso di tornare in Palestina per salutare mio padre mentre stava morendo. Quando, alla fine me l'hanno concesso, sono arrivata giusto in tempo per il suo funerale. Ma nel mondo arabo, non solo nella Palestina occupata, ci sono donne che hanno avuto molta meno fortuna di me, che ho potuto frequentare l'università, laurearmi e inserirmi nel mondo del lavoro”. Se “le colombe torneranno un giorno” è il titolo del suo ultimo libro di poesie – per posarsi sul tavolo dei negoziati di pace, si vedrà.
 Nel frattempo la condizione femminile in tutto il mondo arabo è ancora molto critica e l'apertura in Arabia Saudita dei santuari del potere maschile –il Parlamento è uno specchio per le allodole, non per le colombe. Il Fatto incontra Rose Shomali nella sua casa di Ramallah, e non nel suo ufficio del comitato, perché si è appena dimessa per dedicarsi alla scrittura.
 “LA MIA POESIA riguarda la condizione ancora frustrante delle donne nel mondo arabo e musulmano. Cosa che non sempre coincide: l'Iran non è arabo ma musulmano, e i diritti delle donne sono inesistenti. Ma non ne faccio nemmeno una questione esclusivamente religiosa. In Egitto, dove la religione islamica è molto sentita le donne non sono completamente emarginate. Ma le donne incluse sono quelle che appartengono all'e-lite o a famiglie ricche, in genere nate al Cairo”. Secondo Rose Shomali, che è anche collaboratrice Unicef, le donne che risentono maggiormente dell'esclusione sono quelle che appartengono a famiglie povere. “Ma n Arabia Saudita anche le donne ricche o le professioniste, medici, manager, sono sotto scacco dell'establishment, che è maschile. Cinque giorni fa, la famiglia reale aveva fatto finta di concedere alle donne più diritti. Sapete perché lo hanno fatto? Per paura, per timore che tornino a guidare, a chiedere l'eguaglianza sociale”. Vuol dire che gli uomini sauditi hanno paura che le donne si emancipino e hanno dato loro un contentino? “Sì, è così. Meglio far finta di dar loro più diritti politici che sociali. Tanto la maggior parte del bacino elettorale è costituito da uomini, nessuno quindi le voterà. Se invece concedessero alle donne il diritto di guidare l’auto, sarebbe una rottura delle tradizioni, un sovvertimento sociale. Si sgancerebbero così dall'egemonia maschile. Il diritto di guidare creerebbe un precedente”.
 LA DONNA insomma deve rimanere sotto l'egida maschile, tranne quando si tratta di lavorare. “Proprio così. Anche qui in Palestina le donne hanno molti problemi ma, ribadisco, soprattutto quelle povere a causa dell'occupazione: siccome la maggior parte lavora nei campi, dopo la creazione del muro, molte hanno perso il lavoro, perché devono avere il permesso per attraversare i check point che dovrebbero consentire di attraversare il muro costruito da Israele che taglia case e campi a metà in molte zone cisgiordane”.

La Stampa 29.9.11
Intervista
Adonis: “Nel mondo arabo non basta cambiare i regimi”
Parla il grande poeta siriano, tra i favoriti per il Nobel “Bisogna cambiare i loro fondamenti, religiosi e culturali”
di Mario Baudino


I LIMITI DELLA «PRIMAVERA» «Non si parla di libertà delle donne. Non si parla di cultura e tantomeno di laicità»

Ali Ahmad Sai id Esber guarda alle primavere arabe con grande interesse ma senza dimenticare i problemi. «Cambiare il potere non è sufficiente, bisogna cambiare i fondamenti di questi regimi, che sono religiosi e culturali». E la strada è ancora lunga, aggiunge. È un grande poeta, rispettato come una bandiera culturale in tutto il mondo arabo, anche se inviso agli ultrareligiosi. Il suo nome anagrafico non dice molto; anzi, non dice nulla, tanto che a volte si fa fatica a rintracciarlo negli alberghi. Per tutti è Adonis, ciò che ha scelto di essere quando ha deciso di rivolgersi alla mitologia greca per firmare i suoi scritti. 81 anni, nato in un villaggio siriano, è cresciuto a Damasco, ha lavorato in Libano e da tempo vive a Parigi. Dopo un lungo esilio ora può tornare non solo nel suo Paese ma in tutto il mondo arabo, cui non ha mai lesinato critiche anche piuttosto aspre. A un passo dal Nobel (è di questi giorni la notizia che ancora una volta la sua candidatura viene considerata la più forte, almeno dai bookmaker inglesi), in Italia è stato scoperto da un altro poeta, Giuseppe Conte, e pubblicato da Guanda ( Memoria del vento , La preghiera e la spada , Cento poesie d’amore ), ma anche, soprattutto per la saggistica, da moltissimi altri editori. Oggi e domani è a Bari, nel quadro del festival «Frontiere».
Adonis, la sua poesia affonda le radici nel Mediterraneo pre-monoteista. Lei una volta mi ha detto che è necessaria una critica radicale al monoteismo perché è da lì che nascono le dittature. Come giudica un poeta l’ansia di libertà che sembra pervadere il mondo arabo?
«Gli arabi, come è noto, sono legati alla poesia più di quanto non lo sia il pubblico occidentale. Rappresenta la nostra tradizione per eccellenza, anche perché la nostra cultura è soprattutto orale, proprio come lo è nel suo fondo e nelle sue origini la poesia. Detto questo, non mi considero un poeta “impegnato” ideologicamente. Lo sono nel campo della responsabilità umana, e cioè per quanto riguarda l’uomo, la sua libertà, la sua apertura al mondo. Ho il massimo rispetto della religiosità: non sono certo contro la fede degli uomini. La mia critica non è sul piano della fede, ma su quello filosofico».
Che cosa vede negli accadimenti del 2011, da Tunisi a Damasco?
«Ci sono, al di là dei risultati, aspetti davvero interessanti. La gente non ha più paura, e le nostre società, il nostro mondo hanno esattamente bisogno di questo. Sta succedendo qualcosa di nuovo e atipico, anche se permane il timore di un certo ritorno del fondamentalismo. Lei sa che io sono radicalmente contro, sotto questo aspetto».
Una primavera ambigua?
«Diciamo che restano preoccupazioni. Per esempio: non si parla di libertà delle donne. Non si parla di politica culturale, e tantomeno di laicità. Ma in tutto questo la poesia non ha un ruolo diretto. Può spingere la gente a capire meglio. Non cambia le cose, ma interviene sul rapporto tra le parole e le cose, ne istituisce ogni volta uno nuovo. E il lettore può trovare in essa lo stimolo per cambiare anche lui».
Lei una volta ha definito la poesia «un fiume che scava il proprio letto». Il suo traduttore tedesco l’ha accusata di «scetticismo accomodante» quando, a fine agosto, le è stato conferito in Germania il prestigioso Goethe Preis.
«Il mio traduttore tedesco non ha capito nulla. Ho scritto moltissimi articoli contro il regime siriano, anche se trascorro in Libano parte dell’anno. E non mi sono certo pronunciato da solo: in Libano, nonostante tutto, sono in tanti a criticare apertamente la Siria».
C’è chi ha invocato un intervento «umanitario» in Siria, sul modello di quello in Libia.
«Sarebbe un errore spaventoso. L’Occidente difende i suoi interessi, come ha fatto in Iraq e ora in Libia. Se vogliamo parlare di diritti dell’uomo, allora, perché non cominciamo a difendere i palestinesi? L’intervento armato è un’ipocrisia occidentale. Il mondo arabo deve cambiare, e deve farlo senza aiuti interessati».
Parlerà di questo, stasera a Bari?
«Preferirei ascoltare la lettura delle mie poesie, e poi stare a sentire la gente, e discutere, se avranno qualcosa da chiedermi».

Corriere della Sera 29.9.11
Lo scrittore che sogna una nuova Algeria
Boualem Sansal: c'è voluto l'11 settembre perché l'Occidente capisse
«Il regime deve andare via, non io. Denuncio islamismo e oppressioni»
di Ranieri Polese


B oualem Sansal risponde al telefono dalla sua casa a Boumerdès, una città sulla costa a circa 40 chilometri a est di Algeri. È felice del premio assegnatogli dall'Associazione librai tedeschi, il Friedenspreis — Premio della pace, che ogni anno viene consegnato nel giorno di chiusura della Fiera del libro di Francoforte. Fra i premiati degli ultimi anni (Grossman, Magris, Pamuk, Susan Sontag, Habermas) c'è anche un'altra algerina, la scrittrice Assia Djebar, che ottenne il massimo riconoscimento culturale tedesco nel 2000. Nella motivazione si dice che scegliendo Sansal si è voluto «lanciare un segnale ai movimenti democratici del Nordafrica». «È un fatto importante» dice lo scrittore, «soprattutto per la Germania, che durante tutti gli anni 90 non aveva nessuna attenzione per i movimenti democratici in Algeria. Come tutti i Paesi europei, appoggiava le dittature. A proposito delle elezioni del dicembre 1991, che dettero la maggioranza agli islamisti del Fis e che furono annullate, i tedeschi dicevano che si doveva rispettare il risultato del voto. Una posizione in linea di principio giusta, se non fosse che quella vittoria era stata ottenuta con brogli, con la manipolazione delle coscienze, anche con la collaborazione dei servizi segreti che si servivano degli islamisti per screditare e attaccare i democratici. Tutti i Paesi ospitarono in quegli anni membri del Fis, soprattutto la Germania. Solo quando si cominciò a esportare il terrorismo e ci furono attentati in Europa, soltanto allora gli europei si accorsero del pericolo islamista. Ma c'è voluto l'11 settembre perché l'Occidente capisse davvero».
Scrittore, 62 anni (li compirà il 15 ottobre, il giorno prima della cerimonia solenne nella Paulskirche di Francoforte), autore di sei romanzi e numerosi saggi, tutti scritti in francese e pubblicati in Francia da Gallimard, Sansal ha iniziato a scrivere relativamente tardi, nel '96, con il romanzo Le serment des barbares, un poliziesco che partendo dalle indagini su un delitto denunciava la complicità del potere con gli assassini islamisti. Era, allora, direttore generale del ministero dell'Industria, ma i suoi libri (L'enfant fou de l'arbre creux, 2000, e Dis-moi le paradis, 2003), nonché le sue aperte critiche alla militarizzazione del Paese e alla campagna di arabizzazione gli attirano minacce e intimidazioni. Nel 2003 viene sospeso dal suo incarico e pochi mesi dopo licenziato. Sua moglie, insegnante, perde il lavoro, e il fratello si vede costretto a chiudere la sua attività. Quando, nel 2006, scrive una lettera aperta ai suoi concittadini (Poste restante: Algier) per denunciare l'oppressione militare e l'effetto devastante dell'islamismo, il libro viene proibito e i precedenti romanzi sono ritirati. Sansal, comunque, decide di restare e di continuare a difendere con coraggio e ostinazione — è la motivazione dei giurati del Friedenspreis — «la libertà di espressione» e di opporsi apertamente «a ogni forma di accecamento dottrinario, al terrorismo e al dispotismo politico». Nel 2008, in Francia, esce Il villaggio del tedesco, la sua maggior prova di romanziere, che riceve molti premi e viene tradotto in Italia (Einaudi), Germania, Stati Uniti e Inghilterra. Racconta di due fratelli, Rachel e Malrich, entrambi residenti in Francia, figli di un tedesco che aveva combattuto a fianco degli insorti nella Guerra di liberazione e che poi si è ritirato in un minuscolo villaggio nel sud dell'Algeria. Hans Schiller, questo è il suo nome, viene ucciso da un commando di islamisti che fanno una strage nel villaggio. Il figlio maggiore, Rachel, torna a visitare il paese e scopre il passato del padre, che ha prestato servizio ad Auschwitz e in altri campi di sterminio e poi è riuscito a trovare rifugio nel Nordafrica.
Nell'ultimo romanzo appena pubblicato in Francia, Rue Darwin (la strada del quartiere operaio di Belcourt dove lo stesso Sansal è cresciuto) si legge: «È giunto il tempo di dissotterrare i morti e di guardarli in faccia». Che vuol dire? «Significa che abbiamo il dovere di rileggere la storia recente senza menzogne. Gli algerini vivono in un teatro di falsità. Per l'immaginario algerino la Guerra di liberazione ha un posto centrale. Ma il racconto ufficiale che viene insegnato è totalmente falsato. Nello stesso modo con cui si fanno passare i jihadisti per martiri, quando invece sono degli assassini. In Germania questa ricerca della verità l'hanno fatta, hanno indagato su padri e nonni che furono nazisti. Non hanno creduto alla leggenda che si ripete sempre: era un soldato, doveva obbedire agli ordini (Befehl ist Befehl). Come in tutte le rivoluzioni, anche nella Guerra di liberazione algerina c'erano i romantici appassionati dell'ideale, ma anche i profittatori che volevano danaro e potere. C'erano ladri, criminali. C'erano quelli che facevano il doppio gioco. È un lavoro doloroso riaprire il passato con gli occhi bene aperti, ma senza questo lavoro di ricerca della verità non si può costruire niente. Lo stesso vale per la religione che giustifica con assurde leggende la deriva islamista, fanatica che ha imboccato. Bisogna distruggere questi castelli di falsità».
Nel Villaggio del tedesco si fa un paragone fra il nazismo e la situazione algerina e di molti Paesi arabi. «Studiando il Terzo Reich, ho visto che là c'erano gli stessi ingredienti che ritrovo nel mio Paese e negli altri regimi arabi. E sono: partito unico, militarizzazione del Paese, lavaggio del cervello, falsificazione della storia, affermazione dell'esistenza di un complotto (i principali colpevoli sono Israele e l'America), il razzismo e l'antisemitismo elevati a dogmi, glorificazione dei martiri e della guida suprema del Paese, onnipresenza della polizia, grandi raduni di massa, progetti faraonici di opere pubbliche (come la terza moschea più grande del mondo costruita dal presidente Bouteflika)».
E poi nel romanzo c'è una lunga trattazione dell'Olocausto, un altro dato certo non gradito ai regimi dei Paesi arabi dove si tende a dire che lo sterminio è stata un'invenzione degli ebrei. «Il negazionismo non è solo appannaggio dei Paesi arabi, certo qui ebreo è sinonimo di nemico, di pericolo. Dagli ebrei proviene ogni male, gli hanno attribuito anche l'attacco alle Twin Towers e in molti ci hanno creduto. Ho ricevuto molte critiche. Se volevo parlare di Olocausto, mi hanno rimproverato, perché non parlare di quello palestinese a opera degli israeliani»?
Il romanzo prende ispirazione da un fatto vero, il tedesco è esistito davvero. «Sì, solo che è morto a più di 90 anni di vecchiaia. Ho trovato così scandaloso, ingiusto, che un aguzzino dei Lager morisse senza pagare per i suoi crimini che ho deciso di farlo morire ammazzato dagli islamisti, fascisti come lui. Anche i due figli son frutto della mia immaginazione, non so se avesse figli o no. Volevo che questi uomini resuscitassero il padre per interrogarlo sul suo passato di cui non sapevano niente. I padri, i genitori non raccontano mai ai figli la verità su ciò che hanno fatto. Come gli Stati, che raccontano una storia falsa. Rachel, il maggiore, conduce una sorta di istruttoria e lascia al fratello il diario della sua investigazione. Malrich, che vive in una banlieue parigina ormai assoggettata al potere di un imam fanatico, si accorge di trovarsi anche lui in una sorta di Lager».
Lei ha perso il lavoro, è oggetto di minacce, i suoi libri sono proibiti, eppure resta in Algeria. Perché? «Ogni mattina mi sveglio e penso: domani parto, vado a vivere in un Paese libero, senza oppressione, senza corruzione, senza il peso insopportabile del fanatismo religioso. È vero, il fatto che i miei libri mi hanno fatto conoscere all'estero rende la mia posizione un po' meno difficile. Ciononostante sono ancora soggetto a un controllo continuo, della posta, del telefono (anche questa telefonata qualcuno la sta registrando). Ma poi decido di restare. Perché questo è il mio Paese ed è legittimo che io viva qui, sono loro, i militari, gli uomini del regime, che sono illegali. Sono loro che se ne debbono andare non io. Resto per aiutare a educare le coscienze dei giovani che dovranno affrontare il difficile compito di liberarsi dalle menzogne che gli hanno fatto credere. Senza qualcuno che dica loro la verità, sarà impossibile ricostruire questo Paese in modo democratico. Dopo le manifestazioni di questo inverno, ora è tutto calmo, il regime cerca di accontentare tutti: per la prima volta in quarant'anni spazzano le strade qui a Boumerdès, fanno lavorare i disoccupati per impedire loro di scendere in strada a protestare. Cosa succederà? Bouteflika è molto malato, potrebbe morire o entrare in coma fra breve. Del resto ha già fissato le elezioni presidenziali per il 2012. Lui vorrebbe passare il potere al fratello. Non credo che la gente possa accettarlo. Per questo è importante che l'Europa segua da vicino la situazione del mio Paese, così come degli altri Paesi del Nordafrica e della Siria. Non sarebbe giusto se, una volta ancora, lo sforzo per conquistare la democrazia dovesse fallire».

Corriere della Sera 29.9.11
«Incitano alla pedofilia»
La censura ortodossa su Nabokov e Márquez
di Armando Torno


Vsevolod Chaplin è capo del dipartimento delle pubbliche relazioni della Chiesa ortodossa russa. Da tempo va ripetendo che Lolita di Nabokov e Cent'anni di solitudine di Márquez dovrebbero essere messi al bando perché diffondono la pedofilia. Un recentissimo lancio dell'agenzia Tass, ripreso ieri da altre occidentali, ha ribadito l'accusa. Peccato che non se ne sia parlato nell'incontro alla Biblioteca Lenin di Mosca tra Putin e gli scrittori più noti e dalla generosa tiratura. Tra gli altri c'erano Weller, Marinina, Ustinova, Prilepin. Quest'ultimo è considerato il dissidente di sempre, almeno dalla stampa europea e americana. Nessuno ha invitato Chaplin. E Tatiana Zonova, che insegna all'Università delle Relazioni Estere, ci ha confidato al telefono: «La censura proposta dalla Chiesa russa per Nabokov e Márquez reca un danno per la reputazione della cultura russa all'estero. Non è più il tempo di simili dichiarazioni, anche se chi le ha fatte è un'alta autorità ortodossa». Viktor Gajduk, professore all'Università di Mosca e accademico delle scienze della Federazione Russa, già vicino a Gorbaciov, precisa: «Padre Chaplin è indubbiamente una persona rigorosa. Lo è sempre stato. Infatti lo ricordo al tempo dell'Urss quando insegnava ateismo scientifico e ora, pur con tutto il rispetto che gli dobbiamo, sta prendendo un granchio. Sostenere che la pedofilia sia diffusa da autori come quelli contro cui ha scagliato l'anatema, è fuori luogo. Del resto, un'accusa così assurda potrebbe essere mossa anche contro Dostoevskij e Tolstoj; nemmeno Cechov si salverebbe». Per chiudere il cerchio di tale polemica, va aggiunto che Michail Svydkoj, rappresentate speciale per i contatti culturali del presidente russo, dopo aver ironizzato su Chaplin ha proposto di ritirare dalle biblioteche — soprattutto quelle scolastiche — I fratelli Karamazov di Dostoevskij e, del medesimo autore, l'Idiota. Poi, con ampio sorriso, ha aggiunto Guerra e pace di Tolstoj. Infine ha precisato: «Negli scrittori russi c'è molto da censurare». Padre Chaplin, comunque, ha altresì notato che è ora di attuare una rivoluzione morale e mesi fa si scagliò contro l'abbigliamento delle donne. A suo giudizio si vestono come spogliarelliste, si truccano come clown, senza contare taluni loro atteggiamenti provocanti che possono indurre alla violenza sessuale. Che dire? Di certo questi argomenti resteranno fuori dalla porta di Castel Gandolfo, dove oggi è previsto un incontro tra Hilarion di Volokolamsk (capo del Dipartimento per le Relazioni Ecclesiastiche del Patriarcato di Mosca) e il Papa. Né abbiamo notizia che si sia detto qualcosa in proposito nell'incontro avvenuto ieri nella capitale russa tra il cardinale Jozef Tomko e il patriarca Kirill. Si ha soltanto notizia del «rispetto e dell'affetto fraterno» per Benedetto XVI. Chaplin, forse parente con il noto attore comico, continuerà la battaglia? Difficile rispondere. Ma se conoscesse le idee degli antichi greci sulla pedofilia, ci sarebbe da tremare per il corpus delle opere di Platone e per i poeti lirici.

La Stampa 29.9.11
Il ritorno della creatività
di Federico Vercellone


Dov’è finita la creatività? È possibile che più nulla ci stupisca, ci incanti, ci illuda con l’aura del nuovo? Quante volte si sono annunciate la morte dell’arte e la fine della bellezza nell’universo retto da una rigida razionalità tecnologica? Da tempo domina, come ci insegna Max Weber, la «gabbia di acciaio» di una ragione severa, che guarda all’efficacia dei propri mezzi, dimentica di ogni senso ultimo dell’esistenza e della creazione. È una procedura che fa a meno di Dio e di presupposti ultimi e che, proprio così, funziona ovunque a dovere. Tuttavia nella Babele della globalizzazione tecnologica siamo sbandati e c’è bisogno di inventarsi un contesto amico, un luogo che sentiamo fatto per noi.
Non è casuale che, in anni recenti, artisti e scienziati abbiano stretto una sorta di alleanza a favore di una scienza più favorevole alla creatività, di una tecnologia meno impersonale e più rispettosa dell’ambiente. Ed è sicuramente significativo che questa reazione venga per lo più dal cuore tecnologico del pianeta, dagli Stati Uniti.
Nel 2008 compare per esempio un libro di David Edwards, professore di ingegneria biomedica a Harvard, Artscience. Creativity in the Post-Google Generation (Harvard University Press), dove si analizzano le nuove frontiere di una creatività che non riconosce limiti pregiudiziali, che si colloca in una zona intermedia tra l’arte, i saperi scientifici, l’industria e la società. I confini classici tra le forme di conoscenza e tra le attività umane, tra le «due culture», umanistica e scientifica, sembrano venire meno. Mentre sempre più prendono piede formazioni «miste» che ibridano arte e scienza. Si moltiplicano così i modelli di creatività, come ci ricorda il filosofo statunitense Irving Singer, professore al Mit, in un libro di grande fascino, Modes of Creativity (Mit Press), uscito ora, dove l’idea di una creatività che riguarda tutta l’attività umana si presenta come un’istanza fondamentale attraverso la quale si dà significato all’esistenza e al mondo.
Non sarebbe male se l’universo riprendesse a stupirci invitando a radicarci di nuovo, in modo inventivo, sulla terra. E se la tecnologia ci venisse incontro in questo cammino.


Repubblica 29.9.11
Ideata da Carlo Strapparava della Fondazione Bruno Kessler di Trento
Così con una formula leggiamo le emozioni
di Stefania Parmeggiani


Misurare lo spazio e il tempo, analizzare numeri e variabili "concrete" non è più sufficiente. La nuova frontiera dell´informatica sono le emozioni. Anche se i computer restano freddi e impassibili qualcosa nei loro chip ha cominciato a vibrare: grazie a un algoritmo ideato da un ricercatore italiano sono in grado di riconoscere se uno scritto provoca gioia, tristezza o disgusto. Se una frase è arguta o se gioca con la suspense per incutere paura. Uno scarto deciso rispetto al passato quando l´analisi del linguaggio naturale si fermava alla classificazione per categorie semantiche e che apre la strada a una serie di applicazioni pratiche, dalle ricerche in Internet alla generazione automatica di testi.
L´algoritmo delle emozioni è stato ideato da Carlo Strapparava della Fondazione Bruno Kessler di Trento e si basa sull´idea che anche le macchine possano avere una educazione sentimentale. Nulla a che vedere con l´amore, più che altro un rigido addestramento basato sulla lettura di milioni e milioni di parole: i computer le processano, prendendo in esame non solo il loro significato ma anche la posizione all´interno di una frase, la punteggiatura e la grammatica. Le analizzano e archiviano per costruire esempi in grado di guidarli nelle successive classificazioni, simulando quello che qualsiasi lettore umano è in grado di fare: riconoscere grazie alla sensibilità personale le sfumature lessicali.
L´algoritmo ha destato l´interesse di Google che nella sua ultima competizione internazionale, accanto a studiosi di Harvard e della Columbia University, ha premiato lo scienziato italiano con un assegno di 50mila dollari, un incentivo a proseguire nei suoi studi coinvolgendo giovani ricercatori. «Fino a questo momento non si era preso in considerazione il contenuto emotivo o persuasivo di un testo - spiega Strapparava - normalmente considerato fuori da ogni possibilità computazionale». Internet ha cambiato le carte in tavola: «Nel momento in cui si è avuta a disposizione una enorme quantità di testi le ricerche hanno imboccato nuove strade».
Moshe Koppel, docente di informatica dell´università israeliana di Bar Ilan, si era già cimentato con successo in un esperimento di "individuazione di genere": un algoritmo in grado di determinare se uno scritto sia opera di una donna o di un uomo. Altri scienziati hanno indagato l´età dell´autore di un testo, partendo dall´assunto che un adolescente ha una proprietà di linguaggio differente da quella di un adulto. Dalle ricerche sulla identità si è oggi passati allo studio delle emozioni.
Spiega Strapparava: «Abbiamo addestrato il computer fornendogli 100 milioni di parole, tratte dal British National Corpus», una raccolta di oltre quattromila documenti assemblati dagli accademici al fine di agevolare lo studio della lingua inglese moderna. «E ci siamo concentrati sulle emozioni primarie come la paura, la gioia o il disgusto». Una seconda fase delle ricerche di Strapparava ha preso in esame i discorsi dei politici americani, un corpus di 8 milioni di parole. «Il computer le ha analizzate per studiare il livello di persuasività delle frasi». Imbattendosi in alcune curiosità: nei discorsi del presidente Bush prima dell´11 settembre la parola "guerra" provocava in chi la ascoltava una forte reazione. Dopo quella data, nonostante fosse menzionata molto più spesso, non era più accompagnata a nessuna reazione esplicita da parte dell´uditorio. Un algoritmo utile a studiare l´evoluzione del lessico politico, ma interessante anche per le sue potenzialità commerciali. «Ad esempio per la generazione automatica di slogan o messaggi pubblicitari». Un´applicazione che si affiancherebbe alle tante che, negli ultimi anni, governano la nostra realtà: dalla ricerca di informazioni sul meteo alle traduzioni simultanee, dall´insegnamento a distanza alla navigazione satellitare. E con l´algoritmo delle emozioni lo spettro delle possibilità si dilata ulteriormente: «Può essere impiegato nel campo della protezione - conclude Strapparava - mettendo in guardia l´utente o affinando il lavoro dei motori di ricerca». Sicuramente solletica l´immaginario, spingendo l´intelligenza artificiale su un terreno connaturato alla natura stessa dell´uomo: la sua emotività.

Repubblica 29.9.11
Perché l’eterna ripetizione pop è come la dittatura di Mao
di Marc Fumaroli


L´anticipazione / Il nuovo saggio di Marc Fumaroli è un viaggio da Parigi a New York attraverso le icone del contemporaneo
Le nuove opere si accontentano di mimare il gran bazar che pretendono di denunciare
Le teorie di Warhol sono conformi all´etica del Libretto rosso: "Tutti dovrebbero essere delle macchine"

L´America è diventata tanto più consumatrice di immagini in quanto ha ignorato la preghiera davanti alle icone, la meditazione di quadri sacri e il riposo piacevole che procurano i dipinti di puro diletto; è ormai tanto più divoratrice di sesso in quanto è stata e forse rimane incapace di voluttà, la cui nozione stessa è del resto intraducibile in inglese. Sulle sue orme noi camminiamo nelle immagini, nelle immagini di immagini, e nel grande commercio mondiale di un´"Arte contemporanea" che il più delle volte si accontenta di mimare, concettualizzare, sfalsare, esaltare, museificare il grande bazar sovraffollato di schermi e di cineprese adescatrici che essa pretende di "denunciare". Le pompe funebri di Accra seppelliscono gli avi in bare a forma di scarpe Nike o di borse Vuitton per mandarli più in fretta nel mondo degli spiriti, mentre le fiere di "Arte contemporanea" sono orgogliose di esporre il ritratto dell´Uomo nuovo, i cui occhi, orecchie e bocca sono chiusi dalle fasciature che coprono la loro recente ablazione.
La tautologia, che va fino all´eterna ripetizione, non è più il privilegio della propaganda dei tiranni moderni, che non esitano a portare all´assoluto l´ipertrofia dell´Ego, come Mao sulla piazza Tiananmen, nel monumento che lo ritrae seduto, in contemplazione eterna del suo ritratto dipinto, non meno gigantesco, che gli sta di fronte all´altro capo dell´immensa spianata. È lo stesso Mao che vediamo in serigrafia, variata e colorata a sazietà, ieri dalla Factory di Andy Warhol, oggi (maggio 2008) da copisti cinesi del copista americano, divo assoluto e mondiale dell´"Arte contemporanea" del ritratto, sia nelle gallerie di Shangai che in quelle di New York e di Parigi, come se questa effigie di assassino su immensa scala si desse ancora da fare, post mortem, a cancellare il ricordo di Socrate e di Cristo nell´immaginario congedato dell´Occidente cristiano e americano.
La tautologia è il martello senza guida della cacofonia persuasiva del marketing, un meccanismo sobbalzante simile al mitragliamento a tappeto, diventato la tecnica incontrastabile di ogni strategia militare contemporanea. L´eterna ripetizione dell´incerto è in effetti il solo metodo efficace per renderlo provvisoriamente certo, eliminare sul momento il dubbio e rinviare a più tardi l´interrogativo che non mancherà di sorgere circa la fondatezza di quel paravento intimidatorio e futile. Come sfuggire alla valanga ripetitiva? I canali americani Baby TV e Baby First TV, ritrasmessi via Inghilterra per satellite e diffusi in Francia da Canal Sat, si offrono per occupare utilmente i vostri ozi nei primi tre anni di vita. Da adulti, le hostess di volo difficilmente rinunciano a imporvi gli auricolari uniti allo schermo televisivo avvitato sul bracciolo del vostro sedile. Era piacevole durante una corsa in taxi aprire il giornale quotidiano o conversare con l´autista. Un vantaggio del passato. Nell´autunno 2007 i taxi newyorkesi gialli, i cui autisti, indiani o pakistani, protetti da uno spesso vetro antiproiettile, non smettono mai di parlare nel loro microfono, nella loro lingua, con un compatriota invisibile a Mysore o a Lahore, hanno installato, sul retro del loro sedile, uno schermo televisivo che vi farà restare di stucco: è sufficiente toccare il punto voluto sullo schermo perché chiassose pubblicità di ogni genere vi saltino agli occhi a ripetizione. Questo "lusso" era sin qui riservato alle limousine dei vip o affittate per le grandi occasioni. Siamo giusti: per il momento, un altro tasto permette di arrestare questo torrente di immagini chiassose. Ma sappiamo che è soltanto una prova: numerose compagnie gareggiano con accanimento nella messa a punto, in vista di un mercato universale, di uno schermo perfezionato che permetterà al viaggiatore, affascinato e quasi schiavo, di scegliere ampiamente in quale campo desidera essere catturato dalla irresistibile pubblicità.
Quest´arte dell´assedio e del bombardamento, frivola o feroce, dalla culla alla tomba, si riflette in un´"arte" altrettanto contemporanea che, a rimorchio come l´altra del taylorismo industriale e del fordismo militare, non smette mai, praticando l´assemblyline, di duplicare, copiare, scimmiottare o saccheggiare il meccanismo ottico che la fa vendere. L´immagine-pleonasmo con pretesa d´arte, riproduzione in secondo grado dell´immagine pubblicitaria, del fumetto, del giocattolo o del gadget di serie, ha ridotto l´"arte" della quale si vanta, e la ricezione forzata che i suoi promotori le organizzano, al grado zero del ridicolo, paragonabile al grado zero della serietà servile in cui si bloccò per mezzo secolo il realismo socialista nell´ex Urss e nell´ex Cina maoista. A differenza del nostro André Fougeron francese, ingiustamente colpito da damnatio memoriae, i Fougeron cinesi sono oggi riciclati (dicembre 2007) nelle fiere di "Arte contemporanea" e raggiungono prezzi sensazionali nelle gallerie di New York, Londra e Parigi. Di questa unificazione del "campo artistico" mondiale, Andy Warhol, il Van Gogh della scatola Brillo e del barattolo Campbell´s Soup, ha enunciato la teoria profetica nel 1963, in un´intervista a Art News. Essa è in perfetta consonanza con l´etica del Libretto rosso del Grande Timoniere: «Tutti si assomigliano, e si comportano nello stesso modo, ogni giorno di più. Penso che tutti dovrebbero essere delle macchine. Penso che tutti si dovrebbero amare. La pop art è amare le cose. Amare le cose vuol dire essere come una macchina, perché si fa continuamente la stessa cosa. Dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina». Questo De l´amour pop, nelle "acque gelate", dice tutto.
© 2009 Librairie Arthème Fayard  © 2011 Adelphi Edizioni spa Milano