venerdì 30 settembre 2011

l’Unità 30.9.11
La lettera di Draghi e Trichet resa pubblica dopo quasi due mesi e dopo quattro manovre
Il diktat della Bce a Berlusconi: nel mirino pensioni e statali
Da Francoforte è partita il 5 agosto, il governo l’ha ricevuta subito, ma gli italiani l’hanno letta solo ieri: è la lettera con cui la Bce chiede drastici interventi nel Paese, per l’opposizione un autentico commissariamento
di Marco Ventimiglia


Le richieste
«Il governo italiano deve ristabilire subito la fiducia»
1 Miglioramento della qualità dei servizi pubblici e ridisegno di sistemi regolatori e fiscali per sostenere la competitività delle imprese.
2 Revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento, un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche per il mercato del lavoro al fine di facilitare la riallocazione.
3 Misure immediate sulla finanza pubblica: un deficit migliore di quanto previsto nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013.
4 Più rigorosi criteri di idoneità per le pensioni di anzianità, riportare l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella nel settore pubblico.

È «arrivata» dopo quasi due mesi, nemmeno si trattasse di una di quelle raccomandate che si sa essere state spedite, ma di cui ormai si è perso quasi il ricordo. Stiamo parlando della celebre lettera della Bce, inviata lo scorso 5 agosto al governo ma del cui esatto contenuto i destinatari naturali, ovvero i cittadini italiani, hanno appreso solo ieri mattina sulle pagine del “Corriere della Sera”. Una missiva durissima, ancor più che un diktat un autentico commissariamento del nostro balbettante esecutivo, che dopo averla ricevuta ha subito inscenato il desolante teatrino delle manovre scritte e riscritte. Ed il fatto che il testo della lettera giunga soltanto adesso, in coincidenza del riacutizzarsi dello scontro Berlusconi-Tremonti con in palio la poltrona di Bankitalia, ha inevitabilmente alimentato dietrologie assortite.
«OCCORRE FARE DI PIÙ»
«Caro primo ministro», si legge nelle lettera a doppia firma, quella di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, attuale e prossimo presidente della Bce. Un’introduzione amichevole che però lascia subito il posto ad una raffica di intimazioni: «Il consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un’azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori... Occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro».
Molto più articolato di quanto si sia voluto far credere da Palazzo Chigi il passaggio sul mercato del lavoro: «Occorre un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi». Quanto alle finanze pubbliche, per la Bce «il governo ha l’esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurarne la sostenibilità. Riteniamo essenziale anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L’obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell’1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa». Inoltre, Eurotower parla di interventi nel sistema pensionistico, «rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico».
REAZIONI DURE
Dura la missiva partita da Francoforte, e altrettanto dure le reazioni dell'opposizione nel giorno della sua diffusione integrale, con il Pd che chiede un’audizione del governatore Mario Draghi alla Camera. «La pubblicazione della lettera ha detto Stefano Fassina, responsabile Economia e lavoro del Pd conferma la drammatica condizione di commissariamento dell'Italia determinata dall'inadeguatezza del governo Berlusconi. Siamo trattati come se già fossimo in rianimazione finanziaria al pari della Grecia, dell'Irlanda e del Portogallo». Sulla stessa linea il capogruppo Idv al Senato, Felice Belisario: «Non stupisce che la lettera di Trichet e Draghi sia rimasta nascosta tutto questo tempo. A Berlusconi, a Tremonti e alla loro corte di incapaci sono state tirate le orecchie, in un modo e con un linguaggio insolito per le istituzioni europee. Un vero e proprio commissariamento, un'ammissione di incapacità del governo a gestire la crisi». Da sottolineare le parole di Romano Prodi: «La lettera è un atto dovuto. Sappiamo quella che è la situazione italiana ha detto l'ex premier ed anche che è stata spedita nel caos assoluto, durante la lite tra ministri. Un ammonimento doveroso dato lo stato di divisione del Paese».

l’Unità 30.9.11
A Roma blogger, giornalisti, politici tra i manifestanti al Pantheon contro il ddl intercettazioni
Natale (Fnsi): «Porteremo la protesta in tutte le piazze d’Italia. Altrimenti, obiezione di coscienza»
Informazione libera cresce la mobilitazione E intanto il Pdl accelera
Con il presidio a Roma è partita la mobilitazione contro il ddl sulle intercettazioni. Sul quale da Palazzo Grazioli arriva l’ordine: «Il provvedimento dev’essere votato entro 40 giorni». Mercoledì il ddl in aula
di Roberto Brunelli


C’erano i blogger, davanti al Pantheon bruciato da sole, con dei post-it attaccati sulla bocca: «No al bavaglio». C’erano tanti giornalisti, ai quali potrà essere vietato di pubblicare le notizie che riguardano il viavai di faccendieri e di escort nelle residenze del premier. C’erano volti noti, come Tiziana Ferrario e Maria Luisa Busi (ambedue «silenziate» nella Rai di Minzolini), e avvocati in prima linea per la libertà di stampa, come Domenico D’Amati. C’era la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, che reclama «un paese in cui i magistrati siano liberi di indagare e i giornalisti liberi di scrivere», c’erano le colleghe di «Giulia», ossia il gruppo delle giornaliste «unite, libere e autonome» con il loro striscione. Certo, c’erano i politici, come Paolo Gentiloni, Andrea Sarubbi e Walter Verini del Pd, come Stefano Pedica dell’Idv, Enzo Carra dell’Udc, Flavia Perina di Fli, Angelo Bonelli dei Verdi. Ma soprattutto, c’erano decine di postazioni per la trasmissione in streaming della manifestazione, c’era chi era collegato via Facebook o via Twitter: è una specie di «protesta 2.0», questo primo appuntamento romano, che corre dalla piazza reale a quella virtuale con lo scopo di impedire che veda mai la luce il ddl intercettazioni: una legge-bavaglio considerata un attacco alla libertà di espressione nonché al diritto di cronaca, con in più le norme «ammazzablog» che impongono diritti di repliche assolutamente surreali con annesse sanzioni-monstre, il cui scopo evidentemente è quello di «strangolare il bimbo nella culla», ossia le notizie e le opinioni che oggi circolano in libertà e che domani dovranno esser sottoposte ad una censura di fatto.
Soprattutto, il presidio di ieri davanti al Pantheon messo in piedi in ventiquattr’ore dal Comitato per la libertà e il diritto all’informazione è l’inizio di un percorso: «Seguiremo passo passo l’iter parlamentare della legge», ha detto dal palco il presidente della Fnsi Roberto Natale, promettendo una grande manifestazione per la libertà d’informazione che coinvolgerà tutti i soggetti oggi già presenti in piazza, ma anche i partiti, le associazioni, i blogger («che facevano circolare le idee anche quando i giornali più titolati sceglievano preferivano rimanere sottotraccia»), il popolo viola, la Cgil, i sindacati dei giornalisti.
Sì, perché i tempi stringono. La prossima settimana riprende l’iter parlamentare del ddl. Mercoledì si voteranno le pregiudiziali di costituzionalità presentate dalle opposizioni. «Oggi abbiamo cominciato a far sentire quale sia la nostra risposta. La porteremo in piazze sempre più grandi in tutta Italia e l’avremo vinta noi», dice Natale. Che dà anche una chiave di lettura delle campagna anti-intercettazioni orchestrata dal governo: «Qui non è affatto questione di privacy, qui la questione è la segretezza intorno alle vicende che riguardano una persona sola, il premier. Perché saperne di più dei faccendieri che frequentano le residenze di Silvio non è un fatto privato, è un fatto di rilevanza pubblica». Ancora: «Con i referendum la stragrande maggioranza degli italiani ha già detto di no alle leggi ad personam, e ha votato in massa per considerare l’acqua un bene comune da preservare. Ebbene, anche l’informazione dev’essere considerata un bene comune».
OBIEZIONE DI COSCIENZA
L’altra parola d’ordine lanciato da Natale è «obiezione di coscienza», e non è poca cosa visto che viene dal presidente del massimo sindacato dei giornalisti. Il meccanismo lo spiega bene l’avvocato D’Amati: «Nel nostro ordinamento nessuno può essere punito per aver fatto il proprio dovere. Per questo io credo che la loro legge sarà un buco nell’acqua: se i giornalisti verranno portati a frotte davanti ai tribunali, i giudici li assolveranno». Beppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, annuncia che se la legge verrà approvata «prepareremo un dossier con raccolte le più imbarazzanti verità su Silvio Berlusconi e lo porteremo alle maggiori cancellerie europee. Non solo: oltre al ricorso alla Corte costituzionale, presenteremo un esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo, perchè la legge sia disattivata».
Intanto, mentre qui fa bella figura lo striscione «Nessuno ti può giudicare, nemmeno il web» e, sotto, «La verità ti fa male lo so», da Palazzo Grazioli la maggioranza fa sapere che intende arrivare al primo voto «in quaranta giorni», cercando di dare una secca accelerazione al ddl. Ma dovranno fare i conti con una mobilitazione crescente. Gianfranco Mascia, del Popolo Viola, si augura che sia «all’insegna dell’unità, e che si mettano da parte le varie appartenenze». Anche perché, la logica del governo è sempre quella: chiudere le voci considerate non conformi, da Vieniviaconme a Parla con me, per dirne solo due. Chiudere la bocca a chi intende raccontare, su carta o in rete, gli affari e le abitudini del «premier a tempo perso». Sintetizza Maria Luisa Busi, dal palco: «Vogliono mettere il burqa all’informazione». «E noi glielo strapperemo», promette ridendo un blogger.

l’Unità 30.9.11
Centinaia di scatoloni con i moduli sottoscritti saranno depositati in mattinata alla Suprema corte
Soddisfatti i promotori «Ora il governo vuole discutere la legge elettorale, ma non ci fidiamo»
Referendum, ci siamo Oggi firme in Cassazione Di Pietro: «Un milione»
Oggi la conferenza stampa del comitato referendario. Di Pietro e Parisi: «Superate le migliori aspettative». Da Sel 150mila firme, contributi anche dei Giovani fliniani. Adesso la boa dell’ammissibilità
di Virginia Lori


Oggi il comitato referendario deposita presso la Corte di Cassazione a Roma le firme a sostegno della consultazione popolare per cambiare la legge elettorale. Di Pietro entusiasta: «Raccolto un milione di firme». Soddisfatto anche Arturo Parisi che però non si avventura in cifre: «Siamo oltre le migliori previsioni». La decisione della Corte se autorizzare il referendum è attesa a dicembre.
«Pensiamo di poter consegnare oggi circa, e forse oltre, un milione di firme». Il leader IdV fa un primo bilancio delle sottoscrizioni raccolte per il referendum anti-Porcellum. La conta è ancora in corso, ma il comitato promotore annuncia: «Sono già pronti 199 scatoloni con 500mila firme verificate». D’accordo Parisi: «Stiamo lavorando e conteremo fino all'ultimo. Al momento possiamo solo dire che le firme sono una quantità di gran lunga superiore alle migliori previsioni».
Sel fa sapere di aver raccolto 150mila firme: «È arrivato il tempo dei bilanci di una campagna referendaria che ha dato in un mese dei risultati straordinari, sia come firme raccolte sia come partecipazione dei cittadini. Nell'ambito di questo successo generale, le firme raccolte da Sel con Vendola vanno ben oltre l'obiettivo su cui ci eravamo impegnati» afferma Loredana De Petris.
Oltre 16 mila firme le ha raccolte il Pd di Napoli e già consegnate presso il comitato referendario di Piazza Santi Apostoli a Roma.
«Nel corso di due fine settimana abbiamo allestito cento banchetti, da Torino a Palermo, e abbiamo raccolto circa 50mila firme, che sono stata spedite al comitato promotore». È il bilancio di Generazione Futuro, il movimento giovanile di Futuro e libertà guidato da Gianmarco Mariniello.
Di Pietro, dal canto suo, ha tenuto molto a dire che si è trattato di uno sforzo collegiale, tanto da non aver voluto rivelare quale sia stato il contributo dell'Italia dei valori. «Noi dell'Idv vogliamo condividere un solo dato, quello finale ha detto Ognuno ha fatto secondo le sue possibilità. Chi ha raccolto meno è perché aveva meno strutture». Ancora: «La caratteristica di questo referendum è che è stato promosso e voluto da un comitato trasversale con più partiti, associazioni e molto volontariato che hanno raccolto tutti le firme ha insistito ognuno ha fatto il possibile, tanto è che nessuno di noi ha fatto la rincorsa a chi ne fa di più. Abbiamo rinunciato alle ferie di agosto».
Di Pietro avverte che «adesso gli schieramenti devono fare i conti con la mole di sostegno popolare al referendum, in attesa che la Cassazione si esprima sull'ammissibilità». Non per caso il segretario del Pdl Angelino Alfano ha preannunciato l'intenzione di mettere all'ordine del giorno della discussione parlamentare una proposta di riforma della legge elettorale. L’obiettivo che temono i promotori è vanificare il referendum, disinnescare una bomba che può far deflagrare la maggioranza e cambiare le sorti del prossimo voto.
Il leader dell'Idv infatti non si fida delle aperture di Alfano. «Temiamo che questa proposta sia una truffa per cercare di imbavagliare il referendum», ha chiarito. Per questo, «porremo tre condizioni per la discussione: la non candidabilità dei condannati o la loro decadenza in caso di condanna durante il mandato; il divieto di incarichi governativi in caso di rinvio a giudizio e decadenza automatica se il rinvio arriva durante la legislatura; incompatibilità del mandato parlamentare con altre attività per evitare conflitti di interesse».
Stamani il comitato referendario terrà una conferenza stampa e intorno alle 12.30 sarà in Cassazione.

La Stampa 30.9.11
Referendum al via un milione di firme e il Palazzo trema
Se in gennaio la Cassazione ammetterà il quesito possibile il voto anticipato e già si parla del 6 marzo
di Carlo Bertini


La vittoria sarebbe scontata e nel Pdl temono il ritorno del «Mattarellum»
500 mila le firme necessarie. È il numero previsto dalla Costituzione per indire un
referendum popolare
Normalmente i comitati ne raccolgono almeno 600 mila per evitare «sorprese» in Cassazione

E alle sette di sera, raggiunto l’obiettivo insperato di un milione di firme, sul balcone della sede di Santi Apostoli, i referendari innalzano il vessillo dei corsari, con teschio e sciabole incrociate. Il simbolo più adatto a rendere l’idea del blitz che è riuscito ad espugnare da solo le sorti della legislatura, un fortino finora inviolato da mozioni di sfiducia e spallate varie dal 14 dicembre in poi. Ma che ora a detta di tutti è sotto il giogo proprio di questo referendum che punta ad abolire il porcellum: la legge elettorale con largo premio di maggioranza e candidati decisi dalle segreterie dei partiti, che non piace più a nessuno, nemmeno a quelli che la votarono nel 2005. Al punto che tra i firmatari figura anche il Pdl Carlo Vizzini, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che considera il referendum un’arma per costringere le forze politiche a procedere con la riforma del sistema di voto.
Ebbene se a giugno gli italiani saranno chiamati ad esprimersi, sapendo che l’esito sarà un plebiscito di pollici verso, la maggioranza potrebbe davvero decidere di staccare la spina. Perché come ha ammesso Formigoni, nè il Pdl nè la Lega gradirebbero andare a votare col Mattarellum, il sistema precedente che in teoria (dibattito aperto tra i costituzionalisti) rientrerebbe in vigore. E quindi, a detta di D’Alema, «oltre a dare una scossa al dibattito sulla riforma, il referendum potrebbe accelerare la fine della legislatura». Ma se già nei boatos del Palazzo spunta la data del 6 marzo per le urne, visto che il 12 gennaio la Cassazione deciderà se ammettere il quesito, prima di questa dead-line tutti discuteranno, nello scetticismo generale, di come cambiare «la legge porcata», come la definì Calderoli. Il quale però chiede che la riforma sia incorniciata in quella bozza di riforma costituzionale, approvata a Palazzo Chigi a fine luglio e presentata l’altro ieri al Colle, che contiene Senato federale, riduzione dei parlamentari e rafforzamento dei poteri del premier: basi imprescindibili secondo la Lega per procedere a riformare la legge elettorale. Ma una legge costituzionale implica una doppia lettura parlamentare con tre mesi di pausa, svariati mesi di lavoro dunque. E inoltre un punto di mediazione tra i partiti sulle regole del gioco sarà arduo da raggiungere. E il Palazzo ora trema, perché un terzo dei parlamentari se si votasse in primavera non otterrebbe l’agognato vitalizio.
«Bisogna che i candidati siano spinti dal basso e non calati dall’alto», sostiene poi Alfano, tentando di lanciare un amo all’Udc. Ma quello che per il Pdl non è «oggetto di negoziazione» è l’indicazione del premier e della coalizione nella scheda. In ogni caso i veri giochi si faranno in gennaio, quando si saprà la sorte del quesito promosso da Parisi e Di Pietro.
Per adesso, tutti saltano sul carro, sbandierando numeri in libertà: Sel dice di aver contribuito raccogliendo 150 mila firme, i giovani finiani di Generazione Futuro 50 mila, i Liberal di Enzo Bianco 10 mila, solo il Pd di Milano ne rivendica 23 mila e l’Idv 500 mila. Quel che è certo è che «il successo clamoroso» rivendicato ieri da Di Pietro, insomma quello che il professor Morrone presidente del Comitato promotore definisce «il miracolo delle 500 mila firme necessarie già pronte in 199 scatoloni per essere consegnate», ha già prodotto i primi frutti: Berlusconi dice che bisogna accelerare con le riforme costituzionali e la legge elettorale. E dopo il vertice di maggioranza, Quagliariello esce e annuncia che entro 40 giorni ci sarà il primo voto in aula al Senato.

l’Unità 30.9.11
Scontro con i radicali. Il gruppo del Pd rinvia la decisione ai vertici del partito
Il Direttivo del gruppo Pd alla Camera non decide alcuna sanzione nei confronti dei radicali che l’altro giorno non hanno votato la sfiducia a Romano. «Questione politica» dicono alla Camera. «Parlamentare», secondo il Nazareno
di Maria Zegarelli


La questione è «squisitamente» parlamentare o politica? Bella domanda. Nel Pd sulla vicenda del non voto alla sfiducia per ministro Francesco Saverio Romano, l’altro ieri alla Camera, da parte dei Radicali, la risposta non è una soltanto. Ieri il direttivo del gruppo si è riunito per decidere quale posizione prendere nei confronti dei sei pannelliani (dal richiamo all’espulsione tutto era possibile) e alla fine, dopo una discussione non proprio serena, ha deciso di non procedere con alcun provvedimento. Si tratta di un «nodo politico» quindi da risolvere più al Nazareno che a Montecitorio. Di parere opposto il segretario Pier Luigi Bersani secondo il quale è una questione «parlamentare» e quindi come tale andrebbe trattata. In mezzo c’è il partito con i suoi parlamentari e anche qui le linee sono almeno due: chi vorrebbe l’espulsione e chi invece ritiene che una «bella lavata di testa» possa bastare, anche perché come ragiona un ex popolare «abbiamo di fronte altri voti importanti e regalarne altri sei alla maggioranza mi sembra francamente troppo». Emilia De Biasi, invece, pone un’altra argomentazione contro l’espulsione: «Ricorda dice tanto i vecchi metodi Pci». Di traverso, invece, c’è Pannella: «I democratici sono dei poveracci. Un partito vuoto di idee, D’Alema e Berlusconi sono ufficialmente una coppia fissa».
Dario Franceschini spiega così la decisione del Direttivo: «C’è da affrontare un nodo politico, quello del rapporto tra il Pd e i radicali, un problema che non può che essere affrontato dai leader dei partiti», vale a dire Pannella e Bersani (che non è affatto intenzionato a seguire questa strada). Ma i deputati fanno notare che anche volendo la questione è complessa perché con i due radicali che siedono a Palazzo Madama, per esempio, che si fa? Senza considerare anche che la sospensione sarebbe impraticabile, dal momento che i Radicali si sono autosospesi dal maggio 2010 proprio a causa della «mancanza di comunicazione» che lamentano verso il partito.
A Rosy Bindi non piace la decisione del direttivo del gruppo: «Da presidente dell’Assemblea Pd trovo bizzarro che il gruppo rinvii al decisione al partito visto che i radicali non ne fanno parte. Quindi la direzione di lunedì rinvierà il tema ai gruppi». I radicali dal canto loro, dopo aver incontrato Dario Franceschini prima del Direttivo, rivendicano la loro posizione. Elisabetta Zamparutti, Marco Bertrandi e Rita Bernardini, hanno ribadito che il problema delle carceri è prioritario. «Abbiamo fatto presente a Franceschini dice Bernardini i motivi che ci hanno portato a prendere la decisione di non partecipare al voto: il giorno prima al Senato c’è stato un voto unanime contro la soluzione che proponiamo da tempo per risolvere il problema delle carceri». «Mi pare incredibile che il Pd ipotizzi vie disciplinari ai problemi gravissimi che abbiamo posto con la nostra non partecipazione al voto», aggiunge Beltrandi. Ironizza Pannella: «Leggo che il coraggioso e gentile presidente Franceschini, per il compleanno di Bersani gli ha fatto il dono di rimettergli l’empito espulsivo suo e di qualche altro compagno. Il mio dono è lo stesso. Con i miei migliori auguri».
Ma di fare ironia, Beppe Fioroni a parte che si attesta la battuta migliore, «I radicali? Rendiamoli liberi», non ha voglia nessuno. Per Antonello Giacomelli, franceschiniano, «si dovrebbe prendere atto che, quale che sia il giudizio che ne diamo, una fase si è conclusa e che ora è auspicabile arrivare a una separazione». A Franceschini ieri è anche arrivata una lettera di Sarubbi, De Torre, Rubinato e Bobba, nella quale sottolineano come quel non voto sancisca di fatto «autoesclusione» dei sei dal gruppo. Grande l’insofferenza degli ex popolari, non da ora, che preferirebbero se non l‘espulsione quanto meno la separazione. Di diverso avviso Francesco Boccia, che ragiona: «Certe cose si potevano dire e discutere prima nel partito», ma di espulsione non si parla. Contrario anche Pierluigi Castagnetti, mentre per Barbara Pollastrini la scelta dei Radicali di non votare è stata «sbagliata nel merito e nel metodo,quindi è giusto e necessario un chiarimento serio sulle ragioni e i principi della nostra collaborazione e alleanza». Per Bindi, quando «si fa parte di una squadra, ci si comporta secondo le regole di una squadra». Intanto i Radicali annunciano querele contro chi ha lasciato intendere che dietro a tutto ci sarebbe stata una telefonata di Denis Verdini poco prima della «chiama» per il voto di sfiducia.

il Riformista 30.9.11
Radicali e democrazia nei partiti
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/66914011

l’Unità 30.9.11
Radicali, inchieste, cinture di castità: i regali al grande Capo
di Francesca Fornario


N el quartier generale del Pdl. «Tanti auguri a meeee!!! Tanti Auguri a meeee!!!! Tanti auguri Imperatoresupremodelcosmooooo!!! Tanti auguri a meeee». «Capo, Tarantini ti ha mandato una torta con dentro una ragazza». «Certo Cicca, perché gli ho spiegato che devo stare a dieta». «E poi c'è questo pacchetto». «Uhm, vediamo... è un deodorante per ambienti. Che dice il biglietto?». «Tanti auguri Coso». «Allora è da parte di Bagnasco. Non non vuole fare nomi». «E quel pacco lì grande Cicca?». «È da parte di Bersani, tieni il biglietto». «Caro Silvio, nel giorno del tuo compleanno ho pensato di regalarti questi sei deputati radicali usati pochissimo». «Mettili insieme agli altri, ai piedi del letto». «Ai piedi del letto?». «La notte, quando non riesco a prendere sonno, conto i deputati che saltano da una parte all'altra». «C'è anche questo, è da parte di Laudati, il procuratore capo di Bari sospettato di aver rallentato le indagini per favorirti». «Che gentile... guarda che bello Cicca: è un nuovo rinvio dell'inchiesta sulle escort. Stavolta si è inventato che non può proseguire le indagini perché non trova la pipa e non ha fatto in tempo a ritirare l'impermeabile dalla tintoria». «Questo è da parte di Gianni Letta». «Sarà la solita cravatta». «No, è una cintura. Di castità. Capo, che ne dici di spegnere le candeline? Così poi ci mettiamoci al lavoro che dobbiamo inventarci qualcosa per questo decreto sviluppo». «Pensavo a uno scudo fiscale». «Non mi pare il momento: dall'Italia sono evasi in svizzera oltre 300 miliardi di euro, la Corte dei Conti dice che dobbiamo intensificare i controlli». «La Gelmini dice che secondo lei basterebbe chiudere quel maledetto tunnel». «Dai, Capo, spegni le candeline che ci rimettiamo al lavoro». «FUUUFFF!». «Bravo! Capo E ora al lavoro». «Dove vai, aspetta: Sono del tipo che si spegne e si riaccende». «Lo immaginavo».

il Fatto 30.9.11
Farfalline in volo su Pannella & C.
di Pino Corrias


IERI A RADIO RADICALE si sono guadagnati l’osso da rosicchiare e non stavano nella pelle dall’eccitazione. Corridoi pieni, microfoni intasati, Emma & Marco che non la smettevano più di telefonare per congratularsi a vicenda. Cuori davvero felici come le bimbe di Berlusconi quando incassano il bonus e soprattutto fregano la concorrenza, accoltellando l’amica. Tutti a bere l’inchiostro che finalmente sgocciolava dai giornali su di loro: i sei ribelli radicali si astengono su Saverio Romano! I radicali ingannano la sinistra! Evviva, esistiamo! Parlano di noi!, gongolavano euforici. Un bel gesto. La loro personale trasvolata su Fiume o un fiumiciattolo. Compiuta per il bene dei detenuti. I quali c’entrano esattamente come qualunque altro cavolo a merenda del ricco palinsesto radicale: la fame nel mondo, i diritti dei Montagnard in Vietnam, la sopravvivenza delle balene, dell’Esperanto e di Marco Pannella che dal secolo scorso è in sciopero della fame, della sete e del senno. Bravi, bravissimi hanno commentato Berlusconi, Cosentino e Verdini. Stai a vedere che adesso li chiama Bonaiuti e finalmente sgancia gli 8 milioni di finanziamento pubblico per Radio Radicale, tutti in contanti. Oppure in farfalline.

Repubblica 30.9.11
I capezzoncini
di Alessandra Longo


I radicali non censurano i messaggi in rete. È per questo motivo che si può leggere online il malessere di famiglia che si è creato dopo la scelta dei sei deputati pannelliani di astenersi sulla mozione di sfiducia al ministro Romano. Prendiamo fior da fiore: «Mi vergogno di avervi votato. Mai più!»; «Continuo a volervi bene ma mi dispiace per il vostro masochismo. Avete fatto una cagnara fuori tema con efficacia zero»; «Mi vergogno di aver fatto parte di questo partito. La battaglia per l´amnistia è giusta, ma non va fatta a discapito di quella per la legalità»; «La situazione delle carceri è un tema drammatico, il ministro sospettato di mafia è un´altra cosa. Sono iscritto al partito radicale da anni. Mi avete deluso. Siete una banda di capezzoncini».

il Fatto Lettere 30.9.11
I Radicali e il voto su Romano


Non riesco davvero più a capire i Radicali. Non hanno partecipato al voto sulla mozione di sfiducia nei confronti del Ministro per l’Agricoltura Francesco Saverio Romano, promossa da Pd ed Idv. Persino l’Udc, ex partito di provenienza del politico siciliano, ha votato per sfiduciarlo. Doverosa, ammirabile e condivisibile la loro battaglia sulla questione drammatica della condizione carceraria. Ma la legalità e la trasparenza delle istituzioni e della politica, da sempre nel Dna radicale, non comprendono forse anche l’opportunità di allontanare da una carica pubblica un indagato per ipotesi di reato relative a presunto favoreggiamento esterno in associazione mafiosa? Il Senato ha bocciato la loro proposta di amnistia e capisco la loro delusione. Ricordo però che siedono in Parlamento grazie alla candidatura nelle liste del Partito Democratico, che Pannella ora paragona al Pcus, soltanto perché Rosy Bindi, presidente del partito e Dario Franceschini, capogruppo alla Camera, hanno chiesto spiegazioni e paventato l’ipotesi di espulsione. Ricordo che il radicale Beltrandi votò in primavera contro l’accorpamento di elezioni amministrative e referendum (memoria gente, memoria). Il Pd non é un autobus dal quale salire e scendere a piacimento; non é il tappetino all’ingresso di casa. Romano l’avrebbe fatta franca in ogni caso, grazie alla Lega Nord per il salvataggio di quegli allevatori furbi, morosi sulle multe non pagate per l’eccesso di quote latte prodotte. Ma avrei voluto vedere l’opposizione compatta e con tutte le critiche (spesso strumentali) meritate dal PD, dico che é ora di tirare su la schiena e farsi rispettare. I Radicali, per quanto mi riguarda, la prossima volta possono candidarsi da soli.
Andrea Di Meo

il Fatto 30.9.11
È l’ora di ricucire l’Italia
di Gustavo Zagrebelsky


Sabato 8 ottobre, a Milano, a partire dalle ore 14:30, Libertà e Giustizia organizza una grande manifestazione nazionale dal titolo “Per ricucire l’Italia”. Coordinati da Luisella Costamagna, si alterneranno sul palco Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Salvatore Veca, Carlo Smuraglia, Paul Ginsborg, Marco Revelli, Bruno Tinti, Lorenza Carlassare, Marco Travaglio, il sindaco Giuliano Pisapia e altri. Tutte le informazioni sull’iniziativa e sulle possibili modalità per contribuirvi e sostenerla si trovano sul sito www.libertaegiustizia.it  . Ecco l’appello scritto dal presidente onorario di L&G, Gustavo Zagrebelsky

 L’anno dell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia rischia di concludersi così. Così, come? Con una frattura profonda. Sempre più e rapidamente, una parte crescente del popolo italiano si allontana da coloro che, in questo momento, sono chiamati a rappresentarlo e governarlo. I segni del distacco sono inequivocabili, per ora e per fortuna tutti entro i limiti della legalità: elezioni amministrative che premiano candidati subìti dai giri consolidati della politica; referendum vinti, stravinti e da vincere nell’ostilità, nell’indifferenza o nell’ambiguità dei maggiori partiti; movimenti, associazioni, mobilitazioni spontanee espressione di passioni politiche e di esigenze di rinnovamento che chiedono rappresentanza contro l’immobilismo della politica.
 IL DILEMMA è se alla frattura debbano subentrare la frustrazione, l’indifferenza, lo sterile dileggio, o l’insofferenza e la reazione violenta, com’è facile che avvenga in assenza di sbocchi; oppure, com’è più difficile ma necessario, se il bisogno di partecipazione e rappresentanza politica riesca a farsi largo nelle strutture sclerotizzate della politica del nostro Paese, bloccato da poteri autoreferenziali la cui ragion d’essere è il potere per il potere, spesso conquistato, mantenuto e accresciuto al limite o oltre il limite della legalità.
 Si dice: il Governo ha pur tuttavia la fiducia del Parlamento e questo, intanto, basta ad assicurare la legalità democratica. Ma oggi avvertiamo che c’è una fiducia più profonda che deve essere ripristinata, la fiducia dei cittadini in un Parlamento in cui possano riconoscersi. Un Parlamento che, di fronte a fatti sotto ogni punto di vista ingiustificabili, alla manifesta incapacità di condurre il Paese in spirito di concordia fuori della presente crisi economica e sociale, al discredito dell’Italia presso le altre nazioni, non revoca la fiducia a questo governo, mentre il Paese è in subbuglio e in sofferenza nelle sue parti più deboli, non è forse esso stesso la prova che il rapporto di rappresentanza si è spezzato? Chi ci governa e chi lo sostiene, così sostenendo anche se stesso, vive ormai in un mondo lontano, anzi in un mondo alla rovescia rispetto a quello che dovrebbe rappresentare.
 NOI PROVIAMO scandalo per ciò che traspare dalle stanze del governo. Ma non è questo, forse, il peggio. Ci pare anche più gravemente offensivo del comune sentimento del pudore politico un Parlamento che, in maggioranza, continua a sostenerlo, al di là d’ogni dignità personale dei suoi membri che, per “non mollare” – come dicono –, sono disposti ad accecarsi di fronte alla lampante verità dei fatti e, con il voto, a trasformare il vero in falso e il falso in vero, e così non esitano a compromettere nel discredito, oltre a se stessi, anche le istituzioni parlamentari e, con esse, la stessa democrazia. Sono, queste, parole che non avremmo voluto né pensare né dire. Ma non dobbiamo tacerle, consapevoli della gravità di ciò che diciamo. Il nodo da sciogliere per ricomporre la frattura tra il Paese e le sue istituzioni politiche non riguarda solo il Governo e il Presidente del Consiglio, ma anche il Parlamento, che deve essere ciò per cui esiste, il luogo prezioso e insostituibile della rappresentanza. Do-v’è la prudenza? In chi assiste passivamente, aspettando chissà quale deus ex machina e assistendo al degrado come se fossimo nella normalità democratica, oppure in chi, a tutti i livelli, nell’esercizio delle proprie funzioni e nell’adempimento delle proprie responsabilità, dentro e fuori le istituzioni, dentro e fuori i partiti, opera nell’unico modo che la democrazia prevede per sciogliere il nodo che la stringe: ridare al più presto la parola ai cittadini, affinché si esprimano in una leale competizione politica.
 NON PER realizzare rivincite, ma per guardare più lontano, cioè a un Parlamento della Nazione, capace di discutere e dividersi ma anche di concordare e unirsi al di sopra d’interessi di persone, fazioni, giri di potere. Dunque, prima di tutto, ci si dia un onesto sistema elettorale, diverso da quello attuale, fatto apposta per ingannare gli elettori, facendoli credere sovrani, mentre sono sudditi. Le celebrazioni dei 150 anni di unità hanno visto una straordinaria partecipazione popolare, che certamente ha assunto il significato dell’orgogliosa rivendicazione d’appartenenza a una società che vuole preservare la sua unità e la sua democrazia, secondo la Costituzione. Interrogandoci sui due cardini della vita costituzionale, la libertà e l’uguaglianza, nella nostra scuola di Poppi in Casentino, nel luogo dantesco da cui si è levata 700 anni fa la maledizione contro le corti e i cortigiani che tenevano l’Italia in scacco, nel servaggio, nella viltà e nell’opportunismo, Libertà e Giustizia è stata condotta dalla pesantezza delle cose che avvolgono e paralizzano oggi il nostro Paese a proporsi per il prossimo avvenire una nuova mobilitazione delle proprie forze insieme a quelle di tutti coloro – singole persone, associazioni, movimenti, sindacati, esponenti di partiti – che avvertono la necessità di ri-nobilitare la politica e ristabilire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e in coloro che le impersonano. Che vogliono cambiare pagina per ricucire il nostro Paese.

l’Unità 30.9.11
Garagnani insiste: «Il 25 aprile servì solo ai comunisti»
Pd: unì gli italiani
di Tony Jop


«Il 25 aprile – piaccia o meno – è stata una data che ha diviso la società italiana»: così ha spiegato ieri in aula il deputato del Pdl Fabio Garagnani. Ha voluto precisare perché pochi istanti prima Emanuele Fiano, Pd, aveva lamentato il placet concesso dal governo al progetto di spostare la festa grande del paese dal 25 aprile, la vittoria della Resistenza sul nazifascismo, al 18 aprile '48, giorno della vittoria della Dc, la prima. E siccome quel progetto porta la firma di Garagnani, ecco il bisogno di rendere espliciti i motivi (moventi?) di quell' orientamento storicamente revisionista. Garagnani sostiene che il tempo è venuto, che dopo tanti anni si può riflettere senza reticenze su quel che è stato, in particolare sul senso di una ricorrenza che, secondo lui ma non solo, maschera da troppi inverni una forzatura: quella data, obietta, ha diviso la società italiana. Preciso: come la legge si ostina a dividere le brave persone da chi delinque, così il 25 aprile insiste a separare quanti hanno gioito per la fine della guerra, per la sconfitta delle armate nere, per la Liberazione del paese da un regime di terrore e di sangue in cui il diritto era carta straccia e gli ebrei un pacco da consegnare ai lager, da chi, invece, si è rammaricato per questa conclusione di una pagina di storiche sofferenze collettive. Il principio di Garagnani non fa una grinza sotto il profilo della logica: occorre trovare una data che, invece di separare i nostalgici nazifascisti dagli antifascisti, riporti pace e fraternità nella società italiana. Ma soprattutto verità, poiché sempre secondo il deputato pidiellino che ha incassato gli applausi dei leghisti mentre parlava, il 25 aprile è vittima di una «strumentalizzazione» ad opera del Pci.
Il paese affonda, Berlusconi festeggia con miss Montenegro la latitanza di Lavitola ma in Parlamento il Pdl tenta di riscrivere la storia, attaccando il Pci. «La strumentalizzazione – analizza Garagnani con l'implacabilità di un bisturi – è servita al Partito comunista a legittimarsi all'interno del sistema politico italiano e a darsi una patente di democraticità». Verrebbe da chiedere allo specchio magico di questa Italia, dove sarebbe finita se non avesse trovato nell'immensa base comunista il primo e più coraggioso difensore dell' ordine democratico, ma pazienza. Chiediamoci invece dove va a parare questa deriva. Punta ad individuare una data che inchiodi il Pci e i suoi subdoli tentativi di strumentalizzare la storia, ad una sconfitta. Cioé: se si vuole davvero festeggiare la liberazione del paese, conviene agganciarsi alla liberazione del paese dal Pci. E quel diciotto aprile del '48 pare fatto apposta. Perfetto per chi – il Pdl del Trentino, incoraggiato da Gasparri e non smentito da Alfano nel frattempo, decide di celebrare il 150esimo dell'Unità d'Italia organizzando una gita nella Repubblica di Salò, tanto per rinverdire luoghi e situazioni che hanno saputo unire il paese. Non hanno ancora compreso che hanno perso la guerra.

l’Unità 30.9.11
L’Italia disprezza il suo «petrolio» fatto d’arte e di musica
di Giordano Montecchi, musicologo


Ci guardano da fuori e scuotono la testa: «Ma è mai possibile che gli italiani, con quei tesori d’arte, di storia, e di natura che si ritrovano fra le mani, tesori inestimabili e senza uguali al mondo, lascino andare tutto in malora?». L’ultimo a chiederselo è stato Dirk Schümer nella sua rubrica sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», uscita giorni fa con un titolo che parafrasava un celebre aforisma di Giuseppe Verdi: «Torniamo all’antico e sarà un progresso», reso in tedesco con un lapidario Zurückfortschritt (letteralmente: «progresso-indietro»). «Italien vergisst seine Musik»: l’Italia dimentica la sua musica, questo il succo dell’articolo che infila il dito in un paradosso ben noto: «Ha mai sentito nominare Antonio Vivaldi? Conosce la musica di Claudio Monteverdi?». Domande del genere, osserva Schümer, sono assurde in qualsiasi Paese europeo tranne in Italia. Infatti la musica che dal Rinascimento al Settecento ha fatto del nostro Paese la guida dell’Europa, tanto ha successo nel mondo, quanto da noi viene praticamente ignorata. E lo stesso accade ai suoi interpreti, musicisti italiani acclamati all’estero come autentiche star, ma relegati spesso ai margini di una vita musicale nostrana, imperterrita nel rimestare i soliti titoli e autori dell’operismo ottocentesco. Schümer esagera: sì, la prorompente fioritura di interpreti e ensemble specializzati in musica rinascimentale e barocca ha condotto i complessi italiani ai vertici della scena internazionale. Ma questo, che forse è il fenomeno più clamoroso e consolante nel plumbeo panorama musicale nostrano degli ultimi decenni, comincia a raccogliere i suoi frutti anche in Italia. Da lontano però, più dei dettagli si scorge l’insieme. E oggi più che mai, quel che si vede è un Paese che sconcerta per com’è incapace di coltivare quel patrimonio che una sorte fin troppo benevola gli ha elargito. Una nazione che non si rende conto di stare seduta, anzi stravaccata sopra un tesoro che vale forse più di tutti i giacimenti di petrolio e miniere di diamanti del pianeta.
Perché l’Italia, questo francobollo di terra montagnosa, è il più grande scrigno di ricchezze culturali e artistiche del mondo. Non siamo noi a dirlo, ma l’Unesco e tutti gli osservatori internazionali che poi, per contro, ci relegano in cantina quando misurano l’avvilente piattezza del nostro attuale encefalogramma collettivo. L’ignoranza delle nostre antiche glorie musicali è solo la conferma di una deriva politica i cui effetti sono più devastanti delle più sciagurate malversazioni che quotidianamente fuoriescono dalle interiora della satrapìa che tiene in pugno il paese: è un crimine contro l’umanità, è la dissipazione della nostra vera e ineguagliabile fortuna che se compresa e valorizzata, fra parentesi, farebbe di noi il Paese più ricco del globo.

Corriere della Sera 30.9.11
Governo battuto su mozione del Pd:
8 per mille alle scuole
di D. Mart.


ROMA — Otto per mille alle scuole pubbliche: il governo è stato battuto alla Camera su una mozione del Partito democratico che è passata in Aula con 247 voti favorevoli e 223 contrari. Il documento, primo firmatario Antonino Russo, «impegna il governo» affinché si consenta «ai cittadini di indicare esplicitamente la "scuola pubblica" come destinataria di una quota fiscale dell'otto per mille da utilizzare d'intesa con gli enti locali per la sicurezza e l'adeguamento funzionale degli edifici...». E come è stato chiarito — dopo che l'intero provvedimento è stato licenziato per il Senato — il beneficio economico che ne consegue riguarda tutte le «scuole pubbliche»: ovvero le statali e le parificate.
«Si tratta della novantesima sconfitta del governo», ha osservato Antonino Russo (Pd) ma il voto sfavorevole al parere dato dall'esecutivo è stato interpretato dalla maggioranza come un attacco alle scuole cattoliche. Così la Lega è partita alla carica contro i centristi di Pier Ferdinando Casini: «L'Udc ha svenduto per 30 denari la scuola cattolica e paritaria al solo scopo di fare un dispetto a Silvio Berlusconi», hanno scritto in una nota Massimo Poledri, Paola Goisis e Gianluca Pini che hanno pure previsto «il crollo di un tetto sopra la testa di un bambino di una scuola cattolica». Ma era stato il sottosegretario Carlo Giovanardi, in Aula, ad aprire le ostilità contro l'Udc: «Chiedere di mettere in sicurezza gli edifici della scuola pubblica e non anche delle scuole convenzionate, dove i bambini hanno gli stessi problemi di sicurezza, è qualcosa che non può essere accettato».
Al sottosegretario ha risposto in aula Rosa De Pasquale del Pd che ha citato la legge Berlinguer del 2000: «Da allora nella nozione di scuola pubblica sono state comprese la scuola statale e quella paritaria, quindi quando parliamo di scuola pubblica parliamo anche di scuola paritaria che appartiene ai comuni, alle comunità religiose e a chiunque altro». E anche Paola Binetti dell'Udc ha voluto tranquillizzare i colleghi della maggioranza: «Questo ordine del giorno può aprire la strada affinché, attraverso i contributi versati da coloro che sono interessati alle scuole paritarie, possano arrivare contributi derivanti dall'otto per mille, a parziale compensazione di quanto lo Stato attualmente non fa». E anche Rocco Buttiglione (Udc) si è voluto togliere un sassolino dalla scarpa: lo ha fatto ricordando ai leghisti e a Giovanardi che l'ordine del giorno Russo chiede che «si indichi, fra le destinazioni dell'otto per mille dello Stato (non quello della Chiesa Cattolica), anche quella della edilizia scolastica della scuola pubblica».

San Raffaele... gli amici di Cacciari e di Vendola
Corriere della Sera 30.9.11
Lo schiaffo della Procura agli uomini del Vaticano
di Mario Gerevini


MILANO — Ora che arriva lo schiaffo della Procura e che un documento riservato racconta come sono stati nominati gli uomini della Santa Sede nel San Raffaele, è ancor più un mistero la ragione per cui il Vaticano si sia infilato nella missione di salvataggio di don Luigi Verzé. L'operazione, a quel che si dice, era avallata dal segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone. Ma è vista con sempre più freddezza dalle alte sfere vaticane.
Con l'arrivo del nuovo arcivescovo di Milano, Angelo Scola, la priorità sembra essere la «pacificazione» dell'Istituto Toniolo, porta d'ingresso all'Università Cattolica e al Policlinico Gemelli, sul cui controllo si sono scontrate le varie anime delle gerarchie ecclesiastiche.
L'affare San Raffaele si tinge subito di rosso e di tragedia con il suicidio (18 luglio) di Mario Cal, braccio destro di don Verzé. Un fatto che spalanca le porte alla magistratura. E già si sussurrava di presunte tangenti a uomini politici, del «nero» con i fornitori, di possibili disponibilità estere. I pm Luigi Orsi e Laura Pedio danno tempo fino al 15 settembre per un piano serio e concreto di salvataggio altrimenti minacciano il fallimento. Il 15 arriva sul tavolo della Procura un progetto Ior (banca vaticana)-Malacalza (imprenditori genovesi vicini al cardinal Bertone) che prevede 250 milioni cash. Però è una bozza zoppa: manca il sigillo degli esperti che devono dire se quel progetto è davvero in grado di salvare il San Raffaele. Ci vuole tempo. La Fondazione Monte Tabor, al vertice del gruppo, dice che presenterà il concordato (di cui il piano è presupposto essenziale) entro il 10 ottobre. Ma ogni giorno in più fa la differenza: le banche stanno facendo «saltare» uno dopo l'altro i fornitori che da mesi, se non da anni, aspettano i soldi.
Eppure il 23 marzo don Verzé aveva dichiarato urbi et orbi che era una nuvoletta passeggera, che entro aprile tutto è risolto e che i fornitori saranno pagati fino all'ultimo euro. Bugia della speranza. A giugno si presenta con i soldi in mano l'imprenditore della sanità Giuseppe Rotelli a capo del gruppo San Donato. Respinto a favore delle promesse d'Oltretevere.
E ora i «vaticani» si sentono dire dal procuratore capo Edmondo Bruti Liberati che il fallimento viene chiesto anche per «arrestare ulteriori dissipazioni patrimoniali». Ulteriori? Ma non è in mano loro la gestione? La risposta è sì. Andiamo a vedere chi è formalmente il «mandante». Il documento è un verbale dell'Associazione Monte Tabor, consiglio di amministrazione dell'8 luglio scorso. Ordine del giorno: «Presa d'atto delle dimissioni dei consiglieri della Fondazione Monte Tabor e nomina del nuovo consiglio di amministrazione».
L'associazione è la culla del potere del San Raffaele, riunisce i Sigilli, ovvero la cerchia ristretta (10-15 membri) dei fedelissimi di don Verzé che vivono in comunità in una bella cascina a fianco dell'ospedale. I soci dell'associazione sono di più ma misteriosi. È in quella riunione che vengono nominati «a norma — si legge — dell'articolo 5 dello statuto della Fondazione Monte Tabor», i sei nuovi consiglieri (Giuseppe Profiti, Ettore Gotti Tedeschi, Vittorio Malacalza, Giovanni Maria Flick, Massimo Clementi, Maurizio Pini) e don Verzé indicato ancora come presidente. Così il 15 luglio, sette giorni dopo, nominati da don Verzé e dai suoi Sigilli, entrano gli uomini della Santa Sede. Nessuno finora ha pensato di modificare lo statuto. Anche perché per farlo occorrerebbe «il parere favorevole dell'Associazione Monte Tabor». Cioè di don Verzé. Alla fine il tappo è lì. E quelli del Vaticano hanno ricevuto il potere da quelli della Cascina.

Corriere della Sera 30.9.11
Dopo l’intervento di Bagnasco
Ritorno dei cattolici in politica
L’inspiegabile silenzio del Pd
di Paolo Franchi

qui
http://www.scribd.com/doc/66912298

l’Unità 30.9.11
Primavera. Le rivolte in Nord Africa e Medio Oriente accrescono l’amore per il Paese d’origine
Integrazione fra i valori familiari e la lealtà all’Italia: «Ma non dite che ci manca qualcosa»
Generazione due: orgoglio musulmano e voglia di votare
La ricerca: ragazze e ragazzi islamici che vivono nel nostro Paese sono orgogliosi delle loro origini ma legati all’Italia. D’Alema e Fini: l’integrazione si fa con i diritti di cittadinanza e politici. Meloni: italiano chi ha studiato qui
di Jolanda Bufalini


Ambiguità del dizionario e pregnanza dell’esperienza vissuta: i giovani musulmani (marocchini,egiziani, pakistani) intervistati per la ricerca qualitativa condotta da Mario Abis in collaborazione con Italianieuropei, Genemaghrebina e Centro studi americani, non amano la parola integrazione perché la percepiscono come «mancanza di qualcosa che debbono integrare». È il dato della ricerca che ha più colpito il presidente della Camera e anche il ministro Giorgia Meloni, che hanno partecipato, con Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Federico Ghizzoni, Maurizio Sacconi, alla discussione sulla ricerca finalizzata a identificare un modello di integrazione che superi assimilazione e multiculturalismo. L’altro dato che colpisce è la differenza di percezione dell’Italia che ragazze e ragazzi della «seconda generazione» hanno rispetto ai loro genitori. Gli immigrati di prima generazione vedono l’Italia come il Paese dell’accoglienza, «una società ricca, aperta, curiosa». «È il passato», dice Mario Abis, l’Italia attuale è per i giovani «chiusa e ignorante, non è un modello attrattivo», è l’immagine di un paese in declino. Questi ragazzi denunciano l’ignoranza sull’islam, sulle sue differenze, pensano che «lo spartiacque» che li ha schiacciati sull’estremismo islamico sia l’11 settembre e che una grande responsabilità di questa situazione sia dei mass media. Ignoranza che crea disagio, come raccontano le testimonianze raccolte nel film curato da Karima Moual. Sulla questione del velo, per esempio, che le ragazze considerano «una scelta libera», guardata con rispetto per ragioni identitarie e religiose anche da chi ha scelto di camminare con la testa scoperta e che, invece, viene percepita con ostilità dall’ambiente italiano in cui si vive. Cosa che ha conseguenze gravi di discriminazione femminile, poiché per una ragazza con il fazzoletto in testa è difficile, quasi impossibile trovare lavoro. Dalle interviste viene fuori una doppia identità: italiani a tutti gli effetti ma anche orgogliosamente legati alle loro radici, alla cultura del paese di origine, ai genitori e al sentimento religioso. Un orgoglio rafforzato dalla primavera araba. «È molto diverso dirà D’Alema pensare al paese d’origine dove c’è la dittatura, un altro sapere che lì si spinge per entrare nel mondo delle democrazie».
Su questa doppia appartenenza, considerata come ricchezza valoriale, dovrebbe costruirsi (secondo gli studiosi, c’erano anche Renzo Guolo e Giancarlo Bosetti) il modello di integrazione per la G2 (la seconda generazione), evitando gli errori compiuti da altri paesi e esemplificati dalle rivolte delle banlieues parigine.
La risposta dei politici si concentra sulla questione della cittadinanza, a parte la frecciata di Gianfranco Fini sui costumi politici: «Alcuni esempi difficilmente rafforzano in questi giovani la percezione che essere occidentali significa anche avere un’etica pubblica e un’etica della responsabilità». Per il presidente della Camera il rebus della doppia patria, amore per il Paese in cui si vive, legame con la patria di provenienza, si risolve con l’«idea di nazione» che significa «cittadinanza attiva, condivisione di n progetto civile e sociale». Anche per Massimo D’Alema la sfida, italiana ed europea, dell’integrazione passa attraverso il diritto di voto. E ciò travalica la questione dei migranti per investire la qualità della nostra democrazia: «Privare lavoratori regolari dei diritti politici significa disegnare una democrazia censitaria». È un tema su cui ci dovrebbe essere una convergenza bipartisan. Altro punto che emerge come importante dalla ricerca e che D’Alema rilancia è quello della libertà religiosa: «È incredibile che l’Italia non si sia data una legge sulla libertà religiosa e che l’esercizio del culto sia legato al regime pattizio».
Sulla cittadinanza agli immigrati c’è una timida apertura del ministro Meloni: «Sgombrando il campo da altri aspetti su cui non siamo d’accordo la convergenza si può trovare sui giovani che hanno studiato in Italia, poiché è la scuola che forma i cittadini».
Intanto giacciono da tempo immemorabile le proposte di legge, compresa quella di Gianfranco Fini e il progetto Fli-Pd Granata-Sarubbi. L’associazione Genemagrebina ha avviato la raccolta di firme su una legge di iniziativa popolare.

l’Unità 30.9.11
I numeri
Il 10% della popolazione è costituita da immigrati


L’islam è la religione più diffusa fra le comunità immigrate in Italia, si tratta oggi di circa un milione e mezzo di individui che, tuttavia, si diversificano molto quanto a culture nazionali. Un dato a cui spesso non si pone attenzione è che il 30% circa dei musulmani che vive in Italia
è originario di paesi europei. I marocchini sono la comunità più numerosa, una differenza molto significativa rispetto ai dati del 2004 è la presenza delle donne, il 36 per cento circa dell’intera popolazione islamica. Un aumento significativo rispetto al 2003 quando in Italia c’erano solo 5000 donne musulmane, dovuto soprattutto ai ricongiungimenti familiari.
I bambini figli di immigrati nati in Italia sono 572.000. Il 10 per cento della popolazione italiana è costituita da persone immigrate ma la ricchezza nazionale prodotta da immigrati è superiore al 10 per cento e, soprattutto, si tratta di un segmento di popolazione giovane che paga i contributi al sistema previdenziale senza ricevere pensioni e rappresenta, quindi, un contributo importante per l’economia nazionale.

l’Unità 30.9.11
Seduta plenaria del Parlamento europeo sulla richiesta di riconoscimento presentata all’Onu
Convergenza la mozione è stata votata dai gruppi di socialisti, popolari, liberali e verdi
Strasburgo approva Abu Mazen «Legittimo lo Stato di Palestina»
Il Parlamento europeo vota ad alzata di mano sulla richiesta di riconoscimento della Palestina all’Onu e a maggioranza la ritiene «legittima». Il presidente Jerzy Buzek: lo status quo non è più un’opzione praticabile
di Umberto De Giovannangeli


Una presa di posizione destinata a lasciare il segno. Un sostegno importante per il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). Gli eurodeputati giudicano «legittima» la richiesta d'adesione all'Onu di uno Stato di Palestina, formulata la settimana scorsa dall'Autorità nazionale palestinese, e chiedono lo stop alla costruzione o all'estensione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. In una risoluzione adottata a larga maggioranza il Parlamento europeo «chiede agli Stati membri, appoggiandoli, di essere uniti nel loro atteggiamento verso la domanda legittima del popolo palestinese di essere rappresentato come Stato alle Nazioni Unite presentata dall'Autorità palestinese, e di evitare le divisioni tra gli Stati membri». Nel testo approvato si afferma «l'indiscutibilità tanto del diritto del popolo palestinese all' autodeterminazione e a un proprio Stato sovrano quanto del diritto di esistenza dello Stato d'Israele entro frontiere sicure». Inoltre è scritto che «non dovrebbero essere accettate modifiche ai confini precedenti al 1967, anche per quanto riguarda Gerusalemme, se non quelle concordate tra le parti». Inoltre, confermando quanto dichiarato dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton, nel corso del dibattito in aula tenuto martedì scorso, il Parlamento chiede al governo israeliano di fermare la costruzione e l'ampliamento degli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e insiste sulla necessità di trovare un accordo su una tregua definitiva che eviti lanci di missili dalla Striscia di Gaza verso Israele. D’altro canto, è stata la stessa Ashton a ribadire a più riprese che l’Unione sostiene il principio dei «due Stati» sui confini del 1967 con Gerusalemme capitale. Un'impostazione avvalorata e rafforzata ora dalla risoluzione parlamentare. Un’indicazione che i governi del 27 Paesi dell’Unione europea non potranno ignorare. «La richiesta di riconoscimento da parte dell'Autorità palestinese ha osservato il presidente del Parlamento europeo, Jerzy Buzek deve portare all’immediato rilancio dei colloqui di pace, con scadenze definite, come proposto dal Quartetto il 23 settembre». «Lo status quo ha aggiunto Buzek non è più un'opzione praticabile, alla luce degli enormi cambiamenti portati dalla Primavera Araba. Ormai è tempo di pace».
SALTO DI QUALITÀ
«L'approvazione della risoluzione del Parlamento europeo sulla Palestina costituisce un fatto politico di grande importanza; che indica con chiarezza come le principali famiglie politiche europee siano unite nel sostenere l'aspirazione del popolo palestinese a essere rappresentato come Stato alle Nazioni Unite», afferma Roberto Gualtieri, deputato europeo del Partito democratico, tra gli autori della risoluzione votata ieri dall'aula di Strasburgo. «Questo voto continua Gualtieri rafforza l'importante azione svolta dall'Ue nell'ambito del Quartetto e indica chiaramente la necessità che i Paesi europei siano uniti in un eventuale voto dell'Assemblea generale sull'acquisizione dello status di "Stato non membro" da parte della Palestina. Questa unità può rivelarsi decisiva nel disincentivare provocazioni (come la ripresa annunciata degli insediamenti) che rischiano di bloccare sul nascere il negoziato, oltre a costituire un doveroso sostegno a una rivendicazione del tutto legittima un cui eventuale rifiuto risulterebbe incomprensibile».«Ci auguriamo ora che il ministro Frattini conclude Gualtieriprenda atto del voto compatto del Parlamento europeo e della stragrande maggioranza dei deputati italiani (compreso il Pdl) e si esprima con chiarezza a sostegno della posizione europea».
DIPLOMAZIA IN MOVIMENTO
Da Strasburgo a Ramallah, con lo “sguardo” sempre puntato sul Palazzo di Vetro. L’Intifada diplomatica sta dando i suoi frutti: finora sono otto i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che dovrebbero votare a favore della richiesta dei palestinesi di riconoscere il loro Stato: a sostenerlo è il ministro degli Esteri dell'Anp Riad Malki, precisando che si tratta di Russia, Cina, India, Sudafrica, Brasile, Libano, Nigeria e Gabon. La Nigeria e il Gabon, ha aggiunto Malki, erano inizialmente indecisi, ma alti funzionari dei due Paesi hanno infine assicurato i palestinesi del loro sostegno. Ora l'Anp sta lavorando per convincere anche Bosnia e Colombia.

La Stampa 30.9.11
Intervista
“Nessuno potrà fermare la nascita della Palestina”
Abu Mazen: se Obama mette il veto va contro i principi stessi dell’America
di Rachida Dergham


IN ROTTA CON BLAIR «Le sue posizioni sono inaccettabili, a volte persino per il Quartetto»
TURCHIA, SIRIA E IRAN «Abbiamo una relazione eccellente con Erdogan Ma dialoghiamo con tutti»

Presidente, come si è sentito a parlare davanti all’Assemblea Generale? Che cos’ha provato in un momento simile?
«Sentivo di essere testimone di un evento storico, di essere lì a presentare una richiesta giusta e sacrosanta: il diritto di ottenere uno Stato che sia a pieno titolo membro delle Nazioni Unite, come tutti gli altri. Mi è sembrato che se si fosse votato in quel momento avremmo avuto un appoggio unanime. Ma purtroppo ci sono persone che vogliono impedire al popolo palestinese di raggiungere questo traguardo e l’unica cosa da fare è essere pazienti».
Teme le reazioni? Pensa che quest’avventura possa avere conseguenze indesiderate?
«Non è un’avventura. Al contrario, è uno sforzo ben calcolato. Per oltre un anno abbiamo discusso la questione e l’abbiamo esaminata da ogni angolo. Ne abbiamo parlato con le altre nazioni arabe e con la Lega Araba, che sono sempre state al corrente di ogni nostro passo. Siamo stati chiari con tutti, senza trucchi. Nei nostri incontri e nelle nostre dichiarazioni, è sempre stata palese la nostra posizione».
L’eventuale veto degli Stati Uniti vi pone davanti a un bivio. State valutando delle alternative?
«Torneremo in patria e studieremo tutte le possibilità. Ogni proposta che riceveremo sarà presa attentamente in considerazione, ferme restando le condizioni che abbiamo posto. La realtà è che vogliamo tornare a negoziare. Ma senza il riconoscimento delle frontiere del 1967 e senza che gli insediamenti si fermino, non ci siederemo ad alcun tavolo. Attendiamo che la decisione del Consiglio di Sicurezza venga presa e tutti i passi formali. Ma rifiutiamo ogni gioco politico, ogni tentativo di fare ostruzionismo o temporeggiare».
Se la decisione del Consiglio di Sicurezza sarà rinviata, c’è la possibilità che per la Palestina vi sia un posto nell’Onu come «Stato osservatore»?
«Non è una soluzione che stiamo considerando in questo momento. Ripeto: rifiutiamo ogni tipo di rinvio o ostruzionismo.
Se il veto statunitense fosse confermato, la Palestina non sarà riconosciuta come Nazione e non potrà appellarsi alla Corte Penale Internazionale.
«Gli Stati Uniti, la roccaforte della democrazia, farebbero un torto al popolo palestinese negandogli la libertà e il diritto all'autodeterminazione. E dovrebbero rispondere di questa scelta».
Ma c’è chi dice: perché perdere l’appoggio di un presidente americano favorevole alla vostra causa?
«È stato il presidente degli Stati Uniti a parlare dello stop agli insediamenti, di confini del ‘67. Ora dovrebbe dare seguito alle sue parole».
Il presidente francese Sarkozy può essere l’alternativa giusta, se avanzerà delle proposte più dettagliate?
«Apprezziamo il suo impegno, ma daremo una risposta solo dopo aver consultato la leadership palestinese. Solo in quella sede verrà presa una decisione».
L'esperienza del Quartetto può dirsi conclusa? È deluso dalle sue posizioni?
«Purtroppo nell’ultimo anno il Quartetto non è riuscito a produrre alcun documento, come invece era avvenuto in passato. Quest’anno il Quartetto ha fallito, almeno fino ad oggi. È stato il Quartetto a rifiutare le proposte americane, non noi. La Russia, l’Europa e l’Onu hanno rifiutato le istanze americane e questo significa che erano inaccettabili per chiunque. Proposte che parlano di uno stato ebraico e del blocco degli insediamenti come se fossero un fatto compiuto e lasciano la gestione della sicurezza in mano israeliana. Di fatto è stato l’inviato del Quartetto, Tony Blair, a portare sul tavolo le idee che lo stesso Quartetto ha rigettato».
Sarkozy ha proposto di fissare un calendario per i negoziati.
«I negoziati sono la vera priorità, vengono prima della tempistica. Quello che conta è la sostanza. Se la sostanza è adeguata, allora siamo disposti a fissare una roadmap e una scadenza».
Hamas è stata critica con il suo discorso.
«Fin dall’inizio, Hamas ha detto che si sarebbe trattato di una mossa unilaterale. È vero, forse non li abbiamo consultati. Dicono “se tu non ci consulti, siamo contro di te”, ma è assurdo. Capisco il succo delle loro posizioni, ma ne hanno fatto una questione di orgoglio. Rifiutano ogni compromesso, anche con pretesti: sostengono che il discorso conteneva contraddizioni, quando invece tutto il mondo ha capito quello che abbiamo detto. È deprecabile».
Lei ha proposto qualcosa di simile a una nuova intifada.
«Non ho parlato di intifada, quella appartiene al passato. Oggi c’è invece una pacifica resistenza popolare a Bil’in, a Ni’lin e in altre città della Palestina vicine al Muro. È una resistenza condotta dai palestinesi, ma anche da israeliani e volontari internazionali. Queste proteste non violano alcuna legge internazionale, le appoggiamo perché si oppongono all’occupazione e solo finché saranno pacifiche. Ora, abbiamo imparato dai nostri fratelli arabi e dalla primavera araba. Le loro proteste pacifiche si sono dimostrate il metodo più efficace per ottenere i propri diritti».
Teme che Benjamin Netanyahu possa minacciare nuove misure?
«Dal punto di vista militare, anche senza minacce, Netanyahu può fare qualunque cosa: non siamo in grado di confrontarci con Israele su quel piano e non vogliamo farlo. Ma se lo vorrà, la nostra porta è aperta».
I primi a congratularsi con lei per il suo discorso sono stati il primo ministro turco Erdogan e l’Emiro del Qatar. Qual è la natura delle vostre relazioni, considerando la rivalità tra Iran e Turchia? E qual è il vostro rapporto con Iran e Siria?
«Qui a New York abbiamo incontrato la delegazione iraniana e quella siriana. Il ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad è venuto a congratularsi con me. Non siamo in alcun modo in cattivi rapporti. Per quanto riguarda Erdogan, la nostra relazione è eccellente, così come quella con l’Emiro del Qatar. Non abbiamo problemi con nessuno».
C’è qualcosa che teme?
«Di chi dovrei aver paura? Se Netanyahu vuole attaccarci, lo faccia. Se vuole annullare gli accordi, lo faccia. È libero di fare quello che preferisce perché è Israele la nazione occupante. Netanyahu occupa la nostra terra e può fare ciò che vuole. Ma non ci sottometteremo alla sua volontà. E ci opporremo con mezzi pacifici».
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l’Unità 30.9.11
Cina 2011: da colosso comunista a perno del capitalismo mondiale
Alla vigilia del 62 ̊compleanno la Repubblica popolare si riscopre àncora dei destini economici dei Paesi occidentali nella tempesta della crisi
di Gabriel Bertinetto


Tre eventi marcano la vigilia della festa nazionale cinese, primo ottobre, giorno in cui 62 anni fa nacque ufficialmente la Repubblica popolare. Il primo ha per teatro il deserto del Gobi. Da lì viene lanciato in orbita il modulo sperimentale di una futura stazione che girerà intorno alla terra per due anni. A turno gruppi di astronauti la raggiungeranno avvicendandosi nel ruolo di inquilini spaziali. Il secondo evento è l’annuncio che Internet dilaga. Gli utenti sono ormai più di mezzo miliardo. Il terzo è l’ingresso del miliardario Liang Wengen nel Comitato centrale comunista. Liang è il fondatore di Sany Group, che produce macchinari industriali, ed è l’uomo più ricco del Paese. La sua fortuna è calcolata in 9,3 miliardi di dollari.
Tre eventi, tre sintomi di un cambiamento in continua accelerazione economica, tecnologica, politica. La Cina comunista avanza a passi da gigante verso il ruolo di prima potenza mondiale. A febbraio ha superato per volume produttivo il Giappone collocandosi al secondo posto dietro gli Usa. «È realistico prevedere che entro dieci anni le dimensioni della sua economia pareggeranno quelle americane», dichiara Tom Miller dell’istituto GK Dragonomics.
Nel suo sviluppo impetuoso, che da anni sfiora il 10%, il più popoloso Paese comunista del pianeta spalanca le porte agli investimenti stranieri, favorisce l’iniziativa privata, si adegua alle leggi del mercato. Con molti problemi, visto che 150 milioni di persone vivono ancora con mezzo dollaro al giorno, e si moltiplicano le proteste popolari contro il carovita e le condizioni opprimenti di vita sui luoghi di lavoro. E con molte contraddizioni, visto che il 90% dei paperoni cinesi sono funzionari del partito, segno che la concorrenza è più libera per alcuni piuttosto che per altri. In realtà la libertà nella Repubblica popolare riguarda soprattutto il modo in cui far soldi, in contrasto con un contesto propagandistico che ripropone attraverso i media statali le parole d’ordine ugualitarie e collettiviste, ricucinae in salsa confuciana. Mao più che il campione della lotta di classe è il promotore di una nazione armoniosamente unita nel perseguimento di un sempre maggiore benessere materiale e culturale. Chi si oppone a questo ordine ideale non può essere che un nemico. Si tratti dei dissidenti che invocano il pluralismo e vengono imprigionati o costretti al silenzio. Si tratti dei tibetani o degli ujguri che reclamano autonomia e sono equiparati a criminali terroristi.
Non mancano anche fra i massimi dirigenti, gli avvocati delle trasformazioni democratiche. Il primo ministro Wen Jiabao rivolge frequenti appelli a riformare il partito e il sistema per limitare «l’eccessiva concentrazione di potere». Chiede che gli esperimenti di libere elezioni vengano spostati dai villaggi, dove già avvengono, ai distretti e magari alle città. Ma i suoi discorsi hanno scarsa eco sui media locali. Wen è conosciuto più all’estero che in patria, e l’anno prossimo è prevista la sua uscita di scena.
Nei vertici internazionali i governi occidentali criticano la Cina per le violazioni dei diritti umani e civili. Ma sanno che il destino delle loro economie dipende sempre più dalle scelte di Pechino. Tanto più in questa fase di marasma finanziario globale e di recessione incombente. Il colosso comunista è diventato paradossalmente l’ancora di salvezza del capitalismo mondiale. I cinesi stessi sono consapevoli del loro ruolo di arbitri della generale sopravvivenza.
Guo Guangchang, titolare di Fosun, la più grande società quotata alla borsa di Shanghai, vuole profittare del crollo dei valori azionari in Europa e America per acquisire fette più consistenti del grande business occidentale. Non solo, l’operazione, spiega Guo, sarà selettiva: compreremo solo le compagnie che abbiano possibilità di crescere nell’unico posto sulla terra in cui la crescita è assicurata, cioè la Cina. Il suo collega in spregiudicatezza imprenditoriale, Wu Changjiang, presidente della Nvc, il più grande produttore nel campo delle tecnologie dell’illuminazione, aggiunge spavaldo: nessun problema se i consumi calano oltre Oceano, ci rivolgeremo al mercato interno che è in espansione. Come dire, noi caschiamo comunque in piedi. Dunque, cerchiamo di andare d’accordo.
Gli Usa lamentano che Pechino favorisca le proprie esportazioni tenendo artificialmente basso il valore della moneta nazionale. Ma sanno che lo Stato e le banche cinesi sono i principali acquirenti dei titoli di Stato americani, e consentono a Washington di mantenere il suo straripante livello di indebitamento. L’Italia stessa (e molti altri Paesi) vedono nella Cina un sostegno fondamentale per superare la crisi attuale. La sindrome di dipendenza è talmente acuta, che i minimi segnali di debolezza dell’economia cinese bastano a suscitare allarme: dalla relativa contrazione produttiva degli ultimi tre mesi, alla scelta governativa di frenare l’erogazione del credito per arginare l’inflazione salita al 6%. In altri tempi sarebbero state registrate come normali misure di aggiustamento. Oggi nelle capitali dello sconquasso finanziario ci si arrovella sulle possibili ripercussioni negative globali.

il Riformista 30.9.11
Bahrain, i medici della primavera condannati a pene durissime
Ippocrate a Manama. Anni di galera per aver curato i manifestanti. «Se il mondo continuerà a voltare la testa, il Paese andrà fuori controllo» dice il portavoce dell’opposizione al “Riformista”
di Alessandro Speciale

qui
http://www.scribd.com/doc/66914011

l’Unità 30.9.11
Desaparecidos, le tante mani del potere
Il giornalista argentino Horacio Verbitsky che sarà a Ferrara al Festival di Internazionale racconta della sua militanza contro il regime di Videla e denuncia la rete di rapporti tra gerarchie ecclesiastiche, P2 e militari....
di Federico Mascagni


Giornalista dal 1960, con forte vocazione a fare bene il suo lavoro studiando, approfondendo, polemizzando se necessario. 51 anni di mestiere, iniziato a 18 anni e portato, splendidamente, all'età di quasi 70. Cifre a parte, si tratta di Horacio Verbitsky, testimone volontario e militante della «vita interrotta» del suo Paese, l'Argentina. Questo è forse uno dei punti cardine della conversazione con Verbitsky, prendere cioè atto che l'Argentina ha una Storia anomala, frammentaria.
Fino all'epoca coloniale e alle sommosse sull'onda della rivoluzione francese è simile a tanti altri paesi del Sudamerica; avvengono alcune riforme, si concretizzano i partiti di ispirazione borghese. Poi secondo Verbitsky succede qualcosa di inedito: «Nonostante una grande ricchezza economica, nonostante la presenza di movimenti socialisti accanto alle istanze liberali, in Argentina non si riuscì a costruire una democrazia completa. Il processo di secolarizzazione, che sembrava dato per assodato, viene interrotto. Momenti di forte e a volte confusa conflittualità politica portano la borghesia ad abbandonarsi fra le braccia della Chiesa cattolica. La sovranità popolare comincia ad essere vista come negazione del potere di Dio. Nasce così un elemento che sarà inscindibile e devastante per tutto il Novecento argentino: l'esercito diventa il braccio armato della Chiesa, custode quasi mistico dei suoi princìpi». In pratica i nuovi gesuiti riconquistano la terra che fu degli Indios. Questa sintesi è in realtà il frutto di dieci anni di studi nei quali Verbitsky ha voluto capire a fondo il ruolo che ha giocato la Chiesa cattolica in Argentina, studiando libri dottrinali e verificando documenti storici, fino ad arrivare alla conclusione che per più di un secolo «la chiesa dell'Argentina fu l'Argentina». Questo lavoro intenso di ricerca ha fruttato più di 1500 pagine scritte, alcuni libri pubblicati in Italia per la Fandango (l'Isola del Silenzio e il nuovissimo Doppio Gioco) e tre seminari che si terranno al Festival di Internazionale a Ferrara sul giornalismo di inchiesta (sulle zone d’ombra degli archivi) oggi, l’1 e 2 ottobre.
Non è un appuntamento da poco, non solo per l'esperienza del giornalista Verbitsky («Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto»), ma anche per l'esperienza del giornalista militante Verbitsky. Data l'età, lui, durante la «guerra sporca» di Vileda e dei suoi successori, in Argentina c'era, ed era in clandestinità.
«Durante la presidenza di Isabelita Martinez (la seconda moglie di Peròn, ndr), ero in Perù per affari e fui informato che se fossi tornato in Argentina sarei stato assassinato. Tornai lo stesso dopo un po' di tempo e, vivendo in clandestinità, riunii una rete di giornalisti. I mezzi erano quelli che erano: un ciclostile, qualche macchina da scrivere e poco altro. Creammo un'agenzia stampa clandestina e la chiamammo Ancra (ancora, in italiano) acronimo per Agenzia di Notizie Clandestine, parlando della vera situazione in atto nel Paese: i lager, i desaparecidos, le condanne a morte, notizie che a volte ricevevamo dai colleghi dei giornali ufficiali che solidarizzavano con noi ma non potevano pubblicarle a causa della censura. Noi le confezionavamo alla bene e meglio e le spedivamo in giro, anche all'estero». Si inventarono anche un sistema antico come il mondo ma di grande efficacia: la cadena informativa, che corrisponderebbe alla nostra «catena di Sant' Antonio». «Scrivevamo: la catena informativa puoi essere tu stesso, falla circolare con ogni mezzo che hai a disposizione, a più persone che puoi». In questo clima di terrore, i militari circolavano per le strade come automi, i generali pranzavano con gli alti prelati o ci giocavano a tennis, come il vescovo Pio Laghi e l'ufficiale Massera, iscritto a una loggia massonica chiamata P2. «Il clero, soprattutto i cappellani militari, hanno avuto un ruolo di supporto psicologico fortissimo nei confronti dei militari torturatori, perché ricordavano loro che l'erba cattiva si doveva estirpare con la mano sinistra di Dio, quella della forza. Arrivarono ad approvare il lancio dagli aerei dei dissidenti perché era una modalità “cristiana” di uccidere, visto che le vittime erano narcotizzate».
E in questo ambito la P2 aveva un ruolo di rilievo? «Direi di no, era più che altro un luogo dove tramare e fare affari privati. Di certo Licio Gelli fu tramite per molti interessi fra Argentina e Italia». Massera, che concederà il passaporto argentino a Gelli, lo ringrazierà per aver contribuito attivamente alla lotta contro la sovversione. Un panorama così violento e assurdo da concepire l'esistenza di una residenza vescovile, sede di seminaristi, dove era presente nei seminterrati un lager di oppositori.
E il terribile doppio gioco che viene svelato nel libro di Verbitsky è che questa identificazione fra clero e classe militare arrivò a un livello talmente forte da pianificare l'eliminazione non solo dei dissidenti, dei sospettati di essere dissidenti, dei parenti dei dissidenti, ma anche di quella parte della chiesa, vescovi, parroci, frati, che dagli anni 60 praticavano una dottrina cristiana di base terzomondista. Eliminare le impurità per creare una società di perfetta armonia cattolica. E tutto questo con il beneplacito del Vaticano. Volete sapere come finisce la storia di Doppio Gioco? Con il permesso di Verbitsky la riveliamo: che tutti i vescovi e i prelati dell'epoca si «lavarono» le coscienze con un rito purificatorio di riconciliazione indetto da Papa Giovanni Paolo II, e che il cardinale Pio Laghi entrò addirittura in conclave, rischiando forse di diventare Papa. Conclude Verbitsky: «Credo che la Chiesa Argentina abbia avuto altri due possibili competitori: la Chiesa più retriva del Franchismo e quella Croata che appoggiava Ante Paveliç e le stragi degli ustascia».

l’Unità 30.9.11
Psicoanalisi per maschi Alpha
La dialettica e le lotte di potere tra Freud e Jung nel film di Cronemberg restituite in modo corretto ma freddo
di Alberto Crespi


Forse è il caso di chiederselo: siamo proprio sicuri che la scelta di raccontare personaggi veri, carismatici, e colti in un momento chiave della loro vita, possa dar vita a grandi film? La risposta è no. Nel senso che non ne siamo affatto sicuri, perché troppo spesso volte si rimane delusi. Pensateci. Quante volte avete (abbiamo) letto di progetti cinematografici simili? Il film sulla vita di Jimi Hendrix (ancora non fatto), o di Diego Maradona (fatto), su Hitler nel bunker (fatto, più volte), o sugli ultimi giorni di Lenin (fatto, ma da un genio visionario come Sokurov e senza il minimo rispetto della «verosimiglianza», per cui non vale)... E quante volte, visti i film, li abbiamo trovati enormemente inferiori alle loro potenzialità? A Dangerous Method (era così difficile tradurre il titolo in «Un metodo pericoloso»?) è un film molto atteso. Acciderba, il controverso rapporto tra Freud e Jung, la nascita stessa della psicoanalisi come metodo di cura e di ricerca scientifica, lo scorcio storico sempre affascinante, due attori molto bravi e molto sexy nei ruoli dei due grandi, un regista come David Cronenberg che del rapporto corpo/psiche ha fatto la propria poetica... Poi vedi il film, e sembra un Visconti minore.
Che è sempre un bel vedere, ovviamente, perché Visconti non era un regista qualsiasi e anche i suoi film minori, tipo L'innocente o Gruppo di famiglia in un interno o Le notti bianche erano sempre pieni di belle immagini, di interpretazioni intense, di grande eleganza formale. Appunto: proprio questo è A Dangerous Method. Belle immagini, ottimi attori, cura formale persino esagerata e curiosamente «fredda», per uno come Cronenberg che ci ha abituati a immergere la pellicola nelle viscere e nel sangue. Mortensen e Fassbender sono molto bravi, la dialettica e le lotte di potere tra Freud e Jung sono restituite in modo corretto e didascalico. La Knightley è inguardabile, e inficia tutto il potenziale fascino del personaggio di Sabina Spielrein. Se c'è una tesi i padri della psicoanalisi erano misogini e competitivi, due «maschi Alpha» pronti a tutto per affermarsi emerge più dal detto che dal visto, anche se il personaggio della moglie bistrattata Emma Jung (la brava Sarah Gadon) è bello ed è il vero cuore del film.

il Fatto 30.9.11
La peste di Cronenberg
È la psicoanalisi la vera epidemia del ’900: questo dice “A Dangerous Method”, capolavoro di fredda bellezza
di Gianni Canova


LO SKYLINE di New York appare all’orizzonte dopo che il bastimento ha attraversato l’Atlantico. Sigmund Freud (Viggo Mortensen) e Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) osservano dal ponte l’apparizione dell’America. Nel loro spazio visivo irrompe all’improvviso la Statua della Libertà. E Freud, con l’immancabile sigaro acceso tra le dita, mormora all’allievo/rivale: «Secondo lei lo sanno che stiamo portando la peste?». David Cronenberg non si smentisce: anche questa volta continua a essere il cineasta del contagio. Delle infezioni epidemiche. Delle mutazioni patogene. Altro che “tradimento” del suo cinema: in A Dangerous Method Croneberg racconta la psicoanalisi come la peste del ‘900. Come la malattia mortale del secolo. E lo fa con una trovata registica che può piacere o no, ma che è a suo modo geniale: se la psicoanalisi è una peste, le parole sono i suoi germi e i suoi virus. Perché la psicoanalisi – nella lettura che ne dà Cronenberg basandosi sul testo teatrale di Christopher Hampton – è prima di tutto una pratica discorsiva. Una forma del linguaggio. Un’arte della conversazione (quando Freud e Jung si incontrano la prima volta, parlano ininterrottamente per 13 ore…). Chi ha liquidato il film come “verboso”, forse non ha ragionato abbastanza sulla spregiudicatezza di questa scelta: la psicoanalisi è una “disciplina” che cerca di trasferire il corpo (la libido, l’eros, il desiderio) nel linguaggio. Per questo A Dangerous Method è un film fatto quasi solo di parole. Parole vergate con l’inchiostro su fogli bianchi porosi come nei bellissimi titoli di testa, parole scritte di getto nei fittissimi epistolari che i tre protagonisti (Freud, Jung e Sabina Spielrein, prima paziente e poi amante di Jung) si spediscono ininterrottamente, parole intessute l’una nell’altra nel setting analitico. Parole. Nient’altro che parole. Logos. Cronenberg – che piaccia o no ai detrattori di questo film così rarefatto – è sempre stato un cineasta “mentale” : freddo, raziocinante, glaciale. Il suo sguardo ha sempre indagato il linguaggio. E qui l’indagine va al limite estremo di tensione: l’effetto, certo, a qualcuno potrà sembrare noioso. Ma anche 2001: Odissea nello spazio di Kubrick lo era. A Dangerous Method non è un film-game né un luna park emozionale. Cronenberg non è uno stimolatore clitorideo del visibile. Con Cronenberg si pensa. Si prova la fatica e il piacere del pensiero. Se vi va, accomodatevi; se preferite la Tv, non avete che da cambiare canale.
 In questo film, il cineasta canadese rende visibile lo strazio del corpo che cerca di trasformarsi in linguaggio: guardate anche solo le scene iniziali in cui Keira Knightley nei panni isterici di Sabina urla, scalcia, sbraita, si tende, si dimena, si gonfia, si infanga, e vomita le parole a fatica, recalcitrando quasi, di fronte al tentativo di dire quel che il corpo sente. Anche qui qualcuno, sprezzantemente, ha sentenziato: overacting. Sarà. A me pare piuttosto la messinscena dello spasimo necessario affinché la carne si faccia verbo. Perché verbo e carne coincidano. Anche se poi il film ci dice che non coincidono mai. Che continuamente si eccedono, tracimano, debordano. A Dangerous Method è un film su questa eccedenza. Ed è un film su una mutazione. Fin dagli anni ’80, i personaggi di Cronenberg sono sempre stati mutanti. E la mutazione è sempre stata l’elemento che rende impossibile l’amore. In La mosca il tragitto che va dall’uomo alla donna era reso impraticabile da ciò che l’uomo stava diventando (un insetto). In Inseparabili da ciò che l’uomo non riusciva a smettere di essere (una copia, un gemello). Qui, in A Dangerous Method, dalla “disciplina” analitica che impedisce a Jung di continuare ad amare Sabina. A suo modo, anche quest’ultimo Cronenberg è un mélo. Un gelido, tenero film su una storia d’amore impossibile. Quello fra un uomo e una donna (Jung e Sabina), ma anche quello fra due uomini: uno vecchio, povero, ebreo (Freud), l’altro ricco, giovane, ariano (Jung). Ma non c’è l’inconscio nel film, dice qualcuno. Già, non c’è. Per fortuna. Perché se A Dangerous Method ha infine un merito, è quello di ricordarci che l’inconscio, in fondo, bisogna cercarlo nel linguaggio.
 A Dangerous Method, di David Cronenberg, con Michael Fassbender, Keira Knightley, Viggo Mortensen, 93’, Gran Bretagna, Germania, Canada

Repubblica 30.9.11
Freud & Jung così finì l’amicizia tra i geni della psiche
di Paolo D’Agostini


Pur non realizzando un film all´altezza dei suoi due precedenti History of violence e La promessa dell´assassino - ambedue interpretati da Viggo Mortensen che torna anche qui - Cronenberg riesce in A dangerous method ad aggirare con classe quasi tutte le trappole del film biografico e in particolare sui grandi protagonisti e sui temi della psicoanalisi. Tutti spunti che, quando il cinema ne ha tratto ispirazione, hanno regolarmente provocato naufragi nel ridicolo.
Dunque con un certo sprezzo del pericolo, e sorprendendo nell´allontanarsi dal suo mondo di fantasia per scegliere invece un soggetto quasi didascalico, il regista canadese ha messo in scena il caso di Sabina Spielrein, che, da quando è stato reso celebre grazie al ritrovamento e alla pubblicazione delle sue carte, molto tempo dopo la morte avvenuta durante la seconda guerra mondiale, ha già dato materia a due film italiani (Cattiva di Lizzani e Prendimi l´anima di Faenza). E delle sue relazioni con il fondatore della teoria e della terapia psicoanalitica Sigmund Freud e con il suo allievo prediletto e poi principale antagonista Carl Gustav Jung. Nel film rispettivamente Viggo Mortensen e Michael Fassbender, mentre Sabina è Keira Knightley.
Non è la sede per misurare quanto disti la reale dimensione biografica e scientifica dall´adattamento che Cronenberg ne ha fatto alle esigenze narrative e alla propria sensibilità. Si può solo dire che la sua preferenza va a Jung. Il quale, non ancora trentenne all´inizio del racconto che prende grosso modo il decennio tra primi Novecento e vigilia della Grande Guerra, riceve nella sua clinica svizzera una giovanissima paziente, Sabina, ebrea russa di famiglia benestante. La cura alla luce della nuova terapia inventata da Freud a Vienna, portando alla superficie della consapevolezza l´intreccio, che è motivo di terribile sofferenza per la giovane, tra dolore e piacere, tra umiliazione delle punizioni ricevute da un padre violento e godimento sessuale che dalle stesse umiliazioni ella trae. Via via che la cura ottiene risultati Jung sospinge Sabina verso lo studio e la pratica psichiatrica, mentre di pari passo ne diventa l´amante, anche brutale e feroce, come la ragazza gli chiede di essere. La figura di Sabina e i comportamenti di Jung verso di lei - sofferti e contraddittori rispetto al suo comportamento pubblico improntato a morigeratezza e rigore - diventano il motivo scatenante delle divergenze e rivalità tra l´allievo e il maestro e mentore Freud. Anche passando per l´intervento di un´altra figura storica, quella di Otto Gross che - interpretato da Vincent Cassel - predica nel confronto con Jung le virtù della poligamia e l´innaturalità della monogamia o in altre parole la liberazione degli istinti contro il reprimere e reprimersi che non sono sinonimo di civiltà ma di malattia, sullo sfondo c´è il contrasto (cui non è estranea la distanza tra l´ebreo austriaco e il protestante svizzero) tra la ferma convinzione scientifica di Freud a proposito dei limiti invalicabili della terapia e della professione psicoanalitiche, e la ricerca di Jung anche oltre e al di là di quei limiti.
Soluzioni o battute da ricordare. Quando Jung e Freud intraprendono, assieme all´altro allievo del fondatore Ferenczi il loro viaggio negli Stati Uniti del 1909, Freud si chiede se al di là dell´Oceano si rendano conto che stanno portando loro il contagio della peste. E, sul finale, il sogno di Jung sul sangue versato dall´Europa che, siamo nel ‘14, prefigura la catastrofe della Prima guerra mondiale. Soluzioni, o scorciatoie, un po´ hollywoodiane. Ma servite con stile.

La Stampa 30.9.11
Da Togliatti al Pd, chi ha paura dei “magnacucchi”?
A Bologna un convegno ricorda Cucchi e Magnani, i due eretici del Pci cacciati 60 anni fa come “pidocchi”
di Jacopo Iacoboni


IN CASO DI INVASIONE. Sostenevano che i comunisti italiani si sarebbero dovuti battere contro l’Armata Rossa

Quando due militanti, tra l’altro veterani partigiani, osarono criticarlo, Togliatti rispose: «Due pidocchi possono annodarsi anche nella criniera del più nobile destriero». Quando dei militanti osano criticarli, i capi del Pd rispondono spesso, oggi, «non accettiamo lezioni da nessuno» (Bersani l’ha ripetuto questa settimana a Di Pietro). Nessuno viene più cacciato o quasi, neanche i radicali che non votano la sfiducia al ministro accusato di concorso in associazione mafiosa; ma non potrebbe esserci frase più antipolitica, da parte di un gruppo di leader politici, che «non accettiamo lezioni da nessuno».
Il paragone ovviamente è un gioco, Palmiro Togliatti, che diede dei «pidocchi» a Aldo Cucchi e Valdo Magnani per poi espellerli dal Pci, non è Bersani, e Pietro Secchia non c’è più. Amen. Tutto è cambiato, tra il vecchio Partito comunista togliattiano e stalinista e il Partito democratico, certo non stalinista e men che meno monolitico; tranne forse qualcosa. Le storie di chi rivolge critiche a volte paiono cicliche, le riabilitazioni postume, gli eretici sempre e comunque pronti per i roghi, che oggi assumono la veste soft della marginalizzazione. Ecco perché illumina leggere con chiavi attuali un incontro che si tiene oggi e domani a Bologna, nella Biblioteca dell’Archiginnasio, per ricordare appunto le figure di Cucchi e Magnani, «i magnacucchi», come spregiativamente li si prese a chiamare nel Pci, dopo la cacciata avvenuta nel ‘51, sessant’anni fa esatti.
I nomi, probabilmente, diranno poco a un ventenne, ma sono tra quelli più simbolici nella storia del comunismo italiano. Cos’avevano fatto di così grave Cucchi e Magnani per meritarsi la taccia di «pidocchi»? Avevano osato asserire che, in caso di invasione dell’Armata Rossa, i comunisti italiani si sarebbero dovuti battere per l’indipendenza. Furono espulsi, fondarono, con altri eretici di sinistra - tra cui Giuliano Pischel, Lucio Libertini, Vera Lombardi -, il settimanale Risorgimento socialista , e quindi un partito, il Movimento Lavoratori Italiani, che poi diventerà l’Unione Socialista Indipendente. Non ebbe mai grande fortuna l’Usi, un po’ come il Partito d’Azione, troppo avanguardistica e colta l’idea di una sinistra laica e non comunista nell’Italia di Peppone e don Camillo. Ma i «magnacucchi» avevano aperto un’epoca, profetizzando cose che sarebbero poi tragicamente avvenute; vedi la repressione sovietica del ‘56 a Budapest. Per questo li si doveva seppellire col sarcasmo.
È allora interessante che il convegno, oltre che dal figlio di Cucchi, il generale Giuseppe, e da uno degli ultimi reduci della storia del Mli, Learco Andalò, sia stato promosso da Luigi Pedrazzi, uno dei fondatori del Mulino bolognese, tra gli ultimi monumenti di una sinistra italiana non comunista, diciamo prodiana. Con due chicche che Andalò racconta così: «Le confesserò, i dirigenti del Pd che avvicinavo con l’idea di celebrare i magnacucchi non mi sono sembrati entusiasti, c’è ancora tanta diffidenza». E poi: «Mia moglie è sovrintendente ai beni librari dell’Emilia, conosce molto bene Linda Giuva, la moglie di D’Alema, che è professoressa di archivistica. L’ho contattata, e ha mostrato disponibilità straordinaria per studiare il fenomeno, e partecipare». Ironia della storia, i magnacucchi vengono definitivamente riabilitati in un incontro cui ha collaborato la moglie dell’ultimo presunto erede politico del Migliore.
La sinistra italiana è così, incroci, ritorni, famiglie, revisioni che giungono sempre tardi, a babbo morto. Lo stesso Togliatti, per dire, fu messo in croce per le critiche di Magnani, che era tra l’altro cugino di Nilde Iotti, e era stato quello che la introdusse nel partito. Oggi esistono ancora dei magnacucchi potenziali nel Pd? Giuseppe Civati, consigliere lombardo, viene spesso citato, come anche Matteo Renzi, tra le voci che cercano di rompere il gioco dei vecchi compagni di scuola. Ora le strade tra i due sono diverse, ma Civati accetta il gioco del paragone ardito col ‘51. Naturalmente è un altro mondo, dice; con sottili affinità. «Di là c’era un Pci monolitico, qui il problema è semmai di un Pd dove si registra un pluralismo confusionario», ragiona. «Quello era un partito-chiesa, per il gruppo dirigente dell’attuale Pd userei piuttosto l’immagine del fortino arroccato, del quadrilatero di Radetzky, incapace di ascoltare le critiche provenienti dall’interno, e dal basso». Per esempio dal risveglio della scorsa primavera, già tradita nel mesto autunno del nostro scontento democratico.

il Fatto Saturno 30.9.11
Memorie
Con Montale andavamo al Giamaica
di Raffaele Liucci


«HO MOLTA AMICIZIA per i morti», scrisse una volta il sommo filologo Gianfranco Contini: «un po’ perché il più del nostro tempo passerà, se non con loro, almeno dalla parte loro; un po’ perché siamo noi che li facciamo ancora vivere, che prestiamo loro un po’ della nostra vita». Sarà per questo che la buona memorialistica, sebbene popolata da defunti, è un’oasi rasserenante, un contravveleno al grigiore delle nostre vite e della nostra epoca? È quanto accade con due inaspettati libri, sfornati da altrettanti decani delle patrie lettere.
 Il primo è un memoir di Maria Luisa Spaziani. Poetessa, già docente di letteratura francese, fu una delle muse di Montale, da lui ribattezzata “la volpe”, «che non soltanto mi regala la luce della sua giovinezza, quanto mi restituisce la mia che non ho mai avuta». Una lunga amicizia sentimentale, qui rievocata in punta di penna, pencolando fra luoghi meneghini (il bar Giamaica e il ristorante Bagutta), incontri (con il coltissimo Leo Valiani, con Georges Simenon, che Montale detestava per l’insolente facilità di scrittura, con Elémire Zolla, poi da lei sposato) e aneddoti (le frequenti nevrosi da foglio bianco di cui soffriva il poeta ligure e una sua terribile lite con Gadda). Che cosa rimane di quell’Italia in bianco e nero (gli anni ’50 e ’60), forse un po’ bigotta ma dai costumi non ancora sbracati, figlia di un’etica borghese austera e dignitosa? Soltanto un telaio scarnificato, come quell’osso di seppia rinvenuto sulla spiaggia che un giorno Montale autografò scherzosamente per la “volpe”.
 Se Spaziani è volatile e impressionista, Alfredo Stussi, insigne storico della lingua italiana, è invece grave e puntiglioso. Il suo libro è una silloge di quindici ritratti di “maestri e amici”, da Maria Corti a Francesco Orlando, passando per Contini, Carlo Dionisotti, Gianfranco Folena, Dante Isella, Sebastiano Timpanaro, che per la fobia di parlare in pubblico rinunciò alla carriera accademica, e Vito Fuma-galli, uno storico medievista cui si devono alcuni magistrali libri sul rapporto fra uomo e ambiente, già in crisi un millennio or sono. Nessuno di loro è più tra noi. Riportarli in vita significa addentrarsi in cinquant’anni di “cose viste”. L’epicentro è la Normale di Pisa, frequentata dapprima come discente e poi come docente. Negli anni ’50 vigeva ancora l’usanza, per i normalisti, di pranzare e cenare a ore fisse attorno a quattro tavoli disposti a ferro di cavallo, serviti da una squadra di camerieri in giacca bianca. Un’aristocrazia intellettuale ormai quasi estinta. Quel che resta è l’intima compresenza con quegli antichi maestri e compagni. Forse perché, come scriveva Thomas Bernhard in Perturbamento, «un essere umano può sentirsi unito ad un altro che ama soltanto quando quest’altro è morto, è davvero entrato a far parte di lui». Contini docet.
 Maria Luisa Spaziani, Montale e la Volpe. Ricordi di una lunga amicizia, Mondadori, pagg. 114, • 12,00;
 Alfredo Stussi, Maestri e amici, il Mulino, pagg. 201, • 20,00

il Fatto Saturno 30.9.11
Libertà e competizione
Uscire dalla crisi? Chiedetelo a Darwin
Robert Frank applica la teoria dell’evoluzione all’economia. Dove spesso prevalgono i meno adatti
di Nicla Vassallo


«I MIEI COLLEGHI studiano l’intelligenza artificiale. Io invece studio la stupidità naturale». Questa celebre nonché accorta battuta si deve ad Amos Tversky, tra i pionieri di una psicologia cognitiva, che applicata ai biases dei nostri giudizi e delle nostre decisioni, si è travasata in molteplici riflessioni di economia e sull’economia. Fino a dove ci condurrà la stupidità umana rimane di difficile comprensione, specie al presente, in cui la crescita dei rischi pare irrimediabilmente esponenziale. Alla stupidità umana s’interseca una visione leggendaria, per cui il bene comune deriva da un mercato senza Stato, né regole, né tasse. Il suo responsabile teorico viene scorrettamente indicato in Adam Smith (incompreso, perlomeno, al pari di Karl Marx), la cui complessa teoria finisce per lo più ritagliata sul simbolo della mano invisibile, piuttosto che sul principio di simpatia a giustificazione e spiegazione del sistema etico. Dimenticando la sua presenza nel Macbeth di William Shakespeare e l’impiego, peraltro raro, che ne fa lo stesso Smith, il simbolo della mano invisibile si deforma per superare la fiducia originaria in una provvidenza insita nel libero mercato e per rafforzare il principio del laissez–faire. Rileggere La fine del laissez–faire di John Maynard Keynes (Bollati-Boringhieri) non farebbe male. Volente o nolente, ad Adam Smith si associa la ferrea convinzione che le crisi economiche affondino le proprie radici nell’assenza o nell’abrogazione della competizione. E, se invece, le crisi derivassero proprio dalla competizione stessa? Professore alla Cornell University e celebrato columnist del «New York Times», Robert Frank non è il primo a rispondere affermativamente, né a ritenere che le riflessioni di Charles Darwin sulla competizione siano utilmente applicabili all’economia, imponendo, infine, non di punire, bensì di tassare i comportamenti deleteri per il bene comune. Facile pensare a un Darwin economista, visto che egli stesso riconosce un debito a Thomas Robert Malthus, e al suo An essay of the principle of the population as it affects the future improvement of society del 1789. Che si dia un’economia darwiniana non rappresenta del resto una novità, e non è qui il caso di ripercorrerne la lunga storia. A consigliare il volume di Robert Frank, The Darwin Economy, rimane così non tanto un’idea inedita, quanto una piacevole chiarezza espositiva, congiunta a una confluenza (più marcata di quel che appare) tra tesi smithiane e darwiniane, all’insistenza sulla necessità di un mercato competitivo dai risultati ottimali, alla discussione sul ruolo dello Stato, alla sicurezza (chi non la desidererebbe?) nutrita per una politica economica, in cui, da una certa interpretazione del concetto di competizione, trae benefici ogni individuo e classe sociale, nonché la società nel suo insieme. Dato che, pur in giorni bui, in cui le Borse continuano a precipitare , abbiamo letto pagine e pagine dedicate alla difesa e all’attacco del post-moderno, verrebbe da stare al gioco, per istigare il dibattito sulla post-economia, sul post-darwinismo economico, sul post-darwinismo in sé. Ma, in barba al “post”, e nell’auspicio di non venire subito additati di bieco creazionismo, proviamo a cambiare gioco, ricordando la connessione tra evoluzione e credenze, e, in particolare, l’ipotesi che le credenze vere risultino determinanti per la sopravvivenza.
 L’ipotesi è formulabile in diversi modi, tra cui, stando a Stephen Stich ( La frammentazione della ragione, Il Mulino), il seguente: «L’evoluzione produce organismi che si approssimano ampiamente a caratteristiche o sistemi ben progettati». Eppure, lo si sa, la selezione naturale non rappresenta il solo processo a determinare l’evoluzione, dal momento che sussiste, tra gli altri, pure un corso genetico casuale: un gene più adatto può venire eliminato a favore di uno meno adatto. In proposito Stich ci invita a immaginare una popolazione carnivora, in cui, per una mutazione genetica, alcuni membri si attestano più abili di altri nel procacciarsi le prede. Accade che, in un qualche cataclisma, periscano tutti i membri con questa mutazione e a sopravvivere rimangono i meno abili. Pensiamo all’economia: non è affatto detto che i soggetti oggi in scena siano i più abili e adeguati. Perciò dire che l’evoluzione produca organismi che si approssimano ampiamente a sistemi ben progettati è controverso. Ma qual è il gioco? Proviamo a inserire l’aggettivo “economici” dopo “sistemi”. Capiremo perché è necessario continuare a studiare la stupidità naturale.
 Robert H. Frank, The Darwin Economy. Liberty, Competition, and the Common Good, Princeton University Press, pagg. 240, $ 26.95

Corriere della Sera 30.9.11
L'universo rinascerà identico
Roger Penrose: «I cosmi si ripetono con nuovi big bang»
di Giovanni Caprara


C'era una volta l'idea che l'universo fosse sempre esistito, che non avesse avuto un inizio e che sarebbe rimasto sempre lo stesso. A compensare la sua continua espansione sarebbe intervenuta una generazione spontanea di nuova materia, delle molecole di idrogeno. Erano gli anni Cinquanta dello scorso secolo e il sostenitore più celebre della quieta visione cosmica, diventata famosa come «teoria dello stato stazionario» era il fisico-matematico britannico Dennis Sciama, discepolo del Nobel Paul Dirac e maestro del grande e sfortunato Stephen Hawking. Tra i banchi di Cambridge ad ascoltare le sue lezioni c'era anche Roger Penrose la cui genialità in matematica e in cosmologia si sarebbe rivelata presto. «Da Sciama ho appreso l'entusiasmo per la nuova fisica e della sua teoria seppe farmi apprezzare la bellezza e la forza esplicativa» scrive nella prefazione del suo ultimo libro, Dal Big Bang all'eternità (Rizzoli).
Negli anni Sessanta gli americani Arno Penzias e Robert Wilson scoprivano per caso una radiazione uniformemente distribuita in ogni angolo dello spazio giudicata la prova mancante di un'altra idea avanzata nel 1927, quella di un Big Bang (ma allora non si chiamava così: il battesimo sarà di Fred Hoyle, astrofisico e scrittore di fantascienza), e da cui il nostro universo avrebbe avuto origine. Sciama accettava la sconfitta sconfessando coraggiosamente in pubblico tutto ciò in cui aveva creduto. Nei decenni seguenti le capacità di osservazione consolidavano la visione arrivando persino a stabilire che l'Universo era nato da una grande scoppio 13,7 miliardi di anni fa.
Non tutti, però, erano ciecamente convinti. Nella scienza c'è sempre chi coltiva alternative, scruta verso possibilità diverse in particolare quando il tema è grande e complesso come è la storia del cosmo, la nostra storia. Soprattutto c'era chi sosteneva con spiegazioni diverse che un «prima» doveva esserci e che tutto non poteva essere partito dal Big Bang.
Tra gli impegnati su questo fronte emergeva Roger Penrose, nel frattempo diventato un'autorità. Numerose innovazioni del pensiero matematico portavano il suo nome. C'è il «Diagramma di Penrose» che disegna lo spazio, la «teoria dei twistor» per mappare gli oggetti geometrici dello spazio-tempo tetradimensionale, la «tassellatura di Penrose», meravigliosa geometria di superfici infinite, il «triangolo di Penrose» noto anche come triangolo impossibile, e, infine, la «scala di Penrose». Proprio queste due ultime concezioni sono state persino assorbite e rappresentate nelle illustrazioni dell'olandese Maurits Escher, nelle quali l'occhio si smarrisce in folli architetture.
Guardando al cosmo, Penrose e Stephen Hawking lavoravano assieme alle conseguenze della relatività di Einstein. E Hawking, tra i numerosi risultati, avrebbe dedotto che i buchi neri non sono ermeticamente chiusi e che dalla loro prigione gravitazionale sfugge una sia pur minima quantità di radiazione. Nel frattempo i credenti di un'altra teoria, quella «dell'Universo oscillante», non abbandonavano l'ipotesi che, ad un certo punto, l'Universo sotto l'azione della gravità fermasse la sua espansione invertendo la corsa, proiettando stelle e galassie verso il punto di partenza, preparando quindi un nuovo Big Bang. Era il cosiddetto Big Crunch.
Ciò che cresceva, comunque, era soprattutto il mistero perché la presenza della materia oscura indirettamente osservata non coincideva con la stessa espansione la quale veniva salvata dall'ipotesi di un'energia altrettanto oscura in grado, invece, di alimentarla. Ma, prima del Big Bang, in molti continuavano a domandarsi, c'era qualcosa?
Roger Penrose credeva di sì e anzi sviluppava assieme al fisico armeno Vahe Gurzadyan la «teoria ciclica conforme» per dimostrarlo. Alla fine dell'anno scorso la presentava nei dettagli esibendo una prova che doveva confermarla. Da qui nasceva il libro che con dovizia di argomentazioni spesso ardue (le formule non mancano) racconta un pensiero in grado di sfidare le più rigorose certezze. Con grande fascino e straordinaria intelligenza, bisogna ammettere, Penrose ci spiega che l'universo è sempre esistito e sempre esisterà. Che l'universo nel quale noi viviamo è solo uno degli infiniti universi che in sequenza si succedono, uno dopo l'altro, per l'eternità. Ognuno di essi rappresenta solo un periodo di tempo, un «eone»: si origina da un Big Bang, si diffonde fino a dissolversi includendo i buchi neri grazie alla teoria di Hawking, ma creando nel contempo le condizioni per la successiva rinascita, il nuovo Big Bang.
Nel progetto cosmico di Penrose non si accetta l'idea dell'inflazione, passo obbligato che invece i sostenitori dell'Universo in cui viviamo pongono come primo, rapidissimo passo dall'energia alla materia da cui sono nate stelle e galassie. Sostiene una visione diversa dell'entropia che mal si adatta nell'impostazione dell'unico mondo che vediamo. E infine esibisce dopo sette anni di analisi una prova ritenuta validissima.
Nelle mappe colorate raccolte dall'osservatorio spaziale della Nasa «Wilkinson-WMap» in cui emerge un universo primordiale tra le anomalie della radiazione di fondo giudicate i «semi» da cui sarebbero nate le future galassie, Penrose scorge qualcosa d'altro. Egli vede delle costruzioni circolari che contrastano con la irregolarità necessaria a certificare un cosmo disordinato secondo le regole della sua fase iniziale. Per lo scienziato britannico i cerchi sono le tracce lasciate dalle onde gravitazionali lanciate alla fine dell'universo precedente dalla fusione di buchi neri e dal loro dissolvimento. Ecco la presunta prova della sua teoria e di un passato esistito prima del Big Bang. Ora si attendono indizi dal nuovo osservatorio orbitale europeo Planck che potrebbero rafforzare o smentire l'intuizione. «Nella mia proposta risuona una forte eco del vecchio modello dello stato stazionario — ammette Penrose —. Non posso fare a meno di chiedermi che cosa ne avrebbe pensato Dennis Sciama».

Corriere della Sera 30.9.11
Simbolismo
Il mito (ambiguo) della donna
L'enigma dei sentimenti
I colori dell'inquietudine e del sogno come riparo dalle tempeste del futuro
di Melisa Garzonio


Parigi, 1891. Sotto le luci della galleria Le Barc de Boutteville, il bel mondo si gode la prima mostra dei Nabis, i «profeti» della seconda generazione simbolista, un gruppo di «facinorosi» che ha sostituito l'ultima Ninfea di Monet con una pittura immateriale, lontana dagli occhi e più vicina al cuore. Agli entusiasmi dei cugini francesi, Milano risponde con la prima Triennale di Brera, un evento di portata storica che segna l'avvio ufficiale di un Divisionismo nuovo, rimasto tale nella tecnica ma più dolce nello stile e rarefatto nei contenuti. Non tutti gradiscono, però. Al punto da inscenare plateali proteste davanti a una tela di Gaetano Previati giudicata troppo «simbolista». S'intitola «Maternità», raffigura una madre che abbraccia teneramente il suo bambino circondata da una schiera di angeli in preghiera, con le ali abbassate, quasi in gesto di protezione. È un capolavoro.
Ma ai nostalgici del vero «scapigliato» — la cruda realtà resa con tinte sfacciate e dissolute — quell'immagine paradisiaca quasi persa in un indefinibile grigioazzurro diviso in filamenti sottili come tentacoli di medusa, suona come una provocazione. Se la madre di Previati è troppo onirica, la versione più realista proposta da «Le due madri» di Giovanni Segantini suscita, invece, ampi consensi. Il maestro di Arco ha dipinto un interno di stalla rischiarato dalla luce soffusa di una lanterna. Il tema che accosta la giovane mamma a una mucca che ha vicino, sullo strame, il suo vitello, è fortemente simbolico ma non perde di vista il mondo reale dei contadini, il lavoro che è fatica ma ti guadagna il paradiso. Previati sogna, Segantini, ancorato alle sue montagne, prega.
Le due grandi tele che all'epoca della Triennale divisero gli animi, di nuovo vis-à-vis e affiancate alle due plastiche maternità di Adolfo Wildt e Pietro Canonica, introducono al percorso di un'eccezionale mostra, la prima dedicata al Simbolismo in Italia, visibile dal 1° ottobre al 12 febbraio a Padova, nelle antiche sale di Palazzo Zabarella. Promossa dalla Fondazione Bano, curata da Fernando Mazzocca e Carlo Sisi con Maria Vittoria Marini Clarelli, ospita un centinaio di opere, prestito di collezioni private e musei italiani e stranieri. Cosa raccontano queste opere appare chiaro visitando le otto sezioni a tema, momenti topici di un percorso che parte dal Realismo dell'ultimo decennio degli anni Ottanta e si chiude con le poetiche del Decadentismo, alla vigilia della prima guerra mondiale.
I temi condivisi dai simbolisti riguardano i grandi valori dell'umanità: il senso della vita, la morte, il sogno, il mito, il mistero, l'enigma, la religione, valori che gli artisti sentivano minacciati dal rullo compressore del progresso scientifico e tecnologico. E allora, che si salvino almeno i sentimenti, i propri e gli altrui, rubati al segreto del cuore e portati alla luce attraverso il ritratto psicologico. Quello che Troubetzkoy ha realizzato di Segantini colpisce nel segno. Così fa Pellizza da Volpedo, quando esibisce la propria angoscia mascherata con teschi, edera, violette e altre diavolerie. Dal cilindro di Alberto Martini (fantastiche le sue opere grafiche raccolte nella sezione in bianco e nero, e il «Notturno» e la «Diavolessa» della Sala del Sogno della Biennale del 1907, ricostruita in mostra) escono mani nervose, spiritelli alati e aguzzi profili di città chiaroscurati da un'eclissi di luna. Diceva le peintre-magicien: «Chi vive nel sogno è un essere superiore, chi vive nella realtà uno schiavo infelice».
E la natura? È madre o matrigna? Martini, così come Plinio Nomellini, Vittore Grubicy, Nino Costa, Mario de Maria e il più grande di tutti, lo svizzero Arnold Böcklin, il padre nobile dei simbolisti (in mostra una versione dall'«Isola dei morti» di Otto Vermehren), condividevano lo stesso principio di Henry-Frédéric Amiel: «Un paesaggio è uno stato dell'anima». Così, a seconda del mood, gli ipersensibili artisti di fine secolo dipingevano ora la nebbia e i fulmini, ora il vento e le tormente di neve (e qui la vince il trio Previati, Pellizza e De Grubicy) facendo della natura la cassa di risonanza dei loro inconfessati patimenti. E la donna? È una strana creatura dalle mille sfaccettature, ora fata ora strega, un po' musa e un po' erinni, una sfinge (Bistolfi), una Cleopatra (Previati), una Sirena (Sartorio). Fino a diventare emblematico simbolo di amore e morte nelle opere capitali dei due capiscuola del Simbolismo tedesco transitati alle Biennali di Venezia: «Il peccato» col serpente di Franz von Stuck e la «Giuditta con la testa di Oloferne» di Gustav Klimt. Più spiritoso, Giulio Aristide di Sartorio, in un dipinto commissionato dal conte Gegé Primoli, se la cava dividendo l'altra metà del cielo in due, «Le vergini savie e le vergini stolte». Lo stile immaginifico ispirato alla pittura preraffaellita entusiasmerà Gabriele d'Annunzio. Anche perché tra le vergini (stolte), figurava il ritratto della diletta moglie, Maria Hardouin di Gallese.

Corriere della Sera 30.9.11
Diritti del «fine vita» e bilanci degli Stati
di Massimo Gaggi


È possibile che in futuro le cure per i malati terminali, pazienti che soffrono molto senza spiragli di speranza, vengano influenzate non solo dalle discussioni sull'«accanimento terapeutico», ma anche da pure considerazioni di spesa? I vincoli di bilancio che costringono Stati un tempo prosperi a ritirarsi anche da funzioni essenziali come l'istruzione, possono arrivare a quello che abbiamo fin qui considerato un inviolabile «diritto alla salute»?
La domanda è brutale, ferisce la nostra sensibilità etica, ma sono ormai parecchi gli scienziati, i medici e i pubblici amministratori che, almeno nel mondo anglosassone, cominciano a porsela. Negli Usa la discussione è stata innescata qualche tempo fa da analisi come quella di Daniel Callahan e Sherwin Nuland pubblicata da The New Republic, secondo la quale la scienza sta esaurendo la sua capacità di allungare ancor più le nostre vite, mentre riesce a estendere la sopravvivenza di chi è già molto malato. E in America, dove la salute tende a essere considerata una responsabilità individuale, non un diritto, le cure ai pazienti terminali pesano enormemente su una spesa sanitaria che ormai assorbe il 17 per cento del Pil: prima causa della crisi fiscale nella quale versa il Paese.
«Il baratro economico nel quale siamo caduti» ha scritto sul New York Times David Brooks, intellettuale della destra moderata molto seguito anche dai progressisti, «dipende da molti fattori, ma tra questi c'è anche la nostra incapacità di confrontarci col problema della fine dell'esistenza». La vita è sacra, ma Brooks si chiede se — con le proiezioni che danno la spesa sanitaria Usa destinata a salire (in assenza di correttivi) fino al 50% del Pil a metà del secolo — abbia senso spingere il Paese verso la bancarotta per allungarla solo di un soffio.
Un discorso ora rilanciato, in Inghilterra, dai 37 scienziati di Lancet Oncology secondo i quali le cure anticancro prestate ai malati terminali nelle ultime settimane di vita hanno costi spaventosi e spesso sono contrarie alla volontà di pazienti e famiglie: vanno quindi interrotte, altrimenti si verificherà «una crisi inimmaginabile».
Parole durissime, contrarie alle convinzioni che abbiamo maturato negli ultimi 60 anni: l'era di un benessere che sembrava non avere limiti. Ora, invece, si volta pagina. Le cure mediche dovrebbero essere l'ultima area da mettere in discussione. Ma alcune domande dovremo porcele per tempo. Prima che le grida degli antistatalisti Usa dei «Tea Party», pronti a lasciar morire chi non ha voluto spendere per un'assicurazione sanitaria, si trasformino in una guerra intergenerazionale tra anziani che ricevono buone pensioni e ottime cure e giovani con pochi diritti e molti debiti.

Repubblica 30.9.11
La democrazia della sfiducia
Dal ’68 a internet l'ascesa del populismo
di Ivan Krastev


L´analisi del politologo sulle ragioni della crisi dei modelli occidentali
Ora gli studenti vanno in piazza proclamando la voglia di vivere nel mondo dei genitori
Il web ha frammentato lo spazio pubblico e ridisegnato ogni confine
Dalla fine delle utopie collettive al desiderio di mantenere lo status quo

La crisi a cui oggi le democrazie europee si trovano a far fronte non è un fenomeno temporaneo, né il risultato delle ripercussioni della crisi economica o del fallimento delle leadership nelle democrazie occidentali. La crisi attuale affonda le radici nel fatto che le società europee sono più aperte e democratiche di quanto siano mai state in passato. Proprio questa loro apertura sfocia nell´inefficacia delle istituzioni democratiche e nella mancanza di fiducia in esse. Probabilmente è ormai tempo che le «democrazie della fiducia» vengano rimpiazzate dalle «democrazie della sfiducia», per dirla con Rosanvallon. Sicché il problema non è più in che modo le élite possono ripristinare la fiducia della gente: l´interrogativo ora è come può una democrazia liberale funzionare in un contesto in cui le classi dirigenti saranno costantemente oggetto di sfiducia, a prescindere da quello che fanno o dal livello di trasparenza dei meccanismi di governo.
L´ascesa del populismo e la sfiducia nelle élite hanno ridotto la politica europea a uno scontro tra la retorica anti-corruzione della gente e la retorica anti-populista dell´establishment. Non vi è una nuova utopia collettiva in grado di catturare l´immaginario degli individui. Anziché ridare slancio alla sinistra o alla destra, l´attuale crisi economica ha minato l´idea stessa di democrazia politica strutturata in destra e sinistra. L´Europa e il mondo sono diventati populisti. Nondimeno, si tratta di una strana versione del populismo: il popolo insorge non per esprimere una concezione chiara di ciò che vuole cambiare, bensì per reclamare vendetta e punizioni. I ribelli di oggi non si oppongono allo status quo di ieri: al contrario, cercano di preservarlo. (...) È il Sessantotto al contrario. Nel Sessantotto nelle piazze di tutta Europa gli studenti proclamarono il loro desiderio di vivere in un mondo diverso da quello dei loro genitori; ora gli studenti scendono in piazza per proclamare il loro desiderio di vivere nel mondo dei loro genitori. Per dare un senso allo stato attuale della democrazia è necessario ripensare le conseguenze involontarie delle cinque rivoluzioni che hanno scosso il mondo occidentale a partire dal Sessantotto.
La prima è la rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta con cui l´individuo fu posto al centro della politica. La seconda è la rivoluzione del mercato degli anni Ottanta che ha delegittimato il ruolo dello Stato quale attore economico. Le terze sono le rivoluzioni del 1989 nell´Europa centrale che hanno conciliato la rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta (respinta dalla destra) con la rivoluzione del mercato di Ronald Reagan degli anni Ottanta (rigettata dalla sinistra) promuovendo l´idea che la democrazia liberale fosse il fine della storia e la condizione naturale dell´umanità. La quarta è la rivoluzione nelle comunicazioni determinata dalla diffusione di internet; e la quinta è la rivoluzione delle neuroscienze che ha indotto i consulenti politici a credere che al cuore della politica democratica vi fossero la manipolazione delle emozioni e il dibattito irrazionale.
Nelle prime fasi, queste cinque rivoluzioni sono state cruciali nell´approfondimento dell´esperienza democratica. La rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta ha portato allo smantellamento della famiglia autoritaria dando un nuovo significato all´idea di individuo libero. La rivoluzione del mercato degli anni Ottanta ha contribuito alla diffusione globale dei regimi democratici e al crollo del comunismo. Le rivoluzioni del 1989, pur non essendo la fine della storia, hanno rappresentato una svolta nell´esperienza democratica dell´Europa, riuscendo a conciliare il liberalismo e la democrazia nel continente. La rivoluzione di internet ha dato nuovo impulso all´attivismo civile e ha cambiato radicalmente il modo in cui gli individui pensano e agiscono. E le nuove scienze del cervello hanno riportato le emozioni nel processo di comprensione della politica e della deliberazione politica.
Ma queste cinque rivoluzioni sono al centro dell´attuale crisi della democrazia.
La rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta ha portato al declino del senso di finalità comune. La politica degli anni Sessanta è degenerata in un´aggregazione di richieste individuali riguardanti la società e lo Stato. L´identità ha cominciato a monopolizzare il discorso pubblico: l´identità privata, l´identità sessuale e l´identità culturale. La violenta reazione contro il multiculturalismo è una conseguenza diretta dell´incapacità degli anni Sessanta di ideare una concezione condivisa di società. L´ascesa del nazionalismo anti-immigrazione è una tendenza pericolosa, ma rappresenta più un desiderio di comunità e vita comune che non una forma di avversione verso gli stranieri.
La rivoluzione del mercato degli anni Ottanta ha reso le società più ricche che mai, ma ha anche infranto quella relazione positiva che esisteva tra la diffusione della democrazia e la diffusione dell´uguaglianza. Dalla fine del XIX secolo fino agli anni Settanta le società avanzate dell´Occidente sono diventate tutte meno inique. La rivoluzione dell´avidità portata avanti da Reagan ha ribaltato questa tendenza ed è sfociata in un´ossessione per la creazione di ricchezza, alimentando altresì quei sentimenti anti-governativi che oggi sono al centro della crisi di governabilità nelle democrazie occidentali. La rivolta popolare contro le élite che è al cuore dell´attuale condizione populista è una conseguenza diretta del fatto che la maggioranza dei cittadini tende a percepire i cambiamenti sociali e politici che hanno accompagnato i decenni neo-liberali come un momento di emancipazione: ma non emancipazione delle masse, bensì emancipazione delle élite. Nel nuovo, meraviglioso mondo regolato dal mercato le élite si sono affrancate dai vincoli ideologici, nazionali e comunitari. L´ascesa delle élite offshore è stata la parte oscura del successo della rivoluzione del mercato degli anni Ottanta.
Elevando la democrazia a condizione naturale della società, le rivoluzioni del 1989 nell´Europa centrale hanno ingenerato enormi aspettative circa le conquiste della democrazia, piantando così i semi del futuro malcontento. Nel periodo post-1989 era credenza comune che l´introduzione di libere elezioni e l´adozione di costituzioni liberali fossero sufficienti a garantire la pace, a promuovere la crescita economica e a ridurre i livelli di violenza e di corruzione. La realtà, tuttavia, si è rivelata molto più complessa. La Cina ha dimostrato che gli Stati autoritari sono in grado di mantenere un elevato tasso di crescita per lunghi periodi di tempo. Il fallimento della democratizzazione in molti paesi del terzo mondo ha dimostrato che non bastano libere elezioni per ottenere ordine e prosperità. L´esperienza dei paesi dell´Europa orientale indica che quello tra democrazia e autoritarismo è il confine meno protetto in Europa.
La rivoluzione di internet ha frammentato lo spazio pubblico e ridisegnato i confini delle comunità politiche esistenti. Pur avendo dato agli individui il potere di sollevarsi contro chi governa, la rivoluzione di internet non ha contribuito a consolidare la natura deliberativa del processo democratico.
Meno considerati sono gli effetti che i nuovi studi sul cervello e sulle nuove tecnologie di marketing hanno avuto sulla formazione delle concezioni democratiche degli individui. Le nuove neuroscienze hanno portato a una migliore comprensione del modo in cui i soggetti pensano, ma esse sono diventate altresì uno strumento per manipolare gli individui, perché molte scoperte sono sfociate in una rottura radicale con la tradizione della politica basata sulle idee. Karl Rove (il consulente politico dell´ex presidente Usa George W. Bush) ha rimpiazzato Karl Popper quale nuovo profeta della politica democratica.
In breve, il mondo non è più strutturato su una netta contrapposizione tra democrazia e autocrazia, ma sono piuttosto le contraddizioni intrinseche alle società democratiche a destare preoccupazione. Quel che è da temere è l´autolesionismo della democrazia. E sarebbe un errore enorme considerare l´attuale ascesa del populismo come una sorta di patologia o di fenomeno temporaneo.

Corriere della Sera 30.9.11
Super incarico dopo la gaffe sul tunnel
Lascia il portavoce della Gelmini. Sarà consulente di Barbara Berlusconi
di Angela Frenda e Lorenzo Salvia


MILANO — Dopo sei giorni il tunnel tra la Svizzera e l'Abruzzo («732 chilometri senza nemmeno un autogrill», il commento più gentile) trova una via d'uscita. Si è dimesso Massimo Zennaro, portavoce di Mariastella Gelmini. Conserva l'altro incarico che aveva al ministero dell'Istruzione, quello di responsabile della direzione per lo studente, una delle più importanti. Ma soprattutto, e questa è la novità, da pochi giorni avrebbe accettato anche di fare da «superconsulente» per Barbara Berlusconi.
La primogenita del premier e di Veronica Lario, impegnata nel cda del Milan, avrebbe infatti chiesto a Zennaro di seguirla per lanciare la sua immagine dal punto di vista culturale. Paparazzatissima quest'estate per il suo flirt con il calciatore del Milan Alexandre Pato, fresca di separazione da Giorgio Valaguzza (padre dei suoi due bimbi Alessandro ed Edoardo), Barbara, 26 anni, non ha mai nascosto il suo interesse per il mondo culturale. Infatti già prima della sua laurea in Filosofia si era detta disponibile a muovere i primi passi nel mondo dell'editoria, e più precisamente alla Mondadori. Poi, e la cosa l'ha amareggiata non poco, l'ipotesi è sfumata. Lei ha aderito al progetto della galleria «Cardi Black box», gestita con i suoi due amici/soci Niccolò Cardi e Martina Mondadori. E subito dopo la laurea è arrivato l'incarico nel Milan, nel quale Barbara si è buttata a capofitto. Anche se il suo desiderio resta sempre lo stesso: costruirsi un profilo culturale forte. Ed è qui che entra in campo Zennaro: BB lo avrebbe contattato proprio per avere una sua consulenza, e lui si starebbe già muovendo per programmare e organizzare uscite mediatiche che la lancerebbero in questo campo.
Non era passato inosservato, tra l'altro, il loro incontro allo stadio «Camp Nou» di Barcellona, nel corso di Barcellona-Milan, lo scorso 13 settembre per la Champions League. Una vera «sofferenza» per l'ex portavoce della Gelmini, secondo chi lo conosce bene: lui, infatti, è interista da sempre. Ed è vicinissimo, tra le altre cose, alla famiglia Moratti ma anche all'ex sindaco di Milano Letizia Moratti. Ma questo incarico con la primogenita del premier e di Veronica Lario arriva per lui in un momento particolare. Padovano, 38 anni, ombra della Gelmini dal 2005, più consigliere che portavoce, Zennaro paga per l'incredibile errore del comunicato di venerdì scorso, quei complimenti ai ricercatori per l'esperimento sui neutrini in cui il ministero ricordava il contributo italiano alla costruzione del tunnel che non c'è, quello «tra il Cern e i laboratori del Gran Sasso».
Non è lui l'autore materiale del comunicato, ancora online sul sito del ministero. Ma come portavoce paga l'omesso controllo e soprattutto la gestione del day after. Dopo che sabato mattina le prime parodie avevano preso a girare su internet, il ministero aveva scelto di non ammettere l'incidente, di minimizzare. Anzi, aveva replicato duro parlando di «polemica ridicola». Solo in serata la decisione di correggere il tiro, ammettendo che quella nota «poteva essere più precisa». Il danno d'immagine è di quelli che durano e negli ultimi giorni diversi colleghi di partito avevano chiesto alla Gelmini di dare un segnale. Mercoledì sera il ministro e il suo portavoce hanno avuto un lungo faccia a faccia, teso e faticoso, finito con la decisione annunciata ieri mattina. Già prima dell'estate, del resto, i due erano stati vicini alla separazione, lui sempre a frenare le uscite del ministro, lei spesso di parere opposto.
Adesso molti chiedono che Zennaro lasci anche il suo incarico di direttore generale: «La sua permanenza al ministero diventa insopportabile» dice per il Pd Manuela Ghizzoni che già aveva sollevato il caso tre anni fa, al momento della nomina. Ma l'ex portavoce è vittima anche del fuoco amico. La stessa richiesta arriva dalla leghista Paola Goisis («mi dispiace per la persona, ma bisogna tutelare l'istituzione») e dal Pdl Franco Asciutti: «Decida il ministro se può restare o meno». A difendere l'ex portavoce Giorgio Stracquadanio, falco del Pdl e consigliere della Gelmini: «Sono attacchi irresponsabili, strumentali e politici». In ogni caso il ministro cerca un sostituto. E Zennaro, intanto, si «consola» anche con la nuova consulenza per Barbara Berlusconi.

miliardaria dalla nascita... !
Repubblica 30.9.11
La moglie di Nicolas Sarkozy ormai prossima al parto
La Bruni: "Un figlio con la crisi è una felice incoscienza"


Io non farò alcuna campagna elettorale Non so nemmeno se mio marito si ricandiderà

PARIGI - Decidere di avere un figlio, anche in tempi di crisi, è frutto di «una felice incoscienza», e con la nascita non si farà «alcuna campagna elettorale»: lo ha detto Carla Bruni in un´intervista al magazine Madame Figaro in uscita domani e anticipata sul sito Internet. «Non credo che si facciano i figli ponendosi queste domande (la crisi economica, ndr) - ha spiegato Carla, prossima al parto - Un figlio si fa piuttosto in una sorta di felice incoscienza ed è così dalla notte dei tempi. Siamo in tempi di crisi ma se la riproduzione umana fosse legata alla prospettiva di una vita perfetta nemmeno noi saremmo qui. D´altronde, penso che l´istinto di sopravvivenza si manifesti anche con il desiderio di un figlio».
Alla domanda del giornalista che le chiedeva come farà a cavarsela tra la campagna del marito, il bebè e la sua Fondazione, la Bruni ha detto: «Io non farò alcuna campagna» ha detto, aggiungendo di non sapere se suo marito si ricandiderà per un secondo mandato. Quindi ha ammesso: «Come moglie di Nicolas Sarkozy sono molto aiutata, non ho una vita difficile, non devo chiedere il congedo maternità non sono obbligata nemmeno a prendere i trasporti pubblici alle sei del mattino come il 90% dei miei concittadini. Queste sono le vere difficoltà delle donne di oggi. Quanto agli obblighi dovuti alla funzione di mio marito, e non ce ne sono così tanti, mi piego volentieri».