domenica 2 ottobre 2011

il Fatto 2.10.11
Il foglio dello Pseudo-Walter
di Paolo Flores d’Arcais


Un tempo le false pagine di quotidiano erano una specialità del settimanale satirico Il Male (a proposito: torna in edicola questo mese, auguri!). Ora invece ci si mette Il Foglio. Che pubblica un’intera pagina a firma di Walter Veltroni dal titolo esageratamente laico “Io sto col Papa”. Che si tratti di un falso è fuor di dubbio: da che sinistra è sinistra, i parlamentari della medesima spendono il loro tempo a fianco degli operai di Termini Imerese in lotta, o studiando i marchingegni dei regolamenti per bloccare i provvedimenti liberticidi del governo, o organizzando manifestazioni di piazza contro il regime dei grassatori e dei mafiosi. Non certo pubblicando impegnativi mini-saggi sull’organo ufficiale, orgogliosamente dichiarato e pudicamente sovvenzionato, del berlusconismo più “ultrà”. Diamo però atto a Giuliano Ferrara di aver apparecchiato un falso praticamente perfetto, da far invidia al papiro di Artemidoro smascherato da Luciano Canfora. Sembra proprio un Veltroni d’annata, un nuovo episodio della perenne competizione con Massimo D’Alema: questa volta per la pole position nel bacio della pantofola al sommo pontefice. Lo Pseudo-Walter esordisce alla grande, con lo sciroppo retorico del Veltroni vero, convinto di essere sempre un co-protagonista della Storia: “Cosa è diventato il discorso pubblico nel nostro tempo ? A quali altezze ci conducono oggi le parole di chi viene ascoltato, perché considerato degno di esserlo? Con Martin Luther King abbiamo scalato montagne che apparivano impervie, con Franklin Delano Roosevelt siamo stati capaci di sconfiggere la bestia della paura e della disperazione collettiva… Ma ora? Ora tutto sembra al filo della terra, parole spaventate, senza forza, senza ispirazione, senza anima. Parole corte, per una società corta”.
MA ORA, PER FORTUNA, c’è Ratzinger. E la sua “riscoperta dell’idea di ‘diritto naturale’, per la quale sono la natura e la ragione le vere fonti del diritto”. Allo Pseudo-Walter la cosa pare “di straordinario interesse e suggestione sul piano intellettuale e di potenziale fecondità sul piano politico”. Peccato che natura e ragione non significhino per Ratzinger ciò che ci insegnano biologia e logica: che homo sapiens è una scimmia modificata e che i valori morali dunque li deve DECIDERE liberamente. Per Ratzinger invece, come è noto anche ai sassi (ma non alla Pseudo-Walter), il diritto naturale coincide esattamente con il magistero etico della Chiesa, unica depositaria della “retta ragione”.

il Foglio 1.10.11
Io sto col Papa
di Walter Veltroni

Grande il Papa su politica e diritto. Tracce per una nuova stagione italiana liberata da faziosità e populismi, e per un serio dialogo (laici e cattolici) nel reciproco riconoscimento. Veltroni e la lezione berlinese di B-XVI

1. Cosa è diventato il discorso pubblico nel nostro tempo? A quali altezze ci conducono oggi le parole di chi viene ascoltato, perché considerato degno di esserlo? Con Martin Luther King abbiamo scalato montagne che apparivano impervie, con Franklin Delano Roosevelt siamo stati capaci di sconfiggere la bestia della paura e della disperazione collettiva, con Giovanni XXIII abbiamo capito che non è la guerra, ma la pace, la dimensione in cui far esprimere conflitti e differenze. Ma ora? Ora tutto sembra al filo della terra, parole spaventate , senza forza, senza ispirazione, senza anima. Parole corte, per una società corta. Odio, populismo di quart’ordine, rimozione sistematica e deliberata di quel “senso delle cose” senza il quale ogni avventura umana, compresa la stessa esistenza individuale, sembra uno straccio abbandonato. Così il mondo della comunicazione ovunque, della rete che ci avvolge fino a stritolarci, del successo a portata di mano, dell’Io ipertrofico e tronfio ci riempie di molto per portarci al nulla. La frammentazione sociale, la perdita della linearità del ciclo di vita conquistata nel Novecento dell’occidente – studio , lavoro, pensione – ci rende fragili e insicuri. E così ci rinchiudiamo in identità spesso autorappresentative, come una coperta da stendere sul capo, per ripararsi dalla globalizzazione del mondo. Insegne religiose usate come spade e carte d’identità brandite come scudi. Nuove ideologie, senza i recinti delle quali, l’uomo sembra sentirsi nudo e solo. Ma nel brodo di coltura delle ideologie sono nati Auschwitz e i Gulag, Pol Pot e i Desaparecidos.
Il nuovo millennio, il discorso pubblico, troveranno una via d’uscita alla alternativa secca tra il tutto delle ideologie e il nulla della vita ridotta a merce, a campione senza valore? La politica ha, per me, questo compito precipuo. Insieme con la soluzione concreta dei problemi concreti degli esseri umani. Ha il compito di fornire un senso “laico” alla domanda di ragione dell’esistenza che mai, nella storia, è stata risolta dalla contemplazione di sé in uno specchio. Nel bel dialogo tra Aldo Bonomi e Eugenio Borgna, pubblicato da Einaudi in questi giorni, ci si interroga sulle ragioni sociali e psicologiche del dilagare della depressione come malattia contemporanea. E se ne indicano le cause, in primo luogo lo sfarinamento del sistema delle relazioni sociali e umane. E se ne indicano però anche le soluzioni, in primo luogo la ricostruzione di quella coscienza della comunità di destino, senza la quale ogni inciampo è un precipizio. Alla comunità delle anime ferite bisogna indicare un poliforme orizzonte di senso. Bisogna passare dalla “egologia”, Zeitgeist del tempo, alla ecologia di un corretto rapporto tra sé e gli altri, tra sé e la natura, tra sé e il tempo, in fondo tra sé e il senso della vita.
Nella presentazione del suo libro a Roma, Eugenio Scalfari ha ricordato la definizione di Kant dell’uomo come “legno storto” e ha giustamente ragionato sulla pericolosità e difficoltà del proposito di raddrizzarlo e dei fallimenti storici di chi se lo è proposto. Accettare i miliardi di “legni storti” spinge a creare un ambiente dove essi possano riconoscersi e rispettarsi e, per questa via, creare un contesto “laicamente” diritto. Avremo bisogno urgente di ritrovare il senso di comunità, perché alla depressione individuale sta per saldarsi anche quella dell’economia. E, se vorremo uscirne, dovremo sfidare la paura e ritrovare la speranza.
Per questo io che non credo o che, come ho detto sinceramente “credo di non credere”, ho ascoltato con enorme interesse l’affascinante discorso al Parlamento tedesco di Benedetto XVI nel quale ha lanciato un invito che non può non essere raccolto. E’ necessaria, ha detto Papa Ratzinger, una “discussione pubblica”, in particolare in Europa, sul rapporto tra politica, diritto e ragione: “Invitare urgentemente ad essa – ha aggiunto – è un’intenzione essenziale di questo discorso”.
Non si può non raccogliere l’invito, innanzi tutto perché di una discussione pubblica sul senso della politica, sui suoi compiti e i suoi limiti, si avverte un bisogno drammatico, in un passaggio storico come quello che stiamo vivendo, segnato da una crisi profondissima, che come è evidente a tutti non è solo economica e finanziaria, ma anche politica e culturale. Ma c’è una seconda ragione che va evidenziata: l’invito del Papa è, per l’appunto, a una “discussione pubblica”, alla quale ciascuno partecipa, secondo un metodo critico e non dogmatico, con la sola forza dei suoi argomenti. E gli argomenti di Ratzinger sono forti, proprio perché aperti. Gli stessi punti solidamente fermi, nella mente e nel cuore del Papa-teologo, colpiscono in modo tanto più penetrante, in quanto emergono, quasi si fanno largo, tra interrogativi radicali, che non solo non vengono elusi, ma vengono problematizzati in modo non esplicito. Già questa è una indicazione, non solo metodologica: c’è una sola via, sembra dire Papa Benedetto, per affrontare la crisi con spirito costruttivo. Ed è la via del dialogo aperto, del confronto trasparente, a partire dalla comune passione per l’umanità e il suo destino.
2. La riflessione proposta da Ratzinger è ormai largamente nota, soprattutto ai lettori di questo giornale. Essa ha al centro l’affermazione che la buona politica, la politica che vuole essere impegno per la giustizia e costruzione delle condizioni di fondo per la pace, è una politica subordinata al diritto, una politica che conosce il suo limite e riconosce la supremazia del diritto, secondo una visione liberale, pluralista, poliarchica. “Togli il diritto – dice il Papa citando sant’Agostino – e allora cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”. Una politica ridotta a volontà di potenza, a mera risultante dei rapporti di forza, o anche solo ad arte e tecnica della conquista e della conservazione del potere, è la minaccia più grande per l’umanità: nella migliore delle ipotesi, avremo cattiva politica, malgoverno, corruzione. Ma il Novecento, per altri versi il secolo delle lotte per la libertà e degli spettacolari progressi della scienza e della tecnica, ci ha anche insegnato, in modo definitivo, che una politica che perde il senso del limite è capace di spalancare davanti all’umanità l’abisso del male assoluto, di generare il mostro totalitario, la scientifica e sistematica, intenzionale e organizzata distruzione della dignità e della stessa vita umana. Nessuno lo sa meglio di noi tedeschi, ricorda Ratzinger.
E tuttavia, dire che la politica deve fondarsi sul diritto e non viceversa, significa dire che il principio di maggioranza, che in gran parte della materia da regolare giuridicamente “può essere un criterio sufficiente”, “nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità” non può bastare. E allora? Come riconoscere ciò che è giusto? Di fronte al male assoluto dei regimi totalitari, c’è il diritto-dovere alla resistenza. “Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente”. Ratzinger vuole essere ancora più chiaro: “Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé”. Anni di discussioni, spesso laceranti, sulle questioni cosiddette “eticamente sensibili”, sono lì a dimostrarlo. Come sono lì a dimostrarlo le non meno dure contrapposizioni, in tutte le sedi multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite, tra il principio di sovranità degli stati e i diritti inviolabili della persona.
La risposta all’interrogativo radicale “come si riconosce ciò che è giusto?” non può venire, secondo Ratzinger, né dal “diritto rivelato”, dalla pretesa di imporre una legge sulla base di un riferimento alla religione, uno dei pericoli più grandi che minacciano l’umanità contemporanea, né dal “positivismo giuridico”, che relega nella sfera della irrazionalità qualunque dimensione della razionalità umana non riconducibile a ciò che è verificabile o falsificabile: un riduzionismo scientista, che è stato contestato, dice Ratzinger in uno dei passaggi più sorprendenti del discorso, dal movimento ambientalista. Quel movimento, ha detto con coraggio, ci ha aiutato a capire che “nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni”.
La via proposta dal Papa è piuttosto quella di una riscoperta dell’idea di “diritto naturale”, per la quale sono la natura e la ragione le vere fonti del diritto: una linea di pensiero che da Atene e Roma, attraverso l’incontro col pensiero giudaico e cristiano e poi il filtro dell’Illuminismo, giunge fino alla Dichiarazione universale dei diritti umani e alle grandi costituzioni democratiche del Dopoguerra.
Non si tratta, come è chiaro, di una formula magica, che garantisce l’evidenza delle soluzioni e l’infallibilità delle decisioni politiche e legislative, ma piuttosto di un orizzonte nel quale collocare il dialogo tra visioni diverse, sul piano politico, filosofico, religioso, per consentire loro di collaborare per la giustizia nella pace. Una collaborazione, beninteso, che non elimina il conflitto, la dialettica, la competizione, ma le colloca su un terreno di comunicazione, di condivisione di un patrimonio di principi e di valori che possono tenere insieme la società: un’esigenza tanto più forte in società aperte, libere, secolarizzate, non gerarchiche, come quelle moderne.
3. La riflessione e la proposta di Papa Ratzinger, entrambe aperte e problematiche, pur attorno a un nucleo di convinzioni forti e radicate, a me paiono di straordinario interesse e suggestione sul piano intellettuale e di potenziale fecondità sul piano politico. Tanto più in un paese come il nostro, profondamente segnato dal dialogo, ma anche dalla contrapposizione, tra laici e cattolici, tra credenti e non credenti. Una discussione pubblica, orientata alla riscoperta e alla attualizzazione di un nucleo di principi e valori fondamentali come quelli che sostengono la nostra Carta costituzionale, non a caso anch’essa figlia di uno dei più alti momenti di dialogo che la nostra storia nazionale abbia conosciuto, aiuterebbe a rafforzare l’unità dialettica del paese, tanto più necessaria in una fase delicata e per molti versi drammatica, come quella che stiamo vivendo.
La traccia proposta da Papa Benedetto a Berlino può risultare preziosa per dar vita, nel nostro paese, a una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti e a scongiurare invece dannose e fuorvianti contrapposizioni. Preziosa è innanzi tutto la “pars destruens” del ragionamento ratzingeriano, quel doppio no, da una parte all’integralismo fondamentalista, alla pretesa di dedurre da una fede religiosa criteri normativi validi per tutta la società; e dall’altro alla concezione speculare e in definitiva subalterna allo stesso integralismo religioso, secondo la quale la libertà vive solo nella negazione di qualunque principio e valore che non sia l’arbitrio individuale. Si tratta, come è evidente, di due posizioni estreme, tanto presenti nell’autorappresentazione pubblica, quanto poco rappresentative sia dell’universo dei credenti, cattolici e non solo, irriducibili allo stereotipo del fanatismo integralista e invece da tempo allenati e appassionati al dialogo, al confronto, alla contaminazione; sia di quello dei non credenti, che a ragione rivendicano la loro capacità di pensare e vivere sulla base di principi e valori che pur non avendo, dal loro punto di vista, un fondamento trascendente, pur non ponendosi in una prospettiva metastorica, non per questo sono meno metapolitici, capaci cioè di dare fondamento non effimero ad una vita etica e ad una politica fondata sul diritto.
Penso che sia vitale, per il futuro del nostro paese, incoraggiare e favorire una comune capacità, da parte di credenti e non credenti, di coltivazione dei valori comuni, sulla base di una comune fiducia nella ragione. La prima condizione perché ciò accada è che i credenti imparino sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, confidando nella ragione, che del resto, nella loro fede, è essa stessa dono di Dio, logos umano che partecipa del logos divino. La sistematica applicazione di questa regola eviterebbe il cortocircuito integralista, che rende il dialogo impossibile. La seconda, speculare condizione, è che i non credenti, a loro volta, imparino a rispettare fino in fondo i convincimenti religiosi e sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, come una condizione di possibilità della libertà degli individui. Attraverso questa regola, la libertà come principio di autodeterminazione si apre alla responsabilità ed evita di ridursi ad egoismo individualistico.
4. Una considerazione finale che ovviamente si allontana dalle riflessioni grandi del Papa per planare su questo passaggio, l’ennesima transizione, della storia italiana. Promuovere una nuova stagione di dialogo tra credenti e non credenti è indispensabile anche per scongiurare il rischio che, dopo la fine ormai conclamata del berlusconismo, il bipolarismo italiano si ristrutturi lungo una linea di frattura etico-religiosa, anziché politico-programmatica. Non ci si può dividere su ciò su cui ci si dovrebbe unire. Nel celebre dialogo con Habermas, quasi otto anni fa, l’allora cardinale Ratzinger definiva l’incontro dialogico tra credenti e non credenti come “ciò che tiene unito il mondo”, che corre invece il rischio mortale di dividersi lungo una faglia che finirebbe per opporre una religiosità ridotta a fanatismo fondamentalista, a un razionalismo non meno dogmatico e intollerante.
Per questo penso che il nuovo protagonismo dei credenti cattolici, delle loro associazioni, movimenti, opere, al servizio di un rilancio e di una ricostruzione di un paese che da decenni non era così fiaccato e umiliato, sarà tanto più fecondo, quanto più saprà irrorare tutto lo schieramento politico. Entrambi i poli di un nuovo bipolarismo, finalmente liberato dall’ipoteca populista e plebiscitaria del berlusconismo, finalmente articolato su schieramenti costruiti attorno a programmi per il governo e non sulla demonizzazione dell’avversario, capaci entrambi di reciproca legittimazione e di positiva collaborazione, nella distinzione dei ruoli tra maggioranza e opposizione, dovranno vedere presenti e protagonisti laici e cattolici, credenti e non credenti.
Naturalmente, rendere questo possibile è compito innanzi tutto delle forze politiche. E sul versante del centrosinistra è compito innanzi tutto del Partito democratico, che mai come oggi può comprendere quanto la sua originaria vocazione a unire le diverse culture riformiste, guardando ben oltre i tradizionali confini della sinistra storica e dando vita ad una identità nuova, unitaria e plurale, l’identità democratica, sia condizione vitale per il suo stesso ruolo nel paese.
l’originale qui

l’Unità 2.10.11
Fenomenologia di Bossi
Né lingua, né popolo, la Padania è un’invenzione
L’analisi. Giuliano Procacci, scomparso tre anni fa, esaminò in un saggio del 2004
il programma leghista e dimostrò come l’idea di una nazione padana non abbia alcun fondamento. «C’è un uso disinvolto della storia che produce solo una certa evanescenza»
di Giuliano Procacci


Da Niccolò Machiavelli allo studio degli italiani
Il testo che pubblichiamo in questa pagina è uscito sul numero di gennaio 2004 della rivista mensile «La lettera», diretta da Roberto Gualtieri e Claudio Mancini.
Giuliano Procacci, allievo di Federico Chabod, morì tre anni fa, esattamente il 2 ottobre del 2008. È stato uno dei più grandi storici italiani. Studioso di Machiavelli, si è occupato del carattere degli italiani ed è autore, tra l’altro, della «Storia degli italiani» pubblicato da Laterza e della «Storia del XX secolo». La sua analisi sulla Padania è contenuta anche nel volume «Carte di identità», Editore Carocci.

Quali interessi economici e quali pulsioni costituiscano il sostrato sul quale si è sviluppato il movimento leghista è cosa che chiunque sia vissuto in Italia settentrionale o ne conosca la realtà non fatica a comprendere. Sin dall’infanzia mi sono sentito ripetere che i meridionali erano degli scansafatiche che vivono alle spalle degli operosi settentrionali e che la burocrazia romana era inefficiente e parassitaria. Il fatto sta che tali discorsi si facevano in famiglia o nelle osterie e non, come accade ora, nelle piazze e in Parlamento. Su questa base consuetudinaria si è sviluppato un movimento politico che rivendica una propria identità sino a reclamare l’indipendenza per la sua terra e la sua patria, la Padania.
Ma di quale terra e di quale patria si tratta? E anzitutto quale è il suo ambito geografico e quali sono i suoi confini? Nella «dichiarazione di indipendenza e sovranità» del 15 settembre 1996 resa dai «popoli della Padania convenuti sul grande fiume Po» si legge che «noi apparteniamo ad un’area storica, la Padania, che sotto il profilo socio-economico è fortemente integrata al suo interno pur nella riconosciuta e rispettata diversità dei popoli che la compongono». Fin qui siamo nell’indistinto. Una qualche precisazione geografica la troviamo però nell’enfatico proemio della dichiarazione. Vi si dice infatti che i «popoli» in questione provengono dalle seguenti regioni elencate in ordine alfabetico: l’Emilia, il Friuli, la Liguria, la Lombardia, le Marche, il Piemonte, la Romagna, il Sudtirol-Alto Adige, la Toscana, il Trentino, l’Umbria, la Valle d’Aosta, il Veneto e la Venezia Giulia.
Questo stesso elenco troviamo nella Costituzione transitoria del settembre 1996
e nella Costituzione dell’Unione federale della Padania approvata nel luglio 1998 dal Parlamento padano riunito a Chignolo Po, con la sola differenza che nella prima non si parla più di «popoli», ma di «regioni» e nella seconda di «nazioni», ciascuna delle quali peraltro costituita da più «popoli» cui è riconosciuto il diritto di aderire o meno all’Unione ed eventualmente di recederne mediante referendum. (...)
Da un punto di vista strettamente geografico, sia pure con ampi margini di approssimazione, la denominazione Padania potrebbe anche avere un senso. Ovviamente però non bastano un territorio, dei confini e un fiume per trasformare una «espressione geografica » in una nazione o anche soltanto in una comunità di «popoli». Ci vogliono dei requisiti in primo luogo quello di una lingua. Questa lingua notoriamente esiste, ma essa ha il difetto di essere quella stessa che è parlata nella “penisola” al di sotto della linea gotica, una lingua imposta dai conquistatori stranieri, in una parola “italiana”. «Lo stato italiano – leggiamo infatti nella citata dichiarazione del settembre ’96 – ha deliberatamente tentato di sopprimere le lingue e le identità culturali dei popoli della Padania attraverso la colonizzazione del sistema pubblico di istruzione».
Ma quali sono queste lingue? Come i «popoli» o le «nazioni» che costituiscono la Padania, esse sono numerose. La rivista della Libera Compagnia Padana – associazione costituitasi nel 1995 per promuovere l’identità padana – pubblica sulle sue pagine articoli in insubre, ligure, ladino, orobico, occitano, emiliano, piemontese e friulano. È evidente però che quel che può fare una pubblicazione parrocchiale e mirata a un pubblico selezionato, non lo può fare un giornale che aspiri a una tiratura ampia e tanto meno un partito politico. Accade così che i documenti ufficiali della Lega Nord e la sua stampa siano redatti in italiano e che una buona metà degli articoli pubblicati dagli stessi “Quaderni padani” siano in “toscano”, per non voler dire italiano. Esiste invece una molteplicità di dialetti che presentano notevoli varianti anche tra zone contigue. Ammetterlo sarebbe imbarazzante ma altrettanto sarebbe il negarlo. Per uscire da questa impasse si ricorre perciò all’espediente di ribattezzare i dialetti in «lingue locali». Diremo perciò che le poesie del Porta non sono in dialetto milanese, ma in una imprecisata “lingua locale”.
Non resta allora che scavare alla ricerca di glorie passate e di simboli in quel «condiviso patrimonio di valori, di cultura, di storia». Tra le glorie passate il posto d’onore spetta con tutta evidenza al giuramento con il quale a Pontida i Comuni aderenti alla Lega lombarda si impegnarono a combattere contro il Barbarossa e tra i simboli esso spetta al Carroccio. Siamo tutti testimoni dell’uso e dell’abuso che viene fatto dell’uno e dell’altro. Si tratta, come è noto, di un topos di origine risorgimentale e carducciana del quale Bossi non ha esitato ad appropriarsi declinandolo e distorcendolo in versione federalista o secessionista. La storia recita infatti che Alberto da Giussano e i Comuni lombardi non combattevano contro Roma, il cui Papa sosteneva anzi la loro lotta, ma contro un sovrano straniero. In quest’ottica la battaglia e la vittoria di Legnano sono parte integrante del patrimonio delle glorie nazionali (...)
Per dare un qualche fondamento a questo sgangherato e dilettantesco revisionismo taluni difensori della padanità non rifuggono dal far propri gli argomenti della polemica antisabauda, se non filoborbonica, di certa pubblicistica meridionalista. Capita così che in testa a una lista di letture consigliate per una vacanza “padana” figuri il libro di Carlo Alianello La conquista del Sud, in buona parte dedicato all’esaltazione dell’eroismo dei Borboni assediati a Gaeta e alla rivalutazione del brigantaggio. Immagino lo sgomento del lettore padano quando si imbatterà in un passo in cui si afferma che i soldi della Cassa del Mezzogiorno finiscono per rifluire tutti «nel cerchio delle Alpi tra la Dora e il Mincio. E aggiungiamoci il Po».
In conclusione, solo un uso disinvolto della storia può consentire la costruzione di un’ipotetica identità padana: la Padania, intesa come un’entità etnicamente e culturalmente omogenea, non è mai esistita. Ma come spiegare allora la sia pur limitata forza di suggestione e attrazione che questo flatus vocis esercita? Penso che abbia ragione Alberto Battaggia quando osserva che «tuttavia la Padania, entrata nella koinè massmediologica, ha iniziato ad esistere, la secessione non appare più una follia, ma un disegno strategico» e anche quando rileva che «il capolavoro politico della Lega sta forse proprio qui, nell’aver saputo costruire un immaginario politico nazionalistico senza potere poggiare su solidi presupposti obiettivi». Per parte mia direi che, per quanto ciò possa apparire paradossale, è proprio l’evanescenza ed inesistenza della Padania a conferirle credibilità. Qualsiasi altra denominazione avrebbe urtato radicate suscettibilità cittadine e regionali. Un veneziano non può riconoscersi in una patria che si definisca lombarda o celtica e un milanese con secoli di orgoglio cittadino alle spalle non si riconoscerà in alcuna Insubria né un torinese in alcuna Occitania piemontese. Tutti invece possono riconoscersi in una sorta di limbo, di luogo virtuale quale è appunto la Padania. Nelle nebbie della valle del dio Po tutte le vacche sono grigie. Occorre però anche dire che se questa indeterminatezza e questa evanescenza valgono a render ragione dell’iniziale forza di attrazione del messaggio leghista, esse costituiscono anche la base della sua inconsistenza e debolezza. Una volta dissoltesi le nebbie, si scopre infatti che le vacche non sono tutte eguali, che i dialetti non sono lingue e che ogni piccola patria è diversa dalle altre. Al regionalismo subentrano i municipalismi e i campanilismi. Il meccanismo scissionistico che ne aveva favorito il successo si ritorce contro coloro che l’avevano avviato.

Repubblica 2.10.11
Il padano non è un popolo
di Antonio Cassese


Ha forse torto Giorgio Napolitano a dimenticare il «diritto universale dei popoli all´autodeterminazione», come ha detto l´onorevole Roberto Calderoli? No, è Calderoli che ha torto quando rivendica quel diritto per il così detto popolo padano. Né la Costituzione italiana, né il diritto internazionale conferiscono l´autodeterminazione agli abitanti della Padania.
La nostra Costituzione è chiarissima. L´articolo 5 proclama che la Repubblica è una e indivisibile, anche se attenta alle esigenze dell´autonomia e del decentramento. E infatti neanche l´Alto Adige, una regione con una forte minoranza linguistica, e i cui leader politici avevano invocato per anni la secessione, l´ha ottenuta, perché contraria alla nostra Carta costituzionale.
Ma nemmeno il diritto internazionale, ancora impregnato delle idee lanciate nel 1914-15 dal presidente statunitense Wilson e da Lenin, riconosce alcun diritto al "popolo padano". Attualmente il diritto internazionale accorda l´autodeterminazione "esterna", e cioè il diritto all´indipendenza eventualmente raggiungibile attraverso la secessione, solo a tre categorie di "popoli": (1) quelli coloniali; (2) quelli sottoposti a dominio straniero o ad occupazione militare (come il popolo palestinese o quello del Sahara ex spagnolo sottoposto all´occupazione del Marocco); (3) ai gruppi "etnico-razziali-religiosi" discriminati così gravemente a livello politico e sociale dalle autorità centrali da non essere in alcun modo rappresentati nelle assise di governo (è quel che succedeva alla maggioranza di colore in Sudafrica all´epoca dell´apartheid).
Ora, è chiaro che il "popolo padano" potrebbe tutt´al più ricadere nella terza categoria. Ma così non è, per due ragioni. Ove anche quel "popolo" costituisse una minoranza etnico-razziale–religiosa, il che non è, è un fatto che non solo non è discriminato politicamente e socialmente ma che ha addirittura tre ministri al governo. Per una ragione simile qualche anno fa la Corte Suprema del Canada negò l´autodeterminazione al Québec - che pure costituisce una minoranza linguistico-religiosa - appunto perché quella minoranza non era affatto discriminata a livello politico centrale.
Ma la ragione determinante è che la Padania è solo un´entità geografica, anche se ha le sue tradizioni e ha dato vita ad un partito politico. Quindi, parlare per essa di autodeterminazione e secessione è parlare a vanvera. Ovviamente Calderoli nemmeno potrebbe invocare il diritto all´autodeterminazione "interna", che è il diritto universale ad un sistema rappresentativo, pluripartitico e democratico: sistema questo che è già pienamente operante in Italia.
Sarebbe opportuno che si smettesse di inquinare il discorso politico con fumose ed inconsistenti chimere, che creano aberranti aspirazioni, distraendo dai tanti gravi problemi che affliggono l´Italia. E forse sarebbe utile che alcuni nostri politici si leggessero qualche manuale elementare di diritto costituzionale e internazionale.

Repubblica 2.10.11
La Repubblica del Presidente
di Ilvo Diamanti


Giorgio Napolitano non era mai stato così duro nei confronti della Lega Nord, prima. Ne aveva, anzi, sostenuto le rivendicazioni principali. In tema di federalismo ma anche di fisco e burocrazia. La Lega, d´altra parte, aveva offerto al Presidente una sponda utile, nella maggioranza, in occasione dei ricorrenti conflitti con il Premier, alla continua ricerca di vie di fuga dai propri guai giudiziari.
Ieri questo rapporto si è spezzato, in modo difficilmente recuperabile. Perché la condanna di Napolitano ha colpito i miti e i riti dell´identità leghista, proprio nel momento in cui vengono rilanciati. La secessione, ma, soprattutto, il "popolo padano". Liquidato insieme alla manifestazione di Pontida. Un "prato", dove si alzano le grida di "una certa parte di elettori".
Un intervento così esplicito si spiega con il drammatico momento che attraversa il Paese. E con il ruolo assunto da Napolitano, soprattutto nell´ultimo anno. Il garante e il portabandiera – tricolore – dell´Unità. Nazionale e Politica.
Non molti avrebbero scommesso sul successo delle celebrazioni in occasione del 150enario dell´Unità d´Italia. D´altronde, l´Italia è un Paese di paesi, Regioni, città. Imprese e famiglie. Gli italiani. Orgogliosi del patrimonio artistico, della cucina, del paesaggio, delle tradizioni locali. Molto meno delle istituzioni. Per nulla della politica. La Lega ne aveva approfittato per rilanciare la Padania e la secessione. I miti fondativi. Ma anche per rispondere alla disaffezione degli elettori e dei militanti. Insoddisfatti della "Lega di governo" saldamente insediata a Roma. Delusi dagli esiti della riforma federalista, frustrata dalla pesante perdita di risorse e, quindi, di autonomia dei governi locali.
Tuttavia, le celebrazioni del 150enario hanno reso visibile e, anzi, amplificato il sentimento nazionale. Mentre le minacce leghiste hanno contribuito a rinsaldarlo ulteriormente. Facendo emergere, anzi, significative divisioni nella stessa Lega. Visto che la maggioranza dei suoi elettori si sente "italiana" assai più che "padana". Come, d´altra parte, alcuni importanti dirigenti leghisti del Lombardo-Veneto. Per esempio: il sindaco di Verona, Tosi, e il vice-sindaco di Treviso, Gentilini.
Giorgio Napolitano ha, così, impersonato l´Unità nazionale e ne ha alimentato il sentimento, girando per l´Italia. Ne ha tratto, a sua volta, legittimazione e consenso. Oggi è la figura istituzionale che gode di maggiore fiducia tra gli italiani. Senza paragone, visto che oltre l´80% esprime grande stima nei suoi riguardi. Per questo ha deciso di rompere ogni indugio e ogni prudenza tattica. Proprio oggi. Mentre le celebrazioni del 150enario si avviano alla conclusione. Per delegittimare ogni accenno alla secessione e alla Padania. E sancire il valore con-diviso dell´Unità nazionale, in modo in-discutibile. Tuttavia, l´intervento di Napolitano ha, indubbiamente, anche un significato politico.
In primo luogo, come ha scritto ieri Ezio Mauro, perché costringe la Lega a uscire dall´ambiguità. Un partito di governo, che occupa ruoli di prioritaria importanza nelle istituzioni nazionali e locali: non può sostenere apertamente la secessione. L´inesistenza della Nazione italiana, in nome di altre Nazioni – inesistenti. Per proprie ragioni politiche. Deve, altrimenti, trarne le conseguenze. "Uscire dalla legalità costituzionale". E anzitutto dal governo.
In secondo luogo, l´intervento di Napolitano riflette la preoccupazione – e una certa angoscia – nei confronti di questa crisi. Economica, finanziaria, sociale. E, ancora: istituzionale e politica. Una crisi di legittimità e di rappresentanza, che investe la classe politica e soprattutto il governo.
Con pesanti e pericolose conseguenze, sul piano economico e finanziario internazionale. Visto che la sfiducia dei mercati è, in gran parte, prodotta dalla in-credibilità del nostro governo e del suo leader. Con pesanti e pericolose conseguenze anche sul piano interno, nel rapporto con la società civile. Non è un caso che l´intervento di Napolitano venga all´indomani delle aperte critiche espresse dalle associazioni imprenditoriali e dalla Cei. Nello stesso giorno in cui i promotori del referendum contro l´attuale sistema elettorale annunciavano che le firme avevano superato un milione e duecentomila. Ben oltre le previsioni più ottimistiche. Segnale inequivocabile, come ha sottolineato il Presidente, della sfiducia dei cittadini verso questo sistema elettorale, che «produce» un Parlamento e una classe politica «irresponsabili». Senza collegamento con il territorio e con gli elettori. Da ciò l´auspicio a favore di una nuova e diversa legge elettorale, che faciliti «il ritorno della fiducia nelle istituzioni».
Difficile non trarre le implicazioni "politiche" di queste considerazioni "politiche".
Il Presidente, infatti, teme il protrarsi ulteriore di una crisi ormai degenerata, ma che non trova sbocco. A causa di un sistema politico paralizzato e di un governo isolato e diviso. Troppo debole per governare, ma anche per cadere. Di un Parlamento a sua volta troppo debole per far cadere il governo. Di istituzioni delegittimate e sfiduciate dai cittadini. Napolitano. Spinge, da tempo, per una soluzione rapida. Ma teme una consultazione elettorale troppo ravvicinata. Perché avverrebbe in un clima avvelenato, che potrebbe produrre ulteriori lacerazioni nel tessuto civile. Mettere a rischio la stessa democrazia. Perché, inoltre, si svolgerebbe con questa legge elettorale, messa in mora dal referendum. Scomunicata da Napolitano, avversata da molti esponenti politici - di opposizione ma anche di governo. Il Presidente dell´Unità nazionale: vorrebbe un governo di Unità nazionale. Composto da tecnici autorevoli, sostenuta da una larga maggioranza – politicamente trasversale – del Parlamento. Guidato da una figura di prestigio, sopra le parti. Un governo a termine, per scrivere una nuova legge elettorale. Per restituire credibilità alle istituzioni e all´Italia. Presso i governi e i mercati internazionali. Presso i cittadini.
Giorgio Napolitano, in nome dell´Unità nazionale, agisce come il Capo di una Repubblica presidenziale – di fatto. Per evitare il decomporsi di questa Repubblica preterintenzionale. Prima che sia troppo tardi.

Repubblica 2.10.11
Noi, moralmente inferiori
di Francesco Merlo


Siamo tutti, noi che vogliamo mandare a casa Berlusconi, «eticamente inferiori» a Lavitola. Al di là del ragionamento, è diventata uno sberleffo la seconda puntata di quell´elogio dell´impunito che noi avevamo previsto.
E che poi Giuliano Ferrara ha effettivamente scritto e che ora nel centrodestra è il nuovo che avanza: l´imprenditore disarticolato (flessibile, direbbe Sacconi) i mille mestieri e la finanza nera, l´avventurosa vita di espedienti e la bella vita a scrocco, barche e aerei e patonze di Stato, e quindi il ricatto, il pizzo sotto forma di elemosina, lo scarto incartato nella retorica della faccia tosta, il "latitante patente" che è una mostruosità perché latere vuole dire nascondersi e patere vuol dire scoprirsi.
Per me era stato facile immaginare che il direttore del Foglio non avrebbe saputo resistere alla lode del mascalzone, luogo comune del politicamente scorretto, speculare a quel politicamente corretto che sempre spinge il mio amico Giuliano, qualche volta improvvidamente, a brandire la sua audace e bella penna.
Forse sorpreso per essere stato, sia pure per una volta, prevedibile, Giuliano Ferrara ci ha poi accusato di «masticare amaro» per la vittoria televisiva, «che solo Repubblica non vuole ammettere», del «giornalista faccendiere» sui «giornalisti origliatori». Ma non esiste un buon giornalista che non sia origliatore, che non senta, non veda, non tocchi e non fiuti. Altra cosa è il giornalista faccendiere. Lì si può applicare quell´eventuale categoria etica che l´immoralista ha riservato agli origliatori. Lavitola infatti traffica in denaro, impastocchia patonze, case, pesce, commesse di Stato … È meglio un giornalista che ha naso o un giornalista che ha la mano lesta?
È vero che, nel programma di Enrico Mentana, Lavitola l´ha fatta da padrone, da protagonista. Ma è sempre questo il ruolo dell´intervistato, si tratti di Totò Riina o di Madre Teresa di Calcutta. E poi non era di cronaca giudiziaria che si doveva parlare. Ci sono magistrati e poliziotti che hanno riempito pagine e pagine. Bisognava passare al carattere, al costume, sapere come Lavitola si guadagnava i soldi prima di mungere Berlusconi, e come ha messo su famiglia, e cosa gli piace di Berlusconi e perché gli stampa bacioni più alla Cuffaro che alla Riina, perché odia il suo collega faccendiere Bisignani, e chi sono per lui i fessi in Italia… Alla sola domanda non giudiziaria - «ma lei, che mestiere fa?» - ha risposto con lembi di nebbia e spero che i pescivendoli, i giornalisti, gli editori… (gli uomini, direbbe Sciascia) e persino i faccendieri si siano sentiti offesi.
Nessun bravo direttore, ammettendo che avesse accettato di organizzare una conferenza stampa convocata da questo latitante patente, avrebbe invitato solo cronisti giudiziari. Ferrara ci avrebbe mandato, che so?, Pietrangelo Buttafuoco e Annalena Benini. A chiedergli cosa c´entra Nenni con lui e magari scoprire che neppure sa chi era. E che faccia ha quando si presenta ai suoi figli. E perché teneva sotto tutela, come dice, «un fesso» e intanto gli rubava la moglie. E che rapporti ha avuto con Fini e la Tulliani. E com´è arrivato a quella casa di Montecarlo. E se conosce la differenza tra un´orata e un´acciuga.
Ferrara mi accusa di trattare con «disprezzo antropologico… i pescivendoli che sono persone dabbene». Lavitola è un pescivendolo come potrebbe essere un pennivendolo, ma non è un «pesciaio» che, non solo dalle mie parti, è uno stare al mondo insegnando a tutti la fatica di vivere. Cosa nasconde Lavitola dietro il pesce, simbolo di Cristo? A me pare più pecoraio che pesciaio: ha la faccia di chi mangia troppo formaggio, paffutissimo sorcio nel gorgonzola di Berlusconi.
Non ha senso dunque cercare un vincitore tra Lavitola e quei bravi giornalisti giudiziari, Marco Travaglio, Marco Lillo, Carlo Bonini e Corrado Formigli. Invitarli è stato come invitare i commentatori calcistici ad un incontro di pugilato. Sempre giornalismo è. Ma ci sono tecniche e competenze anche nel giornalismo. E che il rapporto tra Lavitola e il giornalismo non fosse giudiziario si capiva da quei suoi foglietti da circo equestre, niente e tutto, fogli da imbroglione da fiera, di quelli «venghino il tre di oro vince, venghino il tre di oro perde».
Perché questo è Lavitola, caro Giuliano. Non «un faccendiere di talento», ma un imbroglione da fiera che solo Berlusconi apprezza e promuove perché ormai il suo mondo è fatto di mezze tacche e di surrogati, sia maschili sia femminili, sia intellettuali sia fisici, sia giornalistici sia politici.
E io conosco Giuliano Ferrara abbastanza bene per sapere che questa antropologia di ominicchi e mezze donnette gli fa orrore e pietà, perché è la corte del Re Asino. E sa anche che sempre più gente vede e capisce che a quel disperato vecchio è rimasto solo Ferrara a rimettergli in piedi le cause perse, a nobilitare l´ignobiltà, a cacciare via le mosche mentre i cani gli spolpano la carcassa. Ferrara dice che io «milito sin troppo onorabilmente». Ma il punto di vista del merlo, caro elefantino, non è la militanza ideologizzata ma la pietas, il racconto balzacchiano che mi intimorisce persino: io cerco la sepoltura che Giuliano gli nega.
So bene che Ferrara non indosserà mai la casacca di Lavitola né quella di Minzolini. Perciò persegue lo scandalo impossibile. Il suo lavitoleggiare infatti è cosi surreale che io l´ho prevenuto. Noi di Repubblica abbiamo pre-sentito che, in quel momento, Lavitola era il personaggio perfetto nella dadaista commedia umana di cui Ferrara è regista e direttore di fotografia. Ma queste sono marionette senza passione: non raggiunge nessun apice truffaldino la mezzacalzetta Lavitola. E Giuliano Ferrara sa di sostenere cose insostenibili. E si diverte pure a fare il cattivo. È lucido e consapevole. Come se l´Innominato manzoniano si riconvertisse dopo essersi convertito.
Sulla Arcuri, infine, che Ferrara mi rimprovera di aver paragonato ad «una piccola Anna Magnani» («sgrammaticata» per la precisione) io ho sicuramente esagerato inseguendo un tocco di neorealismo ironico. Ma io non so come si è chiusa la trattativa dell´Arcuri con Berlusconi, non so se ha intascato cammello. Ferrara invece ha un´altra verità. Dove l´ha origliata? A volte l´immoralismo si trasforma in moralismo. Ti toccherà, caro Giuliano, fare tardi la notte per rileggere Kant.

il Fatto 2.10.11
Il Parlamento degli schiavi
di Furio Colombo


L’Italia si è incastrata in una secca dalla quale non può uscire. Lo sguardo si abbassa fino a Berlusconi, per ricordare la sua grave e immensa responsabilità. Ma solo per ricordarla. Finora non siamo riusciti a fare altro. Lo sguardo si alza verso il Presidente della Repubblica con la richiesta, a momenti affannata, che “faccia qualcosa”, pur sapendo benissimo che la Costituzione (che non aveva previsto una maggioranza parlamentare a pagamento, voto per voto) non lo consente. Ci restano oggi, le sue parole dure contro la Lega padana, il piccolo-grande complice di Berlusconi. Lo sguardo irato e angosciato dei cittadini si è fissato allora sul Parlamento. È subito divampata una polemica carica di ragioni e di prove, su sprechi, privilegi e spese fuori misura. Tutti si devono rendere conto che è un problema (prima ancora, un fatto) che non potrà mai più essere accantonato. Eppure non è per questo che la macchina del Parlamento sta bloccando la nave Italia. Direte che il Parlamento è pigro e assenteista. Non è vero. Purtroppo sta lavorando. Tutto il suo lavoro è al servizio del governo e della sua pretesa rovinosa di restare governo, una sorta di ideologia rappresentata abbastanza bene, in una recente dichiarazione che potremmo chiamare “il Manifesto Lavitola” (diretta del Tg la7 la sera del 28 settembre) ovvero passare avanti e indietro, senza spiegazioni, grandi somme di danaro tra persone ricercate dalla giustizia. Il discredito è grande, come è grande il costo economico (praticamente incalcolabile) di quel discredito.
   NEI GIORNI scorsi un importante giurista, Gustavo Zagrebelsky si è assunto il compito di dire perché il Parlamento, a cui spesso si fa riferimento come al luogo giusto per la vita democratica, sia adesso in Italia il luogo in cui ogni barlume di vita democratica si spegne, e anzi è il luogo e la ragione del blocco. Ecco il punto chiave del documento che Libertà e Giustizia presenterà a Milano il giorno 8 ottobre (già pubblicato dal Fatto il 30 settembre): “Un Parlamento che, di fronte a fatti sotto ogni punto di vista ingiustificabili, alla manifesta incapacità di condurre il Paese in spirito di concordia fuori dalla presente crisi economica e sociale, al discredito dell'Italia presso altre nazioni, non revoca la fiducia a questo governo mentre il Paese è in subbuglio e in sofferenza nelle sue parti più deboli, non è forse esso stesso la prova che il rapporto di rappresentanza si è spezzato? (...) Ci pare anche gravemente offensivo del comune senso del pudore politico accecarsi di fronte alla lampante verità dei fatti e trasformare il vero in falso e il falso in vero, gettando nel discredito le istituzioni parlamentari e, così, l'intera democrazia” . Ho citato questa dichiarazione estrema perché è la descrizione accurata di un giorno, ogni giorno, al Parlamento italiano. Per esempio , il giorno in cui la Camera dei Deputati ha votato a maggioranza, e con il sistema del “voto di fiducia” una circostanza falsa e palesemente tale, ovvero la dichiarazione del capo del Governo italiano di essere certo che una prostituta minorenne fermata in strada a Milano fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak.
Un simile dileggio dell’istituzione dovrebbe portare rivolta in Parlamento, prima di tutto fra le file della maggioranza, se qualcuno dei suoi membri avesse un minimo di rispetto per se stessa o se stesso. Ma, soprattutto dovrebbe portare rivolta nel-l’opposizione. Possiamo continuare ad essere soci regolari e partecipi di un club che vuole tenacemente avere nei suoi ranghi Saverio Romano e i suoi legami mafiosi, lo proclama in modo solenne con un voto di fiducia a cui partecipa tutta la Lega Nord (benché non sia in gioco la tenuta del governo, ma il prestigio della Camera dei Deputati) e poi ci fa assistere all'abbraccio fra il rinviato a giudizio per concorso esterno al reato di mafia e il presidente del Consiglio italiano? Possiamo passare avanti, sia pure con amarezza, a lavorare per altri “provvedimenti” di questo governo-gang che attendono di essere votati (cosa che faremo con assiduità e cura, credendo che sia quello il nostro dovere e il legame con i cittadini)? Possiamo dedicarci a migliorare qua e là, con giudiziosi emendamenti in Commissione Giustizia, la nuova legge sulle intercettazioni che i nostri elettori chiamano, fin dall'inizio, “legge bavaglio”?
DOVE, DA CHI abbiamo imparato che un’opposizione segue comunque l'ordine dei lavori stabilito dal governo, e che il governo può sempre imporre la sua volontà alla maggioranza succube? In onore o in omaggio o in ubbidienza a chi o che cosa noi dovremmo concorrere nella responsabilità di svilire l'istituzione cardine della democrazia? L'appello di Zagrebelsky indica con esattezza il punto cruciale del confronto fra sottomissione e liberazione. Posso testimoniare che, dentro il Parlamento, è un punto di solitudine. È diffusa la credenza che un bravo parlamentare non si volta mai indietro a guardare i suoi elettori. Il bravo parlamentare sta al gioco, per quanto iniquo e devastante, un gioco totalmente manovrato da fuori del Parlamento e distruttivo per la Repubblica.
Possibile che si debba lavorare di buona lena insieme con Milanese, con Saverio Romano, con mafia e camorra, con massoneria e gruppi d'affari P3 e P4, con gli svariati e fantasiosi reati compiuti, e in via di compimento,del presidente del consiglio? L'appello di Zagrebelsky dice in modo esplicito e solenne, con la garanzia della persona e del giurista, che una spaccatura grave e profonda divide in modo irreparabile (finchè dura la causa) il Paese e i suoi attoniti cittadini dalla istituzione Parlamento. Chiedo con angoscia e rispetto ai mie colleghi della Camera dei Deputati: siamo sicuri che la cosa giusta sia continuare a “lavorare insieme”, tentando di migliorare, emendare e comunque partecipare a vita e avventure di chi ha infettato alla fonte tutto il lavoro e l'esistenza stessa del Parlamento?

Corriere della Sera 2.10.11
Centrosinistra 10 punti avanti
Pd al 27-28%, Pdl al 26. Terzo polo decisivo
di Renato Mannheimer


Ormai, la maggioranza relativa degli italiani auspica che si vada subito alle elezioni anticipate. Secondo gli ultimi studi, questa soluzione è auspicata dal 44% dei cittadini, compresa una quota, seppure contenuta, di elettori del centrodestra. Ma quale potrebbe essere l'esito di queste consultazioni se, per ipotesi, si votasse domenica prossima? Quasi tutti gli istituti di ricerca hanno divulgato di recente dati sulle intenzioni di voto. Questi ultimi non sembrano mutati granché nelle ultime settimane, salvo variazioni minime, spesso irrilevanti (uno spostamento dello 0,5% tra un sondaggio e l'altro può essere puramente casuale).
Tra gli altri, appare mantenere bene il proprio consenso il Pd, con un seguito pari al 27-28%: un dato ancora inferiore a quello ottenuto alle ultime Politiche (33%), ma che supera quello delle Europee che si svolsero un anno dopo (26%). Sull'altro fronte, il Pdl continua a subire un lieve ma costante calo di voti virtuali e si attesta oggi poco sopra il 26%: circa 10 punti meno del risultato delle Politiche e delle Europee, segno della crisi che, specie in queste settimane, attraversa il partito del Cavaliere. La Lega è una delle poche forze che rimane stabile rispetto al passato: il suo consenso è infatti da molto tempo collocabile tra il 9 e il 10% (grossomodo il risultato delle Europee), senza che la crescente disaffezione verso il governo rilevabile anche nell'elettorato di centrodestra (e, specialmente, in quello della Lega) abbia minato significativamente il suo seguito elettorale.
Nell'insieme, il complesso delle forze di centrosinistra sopravanza di gran lunga (all'incirca di 10 punti, anche senza considerare Grillo) quello dei partiti di governo. Solo se questi ultimi riuscissero a realizzare una alleanza con le forze di centro (che superano il 10%), potrebbero competere con il centrosinistra e, forse, anche in questo caso, soccomberebbero. Se poi, viceversa, Udc, Fli e Api si coalizzassero, anche solo in parte, con tutti o alcuni dei partiti di centrosinistra, la supremazia di questi ultimi verrebbe ancora più rafforzata. Ancora una volta, dunque, la posizione delle forze di centro — e le possibili alleanze — risultano determinanti per il risultato.
Ma si tratta di un quadro puramente teorico. Per almeno due motivi. Anzitutto, la percentuale di indecisi rimane assai elevata, e le esperienze degli ultimi anni hanno mostrato come la campagna elettorale sia cruciale nel formare le opinioni di molti e, talvolta, anche a cambiare la decisione di quanti oggi dichiarano di avere già maturato una scelta. Infine, specie nel momento in cui c'è una crescente sfiducia verso il governo, ma anche verso l'opposizione e la politica in generale, l'eventuale discesa in campo di qualche leader capace di «accendere» l'elettorato può far mutare l'opinione a una quota significativa di cittadini.
Il secondo motivo per cui i dati attuali rappresentano un'ipotesi puramente teorica è che è ancora incerto il sistema elettorale che sarà in vigore. Come si sa, il «Porcellum» è sgradito a molti e, non a caso, il referendum volto a cancellarlo ha raccolto un numero ampio di firme. D'altra parte questa pare essere la volontà di una quota crescente di popolazione. Anche nei sondaggi più recenti si incrementa infatti fortemente la percentuale che ritiene una priorità («da fare subito») la riforma elettorale: oggi è la maggioranza assoluta (51% a fronte del 36% di un anno fa).
Malgrado questi limiti, i dati sulle intenzioni di voto mostrano la condizione di grande difficoltà vissuta oggi dal centrodestra. Alfano ha detto di recente che la coalizione di governo potrebbe prevalere anche nella prossima competizione elettorale: alla luce dei sondaggi attuali, la strada da percorrere è ancora molta.

Repubblica 2.10.11
Festeggiata la raccolta delle firme referendarie. Duro attacco a Bersani
Vendola e Di Pietro in piazza "Non basta il nuovo Ulivo le primarie per l´alternativa"
Secondo gli organizzatori sono arrivate a Piazza Navona oltre dieci mila persona
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - L´unica bandiera del Pd la tiene stretta il signor Alvisi, in prima fila. È arrivato da Bologna: «Mi interessa il dialogo che si sta svolgendo qui - spiega - ora parla la mia assessora». Sul palco c´è Amelia Frascaroli, assessore di Sel nel comune guidato dal democratico Merola. Prima di lei, strappa applausi un altro dei "nuovi amministratori", il sindaco di Cagliari Massimo Zedda. La manifestazione di Sinistra e Libertà colora piazza Navona di bianco e di rosso. La riempie, alla fine sono oltre dieci mila. In alto, palloncini candidi tengono su la scritta: «Ora tocca a noi», e Giulia, che è arrivata dalla Puglia, dice: «C´è un momento in cui ci si risveglia, ma bisogna anche credere nel proprio risveglio».
Ci crede Nichi Vendola, che ha organizzato tutto questo per dire a Pd e Idv: «Guai a pensare a un nuovo Ulivo dove siamo noi tre che ci riuniamo. Dobbiamo tenere aperto il cantiere dell´alternativa: aprire le porte ai giovani, ai maestri, ai ricercatori, alle donne, insomma al mondo». Con lui ci sono Antonio Di Pietro e Arturo Parisi. Si abbracciano, si mettono in posa per le foto, reduci dal successo della raccolta firme per il referendum elettorale. Il convitato di pietra è Pier Luigi Bersani: «Dove sei?», chiede dal palco un polemico Leo Gullotta. È un pezzo di quel mondo dello spettacolo che affolla il retroscena: i pugliesi Sergio Rubini e Riccardo Scamarcio, Valeria Golino, Fiorella Mannoia, Dario Vergassola. «Veltroni perde pezzi», maligna un dirigente Sel.
Di Pietro attacca: «C´è un parlamento criminale, come il comportamento di quel ministro delle Riforme che invoca la secessione e vuole distruggere il Paese. E Maroni è eversivo». Poi lancia una stoccata al Pd: «Io e Vendola saremo alla manifestazione democratica del 5 novembre, noi non ci vergogniamo di andare nelle piazze degli altri». Polemiche a parte, prevale il tentativo di dialogo. Il leader di Sel comincia il suo discorso ringraziando Napolitano per le parole contro la secessione. Cita i mali dell´Italia di oggi, il «crescendo rossiniano di manovre finanziarie drammatiche». Si scalda e urla fino a farsi venire il fiatone quando parla di lavoro: «L´articolo 8 è un colpo alla nuca della civiltà del lavoro». Attacca Sacconi: «Una delle note di vergogna più acute nella sinfonia del governo». Maroni: «Un volto fintamente presentabile che non ha più i titoli per parlare di lotta alla mafia, dopo aver benedetto il salvataggio del ministro Romano». Poi Tremonti: «Al netto di Berlusconi, e perfino di Milanese, lui è la malattia, non la medicina». Critica Casini per il suo avallo totale alle richieste di Confindustria, ma con il mondo dell´impresa - «che non sta tutto nel recinto di viale dell´Astronomia» - vuole dialogare, a partire dai concetti di stabilità e innovazione. Poi chiede: «Non viene mai, il tempo della patrimoniale?». Molti dei temi che solleva lo mostrano lontano dal Pd: le critiche alla Bce, il no assoluto alla privatizzazione delle muncipalizzate. Ma a Bersani, Di Pietro, e anche a Casini, Vendola dice: «Dobbiamo fare le primarie, presto. Non saranno un concorso di bellezza, ma una discussione in mezzo al popolo su come si esce dalla crisi, e su come si ricostruisce il Paese».

il Riformista 2.10.11
Vendola e Di Pietro eccitano la piazza
Ma non i democratici
«Ora tocca a noi» è lo slogan della manifestazione di Sel, disertata dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Il governatore puglie- se: «Nessun veto su moderati e centristi, ma servono primarie subito».
di Sonia Oranges

qui

l’Unità 2.10.11
In venti città Striscioni e cartelli per scrivere la contro-riforma Gelmini per scuola e università
Mobilitazione Si continua on line per tutta la settimana fino ai cortei di venerdì e sabato prossimi
Gli studenti tornano in piazza «Carta bianca sul nostro futuro»
Venerdì e sabato cortei in tutta Italia, ma gli studenti scaldano già i motori. Mobilitazione in tutta Italia per riscrivere idealmente le riforme del ministro Gelmini e disegnare sugli striscioni un futuro per il sapere.
di Gioia Salvatori


ROMA. La protesta della carta bianca: nessuno gliela dà, ma loro non si arrendono. Così ieri gli studenti di scuole superiori e università si sono concessi centinaia di metri quadri di striscioni bianchi e sotto gli occhi di tutti li hanno stesi in venti piazze di altrettante città italiane per scriverci sopra la loro contro-riforma scolastica e universitaria. Hanno srotolato la carta candida in piazza del Pantheon a Roma, in piazza Dante a Napoli, in viale Garibaldi a Trento, in piazza dell’Università a Catania, tanto per citare alcune delle città dove, oltre a Firenze, Ancona, Perugia, gli studenti hanno protestato. Ogni città un problema peculiare, ogni città un problema comune: quello dei tagli che decimano borse di studio e ore di lezione, o che ostacolano un’edilizia scolastica più a misura di studio, tanto per citare alcuni dei problemi più sentiti. «La scuola e l’università che vogliamo», è il titolo della protesta di ieri di Udu (unione degli universitari) e Rete degli studenti medi. Hanno scaldato i motori in vista dei cortei in del 7 ottobre in 50 città italiane e della manifestazione della Cgil di sabato prossimo a Roma. In ogni città una piazza pavimentata di carta bianca e desideri.
A Roma sullo striscione c’è un cuore che sostituisce le ultime tre lettere dello slogan «La scuola e l’università che vogliamo»: una settantenne si ferma e ci scrive dentro «tutto». Poi passa un bimbo di sette anni e nel cuore ci scrive «futuro». Si fermano anche i turisti, uno spagnolo scrive «democracia real», uno degli slogan degli indignados. Non sanno ancora, però, Udu e Rete degli studenti medi, se parteciperanno alla manifestazione internazionale degli indignati del 15 ottobre: «prima vogliamo capire quali proteste di piazza si faranno», spiega Michele Orezzi, coordinatore nazionale dell’Udu. Orezzi è anche nel consiglio nazionale studenti universitari (Cnsu), uno dei motivi per cui è in piazza del Pantheon è che Mariastella Gelmini non coinvolge il consiglio sui decreti attuativi della riforma: «L’ultima volta che noi abbiamo incontrato il ministro era marzo e in quell’occasione non abbiamo neppure potuto far domande...», lamenta.
A Trento, sul grande foglio bianco disteso in viale Garibaldi, anche il preside di scienze scrive la sua. Poi arriva una mamma che prende il pugno del figlio piccolo e scrivono «Scuola pubblica anche per me». In strada c’è anche Greta Chinellato, universitaria, ricorda la più sentita battaglia: quella contro la legge della provincia di Trento che permette a un solo studente di essere nella commissione per la riforma dello statuto e, per di più, senza diritto di voto. A Catania in piazza ci sono gli studenti medi che ricordano il dramma dell’edilizia scolastica; ci sono anche quelli del classico Spedalieri, dove l’anno scorso crollò una finestra.
E poi ci sono gli universitari senza borsa di studio, che a Catania sono il 25 % di quelli che ne avrebbero diritto. Come si mantengono se la famiglia è indigente? «Fanno i camerieri a nero», spiega Fabio Tassinato, studente, «Catania è famosa per gli studenti camerieri a nero... è un fenomeno diffuso». Intanto qualcuno scrive «Gelmini siamo tutti fuori dal tunnel» e «L’università agli studenti, non ai potenti», sulla striscia di cento metri per uno che si srotola dalla porta del rettorato. Anche a Firenze, in piazza Ghiberti, qualcuno sfotte la Gelmini «Divieto di sorpasso in galleria per i neutrini». A Napoli gli studenti hanno protestato dalle 10 alle 13. Cartellone sei per sei con su le nuvole dei fumetti. A riempirle con i propri desiderata si sono fermati anche molti anziani, uno di loro ha scritto «No escort». Qui tra i problemi più sentiti da studenti delle superiori e universitari ci sono quelli logistici: barriere architettoniche soprattutto in centro storico, facoltà sparpagliatesupiùsedi.Èilcasodituttee13le facoltà della Federico II; ma anche medicina della II università di Napoli è divisa: addirittura tra il capoluogo campano e Caserta. Sempre ieri, le diverse sigle hanno lanciato diversi siti coi blog su cui ognuno può scrivere la sua sulla controriforma: www.altrariforma.it è il sito della Rete della conoscenza; www.scuolachevogliamo.it www.universitachevogliamo.it sono i siti di Udu e rete degli studenti. Nessuna divisione, però, assicurano: il 7 el’8 si sta in piazza tutti insieme. Tra proposte e provocazioni: sempre ieri la rete Run della Sapienza ha chiesto a 15 «grandi contribuenti» (tra cui i gruppi Della Valle, Luxottica, Caltagirone) di tassarsi per finanziare le borse di studio. Una patrimoniale per il sapere.

l’Unità 2.10.11
La rivolta delle donne (anche insospettabili) contro Berlusconi
Rompere il cerchio
di Vittoria Franco


U n premier sempre più isolato tiene in scacco l'Italia. Assediato dai cittadini in difficoltà, aspramente criticato dalla Chiesa che con il cardinale Bagnasco ha parlato di "stili di vita incompatibili con il decoro delle istituzioni”, attaccato con parole durissime da donne fino a ieri insospettabili, come la presidente di Confindustria, che non ha criticato solo le politiche e le scelte economiche, ma ha parlato dei danni enormi prodotti dall'immagine negativa che l'Italia ha all'estero per gli scandali sessuali e le frequentazioni di faccendieri e lestofanti del presidente del Consiglio di una delle grandi potenze industriali del mondo. Siamo stufi, ha detto, di essere lo zimbello internazionale.
Le hanno fatto eco personalità di spicco della moda internazionale e italiana. Anna Wintour, disgustata e imbarazzata, ci chiede come possa l'Italia tollerare Berlusconi e il suo giro di ragazze. E due donne solitamente discrete rispetto alla politica come Donatella Versace e Franca Sozzani ripropongono l’insostenibilità di un'immagine così negativa dell'Italia. Sta dunque emergendo anche una parte operosa, fatta di serietà, di responsabilità e di amore per l'Italia.
La nostra sfida è rompere il cerchio letale che colloca Berlusconi in una storia ormai passata e un presente nel quale sta ancora abbarbicato, sorretto da una maggioranza artificiale. Non si può negare il ruolo delle donne in tutto questo; ci sono le cortigiane, tante, e ci sono donne che promuovono azioni di responsabilità verso il Paese. Susanna Camusso, leader della Cgil, è artefice di un patto sociale con proposte largamente condivise, la vicedirettore di Bankitalia Anna Maria Tarantola ha rilanciato la proposta di un piano per il lavoro femminile, convinta che specie le giovani siano la vera chance dell’Italia, in grado di far crescere il Pil a tassi da paesi emergenti.
Peccato che il governo stia facendo tutto il contrario, e che anche con l’ultima manovra abbia invece penalizzato le donne facendo gravare sulle loro spalle il peso di un welfare che si restringe. Donne a casa per la destra è meglio. Risolve tanti problemi di tagli. Se sono "racchie" poi è un loro dovere sociale, secondo la nuova teoria di una cortigiana di stretta osservanza che ha dettato il suo decalogo per giovani donne rampanti, vittime della dittatura della bellezza, succubi di un premier che indica loro la strada della prostituzione come strumento di promozione sociale.
Fanno bene le donne a difendere la Costituzione e quelle del Pd a far camminare nel Paese le proposte su lavoro e conciliazione. Dobbiamo continuare a tessere la rete a maglie sempre più strette, mettere in fila tutto e presentare il conto. Presto.

l’Unità 2.10.11
La cultura è apartisan e fa bene all’economia oltre che allo spirito
Dalla parte del bello
di Renato Nicolini


Si è svolto a Roma, il 22 e il 23 settembre scorsi, il Convegno Le città della cultura, promosso da Federculture. Nell’ultimo anno in Italia la spesa pubblica per la cultura, (tra Stato, Regioni ed Enti Locali), è diminuita di 1 miliardo di euro. Le sponsorizzazioni sono diminuite del 30% e le donazioni liberali del 7%. Nonostante questo, la cultura ha contribuito ancora al Pil per il 3,97%, ed i consumi culturali sono cresciuti del 4.06%. Unica figura istituzionale, nell’assenza di Comune di Roma e Regione Lazio, Nicola Zingaretti centra subito il tema, contrapponendo al costo della cultura, l’opportunità cultura. Andrea Ranieri, assessore alla cultura di Genova e responsabile culturale dell’Anci ha parlato di “nuova centralità” della cultura intesa come “progetto”, opposta al paese “incapace di decidere perché schiacciato sul godimento del presente”. I consumi culturali (assolutamente rilevanti se alla cultura si somma il turismo) non solo creano un indotto immediato, ma congiungono sviluppo e sostenibilità, contribuiscono al welfare anche generando un effetto sicurezza per le città. La cultura non è bipartisan ma apartisan, si pone su un piano di autonomia rispetto alla politica, si sottrae alle finalizzazioni strumentali. Se nell’ultima manovra è stato evitato un altro taglio diretto alla cultura, la spesa resta inferiore allo 0.20 % del Bilancio dello Stato, e subirà gli effetti dei pesanti tagli al bilancio degli enti locali. Ranieri ha indicato possibili obbiettivi: l’innalzamento dal 3% al 5% della quota destinata alla cultura dal fondo per gli investimenti infrastrutturali e stradali; nuove norme per l’8 per mille, sottraendo la gestione del fondo per i Beni Culturali alla Presidenza del Consiglio e restituendolo al Ministero; il ritorno alla triennalità del Fus. Bisogna superare il periodo dei grandi eventi e delle notti bianche nella direzione di una cultura da un lato strettamente collegata ai luoghi urbani, ai musei, alle biblioteche, ai teatri, alla vita quotidiana delle città; dall’altra proiettata verso il futuro, nella direzione della formazione e della qualità.
Ricostruire così uno stretto rapporto tra città, cultura e cittadini. Roberto Grossi, presidente di Federculture, nelle sue conclusioni, ha avanzato la proposta di introdurre, tra le forme di investimento in cultura, i fondi di gestione. Per evitare paradossi come l’Auditorium di Ravello di Niemeyer, costato 50 milioni di euro ed oggi abbandonato.
E, aggiungerei io, come il Maxxi di Roma, costato 150 milioni di euro ed immediatamente privatizzato trasformandolo in Fondazione senza un finanziamento dello Stato in grado di garantirne la competitività con la catena dei Guggenheim, con il Centre Pompidou e gli altri colossi espositivi del mondo globale.

Corriere della Sera 2.10.11
L'alleanza di ottanta Comuni per i registri con il biotestamento


MILANO — Sono oltre un'ottantina in tutta Italia i Comuni schierati in difesa dei Registri per depositare il testamento biologico, in attesa che veda la luce la legge che regolamenterà il cosiddetto biotestamento. Una vera e propria alleanza da ieri formalizzata sotto il nome di «Lega degli enti locali per il registro delle dichiarazioni anticipate di trattamento (dat)», per tutelare le «dat» espresse dai cittadini nei municipi (da Torino a Cagliari, passando per capoluoghi, piccoli centri e grandi città), e far sì che abbiano valore giuridico, anche nel caso fosse approvato l'attuale Ddl sul testamento biologico in discussione al Senato (nonostante una circolare del 2010 firmata dai ministri della Salute Ferruccio Fazio, del Welfare Maurizio Sacconi e degli Interni Roberto Maroni, indirizzata proprio ai Comuni, definisca tali strumenti «privi di qualunque efficacia giuridica»). L'iniziativa rappresenta l'ultima tappa di un processo iniziato dai radicali e dall'associazione Luca Coscioni, mobilitati dopo il caso di Eluana Englaro, la donna in stato vegetativo, alimentata e idratata attraverso un sondino, che ha cessato di vivere nel 2009 in seguito all'applicazione di una sentenza giudiziaria che autorizzò il padre Beppino a interrompere il trattamento.

Repubblica Firenze 2.10.11
"Stranieri, diritto di voto e cittadinanza"
A Firenze mille firme a sostegno delle due proposte di legge popolare
In piazza dei Ciompi anche il presidente Barducci e il governatore Rossi: "Lo ius soli è vitale per la serenità del nostro paese"
di Simona Poli


Chi nasce in Italia sia cittadino italiano. E chi vive e lavora qui possa votare alle elezioni amministrative come tutti gli altri. Sono queste le tesi alla base delle due proposte di legge di iniziativa popolare per cui in ogni parte d´Italia si stanno raccogliendo le firme da inviare al Parlamento. Ieri a Firenze il banco della campagna "L´Italia sono anch´io" era in piazza dei Ciompi, dove a firmare si sono presentati il presidente della Regione Enrico Rossi, il presidente della Provincia Andrea Barducci, la consigliera comunale Francesca Chiavacci, il sindaco di Campi Adriano Chini, il segretario della Cgil Mauro Fuso, la parlamentare del Pd Tea Albini, tutti impegnati a sostenere la raccolta, che ha già incassato oltre mille adesioni tra Firenze e provincia.
«Credo che chi nasce in Italia debba diventare cittadino italiano», ha detto Rossi. «Oltre seimila bambini nascono ogni anno in Toscana da genitori stranieri, 6.000 su 33.000 nati. Se non ci fossero questi bambini la nostra popolazione regredirebbe. Bisogna in tutti i modi favorire l´integrazione dei bambini, dei ragazzi, dei giovani, facendo leva, per esempio, sulla sensibilizzazione e la formazione delle loro madri, come avviene in altri paesi europei. In caso contrario rischiamo solo di accumulare nubi di tensione. A 18 anni un ragazzo nato in Italia e non ancora cittadino italiano si sente mutilato, umiliato e avvilito. Riconoscere lo ius soli è vitale per la serenità del nostro paese».
Ci sono diritti naturali e diritti politici. L´idea di concedere il voto alle elezioni comunali anche agli immigrati è un vecchio pallino di Rossi. Del resto il consiglio regionale inserì un articolo nel nuovo Statuto che tendeva proprio a favorire questo tipo di riforma, che solo il Parlamento può tradurre in legge. «Oggi corriamo il rischio di mantenere una parte della popolazione nella condizione di "paria", come nello Stato italiano prima di Giolitti», dice il presidente toscano. «I diritti civili e politici vanno estesi e consolidati, pur gradualmente. E non lo dico perché sono buonista», ci tiene a sottolineare, «ma perché mi batto per il rispetto della legge. So che l´integrazione non è cosa semplice, che le migrazioni provocano dolore e problemi per chi parte come per chi accoglie. Ma so anche che questa è una sfida fondamentale».
La campagna "L´Italia sono anch´io" è promossa dall´editore Carlo Feltrinelli e da 19 organizzazioni della società civile tra cui Acli, Arci, Caritas, Cgil, Emmaus, Fondazione Migrantes, Libera, Tavola della pace. Presidente del comitato promotore è il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio.

il Fatto Lettere 2.10.11
Quel brutto termine di “clandestini”


Provo a fare delle considerazioni sui migranti, dopo aver ascoltato l’interessante intervento in tema di Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, al Festival del Diritto a Piacenza. Il primo punto di interesse per l’uditorio è stato quello della chiarezza nel linguaggio che si dovrebbe utilizzare parlando di un fenomeno, l’immigrazione, che, quotidianamente, viene presentato con termini ed espressioni fuorvianti, false, spesso demagogiche (come “invasione”, “tsunami islamico”,”aggressione alla penisola”). Premesse le nefandezze rappresentate dai cosiddetti “respingimenti” in mare con cui, dall’estate del 2009 fino allo scoppio della guerra in Libia (febbraio 2011) sono stati “restituiti” a Gheddafi migliaia di migranti, gran parte dei quali, con l’osservanza delle procedure previste dalle nostre leggi, avrebbe avuto diritto a richiedere asilo, la Boldrini ci ha ricordato l’errore nell’uso del termine “clandestino”: una parola carica di connotazioni morali e che fa subito pensare ad uno che viola la legge.. La Boldrini ha pienamente ragione: il legislatore italiano non ha mai usato il termine “clandestino” nel Testo Unico sull’immigrazione e nelle altre leggi complementari. Non lo ha fatto neanche il legislatore comunitario che parla sempre di “cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro è irregolare”. Una definizione forse lunga ma più adeguata. La nostra Costituzione parla di “stranieri”. Anche il Procuratore della Repubblica di Savona, in una nota inviata a magistrati e ufficiali di polizia giudiziaria , ha invitato a non usare più i termini “extracomunitari” e “clandestini”, che hanno un‘accezione negativa, ma quello di “cittadini stranieri”. Sarebbe bello vedere analoghe iniziative anche in altri uffici pubblici.
Piero Innocenti

l’Unità 2.10.11
L’Italia dell’Unità
Sette pagine di immagini e articoli sull’archivio del quotidiano fondato da antonio Gramsci nel 1924, integralmente disponibile per tutti sul sito del giornale

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La Stampa 2.10.11
Il ritorno del Ku Klux Klan alle porte di Washington
Boom di croci in fiamme e riti con i cappucci nell’America del presidente nero
di Maurizio Molinari


Cappello bianco a punta e manto rosso sulle spalle Ernie Campell veste con orgoglio le insegne dei «cavalieri» del Ku Klux Klan sfilando a cavallo davanti ad un benzinaio di Dungannon, Virginia, in omaggio al giorno dell’Indipendenza: è uno degli scatti con cui il fotoreporter Jim Lo Scalzo, della European Press Photo Agency, documenta la rinascita del Ku Klux Klan nello Stato della Virginia, poco lontano da Washington.

Le foto descrivono momenti pubblici e privati dei «cavalieri» di tre sezioni dell’«Impero invisibile» - come il Kkk ama definirsi - che non celano nomi e residenze ostentando forza politica e sicurezza personale, a conferma di quanto sostengono gli studi del «Southern Poverty Law Center» di Montgomery, in Alabama, sul rafforzamento della galassia dei suprematisti bianchi nell’America di Barack Obama. Nel maggio scorso il «Center» documentò in particolare come questi gruppi fossero divenuti oltre mille con il Ku Klux Klan che si distingue per «aver il suo nuovo epicentro nel Sud della Virginia». È proprio qui che Jim Lo Scalzo ha incontrato personaggi come Stan Martin della «Brigata dei Cavalieri Ribelli» che gli ha spiegato la crescita di popolarità con l’ostilità diffusa nei confronti «dei cambiamenti demografici a favore delle minoranze, dei diritti dei gay e del presidente nero». «In America i neri hanno l’Associazione nazionale Naacp, i messicani il gruppo La Raza e gli ebrei la Lega anti-diffamazione, noi bianchi abbiamo il Ku Klux Klan» spiega Martin, che assieme ad altri «cavalieri» ha mostrato come la riorganizzazione avviene sulla base del volontariato di privati. Si tratta infatti di singoli cittadini che vanno nei boschi a tagliare gli alberi che servono per erigere croci da bruciare in cerimonie rituali notturne dentro proprietà private, nelle quali le forze dell’ordine non entrano.
Il leader del Kkk di Dungannon è l’«Imperial Wizard» (Mago imperiale) Gary Delp che in una foto indossa una tunica viola con tanto di cappello e strisce dorate. Ma il suprematismo bianco non è solo un’attività per uomini ed a dimostrarlo sono le donne della sezione «Cavalieri della Croce del Sud» che si fanno fotografare incappucciate pochi attimi prima della cerimonia svoltasi in una proprietà di Powhatan durante la quale viene data alle fiamme una imponente croce di legno da parte di seguaci che vogliono «purificare l’America» dalle molteplici «infezioni razziali».
La forza della «Brigata dei Cavalieri Ribelli» sta nell’essere riuscita a reclutare in Alabama, Georgia, North Carolina, South Carolina, Virginia, Tennessee, Maryland, Delaware e Pennsylvania come ha dimostrato l’adunata celebrata a metà settembre nella Harrison County, in Mississippi, durante la quale il «Califfo imperiale» Chris Barker ha annunciato «lo sbarco in West Virginia». Il canale tv «Fox29» della Pennsylvania ha svolto un’inchiesta sulla «Brigata dei Cavalieri Ribelli» riuscendo a intervistare il coordinatore, Chris Barker, residente in North Carolina. «Stiamo crescendo molto in Delaware e Maryland, puntiamo ad acquistare terreni per farvi svolgere dei rituali collettivi - ha spiegato Barker - e il fine è di scegliere località accessibili a chi risiede nel Nord della Pennsylvania». È un reticolo di iniziative, reclutamenti, raccolte fondi ed acquisti di terreni che, secondo il «South Poverty Law Center» ha una precisa regia perché è teso a rafforzare la presenza del Ku Klux Klan nelle regioni attorno a Washington, la capitale federale dove secondo i «Cavalieri Bianchi» si «accumula la corruzione».
Per comprendere cosa spinge un crescente numero di cittadini a partecipare a tali «eventi privati» bisogna ascoltare neoadepti come Dennis LeBonte di Powhatan che spiega: «Non partecipo al Ku Klux Klan perché odio la gente, ma solo perché sono irritato per cosa stanno facendo alla mia nazione». Nel vecchio tribunale della Patrick County, a Martinsville, un centinaio di «Klansmen» hanno ascoltato un «cavaliere» di nome Bradley Jenkins affermare quanto segue: «Signore e signori residenti in questa contea, il Ku Klux Klan è arrivato qui per restarci, per battersi a favore di ciò che la gente vuole. Volete la pace? Anche io la voglio, ma per la mia razza».
Simili eventi si sono svolti dall’inizio dell’anno nelle contee di Eden, Max Meadow, Dunagan e Henry confermando il consolidamento in Virginia con una miriade di cerimonie che includono anche la celebrazione delle nozze. In una foto di Jim Lo Scalzo si vedono infatti Juanita e Jerry Tignor tenersi per mano durante un matrimonio celebrato dall’«Imperial Wizard» Gary Delp nell’angolo di un grande giardino privato, poco dopo aver dato fuoco ad una croce di legno, in segno di buon auspicio.
La tesi di Wornie Reed, che guida il centro di studi sulla Giustizia sociale all’ateneo Virginia Tech, è che «ci troviamo di fronte ad una massiccia reazione alla sovrapposizione fra impoverimento economico, ostilità verso gli immigrati e rabbia per l’affermazione sociale degli afroamericani». Ironia della sorte vuole che la Virginia sia uno degli Stati che Obama punta a vincere nel 2012 per garantirsi la rielezione alla Casa Bianca.

il Riformista 2.10.11
Meno aiuti alla Palestina La punizione del Congresso
L’assemblea ha bloccato quasi 200 milioni di dollari per i palestinesi, minac- ciando progetti come le donazioni alimentari e l’assistenza sanitaria. La decisione riflet- te la rabbia della Camera per la richiesta di riconoscimento avanzata dal presidente Mah- moud Abbas. Il silenzio della Casa Bianca fa da sfondo alla condanna dello Stato israe- liano preoccupato per un’azione che «rischia di mettere a repentaglio la sicurezza»
di Dario Fabbri

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il Fatto 2.10.11
Rivelazioni dell’ex segretario di Stato americano
Kissinger gola profonda: “Felice del golpe in Cile”
di Barbara Schiavulli


Rappresenta un pezzo di storia del XX Secolo. Sicuramente buona parte di quella americana. Nato in Germania, figlio di ebrei sfuggiti al nazismo, è riuscito a influenzare la politica degli Stati Uniti tra gli anni Sessanta e i Settanta. Ancora se ne sente e parlare, nel male e nel bene. Henry Kissinger prima consigliere per la Sicurezza Nazionale, poi Segretario di Stato durante le presidenze di Nixon e Ford, è un uomo che ha preso decisioni. Ma non ha mai chiesto scusa per le conseguenze. E non lo fa neanche ora nella sua ultima intervista a Niall Ferguson, uno storico dell’Università di Harvard che lo incalza su quello che resta di un passato per molti ancora sconosciuto. Andata in onda sul canale del National Geography, nell’intervista il quasi novantenne Kissinger farà pensare a quanto era piccolo il mondo nelle mani di pochi uomini che facevano quello che volevano. Lui era uno di loro. Ora però può parlare senza troppi problemi di quello che è stato, il pianeta in fondo è cambiato, la Guerra Fredda non è più nelle agende degli Stati e la Russia non è più il nemico. Con la Cina si fanno affari e al Sud America è permesso di scegliere il governo che vuole. Certo non grazie a lui che sostenne l’operazione Condor, un piano della Cia per far cadere gli Stati filo russi e instaurare dittature militari. Il contributo dei servizi era di far sparire o uccidere dissidenti, politici, intellettuali che potessero essere di ostacolo. “Non ci dispiacque, a me e Nixon quando ci fu il golpe in Cile”, ammette Kissinger che sostenne il generale Pinochet, che strappò il potere ad Allende nell’11 settembre della Storia, quello del 1973, anno in cui Kissinger ottenne il premio Nobel per la Pace insieme al membro del parlamento nord vietnamita Le Duc Tho (che però non lo accetterà) per aver avviato i negoziati con il “peggior nemico” e che si concluse con la sconfitta americana e la fine di un sanguinoso conflitto. “Ero giunto alla conclusione che era impossibile vincere militarmente e quindi favorii i negoziati”. Ma aggiunge: “Sono pienamente convinto che il Vietnam del Sud non doveva cadere. La colpa è nostra”. Non era un uomo di pace, era uno capace di adattarsi alle situazione e sicuramente aveva una visione eccezionale di quello che era il mondo. “L’America non ha amici o nemici permanenti. Ha solo interessi”. La pace contava se portava stabilità all’America. Poco dopo sostenne il bombardamento segreto della Cambogia, 40 mila vittime tra nemici e civili, e neanche un senso di colpa.
“I NORD-VIETNAMITI avevano lanciato una serie di attacchi contro le nostre truppe, uccidendo in una sola settimana quattrocento soldati. Molte di queste aggressioni provenivano da basi che avevano costruito in territorio cambogiano. Tormentato dai dubbi, Nixon autorizzò l’attacco. Fu la decisione giusta da prendere e non me ne pento affatto, perché penso che Nixon avesse ragione”. Lui e Nixon con i loro rapporti amichevoli e intimi, tanto che fece imbufalire il presidente quando confidò che lui aveva chiamato Indira Gandhi “strega e mignotta” (si scusò poi per la rivelazione). Il Watergate, che portò alle dimissioni di Nixon: “Era riuscito a distruggersi da solo, con le proprie azioni. E lo sapeva bene. Prima di andare, mi chiese di inginocchiarmi e di pregare insieme. Data la solennità dell’occasione e il destino spietato, non ci trovai niente di strano. Che altro c’era da fare? È stato uno dei momenti più commoventi della mia vita”. Kissinger, Mao e i viaggi segreti in Cina, lui e Castro con la crisi cubana, lui e una politica che si sgretola sotto i suoi occhi, e dove cambiano le priorità e gli interessi. Ma Kissinger non ha mai lasciato la politica, la Casa Bianca, la sua voglia di influenzare o di essere parte degli eventi non si è assopita con il passare degli anni. “Il potere è il più potente degli afrodisiaci”. Potere che ha tremato quando ha incontrato Oriana Fallaci (1972), “Il peggior incontro con la stampa della mia vita”, ha detto Kissinger. Lui si definì “condottiero”, lei scrisse “cowboy” e la stampa americana che riprese l’intervista lo massacrò. Ogni controversia sembrava lo riguardasse, che avesse a che fare con l’Africa o con Israele. Ma infondo poi niente è cambiato, lui ha continuato a lavorare nelle retrovie della politica continuando a influenzare con la visione del suo mondo, anche ora appoggiando la ancora non annunciata candidatura alla presidenza del governatore del New Jersey, Chris Christie : “Non ci può essere una crisi la prossima settimana, la mia agenda è già piena”, disse il primo giugno del 1969. Ed era solo l’inizio.

Repubblica 2.10.11
Gli amori comunisti
di Antonio Gnoli


Gli amori di Karl Marx, da quello decisivo con la moglie Jenny fino agli incontri erotici con alcune compagne occasionali, sono un capitolo tutt´altro che secondario della biografia di uno dei grandi geni della nostra modernità. E nella rinascita di interesse per la sua figura (si pensi a Come cambiare il mondo di Hobsbawm, un successo editoriale di quest´anno) si incrociano due lavori di ricognizione sentimentale: Love and Capital di Mary Gabriel (edito da Little, Browne & Company) e le lettere scambiate con la moglie: Jenny ti amo (ed Shake). Considerata tra le donne più belle di Treviri, Jenny era la figlia di Johann Ludwig von Westphalen, un barone prussiano destinato a ricorprire la carica di ministro degli interni. Dettaglio, quest´ultimo, non privo di ironia data l´attenzione con cui le polizie di mezza Europa controllavono l´operato di Marx. Si deve proprio a una spia prussiana, infiltrata nell´ambiente di Marx, una delle descrizioni più vivide del grande rivoluzionario: diviso tra gli stenti e lo squallore della vita quotidiana (esule a Parigi e poi a Londra) e la genialità delle sue analisi sul capitalismo. Sedotta dalla sua grande personalità, nonostante l´opposizione familiare, Jenny decise di sposare Karl. La loro fu una storia straordinaria, segnata dalla miseria, dai figli (ben sei) dai lutti (tre dei loro bambini moriranno) e da qualche tradimento (il più celebre con la domestica da cui ebbe un figlio illegittimo, del quale l´amico Engels si attribuì la paternità). Vissero in miseri alloggi, contando sull´argenteria di lei e sui prestiti degli amici. Fu una vita di debiti. Marx sapeva tutto dell´economia politica, ma nulla dell’economia domestica.

Repubblica 2.10.11
Siamo entrati nel dopo Einstein?
Il risultato coinvolgerebbe tre delle più importanti idee del XX secolo: la relatività speciale di Einstein, la teoria dei campi elettromagnetici e quella elettrodebole
Come cambierebbe la fisica se si andasse più veloce della luce
di Marco Cattaneo


L´esperimento del Cern è finito in prima pagina su tutti i giornali del mondo: se davvero il neutrino fosse più veloce della luce si aprirebbe una nuova era. Non solo per la comunità degli studiosi. Tre delle idee più importanti del XX secolo dovrebbero essere riviste: tra queste la relatività speciale. In attesa di conferme dai fisici, vediamo cosa succede quando la scienza cambia paradigma

Fino alla fine dell´Ottocento i fisici erano convinti che lo spazio fosse pervaso di un mezzo invisibile attraverso il quale si propagava la luce: l´etere luminifero. La sua esistenza era necessaria per conciliare le leggi della fisica, e in particolare il principio di relatività galileiano con le equazioni di Maxwell che descrivono il legame tra il campo elettrico e il campo magnetico, da cui emergono le onde elettromagnetiche, che comprendono la luce visibile. Così, nell´ultimo quarto del secolo, fiorirono gli esperimenti per verificare la natura dell´etere. E nel 1887 Albert Abraham Michelson ed Edward Morley misero a punto un sofisticato strumento per misurare l´esistenza del "vento d´etere".
econdo le congetture dell´epoca, infatti, il misterioso mezzo avrebbe dovuto influenzare la velocità di qualunque cosa vi fosse stata immersa, compresa la luce. Michelson e Morley suddivisero dunque un fascio di luce in due fasci che percorrevano cammini perpendicolari, per studiarne l´interferenza nel punto in cui convergevano nuovamente su uno schermo, ma il loro ingegnoso trucco portò a un esito allarmante: la velocità della luce sembrava indipendente dalla direzione, e perciò non ci sarebbe stato nessun etere a trasportarne le onde.
Ripetuto in laboratori diversi e con differenti modalità fino al 1906, l´esperimento di Michelson e Morley sarebbe stato definito, più avanti nel Novecento, "il più riuscito esperimento fallito della storia della scienza". Ma la sua realizzazione spalancò le porte all´elaborazione delle trasformazioni di Poincaré e Lorentz prima e, in ultimo, alla teoria speciale della relatività di Albert Einstein.
Questa lunga premessa per dire che, pur con importanti differenze sotto il profilo epistemologico e storico, se i risultati ottenuti con il rivelatore Opera sul fascio di neutrini in viaggio tra il CERN e il Gran Sasso fossero validati e confermati da altri esperimenti analoghi, saremmo davanti a un evento di quelli che la scienza produce una volta per secolo, o giù di lì. Il condizionale è indispensabile, perché in fisica una conferma è la realizzazione di un esperimento indipendente da cui emergono i medesimi risultati.
Perché i neutrini superluminali diventino davvero una svolta epocale per la fisica del XXI secolo, dunque, occorre che si realizzino tre condizioni. La prima è che i dati resi pubblici dalla collaborazione Opera reggano ad analisi indipendenti. I risultati sulla velocità dei neutrini sono espressi in forma statistica, e la loro affidabilità dipende dal margine di errore intorno ai tempi misurati. Se fosse più rilevante di quanto indicato, allora i neutrini potrebbero avere una velocità compatibile con quella della luce nel vuoto, o anche leggermente inferiore.
La seconda condizione è la verifica dei risultati da parte di esperimenti indipendenti. Non è un caso se l´esperimento di Michelson e Morley fu ripetuto in condizioni diverse e in laboratori diversi per quasi vent´anni, prima di abbandonare l´idea dell´etere. Così pure il risultato ottenuto tra il Cern di Ginevra e i laboratori del Gran Sasso dell´INFN occorre sia replicato da altri. Negli Stati Uniti sono già in corso misurazioni della velocità di un fascio controllato di neutrini all´esperimento MINOS, e in Giappone l´esperimento K2K potrebbe fornire ulteriori dati indipendenti. Ci vorranno mesi perché possano essere disponibili i primi dati da questi laboratori, ma da lì potrebbero venire le prime conferme del fenomeno.
Infine, se la velocità superluminale dei neutrini sarà confermata, occorrerà inserire questo sorprendente risultato sperimentale in un quadro coerente. Che, naturalmente, non cancellerà Einstein e la relatività speciale, ma permetterà di estendere la portata delle leggi fisiche a un fenomeno nuovo e inaspettato. Il risultato di Opera coinvolgerebbe infatti tre delle più prolifiche teorie del XX secolo. La relatività speciale infatti, è consistente con la teoria dei campi elettromagnetici proprio in quel valore della velocità della luce nel vuoto che fino a oggi è considerato un limite universale. E la teoria dei campi elettromagnetici è unificata alla teoria delle interazioni deboli, quelle in cui si producono i neutrini, dalla teoria elettrodebole, la cui verifica valse il premio Nobel a Carlo Rubbia. Tra le molte ipotesi che sono già state avanzate, l´esistenza del fenomeno potrebbe significare che esiste un limite di energia oltre il quale particelle come i neutrini, prive di carica elettrica e di massa minuscola, che interagiscono molto debolmente con la materia, possono violare la velocità della luce nel vuoto.
Sono già al lavoro anche gli specialisti della gravità quantistica, ovvero i teorici che da più di mezzo secolo tentano di riconciliare le due grandi rivoluzioni del Novecento, la meccanica quantistica e la relatività, in una descrizione coerente della gravità, la forza più appariscente eppure più enigmatica del cosmo. Perché questo risultato potrebbe avere a che fare con una struttura discreta dello spazio-tempo che è stata ipotizzata proprio nell´ambito della gravità quantistica. E, naturalmente, non poteva mancare la schiera dei teorici delle stringhe. In questo complesso edificio matematico, infatti, si potrebbe annidare la spiegazione del fenomeno, ipotizzando che i neutrini possano arrivare in anticipo "prendendo una scorciatoia" nelle dimensioni extra dell´universo.
Per il momento siamo sul terreno delle ipotesi più ardite, ma comunque vada l´esperimento della collaborazione Opera ha già prodotto due risultati di rilievo. Il primo è sotto gli occhi di tutti. La comunicazione pubblica dei risultati sta permettendo a noi comuni mortali di gettare uno sguardo nei processi della scienza. Nel dibattito, anche aspro, si scontrano posizioni a volte inconciliabili, ma sempre fondate sull´osservazione dei fenomeni. E, soprattutto, senza alcun equivoco, anche gli scontri più duri – come quelli che videro protagonisti Einstein e Niels Bohr sulla natura della teoria dei quanti – sono sempre volti a un obiettivo comune: il progresso nella conoscenza delle leggi di natura. Per questo la scienza è la più straordinaria impresa collettiva dell´umanità.
Il secondo è forse più materia per addetti ai lavori. Dopo decenni, infatti, un risultato inatteso, ottenuto con quella serendipity che spesso accompagna le grandi rivoluzioni scientifiche (la misurazione della velocità dei neutrini non era l´obiettivo primario dell´esperimento), spinge i fisici di tutto il mondo a ripensare i fondamenti di una materia che negli ultimi decenni pareva un po´ stagnante, tra la celebrazione del modello standard della fisica delle particelle e le astrusità matematiche della teoria delle stringhe. Da tutto questo potrà forse emergere una nuova fisica, che non cancellerà certo i risultati acquisiti nell´ultimo secolo e mezzo, grazie ai quali esiste molta della nostra tecnologia di uso quotidiano, ma spingerà un po´ più in là gli orizzonti della nostra conoscenza. O forse no, se il lungo processo di validazione non darà conferma di questi risultati preliminari. Ma soltanto con i tempi della scienza sapremo se Opera sarà stato l´esperimento di Michelson e Morley del XXI secolo.
(L´autore è direttore de "Le Scienze")

Repubblica 2.10.11
Quando la scienza ha fatto una rivoluzione (culturale)
di Piergiorgio Odifreddi


L’annuncio del Cern della velocità superluminale dei neutrini ha scatenato accese discussioni sulle possibili conseguenze epistemologiche dell´ormai famoso esperimento. In particolare, si è ripetuto fino alla noia che, se il risultato venisse confermato, ci troveremmo di fronte alla necessità di un "cambio di paradigma": un´espressione riempie la bocca e che allude alle opinioni filosofiche espresse da Thomas Kuhn cinquant´anni fa, nel suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche. In due parole, l´idea di Kuhn è che una teoria scientifica costituisca un paradigma, appunto, che stabilisce le regole del gioco temporaneamente condivise dalla comunità scientifica.
Queste regole sono accettate fino a quando qualcosa di gravemente anomalo, come appunto potrebbe essere l´esperimento del Cern, interviene a mettere in dubbio la visione del mondo proposta dal paradigma. Se l´anomalia non rientra nei ranghi, finisce per provocare una rivoluzione che abbatte l´ancient régime e instaura un nuovo ordine, nella forma di un nuovo paradigma.
L´idea di Kuhn è diventata a sua volta un paradigma filosofico, e ai postmoderni non è parso vero di potersene appropriare per proporre una visione relativistica della scienza. Le verità scientifiche, essi sostengono, non sarebbero altro che "costrutti sociali" relativi a un determinato paradigma, buoni fin tanto che questo rimane in vigore, ma da buttare e sostituire con altri allo scoppio della prossima rivoluzione.
Ma le "rivoluzioni" riguardano soprattutto le conseguenze filosofiche e culturali delle grandi scoperte scientifiche, assai più della scienza in sé, che procede piuttosto per accumulazione. Prendiamo ad esempio la teoria di Aristotele del moto, da cui Kuhn era partito per costruire il suo modello. Secondo la sua visione, il nuovo paradigma instaurato da Galileo ne avrebbe fatto piazza pulita, e oggi la leggi aristoteliche non sarebbe altro che reperti archeologici.
In realtà, Aristotele e Galileo descrivevano semplicemente situazioni diverse: il moto nell´atmosfera il primo, e nel vuoto il secondo. E´ ovvio, dunque, che trovassero risultati diversi. Ma se si aggiunge l´attrito dell´aria nelle formule di Galileo, si ritrovano esattamente le formule di Aristotele! Chi fosse interessato può vedere i dettagli nel libro di Andrea Frova e Mariapiera Maranzana Parola di Galileo.
L´altro esempio canonico di supposto cambiamento di paradigma è quello al quale Kuhn dedicò il suo primo libro, La rivoluzione copernicana. Come non pensare, a prima vista, che il sistema geocentrico di Tolomeo fosse da buttare, una volta che Copernico aveva riscoperto quello eliocentrico anticipato da Aristarco? Ma, ancora una volta, i due scienziati descrivevano situazioni diverse: il moto dei pianeti osservato dalla Terra il primo, e dal Sole il secondo.
E, se si vuole descrivere nel sistema di Copernico il moto dei pianeti osservato dalla Terra, si riottene il sistema di Tolomeo. Anzi, basta leggere Copernico per accorgersi che egli ricavò appunto il proprio sistema da quello, scoprendone la vera essenza: che metà del sistema tolemaico descriveva semplicemente il moto dei pianeti attorno al Sole, e l´altra metà proiettava il moto della Terra attorno al Sole. Ma certo la scoperta che la terra (e dunque l´uomo) non fossero più al centro dell´universo e l´idea galileiana che "il libro della natura" fosse scritto nella lingua della matematica ebbero conseguenze così radicali per le concezioni filosofiche, culturali, e anche religiose dell´epoca, da provocare, come si sa, la condanna di quelle teorie da parte della Chiesa di Roma. Chi fosse interessato, può vedere i dettagli nel mio libro Hai vinto Galileo!
Nel Novecento, l´esempio più tipico di supposto cambiamento di paradigma è stato il passaggio dalla meccanica classica di Newton a quella relativistica di Einstein, che ha modificato, se non proprio rivoluzionato, la visione tradizionale del rapporto fra lo spazio e il tempo. Inutile ripetere, a questo punto, che di nuovo si tratta di descrizioni di situazioni diverse: moti a velocità trascurabile rispetto a quella della luce in un caso, e a velocità paragonabili ad essa nell´altro. E, di nuovo, le formule di Einstein si riducono a quelle di Newton, quando si tenga conto di questo.
D´altronde, se non fosse così, non si continuerebbe a insegnare Newton nei dipartimenti di fisica e ingegneria, e lo si relegherebbe in quelli di storia. Per lo stesso motivo, si continua a insegnare Pitagora ed Euclide nei corsi di matematica, anche dopo Cartesio e Hilbert. O Aristotele nei corsi di logica, anche dopo Boole. Dunque, non aspettiamoci che i neutrini pensionino Einstein: se non sono una bufala, getteranno paradossalmente una "luce" nuova sui suoi risultati, e forse cambieranno, ancora una volta, il nostro modo di vedere il mondo.

La Stampa Torino 2.10.11
Torino spiritualità
La città multiculturale incantata dal maestro sufi
L’imam Khounati: entro il 2011 si apre il cantiere della moschea


La conferenza di Shaykh ‘Abd al Wahid Pallavicini Al termine dell’affollatissima conferenza il maestro Yahya Pallavicini ha lanciato una provocazione: «La religione islamica è cattolica. Lo dico nel senso universale del termine. Risponde al richiamo divino di quel Dio che è uno e lo stesso per tutti»

C’era l'imam Abdelaziz Khounati, presidente dell'Istituto islamico Moschea della Pace di Torino, seduto ieri pomeriggio tra la folla di Torino Spiritualità, alla Cavallerizza Reale. E c'era il pubblico. Torinesissimo, fatto di cattolici, agnostici, atei e anche musulmani. Tutti tentati, per fede o per curiosità, dalle parole di Shaykh 'Abd al Wahid Pallavicini, maestro del sufismo, la forma di ricerca mistica tipica della cultura islamica. Con il suo aspetto da saggio orientale, barba lunga grigia e vestito nel caftano colorato, per un'ora e mezza ha tenuto incollati gli spettatori con una testimonianza ecumenica di religiosità.
Ai botteghini già da giorni si sapeva che l'appuntamento avrebbe registrato il tutto esaurito. Insieme alla lectio di venerdì del filosofo Umberto Galimberti e al faccia a faccia di oggi al Carignano tra Vito Mancuso e Gianni Vattimo, è stato il dibattito sull'islam interiore uno dei più gettonati, una settimana fa. Ci voleva il festival per riunire ciò che nella società civile (non parliamo nella politica) facciamo fatica a tenere insieme: l'incontro di due culture. «Questa manifestazione è la miglior dimostrazione di come la maggioranza delle persone sia aperta al dialogo. Solo i politici e quello zoccolo duro interessato a erigere barriere, non vuole accettare che la gente è molto ben orientata all'integrazione, desiderosa di conoscenza di altre forme di uno stesso Dio», ha commentato Yahya Pallavicini, consulente del Ministro dell'Interno per il Comitato Islam italiano.
Ancora una volta, Torino ha mostrato la sua anima multietnica e multicolore, laboratorio di tolleranza e rispetto, anche religioso. Tanto che Khounati, prima dell' inizio, ha potuto dire: «La moschea di via Urbino, oggi, sembra più vicina. Ho invitato i miei fedeli a partecipare al festival di spiritualità, per dimostrare quanto la comunità musulmana voglia fare parte integrante della città».
Più delle parole, contano i fatti. E i fatti, ieri, hanno dato ragione a chi sostiene che Torino sia pronta a ospitare luoghi di preghiera delle altre religioni. Più di tutti ci crede il Comune, che lo scorso dicembre aveva dato il via libera alla costruzione della moschea in Barriera di Milano. I lavori preliminari sono andati avanti a gran velocità. I preventivi sul progetto di edificazione sono pronti. I finanziamenti arrivano parte dal Ministero degli Affari Religiosi del Marocco, parte da donazioni della stessa comunità musulmana.
«Entro fine anno apriamo il cantiere - spiega Khounati -. A fine 2012, vorremmo completare almeno la sala del culto. Poi, il centro socio-culturale, gli uffici e le sale conferenze».
Presto, il punto di preghiera che oggi è in corso Giulio Cesare potrebbe avere una sede più degna (2300 metri quadri). Unico ostacolo, il ricorso al Tar della Lega, che avrà la sua sentenza entro il 14 ottobre. Ma «una piccola prova tecnica di coesistenza mi sembra sia stata lanciata qui a Spiritualità - aggiunge 'Abd al Wahid Pallavicini -. La moschea non sarà riconosciuta come luogo di culto, al pari delle Chiese cristiane. Eppure, io dico che la religione islamica è cattolica». Cattolica?! «Nel senso universale del termine. Risponde al richiamo divino di quel Dio che è uno e lo stesso per tutti».
IN ASCOLTO Per un’ora e mezza platea magnetizzata dalla testimonianza

La Stampa Torino 2.10.11
Teatro Carignano. Il diavolo e l’acquasanta? Macché
Vattimo, Mancuso e il diritto di mettere in discussione la fede
di Sivia Francia


Le code Il Festival della Spiritualità non ha cedimenti e anche in questa edizione non sono mancate le solite code

«Con Vattimo, ci sarà buona sintonia sul piano umano e intellettuale»: è quel che promette il teologo Vito Mancuso, che alle 15 al Carignano, incontrerà il filosofo torinese, per un dibattito dal titolo «Credere sul limite». L’avere fede oggi, senza dovere mettere a tacere il pensiero, le perplessità - su Dio, sul suo rapporto con l’uomo, sulla vita della Chiesa - che possono mettere in discussione la fede. Sono alcuni dei temi che i due relatori affronteranno, complice la rassegna «Torino Spiritualità», alle sue battute finali.
Chi si aspetta lo scontro frontale tra l’autore del bestseller «L’anima e il suo destino» ed ex-sacerdote e il maestro di «pensiero debole», probabilmente resterà deluso. «Ho letto recentemente il libro di Vattimo “Credere di credere” e ho notato come la mia attuale posizione sia vicina a quella di Vattimo di dieci anni fa. Quel che ci allontana, semmai, è che io non desidero affatto dire addio alla verità della fede, ma di riformarla in termine pratico» commenta Mancuso. E aggiunge: «Una convinzione è assolutamente condivisa da entrambi, ovvero che il sentimento del tramonto è qualcosa di molto occidentale, che oggi, cioè, non riguarda le culture dell’Asia o dell’America. E’ il Cristianesimo, quello cattolico e protestante, a sentire forte il senso di decadenza che non contagia, invece, gli ortodossi». Questi e altri argomenti, per uno degli incontri clou in programma in questa giornata conclusiva della rassegna, per questa edizione sottotitolata «In fine. Vivere sul limite dei temi» e premiata, come di consueto, dalla presenza di pubblico numeroso e partecipe. La scaletta si apre alle 9,30 al Carignano, con Mario Brunello che racconta «Lo spirituale in musica» e prosegue con una ventina di altri appuntamenti in diverse sedi. La genesi del mondo secondo la narrazione biblica ebraica e cristiana, ispira le riflessioni di Haim Baharier e Alberto Melloni sul «Bereshit/ In principio», mentre Tim Parks e Valerio Sanfo parleranno di percorsi di cura e guarigione in cui copro e mente si incontrano su un terreno comune. E, ancora, l’esperto di arte islamica Michael Barry esaminerà le raffigurazione dell’Islam nell’arte italiana del Rinascimento, mentre il guru degli attivisti inglesi, Michael Norton, alla Cavallerizza alle 18,30, illustrerà in che modo si possa mettere in pratica il suo motto, secondo cui «Il modo migliore per predire il futuro è inventarselo».
Alle suggestioni del «Reincanto del mondo» si ispireranno, invece, la curatrice di Torino Spiritualità, Antonella Parigi e Frédéric Lenoir, il «filosofo che crede in Gesù, pensa con Socrate e medica con Buddha», attesi al Carignano per le 18.

Repubblica 2.10.11
"Con la scusa del controllo vogliono rubarci la privacy"
di Riccardo Luna


Qualche mese fa dal palco del Personal Democracy Forum di New York, ha infiammato la platea con un discorso contro la libertà perduta nell´Internet delle corporation. Ora Eben Moglen, 52 anni, professore della Columbia University e fondatore del Software Freedom Law Center, è di nuovo sulla breccia: fra qualche giorno sarà pronta la sua "scatola della libertà" di cui ciascun navigatore potrebbe dotarsi.
Professore, Facebook e Google hanno reso Internet una strumento facile per tutti. Perché non dovremmo fidarci?
«Perché sono società votate al profitto e il loro business è vendere, in un modo o nell´altro, le informazioni degli utenti. Se uno potesse prendere una decisione consapevole su a chi affidare i propri dati personali, Facebook e Google sarebbero in fondo alla lista, appena sopra soltanto alle agenzie di spionaggio governative (che in effetti ottengono i nostri dati da queste corporation con la stessa facilità con cui mandano una nota ai loro uffici). Funziona così. Più informazioni uno dà a società come Facebook e Google, più dati loro hanno da vendere. Più usiamo i loro servizi, più loro studiano i nostri comportamenti e vendono a terzi il privilegio di provare a condizionare i nostri comportamenti in tempo reale. Queste cose non sono segreti. Per tornare alla sua domanda: non c´è alcuna ragione al mondo per fidarsi di queste organizzazioni».
Internet si è dimostrato un grande strumento di libertà, lei invece enfatizza il fatto che possa essere usato per controllo e repressione. Quale aspetto è prevalente?
«Nessuno dei due, dipende da cosa ci facciamo. È sbagliato definire una tecnologia a priori. I suoi effetti e il suo valore dipendono dal contenuto. Prendiamo la tv: è stata usata per insegnare ed informare sulla scala più grande mai avuta prima dall´umanità; ma è stata anche usata per conquistare il potere e distruggere i fondamenti intellettuali e morali di una democrazia. Così accade con Internet, che può produrre più libertà o più controllo: dipende da cosa chiedono i cittadini».
Alcuni attivisti e sviluppatori della Rete, sostengono che è necessario costruirsi un´altra Internet: è un obiettivo realistico? E chi dovrebbe pagare questo progetto?
«Non abbiamo bisogno di un´altra Internet nel senso di mettere nuovi cavi e trovarci un altro spettro elettromagnetico. Dobbiamo piuttosto dotare ciascun navigatore di strumenti che nella Rete attuale ci aiutino a difendere la nostra privacy dall´eccesso di sorveglianza. Questo è un obiettivo realistico e facilmente raggiungibile. Basterà dotarci di piccoli, economici ma potenti "routers" che facciano questo lavoro. Non è fantascienza: oggetti come questi stanno arrivando sul mercato e nei prossimi dieci anni tutti potranno comprarli al prezzo di un caricatore del telefonino. Dentro ogni "scatola" metteremo un software gratuito e libero, cioè un software che ciascuno può scambiarsi senza vincoli, che rende più sicure le nostre mail, le chat e quello che facciamo sui social network. Questo software è già in corso di sviluppo da parte di migliaia di sviluppatori volontari in tutto il mondo».
A che punto è la sua FreedomBox?
«Il primo rilascio della piattaforma di sviluppo è avvenuto. Il secondo, con cui dimostreremo come funziona davvero, ci sarà fra un paio di settimane. Ma il primo oggetto utilizzabile anche da una persona non esperta, non arriverà prima di un anno».
Le hanno già detto, immagino, che senza controllo e sorveglianza Internet potrebbe diventare uno strumento per attacchi terroristici. Come risponde?
«Potrebbe. La stessa cosa può capitare con un macchina, con un coltello o con un telefono. Qualunque oggetto un uomo libero voglia usare, può essere utilizzato anche da un criminale. Ma non è un buon motivo per limitare la libertà».

Repubblica 2.10.11
Starnone ritorna giocando con il sesso e le bugie letterarie e svelando anche le evidenze della finzione narrativa
Eros e desiderio così il maschio è messo a nudo
di Michela Murgia


Quando ho iniziato a leggere l´Autobiografia erotica di Aristide Gambìa è successo che già alla terza riga mi abbia invaso un´allegria ingiustificata e una risata potente sia venuta su da sola dallo stomaco. È stato incontrare l´espressione "le furibonde esigenze del cazzo" a strapparmela, ne sono convinta. Sgombrerei il campo dal dubbio che si trattasse della risata nervosa e imbarazzata di una signora perbene che si emoziona per le parolacce: non sono quel tipo di signora; garantisco invece che era una risata sana e liberatoria, quella di chi sa benissimo che quelle che chiamiamo parolacce sono parole come le altre alle quali capita la sventura di dover portare i pesi che noi non siamo in grado da soli di reggere.
Quando ti succede di incontrare qualcuno che capisce e ripara questa ingiustizia semantica, non importa come va avanti il romanzo: già gli vuoi bene. Se poi questo qualcuno è Domenico Starnone, uno scrittore tra i più raffinati e complessi dello scenario autoriale italiano, il monte di fiducia si erge senza sforzo fino alla credulità più completa. Andando in giro per le pagine di questo straordinario romanzo è facile credere che sia possibile raccontare la vita di un uomo e del suo tempo attraverso l´incontro esplicito con le donne in cui è entrato come maschio. È perfettamente possibile che la vita erotica di Aristide Gambìa appaia in grado di rivelare di lui (e del lettore che si trova a sbirciarla senza veli) più di quanto egli stesso pensa di sapere di sé. Diventa pensabile persino immaginare che il rapporto misterioso tra maschile e femminile, quel suo senso sempre inquinato dai sensi che nessuno è riuscito mai a svelare appieno, possa apparire di colpo comprensibile passando per la via genitale, ma a patto di chiamarla per nome e cognome. Non dirò che il sesso in questo libro è metafora d´altro, perché sarebbe fargli un torto. Il sesso tra queste pagine non ha bisogno di essere giustificato intellettualmente. Quello che fa l´uomo chiamato Aristide Gambìa con le sue diverse e conturbanti compagne di letto si spiega con la carne fino all´ultimo spasmo, con lo sbocco del desiderio straripante di un maschio che solo fino a un certo punto può permettersi di dare alle sue estremità dei nomi pudichi: se vuole dire la propria verità fino in fondo, il pene deve chiamarlo cazzo e la vulva delle sue donne deve chiamala fessa e pucchiacca, parole dialettali con l´innegabile vantaggio di presentarsi alla mente già piene di umori.
Quando Aristide Gambìa riceve la lettera di Mariella Ruiz – una donna che non solo chiama le cose del sesso con i suoi stessi nomi e afferma di averle compiute con lui vent´anni prima, ma ha anche qualcosa di sorprendente da rivelargli – tutto cambia: quello che fino a quel momento era stato lo scorrere appena arginato della vena di un desiderio spontaneo comincia a prendere la forma di un percorso di consapevolezza a ritroso, fatto di odori e sapori inconfessabili, infanzie avide di proibito, adolescenze odorose di richiami erotici e soprattutto adultità confuse, quasi mai capaci di immaginare un godimento senza il corrispettivo di un dovere. Ad Aristide Gambìa, brutto, tenero e qualche volta stupido nella sua percezione unilaterale del mondo, ci si affeziona sin troppo presto. Credo dipenda dal fatto che più volte scorrendo la sua storia ci si rende conto che c´è qualcosa di pacificato in questo romanzo e che il senso di compiutezza e risoluzione che si avverte riguarda proprio il maschile, il femminile e la loro messa in scena letteraria, piena di compassione. Più volte tra le sue moltissime pagine mi sono sorpresa a pensare che era bello leggere finalmente un romanzo dove le donne e gli uomini non apparissero marionette ruolanti, ma creature vere, amate e credute dal loro autore a un punto tale che alla fine ci puoi credere senza timore anche tu.
Proprio mentre giungevo a questa consolatoria conclusione, Domenico Starnone ha deciso che bastava così, che l´incredulità del lettore non è un bene infinito e che l´autore può sopportare che venga sospesa solo fino a un certo punto: poi bisogna assestare un calcio preciso e violento alla sedia sulla quale il lettore sta seduto e scaraventarlo a terra davanti a tutte le evidenze della finzione. Non è la prima volta che Starnone fa una cosa simile: era già successo in Via Gemito, e più ancora in Prima esecuzione e nell´ultimo romanzo, quello Spavento che così deliberatamente mischiava le carte tra protagonista e autore. In questo romanzo Starnone porta il suo processo di disvelamento fino all´estrema conseguenza, abbattendo tutte le impalcature di cartone tra realismo e realtà. L´ultima parte del romanzo è totalmente destabilizzante e sembra dire al lettore che uno scrittore – sicuramente questo scrittore – non sta raccontando niente se non esplicita di star raccontando di sé.
Come a dire che non è l´efficacia narrativa che conta, nemmeno quando, come in questo libro, è alta al punto da poterla definire eccellente senza abusare del termine; conta il meccanismo che la genera e Starnone è davvero convinto che il lettore debba vederlo fino all´ultimo ingranaggio. Sono sicura che mi perdonerà se, da lettore magari un po´ demodé, resto del parere che gli ingranaggi in un romanzo siano affari dell´autore.

Repubblica 2.10.11
Dopo la prima guerra mondiale la città divenne il centro di tutte le ricerche artistiche Una mostra a Ferrara racconta quello straordinario clima culturale e creativo
I quindici anni che sconvolsero la pittura dell´Occidente


Ferrara Gli anni folli a Parigi nel terzo decennio del Novecento sono il tema della mostra a Palazzo dei Diamanti da Ferrara Arte (fino all´8 gennaio 2012; a cura di Simonetta Fraquelli, Susan Davidson e Maria Luisa Pacelli): e sembra che tutta la storia dell´arte maggiore di quel tempo s´affolli nelle sale ampie del Palazzo; così che solo l´allestimento della mostra ferrarese, come al solito molto ben curato, riesce infine a mettere un po´ d´ordine nel materiale enorme che essa squaderna allo sguardo del visitatore. Perché fra le due guerre mondiali – raccogliendo in ciò un´eredità che partiva da lontano, e almeno dalla metà dell´Ottocento – Parigi sembrò raccogliere proprio tutto, e tutto stringere attorno alle due rive della Senna: tutto quanto di nuovo e d´antico caratterizzava la migliore ricerca internazionale. Così, dopo una guerra vinta ma pagata a carissimo prezzo dall´economia nazionale e dal suo tessuto sociale, la Francia delegava un´altra volta alle arti – proprio come era avvenuto all´indomani della guerra franco-prussiana del 1870, che aveva lasciato il paese in ginocchio – il compito d´asserire l´egemonia mondiale cui ambiva.
E furono così "anni folli" quelli che la mostra d´oggi indaga, distesi dal 1918 al 1933. Ma anche, all´opposto, anni prudenti, per il volgere sempre più accentuato del cubismo (già stato primo luogo dell´avanguardia) verso una dimensione distesamente classica: e vennero, allora, prima la maturità di Juan Gris a placare le assise proto-cubiste di oggetti in subbuglio di Picasso e di Braque; poi la riforma del purismo di Ozenfant e Jeanneret (cioè Le Corbusier), per i quali "tutto si organizza" nel movimento che si era in vario modo richiamato al cubismo, "tutto si chiarifica e si depura". Anni, anche, "ortodossi": nei quali Mondrian, tornato dall´Olanda dove ha fondato De Stijl, radicalizza la ricerca di equilibrio e di castità dei propri dipinti fondati sulle ortogonali e sui colori puri. O anni "ritornanti": con un De Chirico ormai classicheggiante a instillare memorie d´antico in Campigli e in altri della banda degli "Italiens de Paris" (non in de Pisis, che ne guarda ancora le sospensioni di senso e i turbamenti metafisici).
Anni folli, dunque, soprattutto per la straordinaria congerie di linguaggi che nacquero allora spalla a spalla, semmai stretti nell´unico quartiere di Montparnasse, che aveva sostituito Montmartre nelle predilezioni degli artisti. Fra i quali vastissima era la colonia di stranieri: di russi come Chagall, di lituani come Soutine, di bulgari come Pascin, di polacchi come Kisling, di italiani come Modigliani, di giapponesi come Foujita… Tutti insieme, furono raccolti dal battesimo immaginato nel ´25 dal critico André Warnod di "école de Paris": appellativo che ingenererà in seguito qualche confusione, ma che valeva allora a distinguere la folta colonia di stranieri trapiantati a Parigi dal gruppo di artisti facenti capo all´"école de France", che rivendicavano una naturale supremazia derivata loro dalla propria nascita. Una presunzione spesso condita da sentimenti antisemiti, serpeggianti in Francia fin dal secolo precedente (è del 1894 la condanna di Dreyfus) e destinati ad eclissarsi solo dopo la seconda guerra. Fra essi, il maggiore – e per la verità uno dei maggiori artisti in assoluto del suo tempo – è André Derain, che ha in mostra uno splendido, malinconico Arlecchino del ´23, proveniente dal museo di Copenaghen, e un nudo aspro e ferroso dello stesso anno, che è indice del ritorno prepotente di fortuna d´un soggetto – il nudo, appunto – già accantonato dalle avanguardie.
Matisse e Bonnard, intanto, vivevano la loro grande maturità nel Sud del paese, un poco discosti dalla capitale e, persino Matisse che ne era stato prima della guerra uno dei protagonisti assoluti, messi come in un canto dalle prime fila dell´avanguardia: tant´era serena, gioiosa, incantata d´oro e di luce la loro pittura, che sembra ripensare la voluttuosa pienezza del Renoir più tardo. Il quale, giustamente ricordato in apertura della mostra odierna come un anticipatore, moriva solo nel ´19, il pennello stretto alla mano deformata dall´artrosi da complicati bendaggi, ma con il sogno delle sue Bagnanti ancora vivo negli occhi, e ancora capace di parlare a tanti: non per ultimo a Picasso, la cui conversione classica e mediterranea della fine dei Dieci e dei primi del Venti (ben rappresentata in mostra da due Maternità del ´21) deve certo qualcosa alla iperbolica, statuaria enfasi delle forme dell´ultimo Renoir.
Ancora attivo, e intento a una sua estrema stagione che la morte interromperà nel ´26, era anche Monet: occupato questi anni a trattare con l´amico Georges Clemenceau il dono allo Stato francese della Grande Décoration, che avrebbe trovato infine la sua collocazione all´Orangerie. Ma la sua tarda lezione, come qui dimostra il Ponte giapponese convulso di materia e di colore proveniente dal Musée Marmottan, non contò allora quasi nulla: e rinviò il suo messaggio a nuove generazioni, sbocciate dopo la seconda guerra, in Europa e in America.
Si chiude infine, la mostra di Ferrara, sulle ultime avanguardie storiche, le sole che abbiano profondamente segnato di sé e della loro ansia di nuovo il ventennio intercorso fra le due guerre: il dadaismo e il surrealismo. Soprattutto di quest´ultimo, notevoli esempi sono qui offerti sia sul versante "figurativo" (il piccolo, notturno e ansioso Tanguy del ´28, proveniente da Tampere, e L´eco del vuoto di Dalí, del ´35 circa), sia su quello "astratto" con il celebre La regina Luisa di Prussia di Miró proveniente da Dallas e Il bacio di Max Ernst del ´27, splendida sorpresa finale della mostra.

Repubblica 2.10.11
Chagall
Le mille e una notte di un sonnambulo
di Giuseppe Montesano


Da dove vengono i sogni? Per Freud arrivano dal deposito di detriti dell´Inconscio, per la scienza gli stati onirici sono generati dalla chimica del cervello, per gli uomini comuni i sogni sono i messaggeri dell´aldilà: e tutti hanno ragione, perché di fronte alle apparizioni che ci vivono nella notte nessuno può essere sicuro di niente. Ma chi qualche volta ha visto, o solo intravisto, i quadri di Marc Chagall, è stato sopraffatto da un´altra verità, insieme oscura e luminosa, una verità che lo ha sfiorato come la carezza misteriosa che fa rabbrividire e risveglia alla vita: i sogni vengono dalle profondità mute del colore. E adesso eccolo di nuovo, l´ebreo-russo Chagall che attinge la sua musica al pozzo senza fondo di pigmenti fantastici, in un libro commovente pubblicato da Donzelli, Le mille e una notte a colori: quattro racconti tradotti dall´inglese delle Arabian Nights di Richard Burton da Fulvia De Luca, pubblicati nel 1948 negli Stati Uniti e illustrati da con tredici litografie e vari disegni preparatori.
Chagall aveva già illustrato le favole morali di La Fontaine e la Bibbia, ma con Le mille e una notte si trovava immerso direttamente in un mondo fiabesco, un mondo dove chi racconta lo fa per salvarsi la vita, un mondo dove crescono campi di grano nelle stanze da letto e gli innamorati si trasformano in uccelli dal piumaggio splendente, un mondo retto dall´onnipotente Allah e dall´ancor più onnipotente forza di Amore, un mondo dove si viaggia attraverso la magia che disarma la volontà e dove la bellezza che i censori della veglia ci negano severi ci viene donata in abbondanza dalle morbide e sinuose divinità della notte e del sogno. In quel regno in cui i confini tra la realtà e l´immaginazione sono labili come la spuma dell´onda, Chagall si muove in uno stato di sonnambulismo pittorico, lasciando che i colori e le forme fioriscano trasognati in margine ai racconti di Sherazade come acque affiorate nel dormiveglia, in un fluire che parla la lingua a gesti del colore.
Chagall completò le litografie per Le mille e una notte dopo la Seconda guerra mondiale, ancora nell´atmosfera di lutto per la Shoà e per la morte della moglie Bella, eppure non è il dolore a cantare nei rossi divampanti e negli azzurri smaltati delle sue principesse ingioiellate e nude e dei suoi animali fatati, ma il richiamo intrattenibile della felicità. Le forme sinuose, sghembe e infantili di Chagall sono incomprensibili a chi le guarda con l´occhio dell´arte esatta, e vivono solo se si entra nelle armonie musicali della sua scala cromatica, nella sua idea del colore che è espressione pura. E la realtà, allora? Il rispetto del nervo ottico? L´ossequio all´illusione tridimensionale? Tutto ciò è alle spalle di chi ha illustrato queste Mille e una notte, dove la ragione si è disciolta nelle metamorfosi dell´emozione. Chagall sa allontanarsi senza paura dalla realtà apparente per tuffarsi nella realtà segreta dei sensi e dei sentimenti, e attraverso il clavicembalo ben temperato del colore lascia che parlino il corpo e il suo desiderio. Il cavallo non nero ma impassibilmente azzurro sull´azzurro che appare nel Cavallo d´ebano, i gialli auriferi che illuminano i corpi in Julnar del mare o i celesti amniotici degli amanti in Kamar Al-Zaman non corrispondono alle descrizioni di superficie dei racconti arabi, ma solo al sismografo del mondo dei sogni.
E in filigrana a queste illustrazioni, a sorpresa ma non tanto, appaiono i colori e le ornamentazioni delle scenografie dei Balletti Russi di Diaghilev, la favola primitiva e raffinata dell´Uccello di fuoco di Stravinskij con i suoi guizzi festosi e gli ambigui accordi incerti tra lusso wagneriano e nudo folklore, e soprattutto la Shéhérazade di Rimskij-Korsakov: una musica di ori e azzurri scintillanti, sensuale e spirituale fino allo sfinimento, intrisa di passione e di caducità, una musica che era la traduzione in note dei mosaici bizantini dell´Impero d´Oriente sposati alla vegetazione sessuale dell´Art Nouveau, una musica che si affacciava sull´orlo dell´abisso incantata dal richiamo del piacere anche in mezzo al dolore. È questo lo Chagall di sempre e di queste Mille e una notte: il blu qui è davvero oltremare, un mare della mente stupefatta; il rosso è letteralmente l´incendio del cuore, del sangue e del sesso fusi insieme; il verde è l´eden ritrovato nel gioco, spalmato a bocca aperta dai pastelli di un bambino; l´arancio smette di essere chimico e si fa erotico, sembra colare acre e dolce come il succo del frutto che gli dà il nome; e il pallido paglierino della falce di luna è più vero, nel cuore degli amanti, di ogni luna vista al telescopio. E quando i colori sognano, come nel teatro dei giochi di Chagall, alla fine le parole non possono che tacere.

Repubblica 2.10.11
Lucca
Da Picasso a Calder, i disegni segreti nella raccolta di Peggy Guggenheim


È la prima volta che si pone attenzione al corpus dei disegni raccolti da Peggy Guggenheim. La mostra Carte rivelatrici, curata da Maurizio Vanni al Center of Contemporary Art di Lucca (fino al 15 gennaio), nasce dal lavoro di catalogazione del fondo grafico condotto da Thereza Pedrosa nei depositi del museo veneziano. Accanto ad alcuni celebri fogli, altri "tesori nascosti" documentano la passione della collezionista per le opere su carta. Quelle proposte a Lucca riportano alle vicende della vita d´eccezione di Peggy. A cominciare dal paravento a collage di Laurence Vail, pittore dadaista suo primo marito e padre dei suoi figli. Tra i lavori, rayogrammi di Man Ray e fogli di Brauner, Mondrian, Richter, Schwitters, Tanguy, Kupka, Moore, De Kooning, Calder, Picasso e Vedova, da segnalare un piccolo disegno di Cocteau del 1920, a cui Peggy dedicò la mostra d´apertura della galleria Guggenheim Jeune a Londra nel 1938.