martedì 4 ottobre 2011

l’Unità 4.10.11
Marchionne esce dalla Confindustria perché vuole mani libere sui licenziamenti
La lettera: Fiat fuori dal primo gennaio 2012. Marcegaglia: «Motivazioni che non stanno in piedi»
La Cgil: «Non vuole regole e nega la rappresentanza». Tonfo in Borsa per tutti i titoli del Lingotto
Lo strappo di Marchionne. E Confindustria si spacca
L’ad Fiat conferma: via da Confindustria il primo gennaio 2012. La replica di Marcegaglia: «Motivi non stanno in piedi, l’articolo 8 è salvo». Il piano per Mirafiori: «Dovrà sfornare 240mila vetture l’anno».
di Laura Matteucci


L’ultimo strappo di Marchionne verso l’autarchia negoziale preoccupa molti e non piace a (quasi) nessuno. Certo non a Emma Marcegaglia, che «rispetta la decisione», ma «non ne condivide le motivazioni», che anzi «non stanno in piedi», dice. E nemmeno al mercato, che penalizza tutti i titoli del Lingotto, con Fiat Industrial a guidare i ribassi con un calo del 5,74%. Decisa, annunciata, organizzata da oltre un anno, l’uscita di Fiat da Confindustria adesso ha il timbro dell’ufficialità e una data: il primo gennaio 2012. Il tutto nero su bianco in una lettera dell’ad Fiat Sergio Marchionne alla leader dei confindustriali, che per spiegare l’adieu stigmatizza l’accordo del 21 settembre tra sindacati e Confindustria, colpevole di aver «fortemente ridimensionato le aspettative sull’efficacia dell’articolo 8», leggi sulla possibilità di licenziare più facilmente (articolo accolto esaltato da Marchionne anche nella lettera). Un facile appiglio, si può dire, per giustificare una decisione maturata ben prima di tutti gli ultimi accordi sulla contrattazione. «Marchionne replica Marcegaglia dice che l’accordo interconfederale avrebbe depotenziato l’articolo 8, ma questo non è vero, i pareri espressi da importanti giuslavoristi dicono esattamente il contrario». Paradossale poi il giudizio di Marchionne sulla recente uscita del «collega» Diego Della Valle contro un certo modo di fare politica: «Ha espresso frustrazione, ma ora al Paese serve coesione». Sarà, ma sembra sia sempre qualcun altro a doverla costruire. Come dice Vincenzo Scudiere, segretario confederale Cgil: «È spiacevole che proprio la più grande azienda italiana continui a fare scelte che puntano a mettere in discussione i passi avanti fatti con la ricostruzione di regole nell’ambito di nuove e rinvigorite relazioni sindacali».
Le parole di Marchionne sono «molto negative», commenta Pier Luigi Bersani dalla sede del Pd. «Si può lavorare per cercare flessibilità in un quadro di tenuta del sistema delle relazioni continua non serve la balcanizzazione». Come spiega Stefano Fassina, responsabile economico Pd: «Indica la volontà di applicare le potenzialità più regressive dell’articolo 8: licenziamenti facili, deroghe peggiorative alle leggi e al contratto nazionale, mutilazione della rappresentanza e della democrazia in fabbrica».
SISTEMA DEBOLE
Anche i sindacati commentano con preoccupazione: «Non può dire che esce perchè è stato depotenziato l’accordo del 28 giugno. Non è affatto vero», dice Raffaele Bonanni, leader Cisl. «La Fiat non vuole regole e nega la rappresentanza dice ancora Scudiere Una posizione che trova il sostegno di un governo che non ha mai avuto la capacità di farsi rispettare». E che adesso, con il ministro Sacconi, riesce a dire solo: «La vera notizia è che vengono confermati gli investimenti in Italia». Magra (e nemmeno tanto reale) consolazione. La preoccupazione, ora, è che il baricentro di Fiat si allontani sempre più dall’Italia, come sottolinea lo storico Giuseppe Berta, per il quale lo scopo di Marchionne è quello di «un contratto tagliato su misura: da tempo tende a sottolineare la distanza dalle istituzioni. Le sue esigenze non sono più contemperabili nell’ambito degli assetti italiani». Non bastano quindi le rassicurazioni dell’ad sui nuovi investimenti: a Mirafiori dal 2012 verrà prodotto un suv a marchio Jeep, a Pratola Serra (Avellino), si lavorerà ad un nuovo motore per l’Alfa Romeo.
L’addio del Lingotto «avrà forti ripercussioni sul sistema confindustriale», aggiunge Berta. E «certamente la spinta delle grandi imprese verso l’autonomia contrattuale esce rafforzata», rischio che preoccupa anche Innocenzo Cipolletta, ex direttore generale dell’Associazione degli industriali. Come addetti Fiat rappresenta lo 0,8% dell’intero sistema confindustriale, mentre dal lato contributivo pesa l’1%, poco meno di 5 milioni di euro. Ma è tutto politico il peso più rilevante della scelta. Per Stefano Parisi, presidente di Confindustria digitale, lo strappo «segna un indebolimento che il sistema delle imprese non può permettersi».

l’Unità 4.10.11
Scelta politica per demolire il patto sociale
di Rinaldo Gianola


Lo schiaffo di Sergio Marchionne alla Confindustria era probabilmente già nelle sue intenzioni nella primavera del 2010 quando al Lingotto annunciò il piano “Fabbrica Italia”. Ma il divorzio tra la più grande impresa privata e l’associazione degli industriali italiani pur atteso è oggi un fatto grave perchè cade nel mezzo di un’emergenza economica, politica e sociale che dovrebbe essere affrontata con la ricomposizione delle forze del lavoro e dell’industria, la collaborazione dei corpi intermedi di rappresentanza, la tutela e il rispetto degli interessi generali.
La decisione della Fiat non riguarda solo i salottini di Confindustria: ha un effetto distruttivo, è un ordigno che deflagra e rischia di minare quei timidi ma apprezzabili tentativi, messi in campo dai sindacati e dal mondo delle imprese, di trovare un terreno comune per salvare e ricostruire il Paese. E c’è qualche cosa di più e di più grave che oggi va ribadito, come abbiamo già scritto: tutta la strategia e la linea di azione di Marchionne da un anno e mezzo a questa parte, la lunga serie di diktat, le rotture, i ricatti, sono finalizzati a creare le condizioni affinchè la Fiat lasci l’Italia o riduca la sua storica unzione industriale a una presenza residuale, simbolica.
Marchionne non condivide il patto tra imprese e sindacati del 28 giugno e poi rafforzato con la firma di fine settembre quando le parti sociali hanno espresso l’impegno a neutralizzare l’articolo 8 della manovra economica, quello che consente la deroga a livello aziendale dei contratti e delle leggi in tema di licenziamenti senza giusta causa.
Cosa c’entra una norma sui licenziamenti in una manovra finalizzata al pareggio di bilancio? Niente, ma l’articolo 8 era stato concordato direttamente dal ministro Sacconi con Marchionne per consentire alla Fiat di avere quella norma ad aziendam che la proteggesse dai possibili ricorsi dei lavoratori alla magistratura contro la nuova organizzazione produttiva di Pomigliano d’Arco e Mirafiori. Ma per l’amministratore delegato della Fiat questa copertura non basta. Non gli è piaciuto l’accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil e quando dice «basta politica» probabilmente contesta anche il “Manifesto” delle imprese per la crescita. Marchionne vuole avere le mani libere, vuole la piena libertà di licenziare e di organizzare il lavoro come meglio crede, “negoziando” gli accordi solo con i sindacati aziendali che possono nascere come funghi se adeguatamente premiati e retribuiti. Cosa vuole fare il manager di Fiat e Chrysler? Vuole fidarsi solo del Fismic, il suo sindacato preferito? Nessuno ha un po’ di memoria, nessuno ha studiato un po’ di storia al Lingotto? Nel luglio 1962 alla Fiat un sindacato “giallo”, il Sida, assieme alla Uil, firmò un accordo con l’azienda non condiviso e contestato duramente dai lavoratori. Torino ricorda quei giorni come la rivolta di piazza Statuto.
Marchionne non vuol far politica, afferma, ma le sue azioni, le sue decisioni hanno una forte valenza politica perchè destabilizzano le relazioni industriali, incidono sulle leggi dello Stato, influenzano le scelte di investimento e le stesse condizioni in cui si devono muovere i suoi ex colleghi di Confindustria. Emma Marcegaglia ha cercato in questi mesi di tenere agganciata la Fiat, di tutelarne gli interessi al pari di quelli delle altre imprese, e si è mossa cercando nuovi equilibri, anche con evidenti e necessarie ambiguità come le parole usate per l’articolo 8. Ma la Fiat ha deciso di rompere e lo ha fatto, forse non casualmente, alla vigilia della discesa in campo dei candidati alla successione a Emma Marcegaglia. Tra pochi giorni i saggi di Confindustria inizieranno a raccogliere i nomi degli aspiranti alla leadership delle imprese private. C’è da scommettere che la rottura della Fiat e le argomentazioni di Marchione diventeranno il centro della campagna elettorale. Si presenterà il “falco” Alberto Bombassei, fedelissimo di Marchionne e per questo cooptato nel consiglio di amministrazione di Fiat Industrial che dal primo gennaio sarà fuori da Confindustria? Oppure toccherà al “ciclista” Giorgio Squinzi, industriale chimico, politicamente berlusconiano ma molto dialogante e costruttivo con i sindacati? Ci saranno sorprese? Si vedrà. Certo la dura mossa di Marchionne fa impallidire la letterina a pagamento di Diego Della Valle e le esternazioni elementari di Luca di Montezemolo, i due imprenditori che vorrebbero lanciarsi in politica sperando nel collasso del berlusconismo. Invece di perdere tempo Montezemolo e Della Valle potrebbero almeno dire se stanno con Marchionne oppure no.

il Fatto 4.10.11
Lo strappo sulla libertà di licenziare
Marchionne ha deciso dopo il patto Cgil-Marcegaglia
di Salvatore Cannavò


Tra Sergio Marchionne ed Emma Marcegaglia c’è ormai uno scontro totale. Quello che Marchionne rimprovera a Confindustria è il fatto di aver depotenziato l’articolo 8 della manovra finanziaria – voluto fortemente dal ministro Maurizio Sacconi su “suggerimento” della Bce – con l’intesa siglata lo scorso 21 settembre in cui gli industriali hanno placato le ansie della Cgil confermando la bontà dell’accordo del 28 giugno. Quell’intesa si basa su cinque righe in cui le parti sociali confermano di volersi avvalere esclusivamente dell’accordo del 28 giugno e non delle regole sancite dall’articolo 8 (che, se applicate alla lettera, garantirebbero una discreta libertà d’azione alle imprese in barba allo Statuto dei lavoratori). E l’intesa, secondo l’ad della Fiat, “ha fortemente ridimensionato le aspettative sull'efficacia dell'articolo 8”.
 IL LINGOTTO non può permettersi di “operare in Italia in un quadro di incertezze” e quindi decide di uscire dall’associazione. In questo modo ha le mani libere: non sarà tenuto al rispetto degli accordi di concertazione e, nel caso specifico, Fiat decide di utilizzare “la libertà di azione applicando in modo rigoroso le nuove disposizioni legislative”. Insomma, come fa subito notare il ministro Sacconi, Marchionne applicherà per quanto gli sarà possibile la lettera dell’articolo 8.
 La Confindustria capisce ma non si adegua e dice di non condividere gli argomenti di Marchionne. Emma Marcegaglia dice espressamente che le motivazioni di Marchionne “non stanno in piedi”. E spiega perché: “Marchionne mi aveva mandato una lettera a fine giugno, dopo l'accordo interconfederale del 28, dicendomi che l’apprezzava e che aveva bisogno della sua validità retroattiva degli accordi di Pomigliano e Mira-fiori. Altrimenti sarebbe uscito da Confindustria. Oggi grazie all'art. 8 l'effetto retroattivo di Pomigliano e Mirafiori c’è. Marchionne dice che la sottoscrizione dell'accordo interconfederale avrebbe depotenziato l'art. 8, ma questo non è vero”. Insomma, la Fiat ha avuto tutto quello che vuole, ma non si accontenta, dicono gli industriali. Mentre Marchionne continua a pensare che una Fiat globale deve avere maggior mano libera possibile e non si sente rassicurato da intese che tengono conto anche della Cgil (come è quella del 28 giugno). Uno scontro di fondo, legato alla dimensione globale della Fiat da un lato che non tollera gli equilibri politici e sociali che la Confindustria italiana ha voluto trovare con tutte le parti sociali.
 Logico, quindi, che la mossa di Marchionne desti più di una preoccupazione nel fronte sindacale e che sconcerti anche osservatori più indipendenti. Il professor Carlo Dell’Arringa, giuslavorista della Cattolica, parla di decisione “incomprensibile”. Il senatore Pd Pietro Ichino, mai tenero con la Fiom, nota che l’uscita da Confindustria era “comprensibile sei mesi fa ma non ora”.
 Cisl e Uil, che gli accordi di Pomigliano e Mirafiori li hanno firmati, spiegano di non riuscire a capire come si sia prodotta una simile frattura e smentiscono che l’accordo del 28 giugno depotenzi l’articolo 8. La Cgil di Susanna Camusso, dal canto suo, bacchettando l’amministratore Fiat “che non vuole regole e nega la rappresentanza” ne approfitta per sottolineare come quell’accordo, contestato dalla Fiom, in realtà protegga i lavoratori. Maurizio Landini della Fiom, dopo aver osservato cosa abbia significato rincorrere Marchionne, avverte della conseguenza forse più drammatica: il rischio che la Fiat abbandoni l’Italia. Il problema è serio.
 IERI MARCHIONNE ha voluto tranquillizzare tutti assicurando che “se” deciderà di fare un Suv lo produrrà a Mirafiori mentre sembra certo che a Pratola Serra si faranno nuovi motori. Quel “se” pesa come un macigno anche perché per il momento di concreto c’è la lettera di messa in mobilità per i circa 700 lavoratori della Irisbus di Avellino firmata ieri.

l’Unità 4.10.11
Il segretario conclude la direzione appellandosi al senso di responsabilità del gruppo dirigente
Parisi era intervenuto per chiedergli di presentarsi dimissionario: «Sul referendum linea sbagliata»
Bersani: «Tocca a noi ricostruire. Guai a chi azzoppa il Pd»
Sei ore di discussione su come uscire dalla crisi, referendum, Bce, alleanze. Il leader Pd: «Obiettivo ricostruire fiducia e speranza». Minoranza critica: «Dobbiamo sostenere soltanto il governo di transizione».
di Simone Collini


«Infine, vorrei soffermarmi sul tema dei comportamenti». Pier Luigi Bersani chiude la relazione che avvia i lavori della Direzione del Pd sottolineando la responsabilità che ha sulle spalle in questo momento il maggior partito d’opposizione. Visto che la posta in gioco è la «ricostruzione» di una fiducia e di una speranza duramente colpite dalla crisi economica e politica, il leader del Pd di fronte ai suoi fa un appello al «senso di responsabilità», chiedendo ai dirigenti «massima attenzione a dichiarazioni di cui non si calcola bene la misura». Tutto inutile, si potrebbe dire dopo sei ore di discussione a porte chiuse. E infatti il leader del Pd al termine degli interventi riprende la parola e non a caso dice due cose. La prima: «Per favore, evitiamo le caricature». La seconda: «Mi stupisce che dirigenti del Pd invece che valorizzare il nostro contributo, lo azzoppino». Cosa è successo in quelle sei ore?
Intanto, che subito dopo la relazione del segretario, chiede di intervenire Arturo Parisi, per ricordare che l’ultima Direzione votò un ordine del giorno che impegnava il partito a non sostenere il referendum (in realtà era in campo anche quello Passigli) con soli 3 voti contrari e per criticare «una rivendicazione scomposta dei meriti»: «Lo dico a quelli che hanno scoperto poi che il referendum può essere un utile stimolo come se fosse la dolce Euchessina». Finisce il tempo dell’intervento, Parisi chiede di depositare agli atti la fine del suo ragionamento. Questa: «Il segretario dovrebbe presentarsi dimissionario per difendersi dall’accusa di aver inferto un grave danno al partito proponendo una linea che si è dimostrata radicalmente sbagliata». Più tardi, quando tutto filtra fuori dalla sede Pd, dice che è stato frainteso.
Così si spiega con chi ce l’ha Bersani quando nell’intervento di chiusura dice che «il Pd non è un optional, io non sono il segretario di un optional» e per questo è stupito «che dirigenti del Pd invece che valorizzare il nostro contributo al referendum lo azzoppino»: «Per me valgono i fatti. Abbiamo un progetto di legge che non è esattamente il Mattarellum. Siamo stati determinanti nella raccolta delle firme».
Non si capirebbe però fino in fondo l’altra frase pronunciata da Bersani nella replica finale, quell’appello a evitare nelle discussioni tra di loro le «caricature». Il leader del Pd aprendo i lavori parla della necessità di «riabilitare l’Italia», di confrontarsi con il manifesto degli imprenditori per la crescita del Paese, di «chiedere e ottenere buona politica» (che abbia come capisaldi uno Stato più leggero, una nuova legge elettorale, un nuovo sistema fiscale e un nuovo patto sociale) perché «scorciatoie» indicate da «salvatori della patria» si è visto dove portano. Tutto questo per dire che il Pd è disponibile a «un governo d’emergenza», anche se tutto intorno vede «tatticismi di ogni genere», e anche se, sottolinea, «il nostro orizzonte sono le elezioni». Walter Veltroni interviene per chiedere chiarezza su questo punto, con un esplicito riferimento alle parole del leader: «L’orizzonte nel quale si muove il Pd non è, come pure qualcuno ha sintetizzato, quello delle elezioni bensì quello del superamento del governo Belusconi con un governo davvero responsabile». Una posizione sostenuta dagli altri esponenti di Movimento democratico ma anche dal vicesegretario del Pd Enrico Letta e da Dario Franceschini (quelli di Area democratica si sono riuniti prima della Direzione e hanno espresso critiche al modo in cui è stata gestita la vicenda referendum, ma poi hanno deciso di non unirsi all’intemerata di Parisi, che anzi è stato criticato dal capogruppo alla Camera).
La minoranza guarda con attenzione e interesse a questi distinguo nella maggioranza, così come al fatto che sulla lettera della Bce al governo si sia registrato un botta e risposta tra Letta e il responsabile Economia del Pd Stefano Fassina. Per quest’ultimo la lettera di Trichet e Draghi contiene una ricetta «iniqua e irrealistica» e la Bce è una «istituzione senza legittimazione democratica e limitata dal suo statuto al controllo dell'inflazione» e che quindi non può influire sulla sovranità di uno Stato nazionale. Per Letta sarebbe però un errore sposare la linea dell’«europeismo a intermittenza»: «Lasciamo a Berlusconi la polemica contro la tecnocrazia europea». E Paolo Gentiloni interviene nella divaricazione sostenendo che se il nemico è la Bce addio Nuovo Ulivo.
La minoranza chiede chiarezza anche sulle alleanze, ma è soprattutto sulle ipotesi governo di transizione-voto anticipato (ipotesi sostenuta da Nicola Latorre) che si accende il confronto. Bersani chiede di evitare di forzare la sua posizione, ma rimane convinto che sostenere soltanto l’ipotesi del governo di emergenza rischia di «farci rimanere sotto». Per questo il segretario vuole che il partito sia «attrezzato» anche per un eventuale voto anticipato. Che rimane «l’orizzonte per il cambiamento, la ricostruzione, la ripartenza».

l’Unità 4.10.11
Affondo di Veltroni: c’è solo il governo d’emergenza
La minoranza del Pd chiede «chiarezza» al segretario. «Il partito deve lavorare ad un esecutivo di transizione». Anche Letta, Franceschini e Marini, dalla maggioranza, intervengono per escludere le urne anticipate. Civati: «Il segretario era il convitato di pietra di questa direzione»
di Maria Zegarelli


Il Pd non è un optional, io non sono il segretario di un optional». Per una volta Pier Luigi Bersani decide di non volare alto sulle polemiche e replica secco al duro intervento di Arturo Parisi rispetto alla posizione del Pd sul referendum. A Parisi, certo, ma forse non soltanto a lui. Direzione «spinosa» qualcuno l’ha definita, sicuramente un confronto con momenti di alta tensione su diverse questioni di non poco conto, dalla lettera Bce, al referendum abrogativo del Porcellum al nodo elezioni anticipategoverno di transizione. Mentre Bersani ribadisce la sua disponibilità a un governo di larghe intese, pur invitando il partito a guardare all’orizzonte delle elezioni e dell’alternativa, per la minoranza la strategia del Nazareno non deve avere subordinate. Si deve lavorare da subito e senza riserve al governo d’emergenza mandando un messaggio inequivocabile anche a quei pezzi di maggioranza ormai stanchi del berlusconismo ma contrari al voto anticipato.
Posizione sulla quale ieri si sono espressi anche esponenti della maggioranza, dal vicesegretario Enrico Letta, al capogruppo alla Camera Dario Franceschini a Franco Marini: tutti concordi nell’indicare, se cade il governo, un esecutivo di alto profilo che archivi l’era di Berlusconi e guidi il Paese verso il 2013 con una nuova legge elettorale e una nuova stagione di riforme istituzionali.
«Il Pd esca con una proposta politica chiara e inequivocabile. l'orizzonte nel quale si muove il Pd non è, come pure qualcuno ha sintetizzato, quello delle elezioni bensì quello del superamento del governo Berlusconi con un governo davvero responsabile», dice Walter Veltroni indicando la via «maestra», perché «le due scelte, elezioni o governo di responsabilità, non possono essere messe sullo stesso piano anche perché più si parla di elezioni più si indebolisce la prospettiva di dar vita ad un governo capace di farci uscire da questa fase politica torbida e pericolosa. Quando parlo di questo governo, cui hanno fatto riferimento molti interventi come quello di Franceschini, Gentiloni, Fioroni, Letta, penso ad un governo che abbia un ampio consenso parlamentare e che abbia una guida autorevole e autonoma capace di fare le scelte difficili e onerose che ci consegna la crisi». «Le elezioni anticipate rafforza Verini non devono essere la proposta del Pd», un partito che deve essere «innovativo, riformista, europeista davvero, coraggioso». Obiettivo della minoranza è il voto nel 2013, che come fanno notare il molti, vuol dire anche rimettere in discussione la leadership e di conseguenza l’ipotesi di un congresso anticipato. Nessuno pone la questione ufficialmente, ma come sottolinea Pippo Civati, la leadership «è il convitato di pietra di questa direzione». Bersani nei giorni scorsi, alla luce delle dichiarazioni a mezzo stampa di alcuni dirigenti del suo partito ha invitato ad essere espliciti: «Se il problema sono io ditelo basta giochetti». Qualcuno ieri ha buttato lì una battuta: «Invece, anche stavolta si sono fatti i giochetti».
Giochetti? Niente affatto per Beppe Fioroni, la leadership è un argomento che non lo appassiona, altra storia la strategia politica. «Alla luce del sole chiediamo un governo di larghe intese, ma nel sottoscala preghiamo per il voto anticipato», mentre secondo l’ex ministro se si crede davvero al governo di larghe intese «bisogna diventare operativi, perché altrimenti ci teniamo Berlusconi». Governo di transizione ma grande operatività anche sulle alleanze future: «cCi l’ha detto che l’alleanza con Casini e il Terzo Polo è argomento superato? Ovvio che per il Pd vorrà dire fare qualche sacrificio», ma non si può «rinunciare a guardare ai moderati». Ignazio Marino lasciando la direzione dice, «sarebbe strategica un’alleanza con l’Udc e altri per cambiare e rinnovare la politica economica del nostro Paese». Scettico sulla fase di transizione Michele Ventura, maggioranza Pd: «Questa proposta non si è consumata nell'opinione pubblica? Non rischia di apparire come conservazione dell'intera classe politica? Se dobbiamo rilanciarla dobbiamo precisarla». Contrario il dalemiano Nicola Latorre: «In questo Parlamento non ci sono le condizioni per un’alternativa, né tantomeno per un qualunque governo di transizione». Meglio al voto, subito. E chiarisce: «Su questo D’Alema ed io la pensiamo in modo diverso».

Repubblica 4.10.11
Bersani duella con Veltroni "Tra noi c’è chi azzoppa il Pd"
L’ex segretario: serve un governo d´emergenza non il voto
Parisi attacca sul referendum, ma nega di aver chiesto dimissioni al leader
di Giovanna Casadio


ROMA - «Ci sono dirigenti che azzoppano il partito, invece di valorizzare il lavoro fatto: il Pd non è un optional e io non sono il segretario di un optional...». Bersani ce l´ha con Arturo Parisi. Il professore prodiano - promotore del referendum-miracolo (un milione e duecentomila firme raccolte in poche settimane) - e il segretario incrociano le spade. Ma la direzione del Pd di ieri è attraversata da mille tensioni. Si duella su tutto. E soprattutto sul da farsi, ovvero qual è la linea dei Democratici mentre il berlusconismo agonizza e la Lega si massacra da sé: prepararsi al voto o puntare su un governo di transizione? Bersani esordisce: «Il nostro orizzonte sono le elezioni ma non ci sottraiamo a un governo d´emergenza». Troppo poco, troppo ambiguo. Così la pensa Walter Veltroni, il leader della minoranza, che va all´attacco: «Serve una proposta politica chiara e inequivocabile: l´orizzonte in cui si muove il Pd non è - come pure qualcuno ha sintetizzato - quello delle elezioni, bensì quello del superamento del governo Berlusconi con un governo davvero responsabile». Uno scontro in piena regola tra Veltroni e Bersani.
L´ex segretario tuttavia fa notare che non è il solo a indicare la via maestra nel governo di responsabilità, insistendo perché voto e esecutivo di transizione non siano messi sullo stesso piano. Allo stesso modo la pensano il capogruppo Dario Franceschini, Beppe Fioroni, Franco Marini, Paolo Gentiloni e pure il vice segretario Enrico Letta. Bersani cerca di mediare, alla fine: «Noi ci stiamo attrezzando a entrambi gli scenari, sia elezioni che governo di emergenza, però non tutto è nelle nostre mani». Tuttavia, sottolinea, il Pd deve rendersi disponibile al governo di transizione ma «il nostro progetto non è quello, se no ci finiremmo sotto come un camion».
Lo scontro resta. E anche i sospetti che, dietro l´insistenza sulla strada lunga di un esecutivo di transizione per il bene del paese, ci sia il "nodo" della premiership. «Questo è stato il convitato di pietra della riunione - commenta Pippo Civati - Ma se così fosse, se Bersani non va bene, allora bisogna trovare il modo di dircelo». Su elezioni subito insiste il dalemiano Nicola Latorre. D´Alema nell´assemblea del "parlamentino" non c´è - è a Bruxelles - e fa sapere di volere restare fuori dagli scontri. Latorre precisa: «Che servano elezioni è la mia opinione, quella di D´Alema è molto diversa».
Massima è la tensione sul referendum. È Parisi-show: il professore denuncia il «metodo bulgaro» che vige nel Pd, «l´errore di valutazione politica e la linea radicalmente sbagliata» e ora, «la rivendicazione scomposta dei meriti». Le agenzie di stampa riportano come passaggio della relazione di Parisi la richiesta di dimissioni del segretario, ma lui smentisce: «Le mie frasi sono state fraintese». Il mancato esplicito sostegno al referendum è criticato anche da Areadem, la corrente di Franceschini, dai veltroniani, da Ignazio Marino e dalla sua area. Duello anche sulla Bce tra Fassina, responsabile economico del partito, e il vice segretario Letta. Fassina critica la ricetta «iniqua e irrealistica» della Bce; Letta rimbrotta: «Non si può essere europeisti a intermittenza». Bersani infine: «No alla critica alla Bce, ma la lettera con un altro governo non ci sarebbe stata». Divisioni sulle primarie del Lazio e le alleanze in Sicilia. Ci sarà un referendum della base sulla futura alleanza con Lombardo. E dopo sette ore di discussione Bersani appare provato.

Repubblica 4.10.11
Bersani: dirigenti con retropensieri. E tra gli "scalatori" vede in prima fila Veltroni e Renzi
I sospetti del leader su Walter e Prodi "Vogliono tempo per liberarsi di me"
Nella lista del segretario anche Prodi. Parisi lo starebbe lanciando verso il Quirinale
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Il governo di transizione serve a qualcuno anche per rimescolare le carte. Ci sono dirigenti che hanno retropensieri personali. Sanno che oggi sicuramente non tocca a loro, ma se tutto torna in gioco, hanno una possibilità in più». Dai giorni del caso Penati, Pier Luigi Bersani ha messo nel conto il fuoco amico sulla sua leadership. «Basta giochetti», la formula usata lo scorso week-end è un messaggio agli "scalatori". Il contrattacco esplicito lo ha lanciato ieri nella direzione: «Qualcuno vuole azzoppare il partito». Cioè lui, il suo ruolo di segretario.
Bersani non intende sottrarsi alla sfida. Sfida che non vede ancora duellanti a volto scoperto. Ma i sospetti del leader e del suo staff si concentrano su Walter Veltroni, su Matteo Renzi e su un piano diverso su Romano Prodi. C´è anche l´ex premier nella lista bersaniana. «È tornato in campo, altrochè. E l´anaconda sta stringendo al collo gli avversari di sempre, gli ex Ds», ragionava ieri Beppe Fioroni. Nelle mosse di Arturo Parisi, al quale nessuno nega la patente di assoluta onesta intellettuale, molti vedono anche la ripresa di un movimentismo legato al Professore. Lo stesso Parisi, esaltando la sua firma ai banchetti referendari, ha usato per Prodi la formula enfatica di «guida morale». E non c´è dubbio che da "prodiano in sonno" Parisi sia tornato ora il portabandiera di un prodismo iperattivo. Con quale obiettivo? La corsa al Quirinale dell´ex premier bolognese. Corsa che può trovare ostacoli nel mondo diessino e in accordi preventivi tra il Pd di Bersani e l´Udc di Casini in vista dell´elezione al Colle (2013).
Se è vero, come ha spiegato il solido e navigato Franco Marini, che la «leadership di Bersani non è stata in discussione» durante il vertice di ieri, è anche vero che la minoranza di Modem ha deciso di rompere gli indugi. Veltroni lo dimostra che il suo presenzialismo mediatico e con un lavoro che secondo molti dovrebbe portare alla corsa di Matteo Renzi per le primarie nel 2013, alla fine dell´esperienza del governo di transizione. Anche sull´ex sindaco di Roma si concentrano le attenzioni di Bersani quando parla di chi avrebbe un vantaggio dal «rimescolamento di carte». È un´altra sfida accettata, quella veltroniana. Il segretario è sicuro di poter contare su un grande appoggio dei militanti e del partito nella sua struttura non liquida. Un governatore "pesante" come Enrico Rossi non ha paura di sostenerlo con argomenti forti. «Leggo paginate, interventi. Bene penso che certi dirigenti dovrebbero imparare quando è il momento di tacere«, ha detto il presidente della Toscana domenica al festival della Salute di Viareggio. «Per me D´Alema, Veltroni, Fioroni, Bindi vanno ringraziati ma adesso devono ritagliarsi un ruolo da riserva della Repubblica e del partito. Mai più incarichi dirigenziali per loro, mai più posti di ministro e se vogliono entrare in Parlamento si sottopongano alle primarie di collegio».
Per Bersani il dilemma voto subito-governo di transizione è alla fine un falso problema. Il bersaglio è lui, la sua leadership. «Un sacrificio il Pd sarà chiamato a farlo - spiega Fioroni -. Bisogna offrire qualcosa a Casini: o la candidatura a premier o il Quirinale». Un avvitamento che appare prematuro ma che spacca i democratici. Anche perché ammette Fioroni, uno di quelli che non crede alle chance di Bersani, la «verità è che nel Pd l´ultimo giro di giostra interessa a tanti. Purtroppo».

il Riformista 4.10.11
Legge elettorale e assenza di strategia
di Emanuele Macaluso

qui
http://www.scribd.com/doc/67411031

Repubblica 4.10.11
La gaffe del tunnel e le dimissioni
Scuola, calano i bocciati così la Gelmini ha nascosto il flop della linea dura
Dal 2008 sempre in flessione. Smentiti i comunicati del ministro
E sul sito del Miur note stringate hanno sostituito i risultati integrali degli scrutini
di Salvo Intravaia


ROMA - Calano i respinti alle scuole superiori: dal giugno 2008 al giugno 2011 sono scesi quasi del due per cento. La "linea della severità" annunciata da Mariastella Gelmini esce ridimensionata dalle scelte dei professori, lo si scopre leggendo i dati dell´ultima stagione approdati in viale Trastevere, mai resi pubblici e ora consultati da Repubblica. È dal 2008 che il Miur non ha più pubblicato ufficialmente, ovvero sul sito del ministero, i risultati integrali degli scrutini di fine anno limitandosi a stringati comunicati stampa. Adesso si scopre che negli anni del Governo Berlusconi non c´è mai stata alcuna crescita dei bocciati alle medie superiori: niente pugno di ferro dei professori contro gli studenti riottosi e pelandroni.
È una storia travagliata e piena di censure quella degli scrutini di fine anno ai tempi della Gelmini. L´ultima pubblicazione completa e senza errori sugli esiti di fine anno risale al luglio del 2007, quando a Palazzo della Minerva sedeva Giuseppe Fioroni. L´anno dopo, con il cambio del ministro, arriva la prima sorpresa: un clamoroso refuso aritmetico fa schizzare in alto il numero complessivo dei bocciati. Il 13 settembre del 2008, quattro mesi dopo l´insediamento della Gelmini, il ministero comunica infatti che «dopo le verifiche di fine agosto il totale degli studenti non promossi per l´anno 2007-2008 si attesta al 16,2 per cento del totale, mentre nell´anno scolastico 2006-2007 i bocciati furono il 14,2 per cento». Nel conteggio, già allora, c´era qualcosa che non quadrava. «A giugno - spiegava il comunicato ufficiale - gli studenti promossi sono stati il 59,4 per cento del totale, i non ammessi sono stati il 13,8 per cento e quelli con giudizio sospeso il 26,8 per cento». Proseguiva la nota: «Circa il 6 per cento degli studenti che hanno effettuato le prove di verifica a fine agosto sono stati bocciati portando la percentuale dei non ammessi al 16,2 per cento». Però il 5,9 per cento - che è quel "circa il 6 per cento" - di bocciati a settembre sul 26,8 di rimandati a giugno determina l´1,6 per cento di respinti. Se si somma questa quota al 13,8 dei bocciati a giugno la percentuale complessiva di respinti arriva al 15,4 per cento. E non al 16,2. In quella stagione di partenza, ecco, i dati già non tornavano e, comunque, erano inferiori di uno 0,8 per cento a quelli dichiarati.
L´anno successivo, il 23 giugno 2009, il ministero lancia un comunicato che riporta i dati delle bocciature di fine stagione nelle prime quattro classi delle superiori: 13,6 per cento. E nel 2010, il 12 giugno, si torna a parlare dell´argomento. «Scuola, Miur: primi dati su esito scrutini, più severità», recita una nota ministeriale. Si legge: «Per quanto riguarda i risultati degli scrutini relativamente alle prime quattro classi delle scuole superiori, i dati disponibili segnalano un incremento significativo dei non ammessi. Rispetto all´11,7 per cento dei non ammessi alla classe successiva del precedente anno scolastico, quest´anno nelle stesse scuole la percentuale sale al 13,1 per cento». Ma l´anno prima, in verità, si parlava di un 13,6 per cento. Errore anche questo?
Infine, il dato dei bocciati di giugno del 2010-2011 nelle prime quattro classi delle medie superiori, mai reso pubblico da viale Trastevere. Parla dell´11,9 per cento di non promossi a giugno. Sono quasi due punti percentuali (1,9%) in meno rispetto al 2007-2008, il primo anno di insediamento della Gelmini. E da allora i dati dei bocciati a giugno sono sempre stati in calo progressivo.

Repubblica 4.10.11
I bocciati fantasma del ministro Gelmini
di Benedetta Tobagi


Ammettiamolo: era davvero difficile battere l´exploit del fanta-tunnel per neutrini. Ma Mariastella Gelmini è riuscita ancora una volta a lasciarci a bocca aperta. Il ministro avrebbe occultato e manipolato i dati sulle bocciature, pur di propagandare l´immagine di una scuola più severa sotto la sua guida.
La Gelmini, d´altronde, ha fatto dell´ideologia del rigore, nutrita di elementi simbolici ed esteriori (il voto in condotta, il grembiule, la "liberalizzazione" delle bocciature anche nel ciclo di base) il suo cavallo di battaglia. La bocciatura è diventata l´incarnazione plastica della reazione al permissivismo "sessantottino", fucina di tutti i mali. Da qui, l´inammissibilità di un calo nel numero dei bocciati: un dato quantitativo che di per sé può significare qualunque cosa, ma al ministro preme solo in quanto incrina un´immagine propagandistica diffusa con insistenza martellante.
Questa notizia deve turbarci profondamente per almeno tre motivi.
Primo: ci ricorda che viviamo in un mondo alla rovescia in cui i responsabili della pubblica istruzione si vergognano perché, stando ai numeri, la scuola, nonostante i tagli, adempie bene al suo compito, che è formare gli studenti, dunque portarli alla promozione, e non bocciarli. Alla Gelmini è caro il modello-azienda, ma nemmeno le imprese che invocano a gran voce una maggiore libertà di licenziare misurano la loro performance in termini di dipendenti espulsi.
Secondo: i numeri sono un pilastro portante della retorica di questo governo. Strumento di potere e incantamento, vengono sciorinati a ogni occasione per impressionare l´uditorio con un´immagine di concretezza ed efficienza, ma è ormai documentato che gli esponenti del governo spesso diffondono numeri falsi o errati. Ma la prassi instaurata dal Miur in era Gelmini sembra da regime comunista: oscurare i dati, manipolarli o concederli col contagocce, per privare docenti, analisti e osservatori del diritto democratico di sottoporre a pubblico controllo l´azione di governo.
Terzo: ancora una volta emerge una sconcertante mancanza di coerenza tra parole e fatti, tanto più grave in quanto emana dalla figura cui fa capo tutto il sistema educativo. Che genere di messaggio trasmettiamo ai ragazzi? Se al compito di matematica i dati non tornano, devono sentirsi autorizzati a truccare le cifre? «Se c´è più rigore a scuola è un bene per il paese – Gelmini dixit - perché è fra i banchi che si forma la nuova classe dirigente». Ministro, lei ha appena 38 anni, è un esponente di spicco della "nuova classe dirigente". Vuole applicare un po´ del rigore che tanto declama anche a se stessa?

il Riformista 4.10.11
L’agonia di Rainews per eliminare Mineo
di Antonella C. Angeli

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l’Unità 4.10.11
Non solo New York La «marcia» approda a Boston e Los Angeles e arriva fino in New Mexico
Liberi i fermati del ponte di Brooklyn. Tra loro anche una ragazzina. Similitudini con il Tea Party
Indignados, la protesta investe l’America Rilasciati i 700 «ribelli»
Nonostante si stiano conquistando l’appoggio dei sindacati, qualcuno inizia a paragonare gli Indignados ai movimentisti del Tea Party. La protesta, intando, si propaga nel resto degli Stati Uniti
di Martino Mazzonis


Il New York Police Department ha fatto un favore al movimento in gestazione degli occupanti di Wall street. I 700 arresti per aver bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn hanno dato enorme risonanza alla protesta contro le banche e la finanza che stava già crescendo sotto traccia nel resto del Paese. All’inizio della terza settimana di proteste, il campo allestito a Zuccotti Park, a poche centinaia di metri dalla Borsa, è diventato più affollato, le personalità della sinistra americana che si affacciano a fare un saluto aumentano e il numero di gruppi che si segnalano nel resto degli Stati Uniti non fa che crescere. Durante il fine settimana a San Francisco, Boston, Los Angeles, Chicago, Seattle sono sorti i primi campi di tende davanti alle banche o alla sede locale della Federal reserve. A Columbus, capitale dell’Ohio, un corteo per le strade del centro. Ma sul sito Occupytogether.org il numero di gruppi nati spontaneamente è molto più grande e tocca un centinaio di località sparse per il Paese. In California, naturalmente, ce ne sono di più. E da ogni parte d’America persone si prendono un paio di giorni per arrivare a New York e partecipare alla protesta.
Ieri a New York è stata la volta di una marcia di zombie mangia-dollari nel Liberty park a rappresentare la cupidigia della finanza. E dell’inizio delle proteste e della pressione sul Dipartimento di polizia della città di New York per aver usato metodi eccessivi di fronte ad una manifestazione assolutamente pacifica. Una giovane corrispondente del New York Times descrive una situazione non particolarmente violenta ma comunque apparentemente preparata: la polizia, dopo aver fatto entrare il corteo sul ponte, lo ha chiuso ed ha proceduto agli arresti, “all’inizio con una certa brutalità”.
LA LEZIONE DI SEATTLE
La rappresentazione, le forme di gestione, l’assenza di leader hanno caratteristiche in comune con gli indignados spagnoli ed alcune delle rivolte scoppiate nel mondo arabo. Torna anche l’esperienza cominciata a Seattle nel 1999, con in più le possibilità create dalla rete e dai social media che nei primi anni Duemila erano ai primi passi. E con la novità che chi protesta oggi vive la crisi ed è preoccupato per la propria vita e quella delle persone che gli stanno accanto. C’è anche una similitudine con il Tea Party: l’indignazione contro l’ eccessiva contiguità tra finanza e politica e l’assenza di leader riconosciuti sono una caratteristica della parte spontanea di quel movimento. Proprio della necessità di un Tea Party di sinistra parlava ieri sul Washington Post E. J. Dionne, autorevole commentatore liberal. Il riferimento è a Roosevelt e Johnson, presidenti che poggiarono la loro azione riformatrice sulla spinta delle mobilitazioni sindacali e dei movimenti per i diritti civili.
Da qualche giorno attorno ai gruppi che hanno fatto partire la protesta, si stanno affiancando anche i sindacati e associazioni nazionali. MoveOn, organizzazione nata in rete che promuove campagne, petizioni e raccolte fondi e conta più di un milione di aderenti ha dato la sue adesione e così hanno fatto alcune sezioni sindacali locali. Molti affermati opinionisti hanno poi, con un pizzico di paternalismo, spiegato nei loro articoli che gli obbiettivi del movimento non sono chiari. Ed hanno provato a suggerirne qualcuno: tasse, Tobin Tax e regole sulla finanza, sono le idee di Nicholas Kristof, l’inviato del New York Times nelle piazze arabe.

l’Unità 4.10.11
Movimento globale tra antipolitica e rabbia sociale
Disoccupazione, tagli alla spesa pubblica, governi corrotti:
è questo il cemento che alimenta le tensioni. Dal Cile a Israele
di Umberto De Giovannangeli


Cambia la dizione, ma non la sostanza. Per il New York Times, il filo conduttore è il disprezzo dei giovani per le urne: dagli «indignados» di Madrid, ai sit in di New York davanti a Wall Street, passando per le proteste di Atene, Londra, e le manifestazioni in India, in Israele, in Cile. In tanti angoli del pianeta scosso dalla crisi, una nuova generazione è scesa in piazza. E oltre alla rabbia contro la disoccupazione, i tagli alla spesa pubblica e i governi spesso corrotti e incapaci di reagire alle difficoltà economiche, il cemento che lega questo movimento globale è la sfiducia verso la democrazia rappresentativa. Un «cemento» che attecchisce soprattutto nei Paesi in cui le grandi organizzazioni sociali e politiche sindacati e partiti in primo luogo hanno perso o fortemente incrinato il loro radicamento popolare.
Oggi, in molte aree del mondo, si organizzano cortei, manifestazioni, non solo per contestare le leadership ma anche il processo democratico grazie al quale sono state selezionate, con la crescente convinzione che le elezioni sono inutili, non sono più un sistema adeguato a risolvere i problemi dei cittadini di fronte alla crisi economica sempre più grave. Spinte dalla mobilitazione attraverso il web, questa ondata di malcontento trascina tutto e tutti, non cerca mediazioni tradizionali con partiti e sindacati, ma punta alla partecipazione diretta, figlia proprio della cultura della rete. È il concetto centrale dell' articolo che nei giorni scorsi ha aperto a tutta pagina il New York Times, dal titolo «Proteste in tutto il mondo, cresce il disprezzo per il voto». La tesi trae spunto da una frase di Marta Solanas, una giovane spagnola di 27 anni che nei mesi scorsi ha aderito al movimento degli «Indignados». «I nostri genitori erano felici perché dopo decenni di dittatura franchista hanno potuto votare. Noi afferma siamo la prima generazione a dire che il voto non ha più alcun valore». Secondo Nicholas Kulish, l'autore dell'articolo, ovviamente a provocare questo clima di sfiducia e isolamento politico è stata la drammatica crisi finanziaria che s'è trasformata ovunque in crisi economica, indebolendo i capisaldi di qualsivoglia giustizia sociale. Con la crescita esponenziale delle diseguaglianze di reddito, in presenza di recessione e di alti tassi di disoccupazione soprattutto giovanile, è aumentata l'incertezza per il proprio futuro e la protesta contro i governi.
Un sentimento di rabbia e impotenza che ha provocato i primi scioperi e che in alcuni casi, come a Londra e ad Atene, è sfociato in vere rivolte violente. Un fenomeno che non riguarda solo l'Occidente. È interessante notare come a scendere in piazza ci sono anche i giovani indiani e israeliani, in Paesi dove c'è crescita e la crisi non ha provocato danni paragonabili all'Europa. Anche qui si sono visti cortei imponenti contro i politici, nessuno escluso, accusati di essere troppo legati a interessi particolari, e di non occuparsi di salvare la classe media. Il Nyt cita anche il caso di Anna Hazare, l'attivista indiano che dopo 12 giorni di sciopero della fame ha ottenuto che il Parlamento approvasse norme anti-corruzione. Ma anche le storiche manifestazioni dei giovani israeliani. Il Nyt cita le parole di Yonatan Levi, un giovane israeliano di 26 anni, secondo cui «il sistema politico ha abbandonato i cittadini». «C'è in tutto il mondo un sentimento di crescente delusione sintetizza amaro l'autore dell'articolo appena 20 anni dopo che il capitalismo celebrò la vittoria finale della democrazia sul comunismo e le dittature del Novecento».
Il malessere si rafforza e si coordina attraverso i più avanzati strumenti di comunicazione, ma fatica a definirsi in progetto. Il «contro» è chiaro, molto meno il «per». Ad agire come molla mobilitante è la sfiducia, persino il disprezzo verso i politici tradizionale e il processo politico democratico che rappresentano. È un malessere reale ma il suo sbocco è tutt’altro che scontato. C’è chi mette l’accento su una possibile deriva populista della protesta, e chi chiede alla politica «tradizionale» di prestare ascolto a questa generazione che si sente derubata del futuro. L’ascolto come premessa di una risposta di progetto che non può essere immiserita da una politica che si riduce al tatticismo senza respiro.

il Fatto 4.10.11
All’assalto dei “ladri” di Wall Street
Giovani, in rete, e contro il sistema capitalistico: l’America siamo noi
di Angela Vitaliano


New York. Ne arresti uno e ne spuntano due, questo sembra essere l’effetto finora ottenuto dai circa settecento fermi effettuati dalla polizia di New York nella giornata di sabato, nel tentativo di sgomberare il ponte di Brooklyn. A manifestare, marciando pacificamente, armati solo di parole poco gentili, scritte su cartelli e urlate, nei confronti di “quelli della finanza e della polizia”, erano gli ormai famosi indignados statunitensi, cioè i supporter del movimento Occupy Wall Street. “Noi siamo il 99%” si legge sul loro sito e su tutto il loro materiale di propaganda: il 99% di americani che soffre per una crisi senza fine a fronte di quell’uno per cento di “affaristi” di Wall Street che dettano regole buone solo per loro e per aumentare le proprie ricchezze. Il movimento, costituito in gran parte da giovani e giovanissimi che si ispirano, esplicitamente, alla Primavera Araba, ha cominciato a far parlare di sé da alcune settimane, anche se soprattutto via Twitter e Face-book, per aver occupato pacificamente un’area a ridosso di Wall Street, chiamata Zuccotti Park, dove i dimostranti dormono avvolti in sacchi a pelo e si danno il cambio senza mai lasciare completamente libera la zona.
La prima eco sulla stampa, tuttavia, si è avuta quando, Occupy Wall Street ha deciso di marciare nel pressi del Palazzo di Vetro, nei giorni dell’Assemblea generale, causando una reazione esacerbata della polizia, culminata nell’arresto di un’ottantina di persone. Niente in confronto alle 700 di sabato e, evidentemente, sufficienti solo per catalizzare l’attenzione di molti intorno al movimento e richiamare più supporter da ogni parte del paese.
CHRIS Longenecker, 24, responsabile per la pianificazione dei cortei, a proposito dei fatti di sabato, non esita a parlare di “provocatori” infiltrati in un movimento che è assolutamente pacifico e che non intende fermarsi fino al raggiungimento del proprio obiettivo: smantellare Wall Street o perlomeno le sue logiche. Molti degli “occupanti” non esitano a definirsi “socialisti” o “comunisti” e sottolineano con rigore che non vogliono essere “manipolati” né da democratici né da repubblicani, facce della stessa medaglia .
E se gli indignados, nella città del capitale, dove, però, non è raro vedere, come ovunque, ragazzi con indosso magliette di Che Guevara, si definiscono socialisti, i socialisti non perdono tempo a dargli tutto il loro appoggio, in maniera ufficiale. Molti infatti i gruppi socialisti, comunisti e marxisti che hanno espresso solidarietà e sostegno concreto al movimento. Il Partito socialista Usa, ad esempio, ha annunciato sul proprio sito web che “esprime totale appoggio alla mobilizzazione per occupare Wall Street a New York e in altre città e incoraggia tutte le nostre sedi locali a prendere parte attiva alle azioni”.
Il partito socialista, inoltre, auspica che il movimento contribuisca alla creazione di un “nuovo ordine sociale”. Se i Tea Party, dunque, combattono Obama con ogni arma perché “socialista”, i supporter del movimento Occupy Wall Street fanno esattamente lo stesso ma per la ragione opposta, “il presidente non è abbastanza socialista per smantellare Wall Street”. Il risultato, in periodo che si può già chiamare pre elettorale, è il rischio di una diserzione di massa dalle urne come segno della protesta civile contro il Congresso, nella sua totalità, e le logiche di Washington. A sostenere l’azione del movimento, anche Van Jones, ex consulente per l’ambiente alla Casa Bianca e fondatore, dalla scorsa estate del movimento Rebuild the dream che ha già raccolto numerosissime adesioni attraverso manifestazioni in tutto il paese. “Dopo la primavera araba – ha detto Jones – assisteremo ora all’Autunno statunitense e ottobre sarà solo l’inizio del cambiamento”.

Corriere della Sera 4.10.11
Obama e i «Tea Party» di sinistra
di Massimo Gaggi

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il Fatto 4.10.11
La protesta dell’anagrafe per fermare Netanyahu
Un gruppo di attivisti chiede di cambiare lo stato civile:
israeliano di fede ebraica per non discriminare i palestinesi
di Roberta Zunini


Tel Aviv Beve un bicchiere di vino rosso, sbocconcellando un pezzo di pane intinto nell’humus, la crema di ceci, piatto fra i più calorici della cucina israeliana e araba, mentre parla al cellulare “Ho bisogno di proteine e di qualcosa che mi rilassi”. Mancano pochi minuti a mezzanotte e Stav Shapir , una delle due leader della protesta sociale israeliana, che da tre mesi sta mandando in crisi il governo Netanyahu, consuma il suo primo pasto, se così si può definire, dopo due giorni di digiuno forzato. “Finora ho avuto solo il tempo di mangiare barrette di cioccolato. Dobbiamo scrivere la risposta alle proposte della commissione istituita dal governo”.
I RAGAZZI israeliani che si sono stufati del costante rincaro del costo della vita e della, contemporanea, erosione dello stato sociale in Israele, non accettano più di essere presi in giro dalla classe politica e vogliono risposte concrete. “Invece il solito bla bla bla, solo promesse”. Stav ha 26 anni, è laureata in filosofia, essendo alta non più di un metro e 60, non ha certo il phisique du role per opporsi ai poliziotti di Tel Aviv che ieri hanno sradicato le ultime tende dei manifestanti su Roshild avenue, una delle strade principali della città, e chiuso il palazzo abbandonato nel centro città, occupato un mese fa dal comitato degli indignati. “Ci scacciano ma noi non ci fermiamo. Dopo l'attacco terroristico a Eilat a metà agosto, il governo pensava la smettessimo di chiedere equità sociale e pari opportunità per tutti. Lo stato di emergenza continuo in cui questi ultimi governi ci hanno costretti a vivere, ci ha annichiliti per tanto tempo ma ora le cose sono e stanno cambiando perché questa non è democrazia e una farsa. Sai quanto costa affittare 50 metri di casa qui a Tel Aviv ? Dai mille euro in su, a seconda della zona”. E dopo averne visto qualcuno, non si può certo definirli appartamenti ristrutturati. “Sgarrupati” è il termine che più si avvicina alle condizioni reali in cui versano questi buchi maleodoranti.
MENTRE in alcune zone della città crescono come funghi grattacieli, che offrono ai pochi ricchi, sempre più ricchi, residenze da sogno, a costi stratosferici. Ma ieri, oltre alla protesta per la mancanza di case popolari, si è aggiunta la richiesta formale alla corte suprema, da parte dello scrittore e intellettuale ebreo israeliano, Yoram Kaniuk di cambiare il suo stato civile all'anagrafe: togliere cioè dalla sua carta d'identità la sua appartenenza religiosa: israeliano di religione ebraica. “Appoggiamo la richiesta di Kaniuk – continua Stav – perché non ci devono essere cittadini di serie A e B. Scrivere sui documenti “ebreo israeliano significa bollare di inferiorità i palestinesi che vivono e hanno la cittadinanza israeliana. La cosa più bella di questo periodo di manifestazioni è stato l'incontro con i nostri connazionali palestinesi, che soffrono ancora più di noi per il costo della vita e delle case. Loro in genere fanno i lavori più umili e meno pagati. Dopo un paio di settimane, anche nelle città a maggioranza arabo israeliana, per esempio Nazareth, Acco, Bersheva sono comparse le prime tende”. Ma siete di sinistra o centristi? “Non si tratta di essere di destra o sinistra. Intanto oggi queste categorie non hanno più alcun senso, noi protestiamo per l'erosione progressiva dei diritti civili. Per chiedere all'establishment di farci partecipare alle decisioni che ci riguardano”. Definiresti la classe politica un casta? “Sì, proprio così, una casta che privatizza i beni pubblici , che approfitta della nostra povertà, della mancanza di lavoro per speculare, per acquistare terreni demaniali e costruire case per ricchi, senza il benché minimo interesse per la condizione di indigenza in cui stanno finendo i giovani israeliani, ebrei e arabi. Il 29 di ottobre torneremo nelle piazze di tutte le città israeliane per una nuova, grande manifestazione, per strappare dalle loro mani il nostro futuro”.

La Stampa 4.10.11
L’amministrazione Obama spinge per la ripresa dei negoziati con i palestinesi: ci sono troppi punti di frizione, bisogna dialogare
Panetta: Israele sempre più isolato
Il capo del Pentagono a Netanyahu: non basta la superiorità militare nella regione
di Paolo Mastrolilli


«È chiaro che in questo momento drammatico per il Medio Oriente, dove sono avvenuti così tanti cambiamenti, non è bene per Israele diventare sempre più isolato. Basta mantenere un vantaggio militare, se ti isoli nell’arena diplomatica?». Colpisce la franchezza di queste parole, pronunciate ieri dal segretario alla Difesa americano Leon Panetta all’inizio della sua visita in Israele. Il capo del Pentagono, che dopo aver visto il collega Ehud Barak, Netanyahu e Abu Mazen, andrà anche al Cairo, ha poi scoraggiato lo Stato ebraico dall’idea di attaccare il programma nucleare di Teheran: «La maniera più efficace di affrontare l’Iran non è su base unilaterale». Quindi ha sollecitato israeliani e palestinesi ad accogliere la proposta del Quartetto per la trattativa: «Ci sono troppi punti di frizione ora. La cosa più importante per Israele e i suoi vicini sarebbe sviluppare relazioni migliori, in modo da poter almeno comunicare, invece di portare le questioni in strada. Il mio messaggio ad entrambe le parti è che non perdono nulla col negoziato».
La visita del segretario alla Difesa, la prima di un membro del governo Usa dopo molti mesi, arriva in un momento delicato. Il 23 settembre il leader palestinese Abu Mazen ha chiesto all’Onu di ammettere l’Anp come uno Stato. Allora il Quartetto (Usa, Ue, Onu e Russia) ha sollecitato le parti a riprendere i negoziati nel giro di un mese. Gli israeliani hanno risposto positivamente, a patto che non ci siano precondizioni, mentre i palestinesi chiedono il congelamento degli insediamenti. Il 27 settembre lo Stato ebraico ha approvato la costruzione di 1100 nuove abitazioni a Gilo, quartiere di Gerusalemme Est. A queste tensioni si è aggiunto ieri l’incendio di una moschea a Tuba Zangria, in Galilea, del quale è accusato un gruppo di coloni estremisti. Il portavoce dell’Onu Martin Nesirsky ha detto che «la richiesta palestinese è nelle mani del Consiglio di Sicurezza», che aspetta in settimana la riunione di un comitato di esperti per discuterla. Nesirsky ha commentato le parole di Panetta spiegando che «la dichiarazione del Quartetto è molto chiara sulla strada da seguire». La logica vorrebbe che l’amministrazione Obama, in vista delle presidenziali, evitasse pressioni su Israele per non irritare l’elettorato ebraico. Ma allora come si spiega l’uscita di Panetta? «Sono parole inusuali - commenta dal Council on Foreign Relations Robert Danin, già capo dell’ufficio di Tony Blair a Gerusalemme - perché danno l’impressione che Washington voglia scavalcare i leader e rivolgersi direttamente alla popolazione. Lo scopo è creare un senso di urgenza per la ripresa dei negoziati, che è avvertito più dalla comunità internazionale che dagli israeliani». Daniel Serwer della Johns Hopkins University dice che «Obama ha problemi con l’elettorato cristiano, schierato con la destra della destra israeliana, non con quello ebraico. Queste comunque sono piccole pressioni per favorire il negoziato, alla luce soprattutto della pericolosa svolta turca. Non so, però, quanto gli israeliani si preoccupino dell’isolamento». Secondo Edward Luttwak, «Panetta è venuto a parlare come amico e capo del Pentagono. Le tensioni con Ankara per la vicenda della nave Mavi Marmara, e l’assalto all’ambasciata israeliana in Egitto, sono minacce molto preoccupanti per gli Usa, perché rischiano di far cadere due pilastri della politica di sicurezza in Medio Oriente. Dunque Panetta parla dal punto di vista strategico, per dire ad Israele due cose: questo non è il momento di fare provocazioni con gli insediamenti, ma di negoziare, per la sua stessa salvezza».

Corriere della Sera 4.10.11
Se lo sguardo cambia la memoria si disorienta
di Edoardo Boncinelli

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Repubblica 4.10.11
Due saggi di Perconti e Desideri riflettono su esperienze soggettive ed estetiche
Perché la coscienza non è solo interiore
Già nel secolo scorso filosofi e psicologi hanno sostenuto che per individuare la natura di questa facoltà occorre guardare soprattutto alla realtà esterna
di Maurizio Ferraris


In inglese, ci racconta Schopenhauer, era solito dire «non sono abbastanza ricco da permettermi una coscienza», questa entità nobile e interiore. Ma è davvero così? Se leggiamo Coscienza di Pietro Perconti (il Mulino, pagg. 216, euro 13,50) vediamo quanto sia potentemente determinata da due esteriorità.
La prima è il corpo. Cosa ci succederebbe se di colpo ci trovassimo con una faccia diversa? Impressionante. E questo sottilmente verrebbe a toccare la nostra coscienza. Per la coscienza è essenziale quello che gli studiosi contemporanei chiamano "embodiment", "incorporazione", ma se traducessimo, come è anche del tutto legittimo, con "incarnazione", ci renderemmo conto di quanto antica sia questa intuizione. Perciò nel secolo scorso filosofi e psicologi comportamentisti hanno risolutamente sostenuto che non si tratta di scavare nell´interno, ma di guardare all´esterno, sino a dare argomenti per una famosa barzelletta da professori. Quella dei due comportamentisti che fanno l´amore e poi lui dice a lei: «A te è piaciuto moltissimo. E a me?». Sono esagerazioni, ma rappresentarsi la coscienza come qualcosa di puramente interiore è insufficiente, per quanto possa apparirci naturale. Perché ci appare altrettanto naturale cercare la coscienza nei volti degli altri, o persino (è un tema a cui Perconti dedica una lunga analisi), nello specchio, un po´ come la regina di Biancaneve. Quando – succede anche questo – ci guardiamo nello specchio dell´ascensore per cercare di capire il nostro umore, non ci comportiamo molto diversamente dai comportamentisti della barzelletta.
Quanto poco sia vero che la nostra coscienza si riduca all´interiorità lo si capisce ancor meglio se si guarda all´esperienza estetica, d´accordo con uno dei fili conduttori di un altro libro uscito di recente, La percezione riflessa (Raffaello Cortina, pagg. 230, euro 23) di Fabrizio Desideri, che getta un ponte tra estetica e filosofia della mente. Che cosa avviene quando troviamo bella una cosa o un paesaggio? Sarebbe sbagliato credere che la bellezza la mettiamo tutta noi, con la nostra coscienza o sensibilità, sarebbe troppo facile. Sicuramente l´apprezzamento viene da noi, non esiste bellezza degli oggetti se non per soggetti che li riconoscono. Però, al tempo stesso, fa parte dell´apprezzamento l´assumere che il bello, una qualità emotiva molto elevata, ha luogo lì fuori, nell´oggetto. Ora, come sottolinea Desideri, qui si crea una strana inversione di ruoli. L´oggetto diventa un quasi-soggetto, sembra rivolgersi a noi come se fosse una persona (Kant notava che in certi giorni sembra che il mondo ci rivolga un sorriso, osservazione giustissima anche se in certi altri giorni sembra invece che ce l´abbia con noi). Il soggetto, invece, diventa un quasi-oggetto, giacché è passivo rispetto all´oggetto, che gli si impone come bello, o brutto, indipendentemente dalla sua volontà.
Con esperienze di questo genere – che non si riducono al bello, si pensi alla fitta di quando si vede la multa sotto il tergicristallo – entriamo in una seconda esteriorità rispetto alla pretesa interiorità della nostra coscienza, ossia nel mondo, naturale e sociale, ciò che gli studiosi contemporanei chiamano "embedment", e che Heidegger, con un altro gergo, chiamava "Dasein", "essere nel mondo". La nostra interiorità si nutre costantemente dell´esterno, e non potrebbe esistere senza di esso. Così non l´interiorità, ma la materia e la memoria, quello che ci imparenta agli archivi e ai computer, è la condizione imprescindibile per la coscienza. Banalmente, proprio come ci sono delle operazioni intellettuali che sono inattuabili senza supporti esterni, per esempio calcoli complicati che richiedono carta e penna, o pallottolieri, cosi anche funzioni elevatissime come la responsabilità e la decisione morale non potrebbero aver luogo senza memoria. Come si può essere responsabili senza avere a che fare con le vestigia delle nostre azioni? E il fatto che nella nostra vita morale la rimozione (ossia una specie di oblio guidato e artificiale) giochi un ruolo così centrale ci spiega che il fondo della nostra anima è fatto di qualcosa che sta fuori, nel mondo, tanto quanto sta dentro, nella mente, ossia di memoria.

il Riformista 4.10.11
Limiti ed emozioni della mente umana
Intervista. Autore dell’intervento che avrà luogo domenica alla nona edizione di Ber- gamoScienza, il professore della UCL Benedetto De Martino spiega il significato e le impli- cazioni della neuroeconomia. Una nuova disciplina che unisce l’economia con la psico- logia e le neuroscienze. E che evidenzia come la scelta dell’individuo sia condizionata anche da fattori che esulano dalla sfera razionale. Come il “framing effect” e la “loss avversion”
di Corrado Ocone

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http://www.scribd.com/doc/67411031

Repubblica 4.10.11
"Vi spiego come la fisica convive con la mia fede"
Lo studioso inglese, premio Templeton nel 2006, spiega il suo rapporto con la religione: "La scienza ha un lato spirituale"
"Chi si concentra sulle leggi della natura è abituato a trattare con gli aspetti non percepibili della realtà"
"Ho incontrato il Papa e sono stato al meeting di Rimini che è come parlare in uno stadio dei mondiali di calcio"
di Piergiorgio Odifreddi


Tutti conoscono il premio Nobel, che ogni anno viene assegnato a Stoccolma per la letteratura, la fisica, la chimica, la medicina e l´economia, e a Oslo per la pace. Ma pochi conoscono il premio Templeton, che sempre ogni anno viene assegnato a Londra per "eccezionali contributi all´affermazione della dimensione spirituale della vita".
Il premio prende il nome dal miliardario Sir John Templeton, che l´ha istituito nel 1973 e ha deciso che l´assegno che lo accompagna fosse per statuto più alto di quello del premio Nobel: in particolare, oggi, un milione di sterline.
Benché spesso si indichi il premio Templeton in maniera sbrigativa, come un premio per la religione, in realtà la spiritualità è un´altra cosa. Einstein pensava che oggi gli unici esseri veramente spirituali fossero gli scienziati, e negli ultimi vent´anni il premio ha spesso confermato la sua intuizione.
In particolare, nel 2006 l´ha vinto John Barrow, noto fisico e popolare divulgatore. L´abbiamo incontrato a Roma per parlare appunto dei rapporti fra scienza, religione e premio Templeton.
Mi permetta, anzitutto, di chiederle che religione lei professa.
«Appartengo a quella che in Inghilterra si chiama Chiesa Riformata Unita e che nacque una quarantina d´anni fa dall´unione della Chiesa Presbiteriana con la Chiesa Congregazionale. Storicamente, si tratta della tradizione protestante non anglicana».
Non che io possa ambirci, ma come si vince il premio Templeton?
«Anzitutto, bisogna essere nominati: lo scorso anno lo furono in quattrocento. Poi ci sono delle sottocommissioni, che analizzano i lavori dei nominati appartenenti a una stessa area. C´è infine una giuria, che riceve una cinquantina di dossier e decide».
Sembra simile al meccanismo del premio Nobel.
«In realtà, è proprio lo stesso. Sir John Templeton aveva curato gli investimenti finanziari della Fondazione Nobel, e da quell´esperienza gli venne l´idea di istituire un premio il cui valore superasse il loro».
Come mai è il Duca di Edimburgo a consegnare il premio, e non la Regina?
«Glielo chiesero, ma essendo il capo della Chiesa d´Inghilterra, lei non lo ritenne appropriato. Templeton lo chiese allora al Duca, che era un suo amico. Agli inizi lui era scettico, ma accettò quando gli dissero che la prima premiata sarebbe stata Madre Teresa. Si racconta che dopo la premiazione le sue suore la circondarono festanti, chiedendole di vedere l´assegno, e lei si accorse di averlo dimenticato nella sala della cerimonia».
Cioè, dove?
«A Buckingham Palace. Dove tra l´altro sono tornato qualche settimana fa, per la consegna del premio all´astronomo Martin Rees».
A proposito di Rees, alcuni scienziati l´hanno duramente criticato per la sua accettazione del premio.
«Non mi sembra che ci siano motivi per queste critiche: neppure per i finanziamenti della Fondazione, che vengono assegnati sulla base di domande ufficiali, per progetti o congressi. In matematica, ad esempio, c´è un particolare interesse per i fondamenti: per questo hanno finanziato il meeting su Gödel a Vienna del 2006, al quale abbiamo partecipato sia io che lei. Non ci vedo niente di male».
Si accusa però la Fondazione Templeton di essere un cavallo di Troia della religione nella scienza.
«In realtà, lo statuto della Fondazione proibisce il supporto a qualsiasi religione. John Templeton non era affatto un fondamentalista religioso, nonostante ciò che molti pensano. Non aveva nessun interesse per le organizzazioni e le pratiche religiose, che accusava di istigare le differenze tra la gente. E nemmeno per la teologia e la storia. Si interessava invece alle grandi domande della scienza, quali la natura e l´origine dell´universo o della vita».
Applicazioni, dunque, più che teoria.
«Esattamente. Ad esempio, in matematica gli interessavano aree come la teoria dei giochi, per comprendere aspetti quali il comportamento umano in generale, e l´altruismo in particolare».
Non si può però dire lo stesso della Chiesa cattolica, che è ovviamente un´organizzazione confessionale. E lei non ha incontrato solo la Regina e il Duca, ma anche il Papa.
«Tre volte, credo. Ma mentre Hawking è un membro della Pontificia Accademia delle Scienze, io non lo sono».
Però ha partecipato al progetto Stoq su "scienza, teologia e questione ontologica", organizzato dal cardinal Ravasi.
«È un nuovo progetto, di cui onestamente non so molto. Io ho fatto solo una conferenza sulla cosmologia. Credo che mi abbiano invitato tramite Gennaro Auletta, un prete della Gregoriana che ha scritto un grosso libro di meccanica quantistica con Giorgio Parisi».
Non l´hanno ancora invitata al cosiddetto Cortile dei Gentili, organizzato sempre dal cardinal Ravasi, che vorrebbe far incontrare i credenti con i non credenti meno scomodi, o più accomodanti?
«No, non ne ho mai sentito parlare. Ma sono stato al meeting di Rimini, che è più o meno come andare a parlare in uno stadio dei Campionati Mondiali di Calcio. Lì mi avevano fatto invitare Elio Sindoni e Giulio Giorello, che organizzarono anche una specie di mostra interattiva sulla storia della scienza».
Come si sente, a bazzicare con tutta questa gente: Templeton, il Papa, Ravasi, Comunione e Liberazione... ? Lei sa che in Italia la tirano per la giacchetta, cercando di farla passare per uno "scienziato collaborazionista"?
«Sono cose molto occasionali. In genere non accetto spesso inviti di questo genere, e nemmeno a conferenze divulgative. Altrimenti, non farei nient´altro. Spesso i divulgatori abbandonano la ricerca, ma io continuo a scrivere una decina di articoli tecnici all´anno: è quello il mio vero lavoro».
E che relazione c´è fra il suo lavoro scientifico e la sua pratica religiosa?
«Io penso che, quando si parla di scienza e religione, le relazioni siano diverse a seconda di quale scienza e di quali scienziati si considerino. È molto diverso parlare di biologia e di biologi, oppure di fisica e di fisici».
Infatti la minima percentuale di scienziati credenti la si trova proprio tra i biologi: solo il quattro per cento, nel mondo!
«I fisici e gli astronomi si concentrano sulle leggi della natura, e sono abituati a trattare con aspetti non percepibili della realtà. Sono impressionati dalla logica e dalla precisione matematica dell´universo, e diventano facilmente pitagorici o platonici. I biologi, invece, non si interessano delle leggi della natura di per sé, ma solo dei loro effetti. Per questo i fisici e i cosmologi sono molto più aperti nei confronti di problematiche che hanno a che vedere col significato recondito delle cose».
A dire il vero, molti fisici guardano con sospetto alle stringhe o alla teoria del tutto.
«È vero, vedono nel desiderio di arrivare a un´unica teoria unificata una motivazione di tipo metafisico, o addirittura religioso. Ma la domanda interessante da fare è se coloro che lavorano in un certo campo tendono a sviluppare certe idee, o se invece abbiano scelto di lavorare in quel campo coloro che erano propensi ad avere certe idee. Forse le differenze religiose tra Dawkins e me si riducono al semplice fatto che lui è un biologo, e io sono un cosmologo».

Repubblica 4.10.11
La lettera inedita che costò l´insegnamento all´intellettuale torinese
Quando Ginzburg rifiutò il giuramento fascista


TORINO. Il 9 gennaio del 1934 avrebbe dovuto giurare fedeltà al regime fascista, come stabilito dal Testo unico delle leggi sull´Istruzione superiore. Una sottomissione che nel ´31, al momento dell´introduzione di quella clausola, soltanto pochissimi docenti avevano osato rifiutare. Ma anche Leone Ginzburg, professore non ancora venticinquenne di letteratura russa all´Università di Torino, non si piegò. L´8 gennaio s´era seduto alla scrivania e aveva scritto una lettera a Ferdinando Neri, francesista illustre e preside della facoltà di Lettere e Filosofia, per informarlo che non avrebbe mai giurato. «Desidero», gli disse, «che al mio disinteressato insegnamento non siano poste condizioni, se non tecniche o scientifiche. Non intendo perciò prestare il giuramento». Come spiega Paola Novaria, responsabile dell´Archivio storico dell´ateneo torinese, la lettera autografa di Ginzburg è stata rinvenuta di recente e sarà esposta venerdì nell´aula magna del Rettorato. Avviene nell´ambito di un convegno e di una mostra, con l´esposizione di altri documenti universitari, che ricordano Natalia Ginzburg, la moglie di Leone, a vent´anni dalla morte.
Di fronte al rifiuto di Leone, che nel frattempo con Giulio Einaudi aveva fondato la casa editrice dello Struzzo, Ferdinando Neri non fece altro che agire di conseguenza. Quel 9 gennaio, il "XII" dell´era fascista, mandò a sua volta una nota al rettore (anche questa lettera viene esposta). Gli scrisse che, in attesa delle sanzioni che sarebbero state prese nei confronti del «libero docente di Lingua e Letteratura russa», lui aveva già provveduto a «sospendere il suo corso libero e qualsiasi attività presso la Facoltà». Poche settimane dopo Ginzburg veniva arrestato insieme ad altri militanti di Giustizia e Libertà, e condannato a due anni di prigione. In un´altra cella, a Roma, nel carcere di Regina Coeli, sarebbe morto nel febbraio del 1944. S´era rifiutato di collaborare con i tedeschi, così come non aveva collaborato da professore con l´università asservita alla dittatura di Mussolini

lunedì 3 ottobre 2011

l’Unità 3.10.11
Susanna Camusso intervistata al Festival di Internazionale: giovani lasciati senza difese
«Precari, abbiamo sbagliato tutti, è ora di dare loro un contratto»
La segreteria generale della Cgil non si sottrae alel domande sui precari al Festival di Internazionale a Ferrara. E ammette: abbiamo sbagliato fermandoci solo a combattere la legge 30, senza fare altro
di Giulia Gentile


«È chiaro che abbiamo sbagliato qualcosa, se gran parte del lavoro oggi è precario. Per anni l'obiettivo del sindacato è stato abolire la legge 30 del 2003. Invece, forse, avremmo dovuto pensare a contrattualizzare chi aveva una forma di lavoro flessibile. Abbiamo pensato: risponderemo loro quando cancelleremo la legge. Ma intanto il tempo è passato, i precari sono aumentati, e non si è fatto che dare risposta ai soliti». Fa autocritica sulle politiche messe in campo dai sindacati per tutelare gli «atipici». E ammette che, se il futuro delle donne nel nostro Paese deve passare attraverso un «rigoroso cambio di linguaggio», il numero uno del sindacato italiano più «pesante», la Cgil, può essere chiamato «segretaria generale». Davanti ad una platea di almeno duemila persone che alle due di pomeriggio sfidano un sole quasi agostano, Susanna Camusso, invitata a Ferrara per l'ultima giornata del festival di Internazionale, risponde alle domande dei corrispondenti di Libération, El Mundo e Tageszeitung sulla «generazione mille euro» che in Italia raggiunge vette pari a due milioni e mezzo di (ormai ex) giovani.
Sul maxischermo montato sul palco di piazza Municipio scorrono i volti di ragazzi intervistati nei giorni del festival, che ragionano sulla propria condizione di lavoro. E quando viene chiesto loro cosa direbbero alla segretaria generale della Cgil, rispondono: «Anche gli atipici devono rientrare nella contrattazione». Mentre una ricercatrice trentanovenne sorride alla telecamera e chiede: «Noi donne dobbiamo cambiare sesso?». A trasformare l'Italia in un Paese da dove i cervelli fuggono, e che Eric Jozsef di Libération definisce «quello con il tasso di precarizzazione più alto d'Europa», per Camusso ha contribuito un «atteggiamento culturale nei confronti di istruzione e scuola che ha trovato il suo esecutore materiale nella ministra Maria Stella Gelmini».
Ma se siamo arrivati ad un mercato fatto di «quarantasei tipi diversi di rapporti di lavoro, che significa non avere di fatto un rapporto di lavoro ma un menù alla carta», le responsabilità vanno rintracciate anche negli «errori di politica e sindacati». «Abbiamo pensato che quello dei contratti a termine, e dei co.co. co. fosse un fenomeno marginale e facilmente riassorbibile ragiona la segretaria -. Invece, purtroppo, questa è diventata la condizione di vita prevalente per un'intera generazione». Che fare allora per rispondere ai tanti sms inviati dal pubblico ad un numero ad hoc, che chiedono a Susanna Camusso di potersi lasciare alle spalle anni di precarietà? «A 35 anni ho messo da parte l'idea di fare un figlio scrive, ad esempio, una ragazza -: posso sperare che almeno il mio fratello minore vivrà in una situazione migliore?». Mentre un altro messaggio propone «un salario orario minimo, per evitare di lavorare tutto il giorno tutti i giorni per 600 euro al mese». Il «salario minimo garantito non risolve il problema ragiona Camusso -: perché le norme per il riconoscimento e la retribuzione delle mansioni ci sono». Ma vengono sistematicamente bypassate. Occorre, allora, «cambiare le leggi». E, contemporaneamente, «lavorare alla contrattualizzazione dei precari, rendere i precari visibili. E lottare perché non si assottigli ancora la loro possibilità di difendersi».
«MANIFESTO» E DINTORNI
Susanna Camusso sull’oggi vede cose buone e cose meno buone. Non risparmia una stoccata al governo Berlusconi («manca l'interlocutore con cui fare un “patto sociale”. E questo, di interlocutore, prima se ne va e meglio è»). Sul «Manifesto» delle imprese guarda la parte del bicchiere mezzo pieno: «Occorre distinguere il valore simbolico dei gesti, che sono coerenti con il messaggio di discontinuità che in questi giorni viene da tutti i soggetti sociali, dai contenuti». Nel merito comunque la Confindustria «non è sufficientemente coraggiosa sul tema dell'imposta patrimoniale», e propone soluzioni alla crisi «ancora troppo permeate da una logica» che in realtà la crisi se l'è portata con sé. A partire dall'idea di una «costante riduzione del perimetro dello Stato a scapito dei servizi» e dalla perenne richiesta di «innalzamento dell'età pensionabile, quando poi negli ultimi anni le imprese non hanno fatto che sollecitare incentivi al pensionamento».
Infine, Della Valle. Per Camusso «parte dal presupposto sbagliato che tutti i politici siano uguali, e che tutta la responsabilità della situazione sia della politica». «Invece aggiunge anche la classe dirigente di questo Paese ha le sue responsabilità, come nel caso della finanziarizzazione dell'industria». «La logica dell' antipolitica è preoccupante, perché rappresenta un terribile viatico all' avventura autoritaria», conclude la segreteria Cgil.

l’Unità 3.10.11
Una generazione abbandonata. Le vera priorità è recuperarla
Stupisce il ministro Sacconi che davanti ai dati Istat mostra ottimismo. Il centrodestra ha prodotto danni gravissimi Sindacato e centrosinistra devono rimontare il tempo perduto
di Bruno Ugolini


C’è qualcosa di stupefacente nelle parole (e nelle mancate scelte) del governo in carica. Mentre l’Italia rischia di precipitare nella bancarotta ci si ostina a non dire la verità al Paese, a diffondere ventate di ottimismo rassicurante. È successo nelle ultime ore quando il ministro del welfare, Maurizio Sacconi, commentava, come un’importante notizia positiva, gli ultimi dati forniti dall’Istat sull’andamento dell’occupazione. C’è da rimanere trasecolati visto che quelle cifre gridavano, ad esempio, di una crescente emergenza precari. Il tasso di disoccupazione giovanile, secondo i dati in questo caso avvalorati dall’Eurostat, è tornato ad aumentare passando dal 27,5% al 27,6%. Lo stesso lieve aumento del numero dei lavoratori occupati che tanto esaltava il ministro (uno 0,8% pari a 191 mila unità dall’agosto 2010) era dovuto al fatto che la stragrande maggioranza dei nuovi ingressi nel mondo del lavoro era data da 106 mila nuovi rapporti precari. Il posto fisso e una certa sicurezza di poter godere di diritti e tutele, sono diventati una chimera. Il centrodestra emana decreti per distruggere lo Statuto dei lavoratori (l’articolo 8 appena emanato ) mentre alimenta la possibilità di reclutare con circa 40 possibili modi diversi, a basso prezzo e senza alcun Statuto, centinaia di migliaia di giovani (sei milioni e mezzo secondo lo studioso Luciano Gallino).
C’è in questa fotografia che racconta di una generazione lasciata allo sbando, un particolare ancora più inquietante che riguarda il mezzogiorno d’Italia. Qui il tasso di inattività dei giovani dai 15 ai 24 anni sale infatti dal 71,6% del terzo trimestre del 2010 al 73,8 per cento. Mentre lo Svimez considera l’industria meridionale a rischio di estinzione. Nelle aziende manifatturiere del Sud si concentra il 60% delle perdite di lavoro determinate dalla crisi. Dei 533mila posti di lavoro persi in Italia tra il 2008 e il 2010, ben 281mila sono nel Mezzogiorno. E così riprende la fuga, quella conosciuta in altre epoche: negli ultimi dieci anni (2000-2009) dal Sud sono emigrati 600 mila lavoratori. E lo Svimez prevede che nei prossimi vent'anni, quasi un giovane su quattro lascerà quei territori.
Ecco perché lascia sbalorditi la cantilena facilona del governo. Sarebbe necessario correre ai ripari, dare davvero prime risposte alle richieste per misure atte a favorire una ripresa produttiva, ad arrestare il ricorso al precariato. Cioè a forme di lavoro che non aiutano lo sviluppo, frantumano la coesione sociale, producono disperazioni e ribellismi prima o poi destinati a scoppiare.
I sindacati attorno al tema dell’emergenza precari hanno fatto poco. Un po’ per la difficoltà nel rintracciare, organizzare, rappresentare donne e uomini che spesso lavorano in solitudine e spesso non cercano un rapporto con le organizzazioni presenti nel mondo del lavoro. Un po’ perché si è presi dai problemi quotidiani che coinvolgono moltitudini di presunti «posti fissi». La stessa Cgil ha faticato e fatica a organizzare iniziative pur lodevoli come quelle dei «giovani non più disposti a tutto». Ha pesato nel cuore del sindacato, come ha rammentato ieri la stessa Susanna Camusso, una linea tesa a inseguire un’ipotesi di abolizione immediata della legge 30 (quella che ha moltiplicato le forme contrattuali) voluta dal centrodestra. Sono stati disdegnati obiettivi anche parziali ma inseriti in un disegno di stabilità , come aveva cercato di costruire il governo Prodi, soprattutto attraverso l’operato del ministro del Lavoro Damiano.
Ora l’importante è riprendere l’impegno ponendo al centro delle manifestazioni e delle iniziative che si annunciano non solo la condizione di chi ha un lavoro ma che rischia di vederlo scomparire oppure di chi vede minacciati i propri diritti. Occorre mettere in primo piano anche la condizione ancor più drammatica del popolo dei precari, quella che abbiamo visto ieri sera così drammaticamente rappresentata nella trasmissione «Presa Diretta» a cura di Riccardo IaconasuRai3.
È una lotta che negli ultimi tempi ha acquisito crescenti consensi. È possibile citare le parole (purtroppo non inserite nella famosa lettera segreta della Bce) di Mario Draghi. Aveva sostenuto il Governatore della Banca d’Italia che senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, «si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità».
Così come sarebbe necessario rievocare il messaggio spedito di recente ad Ancona da Papa Benedetto XVI, allorché incitava a superare «l'incertezza del precariato e il problema della disoccupazione». Con l’avvertenza della necessità di un nuovo modello di sviluppo capace di porre al centro l'uomo, soprattutto chi ha meno, chi è disagiato. Sono prese di posizioni, appelli, inviti che dovrebbero far riflettere. Anche il popolo dei precari rischia di essere attratto dalle sirene dell’antipolitica. E non ha i mezzi necessari per comprare intere pagine di giornali onde far sentire la propria voce, le proprie proposte.

l’Unità 3.10.11
Il premio di maggioranza è pericoloso
I sistemi democratici non sono compatibili con premi che scattano senza limiti
di Massimo Luciani


Abbiamo vitale bisogno di una nuova legge elettorale. E non solo per l’incalzare dell’iniziativa referendaria: il Capo dello Stato ha interpretato e messo in luce le esigenze della Nazione della cui unità è rappresentante pronunciando parole chiarissime, che debbono essere ascoltate. Su quale sia il sistema migliore la discussione è aperta ed è agevole prevedere che non sarà semplice concluderla con un ampio accordo, perché gli interessi delle varie forze politiche non sono coincidenti e perché le variabili sono così complesse che non tutti le hanno colte e non tutti hanno compreso neppure quale davvero sia il loro interesse.
Il Paese però, oggettivamente, almeno un interesse comune a tutti lo ha ed è l’eliminazione del premio di maggioranza previsto dal sistema vigente, che ha creato guasti indicibili e ne causerà di peggiori se andremo a votare un’altra volta con le vecchie regole. E bene che non ci
siano equivoci: il premio di maggioranza, in sé, non è un istituto in contrasto con le esigenze di una competizione democratica libera ed efficace. Un modesto premio, nell’ordine di pochissimi punti percentuali, potrebbe anche servire a conciliare la corretta rappresentanza delle opinioni dei cittadini e la chiarezza delle alternative di governo. Tutti i sistemi elettorali, quando trasformano i voti in seggi, alterano in qualche misura i rapporti di forza fra i competitori politici. Ma c’è un limite di tollerabilità alla distorsione, superato il quale non si può più parlare di una competizione autenticamente democratica.
Ora, il nostro sistema elettorale prevede un premio senza limiti: chi vince, anche di pochissimo, anche con una percentuale di voti relativamente modesta, incamera il premio e passa abbondantementela soglia del 50% dei seggi in palio. Se la futura competizione elettorale fosse tripolare, se cioè si presentasse oltre a quelli che hanno dominato la scena della Legislatura in corso, un terzo polo, potremmo vedere il premio assegnato ad un vincitore con poco più del trenta per cento dei voti. Nessun sistema elettorale democratico può permettersi di funzionare in questo modo, se vuole restare democratico.
A prescindere da questo scenario futuribile, comunque, il premio ha già dimostrato, in questa legislatura, di poter determinare conseguenze inaccettabili. Anche al premio, infatti, si deve l’esaltazione della personalizzazione della competizione elettorale e della leadership del governo. La spiegano ovviamente anche molti altri fattori, che si conoscono bene, ma il premio ne ha moltiplicato gli effetti.
Di fronte ai guasti già prodotti e a quelli da temere le forze politiche dovrebbero impegnarsi ha trovare rapidamente una piattaforma d’intesa sul nuovo sistema elettorale. Si tratterà di una questione complessa e delicata ma varrebbe la pena di impegnarsi sin d’ora a fare almeno una cosa: a cancellare le norme sul premio o, tutt’al più, a prevedere il mantenimento di un premio limitatissimo, da far scattare solo se il vincitore sfiorasse la maggioranza assoluta dei seggi (poniamo: più del 45-46%).
Questo dovrebbe essere il denominatore comune a qualunque iniziativa di riforma e dovrebbe essere un passo da compiere comunque. Solo così il nostro sistema elettorale potrebbe dare meno scandalo nel panorama delle forme di governo delle democrazie mature.

l’Unità 3.10.11
Il segretario del Pd risponde a Vendola sulle primarie: «Prima viene lo spartito, poi il suonatore»
Su Della Valle: «Sbagliato mettere tutti nel mucchio. Abbiamo visto dove portano le scorciatoie»
Il messaggio di Bersani «Pensiamo all’Italia non alle candidature»
Bersani riunisce oggi la Direzione del Pd. A chi scalpita per la scelta del candidato premier dice: «Prima viene lo spartito, poi il suonatore». E riferendosi a Della Valle: «Abbiamo già visto dove portano le scorciatoie».
di Simone Collini


È convinto che questo governo non arrivi al 2013, e se anche ribadisce che il Pd è disponibile a un esecutivo guidato da una figura autorevole e che realizzi le riforme necessarie al Paese, intanto lavora per non far trovare impreparato il suo partito di fronte all’ipotesi di un voto anticipato, nella primavera del 2012. Così aprendo la Direzione del Pd, stamattina, Pier Luigi Bersani chiederà ai suoi di impegnarsi sul programma da presentare agli italiani, sulle proposte per far uscire il Paese dalla crisi politica ed economica, lasciando invece da parte discussioni che al momento sarebbero fuori luogo.
Non all’ordine del giorno, per Bersani, è un congresso anticipato ma anche un confronto ora per la scelta del candidato premier. Non solo perché «dobbiamo prima occuparci di questo oggettino che si chiama Italia», risponde a “Che tempo che fa” a Fabio Fazio, che fa esplicitamente il nome del sindaco “rottamatore” Matteo Renzi. Ma anche perché non si può scegliere, e qui il messaggio è a Nichi Vendola e alla sua richiesta di primarie immediate, «un suonatore senza avere uno spartito». Bersani ha pianificato una road map che prevede un programma di formazione per duemila ragazzi del sud, una manifestazione nazionale il 5 novembre a Roma, una conferenza sul partito e una convention programmatica, il 2 dicembre, in cui saranno presentate le proposte su cui il Pd imposterà la propria campagna di primavera. «Abbiamo cose da fare, facciamole. Sono l’unico segretario di partito politico al mondo che sia stato eletto con le primarie rivendica quindi io mi trovo perfettamente a mio agio, non ho niente contro le primarie e io sono assolutamente a disposizione, ma dobbiamo arrivarci con delle proposte perché abbiamo una responsabilità verso l’Italia».
La minoranza eviterà di rilanciare in Direzione la proposta di svolgere primarie di partito prima della scadenza naturale della segreteria. L’avevano fatto nei giorni scorsi tre veltroniani doc come Stefano Ceccanti, Salvatore Vassallo e Giorgio Tonini. Ma è lo stesso Tonini, alla vigilia dell’appuntamento, a dire che in questo momento bisogna concentrarsi su come uscire da questa fase di crisi economica e politica e che altre questioni andranno affrontate al momento debito. Gli esponenti di Movimento democratico insisteranno invece sulla necessità di dar vita a un governo di transizione e sui rischi che si correrebbero con un voto anticipato. Ma soprattutto, come dice sempre il senatore Pd, serve un chiarimento su quale sia la linea del Pd, visto che su “l’Unità” il vicesegretario Enrico Letta e il responsabile Economia Stefano Fassina hanno fornito due diverse analisi della lettera della Bce e di come affrontare la crisi economica.
La delicata fase politica suggerisce però a tutti di evitare spaccature. Non solo c’è un premier che danneggia il Paese e non vuole farsi da parte, ci sono anche spinte di antipolitica che fanno di tutta l’erba un fascio. Le posizioni espresse da Diego Della Valle, per Bersani, sono sì condivise «da milioni di persone che non hanno i soldi per pagarsi le pagine dei giornali», ma la «critica radicale» pure «giusta» deve essere fatta «nel nome della buona politica». Perché altrimenti, sottolinea il leader Pd, se passa la linea del «tutti uguali, tutti nel mucchio, scarpe e ciabatte», si ripeterebbe una storia già vissuta da quindici anni a questa parte, «con una scorciatoia» che si è visto dove porta.
Anche sul referendum elettorale le polemiche alimentate in queste ore da Arturo Parisi, («adesso c’è una scomposta gara a chi se ne attribuisce il merito») non dovrebbero entrare nella Direzione, e in ogni caso Bersani rivendicherà che è stata una scelta giusta «non metterci il cappello ma i banchetti», sostenuto in questo anche da Rosy Bindi, che domanda a chi polemizza: «Come pensate che si sarebbero potute raccogliere un milione e duecentomila firme in un mese, d’estate, se non ci fossero stati i banchetti alle feste del Pd?». Rimane il nodo alleanze. Ma anche in questo caso Bersani mantiene ferma la barra: Nuovo ulivo (e a chi gli rimprovera di essere andato a Vasto risponde «io vado ovunque e dico la mia, non può passare l’idea che ho un pregiudizio») e poi lavorare per «far incontrare forze progressiste e forze moderate».

Corriere della Sera 3.10.11
Democratici spaccati in tre sul piano di Confindustria
Gelo dell'Idv, mentre la sinistra di Vendola dice no
di Maria Teresa Meli


ROMA — E ora? Ora che il centrosinistra potrebbe essere chiamato a governare, quello schieramento sembra presentarsi all'appuntamento come un'orchestra in cui ognuno va per conto suo, con il proprio strumento: non c'è nessun accordo tra i suoni, prevalgono dissonanze e disarmonia.
All'inizio è stata l'Europa a dividere l'opposizione. C'era infatti un tempo, in verità non troppo lontano, in cui il centrosinistra chiedeva al governo Berlusconi di «fare come l'Europa». Ma dopo che la Bce, con una lettera, ha indicato all'Italia la strada per uscire dalla crisi, quell'ansia europeista si è affievolita. Sel e Idv hanno immediatamente sparato a zero contro le misure proposte dalla Banca centrale. Il Partito democratico non ha risposto con voce unanime. Il suo responsabile economico Stefano Fassina ha sostenuto che quella lettera «non funzionava»: le misure lì previste per la maggior parte non erano di gradimento del Pd. Il vice segretario Enrico Letta, invece, ha accolto con soddisfazione una missiva che secondo lui stimolava il partito ad avere finalmente «il coraggio di lasciarsi alle spalle i tic ideologici del passato»: «Ci pone — è il suo ragionamento — davanti a una svolta: crescere e farci definitivamente una forza riformatrice e di governo, oppure accontentarsi di quel che si è già, rifugiandosi nella conservazione e nello sterile presidio di uno spazio politico e di un non meglio identificato elettorato di riferimento».
L'Unità, quotidiano del Pd, per dirla con Beppe Fioroni, «si è espressa su quella lettera della Banca centrale con maggior durezza del manifesto». L'economista Francesco Boccia, deputato della maggioranza interna, al contrario, ha ammonito a «non ignorare» le linee indicate dalla Bce: «Significherebbe mettere la testa sotto la sabbia, seguirle, invece, inciderebbe sul futuro dei nostri figli». Insomma, l'ennesima divisione all'interno del Pd.
Dopodiché è arrivato il Manifesto della Confindustria. Il segretario Pier Luigi Bersani ne è rimasto entusiasta, tant'è vero che ha in programma un incontro con i vertici dell'associazione: «Vi sono molti punti in comune tra il nostro programma e il loro». La presidente Rosy Bindi si è mostrata più cauta. Ha detto qualche sì, un forse e un mezzo no: «Bene la patrimoniale e la lotta all'evasione, sulle privatizzazioni ci vuole prudenza, e, per quanto riguarda le pensioni, va fatta una riforma per aiutare i giovani e i precari, ma non per farci cassa». Il senatore Vincenzo Vita, che rappresenta l'ala sinistra del Partito democratico, si è mostrato assai meno accomodante: «Quella di Emma Marcegaglia non è una buona proposta: è pesante sulla spesa sociale e sulle pensioni. Non può essere il programma del dopo-Berlusconi».
Questo per quanto riguarda il Pd, che si è quindi diviso in tre. Ma il resto della sinistra non è più unito. Per Italia dei Valori ha parlato Mauro Zipponi, l'esperto di Di Pietro in materia. Lui è prudente ma non chiude la porta: «È un fatto positivo che quell'area di imprenditori che fa capo a Confindustria e che aveva sostenuto Berlusconi ora si allontani dal premier. Ma in quel Manifesto non c'è un cenno di autocritica, e questo non va bene. E poi non vorrei che si cominciasse con una campagna ideologica sulle pensioni: evitiamo». Insomma, un «nì». Che diventa un no quando a parlare è Franco Giordano di Sel: «Quel documento non può essere certamente giudicato in modo positivo. È aperto a delle evoluzioni negative: l'attacco alle pensioni e allo Stato sociale. Vogliamo dirci la verità? La Confindustria ripropone un orizzonte vecchio e ripetitivo». E Nichi Vendola, leader di Sinistra ecologia e libertà, ricorda che «gli imprenditori prima erano con Berlusconi». Come a dire: vi siete svegliati adesso?
Dunque, se oggi fosse al governo, il centrosinistra nella versione del nuovo Ulivo Pd-Idv-Sel faticherebbe non poco a trovare la quadra. Il che non stupisce un ex Democrat come il senatore Nicola Rossi. A suo avviso sia «i governi di centrodestra che quelli di centrosinistra sarebbero incapaci di assumere i provvedimenti che andrebbero presi subito. Qualunque sia il colore degli esecutivi c'è sempre qualcuno che li tiene in ostaggio». Nel caso di Berlusconi è la Lega, nel caso di un eventuale governo di centrosinistra «le resistenze al cambiamento verrebbero da Sel e da alcuni settori del Pd».
Un'analisi troppo dura? Non parrebbe. Anzi. Potrebbe addirittura sembrare eccessivamente morbida se si guardasse a quello che sta avvenendo dentro Sel. Oliviero Diliberto e Paolo Ferrero avevano già detto che si sarebbero volentieri aggregati agli altri per battere il centrodestra, ma avevano premesso che, in caso di vittoria elettorale, non sarebbero «entrati nel governo». Per il movimento di Vendola non sembrava porsi una simile questione. Si sapeva che non tutti i dirigenti smaniavano dalla voglia di tentare l'avventura governativa, ma questi mal di pancia finora non avevano destato grandi preoccupazioni. Ora, però, è Fausto Bertinotti, la cui parola è ancora molto ascoltata dentro Sel, a porre delle obiezioni. Per l'ex presidente della Camera questa è l'ora della «rivolta sociale» e non del governo: «Nessun riformismo — né borghese né di sinistra — è capace di diventare soggetto politico consistente nella crisi del capitalismo finanziario globalizzato». Spiega Bertinotti al settimanale online «gli Altri» che in questa situazione «il governo come commissione d'affari della borghesia diventerebbe un'inquietante realtà» e la sinistra rischierebbe di «diventare un ente pressoché inutile». E allora è il momento di «aprire una radicale lotta politica», accompagnando «i movimenti che respirano l'aria della rivolta, la quale è la sola che può contribuire alla resurrezione della sinistra». Parole, queste, che non sono esattamente un buon viatico per un futuribile governo Pd-Idv-Sel.

La Stampa 3.10.11
Giustizia, settimana decisiva
Intercettazioni la legge riparte. Ma è scontro
Va in archivio invece la norma che avrebbe potuto mettere fine alla vita dei blog
La maggioranza vuole tornare a un provvedimento molto simile al ddl Mastella votato dalla Camera
di Francesca Schianchi


«Se vogliono che salti tutto, ci propongano il ddl Mastella e amen». A due giorni dall'ennesimo ritorno in Aula dell' ormai leggendaria legge sulle intercettazioni, sospira sintetizzando il clima un deputato terzopolista. Dopo due anni e mezzo di discussioni, due passaggi parlamentari, alla Camera e al Senato, e scie di polemiche infinite, la cosiddetta legge bavaglio, di nuovo rivista dalla Commissione Giustizia di Montecitorio, torna in Aula dopodomani, mercoledì, per il voto delle pregiudiziali di costituzionalità. La maggioranza vuole stringere i tempi e approvare al più presto il provvedimento: e di nuovo, come già in passato, si preannunciano scintille tra maggioranza e opposizione.
Entro il primo pomeriggio di domani potranno essere presentati gli emendamenti, nel Pdl gli onorevoli Enrico Costa e Manlio Contento ci stanno ancora lavorando. La direzione che le modifiche prenderanno è quella di un ritorno, per quanto riguarda la possibilità di pubblicare gli ascolti, al ddl Mastella, approvato dalla sola Camera la scorsa legislatura da un'amplissima maggioranza. In pratica, criteri ancora più stringenti per poter riportare nero su bianco le conversazioni intercettate: «Ma no, si tratta solo di dare una disciplina, facendo attenzione perché spesso nelle intercettazioni vengono tirati in ballo soggetti non indagati», minimizza Costa, capogruppo del Pdl in Commissione Giustizia. Di fatto, il provvedimento che porta il nome dell'ex ministro della Giustizia prevedeva il «divieto di pubblicazione, anche parziale, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pm o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti da segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari». Per quanto riguarda le conversazioni telefoniche, stesso divieto fino alla fine delle indagini preliminari o al termine dell' udienza preliminare, «anche se non più coperti da segreto».
In Commissione è stato introdotto invece il passaggio della cosiddetta «udienza filtro», durante la quale le parti decidono insieme quali intercettazioni sono utili, su cui cade il segreto, e quali invece sono irrilevanti e non dovranno mai uscire. Un punto di mediazione voluto fortemente dal Terzo Polo, che non è disposto ad avallare un irrigidimento. La maggioranza vorrebbe riuscire a coinvolgerlo in un provvedimento condiviso: l'ipotesi di mettere la fiducia non è affatto esclusa, «ma sarebbe auspicabile una mediazione», ammette Costa. Che respinge l'idea per cui la legge possa servire al premier: «Le sue intercettazioni sono già uscite, se facessimo per lui la legge la faremmo quando i buoi sono già scappati… Ma non è così». Comunque sia, il ripiegamento verso la Mastella non favorirebbe una convergenza con l'Udc: «Se vogliono fare una legge che non tocca lo strumento delle intercettazioni ma l'abuso della pubblicazione, allora c'è margine per provare a lavorare. Se invece vogliono limitare l'informazione, allora lasciamo perdere», ammonisce Roberto Rao.
Quello su cui un passo indietro viene visto come molto probabile è la norma cosiddetta ammazza-blog, quella che voleva imporre obbligo di rettifica entro 48 ore e multe fino a 12mila euro anche ai diari online: contro l'ipotesi si è formato un fronte bipartisan, «auspicabile il confronto» anche per il ministro della Giustizia Palma.
Ma sono tanti i punti criticati dall'opposizione, con Idv e Pd pronte allo scontro («testo di gravità inaudita, va bloccato a tutti i costi» per il democratico Vincenzo Vita). Ad esempio, notano nell'Udc, la norma per cui un collegio di giudici deve autorizzare gli ascolti rischia di mandare in tilt il lavoro dei piccoli tribunali. E dalla magistratura, Gian Carlo Caselli denuncia che «pretendere che i magistrati rinunzino allo strumento delle intercettazioni o ne riducano le potenzialità operative è come pretendere che i medici rinuncino alle radiografie, alle Tac, alle risonanze magnetiche».

Corriere della Sera 3.10.11
«Tra Bossi e il Cavaliere c'è davvero un contratto»
di P. Co.


ROMA — «Il patto Berlusconi-Bossi esiste, secondo me e secondo altri c'è anche un atto notarile che risale al gennaio 2000, un anno prima delle elezioni politiche in cui Lega e Forza Italia sarebbero state alleate». Parola di Gigi Moncalvo, direttore de la Padania dal 2002 al 2004, ospite di Lucia Annunziata ieri su Raitre alle 14.20 per In 1/2 ora durante la puntata intitolata «Lega Predona». Annunziata premette che molti leghisti, sapendo dell'invito, erano contrari alla presenza del giornalista in studio.
Ma Moncalvo è lì e parla: «La prova del patto? Appena sei mesi dopo in una lettera alla Banca di Roma l'allora tesoriere Giovanni dell'Elce su carta intestata di Forza Italia scrive: "Firmiamo una fideiussione di due miliardi per qualsiasi debito contratto dalla Lega". Per la prima volta nella storia italiana un partito firma una fideiussione a favore di un altro». Moncalvo aggiunge altri particolari: «Secondo talune fonti giornalistiche, e diversi libri, l'intervento di Berlusconi a favore della Lega fu ancora più pesante, il partito di Bossi era in crisi, le sedi erano pignorate, non arrivavano gli stipendi». Chiede Annunziata: «Ma è vero che il risultato di questo patto è che il simbolo della Lega è di Berlusconi?». Risposta: «Secondo me sì, è nel carattere dell'uomo pensare al marchio, anche se il simbolo risulta di proprietà per un terzo di Bossi, un altro terzo di sua moglie e l'ultimo terzo è di Giuseppe Leoni».
Infine Moncalvo conferma: «C'era un piano Bossi-Berlusconi anche per arrivare a una riforma costituzionale per far eleggere il presidente della Repubblica dal popolo. Napolitano, per fair play, si sarebbe dimesso e Berlusconi avrebbe avuto sette anni di immunità assoluta al Quirinale».

Repubblica 3.10.11
Il pericolo del doppio populismo
di Nadia Urbinati


Le prime pagine dei maggiori quotidiani del mondo propongono ripetutamente immagini dell´aria di rivolta che si respira nelle capitali di quasi tutti i Paesi democratici mescolata a quella dei lacrimogeni.
Uomini e donne ordinari sono da una parte della barricata; i guardiani dei loro rappresentanti dall´altra. Contestazioni e rivolte di cittadini democratici che si sono trovati poveri in poche settimane, senza casa da un giorno all´altro, o semplicemente esasperati per non essere ascoltati dai loro governi e parlamenti.
È lecito e legittimo prendersela con chi mostra la faccia del potere politico, poiché il diritto di voto fa proprio questo: indica con nome e cognome chi deve occuparsi degli interessi generali e pretende che per grandi linee li faccia. Chi promette lavoro e crescita, chi promette "felicità" e benessere non può impunemente operare in modo da creare l´opposto. Dunque, se le sostanziali responsabilità del declino del sogno occidentale sono invisibili all´occhio dell´opinione, è giustificato che la contestazione prenda di mira le seconde file del potere, coloro che siedono nei parlamenti e nei governi nazionali, poiché ad essi è stata demandata con decisione autorevole e sovrana la funzione di occuparsi degli interessi generali della società.
Le contestazioni sono una denuncia della rottura di rappresentatività, della scollatura tra il dentro e il fuori delle istituzioni. Ecco allora che al popolo dei populismi di destra si viene ad affiancare un nuovo popolo, quello dei movimenti sociali dal basso. Il primo si unifica sotto un leader senza spesso avvedersi che si tratta di un affabulatore o di un furbo manipolatore; il secondo si unifica attraverso le parole via Internet e telefonia, e genera una nuova forma di populismo dal basso e senza leader, che si fa network e fa rimbalzare ai quattro capi del paese e del globo il grido contro la democrazia elettorale. Questo populismo orizzontale, contrariamente a quello che nel Bel Paese si appella al videocratico Silvio Berlusconi o all´etnocentrico Umberto Bossi, è fatto di un popolo non allineato, che non vuole bandiere di partito e si ribella contro una classe politica che in suo nome fa quel che vuole e lo tradisce; che non accetta più di farsi rappresentare da essa o dai partiti in generale, che infine è insofferente verso, appunto, le istituzioni della democrazia rappresentativa. Questo fenomeno, molto preoccupante per sè, lo è ancora di più se lo si proietta nello scenario del dopo-Berlusconi.
Il "popolo populista" manovrato dai leader non è lo stesso di quello che chiede di essere ascoltato. Come spiega molto bene Alessandro Lanni in un libro in uscita su questi temi, se c´è qualcosa che questi "popoli" hanno in comune è questo: sia che il processo operi dall´alto sia che operi dal basso, sia che operi attraverso la verticalità della televisione o l´orizzontalità della rete, comunque si assiste a un processo di rimozione del filtro della rappresentanza e della mediazione dei partiti. Si assiste cioè al vacillare delle forme indirette di democrazia anche se la contestazione avviene da due punti di vista diversi e, anzi, opposti, come sono appunto il populismo mediatico e il populismo auto-interpellante della rete.
Uno dei problemi che con più forza emergono da queste forme spontanee di autorappresentanza è senza dubbio quello relativo al destino e al mutamento di scopo dei partiti, i quali hanno perso la loro centralità e si sono svuotati del loro ruolo di collegamento tra società civile e società politica, per diventare via via solo parlamentari e necessariamente ripiegati su se stessi. La difesa a tutti i costi di sé come eletti (anche di quelli che sono in odor di mafia, come la vicenda del salvataggio del ministro Romano ha mostrato a tutto il mondo), del proprio status personale e famigliare, pare essere la funzione dei partiti. Lo svuotamento di legittimità dei partiti è radicale. Le conseguenze sono da temere grandemente.
La paralisi progettuale, idoleogica ed etica dei partiti si riflette nell´irresponsabile comportamento dei loro deputati. Il termine "irresponsabilità" è da leggersi qui in senso tecnico: si riferisce a rappresentanti il cui potere è derivato e dipendente e che però decidono di ignorare questo fatto, per le ragioni le più svariate, ma in generale per godere abusivamente del privilegio della decisione irresponsabile che il libero mandato dà loro. Irresponsabilità come categoria etica dunque, che dovrebbe ma non riesce più ad essere contenuta dalla funzione punitiva delle elezioni proprio perché i partiti hanno solo presenza parlamentare. Le ragioni del perché ciò avvenga sono diverse; ne segnalo una: perché chi è eletto può permettersi di agire senza interessarsi dell´opinione di chi lo ha eletto in quanto sa che il diritto di voto è impotente. Si assiste così alla trasformazione dei parlamenti in assemblee di oligarchie elette. Il meccanismo elettorale è in questo caso importantissimo; esso può rendere l´elezione semplicemente una ratifica di nomine decise altrove (come è in Italia con l´attuale legge elettorale) oppure può essere un deterrente capace di stimolare un potere responsabile, di rendere non conveniente fare come se gli elettori non esistessero. È però necessario e urgente che al voto politico sia restituita efficacia, anche per impedire che il populismo anti-partitico resti l´unico movimento rappresentativo dell´opposizione e tuttavia senza un collegamento costruttivo con le istituzioni.

l’Unità 3.10.11
I cattolici e la differenza di genere
Il discorso del cardinale Bagnasco archivia la tentazione di un bipolarismo etico. È aperto un terreno di dialogo fecondo tra credenti e non. La libertà femminile può aiutare a ridefinire il concetto di individuo
di Francesca Izzo


L’impegnativo discorso pronunciato dal cardinale Bagnasco va meditato e discusso, come giustamente sostiene Claudio Sardo, al di là della pur grave questione della permanenza di Berlusconi alla guida di un governo che, invece di pilotare il paese fuori dalla tempesta, lo lascia sempre più in sua balia.
Per la ricostruzione di un tessuto nazionale, che sani fratture territoriali, sociali, culturali, etiche e non ultime di genere, le scelte oggi dinanzi al mondo cattolico italiano risultano essenziali. Perciò aprono scenari di grande interesse le parole del cardinale che accompagna al riconoscimento del pluralismo politico dei cattolici la ricerca di una più salda e visibile unità dei laici credenti nel campo dei valori.
Questa prospettiva, se raccolta e sviluppata, archivia definitivamente la tentazione di un bipolarismo etico che ha lacerato le coscienze per un periodo troppo lungo e non felice della nostra storia recente. Essa può consentire, infatti, a tanti laici non credenti di aprire un dialogo fecondo, libero da ipoteche di schieramenti politici contingenti, su alcuni nodi del nostro vivere comune che stanno a cuore a tante e a tanti, credenti e non credenti. Ne indico solo due a cui sono particolarmente sensibile. Il primo riguarda lo sviluppo di una idea di laicità “post-secolare” che porti a riconoscere e legittimare la piena cittadinanza, nella sfera pubblica, del linguaggio religioso. Una laicità che metta in discussione il modello “francese”, secondo cui in democrazia la laicità consiste nel relegare la fede religiosa, con il suo corollario di convincimenti riguardanti la condotta di vita, alla dimensione privata e all’interiorità.
Non a caso l’idea di laicità post-secolare, avanzata da Habermas, più di un decennio fa proprio in dialogo con l’allora cardinale Ratzinger, è rimasta sullo sfondo, dato che il proscenio veniva occupato dallo scontro tra “atei devoti” e strenui oppositori dell’”invadenza vaticana”. Il filosofo tedesco ha sollevato invece interrogativi seri rispetto alle tradizionali e consolidate visioni del rapporto tra secolarizzazione e modernità, tra fede, scienza e politica. Ha criticato un’idea semplificata di modernità che una certa lettura dell’Illuminismo ci ha trasmesso e che sembra dominare tanta parte dell’immaginario contemporaneo secondo la quale la secolarizzazione, frutto del progresso scientifico, rende anacronistiche le credenze religiose perché prive di contenuto razionale. Habermas ha cercato di mostrare invece che non solo sul piano etico ma anche su quello conoscitivo il linguaggio religioso ha un contenuto razionale e che la pretesa del discorso razionale-illuministico di essere assolutamente nel giusto appare metafisica al pari dell’integralismo religioso.
L’idea di secolarizzazione che così si delinea non è a somma zero: se toglie ogni pretesa unilaterale di assolutezza, afferma però la persistenza della coscienza religiosa e la considera un indispensabile polo critico del rischio di presunzione e di onnipotenza della scienza e della tecnica.
Si delinea un’altra idea della sfera pubblica la cui laicità non respinge come improprio il discorso religioso, mentre la credenza religiosa è chiamata ad accettare la dimensione del dialogo pubblico, a confrontare le sue ragioni, a convincere, al di là di tentazioni dogmatiche o coattive, i cittadini tutti, accogliendo pienamente il terreno democratico .
Il secondo nodo riguarda la questione antropologica e i rischi che un individualismo spinto all’onnipotenza dalle possibilità offerte dagli sviluppi della tecnica fa correre alle stesse fondamenta dell’umano. Il conflitto che da tempo si è aperto tende a polarizzarsi intorno alla questione della libertà, ovvero se possono o no esserle posti vincoli, di che genere e con quale autorità.
Posto così il problema tende ad essere indecidibile. Io penso che una questione antropologica oggi esista e sia di enorme portata, ma che non si possa prescindere, nell’affrontarla, dal fatto della libertà femminile e da quanto è stato pensato dalle donne. Con l’esperienza e il concetto della differenza interna al genere umano è modificata radicalmente la concezione dell’individuo, che viene posto sotto il segno del limite e la stessa idea di libertà va incontro ad una riformulazione. È indubbio infatti che, se si accede alla prospettiva aperta dalla differenza e la si accoglie non come un dato (storico o biologico non importa qui stabilire) da superare, da cancellare, ma come segno della nostra umanità originariamente duale, vacilla l’idea della libertà come illimitatezza e indeterminata manipolabilità e si ridisegna un diverso concetto di individuo.
È dunque auspicabile che il discorso pubblico in Italia non solo faccia cadere vecchi steccati ma accolga voci e prospettive che, come quella della differenza sessuale, schiudono inediti orizzonti.

l’Unità 3.10.11
Il comunismo e la religione
di Nicoletta Bernardi


Ho partecipato alla presentazione del libro di Walter Peruzzi, "Il Cattolicesimo reale", Venerdì 23/9/2011 a Terni. Ero in compagnia di un attento pubblico che ha riempito la sala Laura della Siviera ed ha animato l'incontro con numerose domande. Il prof. Peruzzi, insegnante di Storia e Filosofia, ha spiegato le motivazioni alla base del suo libro: mostrare "Il Cattolicesimo reale", ovvero l'abisso, che separa l'aspetto teorico (come la religione Cattolica si presenta IN TEORIA) da quello concreto (come si comporta IN PRATICA). L'autore ha inoltre chiarito che il titolo del testo fa riferimento alla nota espressione "Socialismo reale", che indica le concretizzazioni del Comunismo nei Paesi dell'Est. Concretizzazioni condannate da tutto l'Occidente, ed usate come argomento per chiedere di cancellare (anche) l'idea del Comunismo come teoria. Visti i contenuti del libro, e ricordando che lo Stato della Città del Vaticano non ha, a suo tempo, firmato la Dichiarazione universale dei Diritti Umani e che non ha sottoscritto la Convenzione europea sui diritti dell' uomo, ci chiediamo: a quando la richiesta di cancellare le idee di dottrine/teorie religiose le cui pratiche sono spesso contrarie ai Diritti umani?

Corriere della Sera 3.10.11
L’angelo custode esiste e ci protegge sempre
Benedetto XVI: così il Signore ci accompagna
di Gian Guido Vecchi

qui
http://www.scribd.com/doc/67252636

Corriere della Sera 3.10.11
Dai miti greci all’Islam, quelle guide invisibili riscoperte da Clemente X
di Luigi Accattoli

qui
http://www.scribd.com/doc/67252636

La Stampa 3.10.11
La sfida dello scrittore “Ebreo senza religione”
Kanyuk vince la battaglia con l’anagrafe israeliana
Yoram Kaniuk 81 anni è uno dei personaggi mitici di Israele: ha combattuto nella guerra di Indipendenza del 1948 ed è stato un pioniere del dialogo con l’Olp di Arafat
di A. B.


Nel 1948 ha combattuto in prima linea per lo Stato di Israele e ha visto gli amici morire come mosche. Adesso ha la netta sensazione che lo Stato laico di Israele stia soccombendo sotto un establishment rabbinico «invadente e di stampo iraniano», che gli provoca repulsione. E allora lo scrittore più indisciplinato e anticonformista di Israele, Yoram Kaniuk (81 anni), è tornato in prima linea per scardinare il connubio (a suo parere divenuto perverso) tra «popolo ebraico» da un lato e «religione ebraica», dall’altro. Nei registri dello stato civile israeliano sono tutt’uno.
Quando, mesi fa, è andato al ministero degli Interni per esigere di essere registrato al tempo stesso «membro del popolo ebraico» e «senza religione», l’impiegata è rimasta sbigottita: mai nessuno, prima di lui, aveva avanzato una richiesta del genere. Ma adesso il tribunale distrettuale di Tel Aviv ha assecondato la sua iniziativa, in ossequio al principio della libertà dell’Uomo. «Una decisione coraggiosa, uno sviluppo storico», ha esclamato Kaniuk.
Dopo un decennio trascorso nella ruggente New York degli Anni 50, Kaniuk era rientrato in Israele con una celebre ballerina, Miranda, di fede cristiana. Col passare degli anni i due bohémien hanno avuto due figlie, che in Israele non sono state riconosciute come ebree. L’anno scorso è arrivato un atteso nipotino, che il ministero degli Interni ha registrato come «senza religione».
«Ero stufo di essere in minoranza, unico ebreo della famiglia - ha osservato maliziosamente lo scrittore -. Ho deciso allora di essere esattamente come mio nipote: privo di religione». Con l’ortodossia ebraica non vuole rapporti: «Ho detto loro: io ora esco». Ma ancora si sente legato al popolo ebraico e allo Stato di Israele. «Quando Ben Gurion parlava di uno Stato ebraico - ha rincarato, con tono beffardo - non pensava certo che un giorno in Israele 400 rabbini sarebbero andati a ispezionare le bollicine dell’acqua minerale per verificare se fossero compatibili con la halacha», l’ortodossia ebraica.
Da parte loro i rabbini gli mandano a dire che «quando uno nasce ebreo, resta ebreo. Non si sfugge». Davvero non si sfugge? Kaniuk il ribelle la sa lunga: nemmeno da morto i rabbini avranno il suo corpo - ridacchia - perché lo ha già donato alla scienza.

Corriere della Sera 3.10.11
Religione: «Nessuna». Cade uno dei pilastri d'Israele
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — L'uomo «morto almeno due volte», come si definisce Yoram Kaniuk, che fu ferito grave nella battaglia di Gerusalemme e andò in America e ripartì con la morte nel cuore, a 81 anni è rinato a nuova vita. Precisamente la vigilia del Capodanno ebraico, quando un giudice di Tel Aviv gli ha regalato una carta d'identità nuova di zecca. Stabilendo che il più sionista degli scrittori israeliani può finalmente essere accontentato. E che in un Paese dove molti documenti ti domandano quale sia la tua fede, dove i matrimoni non religiosi sono di serie B, lui potrà essere registrato all'anagrafe con uno status mai visto: appartenente al popolo ebraico, in quanto nato da madre ebrea, eppure «senza religione».
Ebreo non ebreo: per scelta, non per il credo. Kaniuk ne ha fatto una questione di principio. Pur essendo un'icona della guerra del '48, trenta libri tradotti in 25 lingue, le sue trame recitate al cinema da Jeff Goldblum o Willem Defoe, lo scrittore non vuole più «far parte d'un Iran ebraico», qual è a suo parere diventato Israele, «o appartenere a quella che oggi è chiamata la religione di Stato» e che secondo lui è invece utilizzata a fini politici. Quando l'anno scorso gli è arrivato un nipotino, da sua figlia che era nata da una cristiana americana e a sua volta è registrata a Tel Aviv come non ebrea, quando per il bambino ha ottenuto (a fatica) che fosse iscritto all'anagrafe «senza religione», da quel momento Kaniuk ha preteso lo stesso: ha fatto domanda al ministro dell'Interno, e di fronte al rifiuto s'è rivolto alla giustizia. Ottenendo un sì: «La libertà della religione deriva dal diritto alla dignità umana, protetto dalla Legge fondamentale — ha motivato il giudice Gideon Ginat —. La sola questione da soppesare è se Kaniuk abbia dimostrato la serietà delle sue intenzioni». E poiché tali si sono rivelate, in uno Stato democratico nulla vieta che lo scrittore viva la sua identità come gli pare. «Sono entusiasta — squilla l'ottantunenne dereligiosizzato —. È una sentenza storica: riconosce che la dignità umana basta a definirmi. E che anche in questo Paese posso sentirmi ebreo senza credere in nulla».
È una sentenza solo simbolica, dice la giurista Nicol Mahor, del Centro per il pluralismo e la ricerca religiosa: «Capita già che gl'israeliani cambino religione, convertendosi o si dichiarino atei. Qui, per la prima volta, un ebreo cancella il suo status religioso. Ma non credo che varrà come precedente: se Kaniuk alla sua età volesse risposarsi con un'ebrea, l'ultima parola spetterebbe in ogni caso all'autorità religiosa». Il sasso nella vetrata è lanciato, però. E lo dimostrano la reazione liquidatoria d'un rabbino tradizionalista, Shlomo Aviner («anche se diventa cristiano, non si sfugge: un ebreo resta ebreo, l'ebraismo è una nazionalità, non solo una fede»), o il dibattito sul sito di Haaretz fra chi considera lo scrittore un ingrato («la sola ragione per cui esiste è che è un ebreo»), chi una bandiera: «La maggioranza degl'israeliani la pensa come lui». E perfino chi addita il nostro Belpaese a modello: «Prendete l'Italia — scrive Melissa — è un Paese cattolico, ma lascia che ci vivano anche altre religioni».

La Stampa 3.10.11
Tensioni tra il premier israeliano e la cancelliera Merkel per le nuove costruzioni a Gerusalemme
Netanyahu: negoziati con i palestinesi
Ma arriva il no dell’Anp: inutile trattare se Israele non congela gli insediamenti
di Aldo Baquis


Un passo avanti, due indietro: la ripresa di negoziati di pace israelo-palestinesi, perorati con forza ed autorità dal Quartetto il 23 settembre scorso, non sembra avvicinarsi nemmeno dopo l’annuncio di Benyamin Netanyahu di aver ieri ottenuto dal proprio governo il tanto atteso «via libera».
Ma se il premier israeliano sperava di sentire da Ramallah espressioni di incoraggiamento, si è presto dovuto ricredere. I dirigenti palestinesi sono invece partiti alla controffensiva esigendo da Israele passi concreti «e non più solo belle parole», aprendo il fuoco anche in direzione del rappresentante regionale del Quartetto: l’ex premier britannico Tony Blair che ormai a Ramallah viene beffardamente definito «un membro di second’ordine del governo israeliano».
A coronare il quadro scoraggiante sono sopraggiunte una profonda crisi di fiducia della cancelliera tedesca Angela Merkel nei confronti di Netanyahu («reo» di aver annunciato l’estensione di progetti edili ebraici a Gerusalemme Est proprio mentre la Germania su sua richiesta stava conducendo uno sforzo diplomatico per bloccare la domanda della Palestina di piena adesione all’Onu), e un’altra crisi di fiducia dell’Anp nei confronti degli Stati Uniti dopo aver appreso che il Congresso potrebbe congelare 200 milioni di dollari di aiuti ai Territori per «punire» Abu Mazen della sua iniziativa alle Nazioni Unite. Un ex ministro palestinese, Cadura Fares, ha osservato che la ragion d’essere dell’Anp era di pilotare i palestinesi dei Territori «verso la pace e verso uno Stato indipendente». Se adesso gli Usa vogliono prosciugare le casse dell’Anp, l’intero progetto politico di Oslo verrà messo in dubbio. Forse che Stati Uniti ed Israele hanno nei Territori un’opzione migliore di quella rappresentata da Abu Mazen e dal suo premier Salam Fayad?
Dieci giorni fa, quando la questione della Palestina era approdata al Consiglio di Sicurezza, il Quartetto aveva chiesto a israeliani e palestinesi di produrre uno sforzo particolare per rilanciare negoziati senza precondizioni nell’intento di concludere un accordo di pace entro il 2012. Ieri, dunque, forse anche per placare le ire della Merkel, Netanyahu ha dato il suo assenso anche se, ha precisato, Israele ha alcune riserve. Ma i portavoce palestinesi hanno replicato che l’Anp non tornerà a negoziare con lui se non si impegnerà preventivamente a congelare gli insediamenti e a stabilire le linee armistiziali antecedenti il 1967 come punto di partenza per la definizione di futuri confini di pace.
Mentre Gerusalemme e Ramallah si palleggiavano queste dichiarazioni, il viceministro israeliano degli Esteri Dany Ayalon era in escursione sulle alture di Ghilo’ da dove si ammira sia il panorama di Gerusalemme (con la Knesset e la Città vecchia) sia, guardando verso Sud, quello di Betlemme. Le sue terre si trovano entro i confini municipali di Gerusalemme, ma anche in territori cisgiordani che erano sotto controllo giordano fino al 1967. A Ghilo’ risiedono 45 mila israeliani e adesso si progetta la costruzione di altri 1100 alloggi. «Questo è un rione di Gerusalemme» ha precisato Ayalon. «Abbiamo costruito qua in passato, costruiamo adesso, costruiremo anche in futuro». Non proprio le parole capaci di acquietare in questi giorni le apprensioni dei dirigenti palestinesi.
Nel frattempo l’Anp moltiplica gli attacchi personali (sia in pubblico, sia anonimi) nei confronti di Blair. Secondo Bassam al-Salhi, un dirigente dell’Olp, «quell'uomo ha perso la sua credibilità». Un funzionario palestinese ha sostenuto che Blair ha sperperato 100 mila dollari all’anno per crearsi nell’American Colony di Gerusalemme Est una lussuosa base operativa: non per favorire la pace, «ma per cercare di aggiudicarsi la presidenza dell’Ue, o la guida dell’Onu». Fra così tanti rancori e veleni, la celere ripresa di negoziati di pace appare dunque molto remota.
Accogliamo con favore la proposta del Quartetto di avviare al più presto trattative dirette B. Netanyahu Primo ministro di Israele Se non fermano la costruzione delle colonie, l’offerta degli israeliani è solo un inganno S. Erekat Capo negoziatore dell’Anp I palestinesi criticano l’inviato Tony Blair «E’ qui che spende soldi per farsi pubblicità»

La Repubblica 3.10.11
Israele, sì ai negoziati di pace. L'Anp: "Prima stop alle colonie"
Ma Netanyahu insiste: "Altri 1.100 alloggi in Cisgiordania"
di Fabio Scuto


GERUSALEMME - Fra Israele e palestinesi c´è un documento pieno di ambiguità, quello redatto dal Quartetto in tutta fretta a New York durante l´Assemblea generale dell´Onu. Volutamente generico e volatile invita le parti le parti a tornare al tavolo delle trattative entro un mese, per arrivare a un accordo di pace entro la fine dell´anno prossimo. Dopo dieci giorni di attesa, ieri pomeriggio il governo israeliano ha annunciato di aver accolto questa proposta. «Israele accoglie con favore la richiesta del Quartetto per negoziati diretti senza precondizioni fra Israele e l´Anp», dice un comunicato al termine di un vertice fra il premier Benjamin Netanyahu e gli otto ministri interessati. Nella dichiarazione, però, non si nascondono critiche al piano ma si precisa che queste saranno sollevate durante i colloqui.
Fino a qualche giorno fa la proposta del Quartetto non aveva ottenuto ancora il via libera di tutti membri del governo israeliano tra cui regnavano molte perplessità. La proposta non contiene la richiesta dello stop agli insediamenti e l´avvio delle trattative basate sui confini del 1967 come previsto dalla "Road Map" a cui fa riferimento. E anche il leader palestinese Abu Mazen, proprio per questo, aveva preso subito le distanze dall´iniziativa. Ieri solo un´ora dopo l´annuncio del governo Netanyahu è arrivata la risposta da Ramallah. Se Israele è d´accordo con il Quartetto deve congelare le colonie ha detto Saeb Erekat, capo negoziatore per i palestinesi. Secondo l´Anp, la disponibilità di Netanyahu a negoziare «senza precondizioni» è priva di significato senza l´impegno israeliano a congelare le colonie e a riconoscere come punto di partenza delle trattative le linee armistiziali in vigore fino al ‘67 fra Israele, Cisgiordania e Gaza.
La decisione del governo israeliano di proseguire nella costruzione di nuove all´interno degli insediamenti nei Territori occupati pesa come un macigno sulle aspettative di pace. I settlements sono il nocciolo del problema: nella Cisgiordania occupata ormai vivono 300 mila coloni in 130 diverse insediamenti. Netanyahu, che ha lì la sua base elettorale, non ha nessuna intenzione di arrivare a uno stop alle nuove colonie; è solo di due giorni fa l´annuncio della costruzione di 1100 nuove case nell´insediamento di Gilo, alle porte di Gerusalemme. Iniziativa criticata aspramente dall´Europa con la cancelliera Merkel in testa - e la Germania è il miglior alleato di Israele nella Ue - più moderatamente dagli Stati Uniti. Ma nonostante le pressioni internazionali e interne Netanyahu è deciso ad andare avanti, consapevole della debolezza di uno dei suoi principali interlocutori: la Casa Bianca. Dimenticato il discorso del 20 maggio scorso sulla validità delle frontiere del ‘67 come base della trattativa e del congelamento della colonizzazione, il presidente Barack Obama ha cambiato registro. L´agenda del negoziato - a un anno dalle presidenziali americane - la dettano gli israeliani. Il Congresso sta per bloccare 200 milioni di dollari in aiuti all´Anp come "rappresaglia" per la sfida all´Onu di Abu Mazen e il presidente - lo rivela il New York Times - sarebbe intenzionato a concedere la grazia alla spia israeliana Johnatan Pollard, condannato all´ergastolo negli Usa ma giudicato un eroe in Israele, per recuperare simpatie nella influente comunità ebraica americana viste le sue difficoltà nella corsa verso un secondo mandato.

l’Unità 3.10.11
La protesta. Da due settimane accampati vicino alla Borsa. «No allo strapotere della finanza»
Si ispirano alla Primavera araba e hanno prodotto un loro giornale, raccogliendo fondi sul web
«Non siamo anarchici. È la protesta del 99% contro l’avidità dell’1%»
Settecento arresti a New York. Indignados contro Wall Street
Fermata dalla polizia la marcia degli indignados americani, 700 arrestati. Da due settimane stazionano davanti a Wall Street contro l’ingordigia della finanza. «È la protesta del 99% contro lo strapotere dell’1%»
di Marina Mastroluca


Per qualcuno è stata una trappola. La marcia degli «indignados», che da due settimane stazionano pacificamente nei pressi di Wall Street, sabato scorso è finita peggio che si trattasse di hooligan scatenati a fine partita: settecento arrestati, e presto rilasciati, e una sfilza di accuse per disturbo dell’ordine pubblico, per aver bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn.
Che cosa sia davvero successo non è chiaro nemmeno a molti dei manifestanti. Un imbuto all’ingresso del ponte, la folla che si divide, qualcuno sui marciapiedi, altri intenzionati ad occupare la corsia. «Gli agenti guardavano e non facevano nulla, piuttosto sembravano guidarci verso la strada», ha raccontato Jesse A.Meyerson, uno dei coordinatori di «Occupy Wall Street». «Non c’era un solo poliziotto a dire: “Non lo fate” ha detto al New York Times Etan Ben-Ami, psicoterapista di 56 anni -. Ho pensato che ci scortassero per garantirci sicurezza». Comunque sia andata, per quel migliaio, forse 2-3000 persone che manifestano da due settimane la reazione degli agenti è stata quasi un colpo di fortuna: mai tanti titoli sulle prime pagine dei giornali, da quando è partita la versione Usa della Primavera araba, quello che dichiaratamente intendono essere i «ribelli» accampati allo Zuccotti Park, a poche centinaia di metri da Wall Street, bersaglio primario della loro indignazione.
«Questa non è una protesta contro la polizia di New York ha detto uno dei manifestanti, Robert Cammiso, alla Bbc -. Questa è la protesta del 99 per cento contro il potere sproporzionato dell’1 per cento. Non siamo anarchici. Non siamo hooligans. Io sono un uomo di 48 anni. L’1% che è in cima controlla circa il 50% della ricchezza degli Stati Uniti». Detto così, questo sembra essere il filo conduttore di una ribellione organizzata sul web fondamentale il ruolo del gruppo di hacker Anonymous e cresciuta spontaneamente. Tanti, tra quelli in piazza, hanno raccontato di essersi imbattuti per caso nella protesta e di essere rimasti. Per denunciare il disastro generazionale dei debiti universitari insolvibili in mancanza di lavoro l’Huffington Post ha denunciato in un reportage il diffondersi della prostituzione tra gli universitari in bolletta. Perché mentre nessuno si preoccupa di loro e di chi nella crisi ha perso la casa, i soldi dei contribuenti sono stati usati per salvare le banche. Ma anche per protestare contro la pena di morte, contro la guerra, contro l’avidità del sistema economico.
Giovani e non. Con un’occupazione persa o appesa a un filo. Nonni preoccupati dei nipoti. Figli senza prospettive. Studenti, insegnanti, organizzazioni sindacali, veterani, famiglie, gente comune: uno spaccato di classe media che vede allargarsi la forbice tra chi ha di più e chi ha di
meno, una generazione dopo l’altra, il sogno americano a raccogliere polvere in soffitta. Una realtà a molte facce, che sembra avere al momento più domande che risposte, e che a spanne rientra nel bacino elettorale di Obama, ma non ha visto il cambiamento in cui sperava. «Finché non alzi la voce è difficile che ti ascoltino. Ma è la maggioranza a pensarla come noi», raccontano.
Non saranno la maggioranza sui loro siti inclinano a sinistra. Ma hanno già raccolto parecchie adesioni, non solo quelle blasonate di Susan Sarandon e Michael Moore. Domani si uniranno alla loro protesta i lavoratori dei trasporti, i piloti d’aereo lo hanno fatto nei giorni scorsi. Per qualcuno come il reverendo Herbert Daughtry, attivista di antica data per i diritti umani sentito dal Washington Post, hanno l’aria di essere l’inizio di qualcosa: manifestazioni analoghe sono spuntate come funghi a Boston e San Francisco. «Quello che conta è la durata», dice. In piazza i pionieri di qualcosa che mobilita i sentimenti profondi della società. E anche qualcos’altro. Giovedì scorso è stata aperta una sottoscrizione sul sito Kickstarter per finanziare un giornale della protesta, viste le difficoltà a guadagnarsi l’attenzione mediatica. In 8 ore sono stati raccolti 12.000 dollari. E sabato il giornale è uscito quattro pagine di carta a colori, in controtendenza con il dna virtuale del movimento: il Wall street journal occupato, così si chiama. Tra le firme anche un ex corrispondente di guerra del New York Times, Chris Hedge. «Non ci sono scuse scrive -. O ti unisci alla rivolta in corso davanti a Wall Street e nei distretti finanziari di altre città, o ti trovi dal lato sbagliato della storia».

La Stampa 3.10.11
Tra gli indignados di Zuccotti Park: tende, tamburi e rabbia
“Basta, facciamo come in Egitto”
di Maurizio Molinari


Tamburi, computer, sacchi a pelo e bandiere americane costellano a Zuccotti Park l’accampamento di Occupare Wall Street, il gruppo di manifestanti che si propone di innescare negli Stati Uniti una protesta simile a quelle avvenute in Egitto e Gran Bretagna. «Sono arrivata con i primi, era il 17 settembre - racconta Zubeyda, 19 anni, del New Jersey -. Tutto è iniziato attraverso Twitter e Facebook, con i messaggi di un magazine di sinistra che dicevano “Ci vediamo a Freedom Plaza, porta 10 persone”, e così ho fatto».
Zuccotti Park, fra Broadway e Ground Zero, è stato scelto come sede della protesta «contro l’avidità di Wall Street» - come si legge in uno dei cartelloni all’entrata - perché è molto vicino alla Borsa e al tempo stesso, essendo un parco, consente di rimanervi 24 ore su 24. L’hanno rinominato Liberty Plaza e il comitato che coordina i militanti lo gestisce come un accampamento. Entrando da Broadway ci si trova nello «spazio pubblico» dove Abdullah, 26 anni, di New York, è uno dei suonatori di tamburi. «Barack Obama è come Hosni Mubarak e se ne deve andare pure lui - dice con rabbia -. Per chi è povero e di colore come me questo presidente è un traditore, anziché proteggere noi tutela i banchieri, se siamo qui è perché vogliamo un vero cambiamento».
Lasciandosi alle spalle i tamburi si arriva nella «zone dei media» dove su panchine di pietra e tavolini di legno i militanti dotati di computer sono al lavoro: sfruttano i social network per organizzare le marce che si svolgono ogni giorno, alle 12 e alle 17,30. Quella di sabato aveva raccolto oltre tremila persone e la scelta del comitato è stata di puntare sul Ponte di Brooklyn al grido di «Take the Bridge» (Prendiamo il Ponte). Ne sono scaturiti oltre 700 arresti. A raccontare com’è andata è Matt Brady, 24 anni, di Dover in Delaware, che c’era: «La polizia ci ha detto che potevamo andare, arrivati all’entrata del Ponte eravamo troppi per camminare solo sulle corsie pedonali, siamo andati avanti anche su quelle stradali e dopo poche centinaia di metri ci siamo trovati un muro di agenti davanti e un altro alle spalle. Ci hanno arrestati in massa».
Brady e Nicholas Moers, 21 anni, del New Jersey, hanno ancora i segni delle manette ai polsi e concordano nel dire che «è stata una trappola, volevano punirci e ci sono riusciti». Ma entrambi, reduci da un fermo durato fino alle 3 del mattino, assicurano che «non ci hanno piegato e marceremo ancora». Ogni fermato dovrà pagare 300 dollari di multa perché, spiega il portavoce della polizia Paul Browne, «li avevamo avvertiti che non dovevano invadere le corsie ma lo hanno fatto lo stesso».
Ci sono stati tafferugli e il vice-ispettore Anthony Bologna ha usato lo spray accecante, un video lo ha ripreso ed è finito sotto inchiesta. Il capo della polizia, Raymon Kelly, assicura che «se ha agito in maniera impropria sarà punito». Il Dipartimento di polizia circonda Zuccotti Park con un assedio leggero: gli agenti ci sono ma restano a distanza. Il suono dei tamburi non cessa mai ma l’angolo più visitato è là dove sono stesi sul selciato i cartelli che descrivono la protesta. Invitano a «Fire the Boss» (Licenziare il capo), assicurano che «One Day Everything Will Be Different» (Un giorno tutto sarà diverso), invocano «Destroy Power Not People» (Distruggi il potere, non la gente) e gridano «Tired of Capitalism» (Stanchi del Capitalismo) riassumendo quando sta arrivando con «Wall Street is Nero and Rome is Burning» (Wall Street è Nerone e Roma sta bruciando).
La sorpresa arriva quando, passando attraverso la zona cucine, dove caffè, muffin e sandwich vengono offerti da volontari, si arriva nel dormitorio disseminato di sacchi a pelo. È qui che i singoli espongono le proprie insegne e ci si accorge che la matrice di sinistra non è l’unica. Se infatti lo stemma del Partito socialista d’America campeggia in bella vista, altrettanto vale per i cappelli a tricorno e le bandiere del Tea Party, o per le insegne dei militanti libertari di Ron Paul, candidato repubblicano alla Casa Bianca. «Questo non è un partito politico - spiega Ignadi, 24 anni, seduto su un muretto con gli occhiali scuri e il berretto calato sulla fronte - perché sono presenti gruppi diversi, uniti solo dalla volontà di combattere la corruzione. Come mi ha detto un ex marine che ha dormito vicino a me, siamo qui per servire l’America».
I manifestanti pubblicano un giornale, «The Occupied Wall Street Journal» che in prima pagina proclama «La rivoluzione inizia a casa» e in ultima pubblica i cinque comandamenti della rivolta: Occupare, Passare parola, Donare, Seguire online l’occupazione, Istruirsi. I richiami alle altre proteste nel mondo sono costanti. Per Abdullah: «Dopo la Tunisia e l’Egitto abbiamo capito che toccava a noi ma il modello è Londra perché anche qui siamo pronti a batterci».
C’è un problema in vista e Matt lo riassume così: «Stanno per arrivare l’inverno e la neve, ci servono coperte e tende più resistenti, il comitato le sta cercando». Sempre ammesso che il proprietario di Zuccotti Park, una importante società immobiliare di Manhattan, non decida di chiedere agli agenti di sgombrare il parco mandando tutti a casa.

Repubblica 3.10.11
I ragazzi rivoluzionari dal Cairo a Wall Street
Come a piazza Tahrir questa è la rivoluzione dei giovani senza futuro
All´inizio non è stato preso sul serio ma ora il movimento sta sbarcando nelle altre metropoli americane
Bisogna salvare le grandi banche da loro stesse, eliminare gli sgravi fiscali più irragionevoli
di Nicholas D. Kristof


DOPO aver volato in tutto il mondo per coprire le proteste dal Cairo al Marocco, per riferire degli ultimi "tumulti di piazza" mi è stato sufficiente prendere la metropolitana.
Il movimento "Occupy Wall Street" (Occupiamo Wall Street) ha preso possesso di un parco nel distretto finanziario di Manhattan e lo ha trasformato in una base rivoluzionaria. Centinaia di giovani scandiscono slogan contro i "bankster" (banchieri-gangster) o i magnati delle grandi corporation. Ogni tanto alcuni di loro si tolgono pure i vestiti, attirando ancor più l´attenzione e le telecamere dei telegiornali.
Il movimento "Occupy Wall Street" in un primo tempo è stato trattato alla stregua di uno scherzo, ma trascorse due settimane sta prendendo sempre più piede e guadagnando seguito. E analoghe proteste e occupazioni si stanno moltiplicando un po´ ovunque, a Chicago, San Francisco, Los Angeles e Washington.
Ho spedito alcuni Tweet nei quali ho fatto presente che questa protesta mi ricorda un po´ quella di Piazza Tahrir al Cairo, e ciò ha fatto alzare più di un sopracciglio. È vero, di pallottole non c´è ombra e il movimento non si ripropone di destituire alcun dittatore. Ma in strada è sceso lo stesso tipo di giovani avviliti e arrabbiati. Si assiste allo stesso uso pratico di Twitter e dei social media per ingrossare le fila dei partecipanti. Più di ogni altra cosa, si percepisce una medesima sensazione di frustrazione generale nei confronti del sistema politico ed economico, che i manifestanti ritengono fallito, corrotto, irresponsabile e che agisce impunemente senza essere tenuto a rispondere del proprio operato.
I manifestanti sbalordiscono per il loro sapiente uso di Internet, e sono organizzati in modo impressionante. Dove il movimento risulta carente è nelle proprie rivendicazioni: non ne ha di concrete. I partecipanti perseguono cause diverse, in qualche caso donchisciottesche. C´è per esempio un manifestante che vuole far togliere il ritratto di Andrew Jackson dalle banconote da 20 dollari perché fu crudele nei confronti degli indiani americani. Cercherò pertanto di rendermi utile.
Non condivido i sentimenti di ostilità al mercato di molti manifestanti. Le banche sono istituzioni preziose, che quando funzionano come devono mobilitano i capitali facendoli rendere al meglio e migliorando gli stili di vita. In realtà, le banche hanno socializzato il rischio e privatizzato i profitti. Convertire i mutui in titoli negoziabili, per esempio, ha arricchito enormemente molti banchieri, lasciando in definitiva i governi indebitati e i cittadini senza più casa. Abbiamo anche visto che le banche gestite in modo inadeguato e considerate "troppo grandi per poter fallire" possono risultare perniciose per gli interessi del pubblico invece di mettersi al suo servizio, e negli ultimi anni le banche l´hanno fatta davvero franca. È scandaloso e profondamente irritante vedere i banchieri salvati grazie all´aiuto dei contribuenti lamentarsi adesso per le regolamentazioni che dovrebbero servire a scongiurare il prossimo salvataggio in extremis. Ed è importante quindi che i manifestanti mettano in evidenza le crescenti sperequazioni: a qualcuno pare mai giusto che l´uno per cento degli americani più ricchi possieda nel complesso una rete di affari più grande di quella che possiede il restante 90 per cento della popolazione considerato nel suo insieme?
A coloro che hanno intenzione di convogliare la loro frustrazione anodina in qualche richiesta pratica, darei alcuni suggerimenti specifici. L´imposizione di una tassa sulle transazioni finanziarie. Si tratterebbe di una tassa di modesto importo sulle contrattazioni finanziarie, modellata sulla falsariga di ciò che suggerì James Tobin, l´economista americano che vinse un Premio Nobel. Scopo di questo provvedimento sarebbe quello di smorzare le manovre speculative che provocano una pericolosa instabilità.
Eliminare qualsiasi scappatoia ed espediente, tipo gli "incentivi riconosciuti ai gestori di un fondo, sulla base della performance complessiva fatta registrare dall´attività di investimento" o le "azioni dei fondatori", che potrebbero essere considerati gli sgravi fiscali più irragionevoli e meno scrupolosi d´America.
Proteggere le grandi banche da loro stesse. Ciò significa fare passi avanti con le clausole per il capitale fissate dal Basilea II e adottare la Volcker Rule, che limita la possibilità per le banche di impegnarsi in investimenti rischiosi e speculativi. Altra proposta sensata, fatta sua dal presidente Barack Obama e da parecchi esperti internazionali, è la tassa sulle banche: questa potrebbe essere stabilita in funzione delle dimensioni e dell´influenza di un istituto bancario, così che i banchieri possano pagare per le loro "malefatte", un po´ l´equivalente in finanza della tassa sull´inquinamento.
Buona parte degli slogan scanditi dal movimento "Occupy Wall Street" è alquanto insensata, e altrettanto si può dire dei moralistici slogan di una Wall Street che si considera superiore a chiunque altro. Ma se una plebaglia di qualche centinaio di giovani manifestanti può far sì che il nostro sistema finanziario diventi più equo e sia tenuto a rispondere del suo operato, le si dia maggiori poteri.
© New York Times - La Repubblica
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 3.10.11
Il prof, il broker, la disoccupata ecco i ribelli anti-Wall Street
"E adesso Obama deve sentirci"
I 700 arresti non fermano la protesta: "Nessuna paura"
"Io scendevo in piazza per il terzo mondo e alla fine scopro che gli oppressi siamo noi"
"Inizio di qualcosa di nuovo? Lo spero L´organizzazione spontanea è una meraviglia..."
di Angelo Aquaro


NEW YORK - «Wall Street è Nerone… E Roma sta bruciando!». All´ingresso di Liberty Plaza gli indignati d´America scolpiscono la loro verità sui cartoni della pizza. Di qua c´è Wall Street. Dall´altra Ground Zero che sta rialzando al cielo torri di vetro e cemento. In mezzo ci sono loro: sbucati dal nulla solo per chi non ha occhi per leggere i numeri della disoccupazione (9,1 per cento) e dell´ingordigia delle corporations (sedute su 2mila miliardi di cash che non investono). Quanti sono? Lo slogan - coniato dalla rivista alternativa Adbusters - è "Occupy Wall Street". Ma sabato sera la polizia ne ha sbattuti 700 in galera per avere occupato anche il ponte di Brooklyn. Dicono: è solo l´inizio. Stamattina - come ogni mattina dal 16 settembre - marceranno su Wall Street: all´apertura dei cambi segnata dalla mitica campanella. E mercoledì arrivano i sindacati per una grande manifestazione.
Sono accampati in questa piazza su materassi e giacigli di fortuna. Tutto in fatiscente miniatura: infermeria, mensa, media center. L´Assemblea generale si riunisce due volte al giorno. Hanno anche un giornale: The Occupied Wall Street Journal. L´editoriale dice: «Impariamo dal resto del mondo». New York come Tahrir Square. Una primavera americana senza leader e tanti simpatizzanti: Michael Moore, Naomi Klein, Noam Chomsky, Suasan Sarandon, i Radiohead. «I giornalisti chiedono: chi è comanda qui? Ma qui comandiamo tutti e nessuno. Così almeno non ci acchiapperanno mai». Tutti al comando: ma ciascuno con una propria voce.
LA MANAGER
«Mi chiamo Jackie Falner e vengo dalla Pennsylvania. Sono una marketing manager: pubblicità e promozione. Per stare qui ho dovuto prendermi le ferie. Ma vi rendete conto? Io scendevo in piazza per la Palestina e il terzo mondo e alla fine scopro che gli oppressi siamo noi: qui in casa. Quando lo capiremo che o ci salviamo tutti o non si salva nessuno? La politica? Tutti comprati. Eppoi sono stanca dei giochi tra destra e sinistra: qui siamo già oltre».
LA DISOCCUPATA
«Mi chiamo Nicole Angelo e vengo da Worchester. Sono disoccupata e ho votato per il presidente Barack Obama. Lo rivoterò? Dipende anche da come ne usciremo da qui. L´obiettivo? Portare avanti il discorso. Aiutare gli altri ad aprire gli occhi. Siamo sempre di più: anche se ci hanno arrestati per metà. Settecento: sul ponte di Brooklyn è stata una trappola. La polizia aveva bloccato l´accesso pedonale: un invito a invadere la strada delle auto. Ma non è così che ci fermeranno».
IL CAMERIERE
«Mi chiamo Luke Richardson e vengo dal New Jersey. Facevo il cameriere proprio qui dietro: una steakhouse piena di big di Wall Street. Ne ho sentite tante a quei tavoli. Ma oggi sono qui: per fare sentire la nostra. Sto al media center: una ventina di volontari. Ci bastano una paio di videocamere e poi mandiamo tutto sul web. Così la gente si fa un´idea dal vero. Abbiamo un paio di Twitter e la pagina Facebook. Obama? No, no e no. L´ultima volta è che ho votato è stato ai tempi di Ralph Nader. Cosa voglio? La comunione dei mezzi di produzione. E della terra. Comunista? Meglio: anarco-comunista. Lo so benissimo che non ci arriveremo così e non voglio imporre la mia visione agli altri qui. Però questa è già la cosa più grande che potevamo realizzare».
IL PROFESSORE COMUNISTA
«Mi chiamo Dennis Laumann e sono un professore. Università di Memphis: storia africana. Sono qui in veste doppia: manifesto e cerco di capire. Sono un militante del partito comunista e voglio scrivere per il nostro giornale: People´s World. Sorpreso? Troppi disoccupati. Troppa frustrazione. E alla fine la gente ha trovato la forza di dire: fottetevi. L´inizio di qualcosa di nuovo? Lo spero. L´organizzazione spontanea è una meraviglia resa possibile da Internet. Ma politicamente a chi gioverà? Spero almeno che serva a spingere il piano per il lavoro di Obama. Certo che il partito comunista d´America lo sostiene. E chi se no?».
L´ARTISTA
«Mi chiamo Clark Stoeckley e vengo da Chicago. Faccio l´artista. Ma sono fortunato: ho anche un lavoro fisso. Insegno arte al Bloomfield College, New Jersey. Sì, questo camioncino è mio. La scritta WikiLeaks sulla fiancata? Sono un sostenitore diciamo così non autorizzato. Ho cominciato a fare campagna per la liberazione del soldato Bradley Manning: quello accusato dei cablo. Ho portato questo camioncino anche davanti alla Casa Bianca. Obama? L´ho votato ma probabilmente non lo farò più: troppe promesse e stop. WikiLeaks? Guardatevi intorno: è cominciato tutto da lì. WikiLeaks ha fatto partire la Primavera araba. La Primavera araba ha fatto partire le nostre proteste».
L´EX DI WALL STREET
«Mi chiamo Robert Segal e vengo da Brooklyn. Lavoravo dall´altra parte della strada: Wall Street. Tecnico informatico: i miei numeri aiutavano quella gente a fare sempre più soldi. Poi venne l´11 settembre e quel mio piccolo mondo crollò. Mollai tutto. Per un quarto sono italiano di origine. Ho lavorato nel commercio dei vini. Ma adesso sono qui. Vedete? Questa lavagna l´ho realizzata io: ‘Occupation Status´. Ci ho messo tutta l´esperienza nei display di Wall Street! Ecco: in questa colonna ci mettiamo gli arrestati e qui i rilasciati. Qui i giorni di protesta e qui le città dove manifestiamo. Obama? La persona giusta nel posto sbagliato. I democratici dicono: 2 più 2 fa 4. I repubblicani dicono: 2 più 2 fa 6. Arriva lui e fa: 2 più 2 fa 5. Ma dai. Il compromesso non porta da nessuna parte. O forse no: ci porta in questa piazza qua».

La Stampa 3.10.11
L’antipolitica dei bravi ragazzi senza futuro
di Umberto Gentiloni


Park Place, lower Manhattan, piccolo rettangolo incastonato tra Ground Zero e Wall Street, è diventato uno strano incrocio di percorsi e storie; da qualche giorno è il ritrovo per centinaia di manifestanti che presidiano i luoghi della Borsa e della finanza. In quell’imbuto di strade si trova anche l’uscita principale per chi visita il nuovo Memorial 9/11, nel vuoto lasciato dalle Torri gemelle. Turisti e residenti muniti di prenotazione si mettono in coda, gruppi di cento vengono ammessi ogni ora nel recinto del cantiere del World Trade Center. Si esce nel cuore della protesta studentesca; un accampamento dotato di ogni servizio: collegamenti con computer a ogni angolo, telecamere, materassi per terra, cibo, bevande e scatole di cartone di vari formati per la richiesta fondi. Fianco a fianco uomini d’affari in pausa pranzo con turisti segnati dalle emozioni del nuovo memoriale che arrotolano lunghi fogli di carta spessa distribuiti con una grande matita (Name Impression Kit) e utilizzati per imprimere il nome delle vittime.
Le voci dei ragazzi sono senza interruzione, si danno il cambio gridando slogan, parole d’ordine, lunghe e dettagliate piattaforme di rivendicazione scandite da un singolo e amplificate dal gruppo che lo circonda. I cartelli in mostra: «Difendiamo la nostra terra», «L’economia è come una stella che sembra produrre luce ma in realtà è già spenta» o ancora le domande sul luogo simbolo del ritrovo: «Non siamo protagonisti. Solo consapevoli». «Queste strade? Le nostre strade». Fino al grido d’allarme «Satana controlla Wall Street». Al centro della piazza un ammonimento: «Per favore. Niente droghe. Non ne parlare, non chiedere e non insistere. Noi non facciamo uso di sostanze!»; richiamo al passato e a stagioni lontane.
La protesta non raccoglie gli inviti di smobilitazione delle forze dell’ordine, seguono momenti di tensione e i primi fermi quando vengono occupate alcune strade limitrofe perpendicolari all’ultimo tratto della Broadway. Chi si trova da quelle parti guarda incuriosito e incerto sul da farsi. Tutto sembra fermarsi al suono della sirena dei pompieri, uno strano silenzio si sostituisce ai rumori diffusi, i ragazzi in piedi insieme ai turisti salutano il mezzo dei vigili del fuoco che si dirige versoNord. Un simbolo che unisce e rassicura, uno stimolo di orgoglio per i newyorkesi di varia provenienza; l’applauso forte copre alcuni minuti, nella piccola piazza torna la calma.
Un mix strano di sguardi e presenze, ma anche l’incontro tra nuove domande e antiche forme di protesta. Tutto viaggia via Internet ma la parola amplificata dalla piazza richiama i primi Anni Sessanta e le origini del movimento del Free Speech nella baia di San Francisco, gli albori della stagione del Sessantotto. La culla di quella protesta, l’Università di Berkeley, è ancora sotto i riflettori dei media, nelle stesse ore della cosiddetta «occupazione di Wall Street».
L’istantanea è molto diversa: una vendita di dolci al centro della celebre Sproul Plaza organizzata da giovani studenti repubblicani che chiedono di bloccare una legge sulle affermative action, vale a dire i criteri di ammissione in parte basati sui gruppi linguistici e culturali di appartenenza, sul genere e sul colore della pelle. Il tema non è certo inedito, ma i cupcakes (piccoli muffin ricoperti di glassa colorata) con prezzi diversificati arrivano sugli schermi della Cnn: 2 dollari per maschio bianco, 1 e mezzo per studente asiatico, 1 latino, 75 centesimi per gli african american e 25 per i native american; sconto previsto per le donne. Un menù provocatorio, venato di discriminazione secondo alcuni.
Dal 1995 le quote per le minoranze sono abolite da una legge californiana; il governatore Jerry Brown ha tempo fino al prossimo 9 ottobre per decidere su una proposta che le inserirebbe tra i diversi fattori per l’ammissione agli studi. Da qui la tensione tra le parti. Docenti e funzionari dell’università, cifre alla mano, rispondono che le differenze sono un valore irrinunciabile, visto che le «diverse minoranze» raggiungono il 16 per cento della popolazione studentesca, erano oltre il 20 nel 1994. Persino al di là di forme e contenuti sembra uno scherzo del destino o una fortuita coincidenza della storia. A dieci anni dall’11 settembre 2001, in simultanea sulle due coste dell’America le proteste di nuove generazioni attraversano simboli del secolo americano; nuove sfide convivono con antiche contraddizioni, la crisi del capitalismo finanziario con la difficile avanzata dei diritti civili.

Corriere della Sera 3.10.11
Intervista a Gay Talese
«La protesta cresce. I maghi di Wall Street  cercano di zittirla»
di Ennio Caretto


WASHINGTON — «Spero, ma non sono certo, che sia la nascita di un movimento egualitario simile al movimento pacifista nella guerra del Vietnam, che i giovani, a cui si prospetta un misero futuro, si ribellino contro la finanza selvaggia che ha spaccato l'America, un'esigua minoranza sempre più ricca e un'enorme maggioranza sempre più povera. Oggi il vero potere è nelle mani di Wall Street perché essa sovvenziona la politica e condiziona così non solo il Congresso ma anche il governo, sottraendosi al loro controllo. E' un sistema che va cambiato, ma per farlo bisogna che lo sdegno popolare esploda e che i media gli diano rilievo, cose che sinora non si sono verificate, a differenza che in Gran Bretagna, in Spagna, nei Paesi della primavera araba».
Gli arresti a New York e a Boston hanno sorpreso Gay Talese, 79 anni, l'autore di «Onora il padre», «Il potere e la gloria» e di numerosi libri sulla mafia: «Potrebbero costituire una svolta, sono stati i primi scontri tra i dimostranti e la polizia, segno che la protesta cresce, e a ragione, perché le condizioni di troppe famiglie sono insostenibili». Ma lo scrittore dubita che la protesta si diffonda in fretta nel Paese: «Al momento è disorganizzata, non fa ancora presa sui ceti medio-bassi. Soprattutto, è quasi ignorata da radio, tv e giornali. Avrà qualche successo se ci sarà un'altra recessione, come negli anni 30».
Non è troppo scettico?
«Sono realista. Il movimento pacifista prevalse nella guerra del Vietnam perché il servizio militare era obbligatorio, e l'America vi aderì per proteggere la vita dei suoi figli. In maggioranza, i media l'appoggiarono senza remore. Ma oggi l'America è divisa perché una parte è al servizio di Wall Street mentre un'altra ne è vittima. E tra i clienti della finanza vi è la maggioranza dei media, per via della pubblicità, della proprietà, delle alleanze».
Non si salva nessuno?
«Ho passato mezzo secolo a New York, la metà nei giornali. Un tempo non era così, ma adesso i media sono veloci nell'evidenziare le ribellioni all'estero, ma lenti a illustrare quelle in casa. Eppure, i giovani di "Occupare Wall Street" meritano attenzione. La finanza che ha causato il disastro del 2007-2008 è più forte di prima, e i colpevoli non sono stati puniti, con l'eccezione di pochi personaggi secondari».
Wall Street è responsabile delle attuali tensioni sociali?
«Certamente. Se la finanza, salvata a carico dei contribuenti, fosse stata penalizzata e regolamentata, avrebbe cambiato condotta. Hanno molte responsabilità anche i governi, che non l'hanno riformata e che non hanno saputo creare nuovi posti di lavoro. I danneggiati sono soprattutto i giovani, una generazione che temo perduta. Io crebbi durante la Grande Depressione, a mio parere rischiamo di fare il bis».
Il silenzio dei media non rispecchia l'indifferenza del popolo americano?
«In qualche misura sì. La protesta in Europa è stata ed è più rapida e forte, anche perché i vostri sindacati sono più combattivi e i vostri partiti più numerosi e meno passivi. Per muoverci noi americani abbiamo bisogno di un nemico simbolico, uno alla Gheddafi, e a Wall Street non lo abbiamo individuato. Ma nemmeno Martin Luther King sarebbe riuscito a lanciare il Movimento dei diritti civili se i media l'avessero ignorato».
Perché è così duro con il mondo della finanza?
«Ci sono molti finanzieri e banchieri onesti. Ma ce ne sono anche molti per cui conta solo il profitto a tutti i costi. Una specie di mafia che si arricchisce a danno di chi lavora. Mi hanno colpito le immagini dei big di Wall Street che festeggiano mentre i dimostranti sfilano in strada, le due facce della nostra realtà economica».
New York non è stata spesso così?
«New York è una città cinica, che vive della ricchezza di Wall Street. I nostri ristoranti, cinema, teatri, negozi traboccano di gente, è come se la crisi non ci fosse. Qui vengono i ricchi di tutto il mondo a spendere. Non sarebbe nel suo interesse imbrigliare la finanza. Ma New York è anche una città liberal, e potrebbe ribellarsi».
La protesta è pro o contro Obama?
«Sarà pro Obama se spingerà il presidente a intervenire con maggiore decisione sulla finanza. Al momento è contro, i dimostranti lo accusano di essere troppo debole. Purtroppo anche nel suo governo ci sono ex leader di Wall Street. E' il guaio della nostra democrazia. Noi diciamo che tra Wall Street e Washington c'è una porta girevole».

La Stampa 3.10.11
Colloquio
“La crisi finirà solo quando cambieremo l’economia”
Il nuovo libro di Rifkin: la terza rivoluzione industriale? È già iniziata
di Paolo Mastrolilli


Bisogna cambiare, ora. Anche se non volessimo, la «Terza rivoluzione industriale» è già cominciata, e la crisi economica in corso dovrebbe solo convincerci ad affrettare il passo verso un nuovo paradigma per la nostra società. Un modello che richiede di abbandonare la dipendenza energetica dal petrolio, ma anche di mutare radicalmente i rapporti economici, la politica, l’ambiente, l’istruzione. Così scrive Jeremy Rifkin nel suo ultimo libro, intitolato appunto «The Third Industrial Revolution: How Lateral Power Is Transforming Energy, the Economy, and the World».
Durante un’intervista fatta ad agosto, ci aveva anticipato i contenuti con queste parole: «Verso la fine degli Anni Settanta è terminata la Prima rivoluzione industriale, nel senso che abbiamo smesso di vivere grazie alla ricchezza che producevamo. Siamo entrati nella Seconda rivoluzione industriale, in cui poco alla volta abbiamo bruciato i nostri risparmi e cominciato a vivere di debito». Questo ci ha esposto a crisi ricorrenti: «Ogni volta che c’è una recessione, facciamo sempre la stessa cosa: pompiamo soldi nel mercato e diciamo che vogliamo tagliare le spese. Ma la ripresa si alimenta spendendo, le nostre spese fanno crescere la domanda, i Paesi emergenti ne approfittano aumentando la produzione per moltiplicare l’offerta, e questo fa salire i costi delle materie prime come il petrolio. Di conseguenza tutti i prezzi aumentano, compresi quelli del cibo, e quindi ci ritroviamo in breve in una nuova situazione insostenibile, tornando a fare affidamento sul debito per soddisfare le nostre esigenze. Così non ne verremo mai fuori». Quindi aveva concluso: «La crisi finirà solo quando cambieremo il nostro paradigma economico. Dobbiamo passare dalla Seconda rivoluzione industriale alla Terza, per smettere di consumare le ricchezze del passato e tornare a produrre liberando la nostra creatività». Ora il libro è in uscita, le anticipazioni circolano in rete, e si può leggere cosa intende.
Energia nuova «La gestione dell’energia - scrive Rifkin - forma la natura della civiltà. Come è organizzata, come i frutti del commercio sono distribuiti, come viene esercitato il potere politico e le relazioni sociali. Il controllo di produzione e distribuzione dell’energia si sta spostando dalle gigantesche compagnie centralizzate basate sui combustibili fossili, a milioni di piccoli produttori che generano le loro energie rinnovabili e commerciano i surplus».
«La nuova era porterà una riorganizzazione dei rapporti di potere a tutti i livelli. Mentre la Prima e la Seconda rivoluzione favorivano centralizzazione e verticalizzazione, con strutture organizzative che operavano nei mercati dall’alto in basso, la Terza si muove per vie laterali, preferendo i modelli di business collaborativi che funzionano meglio nei network. La "democratizzazione dell’energia" ha profonde implicazioni su come orchestriamo l’intera vita umana. Stiamo entrando nell’era del "capitalismo distribuito". Il rapporto da avversari tra venditore e compratore è sostituito dalla relazione collaborativa fra fornitore e utilizzatore».
Nuovi modelli «Il capitalismo distribuito introduce modelli nuovi, inclusa la stampa tridimensionale nel settore manifatturiero, e le imprese che condividono i risparmi di scala nel campo dei servizi, capaci di ridurre enormemente i capitali, l’energia e i costi del lavoro, incrementando la produttività».
La politica «La Terza rivoluzione cambia il business, ma anche la politica. C’è un nuovo atteggiamento mentale nelle generazioni di leader socializzati via Internet. La loro politica non riguarda più lo scontro fra destra e sinistra, ma tra il modello autoritario e centralizzato e quello distribuito e collaborativo».
«Mentre Prima e Seconda rivoluzione erano accompagnate dalle economie nazionali e dalla governance della nazione-stato, la Terza, essendo distributiva e collaborativa per natura, progredisce lateralmente e favorisce le economie e le unioni governative continentali».
Geopolitica e biosfera «L’era intercontinentale trasformerà le relazioni internazionali dalla geopolitica alla politica della biosfera. Nella Prima e Seconda rivoluzione, la Terra era concepita in maniera meccanica e utilitaristica. Era vista come contenitore di risorse utili, pronte per essere appropriate a fini economici, e gli stati nazione erano formati per competere e assicurarsi il loro controllo. Il passaggio verso le energie rinnovabili ridefinirà la nozione delle relazioni internazionali lungo le linee del pensiero ecologico... La biosfera ci porta da una visione coloniale della natura, come nemico da saccheggiare e schiavizzare, a una nuova visione della natura come comunità condivisa da proteggere. Il valore utilitaristico della natura sta facendo spazio al suo valore intrinseco. Questo è il significato profondo dello sviluppo sostenibile».
Addio Adam Smith «Sui mercati, i vuoti scambi di proprietà sono stati parzialmente rovesciati dall’accesso condiviso ai servizi commerciali nei network open-source. Gran parte dell’economia, come viene insegnata oggi, è sempre più irrilevante per spiegare il passato, capire il presente e prevedere il futuro».
L’istruzione «Preparare la forza lavoro e la cittadinanza per la nuova società richiederà di ripensare i modelli tradizionali di istruzione, con la loro enfasi sul rigido insegnamento e la memorizzazione dei fatti. Nella nuova era globalmente connessa la missione primaria dell’istruzione sarà preparare gli studenti a pensare e agire come parte di una biosfera condivisa. L’approccio dominante dell’insegnamento dall’alto al basso, che ha l’obiettivo di creare un essere competitivo e autonomo, sta dando spazio ad una istruzione "distribuita e collaborativa". L’intelligenza non è qualcosa che si eredita o una risorsa da accumulare, ma piuttosto un’esperienza comune distribuita tra le persone».
La nuova qualità della vita «La Terza rivoluzione cambia il nostro senso della relazione e la responsabilità verso gli altri esseri umani. Condividere le energie rinnovabili della Terra crea una nuova identità della specie. Questa coscienza di interconnettività sta facendo nascere un nuovo sogno di "qualità della vita", soprattutto tra i giovani. Il sogno americano si colloca nella tradizione illuministica, con la sua enfasi nella ricerca del proprio interesse materiale. Qualità della vita, però, parla di una nuova visione del futuro, basata su interesse collaborativo, connettività e interdipendenza. La vera libertà non sta nell’essere slegato dagli altri, ma in profonda partecipazione con essi. Se la libertà è l’ottimizzazione di una vita, essa si misura con la ricchezza e la diversità delle esperienze di ciascuno, e la forza dei suoi legami sociali. Una vita vissuta meno di così è un’esistenza impoverita».

Corriere della Sera 3.10.11
I medici ribelli del Bahrein: «Il mondo ora deve aiutarci»
Condannati a 15 anni per aver curato i manifestanti
di Cecilia Zecchinelli

qui
http://www.scribd.com/doc/67251706

Corriere della Sera 3.10.11
A Oriente del Mediterraneo: la prima globalizzazione
Non solo greci e romani: la civiltà a partire dalla Mesopotamia
di Eva Cantarella

qui
http://www.scribd.com/doc/67252476

Repubblica 3.10.11
Giorgio Bocca
Io giornalista incapace di commuovere
di Maria Pace Ottieri


Pubblichiamo un brano del libro La neve e il fuoco in uscita da Feltrinelli

Il grande cronista ripercorre in un libro intervista la sua storia insieme a quella del Paese
Mi è capitato di rubare le foto delle vittime: la notizia viene prima di tutto e un po´ di cinismo è inevitabile
Non sono riuscito a descrivere la tragedia del Vajont: era provocata dalla natura e quindi inevitabile
Ghirotti e Corradi si stupivano che non mi curassi dei particolari ma per me era più importante il racconto

Che cosa ti ha spinto al mestiere di giornalista: la passione per la scrittura, per la politica, per la realtà o tutte e tre insieme?«La voglia di capire cosa sta succedendo al mondo. Sono certo che tutti quelli che fanno i giornalisti sono spinti da questo impulso primario: capire cosa succede attorno a te. Poi, naturalmente, per campare, tutti si adattano ai padroni, alle censure, ma in partenza chi fa il giornalista lo fa per raccontare le cose come sono accadute».
Uno dei tuoi primi servizi fu sui reduci dalla Russia al Brennero, che tu hai raggiunto con ogni mezzo; ci racconti quell´avventura?
«Intanto, quelli erano servizi possibili solo se eri giovane e forte. Era appena finita la guerra. La ferrovia andava da Torino a Milano, poi a Milano si interrompeva, fino a Verona. Soprattutto nella valle dell´Adige, tutti i ponti erano saltati e tutte le strade interrotte. Perciò, l´ultimo tratto fino a Merano, dove sapevo che erano arrivati questi prigionieri, lo feci sul carretto di una sudtirolese che mi detestava. Capivo benissimo che mi detestava, vidi che mandava giù il nodo della sconfitta».
In cambio di soldi?
«In genere salivamo sui carri degli americani e degli inglesi, aggrappandoci dappertutto. Siccome era un servizio quasi pubblico, tutti quelli che erano già su ti aiutavano a salire. C´era un adattamento fantastico a questa vita, in un´Italia semidistrutta: tutti si aiutavano l´un l´altro per arrivare a destinazione. Io ci ho messo due giorni da Torino a Merano».
E cosa hai trovato?
«Sono andato lì e ho trovato i prigionieri appena tornati. Naturalmente io e il giornale abbiamo usato il primo trucco, il primo inganno giornalistico per vendere copie: avevo preso i nomi di tutti i superstiti e li abbiamo centellinati per quindici giorni. Li davamo poco per volta, per cui per dieci giorni e passa "GL" ("Giustizia e Libertà") è stato il giornale più venduto».
Sei d´accordo con quella definizione di Kapuscinski per cui, se uno è cinico, non è adatto a fare il giornalista?
«Invece un po´ di cinismo ci vuole per forza, mi pare. Nel senso che la notizia viene prima di tutto il resto. Una delle mie cose tipiche era rubare le fotografie dell´assassinato. Fai conto che facevo la cronaca nera, mi dicevano: assassinato il tale... Allora andavo a casa di questo qui, con i parenti in lacrime, guardavo se sul comodino c´erano le sue fotografie, me le mettevo in tasca e le portavo al giornale. Le fotografie erano importantissime».
Era una tua prerogativa?
«Lo facevano tutti, il cinismo del cronista è questo».
Ci vuole un dosaggio fra cinismo ed empatia?
«È compreso tutto nella parola mestiere. Il tuo compito è trovare le notizie e farle uscire sul giornale. Tutto quindi è soggetto a questo imperativo».
La tua grande passione è stata la cronaca. Hai avuto addirittura una specie di trasporto per quell´assassina...
«Rina Fort. Ma non solo io, quasi tutti. Anche i carabinieri erano presi da questa donna, una siciliana, scura, tracagnotta, ma con una carica sessuale fortissima. Tutti, compresi gli avvocati, erano dominati da questa donna che aveva ucciso con una spranga di ferro i figli del suo amante. L´amante l´aveva tradita e allora lei è arrivata a casa sua, c´erano dei bambini, li ha uccisi tutti quanti a sprangate di ferro».
E che cosa ti attraeva?
«Era un mostro. L´assassinio attrae sempre, questo gioco con la morte, questa partita decisiva tra la morte e la vita. Il grande successo della cronaca nera è che attira l´attenzione degli uomini in maniera spasmodica perché tutti sanno di essere dei potenziali assassini. Sono cose che ti smuovono qualcosa dentro mentre altri fatti, come vedere una fabbrica che funziona, è, sì, ammirevole ma non ti commuove. Vedere un delitto, invece, ti turba».
Scrivi che non sai commuovere, ho letto una tua dichiarazione che dice: nemmeno durante il Vajont sono riuscito a scrivere un pezzo commovente. Perché?
«Mi commuovevo e trasmettevo questa emozione per i piccoli sentimenti, coi gatti, con gli uccellini... Le grandi sciagure non ti provocano nessuna commozione. Pensavo che le sciagure naturali fossero inevitabili e, quindi, non riuscivo a commuovermi. Partii da Torino. Poi, in macchina da Milano raggiunsi la valle del Vajont. Trovai una specie di piano di colore bianco perché l´acqua aveva travolto tutto, aveva schiacciato il paese. Rimasi incapace di raccontare quella tragedia perché era provocata dalla natura e, quindi, inevitabile. È una questione di formazione, credo. Vedevo, per esempio, dei tipi, dei giornalisti come Cavallari, che, se avveniva una sciagura del genere, subito andavano lì, si informavano, facevano degli articoli di pianti e di lacrime. Io non sono mai riuscito a fare un articolo commosso su una grande sciagura, ero superato dalla tragedia della natura».
In quel caso non era solo natura... Non hai mai creduto nell´errore umano?
«Sì, ma gli errori umani ci sono sempre. Un´altra cosa che a me non piace sono quelli che vanno alla ricerca delle colpe, degli errori umani... Chi poteva sospettare che una montagna franasse dentro un lago? Nessuno. Sì, dopo, si dice: ah, hanno fatto le prove, lì il terreno era franoso... Ma nessuno pensa che venga giù una montagna dentro un lago e che sollevi un´ondata che supera la diga. La meccanica è stata questa: un caso unico. Insomma, mi sentivo impotente di fronte alla naturalità del fatto. È come quando arriva un tifone: se la scampi va bene, sei contento, ma non è che puoi piangere e imprecare contro la tempesta. La tempesta viene e basta. La commozione per me è quella delle piccole cose, è quando vedo il rapporto umano. Si riesce a capire la commozione dell´uomo, anche di un assassino».
Però tu non solo trovavi le notizie, forse all´inizio, poi ti sei messo proprio a raccontare, i tuoi sono dei racconti.
«La differenza l´ho capita fin dai primi giorni. Io facevo il giornalista e avevo dei colleghi, uno era Egisto Corradi e l´altro Gigi Ghirotti, che concepivano il giornalismo come una precisione dei particolari: mai sbagliare un nome, una data, un´ora. Io, invece, spesso e volentieri inventavo, passavo sopra questa precisione per facilitare il racconto. Ho sempre concepito il giornalismo come letteratura. Quindi, se per il racconto conveniva fregarsene dei particolari, me ne fregavo. Loro erano stupiti, mi consideravano un po´ come uno che faceva i comodi suoi, che non rispettava le regole. Venivano continuamente da me a chiedermi: senti, Giorgio, spiegami un po´ le regole del giornalismo. E io dicevo: no, non ci sono regole, se sai scrivere, scrivi».

Repubblica 3.10.11
Se il museo è come Disneyland
Jean Clair: "Ecco perché l´arte è diventata ostaggio del mercato"
Intervista al famoso critico che nel suo ultimo saggio denuncia la deriva della cultura e la perdita di memoria collettiva


Dai capolavori trasferiti senza tenere conto del luogo per cui erano stati creati, alle opere accatastate nelle esposizioni
"Milioni di curiosi circolano nelle sale senza più essere in grado di capire quello che vedono"
"Vorrei uno spazio che restituisca agli europei il piacere di amare la nostra eredità e identità"

PARIGI. Prima ancora di apparire in Italia (dove uscirà l´8 ottobre per le Edizioni Skira), L´inverno della cultura di Jean Clair si è imposto all´attenzione pubblica, chiamando in causa il mondo della critica. La sua denunzia della deriva dell´arte contemporanea, ridotta a mero oggetto di speculazione nelle mani di pochi mercanti, non può, in effetti, lasciare indifferenti. Non solo perché viene da un critico insigne, membro dell´Académie française ma anche da uomo del mestiere, già direttore del Museo Picasso e commissario di mostre celebri come quelle monografiche consacrate a Duchamp o a Balthus, o quelle tematiche sulla "Malinconia" o su "Delitto e castigo". La riflessione di Jean Clair non si limita d´altronde ai mali che affliggono il mondo dell´arte. È, più in generale, la perdita di memoria storica di cui soffre l´Europa, e la crisi di identità che ne consegue, che è al centro delle sue preoccupazioni.
Signor Jean Clair, lei si definisce un reazionario; cosa intende dire con questo?
«Il reazionario è colui che reagisce, obbedendo in questo a una legge quasi generale. In fisica, il mondo è regolato dalla coppia azione/reazione. Nel mondo dell´arte, la vita delle forme è un susseguirsi di azioni e reazioni, il Rinascimento reagisce al gotico, il neo-classicismo al Romanticismo, ecc. Nell´antropologia freudiana, la reazione, l´anamnesi, "il ritorno indietro", è un fenomeno di difesa e di salvezza. Ma senza dubbio mai come ora si è sentita l´urgenza di questa "reazione", di questo ritorno, di questa anamnesi. La celebre formula di Marx: "i filosofi si sono limitati a interpretare in modi diversi il mondo; quel che importa è trasformarlo" è ormai superata. Ciò che oggi importa non è più cambiare il mondo ma conservarlo. Ma un simile sforzo suppone una reazione proporzionale a questo sforzo, senza dubbio smisurato, di salvaguardia. Non sono sicuro che il mondo, almeno quello occidentale moderno, sia ancora capace di provocarla, vista la nostra convinzione della ineluttabilità del progresso, della crescita indefinita, del senso della Storia e via dicendo».
Qual è il posto dell´arte in questa diagnosi?
«L´arte funge da sismografo, da rivelatore estremamente sensibile, soprattutto in quegli empori-depositi che sono i musei. Che senso ha questo accumulo prodigioso di ricchezze? A chi sono destinate e a qual fine? L´arte è sempre stata al servizio di una comunità o di una causa: favorire la caccia presso gli uomini preistorici, conciliarsi la benevolenza delle potenze infere, rappresentare la bontà di un dio, incarnare il progresso dei Lumi, annunciare, accompagnare, illustrare le utopie politiche degli anni ´30 o, infine, esaltare, come avviene oggi, l´onnipotenza dell´artista: un artista rimasto solo, senza nessuno a cui dovere rendere conto, e che gode del singolare privilegio dell´impunità quali che siano le stupidaggini o le provocazioni senza precedenti delle sue "opere". L´arte per l´arte è al servizio di chi e di che cosa? Quali Lumi e quale Universale possiamo portare noi francesi con la creazione, sotto il patronato del Louvre, di un Museo a Abou Dhabi, nelle sabbie degli Emirati? L´arte ha un senso, una funzione, una destinazione, un pubblico. Un´arte che abbia in se stessa la propria finalità è una buffonata. O, peggio ancora, l´obbiettivo cinico di un mercato di traders».
Qual è stata, a suo giudizio, la frattura irrimediabile, il punto di non ritorno da cui ha preso l´avvio la deriva dell´arte contemporanea?
«Il 1968, l´avvento di una società caratterizzata dall´efebismo e l´edonismo e in cui – a suo dire – non esiste più il male. È anche l´epoca del Women´s Lib, delle manifestazioni contro la guerra del Viet Nam. L´arte non ha più finalità, diventa, con gli happening, le azioni, le installazioni, effimera, transitoria, autodistruttiva. È il momento che Robert Klein chiamerà "L´eclissi dell´opera d´arte"».
Lei dedica pagine di grande interesse alla riproduzione perfetta delle opere d´arte raggiunta dalla tecnologia moderna, in contrasto con la celebre tesi di Walter Benjamin sulla perdita dell´"aura" in un´epoca di riproducibilità delle immagini.
«Preferisco un´opera che ritrova la sua destinazione e il suo senso, fosse anche una copia, a un´opera originale dislocata nel vacuum semantico e spirituale di un museo. Benjamin dimenticava che, assieme a quelle popolari, tutte le incisioni da Dürer a Goya, hanno permesso di inondare l´Europa di "repliche" magnifiche. Nel Settecento molte opere d´arte religiosa erano copie originali celebri, magari fatte semplicemente di cartapesta. Solo il culto della firma inimitabile, della mano impareggiabile, del genio unico - tutti fantasmi generati dal culto sfrenato dell´ego romantico - hanno potuto far credere che un´opera non poteva essere riprodotta. In compenso, la delocalizzazione delle opere senza tener conto della loro funzione, com´è avvenuto per la Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi, staccata dalla cappella d´origine per essere esposta nella scuola vicina, più adatta ad accogliere folle di visitatori, mi pare uno snaturamento. È quanto avviene oggi con le opere nei musei: il loro accatastamento mi ricorda i cabinets de curiosités, i bric à brac surrealisti, quali che siano i criteri – cronologici, tematici, di paese, di tecniche, di materiali, ecc. – in base ai quali si pretende di ordinarli».
Ne L´inverno della cultura, così come nel precedente Dialogues des morts, lei ribadisce l´esistenza di un legame imprescindibile tra l´arte e il sacro e insiste sulla necessità dell´artista di continuare ad intessere "il filo di un dialogo continuo con il trascendente", sul fatto che l´arte è "un capitale spirituale". Che significato dare oggi a queste parole?
«Tento di descrivere il passaggio dalla "cultura del culto" – quando l´arte, con la musica, la pittura, l´architettura serviva a celebrare Dio nelle cerimonie religiose – al "culto della cultura", una sorta di religione laica e repubblicana che pretende di farci vedere nell´arte la più alta realizzazione del genio umano messo al suo proprio servizio, quello che Nietzsche e i tedeschi hanno chiamato lo Selbstvergötterung, una sorta di auto-deificazione dell´uomo. Tre tappe e, a mio giudizio, tre gradini discendenti: il culto, ossia l´arte e la fede, la cultura, ossia l´arte e l´umanesimo, il culturale, ossia l´arte e il suo mercato».
Lei afferma che "non c´è mai stata cultura senza religione e che quella laica viaggia nel deserto", eppure sembra fare sua la concezione moderna del museo, nato con la Rivoluzione, dove le opere sono esposte secondo una gerarchia dettata dal divenire storico. Non era questa una espressione del tutto laica della cultura?
«Confesso il mio imbarazzo. Il museo come collezione pubblica aperta a tutti è stato creato nel 1793 nel solco della Rivoluzione. Era inizialmente un modo di salvaguardare il patrimonio della Nazione dalle degradazioni, i saccheggi, i vandalismi che accompagnano tutte le rivoluzioni. Era anche il mezzo, per il popolo vincitore, di appropriarsi del passato, della storia, dei suoi testimoni e, grazie al museo e ai suoi tesori, di diventarne in qualche modo il legittimo depositario. Il museo custodiva il patrimonio della Nazione e al tempo stesso serviva da strumento per trasmetterne a tutti la memoria, vale a dire la storia su cui fondare l´identità collettiva. Bisogna però riconoscere che, tre secoli dopo, questo ideale non è stato realizzato. Dei milioni di curiosi rumorosi e indifferenti circolano nelle sale, senza riguardo, senza rispetto per la sicurezza delle opere, ma ugualmente senza più essere in grado di capire, di leggere ciò che hanno sotto gli occhi, che è la loro storia, il loro passato, la loro fede, le loro lotte. Il museo assomiglia ormai a un parco giochi, stile Disneyland. È una cosa derisoria».
Nonostante tutto questo, lei ha espresso più volte il desiderio di potere creare un museo dell´arte europea, stigmatizzando il fallimento di quello di Bruxelles che porta questo nome.
«Sarebbe, in effetti, una grande occasione per restituire al museo, e all´arte che esso racchiude, il suo ideale e il suo significato. Penso a un museo della storia d´Europa, che non solo riunisca una serie di capolavori provenienti da tutti i musei d´Europa a testimoniare l´unicità del suo genio, ma che si sforzi soprattutto di rintracciare la storia del nostro continente, le sue origini, la cristianizzazione, le guerre di religione e quelle di conquista, le imprese coloniali, la nascita dei totalitarismi, l´antisemitismo, i campi di sterminio… Il Deutsches Museum a Berlino ha già tentato di mettere in scena museograficamente una storia della Germania vista attraverso la storia dei suoi vicini europei. È un´iniziativa coraggiosa e spesso sconvolgente. Ma bisognerebbe fare lo stesso su scala europea, perché l´Europa del passato aveva una unità intellettuale e spirituale fatta di circolazione di idee, dove gli scambi letterari, filosofici, artistici erano costanti, immediati, intensi. Ma l´Europa di Bruxelles è un mostro acefalo, un animale senza cervello. Il museo, in quanto entità materiale che espone delle opere aventi l´autorità di capolavori, una autorità che non consenta replica, potrebbe essere quella testa, quel capo superbo e generoso che ci restituirebbe il piacere di guardare, di sentire, di capire e di amare la nostra eredità».

La Stampa 3.10.11
È nel cervello la prova che l’effetto placebo funziona
Il meccanismo efficace contro dolore e infiammazioni
di Marco Accossato


46% dei medici è favorevole Un sondaggio su 600 medici rivela che quasi la metà raccomanderebbe la «terapia» dell’effetto placebo

L’ effetto placebo esiste, e vale non solo per la lotta al dolore, ma anche per combattere le malattie infiammatorie. Uno studio lungo due anni compiuto dal dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino, e pubblicato oggi su «Nature Medicine», dimostra che sia gli antidolorifici sia gli anti-infiammatori creano nel nostro cervello un’impronta. E’ quell’impronta è in grado di attivare gli stessi effetti della cura solo al pensiero di aver preso il farmaco. Anche quando il farmaco, in realtà, è una sostanza inerte, cioè nulla.
Quando un malato crede nella terapia, quando ha fiducia nel proprio medico e si aspetta - grazie a lui - un miglioramento clinico, il suo cervello rilascia endorfine (una sostanza simile alla morfina) se si tratta di contrastare il dolore, ma anche endo-cannabinoidi (simili alla cannabis presente nella marijuana) se il problema è invece un’infiammazione da combattere.
Coordinatore di questo studio destinato a riaprire il dibattito fra scienziati, e sicuramente anche un confronto fra gli scettici del placebo, è il professor Fabrizio Benedetti, docente di Fisiologia all’Università di Torino e consultant al National Institute of Health a Bethesda e alla Mind Brain Behavior Initiative della Harvard University.
Al momento non si sa, esattamente, in che cosa consista questa «impronta», né dove si accenda l’interruttore della memoria farmacologica all’interno del sistema nervoso. Ma lo studio ha dimostrato che il placebo anti-dolore, come quello anti-infiammatorio, attivano gli stessi recettori ai quali si legano i farmaci specifici, e innesca quindi la medesima procedura della terapia. Quali sostanze si attivano durante l'effetto placebo (endorfine oppure endocannabinoidi) dipende ovviamente da quali farmaci il paziente ha assunto in precedenza. Cioè dal tipo di memoria che si è creata.
Lo studio è stato compiuto sull’uomo, tra pazienti volontari. Per un certo periodo sono stati somministrati farmaci veri, ottenendo miglioramenti. Poi si è passati - ovviamente all’insaputa dei volontari - alla sostanza placebo. In tutti i casi è scattato in loro il condizionamento: la persona che ha imparato ad associare l’assunzione di una compressa con una determinata forma e un certo colore alla scomparsa di un sintomo, ottiene lo stesso beneficio anche quando all’interno della compressa - stessa forma, stesso colore - non è contenuto alcun principio attivo, ma il placebo.
Studi precedenti hanno già dimostrato che in questo effetto-memoria a livello cerebrale ha un ruolo fondamentale il rapporto con il medico: soltanto se lo specialista è in grado di convincere il paziente che il farmaco (vero) che sta assumendo lo farà stare meglio, il placebo che prenderà avrà il medesimo risultato della terapia. Cioè attivare ogni volta i recettori delle endorfine contro il dolore o degli endocannabinoidi contro le malattie infiammatorie.
Il professor Benedetti dedica da anni gran parte della propria attività di ricerca agli studi sull’effetto placebo. Quanto ha scoperto insieme ai ricercatori dell’Università di Torino è dimostrato in un arco di tempo relativamente breve. Il che è un presupposto non sufficiente per poter sostenere che lo stesso risultato vale anche a distanza di anni, per malati cronici: «Al momento non possiamo dire ai medici o agli ospedali di sostituire i farmaci con le sostanze inerti che innescano l’effetto placebo perché non c’è dimostrazione scientifica del meccanismo a distanza di anni. Sicuramente, però, possiamo dire che si può ridurre l’uso dei medicinali, alternando farmaci a placebo, soprattutto quando i farmaci possono creare importanti effetti collaterali».

Repubblica 3.10.11
L’ultima crociata contro il cesareo "Parto naturale senza dolore, si può"
L’esempio da Milano: dimezzato il ricorso alla sala operatoria
All’ospedale Buzzi sono stati ridotti al 20 per cento, la media nazionale sfiora il 40
Al via una campagna per rimettere il bambino nelle mani dell´ostetrica
di Cinzia Sasso


Il professore è appena rientrato dagli Stati Uniti, Detroit, ospite del National Institute of Child Health, chiamato a spiegare quello che gli americani si chiedono ormai come un tormento: come fare ad affrontare l´ultima emergenza del sistema sanitario, l´aumento costante del numero dei parti cesarei. È una battaglia mondiale.
Perché da trent´anni quella curva è in salita e lui, Enrico Ferrazzi, primario di patologia della gravidanza all´ospedale Buzzi di Milano è un´autorità. Insieme ai colleghi è riuscito in un´opera che ha del miracoloso: ridurre al 20 per cento, dopo una marcia che sembrava crescere in maniera infinita, la percentuale dei cesarei. Secondo l´Organizzazione Mondiale della Sanità quella percentuale non dovrebbe superare il 15 per cento; in America però nel 2010 ha raggiunto il 34 e in Italia sfiora il 40 (con la Campania che supera il 60 per cento). Il paese che ha il numero maggiore è il Brasile; il secondo al mondo è il Portogallo e subito dietro arriva l´Italia.
Numeri di un´emergenza che una campagna nazionale si ripropone di ridurre a livelli accettabili. Perché non è vero che il cesareo sia il metodo più sicuro, né che i vantaggi - la comodità di decidere il momento del parto, la mancanza di dolore - siano superiori agli handicap: si tratta comunque di un intervento chirurgico con tempi di degenza e ripresa più lenti. «Promozione della naturalità del parto», si chiama lo spot che Onda, l´Osservatorio nazionale per la salute della donna, diffonde dal suo sito. Una campagna a tappeto, che per raggiungere lo scopo parte dall´analisi delle cause. «Una volta - spiega Ferrazzi - il parto era vissuto come un evento naturale, che la famiglia allargata rendeva semplice e ovvio. Oggi la donna madre è sola, dunque impaurita, e il parto viene caricato di significati spaventosi, così che si pensa che il cesareo limiti i problemi e annulli del difficoltà». Aggiunge Francesca Merzagora, fondatrice di Onda: «Se si chiede alle donne italiane cosa vorrebbero fare, l´80 per cento risponde che vorrebbe partorire con il metodo naturale; poi però succede che la metà ricorre al cesareo e questa è una tendenza che dobbiamo invertire». Secondo un´indagine dell´Osservatorio sono soprattutto i ginecologi a suggerire il ricorso al parto chirurgico, e trovano un terreno fertilissimo. «Il fatto è che il cesareo - dice Ida Salvo, anestestista al Buzzi - viene venduto come l´acqua santa. Mentre invece la vera soluzione sarebbe introdurre in tutte le maternità il parto indolore».
Se i cesarei sono in aumento a partire dagli anni ´80, quando si assestavano al 12 per cento, gli ultimi anni registrano picchi all´insù anche a causa di nuovi fattori. Dice Mario Merialdi, direttore del dipartimento salute riproduttiva dell´Oms: «Oggi l´età della gravidanza si è spostata in avanti e spesso c´è il ricorso a terapie ormonali. A 40 anni ci sono più preoccupazioni da parte della donna e un maggior timore dei rischi da parte dei medici». Aggiunge che quello che è radicalmente cambiato, è anche la cultura: altro che Genesi («la donna partorirà con dolore»), oggi siamo meno disposti ad accettare il dolore. Ma è questo il terreno della nuova sfida: «Per ridurre il numero dei cesarei - dice Salvo - bisogna fare in modo che il dolore del parto venga trattato come tutti gli altri dolori, e che passi il messaggio che per partorire non è necessario soffrire». Il primo passo, quindi, è la diffusione dell´epidurale che però richiede la presenza di anestesisti a turno continuo e quindi non è praticabile in tutti gli ospedali (a Milano il 25 per cento delle donne ricorre all´anestesia epidurale, ma in Italia solo il 19 per cento delle maternità ne dispone). In Italia i punti nascita sono 551 e in 289 si praticano meno di 800 parti l´anno, impossibile che siano tutti attrezzati. Al Buzzi si sperimenta anche l´uso del protossido di azoto, il cosidetto "gas esilarante" e a Firenze è in corso una sperimentazione con il remifentanil, un farmaco oppioide. Tornare a rendere il parto un evento naturale è una sfida di oggi. E a Detroit il professor Ferrazzi ha raccontato che uno dei segreti del Buzzi è stato quello di rimettere mamma e bambino nelle mani delle ostetriche. Altro che sale operatorie.