mercoledì 5 ottobre 2011

l’Unità 5.10.11
Le lacrime e la lotta
di Valeria Fedeli


Sono morte delle donne a Barletta. Sono morte giovani donne. Sono morte mentre lavoravano. Sono morte giovani operaie che lavoravano senza standard di sicurezza e di legalità, senza contratto e sottopagate. Sono morte delle speranze per il futuro dell’Italia.
Sono morte giovani donne a Barletta. Sono morte mentre lavoravano senza standard di sicurezza e di legalità, senza contratto e sottopagate. Sono morte delle speranze per il futuro dell’Italia. Speranze che lottavano e faticavano per una vita decente. Erano lì, nello scantinato, sognando un futuro differente che il lutto ha bruscamente interrotto. Mi occupo di lavoro, da sindacalista, da molti anni. Non ci si abitua mai alle morti bianche, non c’è volta che le lacrime, l’indignazione, la rabbia, la tristezza non scoppino devastanti. L’esperienza, la mia e quella di chi mi ha preceduto nella lunga sfida della rappresentanza del lavoro, e del lavoro delle donne, mi ha insegnato però che lacrime, indignazione e rabbia possono e devono accompagnarsi alla voglia di reagire, all’azione, alla responsabilità. A stare in campo per il cambiamento.
Erano delle operaie tessili, le ragazze schiacciate dal crollo del palazzo a Barletta, come operaie tessili erano quelle da cui è partita la lotta del movimento sindacale femminile. Sono passati più di cento anni dal famoso incendio che a Chicago uccise lavoratrici, in sciopero, bloccate nella fabbrica chiusa dal padrone. Dopo cento anni, qui in Italia, ancora le condizioni di vita e di lavoro delle donne e a dire il vero anche degli uomini sono precarie, a rischio, spesso sotto ogni livello minimo di decenza e di legalità. Le condizioni di lavoro, inaccettabili, come quelle delle operaie morte, e le condizioni di vita, come quelle della figlia dei titolari del maglificio, scomparsa anche lei a soli 14 anni, sono drammaticamente il simbolo dell’Italia che questa classe dirigente che governa il Paese non vede, non ascolta, a cui non dedica politiche e scelte positive. A cui non viene dato rispetto, speranza, futuro. Conosco bene la realtà di vita e di lavoro di tante donne come quelle che ci hanno lasciato. Nel Sud abbiamo tanto combattuto contro queste condizioni. Un lavoro frammentato, non riconosciuto, non valorizzato. Filiere di produzione senza trasparenza e legalità, divise in tanti spezzoni, purtroppo non sempre rispettosi della legge.
Quelle lavoratrici non avevano un contratto. La loro paga, per un lavoro faticoso e difficile, era tremendamente bassa e ingiusta. Il posto di lavoro non garantiva condizioni e procedure di sicurezza. Ma che Paese siamo? E almeno questa volta la risposta non può essere la crisi. Non c’è crisi che tenga rispetto allo scenario descritto. Di lavoratrici e lavoratori che, come quelle operaie, faticano senza veder riconosciuta la loro dignità e i loro diritti, rischiano la vita lavorando ce ne sono tante, troppi. Forse si può pensare che sia stato un incidente, ma è sicuramente anche il tremendo segno di un sistema che ha troppe fragilità, incurie, irresponsabilità; e in cui pagano sempre gli stessi. Eppure siamo un Paese migliore di questo, viene da dire usando una frase retorica. Ma la retorica si spegne davanti al lutto. Qui abbiamo bisogno di un minuto di silenzio! Siamo un Paese che non funziona. Un Paese che tollera l’illegalità, o che non riesce a contrastarla efficacemente. Un Paese che non riesce a superare le differenze territoriali, con il Sud troppo spesso trattato come la terra dove tutto si può fare, in cancellazione di regole, rispetto, umanità. Un Paese che non offre possibilità ai giovani, con un atto di miopia nei confronti del proprio futuro.
Un Paese che non rispetta e non valorizza le donne, come il movimento nato il 13 febbraio ha in questi mesi portato all’attenzione di tutti.Dovremmo e vorremmo essere un Paese migliore, si. Ma non lo diventeremo senza una fortissima azione di cambiamento, senza riforme che restituiscano stabilità e giustizia al sistema, senza uno sforzo politico che rompa finalmente la stasi in cui siamo piombati. Donne e lavoro, giovani e sud. È da loro che dobbiamo ripartire, è nella forza tenuta costretta dalla fatica del sopravvivere che l’Italia può riscoprire il futuro.Sono addolorata dal pensare che, da oggi, il nostro futuro dovrà fare a meno dell’energia, dei sorrisi, dell’intelligenza, delle emozioni di cinque giovani donne. Ma l’energia che avevano deve accompagnarci, deve essere un pezzo della forza che ci serve per cambiare l’Italia. Anche per loro continueremo a lottare e a servire questo Paese.

l’Unità 5.10.11
Ricattate e senza diritti
«Non possiamo perdere quel reddito minimo»
Vito De Mario a 14 anni era operaio alla Osram, ora è segretario regionale della Filctem: «Le lavoratrici ci raccontano ma in modo riservato, senza fare nomi. C’è chi restitusce metà stipendio e chi con il part time lavora 12 ore»
di Jolanda Bufalini


Non avevamo notizia di questa impresa a conduzione familiare, poi abbiamo saputo da RAI3 che si tratta di lavoro nero. Ma cosa significhi lavoro nero non sappiamo, c’è un’indagine della magistratura. Bisognerebbe andare a fondo, perché si fa presto a dire lavoro nero. Lavoro nero è anche un contratto parttime, se lavori per 12 ore al giorno, oppure c’è chi prende la busta paga il lunedì, va in banca e il martedì porta la metà di quello che ha riscosso al datore di lavoro, altrimenti il mercoledì è messo fuori della porta. A Barletta il lavoro nero è un fenomeno molto esteso che si è accentuato negli ultimi anni soprattutto in questo settore che, noi, in gergo sindacale, chiamiamo Tac, tessile-abbigliamento-calzaturiero, in cui sono impiegate soprattutto donne. Lo sappiamo perché vengono le lavoratrici a raccontare, ma in modo riservato, senza fare nomi, perché non vogliono perdere quel minimo reddito. Noi sollecitiamo gli organi ispettivi, le sedi istituzionali, ma l’impressione è che la crisi morda moltissimo. Parliamo, per queste donne, di poche centinaia di euro mensili». «A Barletta, fino a una decina di anni fa, c’erano decine di manifatture, nei calzaturifici lavoravano 12.000 addetti. Poi le calzature non erano più vendibili, le fabbriche hanno chiuso».
Quella che abbiamo raccolto è la testimonianza di Vito De Mario, 58 anni, segretario regionale in Puglia della Filctem, la federazione italiana lavoratori chimici, tessili, energia, manifatture della Cgil. «Qui si sono salvate solo alcune aziende che producono scarpe di sicurezza oppure scarponi per sciare. Ma la scarpa tradizionale di Barletta è ormai in diretta concorrenza con paesi come la Cina. Le aziende si sono trasformate, in parte si sono buttate sulla commercializzazione, altri sono diventate piccoli centri artigianali, il lavoro si è riconvertito in queste forme subumane. La situazione di ricatto è sempre più forte, le politiche governative sappiamo quello che sono, e le donne sono quelle che pagano di più. Gli imprenditori navigano in questo ventre molle della Tac, utilizzando i contratti che sono uguali per tutto il settore, alcuni si sono specializzati nei completamenti, altri nel ritiro merci».
Eraclio, il gigante di Barletta
«Non so quali fossero le mansioni di quelle ragazze, delle operaie della maglieria, né ora vogliamo fare la parte di quelli che si impicciano dopo che è avvenuta la disgrazia. Lì ci sono state liti fra i proprietari dei palazzi, è stato rimosso un muretto e, più c’erano le vibrazioni dei macchinari. L’unica cosa certa è che lì un’attività produttiva non ci poteva stare, ci sono le aree dedicate alle attività produttive e non sono nel centro storico, in palazzi vecchi, vicini all’Eraclio, il “gigante” di Barletta.
Per capire la situazione bisogna fare il confronto fra il prima e dopo. Prima, alcuni anni fa c’era più differenza fra Monopoli e Barletta che fra Barletta e Treviso. Barletta non era Sud. Adesso è depressa. Le aziende aprono e chiudono, si trasformano e la gente si arrabatta per sbarcare il lunario, deve arrangiarsi e le donne pagano di più. Di fronte alla legge siamo tutti uguali ma non siamo tutti uguali quando si tratta di portare a casa qualcosa».
«Cosa facciamo noi sindacalisti per contrastare tutto questo? Abbiamo persone che impazziscono da mattina a sera. Non caviamo un ragno dal buco, dal punto di vista degli introiti sindacali, però ci siamo sul territorio, il nostro è un settore complicato: acqua, gas, chimica, e Tac Tessile-abbigliamento-calzaturiero. E siamo stretti fra le norme e il condizionamento che subisce la gente che viene da noi a pregare e piangere, ci racconta le cose, in modo riservato, senza fare nomi. Perché nessuno può permettersi di perdere quelle poche centinaia di euro. E le donne sono quelle che pagano di più».
Chiediamo a De Mario come è diventato sindacalista. «Faccio attività sindacale dall’età di 14 anni, lavoravo alla Osram, la fabbrica delle lampadine, ero manutentore meccanico. Poi mi sono anche laureato in Scienze politiche, ho fatto l’università serale. Sindacalista di professione lo sono dal 1981, è una vita che sto dietro a queste cose.
I liquori al bar
«Mi ricordo quando Barletta era florida, negli anni 80, abbiamo fatto tante vertenze. Allora, la mattina, vedevi uscire un fiume di persone, chi andava verso i campi e chi verso le industrie. Bastava andare al bar per accorgersi di come si stava bene, c’erano tutti i tipi di liquore. Anche da queste cose si vede la ricchezza di una zona.
La crisi è cominciata negli anni Novanta, poi è espolsa dal 2000 in poi e abbiamo iniziato a vedere gli opifici che chiudevano. Alle dismissioni, da sindacalista, ho lavorato per diversi anni».
«Oggi il tasso degli incidenti sul lavoro è alto ma sono tanti quelli che non vengono denunciati. L’Italia, dal punto di vista statistico, è il più bel paese del mondo. Solo quando scoppia una tragedia di grandi dimensioni si viene a sapere cosa è successo». «E dire che qui ci sarebbe il terreno giusto, perché la gente è molto combattiva, non è come nel sud barese dove si ha di più la testa da impiegati. Solo che anche qui la combattività si va affievolendo, le nuove generazioni non si capisce cosa vogliano. Però c’è ancora la gente che lavora, che dà un senso alla vita nel lavoro. Ma sono i più penalizzati».

l’Unità 5.10.11
L’amara verità in busta paga. Lo dice un rapporto Cnel. Il gap cresce tra le meno scolarizzate p Particolarmente elevata la penalizzazione delle impiegate in professioni non qualificate
A parità di lavoro, salari diversi fino al 18% tra uomini e donne
Una fotografia affatto consolante quella fatta dal Cnel sui livelli retributivi tra uomini e donne. Il gap a svantaggio delledonneètrail10eil20%,più forte tra le non scolarizzate. Meno evidente al Sud
di Virginia Lori


A parità di qualifica e impiego, la differenza di retribuzione tra uomini e donne in Italia si attesta tra il 10 e il 18% ed è dovuta interamente a fenomeni di discriminazione. Il dato è contenuto in una ricerca presentata al convegno della seconda commissione politiche del lavoro e sistemi produttivi del Cnel, curata da Emiliano Rustichelli (Isfol), che esamina il caso italiano e propone policy per una effettiva parità di opportunità nel mercato del lavoro.
MENO SCOLARIZZATE
Dalla ricerca, condotta su 10 mila lavoratori e lavoratrici italiane, emerge che il differenziale retributivo di genere misurato sul salario orario dei soli lavoratori dipendenti è pari in media a 7,2 punti percentuali. Il gap retributivo per le lavoratrici dipendenti risulta particolarmente elevato in alcuni ambiti: tra le donne meno scolarizzate raggiunge quasi il 20% e si mantiene oltre il 15% per chi possiede la licenza media. Ne soffrono sia le giovanissime (8,3% di penalizzazione rispetto ai coetanei) che le lavoratrici adulte (12,1%), mentre è più contenuto nella fascia di età compresa tra 30 e 39 anni (3,2%).
SUD, MENO DIFFERENZE
La forbice retributiva di genere appare meno pronunciata nel sud mentre, in termini di caratteristiche dell'occupazione, si rileva una marcata differenza di genere nelle retribuzioni medie orarie degli operai specializzati (20,6%), degli impiegati (15,6%), dei legislatori, dirigenti ed imprenditori (13,4%). Particolarmente elevata è anche la penalizzazione delle donne impiegate in professioni non qualificate rispetto ai loro omologhi di sesso maschile (17,5%).
SERVIZI FINANZIARI
In termini settoriali, si registra una forte differenza nelle retribuzioni medie orarie di uomini e donne impiegati nei servizi finanziari e quelli alle imprese (rispettivamente 22,4% e 26,1%), nell'istruzione e nella sanità (21,6%), nella manifattura (18,4%).
Per il Cnel non è più possibile «sprecare una forza lavoro qualificata e potenzialmente molto produttiva come quella femminile. Ma questo lavoro segue pubblicazioni anche recenti che hanno spiegato come in un momento come l’attuale ad essere penalizzate sono sempre le fasce sociali cosiddette più deboli, i giovani e le donne.
GENDER PAY GAP
I fattori che generano il gender pay gap sono diversi e spesso correlati: fattori culturali e stereotipi di genere favoriscono la segregazione orizzontale e verticale e divaricano il gap di partecipazione al mercato del lavoro tra uomini e donne, la mancanza di politiche di conciliazione costringe le donne a uscire dal mercato del lavoro, ne impedisce la continuità lavorativa e limita le loro opportunità di carriera. discriminazioni inaccettabili alla luce del fatto che le donne possiedono requisiti di formazione e di esperienza analoghi se non superiori a quelli degli uomini».
Ma le donne sono più sensibili al tema di avere risorse sufficienti per la vecchiaia. Stavolta secondo un'indagine realizzata per conto di Axa-Mps il 20,8% delle donne contro il 16,2% degli uomini si preoccupa della gestione della cosiddetta fase di «lunga vita». Tra le maggiori preoccupazioni le donne indicano proprio di non poter godere di una pensione dignitosa (61,6% contro il 40,6% degli uomini). Al secondo posto c'è il pensiero di non avere beni di proprietà a cui ricorrere in caso di necessità economiche: 40,2% delle donne contro 21,4% degli uomini.
In fondo questo dato è molto complementare con quelli prodotti dal Cnel.

il Fatto 5.10.11
Giulio Anselmi. La classe politica non vuole giornali che mordono
“Siamo ai saldi di fine regime”
di Silvia Truzzi


 Il bavaglio è tornato, proprio in coincidenza con gli affari giudiziari del premier. Guarda un po'. Giulio Anselmi – presidente dell'Ansa, già direttore della Stampa e dell'Espresso – spiega così il suo disagio di giornalista: “È il momento di dare segnali forti. Noi che facciamo informazione non possiamo che essere ostili a un bavaglio. Perché il nostro mestiere è l'approssimazione massima a ciò che davvero è avvenuto. Tutto ciò che ostacola un onesto racconto della cronaca non può essere accettato”.
 La novità di oggi è l'udienza filtro, prima della quale non si possono pubblicare le intercettazioni.
 C'è un aspetto molto negativo: aspettare fino all'udienza filtro è un bavaglio a tempo . Un tipo di mediazione di cui non mi sfuggono le ragioni politiche. E questo non va per niente bene. Ma l'udienza in sé, che definisce la rilevanza delle intercettazioni con l'intervento dei magistrati e delle parti, non è negativa. Abbiamo detto spesso che molte intercettazioni pubblicate sono state una carognata voyeuristica. Michele Vietti, vicepresidente del Csm, ha detto – a ragione – che chi non c'entra ha diritto alla tutela della propria reputazione.
 Cosa pensa dell'idea di pubblicare solo le intercettazioni che hanno rilievo penale?
 Non è sensato. Una notizia può essere rilevante anche da un punto di vista sociale o politico non solo del diritto penale. Soprattutto per il caso di protagonisti pubblici. Quando si enfatizza la riservatezza dei cittadini, non bisogna dimenticare che per i politici vale molto meno. Hanno privacy molto più ristrette. Voglio dire: io ho diritto a che le notizie sulla mia salute siano riservate. Ma uno che si candida a fare il premier no: perché è d'interesse pubblico sapere se è gravemente malato o se matto.
 C'è una questione d'opportunità: la legge sulle intercettazioni viene riproposta quando c'è un'emergenza personale del premier.
 È un blitz dettato dalla paura.
 Di cosa?
 Di finire in carcere o di trovarsi una condanna che impedisca – penso alla prescrizione breve – la prosecuzione della carriera politica. Sono i saldi di fine regime: viviamo in una stagione in cui stanno capitando grandi cose che nei fatti mutano il nostro profilo costituzionale.
 A cosa si riferisce?
 Per esempio a un presidente della Repubblica costretto, ob torto collo, a funzioni di supplenza, da Repubblica presidenziale. Poi penso agli indignados, nelle loro molteplici manifestazioni, sempre più numerosi. Penso a quanti hanno firmato, in pochissimo tempo, per il referendum anti-Porcellum. E poi c'è la crisi economica: basta un mezzo punto di rialzo dei mercati o un piccolo segno positivo da parte dell'Europa e già la si dimentica.
 Ai cittadini che devono fronteggiare difficoltà finanziarie importa qualcosa del processo lungo o delle intercettazioni?
 Evidentemente no: la gente deve fare i conti con i soldi che mancano e con gli umori di una situazione generale di disfacimento.
 È la metafora di un Paese bloccato?
 Che siamo in un momento di stasi non c'è dubbio: non si riesce nemmeno a nominare il governatore di Bankitalia, malgrado il fatto che siamo sostanzialmente sotto tutela del resto dell'Europa. Un altro sintomo sono questi ultimi tentativi di difesa estrema della classe politica. Chi è ancora al potere è abbarbicato alla propria poltrona, incurante di un rumore di fondo che dovrebbe essere ascoltato.
 Cos'è cambiato da quando Berlusconi – parlando di lei e di Mieli, allora direttore del Corriere – nel 2008 disse: “Certi direttori dovrebbero cambiare mestiere”?
 In quel momento Berlusconi aveva appena vinto le elezioni e nel mondo dell'informazione un sacco di gente stava aspettando solo un ordine del Cavaliere a cui obbedire. E nell'establishment, non solo politico, erano in tanti quelli che avrebbero fatto qualunque cosa lui avesse fatto anche solo capire di volere. Checché ne dicano ora gli imprenditori. Adesso il clima è diverso e gli industriali sono prontissimi a mollare il cavallo azzoppato.
 Il bavaglio fa comodo anche al centrosinistra? Ora il Pd deve affrontare lo
 scandalo Penati.
 Ma è chiaro: non dimentichiamo che il ddl Mastella, musa degli attuali provvedimenti, fu approvato da una larga maggioranza in pieno governo Prodi. E se ci ritroviamo questa legge elettorale dobbiamo ringraziare tutti i partiti. Anche avere giornali che non mordono piace tantissimo alla classe politica. Tutta.
 Ci sarà un sussulto d'orgoglio da parte del mondo dell'informazione come un anno fa?
 Il mondo dell'informazione ha un apparato digerente capace di far passare anche le pietre. Per alcuni, pochi, che intervengono ce ne sono altri molto disposti al silenzio. Eppure la legge bavaglio mette in discussione la stessa ragion d'essere del nostro lavoro.
 Siamo una democrazia in sedicesimi?
 Siamo una democrazia sotto tiro e un Paese dove c'è un forte ottundimento morale. Ma non ancora una democrazia diminuita.
 Lei gira molto e incontra colleghi e diplomatici stranieri. Si vergogna un po' di essere italiano in questo momento?
 No, non mi vergogno: molti interlocutori di altri Paesi hanno le loro ragioni di autoanalisi. Ma sono molto infastidito, soprattutto per il contesto farsesco, un'atmosfera di mediocre corruzione da basso impero. Ormai dappertutto anche i taxisti ti fanno domande.
 E cosa le chiedono?
 Perché accettiamo di vivere in un Paese come questo. E poi l'eterno interrogativo su Berlusconi: perché gli italiani lo accettano.
 Lei cosa risponde?
 Faccio lunghi discorsi. Ma ricordo sempre che Berlusconi è stato eletto e che molti italiani, fino a pochi mesi fa, si riconoscevano in lui.
 Non è più così?
 Questo è un Paese che non ama quelli che non hanno i piedi fermi. Non ho un termometro. Ma non c'è dubbio che il favore per lui non è quello di un anno fa.

l’Unità 5.10.11
Wikipedia chiude per protesta: «Il ddl limita la libertà»


Wikipedia si autosospende per protesta contro il ddl intercettazioni. Il sito di enciclopedia libera in qualunque pagina si apre con il comunicato in cui spiega le ragioni del dissenso: «Con le norme del ddl intercettazioni non esisteremo più. Sarebbe un'inaccettabile limitazione della propria libertà e indipendenza». L’allarme di una possibile chiusura è stato lanciato ieri sin dalla pagina d'apertura del sito in lingua italiana. Sotto la firma «Gli Utenti di Wikipedia» si spiega che il rischio è «di non poter più continuare a fornire quel servizio che nel corso degli anni ti è stato utile e che adesso, come al solito, stavi cercando». «Con questo comunicato vogliamo mettere in guardia i lettori dai rischi che discendono dal lasciare all'arbitrio dei singoli la tutela della propria immagine e del proprio decoro invadendo la sfera di legittimi interessi altrui. In tali condizioni, gli utenti della Rete sarebbero indotti a smettere di occuparsi di determinati argomenti o personaggi, anche solo per 'non avere problemi’. Vogliamo poter continuare a mantenere un'enciclopedia libera e aperta a tutti». Il ddl, spiega Wikipedia, «prevede, tra le altre cose, anche l'obbligo per tutti i siti web di pubblicare, entro 48 ore dalla richiesta e senza alcun commento, una rettifica su qualsiasi contenuto che il richiedente giudichi lesivo della propria immagine. L'obbligo di pubblicare fra i nostri contenuti le smentite senza poter addirittura entrare nel merito delle stesse e a prescindere da qualsiasi verifica, costituisce per Wikipedia una inaccettabile limitazione della propria libertà e indipendenza: tale limitazione snatura i principi alla base dell'Enciclopedia libera e pone di fatto fine alla sua esistenza come l'abbiamo conosciuta fino a oggi».

il Fatto 5.10.11
Wikipedia anti-bavaglio
L’enciclopedia online in sciopero Boccassini: intercettazioni usate male
di Sara Nicoli


 “Iin queste ore Wikipedia in lingua italiana rischia di non poter più continuare a fornire quel servizio che nel corso degli anni ti è stato utile e che adesso, come al solito, stavi cercando”. Da ieri sera chi è andato su Wikipedia per cercare o verificare un’informazione, si è trovato la strada sbarrata. E un avviso: “La pagina che volevi leggere esiste ed è solo nascosta, ma c'è il rischio che fra poco si sia costretti a cancellarla davvero”. Perché “i pilastri di questo progetto — neutralità, libertà e verificabilità dei suoi contenuti — rischiano di essere fortemente compromessi dal comma 29 del ddl intercettazioni”, che prevede anche l'obbligo per tutti i siti web di pubblicare, entro 48 ore dalla richiesta e senza alcun commento, una rettifica su qualsiasi contenuto che il richiedente giudichi lesivo della propria immagine. Una presa di posizione fortissima da parte dell’enciclopedia libera che ormai da 10 anni costituisce un caposaldo del web mondiale (in Italia è il portale più visto).
 IL MONDO protesta, ma il governo va avanti: ieri Enrico Costa, capogruppo pidiellino in commissione Giustizia della Camera, su pressione di Ghedini, Longo e Alfano, ha sguainato un emendamento al ddl intercettazioni che da solo rappresenta il cuore di ciò a cui mira Berlusconi (ma non solo lui); gli ascolti non potranno essere pubblicati mai, neppure per riassunto, fino all'udienza filtro, quando le parti decideranno cosa si potrà dare in pasto alla stampa e cosa no. E laddove sussista un'ordinanza di custodia cautelare con intercettazioni a giustificazione della richiesta del magistrato, ecco in quel caso si potrà solo scrivere che nel fascicolo ci sono, ma non il contenuto. E sarà pure vero quello che ha detto ieri Ilda Boccassini - “c'è stato un cattivo uso delle intercettazioni telefoniche da parte della magistratura, ovvero da parte degli uffici del pubblico ministero a livello nazionale” - ma questo articolato corrisponde a far calare del tutto il sipario sulla rivelazione delle indagini giudiziarie. Più che di un bavaglio si tratta di una vera e propria censura che sarà operata dai giudici a discapito della libertà di stampa, questione che ha fatto infuriare Giulia Bongiorno, la presidente della commissione Giustizia della Camera. Da quasi un anno l'avvocato finiano ha svolto una mediazione con Alfano che ha prodotto il testo uscito dalla commissione, dove la pubblicazione degli atti e degli ascolti veniva vietata fino alla fine delle indagini preliminari. Ieri, come puntualmente annunciato, il Pdl ha dato l’ulteriore stretta e la Bongiorno ha detto no, minacciando di “dimettersi” da relatore della legge. Ma ci sono margini per evitare – almeno – di peggiorare il ddl ora in aula alla Camera? Pochi. Anzi, praticamente nessuno. Si parla di una modifica proprio al comma 29, ma il resto pare destinato a proseguire nel segno della fretta. Taglia corto, infatti, il leghista Marco Reguzzoni: “È meglio una legge buona subito, che non una ottima non si sa quando”. Anche ieri Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, assicurava che il voto finale potrebbe arrivare venerdì o, al massimo martedì, sempreché le opposizioni “collaborino”, altrimenti il governo metterà la fiducia. I centristi ieri hanno provato a scongiurare in ogni modo questa eventualità mostrando un ramo d'ulivo alla maggioranza: noi ritiriamo la nostra pregiudiziale di costituzionalità a patto che vengano meno le chiusure, ma non tira aria d'armistizio. Anzi.
 L'IDV ha annunciato barricate, Bersani pure, così come Franceschini che però quando poi gli si chiede quali saranno davvero le azioni che le opposizioni metteranno in campo, la rassegnazione prende il sopravvento: “Bè, certo tenteremo l'ostruzionismo anche se sarà difficile chiamarlo ostruzionismo visti i tempi contingentati, ma di certo faremo tutta l'azione di contrasto parlamentare, useremo tutte le virgole concesse dal regolamento". Figurarsi se basterà. Oggi si voteranno le pregiudiziali di costituzionalità (non ne passerà nessuna) e quindi si andrà al voto degli emendamenti, ma nella maggioranza c'è sempre più voglia di non perdere altro tempo, così come faranno al Senato con la prescrizione breve. Possibile approvazione prevista per la fine di ottobre, quindi un rapido passaggio alla Camera e fine.

il Fatto 5.10.11
Quel giorno che Veltroni ci disse di sì solo per “fregare” D’Alema
Diario di un referendum corsaro contro le ambiguità dei partiti
di Andrea Morrone,
il Presidente del Comitato per il referendum

Napoli, pomeriggio del 13 giugno, squilla il mio telefono: “Andrea, sono Mario Segni, è arrivato il momento di un referendum elettorale, ora che il quorum sull'acqua, il nucleare, il legittimo impedimento è stato raggiunto...”.
 I due quesiti scritti sul treno per Bologna
 LA STRADA era obbligata: dopo la clamorosa sconfitta nel 2009 del “referendum elettorale Guzzetta”, l'unica possibilità era confezionare un referendum che abrogasse la “legge porcata” per ripristinare il Mattarellum. In treno per Bologna preparo due quesiti, uno per l'abrogazione totale, l'altro per l'abrogazione parziale del Porcellum. Il primo riprende un'idea di Pierluigi Castagnetti, l'altro una proposta formulata da Massimo Luciani. Ne discuto con altri costituzionalisti e con Peppino Calderisi: nonostante qualche dubbio, siamo convinti che i quesiti potranno superare il giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale. Mostrano interesse subito Veltroni, Morando, Castagnetti e altri del Pd: così ci vediamo a Roma per parlarne. C’è anche Arturo Parisi. Tutti, tranne Parisi e Mario Barbi, danno a intendere che il sostegno è funzionale soprattutto per contrastare l'altro referendum elettorale. Quello per il ritorno alla proporzionale, proposto da Stefano Passigli, incoraggiato, come si dice, da Massimo D'Alema e dallo stesso Segretario del Pd, e che ha già avuto il supporto organizzativo della Cgil.
 La spaccatura del Pd: con noi o con Passigli
 LA STRADA per noi è in salita, non solo per i tempi sempre più stretti (siamo già a fine giugno e entro il 30 settembre occorre depositare 500.000 firme), ma soprattutto perché siprofilaunconflittointernoal Pd, che rischia di travolgerci. Antonio Di Pietro dice di esser-ci se c’è il Pd: ma ormai scegliere tra il “referendum Morrone” e il “referendum Passigli” pare impossibile, senza spaccare il partito di Bersani. Il dilemma viene superato col voto bulgaro della direzione del Pd del 19 luglio: vince la linea del segretario di puntare solo sulla via parlamentare, su una improbabile calendarizzazione di una proposta di riforma elettorale (il modello magiaro), che non ha, però, una credibile possibilità di essere approvata. Parisi ed io non abbiamo mai condiviso questo aut aut, tra referendum e soluzione parlamentare. Mentre Passigli abbandona (ma poi riparte, e dopo riabbandona), Parisi io e pochi altri, tra quelli che l'11 luglio in Cassazione avevano presentato i quesiti per il Mattarellum, decidiamo di andare avanti comunque.
 La sfida agostana del Comitato dei sei
 IL 3 AGOSTO nasce il “Comitato dei Sei” (Idv, Sel, l'Asinello, Segni, Pli, Unione popolare). È stato grazie ad una felice intuizione di Arturo Parisi se siamo riusciti anche a avviare il motore. Per convincere fino in fondo i “Sei”, Parisi propone di passare dal “se” partire a “come” farlo. L'obiettivo delle 500.000 firme in poco meno di due mesi, impossibile da raggiungere per chiunque, diventa forse possibile se ciascun gruppo si impegna direttamente su una quota ragionevole di sottoscrizioni. Non potendo organizzare comitati locali, questa è l’unica strada praticabile. Ma è quella vincente, insieme alla scelta di puntare sulla raccolta attraverso i comuni, cheallafinegarantirannoquasi 200.000 firme. Il resto è solo cronaca di un’avventura fatta da pochi “corsari”, come subito ci siamo definiti. Nella calda estate romana, insieme a Gabriele de Giorgi, Mario Barbi, Lucandrea Massaro, Fausto Recchia, e poi gli altri ragazzi che hanno lavorato al nostro fianco con passione, abbiamo messo in piedi una rudimentale ma efficiente macchina da guerra: per gestire la spedizione dei moduli (ne abbiamo mandati180.000perpoterraccogliere quasi 4 milioni di firme), creare la rete dei contatti nei territori, organizzare la raccolta delle firme e il rientro dei moduli. Il tutto nel silenzio della grande informazione, ma col sostegno coraggioso de Il Fatto, Il Tempo e Europa.
 50mila firme al giorno per 20 giorni
 “SI PUÒ FARE” , ci dicevamo ogni sera a Santi Apostoli: la nostra è l’unica concreta proposta per cancellare il Porcellum in questa legislatura e per ridare lo scettro ai cittadini. La risposta straordinaria della gente ci ha decisamente travolto. Risultato: 40-50mila firme in media al giorno per 20 giorni. Poi, come sempre, sono arrivati gli altri, chi con convinzione, chi per tattica, chi con ambigua protervia. Su nostra richiesta siamo stati ospitati alle Feste democratiche ma, nonostante i banchetti del Pd, nonabbiamoavvertitoilcalore di una genuina accoglienza. Il 30 settembre si e' realizzato un miracolo popolare: oltre 1 milione e 200mila firme depositate; ma molte di più sarebbero state, se avessimo avuto qualche giorno ancora per aprire i pacchi postali che sono continuati ad arrivare nella sede del Comitato. Un record assoluto. Una vittoria dei cittadini. Non solo per dire “No” alla peggiore legge elettorale della Repubblica, ma per chiedere a questa classe dirigente di tornare tra la gente, per ridare dignità alla politica e al nostro Parlamento.

La Stampa 5.10.11
“Primarie subito entro gennaio” Mossa di Vendola e Di Pietro
Ma Bertinotti torna barricadero e riprende a evocare «l’aria di rivolta»
Ma il Pd resiste. Fioroni e i veltroniani: presto per un’alleanza solo a sinistra
di Fabio Martini


Sul Pd, di nuovo alle prese con le sue inquietudini interiori, sta per avvicinarsi una nuvola sinora rimasta all’orizzonte: la richiesta di farle per davvero le Primarie per Palazzo Chigi. Da anni le evocatissime primarie sono l’araba fenice del centrosinistra: Nichi Vendola le invoca ogni volta che può, Antonio Di Pietro ripete che si dovrebbero fare, ma il leader del Pd Pier Luigi Bersani ha risposto a tutti che, sì, gli elettori potranno dir la loro, ma prima bisognerà pensare al programma. Come? Quando? Nessun lo sa, anche perché nessuno sinora ha proposto di mettere un punto all’alato dibattito. Ma fra qualche giorno potrebbe determinarsi una svolta, o quantomeno una scossa. Dice Gennaro Migliore, del gruppo di comando della vendoliana Sel: «A questo punto, la cosa migliore è decidere di farle le Primarie e di farle entro gennaio». E infatti sabato si riunirà il vertice di Sel e la rituale, generica richiesta di Vendola sarà per la prima volta corroborata da un vincolo temporale: facciamole il più presto possibile. E d’altra parte, venti giorni fa, con una dichiarazione confusa con tante altre di routine, Antonio Di Pietro ha annunciato che pure lui sarà della partita: «Mi candido alle Primarie!».
In parole povere gli unici due alleati certi del Pd - Sel e Idv - si preparano a “stringere” Bersani con una offensiva che lo costringa o a cedere, oppure, cosa più probabile, a caricarsi della responsabilità di un «no». Chiosa Arturo Parisi, in questi mesi protagonista di colloqui privati e pubbliche battaglie con Vendola e Di Pietro: «Non mi sorprende che Sel e Idv abbiano deciso di intensificare l’offensiva sul fronte delle Primarie, evidentemente hanno capito che una collaborazione “coordinata e continuativa” col Pd non può mai tenersi su un piano di subalternità». Ma quello di Vendola e Di Pietro è un piccolo, significativo scatto perché sinora si erano limitati entrambi ad una invocazione generica, come aveva fatto ancora quattro giorni fa il leader di Sel da piazza Navona: «Caro compagno Bersani...».
Ma al Pd continuano a far orecchie da mercante. Nella maggioranza bersaniana ma anche nella minoranza. Dice Beppe Fioroni: «Ma davvero possiamo pensare che il Pd si faccia promotore di Primarie di coalizione, mentre c’è ancora aperta la possibilità di una intesa con il cosiddetto Terzo polo? Sarebbe un’offesa all’intelligenza». Dice il veltroniano Stefano Ceccanti: «L’offensiva di Vendola la capisco ma credo non sarà difficile resistere: in questo momento nel Pd nessuno è intenzionato a rinchiudersi in un’alleanza soltanto di sinistra».
Ragionamenti pragmatici che si intrecciano con una curiosa nemesi: il Pd non soltanto ha promosso primarie di coalizione ovunque (da Torino a Napoli, da Milano a Bologna), ma proprio in queste ore si moltiplicano i pronunciamenti pro-Primarie ai livelli più diversi. Massimo D’Alema, proprio ieri, alla presentazione della rivista “Next Left”, a Bruxelles, ha proposto «l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea, con ogni partito che presenta un candidato, scelto anche tramite delle Primarie europee». E per quanto riguarda la presidenza dell’Anci, davanti alle candidature congiunte di Graziano Del Rio, sindaco di Reggio Emilia, cattolico e di Michele Emiliano, sindaco di Bari, oggi i delegati Pd potrebbero scegliere attraverso una sorta di elezione primaria.
Ma proprio mentre si accinge all’affondo sulle Primarie, Nichi Vendola deve prendere atto della rottura politica promossa da Fausto Bertinotti. L’ex presidente della Camera - dopo aver considerato negativamente l’opzione referendaria pro-Mattarellum di Sel - in un articolo scritto per “Alternative per il socialismo”, propone un’analisi molto più radicale di quelle da lui stesso suggerite in anni recenti: «Nessun riformismo, né borghese né di sinistra è capace di diventare soggetto politico consistente» nella attuale crisi del capitalismo e dunque in questo frangente «la politica non ha alcuna autonomia», «è costretta in un recinto». E dunque, è meglio accompagnare i movimenti che respirano l’aria della rivolta». Come dire: guai ad impegnarsi in una coalizione che punta a governare.

il Riformista 5.10.11
«C’è un attacco contro Pier Luigi»
I Bersani boys pensano alla corrente
«Non è detto che il segretario sia il candidato premier, anche se si vota nel 2012», dice Genti- loni. I fedelissimi del leader studiano le contromosse. PranzoVeltroni-Franceschini. Benigni lancia Renzi
di Tommaso Labate

qui
 

il Fatto 5.10.11
Società civile e razza padrona
di Paolo Flores d’Arcais


Tutti ormai invocano la “società civile”, toccasana contro Berlusconi e contro la Casta. Cerchiamo allora di non barare. Perché, se per “società civile” finiamo per intendere anche un qualsiasi imprenditore nababbo che ancora non sia diventato un politico a tutti gli effetti, il prototipo della “società civile” diventerebbe proprio Berlusconi fino al giorno prima di “scendere in campo”.
 Non scherziamo, perciò. E non permettiamo che, una volta di più, il significato delle parole venga corrotto nel loro contrario. Montezemolo, Della Valle, Marcegaglia, e i tanti altri che si candideranno alla fase gattopardesca del dopo Berlusconi, con la società civile non c’entrano un prospero. Sono l’establishment, che con la società civile ha la stessa affinità degli invitati al ballo di prima classe del Titanic rispetto agli “ospiti” ammassati nella terza.
 Ovviamente si possono inanellare dotte citazioni, da Adamo Smith a Hegel allo stesso vecchio Marx, per ricordare come in economia, sociologia, filosofia, “società civile” volesse dire, agli esordi, l’insieme contraddittorio e conflittuale della società borghese in contrapposizione al potere politico tradizionale prima o al cielo della rappresentanza “astratta” poi. Ma quando parliamo di “ società civile” oggi, nel senso delle lotte che almeno da dieci anni si auto-organizzano in Italia contro il regime, in polemica anche con gli acquiescenti partiti di opposizione, stiamo parlando di qualcosa di preciso e riconoscibile: una anti-politica che in realtà vuole innovare radicalmente la politica, riportarla ad avere una dignità che ha conosciuto solo in alcuni momenti storici cruciali (la Resistenza antifascista, in modo specialissimo), proprio perché è anti-establishment, proprio perché considera gattopardesca iattura il berlusconismo senza Berlusconi per il quale si vanno ora spendendo Confindustria e Chiesa (dopo che per quasi vent’anni hanno sostenuto - perinde ac cadaver - le aspirazioni totalitarie del barzellettiere di Arcore).
 DEL RESTO, se davvero rappresentassero quanto di “civile” residua ancora nella società italiana, questi convertiti dell’antiberlusconismo in zona cesarini proporrebbero almeno, come abc di inderogabile discontinuità con le macerie cui Berlusconi ha ridotto il paese, l’abrogazione di tutte le leggi ad personam (vere e proprie leggi-vergogna e leggi-canaglia), e della controriforma-Gelmini, e dei condoni di grassazione, e delle depenalizzazioni di fatto dei falsi in bilancio, dell’evasione e di mille altre porcate del regime. Di cui sono corresponsabili o meglio (per essere più onesti con le parole) omertosi complici. Gli “imprenditori” in Italia in realtà sono sempre stati, tranne eccezioni che ogni volta si contano sulle dita di una mano, “Razza padrona”, una metafora che purtroppo si è persa e che sarebbe opportuno rimettere in auge, perché altrettanto rigorosa di “Casta” per i cacicchi dei partiti. Privatizzare i profitti e statalizzare le perdite, grazie al vizioso e vischioso intreccio con il Palazzo e le corruzioni e illegalità della stanza dei bottoni: questa è stata la stella polare dei nostri ridicoli “capitani coraggiosi”, pronti a delocalizzare un “made in Italy” che è tale ormai solo sulle etichette, e a “risparmiare” sulla sicurezza senza patemi d’animo per gli inevitabili “omicidi bianchi”. Al punto di stracciarsi le vesti nell’assemblea di Confindustria, se alla fine un tribunale li considera per quello che sono, omicidi tout court, e per la prima volta fa giustizia mandando in galera (caso Thyssen) il padrone e i suoi scherani.
 Vorrei essere certo anche io, come sembrano essere tutti, che questi siano gli ultimi giorni politici di Berlusconi. A parte il fatto che lo saranno davvero solo quando coincideranno con i primi della galera (altrimenti vorrebbe dire che il regime si è garantito una eterna impunità), temo che l’uscita da Palazzo Chigi del puttaniere idraulicamente artefatto si ridurrà a poco più di un giro di valzer (ho detto valzer, non Walter), se come rappresentanti della “società civile” verranno spacciati imprenditori ammanicati, o un seminario a Todi, officiante il cardinal Bagnasco, deciderà se alla Chiesa dello Ior e del no-Ici convenga di più Casini o Passera.
 IL REGIME di Berlusconi non è stato solo il paradiso per le cricche e le mafie, l’eden per i lacchè in posa da giornalisti, lo giulebbe per i grandi evasori e per i corrotti di ogni appalto, il grembo materno per le P3, P4 …Pn con relativi magistrati e carabinieri e finanzieri spergiuri, è stato anche lo strumento per la più disgustosa esplosione di diseguaglianza dell’Italia da quasi un secolo (neppure durante il fascismo si è accresciuta con tali ritmi). Valletta guadagnava 20 volte lo stipendio di un operaio Fiat, Marchionne 435 senza le stock option, e la spudorata esibizione di lusso di infiniti “nullatenenti” può essere verificata dagli orrori cafonal-milionari quotidianamente documentati da Pizzi su Dagospia, o in ogni porticciolo e perfino parcheggio auto sotto casa. Tutto questo mentre non arrivare alla quarta settimana riguarda ormai milioni (a due cifre) di cittadini. Purtroppo, la società civile vera, che da anni scende in piazza e lotta, rischia una volta di più di aver scosso l’albero, con passione, tenacia, sacrificio, perché ad appropriarsi dei frutti sia poi qualcuno che su quell’albero aveva gozzovigliato da parassita. Oggi il dopo-Berlusconi sembra essere “cosa loro”, faccenda che l’ancient regime intende regolare al suo interno tra nascente “partito dei padroni” e sempiterno clero. Sarebbe il caso che anche il “terzo stato”, la società civile delle lotte, avanzi le proprie candidature e si organizzi.

Repubblica 5.10.11
Bocciati in calo, bufera sui dati nascosti "Gelmini scorretta, si deve dimettere"
Nel mirino l´ex portavoce Zennaro, autore della gaffe sui neutrini
La difesa del ministero: i nostri dati si basavano su una proiezione parziale
di Corrado Zunino


ROMA - Sono nel bunker, asserragliati dentro le larghe stanze del Palazzo della Minerva in viale Trastevere. L´inchiesta di "Repubblica" sui quattro anni di "dati oscurati" dal ministero dell´Istruzione, sulle due stagioni di errori plateali nella comunicazione degli scrutini di fine anno, sul sospetto che quegli errori fossero forzature per non rivelare che la linea «bocciare con severità per formare la futura classe dirigente» era saltata, hanno soffiato nuove nevrosi nello staff di Mariastella Gelmini. Ieri mattina uno stanco Massimo Zennaro, reduce dal siluramento dal ruolo di portavoce per la supergaffe del tunnel dei neutrini, diceva: «Figuriamoci se tarocchiamo i dati». Poi, però, deviava il telefono ai collaboratori e in serata inviava sei uscieri a bloccare ogni ingresso al ministero.
Dal 2008 a oggi i dati dei bocciati alle medie superiori sono in calo costante: erano il 13,8 per cento, oggi sono l´11,9. Basterebbe questo percorso a rendere plateale una sconfitta politica: i docenti non hanno tenuto in considerazione le esplicite indicazioni del ministro. Il problema successivo, e più grave, è che per quattro anni la Gelmini non ha reso pubblici i numeri ufficiali e in due occasioni - settembre 2008 e giugno 2010 - ha infilato negli stringati comunicati stampa cifre sbagliate. Il timore, adesso, è che fossero false.
Ecco, i "comunicati stampa", perno della comunicazione seriale del ministero, affidati al padovano Zennaro. Diversi fonti indicano in lui, suggeritore che resta alla Direzione generale studenti, lo stratega della "comunicazione artificiosa". E l´ultima perla uscita dal bunker, questa tutta dedicata alla questione "bocciati", fa crescere i sospetti. Dice: «In merito alla ricostruzione fornita da "La Repubblica" il Miur precisa che i dati contenuti nel comunicato del ministero del 12 giugno 2010 si riferiscono a una proiezione parziale relativa agli scrutini trasmessi da circa 200 scuole di sei regioni. L´equivoco nasce dal mettere a confronto il dato complessivo dei non ammessi contenuto nel comunicato del 2009 (13,6%), con l´11,7%, dato parziale relativo ai non ammessi nelle stesse 200 scuole di riferimento». I dati sono "parziali", abbondano i "circa", ma non si dice nulla sulla flessione dei bocciati né si offrono le cifre ufficiali, debitamente spiegate. In una seconda nota si specifica, poi, che per legge il ministero deve comunicare solo all´Istat e ad oggi all´Istituto statistica sono stati girati i dati degli scrutini fino al 2008-2009.
Il Pd, per voce di Manuela Ghizzoni, attacca: «Bisogna revocare a Massimo Zennaro l´incarico da direttore generale. Non ha i titoli, è incorso nella gaffe del tunnel dei neutrini e ora viene indicato come il responsabile della scelta di oscurare gli esiti degli esami». L´Unione degli studenti punta in alto: «Il 7 ottobre andremo in piazza per chiedere le dimissioni della Gelmini. Ha presentato i numeri riguardanti le bocciature in modo da far apparire valida la sua linea dura, ma era solo propaganda sulle spalle di studenti che vivevano il trauma della bocciatura. Questo ministro è capace solo di mentire».
Da tre anni non esce più, a cura del Miur, "La scuola in cifre" e in una risposta a un´interrogazione nel giugno 2010 il sottosegretario all´Istruzione Giuseppe Pizza evidenziò che i dati ministeriali solo in rare occasioni, e su volontà del ministro, vengono diffusi. Osvaldo Roman, ufficio legislativo del Pd, segnala che anche la cifra delle classi a tempo pieno - 30,5 per cento, in aumento secondo il ministero - è scorretta perché fa rientrare in questa voce anche ciò che in realtà è solo tempo lungo. Il Partito democratico chiede all´Istat di «rendere nota tutta la documentazione scolastica in suo possesso».

l’Unità 5.10.11
Populismo e destra per Gramsci
di Bruno Gravagnuolo


Uno dei luoghi comuni del moderatismo neoliberale, è la negazione della distinzione destra/sinistra: «oltre la sinistra, oltre i partiti, oltre le classi...». Ritornello ben noto, e fischiettato non di rado anche...a sinistra. Tra le fonti di questo ritornello c’è stato un «certo» De Felice, e soprattutto il «defelicianesimo», ovvero gli epigoni. E cioè, semplificando: il fascismo? Era di sinistra! A motivo del suo populismo proletario. Il partito di massa? Fascista! E il Pci non ne fu che l’erede. Il welfare italiano? Fascista! Un’invenzione statalista da New Deal in camicia nera..., e via all’infinito. Svaniscono così confini, distinzioni e morfologie concrete: economia, rapporti di dominio, conflitti reali. Un esempio fra gli altri, ultimo in ordine di tempo? Il modo in cui Francesco Perfetti, defeliciano ultrà, recensisce, sul Giornale del 30-9, La lotta politica in Italia. Piccola Bibbia del nazionalismo italiano post-risorgimentale di Alfredo Oriani, autore lanciato da Prezzolini e Missiroli e poi tenuto in gran conto, oltre che da Croce, dallo stesso Mussolini. Secondo Perfetti Oriani piaceva anche a Gramsci, in quanto grande autore «nazional-popolare». Sicché Oriani racchiudeva destra e sinistra e in lui convissero destra storica e sinistra risorgimentale. Fine dei giochi. E fine di destra e sinistra, di fascismo e antifascismo e quant’altro. Sbagliato. Perché per Gramsci Oriani era il retore di una «storia feticistica», basata su «eventi e personaggi astratti». Il cantore di uno stato-nazione di potenza, intravisto nel passato mitologico «come il pollo nell’uovo fecondato»! Insomma per Gramsci Oriani era il titanello populista di un’Italia nazionalista e un po’ stracciona. Illusione di efficace presa, che il fascismo prese a prestito nel segno di una fittizia unità tra popolo e capi. Gramsci? Non la beveva, altro che minestroni destra-sinistra. Leggere per credere.

l’Unità 5.10.11
Berlusconi esiste o no? Dipende dall’ermeneutica
Filosofia Vattimo, pensiero debole, e Ferraris, new realism, cercano di spiegare cosa succede a Roma partendo da posizioni radicalmente opposte. Ma entrambi si «dimenticano» dell’importanza della dialettica
di Mico Capasso


L’«impasse». I fatti, per sé soli, non dirimono nulla, anzi a volte celano la verità

Le vie di mezzo sono le uniche che non portano a Roma», scriveva Schönberg, celebre compositore, teorico della dodecafonia e della dissonanza. D’altra parte, la fecondità di un dibattito come quello in corso sul New Realism si misura proprio sull’asprezza delle posizioni antitetiche in gioco. Da tempo, la posizione di Maurizio Ferraris lo vede contrapposto al suo antico maestro, Vattimo, rappresentante di una linea di pensiero dominante, l’ermeneutica, di cui il suo «pensiero debole» è versione assai accreditata. La questione è rimbalzata sui giornali per le sue ricadute politiche, in particolare per la lettura del berlusconismo. I due filosofi spiegano infatti lo stesso fenomeno partendo da posizioni radicalmente opposte. Senza vie di mezzo cercano di spiegare cosa succede a Roma.
Da una parte, ed è la posizione di Vattimo e dell’ermeneutica, vale l’istanza secondo cui «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni». Dall’altra, ed è la posizione di Ferraris e della proposta insita nel suo New Realism, è necessario che i fatti ci siano perché le interpretazioni possano essere smentite (e Berlusconi sbugiardato). Ferraris sprona dunque la filosofia a mettere in moto quella «ragione pigra», come la chiamava Kant, che si è ambientata in un mondo fatto di interpretazioni, rinunciando a porre il problema della loro verificabilità. Nello spirito di una ricerca della verità e non di una sterile polemica politica à la page, il lavoro di Ferraris sprona la comunità ermeneutica e storicistica italiana a ritornare, secondo il noto adagio fenomenologico, alle «cose stesse». Ma l’ermeneutica dice proprio ciò Ferraris vuol farle dire, o il filosofo del New Realism ne attacca, peraltro giustamente, solo una versione assai indebolita? È davvero possibile che l’ermeneutica, al di là dei discorsi che ha prodotto e che, nella critica di Ferraris, ne fanno un sintomo del postmoderno, sia stata così ingenua da barattare la ricerca della verità per un relativismo che non ha più la minima presa o pretesa sulla realtà?
Prendiamo una proposizione semplice: «piove». La verità o falsità di questa proposizione è qualcosa che chiunque può accertare semplicemente guardando fuori dalla finestra. Che piova o non piova è un fatto. Sin qui la reductio di Ferraris. L’ermeneuta però non concede neppure questo, ma ed è questo il punto essenziale non perché non creda alla verificabilità della proposizione, non perché creda che tutto è relativo e che quindi per lui potrebbe non essere pioggia quella che è pioggia per un altro, ma perché pensa che per poterne dirimere la verità, o il senso di verità, occorre guardare allo sfondo interpretativo che si nasconde e su cui si staglia l’enunciato, alle ragioni per cui è prodotto e ai suoi effetti di senso. Con i vecchi ma sempre istruttivi paradossi greci si potrebbe ad esempio chiedere quando finisce la pioggia o dove comincia un temporale. Probabile che in una foresta amazzonica le rilevazioni percepite dal senso comune siano diverse dalle nostre, perché legate ad altre forme di vita e ad altre condizioni di esistenza, senza per questo essere false.
D’altra parte, l’insufficienza del dato salta agli occhi, quando per esempio, in un pubblico dibattito, si ragiona «dati alla mano», e però questi dati dicono gli uni il contrario degli altri. Da un simile impasse non si esce additando il mondo com’è fuori dalla finestra, ma comprendendo le modalità interpretative di quei dati (che in verità dovrebbero chiamarsi «risultati»). Come sono stati raccolti quei dati? Su quali campioni? Più che di un’esibizione di dati, è in gioco un conflitto di interpretazioni, dove alla fine soltanto quella che descriverà il paese nella sua complessità risulterà più vera. Non bastano ad esempio i dati sulla crescita o sul prodotto interno lordo, ma solo incrociando questi dati con la sperequazione della ricchezza e con l’aumento della forbice tra ricchi e poveri si otterrà un’immagine più veritiera del Paese. La proposta ermeneutica sta dunque non nel negare i fatti e inventarsi le interpretazioni, ma nella consapevolezza che i fatti, per sé soli, non dirimono nulla (se non inutili dispute meteorologiche, tipo se fuori piove o c’è il sole), e anzi spesso celano, dietro la loro apparente datità, un’operazione di potere tanto più ingannevole in quanto si dissimula nella forma della verità a portata di mano. Anzi, proprio rispetto a chi ci dice che il mondo è quello che è, la filosofia, nella sua originaria vocazione politica, ha bisogno di un’iniezione di dialettica. Cioè di quella cura hegelo-marxiana, coppia non a caso assente da questo dibattito, che riemerge con la forza di un rimosso quando il pensiero, distogliendo lo sguardo dalle contraddizioni esistenti, si assopisce in questa «tenerezza delle cose» condita in salsa postmoderna. E senza vie di mezzo, ma con una robusta proposta di interpretazione del nostro tempo, a Roma ci si arriva e come.

Repubblica 5.10.11
L’epoca dei consulenti
Zagrebelsky: Il rapporto col potere ha polverizzato gli intellettuali
di Enrico Donaggio


"Si abdica al proprio ruolo e così si finisce per condannarsi all´irrilevanza"
"Il punto più basso è dare le proprie idee, le proprie parole, le proprie idee a chi ti paga"
In un dialogo uscito su "Alfabeta2" la questione della cultura piegata al servizio degli interessi politici
Piuttosto che la ricerca della verità prevale la convenienza immediata e il desiderio di piccoli privilegi
"L´indipendenza e la libertà finiscono per essere solo la rivendicazione di uno status"

Che cosa ti sembra di vedere nel rapporto intellettuali-potere, con riguardo alla situazione del nostro Paese, in questo momento? «Una grande diversità di situazioni, tra due estremi: l´improduttiva futilità intellettualistica e il servilismo corruttivo del libero pensiero. Se siamo liberi, siamo superflui; se siamo utili, non siamo liberi. Queste tendenze, per ragioni diverse, hanno in comune l´incapacità della funzione intellettuale, in quanto tale, di svolgere una funzione sociale e si condannano all´irrilevanza e, alla fine, al disprezzo. Nell´insieme, coloro che si dedicano ad attività intellettuali risultano polverizzati, inconcludenti. Non mi pare che, per usare un´espressione gramsciana, essi costituiscano un "gruppo sociale autonomo e indipendente". Rivendicano, certo, autonomia e indipendenza, ma lo fanno forse in vista di un qualche compito comune, in forza del quale li si possa considerare in sé "gruppo sociale"? Ti faccio una domanda. Pensi che sarebbe possibile, nell´Italia di oggi, un´affaire Dreyfus?».
Che cosa intendi dire?
«Che certamente ci sono, nel nostro tempo e nel nostro Paese, grandi scandali del potere, del fanatismo, e della grettezza, alleati tra loro in azioni criminali d´ogni tipo. C´è, rispetto a queste cose, una mobilitazione intellettuale contro "l´emergenza civile"? E, se anche c´è o ci fosse, è o sarebbe in grado di smuovere le acque, fare da contraltare alle logiche del potere, in nome di principi e valori non riconducibili a quelle logiche? Domanda retorica. Sembra che l´ambiente intellettuale sia quello cui il potere si rivolge per trovare giustificazioni, coperture. E di solito le trova. Triste».
Vuoi dire che, da noi, gli intellettuali, in quanto tali, sono inconcludenti?
«Esattamente così! La loro funzione è come polverizzata in mille rivoli. La dispersione deriva dall´incapacità di definire i nodi fondamentali della loro riflessione. Per questo, la libertà e l´indipendenza ch´essi rivendicano non si traducono in una funzione sociale, ma si risolvono in una pretesa di status, non facile giustificare. Da qui, la facile ironia sulla prosopopea degli intellettuali, sulla loro vuota spocchia e, alla fine, sul loro parassitismo. Data la carenza di ruolo sociale, o ci si rifugia nella pura speculazione fine a se stessa, che è una sorta di consolazione del pensiero, oppure, rinunciando all´autonomia e all´indipendenza della funzione intellettuale, si cerca di collegarsi con chi sta dove il potere si esercita effettivamente, nell´economia e nella politica, per diventarne "consulenti". In due parole: il "consulente" sostituisce "l´intellettuale". Il nostro mondo è sempre più ricco di consulenti e sempre meno di intellettuali. C´è da ridere, se si pensa che quella del consulente è la versione odierna dell´"intellettuale organico" gramsciano. Questi si collegava alle grandi forze storiche per la conquista della "egemonia" e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso; quello è l´imboscato nell´inesauribile miniera di ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, ecc., offrendo servigi intellettuali e ricevendo in cambio protezione, favori, emolumenti. I consulenti si conoscono tutti "personalmente", ma s´ignorano "funzionalmente". Nell´insieme non adempiono una funzione intellettuale indipendente».
E c´è qualcosa di male? Non è bene che chi comanda sia informato, magari anche illuminato, da qualcuno che conosce le cose di cui parla?
«E come no. Ma, a condizione che il consulente non entri "nell´organico" del potente di turno. C´è differenza tra il fornire le tue conoscenze e offrire te stesso, tra il vendere e il venderti cioè, come si dice, essere "a libro paga". Il confine è teoricamente chiaro, praticamente vago. Nel primo caso mantieni la tua libertà, nel secondo la perdi: volontariamente la perdi, ma la perdi. C´è l´attesa, la speranza di ottenere qualcosa, e allora rispondi agli inviti; ai convegni non puoi mancare, perché se manchi, sembra che tu "non ci stia". Perdi il tuo tempo e disperdi la tua vita in convegni pseudo-culturali perché "non si sa mai" che qualcosa di buono ti possa prima o poi arrivare: i posti a disposizione sono tanti e ci può essere anche posto per te. Il punto più basso, l´intellettuale lo raggiunge quando si presta a dare il suo cervello, la sua intelligenza, la sua parola, all´uomo di potere che lo paga per scrivergli i suoi discorsi, i suoi articoli di giornale, le sue interviste. Addirittura, la consideriamo una professione intellettuale, quella del ghostwriter. Ti pare normale che chi scrive discorsi per altri, collaborando a un evidente plagio letterario, sia circondato dal massimo rispetto, ed egli stesso se ne compiaccia: come sono bravo, sono entrato in Tizio e Caio per far uscire dalla sua bocca le mie parole!».
Mah! Non è mica detto che si tratti poi di pura piaggeria. Possono essere grandi discorsi che, semplicemente, passano per un megafono di potenza tale – per esempio, negli Stati Uniti, la voce di un Presidente – che uno studioso, per quanto famoso non potrebbe neppure sognarsi.
«Pensi forse a un Arthur Schlesinger jr., grande saggista, che scriveva i discorsi per Adlai Stevenson e per i fratelli Kennedy? Ma, qui non è questione di qualità delle persone e delle loro prestazioni. Qui parlo della funzione stessa, come concetto. A proposito di Reagan (parliamo di lui e non di gente di casa nostra, per carità di patria), Noam Chomsky ha fatto osservazioni sulle esibizioni pubbliche di politici-attori che dovrebbero essere tenute presenti, come salutari avvertenze per l´uso, nell´ascolto delle loro parole: "quando in televisione si legge un ‘gobbo´ si fa una curiosa esperienza: è come se le parole vi entrassero negli occhi e vi uscissero dalla bocca, senza passare attraverso il cervello. E quando Reagan fa questo, quelli della tv devono disporre le cose in modo che di fronte a lui ci siano due o anche tre gobbi; in tal modo la sua faccia seguita a muoversi rivolgendosi da una parte e dall´altra, e allo spettatore sembra che stia guardando il pubblico, e invece passa da un gobbo all´altro. Ebbene, se riuscite a indurre la gente a votare per persone di questo tipo, praticamente avrete fatto il vostro gioco; l´avrete esclusa da ogni decisione politica. E bisogna fingere che nessuno rida. Se ci riuscite, avrete fatta molta strada verso l´emarginazione politica del popolo". Ecco, quello che voglio dire: gli intellettuali che si prestano a riempire la bocca dei politici di cose delle quali questi non hanno nessuna idea propria, oltre che umiliare la propria funzione, contribuiscono a svuotare di contenuto la democrazia, a ridurla a una rappresentazione».
Ma, non è meglio che i politici dicano cose sensate, piuttosto che insensate?
«No. Se non hanno nulla da dire, frutto del loro ingegno, è meglio che tacciano. E, se tacendo non si fa carriera politica, è meglio che non la facciano. Se poi dal loro ingegno escono sciocchezze, è bene che i cittadini elettori le constatino per quello che sono. Oltretutto, in questo modo, coprendo il vuoto dei politici con le loro non disinteressate "consulenze", contribuiscono a svuotare la politica stessa e, svuotandola, a renderla funzionale a interessi esterni. Non vorrei essere troppo brutale: si finisce per assecondare la sua tendenza a diventare funzione del potere che oggi più di tutti conta, il potere del denaro. Pecunia regina mundi».
Eppure, non credi che proprio questa funzione dell´intellettuale possa servire, al contrario, a dare alla cultura una forza nell´agone politico che altrimenti non avrebbe?
«Questa è l´illusione in cui spesso gli intellettuali rischiano di cadere, quando pensano di fare dei politici il megafono o l´imbuto delle loro idee. La realtà è che, quando non servono più, sono messi da parte. Ricordi la vicenda di Gianfranco Miglio con Bossi? E, ancor prima, con Eugenio Cefis? Oppure, di coloro che si sono messi alla corte Berlusconi pensando di potere fare la "rivoluzione liberale"? Dove sono finiti?».

Repubblica 5.10.11
Un libro di Carlo Galli analizza un fenomeno che, nato a destra, ha contagiato anche la sinistra
Così la democrazia può difendersi dal populismo
L´esigenza semplicistica di essere difesi contro nemici fittizi come gli immigrati, la casta la globalizzazione
di Miguel Gotor


Un paesaggio di rovine. È questa l´immagine che il cittadino-consumatore dell´età della globalizzazione avrebbe davanti agli occhi visitando un ideale Foro politico occidentale contemporaneo: Stato e individui, cittadinanza e diritti, rappresentanza e sovranità, popolo e parlamento – i templi della politica moderna che fu – ridotti a un ammasso di pietre corrose e ingiallite dall´usura del tempo e dalla sequela di scommesse tradite. Se il turista volesse capire come è stato possibile che delle secolari colonne di pregio dalla solida apparenza siano crollate nel volgere di solo un trentennio, non a causa di un attacco nemico, bensì per un lento processo di erosione interna, gli tornerebbe utile avere come guida l´ultimo libro di Carlo Galli, Il disagio della democrazia, pubblicato da Einaudi.
Anzi, il lettore di questo breve, ma denso saggio non faticherebbe a immaginarsi il suo autore intento a dialogare con le statue "snasate" ed evirate degli antichi maestri, che sarebbero ormai prive del fiuto e degli attributi necessari per pensare ancora il futuro: il Pericle di Tucidide, Aristotele, Machiavelli, Hobbes, Locke, Rousseau, Tocqueville, Marx, Weber, Schmitt e Adorno. Un confronto serrato basato sul convincimento condivisibile che l´età globale in cui viviamo ci consegna un popolo così sbriciolato da non riuscire più a essere una parte rivendicante il tutto, una sovranità obsoleta come rappresentanza e capacità di decisione, un territorio senza confini e una soggettività sempre più incerta, sospesa tra nevrosi e narcisismo.
Da questa presa d´atto scaturisce una percezione – molto occidentale, anche se soprattutto europea e in particolare italiana – di un crescente disagio teorico e pratico della democrazia. Un sentimento la cui espressione intellettuale e retorica è un privilegio concesso dalla democrazia ai suoi abitanti e la cui amplificazione non deve dunque inquietare perché è un segno indiretto ma concreto della perdurante vitalità di quel sistema. Per Galli si tratta di un disagio duplice: soggettivo, dei cittadini, che sempre più vivono un sentimento di rabbiosa repulsa verso la democrazia, alimentato da una miscela di implicita indifferenza o esibita indignazione; ma è anche un disagio oggettivo, legato ai sistemi e alle strutture democratiche, che non riescono più a rispondere alle aspettative suscitate nel trentennio d´oro della democrazia occidentale, tra gli anni ´50 e ´80 del Novecento. L´età della speranza, quella del compromesso socialdemocratico, che sarebbe bene ci abituassimo a considerare una felice eccezione, peraltro fiorita su un crudelissimo privilegio, rappresentato dal vuoto generazionale provocato dall´immane carneficina della II guerra mondiale.
L´età del disagio incomincia, a sinistra, negli anni Ottanta con la percezione della crisi dell´idea di rivoluzione in grado di edificare un sistema alternativo a quello capitalistico, un sogno e un progetto che aveva conquistato il cuore e le menti di tanti, distraendoli dalle fatiche e dai rigori del riformismo. Tuttavia, esplode a destra quando matura la crisi del modello liberista propagandato per anni, capace di produrre consenso in una fase di espansione economica, ma di rivelare tutta l´ingiustizia del suo volto classista in una fase di recessione come quella che stiamo vivendo. Un modello di capitalismo finanziario che ha scommesso sull´irrilevanza della politica e ne ha approfittato per aggredire il ceto medio, al quale ha letteralmente rubato i risparmi accumulati nel corso degli anni ´90, grazie all´ingenua pretesa di moltiplicare il denaro senza lavorare, ma solo attraverso una regolata speculazione.
È impossibile dare conto della molteplicità dei temi affrontati in questo saggio e ne scegliamo uno che costituisce, a parere dell´autore, una delle forme più vistose dell´attuale disagio della democrazia, ossia la sua deriva in senso populistico e plebiscitario. Un fenomeno la cui egemonia è dimostrata dal fatto che, pur nascendo da destra, è penetrato anche a sinistra, in dosi diverse, ma ugualmente pericolose perché subalterne e quindi inefficaci a definire le linee guida di una piattaforma progressista. Secondo Galli nel populismo si esprime un´esigenza semplicistica di rassicurazione contro nemici fittizi la cui percezione viene a bella posta amplificata dai mezzi di informazione di massa: la globalizzazione con le sue "cineserie", i migranti che rubano il lavoro, il golpe dei tecnocrati, la casta dei politici e chi più ne ha più ne metta, in un bar dello sport permanente. Sono contemporaneamente screditate le funzioni pubbliche di mediazione professionale e di rappresentanza politica che vengono percepite come inutilmente costose e inconcludenti e si governa come se si fosse all´opposizione in nome della semplificazione e dell´emergenza.
Solo la consapevolezza della complessità del gioco democratico può costituire un argine credibile a questa deriva, una coscienza che si acquisisce valorizzando la densità dell´evoluzione storica di quel pensiero. Affinché ciò avvenga è necessario compiere uno sforzo di restauro del moderno di carattere umanistico che implica la necessità di distinguere e di salvaguardare ciò che è vivo da ciò che è irrimediabilmente caduco. Galli individua nella forma partito, come "perno di una concezione realistica della democrazia", nella vitalità organizzativa e conflittuale della società piuttosto che delle istituzioni, e nella difesa della Costituzione gli atti politici volitivi e decisionali capaci di trasformare la coscienza del disagio della democrazia nella fioritura di una nuova energia civile.
E così, dentro quel Foro politico occidentale contemporaneo, fra quella distesa di rovine, vi è ancora la possibilità di ricercare un riscatto democratico che richiede più senso della storia che scienza della comunicazione e un rapporto più stretto tra politica e cultura: di questi tempi, iniziare ad averne contezza non è poco e questo libro è un prezioso aiuto nella giusta direzione.

Corriere della Sera 5.10.11
Nel 2050 il crollo della popolazione in età lavorativa
Dossier Cei sul declino demografico
di M. Antonietta Calabrò

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Corriere della Sera 5.10.11
L’ombra cinese sul capitalismo
Mercato e dispotismo non sono soluzioni. Meglio la crescita lenta
di Sergio Bocconi

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Corriere della Sera 5.10.11
Il romanzo bocciato del giovane Saramago:
un lucernario illumina la vita di un condominio
di Luca Mastrantonio

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Corriere della Sera 5.10.11
Felicità, etica, geometria iniziano qui
In Grecia e a Roma, alla fonte delle idee: il passato che aiuta a affrontare Internet
di Armando Torno

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Corriere della Sera 5.10.11
Bellezza e mostruosità? Invenzioni dei classici
Così nacquero i canoni dell’armonia e dell’orrore
di Umberto Eco

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Corriere della Sera 5.10.11
Albert Speer, amico di Hitler e architetto del Terzo Reich
risponde Sergio Romano

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Corriere della Sera 5.10.11
Sei mesi tra dubbi e divisioni al Cern
I due fronti dei cacciatori di neutrini
I dissidenti: servivano più misurazioni. La direttrice: eravamo pronti
di Goffredo Buccini

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l’Unità 5.10.11
L’universo? svanirà nel vuoto
È l’effetto dell’espansione accelerata del cosmo, scoperta attraverso le osservazioni di supernovae distanti, da due team di ricercatori: uno guidato da Saul Perlmuer, l’altro da Brian P. Schmidt e Adam G. Riess
di Pietro Greco


La causa. È «l’energia oscura» la cui natura è quasi del tutto sconosciuta
Einstein. La sua costante cosmologica è stata ripristinata dai tre fisici

Il destino dell’universo è segnato, finirà in un «flebile lamento». Diluito in uno spazio sempre più grande e sempre più freddo. Ucciso da un’«energia oscura» che gli impone un’espansione sempre più accelerata.
Non è la trama di un romanzo di un genere nuovo, a metà tra il noir e la fantascienza. Ma la diretta conseguenza dell’osservazione della luce di alcune decine di stelle supernovae realizzata, poco più di dieci anni fa, da due team di ricercatori, il primo guidato da Saul Perlmutter, e l’altro da Brian P. Schmidt e Adam G. Riess.
Per questa «scoperta dell’espansione accelerata dell’universo attraverso le osservazioni si supernovae distanti» ai tre è stato assegnato, ieri, dalla Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma il Premio Nobel per la Fisica 2011. Un premio davvero meritato perché la scoperta, del tutto inattesa, dell’universo che si espande a ritmo sempre più accelerato è tra le più importanti nella storia della cosmologia. Ma, prima di dire perché, cerchiamo di capire cosa hanno visto i tre astronomi.
I due gruppi cercavano di mappare il cielo attraverso lo studio di decine di supernovae di «tipo Ia» molto distanti nel cielo. Le supernovae sono stelle in fase di esplosione capaci di far brillare il cielo, in genere per poco tempo, come un’intera galassia. Le supernovae di «tipo Ia» hanno la particolarità di racchiudere una massa grande come quella del Sole in uno spazio grande come quello della Terra. Sono, per così dire, supernovae superdense.
Il gruppo di Perlmutter, l’americano cui è andato metà premio Nobel, e il gruppo di Schmidt (australiano) e Riess (americano), che si sono divisi l’altra metà, hanno notato, indipendentemente l’uno dall’altro, che la luce proveniente da quelle peculiari stelle supernovae era troppo debole. E che, fatti e rifatti i conti, c’era un’unica spiegazione possibile per quella luce più debole del previsto: l’universo accelerata. Un universo che non solo si espande ma che si espande a velocità crescente.
L’osservazione meraviglia tutti. Per il dato in sé: fino a quel momento, infatti, tutti erano convinti che l’universo fosse sì in espansione, ma, per così dire, in «espansione frenata»: ovvero che si stesse allargando, ma a velocità sempre minore perché franato dalla forza di attrazione gravitazionale che ogni galassia esercita sull’altra.
Ma l’osservazione meraviglia anche e soprattutto per i suoi effetti. E per le sua cause. L’effetto di un’espansione accelerata è presto detto: in questo momento ogni galassia tende, in media, ad allontanarsi a velocità crescente l’una dall’altra. Più passa il tempo più aumentano la distanza e la velocità con cui aumenta la distanza. E questa progressiva diluizione porterà nel lungo periodo fra alcune decine di miliardi di anni alla totale «solitudine cosmica» di ogni galassia, di ogni stella, di ogni pianeta e infine di ogni particella. L’universo svanirà, appunto, nel vuoto: con un lamento sempre più flebile e in un freddo sempre più assoluto.
Ma per i fisici l’interesse maggiore della scoperta premiata oggi con il Nobel risiede nella causa: perché l’universo è in espansione accelerata? Già la prima risposta che gli astrofisici danno a questa domanda, pur non essendo ancora esaustiva, lascia interdetti. Perché è formato per il 73% di «energia oscura»: il che significa, letteralmente, che o tre quarti della densità di energia dell’universo e quindi dell’universo stesso sono formati da un’energia di cui non conosciamo la natura. E poiché un altro 23% della restante densità di energia è costituita da «materia oscura», ovvero da materia che non vediamo e di cui non conosciamo la natura, ciò significa che quello che noi definiamo il cosmo il tutto armoniosamente ordinato dei Greci è costituito al 96% da sostanza sconosciuta. Ce n’è quanto basta per mandare in soffitta gli ultimi residui di antropocentrismo: l’universo nella sua quasi totalità è costituto da una sostanza diversa da quella di cui è fatto l’uomo. E ce n’è abbastanza per far abbassare la cresta a chi pensa che l’uomo sia a un passo sapere tutto quanto c’è da sapere: quella sostanza non è solo diversa, ci è anche del tutto ignota.
Già, ma c’è una seconda domanda connessa alla scoperta premiata col Nobel. Forse ancora più intrigante, per i fisici. Cosa genera l’«energia oscura»? Nessuno conosce la risposta. Tuttavia l’ipotesi più accreditata è che essa sia generata dal vuoto. Che essa sia «energia del vuoto».
Il primo a postulare l’esistenza di questa energia fu Einstein. Sulla base di un mero pregiudizio metafisico. Correva l’anno 1917. Il fisico tedesco aveva appena elaborato la teoria della relatività generale. E pensò bene di applicare le sue equazioni all’universo intero. Facendo alcune assunzioni. Per esempio che l’universo è chiuso. E che, a larga scala, fosse omogeneo e isotropo: uguale a se stesso in ogni direzione dello spazio. Queste due assunzioni sono ancora giudicate valide. Ma Einstein assunse anche che l’universo fosse statico: uguale a se stesso in ogni direzione del tempo. Il guaio è che, come aveva fatto notare il reverendo Richard Bentley a Isaac Newton già due secoli prima, che un universo statico è come un castello di carta: destinato a collassare, per gravità su se stesso, in seguito alla minima perturbazione. È per questo che Einstein introduce la «costante cosmologica», che in termini matematici è un numero, ma in termini fisici rappresenta un’energia di segno uguale e contrario alla gravità. Quest’energia, suggeriscono Willem de Sitter e Hermann Weyl, può essere un’energia generata dal vuoto.
All’inizio degli anni ’20, tuttavia, il giovane matematico russo Alexander Friedmann dimostra che esistono soluzioni più stabili per le equazioni cosmologiche di Einstein che prevedono un universo in espansione. E alla fine degli anni ’20 l’astronomo americano Edwin Hubble dimostra che Friedmann ha ragione: tutte le galassie si allontanano l’una dall’altra e l’universo è effettivamente in espansione.
Il risultato è che Einstein, scienziato dotato di straordinaria onestà intellettuale, bolla la costante cosmologica come «il più grande errore della mia vita» e la toglie dalle sue equazioni relativistiche. Dieci anni fa l’osservazione di Saul Perlmutter, Brian P. Schmidt e Adam G. Riess ha costretto molti fisici a fare marcia indietro e a ripristinare la costante di Einstein nelle equazioni cosmologiche, che potrebbe essere di nuovo considerata «una delle tante felici intuizioni della sua vita».
Ma occorre dire che la costante cosmologica e la presenza di un’energia del vuoto è una delle spiegazioni più accreditate dell’universo in espansione, ma non l’unica. Ce ne sono altre più sofisticate che chiamano in causa fattori più esotici, sia di tipo relativistico (effetti a grande scala) sia effetti quantistici (effetti a scala microscopica). Sta di fatto che l’imprevista osservazione dei tre freschi premi Nobel, dieci anni fa, ha rimescolato le carte della cosmologia scientifica e ci ha proiettati in un universo popolati di cose di cui non conosciamo la natura ma di cui conosciamo, per paradosso, il destino: la morte per estrema e gelida solitudine.

La Stampa TuttoScienze 5.10.11
A Stoccolma il premio per la fisica
Si sono rivelate decisive le ricerche sulle emissioni di luce delle supernove
L’acceleratore dell’Universo
Il Nobel a tre studiosi della materia oscura che espande il tutto
di Barbara Gallavotti


Il Novecento è stato il secolo delle grandi emozioni scientifiche: abbiamo scoperto che alla base della vita c'è l'espressione di un bellissima molecola chiamata DNA, abbiamo imparato a spezzare l'atomo (nel bene e nel male), abbiamo dato un'identità al manipolo di particelle che costituiscono la materia, e molto altro. Alla fine degli Anni 90 potevamo forse ritenerci soddisfatti. E invece no: il secolo doveva chiudersi con un ultimo fuoco d'artificio e nel 1998 abbiamo saputo che l’Universo non si espande a velocità costante, ma accelera sospinto da un motore misterioso chiamato «energia oscura».
Una scoperta che ha lasciato senza fiato i cosmologi e fatto immediatamente pensare al più ambito dei premi. Un Nobel atteso, dunque, quello che è stato assegnato ieri per metà a Saul Perlmutter e per l'altra metà a Brian P. Schmidt e Adam G. Riess. Come già avvenuto nel 2010, anche stavolta si tratta di tre ricercatori non certo attempati: il più «anziano», Perlmutter, è nato nel 1959, gli altri due nel 1967 e nel 1969.
All'inizio degli Anni 90 i cosmologi erano convinti che l'Universo fosse in espansione: galassie e corpi celesti avrebbero risentito ancora dell'effetto del Big Bang: l'ultimo alito di un soffio remoto, che tuttavia li avrebbe portati alla deriva sempre più lontano, a meno che l'attrazione reciproca della forza di gravità non avesse prima o poi avuto la meglio. All'epoca Perlmutter guidava un gruppo di ricerca, mentre Schmidt si trovava a capo di un altro, nel quale c'era Riess. Entrambi i gruppi intendevano localizzare alcune supernove particolarmente distanti, così da tracciare una mappa più precisa dell' Universo. Il momento sembrava il più opportuno, perché a disposizione c'era una rete di telescopi sofisticati, computer potenti e apparecchi CCD con cui ottenere immagini digitali in modo veloce. La ricerca si prospettava interessante, ma non foriera di emozioni straordinarie. Invece le emozioni sono arrivate, perché lo studio delle emissioni di luce delle supernove non ha lasciato dubbi: i corpi celesti più lontani accelerano e di conseguenza ci deve essere qualcosa che li sospinge, un’«energia oscura», appunto, di cui ignoriamo la natura.
Negli ultimi anni astronomi e cosmologi hanno accumulato nuove prove a favore della sua esistenza, cogliendo tracce della sua ombra anche nel fondo di radiazione cosmica, quel debole mare di fotoni che si è formato circa 14 miliardi di anni fa, quando l'Universo aveva «appena» 300 mila anni, e che ancora oggi lo pervade. Eppure, il volto dell'energia oscura resta nascosto. I pochi indizi che trapelano ci dicono che è una entità estremamente forzuta e anche che la sua «stazza» è notevole. L'energia oscura, infatti, rappresenta il 70% dell'energia dell'Universo. Il restante 30% è sotto forma di materia (secondo l'equazione di Einstein E=Mc2, materia ed energia si equivalgono). In particolare il 5% è la materia che conosciamo e che compone ciò che ci circonda, dai nostri corpi alle galassie, e il restante 25% è materia oscura, un'altra signora cosmica dall'identità misteriosa.
Di certo l'energia oscura non è una forma di materia, e neppure di radiazione. Si pensa che sia una forma di energia associata a un «campo»: possiamo immaginarla come una versione moderna dell'impalpabile etere che un tempo si riteneva pervadere le sfere celesti. Stranamente, l'Universo non sembra aver risentito della sua forza per gran parte della propria esistenza e questo effetto tardivo è uno dei grandi interrogativi che la circondano.
Scoprire la natura dell'energia oscura è molto difficile anche perché al momento non è possibile immaginare esperimenti che permettano di ricrearla in laboratorio. Per ottenere indizi, ancora una volta, non resta che puntare i telescopi verso il cielo, contando su tecnologie sempre più avanzate per osservare corpi celesti ancora più lontani, così da misurare la loro apparente accelerazione ai confini dell'esistente. Così i cosmologi mirano anche a capire se l'energia oscura fa sentire la sua forza in modo omogeneo in tutto l'Universo o è più intensa in alcuni punti. Altre indicazioni potranno poi venire da studi sulla radiazione di fondo cosmica. Alla fine qualcuno riuscirà a sollevare il velo e allora capiremo quale sarà il destino dell'Universo, sapremo cioè se la sua espansione è destinata a fermarsi o se continuerà all'infinito, diluendo tutto ciò che esiste in un nulla cosmico.
Una forza ancora enigmatica tra stelle e galassie che pervade il 70% del cosmo

La Stampa TuttoScienze 5.10.11
Einstein i treni e gli orologi
Quando la Relatività si sincronizzò su Berna
Anche la creatività scientifica “sente” l’influenza dei luoghi e la città svizzera non è estranea alle scoperte di Einstein
di Michele Piano


Einstein secondo me», a cura di John Brockman, è una raccolta di pensieri sullo scienziato, l’uomo e l’icona. Ci sono riflessioni epistemologiche sull’origine e l’impatto dell’opera di Einstein, e tutte concordano con l’idea che fu un pensatore reazionario, l’ultimo dei fisici classici e non il primo dei fisici moderni (Einstein utilizzò sempre categorie mentali profondamente innestate sulla tradizione del pensiero ottocentesco e da questa base intellettuale fu capace di chiudere un’epoca persino quando, con l’articolo sull’effetto fotoelettrico, ne aprì una nuova).
C’e’ un resoconto moralistico di Einstein padre e marito, invero un po’ sorprendente: l’idea che gli scienziati siano brave persone credevo fosse passata di moda da molto tempo, almeno dalla pubblicazione de «La doppia elica». E se Einstein non era una brava persona, era però una persona compassionevole, un aggettivo che ricorre spesso nelle sue lettere e una qualità rara in un mondo, quello della scienza, poco interessato al lato umano dei rapporti personali.
E ci sono ricordi, spezzoni di dialoghi, immagini non più vivide e un po’ malinconiche che tuttavia hanno lasciato un segno indelebile su scienziati affermati, che da quelle impressioni, forse mitizzate, hanno tratto ispirazione per una carriera importante e una ragione di vita.
George Smoot, Premio Nobel per la fisica nel 2006, conclude il resoconto di una sua visita a Berna, sulle tracce di uno dei luoghi del pensiero fondamentali per Einstein, con alcune domande che meritano una risposta ragionata: «Come e quando era stato influenzato dall’ambiente circostante? Dove e come aveva avuto e sviluppato quelle idee? Era accaduto nei momenti di calma all’ufficio brevetti oppure durante le conversazioni con gli amici, mentre andava all’università o scarabocchiando su un tovagliolino di carta in un caffè? Vi avevano contribuito il ritmo di vita e l’esposizione a stimoli intellettuali, oltre al tempo libero per pensare?». Siamo abituati a porci questo genere di domande quando riflettiamo sull’ambientazione di un romanzo decadente o sui colori, la luce, di un quadro impressionista. Eppure anche la creatività scientifica deve sentire l’influenza, in qualche misura, del mondo in cui i ricercatori vivono, mangiano, amano, muoiono.
Dal 2005 al 2009 sono stato a Berna molte volte, ospite dell’International Space Science Institute (ISSI). La formula di ISSI è semplice e meravigliosa: ospitare, tre settimane in un anno, gruppi di scienziati che lavorano insieme il resto del tempo da nazioni o continenti diversi e che, in quei sette giorni, si ritrovano davanti alla stessa lavagna, lontani da email, skype e phone conference, per finalizzare una ricerca che prosegue da ormai troppo tempo o formulare un nuovo problema su cui riflettere nei mesi successivi.
Durante queste peregrinazioni bernesi, tornando in albergo la sera o cenando a base di fonduta in uno dei ristoranti della Baerenplatz, le domande di Smoot sono state spesso anche le nostre. Le riassumo tutte in una, solo apparentemente un po’ eccentrica: se si dovesse decidere un simbolo che rappresenti lo spirito di Berna, quale sarebbe la risposta più appropriata? Penso ci siano due risposte possibili.
Anzitutto, Berna, è noto, è la capitale della Svizzera. E la Svizzera è la patria del cioccolato, di Calvino, di Guglielmo Tell e degli orologi. Nelle vallate svizzere si producono i più esclusivi e costosi orologi del mondo. Ma, in più, a Berna, potete trovare lo Zytglogge, uno dei più strambi, barocchi, pacchiani carillon che si possa immaginare (forse solo Praga ha qualcosa di paragonabile): si tratta di una processione di strani personaggi che compaiono e scompaiono a un ritmo un po’ improbabile, picchiando martellate su campane da pastori, in un meccanismo sofisticato fatto di ruote e ingranaggi. E quindi, secondo me, un primo possibile simbolo di Berna è l’orologio.
La seconda risposta è meno immediata. Però, a pensarci bene, si tratta anche in questo caso di una scelta naturale. Ho visitato molte città nella mia vita, per lavoro ma anche perché le città mi piacciono, alcune per molto tempo e molte volte, altre solo di passaggio. Eppure non me ne viene in mente un’altra che, come Berna, sia attraversata in modo così clamoroso, direi sfacciato, dalla ferrovia. A Berna il treno arriva nel cuore geografico, commerciale, religioso, culturale della città. Ci arriva dopo aver percorso a lungo il centro abitato. E ci arriva in una stazione che è un tempio pagano, eccessivo, spropositato e sproporzionato, se penso alle dimensioni della capitale. E quindi, sempre secondo me, il secondo possibile simbolo di Berna è il treno.
Ora, per quanto riguarda treni e orologi (e del resto molte altre cose) io non credo che negli ultimi 100 anni Berna sia molto cambiata: agli inizi del Novecento l’orologio meccanico c’era già e la Svizzera produceva orologi in modo persino più esclusivo di oggi. E il treno solcava l’area urbana esattamente come oggi (ho controllato). E allora, proviamo a immaginare un uomo giovane, di notevole intelligenza, che lavora in un ufficio brevetti che si trova appena fuori (indovinate un po’) della stazione; un uomo che si occupa quasi tutto il giorno di valutare patenti che, assai presumibilmente, avranno riguardato in buona percentuale nuovi meccanismi per orologi; che tornando a casa passa sotto l’orologio meccanico più strambo del mondo e sente fischiare treni a distanza ravvicinatissima.
Ora, il nostro uomo, se solo è un po’ ossessivo (e il nostro uomo, come molti ebrei intelligenti, lo è) ha due sole strade davanti: impazzire, credendo di essere un capostazione che affoga in un mare di rondelle e ruote dentate, oppure inventare la Relatività speciale, ovvero una teoria che mette il tempo, il sincronismo, la puntualità degli eventi al proprio centro, direi quasi programmatico. E, a conferma di questo, quali esempi mentali usa per rendere digeribile questa teoria di incredibile originalità? Ma è ovvio: treni e orologi, passeggeri muniti di cronometro che si muovono su vagoni in corsa, raggi luminosi che sfrecciano lungo il convoglio, osservati dal marciapiede della stazione da strani personaggi con un orologio in mano, omini assorti e inebetiti, come assorti e inebetiti sono sempre coloro che guardano passare i treni.
Insomma la mia conclusione, forse provocatoria ma ormai inevitabile, è che la teoria della Relatività speciale debba molto al genio di Albert Einstein ma, almeno un po’, sia anche frutto di questioni logistiche, dell’ispirazione di una città piena di persone gentili, in cui istituzioni lungimiranti, oggi come ai tempi di Einstein, permettono agli scienziati di fare il proprio lavoro senza sensi di colpa, tra palazzi austeri e portici pervasi dal profumo di cioccolato e dal suono ovattato dei treni in partenza verso le Alpi.

La Stampa TuttoScienze 5.10.11
“Rita, Maria ed Eva, i geni che l’Italia ha ignorato”
Storia della scienza. I retroscena di una discriminazione secolare che continua ancora “Soltanto un quinto dei professori universitari in Italia è femmina: ecco come rimediare”
di Massimiliano Panarari


Quant'è difficile essere donne e fare scienza in Italia. Lo spiega nel suo «Scienziate d'Italia» (Donzelli) Elisabetta Strickland, professore di Algebra all'Università di Roma Tor Vergata e, nel 2007, prima donna a essere nominata vicepresidente dell'Istituto nazionale di alta matematica. Una persona, quindi, che di soffitto di cristallo se ne intende e che ha deciso di raccontare 19 storie esemplari di italiane che hanno dato contributi decisivi alla scienza del XX secolo.
Una svolta epocale, seppure non riconosciuta e pagata a caro prezzo, se si pensa che, ancora nell' Ottocento, si contava appena un centinaio di donne dedite alle scienze, per non parlare delle appena 20 del Sei e del Settecento (lo stesso numero dell'epoca antica), delle 10 del Medioevo e, nonostante fosse l'età dell'Umanesimo e del Rinascimento, di due secoli come il Quattro e il Cinquecento, nei quali non si annovera alcuna figura conosciuta di scienziata.
Professoressa Strickland, qual è stato il reale contributo delle scienziate al progresso scientifico italiano?
«Notevole, tenendo conto che hanno lavorato spesso in condizioni difficili, in tempi di guerra, durante le persecuzioni razziali e scontrandosi con stereotipi di genere e pregiudizi. Sappiamo bene che una sola donna italiana è stata insignita del Premio Nobel in area scientifica: Rita Levi Montalcini. Ma un consistente numero di scienziate ha raggiunto negli ultimi 150 anni risultati importanti».
Quali sono state le figure di scienziate italiane più importanti del Novecento?
«Penso che sia molto difficile rispondere: la scienza è estremamente variegata e anche una semplice equipollenza dei contributi non mi sembrerebbe affrontabile. Certamente le due scienziate più note, Rita Levi Montalcini e Margherita Hack, meritano tutta la fama che hanno: la prima per la scoperta di una sostanza che promuove lo sviluppo delle cellule nervose, il “nerve growth factor”, la seconda per le sue scoperte sul fenomeno della “super-ionizzazione”, che è uno dei risultati più importanti nella spettroscopia stellare dell' ultravioletto, e per quelle riguardanti il gas interstellare. Ma direi che non è stata da meno Rita Brunetti, la fisica milanese che nel 1929 ipotizzò il “quenching” del momento angolare orbitale, e per questo va considerata tra i precursori della teoria del magnetismo di John van Vleck, dell' Università di Harvard, insignito nel 1977 del Premio Nobel».
Altri nomi che sono stati ingiustamente messi in secondo piano?
«Io ho grande stima di Maria Bianca Cita Sironi, geologa milanese nata nel 1924, allieva di Ardito Desio. Le dobbiamo un notevole arricchimento delle conoscenze nel campo della geologia marina, che sono alla base delle moderne concezioni sulla mobilità dei fondi oceanici. Ed è molto bella anche la figura di Eva Giuliana Mameli Calvino, madre di Italo e prima donna in Italia a conseguire la libera docenza in botanica, nel 1915».
Come è arrivata a scegliere questa serie di storie e non altre?
«Adesso ho citato solo qualche nome: io stessa ho avuto molte difficoltà nello scegliere alcune scienziate da raccontare nel libro, tanto è ampio il ventaglio dei contributi».
Quanto è ancora difficile da superare il soffitto di cristallo per le donne che studiano le scienze «dure»?
«È ancora piuttosto spesso. Le donne rappresentano circa il 50% del totale dei laureati in discipline scientifiche, ma le ricercatrici effettive sono all'incirca un terzo del totale dei ricercatori e la percentuale decresce man mano che si sale nella gerarchia professionale, dato che solo un quinto dei professori è di sesso femminile. Le donne tendono a partecipare attivamente alla ricerca nei primi anni della carriera, mentre con l'avanzare dell' età le ambizioni professionali lasciano il posto a priorità di tipo familiare. Un secondo ostacolo riguarda l'atteggiamento auto-discriminatorio delle donne stesse nei confronti del loro ruolo professionale: si ritiene che le donne non siano in grado di raggiungere le posizioni di maggiore responsabilità, perché meno disposte degli uomini a combattere per la propria carriera».
Che cosa si può fare per contribuire al superamento dei pregiudizi e valorizzare meglio le tante donne che oggi si occupano di scienza?
«L'osservazione dei fatti suggerisce almeno due linee programmatiche per promuovere la partecipazione femminile a tutti i livelli nella carriera scientifica».
Quali sono?
«Un primo intervento dovrebbe riguardare la formazione dei futuri scienziati, che non può limitarsi agli aspetti tecnici, ma deve prendere in considerazione anche componenti psicologiche e comportamentali: si devono, per esempio, incoraggiare le giovani ricercatrici a mostrare maggiore determinazione e un atteggiamento più positivo nei confronti di se stesse e del proprio ruolo professionale per sostenere più facilmente la competizione maschile. In secondo luogo le politiche di genere non dovrebbero limitarsi alle seppur utili misure volte a conciliare al meglio la carriera con gli impegni familiari, ma devono anche superare alcune visioni tradizionali della carriera e della suddivisione dei ruoli».

La Stampa TuttoScienze 5.10.11
Il segreto degli aborigeni “Furono i primi esploratori”
Il Dna dai capelli riscrive le teorie sull’emigrazione dall’Africa
di Gabriele Beccaria


Il reperto La ciocca di capelli che ha permesso le ricerche raccontate su «Science»
Eroici Gli antichi australiani sono stati protagonisti di un’epopea unica

Anno 1923. L’antropologo britannico A. C. Haddon fa quello che tutti i suoi colleghi fanno. Raccoglie campioni umani. Anche i più innocenti, come i capelli, che spesso i «selvaggi» cedono senza discussioni. Nel carico di quella stagione c’è una lunga ciocca, regalatagli da un giovane aborigeno con cui ha fatto amicizia.
Anno 2011. Un team internazionale si dedica a quella che, scherzando un po’, è nota come «Jurassic Park science». Riscopre la ciocca, lasciata a impolverarsi in una teca, ne estrae il Dna e comincia il grande gioco dei confronti. Il risultato - come adesso è stato raccontato sulla rivista «Science» butta all’aria tutte le certezze sulla colonizzazione del Pianeta. Se i test genetici non mentono, la storia delle migrazioni umane, finora rozzamente rappresentate come una serie di linee che dall’Africa prima salgono in Europa e poi piegano verso l’Asia, sono clamorosamente sbagliate.
Il succo della scoperta è che gli aborigeni di oggi sono i discendenti diretti dei primi esploratori. I loro antenati, infatti, non hanno perso tempo. Usciti dal continente primigenio, hanno subito seguito la rotta Est, senza tappe intermedie, fino a raggiungere l’Australia, mentre gli avi di quelli che sarebbero diventati europei e asiatici stavano ancora muovendo i primi passi, non oltre quello che è oggi il Medio Oriente. E’ successo, all’incirca, 70 mila anni fa, vale a dire almeno 24 mila anni prima che iniziassero le altre migrazioni. Così, se sono arrivati a destinazione in un tempo remotissimo, già 50 mila anni fa, ora gli aborigeni possono vantare l’«albero genealogico» più straordinario.
Il merito è di quel ragazzo gentile di cui si è perso il nome e di cui sopravvive solo la ciocca. I suoi mattoni di Dna sono stati sovrapposti a molti altri genomi, un migliaio di persone selezionate dai 5 continenti, e si è visto che tra il suo popolo e i Sapiens più antichi c’è una differenza davvero minima, pari a meno dell’1%. «Mentre i predecessori di europei e asiatici stavano seduti da qualche parte in Africa o nel Medio Oriente, quelli che sarebbero diventati gli aborigeni si muovevano rapidamente, attraversando terre sconosciute in Asia e solcando il mare, fino all’Australia ha spiegato il coordinatore dello studio, Eske Willerslev, biologo evoluzionista all’università di Copenhagen -. E’ stato un viaggio davvero incredibile, che deve aver richiesto eccezionali capacità di sopravvivenza e coraggio».
I «Jurassic Park scientists» sentono crescere l’emozione. Vogliono continuare a indagare e decifrare le successive «fughe» dall’Africa della nostra specie. E poi vogliono buttare un occhio su un altro grande mistero: la colonizzazione delle Americhe. Quando si è verificata e come? Sono nascoste anche lì altre sorprese? Di sicuro i musei di tutto il mondo sono ricchi di reperti vergini, che la scienza del Dna non ha ancora sondato con i propri test.
Ma intanto una prova indiretta dell’antichità degli aborigeni arriva da un altro set di analisi, stavolta sul più enigmatico gruppo di esseri che hanno condiviso la Terra con noi umani, i Neanderthal e i Floresiensis: i Denisova. Il Dna ha svelato che parte dei loro geni è passato in molte popolazioni asiatiche, fino agli abitanti della Nuova Guinea. Sarebbero stati loro i protagonisti della «seconda grande ondata», intorno a 30 mila anni fa, invadendo le pianure della Siberia e poi scendendo verso Sud, senza però mai incontrare i primi australiani. Ora gli aborigeni del XXI secolo, dopo decenni di discriminazioni e persecuzioni, possono quindi vantare di essere tra gli sponsors della ricerca guidata da Willerslev.
La loro organizzazione si chiama «Goldfields Land and Sea Council» e da pochi giorni, grazie a qualche capello e alle lunghe sequenze disegnate dal Dna, si sente custode di una tradizione più che unica. Seguendo le «vie dei canti», si arriva dritti all’alba della nostra specie.

La Stampa 5.10.11
La tragedia di Novi
Pena scontata “Dal 5 dicembre Erika è libera”
di Grazia Longo


Dieci anni dopo il terribile massacro potrà rifarsi una vita Ora è in comunità
“Un lavoro e l’amore” I sogni di Erika a 2 mesi dalla libertà
Delitto di Novi: il 5 dicembre sarà scarcerata

Il 14 dicembre 2001 il Tribunale dei minorenni di Torino condanna la «coppia diabolica»: Erika a 16 anni Omar a 14. Verdetto confermato in Cassazione, ma per effetto dell’indulto e degli sconti di pena, il 3 marzo 2010 Omar, all’età di 27 anni, lascia il carcere di Quarto d’Asti. A dicembre la libertà vera arriverà anche per Erika: la scadenza naturale era fissata per metà febbraio ma sarà anticipata per la buona condotta. Intanto rimane sotto le cure dei fedelissimi di Don Mazzi.

Vita nuova Erika De Nardo in una foto del maggio 2006 mentre gioca a pallavolo assieme ad altre detenute a Brescia dove ha scontato la sua pena Era stata condannata a 16 anni di carcere

Paradiso. Così si chiama la strada sulla collina morenica, a pochi chilometri dal Lago di Garda, che porta alla comunità Exodus. E per Erika De Nardo, 27 anni, questo meraviglioso maneggio, dove dal 25 settembre gode un assaggio di libertà, è davvero un paradiso.
Il 5 dicembre scadrà definitivamente la sua pena per aver ucciso, dieci anni fa, la madre e il fratello, insieme al fidanzato di allora Omar Favaro, con 97 coltellate. Ma intanto incomincia a muovere i primi passi verso una vita libera. Il provvedimento porta il timbro del 23 settembre scorso. Erika non solo si è lasciata per sempre alle spalle la cella del carcere-modello di Verziano, alle porte di Brescia, ma può anche uscire dalla comunità protetta fondata da Don Antonio Mazzi.
Finora, comunque, non si è mai allontanata dalla sua nuova casa. Lonato del Garda, un paese di 15 mila anime circondato dalle colline moreniche, noto più che altro per la fortezza e la torre medievali, entrambe splendide. Erika vive in un’enorme ranch, con una piccola piscina, l’orto, l’allevamento di galline, oche e caprette, dove un gruppetto di ex tossicodipendenti e di ex detenuti si stanno riappropriando del sapore di vivere. Come sta cercando di fare anche lei. Sulla carta Erika avrebbe il permesso di allontanarsi durante il giorno, dalle 7 alle 20, per recarsi a lavorare. Per i suoi compagni, impegnati prevalentemente nelle attività di giardinaggio e verde pubblico del circondario, è già una realtà. Per lei è ancora presto. Non è neppure uscita a cavallo o con la bici.
È stata, invece, coinvolta nei lavori domestici e nella pulizia dei cavalli. Una passione, quest’ultima, che si concilia con il suo desiderio di libertà e di amore che comunica alle amiche in alcune lettere. «È la vita che vince» è lo slogan dell’Exodus dipinto a colori vivaci all’ingresso della comunità alloggio. Quella vita che lei, la sera del 21 febbraio 2001, tolse alla madre Susy Cassini, 42 anni, e al fratello Gianluca, 12 anni. Suo padre, l’ingegner Franco De Nardo, fece preparare due corone di fiori: «Da tuo marito e tua figlia», «Da tuo padre e tua sorella». Mentre quella figlia, quella sorella era già in carcere, arrestata dai carabinieri che avevano messo i microfoni e le telecamere nella sala d’aspetto della caserma: filmarono Erika che mimava le coltellate.
Ma gli assistenti sociali, prima del carcere e ora della comunità, giurano che Erika è cambiata. «Oggi è un’altra persona, ha diritto di rifarsi una vita». Una degli operatori di Pegasus, la società onlus che gestisce la Exodus di Lonato del Garda, aggiunge: «Il Signore conosce il perdono. Lui ha già perdonato Erika, che negli anni ha lavorato, con il sostegno degli psicologi, per perdonare se stessa. Speriamo che ora la perdoni anche il mondo».
Quel mondo di persone ma anche di piccoli e grandi eventi a cui Erika anela. Una serata al cinema, un’altra in discoteca, un’altra ancora con un nuovo amore. «Voglio sposarmi presto e avere dei figli - racconta a chi le sta accanto l’ex ragazzina biondo mechata che oggi ha lunghi capelli neri spesso raccolti in una coda - e mi piacerebbe molto lavorare a contatto con i ragazzini». Laureata, mentre era in carcere, in filosofia, con una tesi da 110 e lode su «Socrate e la ricerca della verità negli scritti platonici», Erika si rivela una ragazza molto socievole, aperta, capace di insegnare a chi le chiede aiuto.