venerdì 7 ottobre 2011

l’Unità 7.10.11
Tre milioni in nero
Camusso: dobbiamo tornare alle regole
Ai funerali i sindacati confederali e il Pd. La leader della Cgil: «Tutti responsabili se pensiamo sia normale lavorare per 4 euro l’ora»
I dati drammatici della Cgia sul sommerso: un esercito senza diritti
di I. Cim


«Questa è una delle più grandi stragi sul lavoro del Paese, quelle donne stavano lavorando in un luogo non idoneo. Non è che ci solleviamo se si tratta di cinesi e per gli altri non vale. Ora bisogna avere un grande rispetto per le vittime e le loro famiglie. Poi, dopo il dolore e l’attenzione alle famiglie, bisogna riflettere seriamente su come si fa a far ripartire un’economia legale in questa città, nel Mezzogiorno e in tutto il Paese».
Così il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, a Barletta per i funerali pubblici delle quattro operaie senza contratto, morte schiacciate dal palazzo crollato di via Roma. Con loro c’era anche la figlia 14enne del titolare della ditta. Nessun commento esplicito è giunto dal segretario generale sulle parole del sindaco Nicola Maffei, che non si era sentito di criminalizzare chi, pur di dare un lavoro, sottopagava gli operai. Il segretario generale, però, pur precisando che «non voglio interpretare né credo sia utile farlo», ha detto che «il tema della sicurezza sul lavoro va affrontato e non si può giustificare né l’evasione né il lavoro nero. Forse bisognerebbe ripartire e ricostruire certezza delle regole, luoghi. Questo mi pare il vero messaggio di questa giornata con tutto il rispetto ovviamente per tutte le famiglie e per il loro dolore».
Secondo i dati della Cgia, infatti, in Italia risultano lavoratori a nero quasi 3 milioni di persone, il che «dimostra che l’idea del Governo di contenere il fenomeno attraverso un aumento dei rapporti di lavoro flessibile è miseramente fallito», ha detto Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera. Secondo i dati della Cigl Puglia, invece, i lavoratori a nero risultano essere circa il 30% su un milione e 200mila impiegati. Tanti i motivi di questa diffusione del sommerso. Nella provincia Bat, per esempio, sarebbe stato l’avvento della concorrenza internazionale e, più in particolare cinese, a far fallire la filiera del tessile. Fino alla fine degli anni 90, infatti, Barletta era la capitale della produzione di abbigliamento. Ricche commesse da case di moda italiane avevano portato lavoro. Ha spiegato il segretario generale della Cisl, Raffale Bonanni, che «appena quindici anni fa Barletta aveva un sistema economico abbastanza florido e realizzava prodotti assolutamente apprezzati. Questi sono stati esposti alla concorrenza internazionale e non sono stati sorretti in Italia. Questo è il punto vero e su questo bisogna riflettere con molta forza da parte di tutti».
Quindi, sarebbe in parte la competizione con produttori più economici, alla base del sommerso. Un’idea da combattere, per il segretario generale Cgil, che afferma: «Accettare l’idea che si competa in questo modo ci porta a quelle condizioni. Invece dovremmo avere la forza e la capacità di competere meglio e di sapere che l’obiettivo è quello che altri non debbano più lavorare così e non che noi dobbiamo lavorare come loro».
La Guardia di Finanza, dunque, ha alzato il tiro e, su disposizione della Procura della Repubblica di Trani ha disposto una serie di controlli su larga scala. Da martedì infatti ci sono accertamenti a tappeto in tutti i maglifici di Barletta, al fine di stanare chi si serve di manodopera a nero e sottopagata. Inoltre accertamenti sono in corso per identificare l’esatto numero di “micro-maglieri” abusive disseminate in tutte la città e concentrate in strutture fatiscenti, per sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine.

l’Unità 7.10.11
Domani la manifestazione nazionale contro la manovra del governo
Stipendi ridotti di 10mila euro in 4 anni. E i precari pagano di più
Tagli a scuola, sanità, servizi pubblici
La Cgil scende in piazza
Da piazza della Repubblica il corteo sfilerà fino a piazza del Popolo, contro i tagli all’istruzione, sanità e servizi. Sul palco Susanna Camusso e i segretari di Flc e Fp, insieme ai precari del pubblico impiego
di Alessandra Rubetti


In piazza contro i tagli contenuti nella manovra del governo che si abbattono sul settore pubblico. Non solo per difendere gli stipendi di insegnanti, medici, infermieri, per ridare un futuro alla ricerca ma, soprattutto, per gridare che il «pubblico è futuro», come recita lo slogan che dà il titolo alla manifestazione nazionale dei lavoratori pubblici e della conoscenza organizzata per domani dalla Cgil. Appuntamento alle 14 in piazza della Repubblica, per sfilare fino a piazza del Popolo. Sul palco, insieme a Susanna Camusso, ci saranno i segretari della Flc e della Fp, Mimmo Pantaleo e Rossana Dettori, e poi, anche lì, alcuni precari. Quei lavoratori senza certezze quelli colpiti con più ferocia dalle scelte economiche degli ultimi anni che marceranno nel cuore del corteo.
«Avevamo detto che la manovra era iniqua, sbagliata e con carattere depressivo. E i fatti ci stanno dando ragione. Gli atti del governo dimostrano un particolare accanimento verso tutto ciò che è pubblico e in particolare per i lavoratori della pubblica amministrazione e per i precari», ha ricordato ieri il segretario confederale della Cgil Fulvio Fammoni, alla conferenza stampa per presentare la mobilitazione. Una «manifestazione per la democrazia», come la definisce Pantaleo, perché «senza il servizio pubblico sei privato dei tuoi diritti» così recita lo slogan sui manifesti in giro per Roma e con la quale «vogliamo spiegare che la manovra del governo colpisce tutti i cittadini, che in ogni caso faranno le spese della riduzione dei servizi pubblici», annota Dettori.
I dati forniti ieri dal sindacato di Corso d’Italia parlano di quali saranno gli effetti dell’ultima manovra, sommati a quelli delle politiche economiche di questo governo dal 2008 in poi. Il risultato è che, a causa del blocco dei rinnovi dei contratti nazionali, nei prossimi quattro anni un insegnante di scuola media con più di 20 anni di servizio perderà circa 9 mila euro, un professore universitario 14.760 euro. Se a questo si aggiungono gli effetti della riduzione del salario accessorio, in media nella scuola e nella pubblica amministrazione la mannaia del centrodestra produrrà delle perdite sul reddito che andranno oltre i 10mila euro.
«Il governo dice di non aver messo le mani in tasca ai cittadini, ma non è affatto vero», contesta Dettori, citando le due ultime finanziarie, per una riduzione complessiva del 53 percento sui finanziamenti destinati a enti locali, regioni e sanità. A ciò si affianca la decisione di dimezzare la spesa per il personale del pubblico impiego, che si traduce in «licenziamenti occulti», ovvero in contratti precari non più rinnovati: così 31 mila precari sono già rimasti a casa e a loro se dovranno aggiungere altri 40 mila. «L’emorragia di risorse non riguarda solo i lavoratori. La scuola ha perso 8 miliardi. Il diritto all’istruzione non è più garantito», contesta Pantaleo, chiedendo che si torni a investire su scuola, università e ricerca, secondo formule diametralmente opposte a quelle indicate dal governo e dalla Bce per uscire dalla crisi.
«Anche il blocco del Tfr: è stato deciso solo per i dipendenti pubblici», sottolinea Rossana Dettori, «è evidente che c’è un problema di disparità. Gli unici cui il governo ha messo le mani in tasca sono i lavoratori pubblici. Il vero obiettivo è la riduzione degli spazi pubblici, che va a intaccare il diritto alla formazione, alla salute, al lavoro».
E se per domani la Cgil si prepara a una protesta ad alta partecipazione, con pullman in arrivo da tutta Italia da Imola fanno sapere che sbarcheranno a Roma con alla mano una raccolta di firme per chiedere la patrimoniale, e intanto anche Sel aderisce alla manifestazione la Cisl convoca per il 12 ottobre gli stati generali del pubblico impiego, lanciando la mobilitazione degli statali.

l’Unità 7.10.11
Intervista a Enrico Panini
«Mobilitazione per stringere alleanze per il Paese»
Oltre gli indignados «Per risolvere i problemi dell’Italia serve riscoprirne la dimensione collettiva. Il pubblico è garante di democrazia»
di Luigina Venturelli


La parola d’ordine scelta per la manifestazione recita «Pubblico è futuro». E sullo striscione d’apertura del corteo si legge «Un paese senza memoria è un paese senza futuro». Parole d’ampio respiro politico. Inadatte ad una rivendicazione sindacale in senso stretto. Enrico Panini, responsabile organizzazione della Cgil, perché la manifestazione di domani non sarà una semplice protesta di categoria?
«In piazza scenderanno i lavoratori del pubblico impiego e della conoscenza, i più colpiti dalle manovre di questo governo, che nei loro confronti ha condotto una vera e propria vendetta ideologica per quello che rappresentano: il pubblico come garante bene di tutti, sfera di diritti collettivi, ambito dal quale sono passati negli anni i più importanti avanzamenti sociali di questo paese. Basti pensare alle riforme del sistema sanitario e al loro impatto sulla salute di tutti i cittadini o sui diritti delle donne, basti pensare alla scuola pubblica e alle conquiste dell’istruzione di massa per la crescita sociale e culturale dell’Italia». Sembrano passati secoli.
«Per questo quella di domani sarà una grande manifestazione di popolo: perché il pubblico, in ultima analisi, è garante della democrazia. In arrivo nella capitale ci sono seicento pullman e due treni speciali, saranno presenti lavoratori di altre categorie, ma anche studenti, famiglie con figli in età scolare, movimenti in difesa dei diritti del malato e molte altre associazioni. Il disegno di questo governo è privatizzare tutto il possibile fino a lasciare solo uno Stato minimo, caritatevole, che si occupi dello stretto bisogno per le fasce più deboli, lasciando che per tutto il resto il censo funzioni come elemento regolatore dei diritti di uomini e donne. Un vero e proprio stravolgimento della nostra Costituzione».
Prima lo sciopero generale del 6 settembre, poi la protesta dei pensionati e la manifestazione per il lavoro a dicembre. Qual è il senso di questa lunga stagione di protesta? E quale la diversità rispetto ai tanti indignados? «L’iniziativa della Cgil vuole essere un presidio di democrazia, fare da collante tra le diverse parti della società, fonte di alleanze nel paese. Per affrontare davvero i problemi dell’Italia bisogna riscoprirne la dimensione collettiva, ritrovare le ragioni per stare insieme, ed uscire dalle rivendicazioni mie o tue che animano tante proteste di questa fase storica».
Si tratta di riparare danni di lungo periodo.
«Il liberismo e il berlusconismo hanno cercato in ogni modo di ridurre lo spazio delle forme di intermediazione e rappresentanza sociale per arrivare all’estrema semplificazione che contrappone un leader a un popolo anonimo. E che nulla c’entra con la democrazia ampia ed articolata disegnata dalla nostra Costituzione».
È questo l’obiettivo dell’iniziativa Cgil? Riparare i danni?
«L’obiettivo primario è rispondere alle tante domande insolute di un Paese che per buona parte si è impoverito drammaticamente mentre l’altra si arricchiva, anche grazie all’evasione fiscale. Per questo la Cgil ha presentato una serie di rivendicazioni e proposte programmatiche per modificare i rapporti di forza nel Paese ed intraprendere un percorso di crescita su binari completamente diversi da quelli che ci hanno portato a questa crisi».
Nel merito?
«Per trovare risorse economiche nel breve periodo proponiamo un intervento sui grandi patrimoni e una stretta contro l’evasione, ma nel medio e lungo periodo servono misure per crescere: un piano straordinario per l’occupazione giovanile, investimenti nel pubblico, nel sapere e nella ricerca oggi ridotta la lumicino. Per ora saranno i precari della conoscenza e dei comparti pubblici a pagare questa crisi con l’espulsione dal lavoro. Quegli stessi giovani su cui invece dovremmo puntare per l’ammodernamento del sistema».
Non vi sentite soli in questa lotta? Quali spazi ci sono per costruire iniziative comuni con Cisl e Uil e, magari, un nuovo patto sociale? «L’intesa del 28 giugno sul modello contrattuale e la scelta di Confindustria di non applicare l’articolo 8 della manovra rappresentano passi importanti. Ma al momento, in questa fase politica, non vedo le condizioni per una condivision

l’Unità 7.10.11
Il relatore Costa al lavoro per allargare il consenso. Il numero di Wikipedia: il testo è un’idiozia
Bersani: «È un problema che va affrontato, ma le ricette sono totalmente sbagliate»
Intercettazioni si va verso la fiducia Pd: «Colpo di mano»
Berlusconi è categorico: bisogna andare avanti con il disegno di legge sulle intercettazioni e poi completare la riforma della giustizia. L’Aula della Camera inizia l’esame del testo, che slitta alla prossima settimana
di Pino Stoppon


Silvio Berlusconi è categorico: bisogna andare avanti con il disegno di legge sulle intercettazioni e poi completare la riforma della giustizia. L'Aula della Camera inizia l'esame del testo, che slitta alla prossima settimana quando, dopo l'esame della nota di variazione al Def, si proseguirà con la discussione sul complesso degli emendamenti. Ieri, infatti, non si è votato nessuno degli emendamenti malgrado il governo avesse fatto convocare in aula tutti i suoi deputati «senza eccezione alcuna» per evitare imboscate dell'opposizione. Il nuovo relatore Enrico Costa (Pdl) è al lavoro per allargare il consenso sul testo, ma il governo valuta l'ipotesi di porre la fiducia sul disegno di legge che è duramente contestato dalle opposizioni.
Un'ipotesi, quella di blindare il provvedimento, su cui però nel Pdl non tutti sono d'accordo. A partire dai Cristiano-popolari di Mario Baccini fino a Francesco Pionati, di Adc, i quali consigliano «grande prudenza sull'uso della fiducia per puntare invece ad una riforma il più possibile condivisa» della disciplina degli ascolti telefonici. Secondo Umberto Bossi, il provvedimento sulle intercettazioni «passa anche senza la fiducia». «Il ddl sostiene il Senatur serve a far diventare il nostro paese normale, perché le intercettazioni sono usate indipendentemente dai processi». Ma il Pd continua la sua battaglia rinnovando l'invito al governo a ritirare il provvedimento: «L'annunciato ricorso alla fiducia sarebbe l'unico escamotage per nascondere la debolezza della maggioranza», sostiene Donatella Ferranti che si appella alla Lega perché» valuti i rischi per la sicurezza determinati dalla legge». D'altra parte, Giuseppe Pisanu, uno dei «malpancisti» del Pdl, sostiene che le intercettazioni sono «un problema secondario rispetto alla drammaticità della crisi economica», auspicando una soluzione «sulla linea del compromesso che si era raggiunto in commissione giustizia che evitava gli abusi ma garantiva la tutela di questo strumento per le indagini e la libertà di informazione». Un concetto molto simile a quello di Vannino Chiti del Pd, secondo cui le intercettazioni «sono solo la priorità di Berlusconi».
Il leader dei Democratici, Pier Luigi Bersani, denuncia un «colpo di mano», sottolineando che quello delle intercettazioni «è un problema che va affrontato, ma le ricette sono totalmente sbagliate». Duro è Italo Bocchino di Fli: «Non possiamo permettere che la stampa venga imbavagliata. Se la maggioranza vuole proseguire con questo scempio, noi ci opporremo per il bene dell'informazione e del diritto degli italiani di essere informati». Contestazioni su cui fa muro il Pdl. «Qui non si vuole salvaguardare il diritto di cronaca ed informazione bensì si vuole garantire l'assoluta anarchia ed un vero e proprio far west», tuona in Aula Luigi Vitali, mentre in Senato il Pdl presenta un'interrogazione in cui viene denunciata una «lesione grave e continuativa del diritto di difesa costituzionalmente sancito», nelle procure di Milano e Napoli, citando i processi Mills, Mediaset, Ruby, i casi Lavitola-Tarantini e quello di Alfonso Papa. Sull’argomento interviene anche il numero uno di Wikipedia Jimmy Wales: «È una legge idiota che infligge un duro colpo alla libertà di espressione». Sulla stessa lunghezza d’onda anche il settimanale inglese The Economist. Il disegno di legge, è scritto nell’ultimo numero, voluto da Berlusconi appare come «un ultima coltellata» che, «piuttosto che proteggere le libertà civili, limita la libertà di espressione dei media».

il Fatto 7.10.11
Le verità da non pubblicare
di Caterina Malavenda


Che il Parlamento voglia intervenire sulle intercettazioni e sulla loro divulgazione non v'è dubbio. Sul testo che verrà sottoposto all'approvazione della Camera, invece, regna sovrana l'incertezza, vista la possibilità per il governo di apportare modifiche in corso d'opera. Quel che si sa del progetto basta, però, per individuare gli obiettivi che il disegno di legge n. 1451-c si prefigge di raggiungere, con le sostanziali modifiche apportate alle norme attualmente vigenti. E si tratta di obiettivi in parte condivisibili, poiché si intende tutelare chi, estraneo alle indagini, finisce prima nei brogliacci e poi nelle trascrizioni di conversazioni, certamente irrilevanti e non solo per le indagini, pubblicate a volte con troppa leggerezza.
 DETTO QUESTO, però, il rimedio non può essere certo la compressione assoluta della libertà di raccontare vicende di evidente interesse pubblico, attraverso la diffusione di conversazioni non più segrete. Anche quelle prive di rilevanza penale, stralciate e riposte in un archivio inaccessibile, siccome inutili per le indagini, possono fornire, infatti, elementi preziosi per la compiuta formazione dell'opinione pubblica, come recenti vicende stanno lì a dimostrare. Non basta. Se sarà approvato il testo uscito dalla Commissione Giustizia, così come emendato, ad esempio, occorrerà attendere un tempo insopportabilmente lungo – fino a 50 giorni se va bene, trattandosi di termine non perentorio e la cui violazione rimane priva di conseguenze processuali – anche per poter conoscere i presupposti di un'ordinanza di custodia cautelare, specie qualora essa si basi, essenzialmente, sul contenuto di intercettazioni telefoniche o ambientali. Anche nel caso in cui interi brani fossero trascritti dal Gip nell'atto, notificato all'indagato al momento dell'arresto e, quindi, non più segreti ed evidentemente rilevanti per l'emissione della misura, il giornalista dovrà astenersi dal farne parola fino a quando un collegio, composto da altri tre giudici – o forse uno, secondo un emendamento totalmente condivisibile – già incaricato di autorizzarle, non abbia deciso che quelle intercettazioni sono davvero rilevanti per le indagini.
 Stesso iter per le intercettazioni che vengano messe a disposizione delle parti, alla fine delle operazioni o, più spesso, alla conclusione delle indagini preliminari, così perdendo la segretezza che le ha caratterizzate fino a quel momento. Brogliacci, files e trascrizioni di cui l'indagato può disporre, potranno essere pubblicati in sintesi solo all'esito della oramai famosa udienza filtro, da tenersi entro e non oltre 45 giorni dopo che le parti avranno finito di esaminarli. Il termine sarà ulteriormente dilatato, ove il collegio decidesse di far trascrivere le conversazioni, prima di valutarle. Ovviamente i giornalisti, che avranno potuto leggere l'intero materiale, quando sarà loro concesso, dovranno limitarsi a parlare solo delle conversazioni che saranno risultate non manifestamente irrilevanti, espunti comunque fatti, circostanze e persone estranei alle indagini, anche se non lo sono alla cronaca. Diverranno, invece, ad insindacabile giudizio del collegio, inaccessibili fino a nuovo ordine, che potrà non arrivare mai, tutte le altre conversazioni, con una limitazione intollerabile del diritto di informare e di essere informati anche su ciò che è estraneo al codice penale. Ancora una chicca: se il magistrato che conduce le indagini non può rilasciare dichiarazioni sul suo procedimento, il giornalista che ne pubblica il nome o l'immagine commette un reato del quale risponde economicamente anche l'editore.
 Ciò a meno che, ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca, non risulti impossibile separare l'immagine del magistrato dalla “rappresentazione dell'avvenimento”. Una buona e una (apparente) cattiva notizia, per chiudere. La buona: gli editori sono stati esonerati dalla responsabilità amministrativa, derivante dalla pubblicazione di atti ed intercettazioni, essendo tenuti a pagare quote piuttosto importanti solo nel caso in cui si tratti di intercettazioni illegali o di quelle stralciate, perchè irrilevanti. Se a pensar male si indovina è possibile che ciò dipenda dall'incessante lavorìo delle lobbyes o dalla volontà di rompere il fronte che si oppone alla promulgazione della legge. Il risultato non va sottovalutato: l'editore non avrà più motivi per interferire sulle decisioni di direttore e giornalisti che, rispettando i divieti più seri e ragionevoli, potranno decidere cosa pubblicare, rispondendone direttamente e mettendo in gioco, in caso di probabile inasprimento delle pene, quella libertà, in nome della quale avranno violato la legge.
 LA CATTIVA: ancora ieri si parlava di carcere per i giornalisti, ipotesi al momento non ancora all'ordine del giorno, ma da non escludere. Forse non è questa l'intenzione, ma potrebbe aiutare ad uscire dall'equivoco: oggi i processi per pubblicazione arbitraria di atti di indagine possono essere definiti pagando una somma irrisoria che, nel disegno di legge, viene drasticamente aumentata, passando da 125 a 2.500 euro o a 5000 euro, se si tratta di intercettazioni. Chi può permetterselo potrebbe ancora decidere di rischiare, a scapito di chi, per denaro, dovrà rinunciare. Eliminando questa possibilità e prevedendo il carcere, resta in gioco solo la libertà personale, quella libertà che ciascun giornalista potrà decidere di mettere a repentaglio, se davvero crederà che ne valga la pena.

il Fatto 7.10.11
Assalto finale alla Giustizia
di Gian Carlo Caselli


A furia di ripeterle anche le balle finiscono per sembrare vere e, tuttavia, non si può abdicare al dovere di ragionare. Ragionando, si vedrà che l’intervento giudiziario è in espansione in tutti i sistemi democratici. Ovunque esso crea frizioni con il potere politico, fino a turbare destini di governi. Gli esempi che si possono fare sono infiniti. Eccone alcuni: Clinton è stato processato perché una previdente stagista aveva conservato una certa macchia sul suo abito; la prima elezione di Bush è stata decisa da un giudice della Florida; l’ex primo ministro De Villepin è stato coinvolto in un affare di tangenti per alcune fregate vendute a Taiwan ; in Israele il presidente della Repubblica Katsav si è dimesso (prima ancora della condanna) perché accusato di molestie sessuali.
 SIAMO DUNQUE di fronte a un fenomeno che ha dimensioni oggettive, non riconducibile a mere forzature soggettive. Il caso italiano non fa eccezione, ma presenta una specificità che lo rende anomalo: il magistrato che tocca certi interessi deve mettere in conto che potrà subire un’aggressione, fatta di insulti (fresco di giornata quello che nella giustizia penale ci sono schegge impazzite che puntano all’eversione) e di ostacoli vari frapposti alla sua azione. Un accerchiamento che si risolve in un sostanziale rifiuto della giurisdizione o nel tentativo di piegarla ad interessi di parte. È questo il quadro che finiscono per disegnare alcune iniziative dell’attuale maggioranza in tema di giustizia (e si fa per dire: perché in realtà si tratta di interventi che hanno nel mirino il sereno esercizio della giurisdizione, mentre poco o nulla si continua a fare per la giustizia vera e propria, cioè per un miglior funzionamento del sistema). Il premier e i suoi epigoni (condizionati dall’ossessione del primo per i suoi problemi giudiziari) sfornano a ripetizione interventi che vanno appunto nella direzione dell’accerchiamento. Un giorno si parla di “processo breve”, ma tutti capiscono che l’obiettivo è far svanire – fra i tanti – due noti processi per frode fiscale e corruzione in atti giudiziari. Il giorno dopo si parla di “processo lungo”, con una tendenza preoccupante alla schizofrenia e comunque mettendo in cantiere un progetto assurdo visti i tempi biblici della giustizia, ma utile a far precipitare altri processi “eccellenti” nel baratro della prescrizione. Poi c’è la riforma delle intercettazioni, che mentre impedisce di conoscere i vizi (pubblici o privati) di chi non ama troppi controlli, riduce pesantemente i poteri di indagine della magistratura. Come se ai medici si togliessero le radiografie, indispensabili – come le intercettazioni – per scoprire mali che altrimenti resterebbero nascosti.
 SULLO SFONDO la tempesta delle polemiche scatenate senza sosta contro i giudici. A partire dal colore turchese dei loro calzini. Proseguendo con gli ammonimenti a non parlare troppo disinvoltamente di giustizia (in un paese in cui tutti ne parlano, spesso con toni da bar dello sport): mentre proprio le asprezze della stagione richiedono ai magistrati la “parola” (che è un diritto, ma anche un contributo potenzialmente utile per una giustizia migliore). Per finire con la litania degli errori giudiziari che nessuno mai paga, quando si tratta non di errori ma di divergenze di valutazione fra le diverse fasi del giudizio. Divergenze (per quanto capaci di destare enorme scalpore) che di regola restano “fisiologiche”: salvo preferire un sistema come quello nordamericano – assai meno garantista del nostro – dove la condanna dell’imputato è decisa da una giuria popolare con un semplice bigliettino su cui sta scritto “guilty” (colpevole), senza nessuna motivazione e senza nessun controllo da parte di un altro giudice (l’appello non è ammesso, salvo che per specifiche questioni di procedura). Dunque delle due l’una: o si esclude anche da noi l’appello (così scompariranno gli “errori”, perché diventa impossibile il contrasto di giudizi) oppure, fermo restando il diritto di criticare tutte le sentenze, non si prendano più a pretesto dolorosissime vicende per agganciarvi attacchi al modo stesso di esercitare la giurisdizione, posto che le divergenze sono connaturate (“fisiologiche”) a un sistema articolato su più fasi. Invece, in Italia si registrano persino tentativi della maggioranza per ottenere dai giudici una certa interpretazione della legge o per sostituirsi a essi nell’interpretazione, rendendo così l’accerchiamento sempre più stretto e soffocante.

Corriere della Sera 7.10.11
Letta e Franceschini vicini alla minoranza
Ma il tempo gioca a favore di Bersani
di Maria Teresa Meli


ROMA — Come nella migliore tradizione, nel Pd ufficialmente negano tutti divisioni e difficoltà. Ma è dalla riunione di direzione del 3 ottobre scorso che qualcosa è cambiato. E che la maggioranza su cui poteva fare affidamento Bersani si è andata assottigliando. Enrico Letta si è sfilato in nome della linea dettata dalla Bce. Franceschini ha marcato le distanze sul referendum e sugli scenari futuri: lui è favorevole a un governo di transizione, il leader continua a dire che quello «non è il progetto del Pd».
Non è un caso, dunque, che Letta e Franceschini abbiano deciso di partecipare all'assemblea nazionale dei Modem, che si terrà a Roma lunedì prossimo. Su Bce ed esecutivo d'emergenza Veltroni, Fioroni e Gentiloni — i tre «big» della minoranza interna — la pensano esattamente come il vicesegretario e il capogruppo.
I movimenti dentro il suo partito non sfuggono a Bersani. Del resto, Veltroni non ha fatto niente per nascondere il suo pranzo, martedì, con Franceschini, né i suoi frequenti «pour parler» con Letta. Com'era sotto gli occhi di tutti la battaglia dell'altro giorno all'Anci, dove il candidato ufficiale del segretario, Michele Emiliano, è stato impallinato dai sindaci delle due regioni rosse per eccellenza. Ossia l'Emilia Romagna (che, peraltro, è la «patria» di Bersani) e la Toscana.
Con il segretario, in questo momento, c'è solo la maggioranza dura e pura composta da bersaniani e dalemiani. E neanche da tutti, perché i quarantenni mostrano una certa inquietudine. Ma anche se in questa fase Bersani può contare su numeri risicati, e se mai come in questi giorni appare in difficoltà, le porte per lui sono tutt'altro che chiuse. Ci sono due elementi che giocano in suo favore.
Innanzitutto il tempo. Per mandare in porto l'operazione che hanno in mente, infatti, i leader della minoranza interna hanno bisogno di arrivare alle elezioni nel 2013. Altrimenti, come ha ammesso Fioroni, «salta tutto». E quel che dovrebbe saltare è il tentativo sia di evitare un'alleanza stretta con Idv e Sel che di sostituire a Bersani un altro candidato premier. Il nome su cui si punta è quello di Matteo Renzi. Veltroni, infatti, non nutre più mire su quel ruolo. Piuttosto, vuole ritagliarsi uno spazio da «king maker». Anche Rosy Bindi, del resto, un'altra che punta a candidarsi come premier, ha bisogno di un orizzonte che non si fermi al 2012. Ma il tempo rischia di essere ben più esiguo. Il governo di transizione, infatti, sembra un'ipotesi più che mai tramontata: se cade Berlusconi, ci sono solo le elezioni. Così è stato interpretato al Pd il riferimento di Napolitano a Pella: il suo governo è stato quanto di più lontano dall'esecutivo di transizione guidato da Mario Monti di cui si è parlato ultimamente. E con il voto a breve termine il segretario diventa il candidato premier più probabile, benché Gentiloni continui a dire che «non è detto che sia Bersani nemmeno nel 2012».
L'altro elemento in favore del segretario è costituito dalla sponda dell'Udc: anche Pier Ferdinando Casini preferisce le elezioni anticipate. All'indomani del voto, infatti, il leader centrista diventerebbe determinante, con un esecutivo di transizione, invece, perderebbe quasi ogni margine di manovra. E Bersani ha già detto che in caso di vittoria elettorale, dopo chiederebbe comunque la «collaborazione con l'Udc». Il cui gran capo, potrebbe ottenere in cambio il Quirinale.

Repubblica 7.10.11
Il ritorno della sinistra
di Alessandra Longo


Forse la sinistra sta per tornare di moda. La previsione è di Carlo Freccero, il cui saggio è stato pubblicato su Alternative per il socialismo, la rivista di Fausto Bertinotti. Scrive Freccero: «Diceva Andy Warhol che chi ha avuto successo una volta, ed è in grado di conservarsi nel tempo fedele alla sua identità, prima o poi avrà modo di tornare di moda». E allora ecco spiegato il perché del possibile ritorno della «gauche»: «Nel trentennio che ci siamo lasciati alle spalle la sinistra ha ostinatamente rifiutato di accettare i cambiamenti della postmodernità». Insomma, «si è conservata ostinatamente anacronistica, ha mantenuto un realismo da prima rivoluzione industriale, e perciò rischia oggi di essere attuale». Messa così, precisa Freccero, «non è un complimento».

l’Unità 7.10.11
Dodicimila persone scadute e clandestine «Il governo che fa?»
Finiti i 6 mesi concessi agli immigrati dal Nordafrica in rivolta
Non tutti sono scappati in Europa, come sperava Maroni
di Felice Diotallevi


È scaduto il tempo per loro. Sono gli 11 mila e ottocento immigrati che fuggirono dal Nordafrica ai tempi dell’ondata rivoluzionaria, fra l’inverno e la primavera scorsa. Si decise di fare loro un permesso provvisorio, di sei mesi, a partire dal 7 aprile. Oggi termina. Questa la legge. Questo il decreto che fu firmato dalla presidenza del consiglio per contrastare l’emergenza di Lampedusa. L’isola mediterranea stava esplodendo. L’Italia si rimpallava con l’Europa e con gli stati africani le responsabilità. Poi il decreto e i permessi a tempo determinato. E solo «per i cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa affluiti nel territorio nazionale dal 1 ̊ gennaio 2011 fino alla mezzanotte del 5 aprile 2011». Nessuna proroga è annunciata e così le associazioni che accolgono i migranti si troveranno a breve a ospitare irregolari. Arci, Caritas e Asgi infatti si allarmano e chiedono al governo di «muoversi».
Le intenzioni “soperte” del governo erano semplici: una mini sanatoria a tempo avrebbe certamente invogliato gli immigrati a darsi alla fuga verso altri paesi. Chi subito, chi dopo. Tutti comunque prima dei sei mesi. Ai permessi infatti era stata data validità per attraversare le frontiere di Schengen e circolare liberamente in Europa. Ma le restrizioni delle autorità francesi le battaglie a Ventimiglia hanno fatto sì che molti dei migranti siano rimasti in Italia. La Protezione civile quantifica questo “resto” in 11.800 persone. Profughi libici e migranti tunisini. I tunisini coi permessi in scadenza, così come i profughi provenienti dalla Libia e in attesa della procedura di riconoscimento dell'asilo, sono ospitati presso strutture pubbliche e associazioni. Attualmente sono distribuiti in tutte le regioni italiane, con l'eccezione dell'Abruzzo ancora impegnato ad assistere i cittadini colpiti dal terremoto e per questo escluso dal piano di assistenza della Protezione civile 1.
Di fatto, queste persone da oggi saranno clandestine. Cosa accadrà?
Dai volontari della Caritas veneziana, all'Arci di Genova, per arrivare agli avvocato dell'Associazione di studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) arriva un campanello d'allarme: «Siamo di fronte a una situazione assurda: i permessi di soggiorno sono in scadenza e non c'è nessuna presa di posizione da parte del governo». A Bologna si chiede esplicitamente il rinnovo dei documenti: a chiederlo al Governo, associandosi alla campagna promossa dalle associazioni Ya basta e Al Sirat, è la Camera del lavoro del capoluogo emiliano. «Siamo fermamente convinti che queste persone, al pari degli altri hanno diritto a vivere nella regolarità e nella legalità e che l'ingresso nella clandestinità debba essere in tutti i modi evitato», scrive in una nota Anna Rosa Rossi, responsabile delle politiche dell'immigrazione della Camera del lavoro. In quest'ottica, la Camera del lavoro darà il suo contributo nella raccolta fondi «Adotta un kit della dignità» proposta da Ya basta e Al Sirat.

«La raccomandazione a favore dello Stato palestinese ha raccolto all'Unesco 40 voti favorevoli su 58». Solo quattro Paesi hanno votato contro
l’Unità 7.10.11
Strasburgo Standing ovation dei 47 stati membri per il leader dell’Anp
Dialogo «Ma gli insediamenti israeliani sono un serio ostacolo alla pace»
Abu Mazen all’Europa «Vi chiedo di sostenere la primavera palestinese»
Mahmud Abbas conquista il Consiglio d’Europa. Grandi applausi accompagnano il discorso a Strasburgo del presidente palestinese. Che ha intascato anche l’appoggio dell’Unesco
di Umberto De Giovannangeli


Una standing ovation saluta il suo discorso. «Mahmud» conquista il Consiglio d’Europa. «Avete appoggiato la Primavera araba che chiedeva democrazia e libertà. Ora è arrivata anche la Primavera palestinese, che chiede libertà e la fine dell'occupazione. Ci meritiamo il vostro sostegno». Si rivolge così Mahmud Abbas (Abu Mazen) all' Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (Apce) a Strasburgo. «Pace, dialogo, convivenza civile, collaborazione, sicurezza», ripete più volte il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
APPELLO ACCORATO
I palestinesi vogliono solo vivere in pace e hanno fatto ogni sforzo per raggiungere questo obiettivo, rimarca Abu Mazen davanti ai rappresentanti dei 47 Stati membri del Consiglio d'Europa. Il presidente spiega che i palestinesi si sono sempre seduti con fiducia al tavolo dei negoziati, anche accettando, nonostante i dubbi, piani come la Road Map. Ma il nuovo governo israeliano «ora insiste per azzerare quanto sinora concordato per ripartire da zero e dà preminenza alla questione della sicurezza». E più volte è tornato sulla questione degli insediamenti israeliani che sono «un serio ostacolo per la pace». «Noi dimostreremo il potere che hanno le persone inermi di fronte ai proiettili e alle ruspe distruttrici», afferma Abu Mazen ricordando che come la «Primavera araba» voleva liberarsi dei dittatori quella palestinese chiede solo di liberarsi dell'occupazione israeliana. «Questo movimento resta pacifico nonostante tutte le provocazioni», assicura. La visita del leader dell’Anp arriva due giorni dopo che l'Apce ha reso il Consiglio nazionale palestinese (Cnp) un «partner per la democrazia» e ha espresso il suo sostegno alla domanda dei palestinesi davanti all' Onu. Sei membri del Consiglio d'Europa si riuniscono al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Abu Mazen, che si esprimeva in arabo, ha a lungo giustificato la sua iniziativa alle Nazioni Unite, spiegando che le speranze dei palestinesi di avere il loro Stato sono state troppo a lungo deluse.
DIALOGO POSSIBILE
«Quanto tempo devono ancora attendere?», incalza. Di fronte al blocco dei negoziati con il governo israeliano, «la nostra alternativa è stata di rivolgerci alla Comunità internazionale e di invitarla ad aprire nuovi orizzonti per il processo di pace», ribadisce il raìs. Questo passo non è finalizzato «a isolare Israele», sottolinea, ribadendo di essere favorevole all'ultima proposta del Quartetto (Stati Uniti, Onu, Unione Europea e Russia) per la ripresa dei negoziati bloccati da oltre un anno. Ma ha ripetuto che la sospensione della colonizzazione è «una delle condizioni necessarie» per questa ripresa e si è rammaricato che «il governo di Netanyahu insiste per fissare nuove condizioni» impossibili. «La domanda che i palestinesi riconoscano Israele come uno Stato “ebraico” è una condizione preliminare inaccettabile, perchè c'è il pericolo che questo trasformi il conflitto che infuria nella nostra regione in un conflitto religioso», ha in particolare affermato Abu Mazen. Il presidente palestinese ha poi ribadito il suo rifiuto della violenza e del terrorismo malgrado «le numerose provocazioni da parte israeliana».
SUCCESSO ALL’UNESCO
Il pronunciamento dell’Assemblea del Consiglio d’Europa non è il solo successo diplomatico colto da Abu Mazen dopo il suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il consiglio esecutivo dell'Unesco, riunito a Parigi, ha approvato l’altro ieri una raccomandazione per attribuire alla Palestina lo statuto di Stato membro a tutti gli effetti. La raccomandazione a favore dello Stato palestinese ha raccolto all'Unesco 40 voti favorevoli su 58. Fonti vicine all'organizzazione delle Nazione Unite hanno precisato che quattro sono i Paesi ad aver votato contro, tra cui gli Stati Uniti, mentre 14 quelli che hanno scelto l'astensione, tra cui l'Italia, la Francia e la Spagna. La raccomandazione per attribuire allo stato palestinese lo statuto di Stato membro a tutti gli effetti, su iniziativa di un gruppo di Paesi arabi, sarà esaminata alla fine del mese durante la Conferenza generale dell'Unesco, che si terrà a Parigi dal 25 ottobre al 10 novembre prossimi.

Repubblica 7.10.11
Palestina, la battaglia dell’Unesco
L’organizzazione verso il pieno riconoscimento. Gli Usa insorgono: tagliamo i fondi
Israele teme che l’Anp chieda la protezione internazionale dei siti nei Territori
di Alberto Stabile


BEIRUT - È per lo meno dai tempi degli accordi di Oslo (1993) che l´autorità palestinese chiede, ogni due anni, in occasione della celebrazione del Consiglio generale dell´Unesco, il pieno il riconoscimento come membro effettivo dell´Agenzia delle Nazioni Unite preposta alla salvaguardia del patrimonio educativo, scientifico e culturale del mondo. La novità è che, mercoledì, per la prima volta, il comitato esecutivo dell´organizzazione ha deciso a maggioranza (ma con il voto contrario degli Stati Uniti) di portare la richiesta di full membership palestinese al voto del Consiglio generale che si riunirà dal 15 Ottobre al 10 Novembre, a Parigi. Una decisione che ha irritato Hillary Clinton e provocato le ire del Congresso a maggioranza repubblicana, al punto da minacciare d´interrompere il flusso dei finanziamenti americani all´Unesco, circa 250 milioni di dollari, ogni due anni.
Ma perché gli Stati Uniti, anche stavolta spalleggiati da Israele, si oppongono alla promozione dell´Autorità palestinese da "osservatore" a membro a pieno titolo dell´Unesco? La prima, ovvia risposta è che gli americani ritengono che la richiesta presentata all´Unesco non sia altro che una mossa per accentuare la pressione sul Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dopo che il tentativo dei palestinesi di vedersi riconoscere come Stato è stato in qualche modo indirizzato verso una sorta di labirinto burocratico.
Ma c´è un altro motivo che spinge israeliani e americani, a respingere il tentativo di riconoscimento avanzata dai palestinesi all´Unesco. I due alleati temono, in sostanza che una volta sancita la partecipazione a pieno titolo dei palestinesi all´Unesco, gli stessi potrebbero più agevolmente richiedere la protezione internazionale per quei luoghi di interesse archeologico, religioso e culturale che sorgono nei Territori occupati e, comunque, contesi e che sono attualmente sotto sovranità israeliana. In altri termini, la guerra dei siti come aspetto collaterale del più generale conflitto sulla terra.
Già un paio di anni fa il premier Netanyahu stupì il mondo includendo unilateralmente nel patrimonio cultuale israeliano siti quali la tomba di Rachele (Betlemme), la Tomba di Giuseppe (Nablus) e la moschea-sinagoga di Hebron (Mapela, o Grotta dei Patriarchi per gli ebrei, Al Haram al Khalil per i musulmani) che si trovano in zone tuttora al centro del conflitto. I palestinesi risposero stilando, in modo del pari unilaterale, un loro elenco di siti attestanti l´originalità del loro patrimonio nazionale e la loro titolarità sullo stesso. Ad aprire la lista era la città di Betlemme con al centro la Chiesa della Natività (VI Secolo). Seguiva poi la città vecchia di Hebron e la kasbah di Nablus gravemente danneggiata dalle incursioni israeliane durante la Seconda intifada, il sito romano di Sebastia, Tell al Suitan a Gerico e così via.
L´autorità palestinese celebrò quel passo come una vittoria, ma l´Unesco respinse la richiesta obbiettando che non poteva essere un "osservatore" a chiedere l´inclusione di un sito nel patrimonio mondiale, ma uno Stato membro. E´ del tutto evidente che quell´obiezione potrebbe essere travolta dall´imminente decisione del Consiglio generale dell´Agenzia.
Non c´era Gerusalemme nella lista preparata dai palestinesi, perché la Città santa e le sue mura appartengono al Patrimonio mondiale dell´Unesco sin dal 1982. Il che, però, non ha impedito ai progettisti della metropolitana di superficie di far passare la ferrovia a cinque metri, e forse, meno, dalle mura di Solimano il Magnifico. La città vecchia di Gerusalemme, resta, tuttavia, per i palestinesi non meno che per gli israeliani testimonianza viva della loro appartenenza.


il Fatto 7.10.11
Gli ultraortodossi e il rito (politico) dei polli redentori dello Yom Kippur
di Roberta Zunini


Gerusalemme. L’odore di pollame e sangue è nauseabondo. Soprattutto al mattino presto, dopo il cappuccino. I miasmi si sentono già dopo aver attraversato la green line – la linea teorica di demarcazione tracciata nel '48 dall'Onu per dividere Gerusalemme Ovest da Gerusalemme Est e Israele dalla Palestina. Ma a Mea Shearim, il quartiere degli Haredim, gli ebrei ultraortodossi, che durante lo shabbath, estate e inverno, camminano per Gerusalemme con un enorme cappello di pelo di volpe e il cappotto nero di feltro, in ricordo della lunga diaspora dei loro avi, nei ghiacciati Paesi dell'Est, gli odori, i gesti, la vita stessa, sono solo un pallido riverbero della realtà. Sono un mezzo per riconnettersi a Dio.
 IL GIORNO che precede la ricorrenza fondamentale, per tutti gli ebrei, di Yom Kippur – l'espiazione – nel quartiere dove vivono solo ed esclusivamente gli appartenenti a questa setta, è un lasso di tempo con un solo intermediario tra loro e Dio: un animale. Il pollo. E non vi è nulla di ironico. Questo animale, tra i più ordinari e prosaici del mondo, non solo occidentale, ha la funzione di assorbire tutti i peccati degli individui. È il motivo per cui lo fanno roteare sopra la testa e poi lo sgozzano. Appena entrati nei vicoli sporchi e maleodoranti del quartiere, ieri, in ogni angolo, abbiamo visto uomini e donne che cercano di asservire i polli al loro rituale di espiazione. Le donne però non lo possono fare da sole: il marito prende il pollo, la moglie si piega, abbassa la testa, coperta dal foulard a bandana, e fa roteare, come avesse un lazo in mano, il pollo sopra la sua testa. Sarà l'animale a risucchiare in sé tutti i suoi peccati. Quelli commessi nonostante le regole morali ferree, che scandiscono la vita degli Haredim. Nessuno vuole parlare con noi, anzi, siamo mal tollerati.
 Dopo aver assistito ad alcuni scorci questi riti, apparentemente squallidi, agli angoli delle vie, i cui balconi si toccano, in un promiscuità che non lascia nemmeno un istante di privacy alle famiglie composte da almeno 10 figli, un gruppo di bambini si avvicinano ad Alessio Romenzi, il fotografo che ha permesso al Fatto di entrare a Mea Shearim, con un foglio scritto in ebraico. Romenzi traduce: “Questa donna non ha la gonna adatta per stare qua”. Avevo sperato che la mia gonna pantalone fosse sufficiente per assistere al rito. Ma dopo circa un’ora un Haredim si è accorto che la mia gonna lunga fino ai piedi non era in realtà una gonna, bensì una gonna pantalone. I bambini, anche loro con un lungo paltò nero e uno zuccotto bianco in testa, partecipano al rito, più attratti dall'efferratezza dello sgozza-mento dei polli, che dal significato della loro morte cruenta.
 IN OGNI vicolo è stato allestito un bancone di legno dove una catena di ebrei macellai ultraortodossi, tagliano la gola ai polli e non appena scende la prima goccia di sangue, li infilano in buchi appositamente ricavati dalle tavole di legno. I bimbi si accalcano attorno i macellai e guardano, senza capire ma eccitati dagli starnazzamenti dei polli. Ricordano i riti dei nepalesi quando celebrano le loro cerimonie ai piedi dell'Everest . Ma qua la storia è andata diversamente e i riti sono diventati simboli di caparbietà e opposizione al mutamento della società israeliana.
 Niente è più distante dalla vita a Mea Shearim della quotidianità di Tel Aviv, dove Yom Kippur è solo un momento di raduno con la famiglia di origine. Un digiuno da condividere con i genitori, i fratelli e i nonni, se ancora sono vivi. Devo lasciare il quartiere, non c'è verso, ormai la mia gonna pantalone è un segno di oltraggio. Impedirei loro di purificarsi per il digiuno di oggi. Imbocco un vicolo e incontro un'altra coppia intenta a roteare i polli sulla testa dei loro 14 figli. Tutti insieme.
 RICORDANO un quadro di Bruegel, un momento di austera vita fiamminga. È difficile capire. Impossibile entrare in contatto con questo mondo fuori dal mondo. Ma, una cosa è certa, Yom Kippur è un momento fondamentale per la fede ebraica e non è difficile comprendere perchè nel 1973, Israele si fece sorprende, debole e senza difesa, dagli arabi. La guerra dello Yom Kippur è una data imprescindibile di questo popolo.

Repubblica 7.10.11
Perché la Turchia fa sognare il mondo arabo
di Bernard Guetta


È in Turchia che l´opposizione siriana è andata a radunarsi, nei giorni scorsi: le correnti politiche e religiose, i laici e gli islamisti, di destra e di sinistra - erano tutti lì; e non è certo a caso che hanno scelto Istanbul per annunciare la formazione della loro nuova organizzazione comune, il Consiglio nazionale siriano.
La Turchia fa sognare il mondo arabo, e affascina ogni giorno di più i popoli entrati in movimento dopo la rivoluzione tunisina, divenuta per loro un motivo di speranza, o anche un esempio da seguire. E non solo perché il suo tasso di crescita ha largamente superato quello della Cina nell´ultimo semestre, o perché la Turchia, quindicesima economia del mondo, è una delle potenze emergenti più dinamiche, ma anche e soprattutto perché a questo successo economico si accompagna un successo politico.
Governata da quasi un decennio da un partito islamista, l´Akp, che convertendosi alla democrazia è divenuto maggioritario, la Turchia si è stabilizzata nella prosperità. E ha rotto con una lunga storia di colpi di stato militari a ripetizione, coniugando al meglio tradizioni religiose e modernità, Islam e democrazia, islamismo e laicità, tanto che oggi la nuova generazione araba, islamisti in testa, cerca di importare il suo modello.
Ormai in Siria i Fratelli musulmani dicono di aspirare a uno Stato «civile, democratico e moderno» e fanno appello al sostegno degli Stati Uniti. Gli islamisti tunisini si richiamano ufficialmente all´Akp, e interi settori dei movimenti islamisti, in Egitto, in Marocco, in Giordania e in Libia vogliono seguire l´esempio turco.
È una gran buona notizia per l´Africa del Nord, per il Medio Oriente e per la stabilità internazionale, nel momento in cui la primavera araba ha portato i movimenti islamisti ad essere forze politiche ineludibili. La giovane generazione islamista conferma sempre più la sua rottura col terrorismo, per la semplice ragione che il jihadismo non ha dato nulla ai popoli arabi, i quali oggi se ne discostano; e perché la Turchia è ben più attraente del Pakistan, dell´Iran o dell´Arabia Saudita. L´evoluzione in atto è così profonda che fin dalle prime manifestazioni di piazza Tahrir le correnti laiche e democratiche dei Paesi arabi hanno potuto aprire un dialogo con i giovani islamisti; ed è ciò che anche gli Stati Uniti stanno incominciando a fare. Peraltro, sull´esempio dell´Akp, questa nuova generazione rifiuta l´etichetta di «islamista».
Sotto i nostri occhi, il mondo arabo-musulmano entra in una nuova fase politica: quella di un post- islamismo alla ricerca di se stesso. Ma il modello turco è esportabile, come questi Paesi vorrebbero credere?
La risposta è tutt´altro che ovvia, per tre ragioni. In primo luogo i Paesi arabi non hanno eserciti abbastanza forti e convintamente laici per garantire, come già i militari turchi, che gli islamisti non giungano al potere prima di aver compiuto la loro evoluzione. In secondo luogo, se è vero che nell´islamismo arabo le correnti moderniste sono una forza in via di espansione, la vecchia guardia fondamentalista, e talora jihadista, non è stata ancora completamente emarginata. La terza ragione, e la più importante, è che il boom economico turco aveva preceduto l´ascesa al potere dell´Akp, il quale ultimo si è limitato ad assestarlo su basi di stabilità politica. Le crisi economiche e sociali che attendono il mondo arabo sono gravide di radicalizzazioni estremiste, e il consenso democratico sarà lento e difficile da consolidare.
La scena politica araba si rischiara, soprattutto grazie alla Turchia, ma Istanbul non ha pozioni magiche da offrire; tanto più che la Turchia stessa sta entrando in una zona di turbolenze. Molto popolare, il suo primo ministro Recep Erdogan ha l´ambizione di incarnare un potere presidenziale forte, e di ottenere per via referendaria una modifica della Costituzione in tal senso. Dopo aver rafforzato la democrazia nel Paese, l´Akp minaccia di condurla a una deriva autoritaria. Ma l´aspetto più inquietante è che la Turchia si sente oggi innalzata dall´ebollizione araba a un punto tale da divenire preda di una febbre diplomatica.
Forte del sostegno degli Stati Uniti, che sperano di trovarvi un appoggio per stabilizzare il Medio Oriente, la Turchia ha praticamente rotto i ponti con Israele; sta alzando i toni verso l´Europa sulla questione cipriota, e si sente ormai leader del mondo arabo, tanto da ridestare, persino nelle giovani generazioni, il ricordo della colonizzazione ottomana. Ma con un ritmo del genere rischia di esaurire la propria carica disperdendola su tutti i fronti. E sarebbe un peccato, perché il mondo ha bisogno della Turchia.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 7.10.11
La rivolta non-violenta
di Guido Carandini


Le proteste contro un futuro che promette disoccupazione e quindi mancanza di redditi per creare una famiglia, per disporre di un´abitazione, per fare progetti di studio e di iniziative che offrano prospettive di avanzamento, diventano sempre più spesso delle "rivolte non-violente", una nuova forma di protesta di massa dei giovani riuniti nelle piazze contro l´impotenza della politica scavalcata o sottomessa dal capitale globale. E la generale sfiducia nei partiti può tradursi, di riflesso, anche nella convinzione della inutilità del voto quale strumento di partecipazione collettiva alle decisioni di chi governa e di chi guida l´economia. Secondo le ultime proiezioni i non-votanti italiani supereranno il trenta per cento, costituendo il futuro maggiore partito del nostro Paese.
Questo nuovo fenomeno della protesta che diventa rivolta di massa non-violenta si sta diffondendo nel mondo del capitalismo maturo dal Sud-est asiatico all´Europa, fino a raggiungere Wall Street, passando da Nuova Delhi a Madrid, da Tel Aviv a Roma e a New York, con i cortei e le manifestazioni degli "indignati" per la corruzione, l´impotenza delle democrazie e le colpe dell´alta finanza.
Da noi quella protesta di massa è stata delle donne ("Se non ora quando?") e degli studenti contro la legge sui tagli all´istruzione pubblica. Ma sarebbe l´ora che l´indignazione per le malefatte del nostro governo e il disgusto per gli ignobili comportamenti del suo capo si tramutassero ora in rivolte non-violente di massa anche di quanti stanno perdendo il loro lavoro o la speranza di trovarne uno, e saranno per di più impoveriti da una manovra finanziaria che risparmia solo i ricchi e gli evasori.
Occorrerebbe allora che la nostra "sinistra", invece di implorare inutilmente un "passo indietro" di altri, si decidesse a fare essa stessa un "passo avanti" muovendosi nel solco delle nuove forme di protesta. E quindi collaborando a suscitare nelle centinaia di migliaia di indignati nostrani - compresi magari quelli che hanno votato per la Lega e il Pdl - la volontà di radunarsi nelle piazze per mostrare al mondo che oltre alla Confindustria e alla Chiesa di Roma c´è una vasta opinione pubblica che chiede la fine dell´ignominia berlusconiana.
È urgente farlo perché la rivolta non-violenta, oltre un certo punto, può tramutarsi come a Londra in tumulto facinoroso e barricadiero, con somma gioia della destra pronta a opporgli una dura reazione delle forze dell´ordine e severe sanzioni giudiziarie. Sarebbe un´altra pesante sconfitta della democrazia che, insieme ai rivoltosi, finirebbe anch´essa imprigionata dall´ingiustizia che non ha saputo combattere, dallo squallore di miserabili periferie che non ha voluto scongiurare, dalla corruzione privata e pubblica che non ha contrastato e che porta gli scontenti a rinunciare al diritto di voto.
A questo punto i politici devono rendersi conto di almeno due cose. La prima è che la crisi più devastante che sconvolge i nostri Paesi è questa sfiducia nella democrazia rappresentativa del capitalismo, perché ne corrode l´anima più avanzata. Quella che aveva saputo affiancare gli anticorpi della solidarietà e della compassione sociale alla logica del profitto e al cinismo del potere. La seconda è che ormai l´invenzione di una democrazia alimentata da nuove idee, da nuovi progetti, da nuove regole di partecipazione, non può più spettare a degli eletti con procedure sempre più lontane dalla volontà e dai bisogni dei cittadini.
Se quell´invenzione germoglierà, questo avverrà sempre meno per il carisma personale o il talento politico di singoli personaggi ricchi e potenti, e invece sempre di più per la saggezza collettiva di cittadini che, spinti nelle piazze dai loro bisogni manifestati e condivisi «in rete», nei social network, dovranno prima deliberare come soddisfarli e da chi farsi guidare, e solo dopo andare a votare.
Questa, possiamo augurarci, sarà la democrazia del futuro, ben diversa dalla dittatura di maggioranze servili e di piccoli cortigiani, "vil razza dannata" come li chiamava il Rigoletto, che corrompono la politica inchinandosi al potere del denaro.

il Fatto 7.10.11
“Occupiamo Wall Street” Tutto è iniziato con un post
Ancora scontri tra Indignati d’America e polizia
di Angela Vitaliano


Abbiamo avuto la più grande crisi finanziaria dalla Grande Depressione con conseguenti danni collaterali in tutto il Paese e si vedono ancora alcuni di quelli che hanno agito irresponsabilmente andarci giù pesante con quelle stesse procedure corrotte che ci hanno per prime portato in quella situazione. Per questo penso che le persone siano frustrate”. Parla degli indignados di OWS, Obama, a margine di una conferenza stampa, in cui decide che non è più momento di tacere su quanto, da settimane, sta avvenendo nel quartiere finanziario di Manhattan: “Chi protesta stia sicuro che il nostro obiettivo è quello di avere le banche e le istituzioni finanziarie in ordine, perché le peggiori conseguenze sono sempre quelle sull'economia reale”. Nessuno ignora più, dunque, il movimento, giunto al suo 20° giorno di occupazione dell’area di Zuccotti Square, a poca distanza da Wall Street, lì dove quell’1% di persone riesce a “manipolare” la ricchezza del 99% di americani che, invece, la crisi la sta soffrendo fino in fondo e da troppo tempo.
 E SE OBAMA “parla” con gli indignados, promettendo il suo appoggio nella battaglia alla “cattiva politica” della finanza, anche i media ora trattano il movimento con attenzione. Per la prima volta mercoledì, in occasione della marcia organizzata con l’appoggio di moltissime sigle sindacali, la Msnbc, canale nazionale, ha mandato i propri giornalisti e cameramen per seguire in diretta quanto avveniva a downtown. Lo stesso ha fatto Keith Olbermann che dalle frequenze di Current tv, per primo, sin dalla prima settimana di attività del movimento, gli aveva dato spazio nel suo programma. Finora gli indignados a stelle e strisce avevano potuto contare solo sui social network, in particolare twitter, e su alcuni website che avevano “sposato” la loro causa fin dal principio. A cominciare dal sito della rivista anticapitalistica adbuster.org   che, sin dall’estate, aveva chiamato a raccolta quelli che questa situazione non la reggono più per dare vita a quello che ormai viene comunemente denominato “l’autunno newyorchese”.
 SICURAMENTE, l’adesione dei sindacati alla protesta e la loro presenza massiccia alla marcia di mercoledì è servita a dare un ulteriore spinta alla popolarità degli indignados che ogni giorno, pioggia o sole, si riuniscono in assemblea, per discutere la piattaforma dei loro programmi. Con loro giovedì anche Naomi Klein, l’attivista canadese nota per i suoi interventi contro la finanza delle corporazioni.
 La marcia di mercoledì di è svolta in maniera assolutamente pacifica fino a quando un gruppo di dimostranti ha tentato di occupare Wall Street scatenando la reazione della polizia e l’arresto di altre ventiquattro persone. Il movimento degli indignados, che ora stampa anche un proprio giornale, The Occupy Wall Street Journal, ha, fra l’altro, presentato una class-action contro il sindaco Bloomberg e contro il capo delle polizia Kelly per i 700 arresti sul ponte di Brooklyn. Non ci sono dubbi che la battaglia per appurare le responsabilità degli uni e degli altri negli scontri sarà uno degli argomenti più importanti anche nei prossimi giorni. La prima notizia dei nuovi scontri si è avuta, ancora una volta, via Twitter, proprio mentre, l’altra metà della rete apprendeva la notizia della scomparsa di Jobs.

Repubblica 7.10.11
Il presidente statunitense: il piano sul lavoro va approvato subito, la gente ha bisogno ora di aiuto
Obama: "Gli indignados danno voce alla frustrazione dell´America"
"La Cina aggressiva e la crisi europea sono i veri problemi per l´economia degli Usa"
d Federico Rampini


San Francisco - Proprio mentre il vento della rivolta "Occupy Wall Street" soffia verso la West Coast e le proteste si rafforzano anche qui a San Francisco, Barack Obama per la prima volta parla degli "indignados". Lo fa esprimendo «comprensione» verso i manifestanti giunti alla terza settimana di lotta. Fa proprie alcune delle loro accuse verso i banchieri. Questa protesta, dice il presidente rispondendo a una domanda in conferenza stampa, «esprime le frustrazioni degli americani che sentono che abbiamo attraversato la più grave crisi finanziaria dalla Grande Depressione, con enormi danni in tutto il Paese». In questa emergenza, denuncia Obama, «alcuni degli stessi attori che si comportarono in modo irresponsabile cercano di contrastare le nuove regole, disegnate per impedire che si ripetano gli abusi che ci hanno trascinato fin qui».
La presa di posizione è molto netta, è inusuale che un presidente si schieri "con la piazza", tanto più a pochi giorni dagli arresti di massa compiuti dalla polizia di New York (700 manifestanti fermati per avere bloccato il ponte di Brooklyn). Non è un caso che Obama abbia deciso di mostrare comprensione all´indomani di una manifestazione più ampia del solito: mercoledì sera per la prima volta le Union sono scese in piazza a Wall Street, a fianco degli "indignados". E´ un evento raro, questa convergenza di forze tra i sindacati tradizionali e una protesta di tipo alternativo, radicale, senza leader né programmi specifici, che finora ha avuto un´impronta prevalentemente giovanile. Era dalle giornate di Seattle del 1999 (contro il Wto) che le Union e i movimenti più radicali non si trovavano insieme in una mobilitazione su temi economico-sociali. E´ la conferma di una radicalizzazione che coinvolge in parallelo il clima politico. Dopo avere tentato la strada del dialogo bipartisan, ed essere stato regolarmente frustrato dai repubblicani, Obama ha cambiato tono. Più aggressivo, più battagliero contro la destra. Anche contro l´eurozona. Il presidente ha parole dure sulla crisi europea. «E´ il più forte vento contrario che sta frenando la ripresa americana, questa incertezza sull´Europa», dice. Invita quindi i leader europei a mettere a punto «un piano d´azione chiaro e concreto» per uscirne. Fissa una data, quasi un ultimatum: vuole vedere questo piano anti-default al summit del G20, il 3 novembre a Cannes. Dopo l´Europa tocca alla Cina, accusata di «intervenire pesantemente sui mercati dei cambi» per tenere basso il valore della sua moneta. Però Obama non appoggia la legge sui dazi contro la Cina varata questa settimana dal Senato di Washington, ricorda che prima di scatenare ritorsioni contro Pechino bisogna assicurarsi che siano compatibili con le regole del Wto. L´offensiva principale Obama la riserva alla sua destra. Intima ai repubblicani di accettare in tempi rapidi la discussione parlamentare del suo piano per il lavoro, 447 miliardi di dollari per rilanciare gli investimenti nella scuola e nelle infrastrutture, da finanziare con la sovratassa del 5% sui milionari. «La nostra economia ha bisogno di una scossa proprio adesso per proteggersi da un peggioramento in Europa».

il Riformista 7.10.11
Ricordo di Bruno Pontecorvo il fisico «eterno adolescente»
di Ilaria Tabet

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il Riformista 7.10.11
Tranströmer chi?
Il Nobel 2011 al poeta svedese
di Francesco Longo

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Repubblica 7.10.11
Diventare Mondrian
Così il mondo si trasformò in linee rette e tre colori


Al Complesso del Vittoriano di Roma una grande retrospettiva dedicata al pittore olandese È il racconto attraverso 70 olii e disegni della sua evoluzione dal figurativo all´astratto
Il percorso divide la sua produzione in vari momenti: dal realismo dell´inizio, quando dipinge paesaggi, all´essenzialità finale
Via via tronchi e rami si sfaccettano sempre di più, si smaterializzano, si semplificano. Si riducono a segni essenziali

ROMA. Come si diventa Piet Mondrian? In che modo si arriva a elaborare immagini che, nella loro semplicità, hanno avuto la forza di diventare icone del XX secolo, tanto da essere riprodotte, riutilizzate, rielaborate in tutti gli ambiti del moderno, dalla pubblicità al design alla moda?
La mostra Mondrian. L´armonia perfetta, curata da Benno Tempel, promossa da "Comunicare Organizzando" e aperta al Complesso del Vittoriano da domani al 29 gennaio, è esemplare nell´indicare la strada, i momenti di passaggio, tutti i punti di quella linea che ha portato l´artista olandese a elaborare la sua celeberrima astrazione geometrica: linee verticali e orizzontali, pochi colori, anzi soltanto tre, i primari: giallo, rosso e blu, più il bianco e il nero. Visitarla, trovarsi di fronte a queste 70 opere del pittore olandese e alle 40 di artisti con cui ha avuto scambi nel corso della sua carriera, significa capire in maniera impeccabile come le grandi rivoluzioni della pittura moderna siano nate da passaggi che per gli artisti non sono soltanto stilistici, ma esistenziali.
Ed è davvero emozionante scoprire che quella griglia così rigorosa, quel porto inossidabile, sicuro e assoluto a cui approda Mondrian, si può già riconoscere fin dai suoi esordi. Era lì che covava, veniva nutrito. E aspettava solo di attraversare diversi stadi, tutte le sue vite, per presentarsi nel pieno della potenza formale. Tra queste sale commuove vedere l´artista che si cerca. E si trova. Attraverso capolavori che scandiscono le sue tappe, il suo tempo dentro quella che lo studioso Michel Seuphor ha definito «una pittura che è quasi una religione».
L´artista olandese cammina su un sentiero chiaro e riconoscibile che questa esposizione rende leggibile come un racconto. Se si guardano i primi dipinti, quelli ancora influenzati dalla Scuola dell´Aja, scuri, densi, si può già riconoscere la sua ossessione nel tenere insieme verticali e orizzontali. Lo si vede dalla scelta dei formati e dei soggetti: fari che si innalzano, oppure dune che si distendono. E poi, ecco le case coloniche di Achterhoek dipinte tra il 1894 e il 1896. Più le guardi e più ti accorgi che lì, acquattata, c´è già tutta la divisione in linee, rettangoli e quadrati che lo governerà successivamente. Mondrian contiene Mondrian.
Il percorso del pittore non è solo formale, è anche filosofico. O meglio iniziatico. La mostra è allestita in ordine cronologico e divide la sua produzione in diversi momenti: c´è il realismo dell´inizio, quando Mondrian, che nasce a Amesfoort nel 1872 e muore a New York nel 1944, dipinge soprattutto il paesaggio. Ma poi c´è il luminismo e il simbolismo, la fase cubisteggiante e infine il momento in cui arriva alla purezza dell´astrattismo, prende parte al gruppo legato alla rivista De Stijl con Theo Van Doesburg, George Vantongerloo, Bart Van der Leck, Vilmos Huszár, Gerrit Rietveld tutti qui esposti, e teorizza il Neoplasticismo. Un´arte diversa per un mondo migliore. È l´utopia del Modernismo, ma non solo.
Mondrian è un pittore spirituale e qui si vede bene. Come Kandinsky, come Kupka è attratto dalla Teosofia, dalle teorie di Rudolph Steiner e di Helena Blavatsky. Non si è ancora scritta bene la storia dell´influenza dei circoli spiritualistici sulla rivoluzione astratta d´inizio ´900, ma è un fatto: i traghettatori della pittura dal realismo retinico ad una realtà più profonda e vera, che svela la trama segreta del mondo fatta di "punti, linee e superfici", sono tutti legati a queste dottrine. E per Mondrian l´incontro è piuttosto precoce.
Qui esposti ci sono quadri bellissimi come Devozione, una fanciulla con gli occhi rivolti verso un fiore, Passiflora e Metamorfosi di un crisantemo morente, dipinti con una pennellata fluida, che sono l´espressione iniziale dei suoi contatti con le teorie teosofiche. Mondrian si oppose all´interpretazione della prima di queste tele come rappresentazione di una donna in preghiera, affermando di voler rendere visivamente «il concetto stesso di devozione». Steiner affermava che questa potesse svilupparsi con l´osservazione «positivamente mistica» di forme minerali, animali e vegetali. Come succede qui, in questi rarissimi esempi, in cui l´artista si cimenta a rappresentare una donna. Che contempla.
Così come i fiori sono la riproduzione microcosmica del processo eterno di nascita, vita, morte e rigenerazione che per i teosofi è il principio del mondo. Se loro credono nella forza cosmica della luce, ecco che Mondrian circonda i suoi petali di irradiazioni luminose, di vere e proprie "aure". E La luna rossa del 1907 sorge sullo spirito del mondo.
Mondrian conosce la luce: schiarisce anche i suoi paesaggi, ancora una volta dune, acque e poi fari, mulini e campanili, linee orizzontali e verticali. Come quelle con cui costruisce gli alberi. È l´ultima stazione della sua pittura "naturale" prima del passaggio all´astratto. Questi quadri sono testimonianze straordinarie di un passaggio. Via via tronchi e rami si sfaccettano sempre di più, si smaterializzano, si semplificano. Si riducono a segni essenziali: piccole croci, linee perpendicolari danno forma alle forze che li abitano. La crescita e la gravità, l´elevazione e l´espansione, il cielo e la terra. È tutto un tenere insieme gli opposti, creare riconciliazioni. La verticalità e l´orizzontalità altro non sono che la griglia duale di forze che tiene insieme il mondo, l´incarnazione e lo spirito, il maschile e il femminile, lo yin e lo yang . Mondrian ormai è pronto a diventare il Mondrian che tutti conosciamo. Quello che ritroviamo in quei capolavori dipinti quando ormai è andato a Parigi, dove negli anni Venti il suo atelier è un luogo di culto, come la Composizione in ovale con piani di colore 2 del 1914. È così che il pittore paesaggista si trasforma in quello che non vorrà tornare in Olanda perché ci sono – dice – «Tutti quei prati! Tutti quei prati!». Si allontana dalla rappresentazione della realtà perché, vuole «eliminare il tragico dell´esistenza» e cerca nella semplicità della superficie un´essenza più vera. Evoca "le cinque strade per l´eliminazione del dolore" di matrice buddista. Ma lui di vie ne imbocca una sola. E la segue tutta con un rigore quasi sacerdotale, mistico. Le sue composizioni di rette, quadrati e colori primari sono il suo linguaggio eroico e, a questo punto, il solo possibile.

Repubblica 7.10.11
La cultura spiritualista, la svolta astratta, le metropoli moderne
Il lungo viaggio dalla teosofia a New York
di Achille Bonito Oliva


Il viaggio di Piet Mondrian verso l´astrazione è un lungo percorso che passa attraverso il realismo, il simbolismo, il luminismo ed infine il cubismo. Ma è la teosofia che impregna l´opera del grande maestro olandese e la porta verso una dimensione che supera ogni empito narrativo. La radicalità di Mondrian è frutto anche di una mentalità puritana che depura il linguaggio dell´arte di ogni piacere figurativo. Come si evince dall´intero corpo della sua opera, l´immagine tende sempre più a perdere il puro ricalco delle cose a spostarsi dal mondo esterno verso una interiorizzazione dello sguardo che porta prima l´artista olandese verso l´esito simbolista per poi arrivare alla purezza dell´astrazione.
Qui prevale uno sguardo limpido, inizialmente influenzato dall´arte giapponese, ma sostanzialmente invece teso verso l´affermazione della autonomia dell´arte, capace di arrivare ad una sintesi di tutte le arti. Così prende forma lo spiritualismo laico di cui Mondrian si fa sacerdote.
Le teorie del colore di Goethe prima e Kandinsky poi trovano qui una loro completa applicazione ma nello stesso tempo acquistano una originalità, frutto di una impaginazione spaziale e cromatica assolutamente rigorosa, depurata da ogni edonismo figurativo.
Mondrian è il grande artista superficialista che utilizza lo spazio pittorico senza allusive profondità e restituisce ai colori una nitida purezza. Etica ed estetica si intrecciano fra loro al servizio di una visione dell´arte che è anche una visione del mondo e che è fondata sulla composizione di linee e rettangoli e sull´uso di pochi colori primari (il bianco, il nero, i tre primari). Evidente è lo spirito costruttivo del linguaggio astratto di Mondrian, assolutamente diverso da quello di Kandinsky che tende verso una astrazione lirica confinante con la musica.
L´architettura è invece il versante su cui si affaccia la superficie pittorica di Mondrian che sembra già profetizzare il landscape dei nuovi spazi urbani americani. Parigi, Londra e New York sono state le tappe del nomadismo biografico dell´artista. Dalla Francia ha carpito il senso del cubismo e dagli Stati Uniti quello di un neoplasticismo senza confini di genere.
D´altronde il contesto culturale della sua provenienza è segnato dalla presenza di Theo van Doesburg e dal sodalizio con molti altri artisti riuniti intorno alla rivista De Stijl.
Il risultato finale della sua ricerca trova le sue prove più mature nel suo soggiorno finale a New York dove anche il tessuto urbano, il ritmo di vita e la musica jazz sembrano costituire la colonna sonora e stereofonica della sua opera. Lo spazio ormai ha acquistato la massima esposizione di superficie. La tradizione olandese del suo puro-visibilismo trova qui la sua più radicale espressione: cuore sgombro e sguardo limpido.
L´arte diventa un processo radicale che si fonda sul valore della semplicità, frutto di scomposizione e ricomposizione, e che evidenzia la cosa mentale della pittura.

giovedì 6 ottobre 2011

l’Unità 6.10.11
Passano due emendamenti del Pdl Le telefonate pubblicabili dopo l’udienza filtro
Vogliono i giornalisti in carcere
Via libera del governo all’emendamento che prevede il carcere fino a 3 anni per chi pubblica intercettazioni giudicate «irrilevanti» nell’udienza filtro. Il Terzo Polo non vota le pregiudiziali. Ma poi torna all’opposizione
di Claudia Fusani


Le prove di dialogo tra Pdl e Terzo Polo sul nodo intercettazioni hanno quattro ore di vita vera, al netto di annunci e gestazioni e nuovi possibili ripensamenti. Iniziano intorno a mezzogiorno di ieri quando l'aula respinge, grazie anche all' astensione del Terzo Polo, il primo scoglio importante nell'iter parlamentare del disegno di legge (le pregiudiziali di costituzionalità). E terminano intorno alle quattro del pomeriggio quando il presidente della Commissione Giustizia Giulia Bongiorno lascia l'incarico di relatore della stessa legge. Lo fa quando la Commissione approva il primo degli emendamenti del Pdl (Costa-Contento) al testo già in aula, quello della Bongiorno appunto, frutto, come dice lei, «di due anni di mediazione durissima e rispetto al quale non è immaginabile retrocedere neppure di un passo nel rispetto dei tre principi costituzionali, libertà di stampa, privacy e sicurezza». Enrico Costa, capogruppo dei berlusconiani in Commissione Giustizia, prende il posto della Bongiorno eletto però solo da Pdl e Lega. E ogni cosa torna al suo “posto”, cioè al solito muro contro muro: Pdl e Lega nella maggioranza e probabilmente costretti, a questo punto, a ricorrere al voto di fiducia se la prossima settimana vorranno licenziare la legge per poi portarla al Senato; tutti gli altri ributtati nella metà campo delle opposizioni, alcuni di loro in piazza al Pantheon a dire no alla «legge bavaglio».
Che resta, nonostante le rassicurazioni del Pdl, oltre al bavaglio inasprisce anche il carcere per i giornalisti: da 6 mesi a tre anni se verranno pubblicati gli ascolti che l’udienza filtro giudicherà da destinare alla distruzione (e fin qui è ancora il testo Bongiorno) ma anche quelle irrilevanti, cioè quelle che il pm non ha dato ordine di trascrivere. Per fare un esempio: l’intercettazione Fassino-Consorte su Unipol oggi avrebbe portato in carcere chi l’ha pubblicata. L’emendamento di Manlio Contento, che contiene l’inasprimento, ha ottenuto ieri sera il via libera del governo (in Commissione il sottosegretario Caliendo). E arriva alla fine di una giornata in cui l’onorevole Paniz a Radio 24 aveva augurato «più carcere per i giornalisti» e si è poi beccato l’altolà del ministro Nitto Palma. Il black-out totale per le intercettazioni è previsto fino all’udienza-filtro che seleziona quelle irrilevanti e che avviene entro 45 giorni dell’ordinanza di arresto. Nel frattempo i giornalisti possono spiegare il merito e il contenuto dell’indagine. Resta fortemente penalizzata nello strumento di indagine. «Nel dialogo e nella mediazione assicurano le colombe del pdl potevano rientrarci anche alcune limature al collegio di giudici che dovrà autorizzare le intercettazioni». E che, dal punto di vista delle indagini, è il problema più grosso.
Il fatto è che il merito della questione intercettazioni è diventato quasi secondario sicuramente meno urgente per Berlusconi e prevale invece l’occasione per misurare nuove alleanze politiche. «La verità è che Fli ha cercato il pretesto per spezzare ogni possibilità di dialogo tra Pdl e Udc» sintetizza Costa. La domanda allora è se e quanto questa legge e il suo iter parlamentare possono incrinare la compattezza del Terzo Polo, dell’alleanza Udc-Api-Fli di cui, senza dubbio, Casini è l’azionista di maggioranza.
Formalmente il Terzo Polo sembra compatto. La posizione di Fli è chiara: «Ci siamo astenuti dalle pregiudiziali (presentate a luglio da Pd e Idv e Udc ndr) perchè non potevamo votare contro il testo della Bongiorno. Ma diremo no ad ogni modifica che arretra la linea del Piave di quel testo» precisa il capogruppo Benedetto Della Vedova. Opposizione «netta» per l’Api di Rutelli. Nell’Udc però sembrano esserci più anime. «Ora il dialogo diventa obiettivamente più difficile» ammette Roberto Rao. Un altro membro più che autorevole dell’Unione di centro, il vicepresidente del Csm Michele Vietti, sempre ieri ha però detto: «L’emendamento Costa che punta sull’udienza filtro è più che ragionevole». E un altro Udc, Enzo Carra, ha votato a favore delle pregiudiziali «perchè la libertà di stampa è sacrosanto». Almeno due anime attraversano il partito di Casini. E il Pdl, leggi il segretario Alfano, non smetterà certo nei giorni a seguire, prima del voto la prossima settimana, di tentare ogni possibilità di dialogo con l’ala trattativista dell’Udc. Anche per evitare il voto di fiducia. Unica cosa certa e condivisa della giornata è l’intesa trasversale raggiunta su un emendamento di Cassinelli (Pdl) per cui «i blog non saranno soggetti all'obbligo di rettifica». Wikipedia e il web sono salvi.

Repubblica 6.10.11
La tirannia della maggioranza
di Stefano Rodotà


Davvero i diritti rischiano di non abitare più in Italia. Abbiamo già accumulato abbastanza discredito internazionale per l´incapacità di gestire la crisi.
E anche per l´impresentabilità oltre frontiera del Presidente del consiglio. Ora si è fatta ancor più palese la vocazione censoria della maggioranza di centrodestra con le ultime iniziative contro la libertà d´informazione, e il mondo comincia a guardarci con il giusto sospetto verso chi mescola prepotenza e ignoranza. Prepotenza, perché siamo davvero di fronte ad uno di quei casi classici di "tirannia della maggioranza", della quale parlò Alexis de Tocqueville, i cui scritti i sedicenti liberali italiani non hanno nemmeno annusato. Ignoranza, rivelata dal modo in cui è stata affrontata la questione dell´informazione e della conoscenza su Internet, con norme incompatibili con la natura stessa della rete, come ha denunciato proprio oggi Wikipedia, con una pagina che già sta facendo il giro del mondo (la parziale marcia indietro su questo aspetto della legge non fa venir meno il discredito che già ci è caduto addosso).
I fatti di ieri sono chiarissimi. Con il nuovo emendamento presentato dal Governo, diventa totale il blackout sulla pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni, anche per riassunto, fino all´udienza-filtro, di cui rimangono incerti i tempi. Registrando questa novità, la presidente della Commissione giustizia, Giulia Bongiorno, si è dimessa da relatrice del provvedimento, smentendo con questo suo gesto le dichiarazioni rassicuranti del ministro della Giustizia, che ha sostenuto che nulla sostanzialmente cambia rispetto al testo già approvato in commissione. La finalità puramente censoria dell´iniziativa del Governo è rivelata dalla situazione contraddittoria e paradossale che si verrebbe a creare per effetto dell´emendamento. Anche prima dell´udienza-filtro, infatti, i contenuti delle intercettazioni non sarebbero più coperti dal segreto, e godrebbero quindi di un particolare regime di pubblicità derivante dal fatto che esse compaiono negli atti giudiziari a disposizione delle parti, come l´ordinanza con la quale viene disposto l´arresto di una persona. Nulla vieterebbe, quindi, alle parti stesse e ai loro avvocati di utilizzarle nel modo ritenuto più conforme al diritto di difesa, parlandone con altri, trasmettendole a consulenti, periti, investigatori. Si creerebbero così due circuiti comunicativi, che si vorrebbero non comunicanti anche quando le intercettazioni rivelano vicende gravi o comunque rilevanti per la valutazione politica e sociale dei comportamenti delle figure pubbliche.
Questo è un classico meccanismo censorio. L´obiettivo dichiarato di impedire la pubblicazione delle parti non rilevanti delle intercettazioni non può essere perseguito vietando la pubblicazione di tutti i contenuti delle intercettazioni. Non si può trasferire nel mondo dei diritti fondamentali l´irragionevole tecnica che sta a fondamento dei tagli lineari in economia. E, per quanto riguarda la sbandierata tutela della privacy, bisogna invitare per l´ennesima volta a leggere la norma cha limita la tutela per le figure pubbliche ai soli casi in cui le informazioni che le riguardano non hanno "alcun rilievo" per l´informazione dei cittadini. Di una disciplina differenziata per le figure pubbliche, per i "cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche", parla l´articolo 54 della Costituzione, stabilendo che quelle persone devono comportarsi con "onore e disciplina". E tutti noi siamo titolari del diritto di poter valutare se ci si comporta in modo conforme a questi principi.
Da qui il dovere di informare e il diritto di essere informati come snodo essenziale del processo democratico, che sarebbe gravemente inquinato da quel doppio registro ricordato prima, perché rendere segreto quel che già è pubblico fatalmente, e quasi doverosamente, spinge a creare condizioni perché il meccanismo censorio non possa funzionare. Si può ancora fare appello alla responsabilità del legislatore perché non crei inammissibili situazioni di conflitto? Per esperienza sappiamo che solo un forte movimento nella società può indurre a qualche ripensamento, e stimolare le opposizioni. E poiché la buona politica deve essere nutrita da buona cultura, in questo difficile frangente vale la pena di ricordare le parole di Ronald Dworkin: "l´istituzione dei diritti è (...) cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev´essere ancor più sincera". Se quella logica viene travolta, allora è l´idea stessa di costituzione a scomparire e, con essa, il fondamento moderno del sistema dei diritti.

il Fatto 6.10.11
Ma la mobilitazione continua
Salta il bavaglio ai blog
di Federico Mello


 La tecnica di B. e della maggioranza di governo è sempre la stessa: puntare a 1000 per avere 900. Ci spieghiamo. Ieri in commissione Giustizia, il Pdl ha eliminato dalla legge-bavaglio il comma ammazza-blog. Come successo varie volte in precedenza, la minaccia di bloccare la Rete con il meccanismo delle rettifiche è stato ritirato all’ultimo minuto: nel nuovo testo si esplicita una differenza tra le testate giornalistiche online (obbligate alla rettifica) e tutti gli altri siti (non obbligati). Per i blogger, quindi, rischio scongiurato, ma con il bavaglio alla pubblicazione delle intercettazioni, invece, si procede a tappe forzate (non si punta più a “1000” ma a “900”, appunto).
 La mobilitazione contro il comma 29 è stata importante e ha sancito una “prima volta”. La decisione di Wikipedia di autocensurarsi contro il comma ha fatto il giro del mondo, ma soprattutto ha fatto capire agli internauti quali fossero i rischi della nuova disciplina. Wikipedia è il primo portale italiano consultato milioni volte al giorno per curiosità, lavoro, per fare i compiti. Interrompere la fruizione pubblica di un sito che – a ragione – è considerato un patrimonio collettivo, spiega meglio di qualsiasi articolo quanto valore abbia la libertà di “sapere” (non è una caso se la pagina Facebook “Rivogliamo Wikipedia - No alla legge bavaglio” ha raccolto quasi 300 mi-la fan in ventiquattr’ore). Eppure vinta una battaglia, è ancora in corso una guerra contro il blocco delle intercettazioni. Avaz.org   ha quasi raggiunto l’obiettivo delle 500 mila firme contro la legge. I blogger che si sono mobilitati in questi giorni erano ieri in piazza del Pantheon a protestare con associazioni e organizzazioni per la libertà di stampa. Forse sarebbe il caso che anche Wikipedia, facendo tesoro del successo della sua iniziativa, continuasse nella sua battaglia. Sarebbe un disagio per gli utenti ma, anche se il Comma29 è stato abrogato, la libertà “di sapere” rimane a rischio.

La Stampa 6.10.11
Vivere senza Wikipedia lo sciopero infiamma la rete
Utenti dall’entusiasmo alle proteste: restituiteci l’enciclopedia
di Gianluca Nicoletti


Qualcuno ha fatto notare che lo sciopero di Wikipedia in lingua italiana è coinciso col giorno della nascita di Diderot. Proprio un 5 ottobre, quando il padre di ogni enciclopedia vide la luce, è stato giorno più buio nella storia della grande e libera enciclopedia di Internet.
Il più conosciuto strumento di consultazione in rete per la prima volta è stato oscurato in un paese occidentale. Oscuramento volontario e motivato, ma che, almeno nelle premesse, sembrava il preludio di una vera e propria chiusura. «Oggi, purtroppo, i pilastri di questo progetto — neutralità, libertà e verificabilità dei suoi contenuti — rischiano di essere fortemente compromessi dal comma 29 del cosiddetto ddl intercettazioni». Così motivava la paginetta verdolina che gli utenti italiani già dalla sera di martedì si sono visti apparire, come unico risultato di ogni loro ricerca.
Questo accadeva quando ancora era in piedi l’ipotesi (poi caduta nella giornata di ieri) che per i siti informatici, temine piuttosto vago che avrebbe potuto comprendere qualsiasi modalità di pubblicazione in rete, ci sarebbe stato l’obbligo di pubblicare eventuali rettifiche a contenuti presenti on line, entro quarantotto ore dalla richiesta.
Naturalmente Wikipedia per la sua struttura aperta, e la sua possibilità di pubblicazione da parte di chiunque, non poteva esporsi ai rischi di questa norma, quindi ha pensato di chiudere i battenti e vedere come avrebbe reagito la rete.
La risposta è stata immediata, Facebook con i suoi quasi venti milioni di utenti è stata la prima grande cassa di risonanza. Immediatamente si sono costituiti moltissimi gruppi di sostegno, solo quello con il titolo «Salviamo Wikipedia!!!!» in mezza giornata è «piaciuto» a centomila persone. La manifestazione di piazza, che qualcuno promuoveva per il 7 ottobre, nello stesso tempo ha raccolto 362. 000 adesioni. «Riusciremo ad arrivare a 1.000.000 di fan prima di domenica? - scriveva un sostenitore della causa cosi, sicuramente ne parleranno i tg e anche le vecchiette sotto casa!!!».
Tutto ha corso veloce sul filo dell’emotività e dello spirito di naturale antagonismo della rete, ma non è nemmeno escluso che in parte questo abbia condizionato il «ravvedimento» istituzionale sul comma incriminato. Un cambio quasi obbligato, ma forse reso più fluido anche per merito dei «ragazzacci» che si sono mobilitati, usando gli strumenti per comunicare a loro più congeniali.
Quando nel pomeriggio di ieri anche in rete è cominciata a circolare la notizia dell’emendamento appena presentato dalla Commissione Giustizia, quello che limitava l'obbligo di rettifica alle sole testate online registrate, escludendo dalla nuova disciplina i blog, Wikipedia, i social network e gli altri siti internet, qualcuno ha cominciato cautamente a suggerire la fine dello sciopero.
Nell’area di discussione ufficiale di Wikipedia si poteva leggere: «24 ore sono state più che sufficienti, mentre 48 ore sono troppe: lasciamo un comunicato ma torniamo online al più presto (magari dopo le 21:00 orario dei telegiornali nazionali). Oppure «Ma con quale motivazione si continua la protesta anche dopo le modifiche applicate al Ddl?». Indicazioni espresse dai membri della comunità più attiva della libera enciclopedia, che lasciavano presagire una prossima fine della protesta.
Ci resterà il ricordo di un giorno senza Wikipedia, un test che ci ha fatto riflettere tutti su quanto sia diventato naturale usarla, ma anche quanto Internet perderebbe molto del suo fascino se non ci fosse, la segreta risorsa che ci rende enciclopedici e onniscienti con un solo click.

l’Unità 6.10.11
Intervista a Ignazio Marino
«Subito al voto. L’area di non voto è del 30%, Casini vale il 5. Cerchiamo gli astenuti non l’elemosina Udc»
Per il senatore Pd «non possiamo dire che vanno bene le elezioni ma anche il governo tecnico. Chiedo scelte nette e non i soliti temporeggiamenti, come per i referendum»
di Maria Zegarelli


Ignazio Marino, dirigente Pd della minoranza, risponde al telefono dall’Africa. È in Congo per aprire un ospedale con la sua Onlus, «Image», in una zona del mondo dove su mille bambini nati vivi ne muoiono oltre 400 nel primo anno di vita. Ma è del Pd che vuole parlare, soprattutto dopo la direzione di lunedì scorso.
Marino, iniziamo dal referendum. Il Pd ha commesso un errore?
«L’ho detto alla festa di Pesaro, l’ho ripetuto in direzione e lo ribadisco oggi: Bersani ha sbagliato perché tutto il partito doveva appoggiare la raccolta delle firme da subito. Abbiamo sbagliato sul nucleare e la privatizzazione dell’acqua e abbiamo sbagliato sul Porcellum. Vorrei un partito che dicesse dei “si” e dei “no” netti e invece sul testamento biologico abbiamo “una posizione prevalente”, sul referendum siamo “diversamente favorevoli”. Per questo mi sono congratulato con Arturo Parisi, per la sua incrollabile determinazione nel difendere il referendum».
Tanto per essere chiari, lei è tra coloro che pensa che non debba essere Bersani il futuro candidato premier?
«Sento molti importanti dirigenti del mio partito sostenere che si potrebbe mettere in discussione la premiership. Come sono stato sempre franco con Bersani e critico verso alcune sue posizioni, sono altrettanto franco su questo punto: è da irresponsabili aprire questa inutile discussione. Credo sia un errore proporre alchimie che servono soltanto a conservare una classe dirigente che ha dimostrato di non essere all’altezza della situazione.
Noi dobbiamo cercare di cambiare questa legge elettorale e dare la possibilità al Paese di votare una nuova classe dirigente».
Quindi elezioni anticipate?
«Certo, perché mi chiedo come si può pensare che Berlusconi faccia un passo indietro. Il premier ha il destino segnato e lo sa bene, all’opposizione non resta che appellarsi alla gente per bene che c’è nella maggioranza affinché gli facciano mancare la fiducia in Parlamento. Ma a quel punto bisogna procedere molto velocemente a cambiare la legge elettorale e poi si deve andare al voto. Il Pd non può dire che vanno bene le elezioni anticipate ma anche il governo di transizione».
Alle elezioni con chi? Con l’Udc, come sostengono molti suoi colleghi? «L’Udc non condivide aspetti fondamentali della vita di tutti noi, dai diritti civili al testamento biologico, alla fecondazione assistita... Credo che il compito di Bersani e la sua squadra sia quello di definire un progetto, con riforma delle istituzioni, della giustizia, la vendita patrimonio dello Stato, la lotta all’evasione e i diritti delle persone. Se l’Udc è d’accordo non sarei certo io a rinunciare ai suoi voti, ma io voglio un programma riformista e di sinistra, con l’ambizione di riportare quel 30% di astensionisti al voto e non andare a elemosinare il 5% dell’Udc».
Giorgio Tonini dice che Bersani deve dire se la posizione del Pd, sulla lettera Bce e la politica economica, è quella di Fassina o quella di Letta. Lei come la pensa?
«Vorrei partire dall’ulteriore declassamento dell’Italia. Dal governo replicano che era atteso: è incredibile. È come se un medico davanti ad un paziente in rianimazione, con una forte infezione, anziché intervenire tempestivamente, si limiti a dire quando arriva la setticemia che era inevitabile. Noi in Italia ci troviamo nella stessa situazione, il problema è gravissimo, le due manovre varate sono considerate insufficienti perché non contengono misure che portino ad una crescita economica. Servono riforme fiscali, del lavoro e la politica deve intervenire subito.
Rispetto alla lettera della Bce, e arrivo al punto, il Pd non può accogliere nella Direzione di Luglio la nomina di Draghi con scroscianti applausi e poi trasformarlo, in quella di lunedì scorso, in una figura da criticare. Quello che conta di quella lettera è il merito e ci sono delle questioni fondamentali. Ce lo dicono anche Montezemolo, Profumo e Della Valle. Noi possiamo essere in disaccordo su alcuni punti, come quello che si è tradotto nell’articolo 8 della manovra, ma alcune questioni sono ineludibili, come la flexsecurity. Insomma, io dico che Draghi ha fatto bene».

il Fatto 6.10.11
Perché la Lega può esplodere
di Nicola Tranfaglia


 Se si va oltre gli slogan che percorrono in lungo e in largo la politica italiana e impediscono agli osservatori di comprendere le direzioni che prende, se non con molto ritardo, si arriva alla conclusione che laLegaNordpotrebbeesplodere. Le contraddizioni sono sempre maggiori tra la politica di Umberto Bossi e del cosiddetto “cerchio magico”, schiacciata completamente sulla strategia ormai battuta di Silvio Berlusconi e quel che pensano i dissidenti e molti iscritti e militanti del movimento leghista. Queste contraddizioni sono evidenti ma, a quanto pare, né i giornali né le televisioni di questo paese lo fanno vedere con chiarezza ai lettori. E’ noto che abbiamo in Italia un’informazione malata non solo per i grandi conflitti di interessi (a cominciare da quello, gigantesco, di Berlusconi) e i gravi problemi interni a tutti i partiti politici. Così emerge poco o nulla il fatto che persino in parlamento si vedano di frequente ex parlamentari della Lega Nord che hanno fondato l’Unione Padana Alpina che a Bergamo e nelle Valli Bergamasche sta raccogliendo migliaia di iscritti. Tutti delusi dall’alleanza della Lega di Bossi con il PDL e dalla obbedienza di Bossi e dei suoi parlamentari ai desideri di Berlusconi. Gli ex parlamentari si chiamano Giovanni Ongaro di Gandino, Francesco Formenti di Seregno, Roberto Bernardelli di Milano, Giulio Arrighini di Brescia.
 E CON LORO c’è un esponente ai suoi tempi noto della Lega degli anni novanta come Giancarlo Pagliarini che ha l’esperienza necessaria per guidare i nuovi leghisti a cercar di cambiare la politica del movimento. O meglio a ritornare, secondo quel che dicono e scrivono in un giornale che si pubblica a Milano e che si intitola Allarme speranza a Milano, alla Lega dei primi anni e (state attenti) al pensiero di Miglio che fu fino all’alleanza di Bossi con Silvio Berlusconi nel 1994 il teorico principe della Lega Nord e ne uscì proprio allora per quell’alleanza, fondando un effimero Partito Federalista di cui fu senatore nella tredicesima legislatura.
 Ma chi era Gianfranco Miglio e in chesensoinuovileghisticomePagliarini e i suoi amici vogliono ritornare al giurista lombardo cui abbiamo accennato? Per capirlo, bisogna dire di più dell’azione e del pensiero di Miglio che fu uno studioso accademico della Università Cattolica di Milano, fino ad avvicinarsi alla Lega Nord e divenirne nel 1990 senatore come indipendente. Per quattro anni lavorò per il partito ed elaborò un progetto di riforma federale fondato sul ruolo costituzionale assegnato all’autorità federale e a quella delle macro-regioni o cantoni (del Nord o Padania, del Centro o Etruria, del Sud o Mediterranea, oltre alle cinque regioni a statuto speciale ). La costituzione di Miglio prevedeva l’elezione di un governo direttoriale composto dai governatori delle tre macroregioni, da un rappresentante delle cinque regioni a statuto speciale e dal presidente federale. Quest’ultimo, eletto da tutti i cittadini in due tornate elettorali, avrebbe rappresentato l’unità del paese.
 IL CONTRASTO tra Miglio e Bossi si espresse al congresso leghista di Assago quando il professorenonfud’accordonédiallearsi con Forza Italia (a loro volta Berlusconi e Fini avevano già fatto sapere che non avrebbero accettato Miglio come ministro delle Riforme che andò al leghista Francesco Speroni, inadatto a quel compito) né di entrare nel primo governo Berlusconi. Così si arrivò allo scontro diretto tra Miglio e il leader leghista che lasciò la Lega, dicendo di Bossi:“ Spero proprio di non rivederlo più…Per Bossi il federalismo è stato strumentale alla conquista e al mantenimento del potere. L’ultimo suo exploit è stato di essere riuscito a strappare a Berlusconi cinque ministri. Tornerò solo nel giorno in cui Bossi non sarà più segretario.”
 Che le cose andassero così non c’era da stupirsi, conoscendo la storia italiana. Ma per Miglio la delusione fu grande e lo allontanò dal leghismo di Bossi e del “cerchio magico” fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2001. Quel che si può dire oggi, parlando di Miglio è che il professore lombardo non aveva un’ideologia democratica (né rispettosa della costituzione repubblicana) ma si rifaceva ad esperienze europee e occidentali attente a stati confederali come quello svizzero o statunitense, e non può costituire oggi un punto di riferimento per chi si collochi invece su una linea di rinnovamento costituzionale (ma non eversiva) dei principi fondamentali della Carta del 1948. Certo l’esempio di Miglio escluderebbe l’alleanza costante e parassitaria con il berlusconismo della Lega Nord di Bossi che rischia di portarla a una sonora sconfitta elettorale. Si capisce così lo scontro mortale che può determinarsi tra i capi e i militanti dell’Unione Padana Alpina e il gruppo dirigente attuale della Lega Nord. Non faccio pronostici ma possiamo dire che il problema è aperto e potrebbe avere sviluppi inaspettati.

l’Unità 6.10.11
Il Rapporto della Cei: «Il problema non è il mercato: senza figli l’Italia implode»
Nel 2050 la popolazione sotto i 60 anni sarà di 6 milioni e mezzo in meno
«Altro che consumi, la crisi comincia dal calo demografico»
I vescovi: «Si calcola che nel 2050 la popolazione italiana sotto i 60 anni sarà di 6 milioni e mezzo di individui in meno mentre la popolazione sopra i 60 anni conterà 9 milioni in più».
di Jolanda Bufalini


Ha cambiato per una sera aspetto il saloncino della casa editrice Laterza, via il gigantesco tavolo attorno al quale negli incontri seminariali si accendono discussioni roventi, spesso fra esponenti dell'intellighenzia laica e cattolica, al suo posto una platea di sedie e molti clergymen. Al tavolo degli oratori il cardinale Bagnasco e il cardinale Ruini per presentare «Il cambiamento demografico. Rapporto-proposta sul futuro dell'Italia» a cura del comitato per il progetto culturale della Cei, di cui Camillo Ruini è presidente. Fu proprio Sua Eminenza a prendere contatto, attraverso lo storico Andrea Riccardi, con Giuseppe Laterza. Con l'intento di dare veste laica alle ricerche sociali promosse dai vescovi. Il volume sul declino demografico dell'Italia è il secondo, del 2010 è «la sfida educativa». Veste laica ma senza il contraddittorio che è, invece, costume della Casa editrice. E qualcuno, nella bacheca verde dell'ingresso, ha appeso un brano di don Milani, dalle Esperienze pastorali: «Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero ... mi sono attirato un mucchio d'odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti e di passione del mio popolo».
Contraddittorio o no, il rapporto che analizza andamento, nodi critici e fa proposte pratiche per invertire il trend negativo del crollo della natalità in Italia, pone a tutta la società un problema gigantesco enucleato da uno dei demografi che ha partecipato alla ricerca, Antonio Golini. «Si calcola che nel 2050 la popolazione italiana sotto i 60 anni sarà di 6 milioni e mezzo di individui in meno mentre la popolazione sopra i 60 anni conterà 9 milioni in più» mentre in altre parti del mondo avviene il contrario, «un paese con troppi figli – dice Golini – esplode, e in Africa ci saranno fra poco tre miliardi e mezzo di abitanti. Ma un paese con pochi figli implode».
PIRAMIDE ROVESCIATA
Ancora più impressionante è l'immagine di piramide rovesciata di quel 1,4 di bambini nati che si troveranno sulle spalle due genitori e quattro nonni: l'allungamento della vita è una grande conquista ma, dice un altro dei curatori del volume, Carlo Blangiardo, ma «ha delle controindicazioni» perché le risorse del welfare sono assorbite da pensioni e cura degli anziani. «Si deve rompere il tabù – sostiene Golini – dell'età pensionabile».
Gli studiosi cattolici rappresentano così un cane che si morde la coda: «Il 21 per cento di giovani maschi e il 20 di giovani donne sopra i trenta anni vivono con i genitori e, per il 20 per cento di costoro va bene così». Niente responsabilità, niente famiglia, niente figli. È una dimensione che il cardinal Bagnasco chiama pirandellianamente «solipsitica», sollecitando un mutamento culturale: «La nostra cultura fa vedere i figli come un peso ... L'ideologia dell'autosufficienza occulta la bellezza della reciprocità». E che, sostiene Blangiardo, «non è controbilanciata dall'immigrazione, perché anche la popolazione immigrata tende a conformarsi ai costumi dominanti e la natalità, di anno in anno tende a diminuire anche fra gli immigrati, che, oltretutto, non possono contare sul sostegno familiare». Il quadro catastrofico ha qualche luce, per esempio nel fatto che, a fronte della media di 1,4 figli, il desiderio di maternità si attesta su due figli. E su questo desiderio, dicono demografi e prelati, si dovrebbe agire. In Italia nascono 600.000 bambini, il pareggio con la situazione attuale sarebbe a 750.000. Fra i 150.000 mancanti gli studiosi calcolano anche i «non nati», gli aborti volontari. Non si sa, però, quanti fossero gli aborti clandestini prima della legge 194.
Quando si passa dall'analisi alle ricette, il centro del ragionamento è il sostegno alla famiglia. Il professor Francesco D'Agostino vorrebbe affiancare al «gender away streaming» delle Nazioni Unite in favore dell'emancipazione delle donne un «family away streaming», anche perché le politiche individualiste «non hanno portato buoni frutti in realtà come la Svezia, dove si sono moltiplicate le ragazze madri«. Diverso sembra l'impianto di ragionamento di Golini che è l'unico fra gli oratori ad usare le parole «libertà» e «donne». Ma, al di là dei diversi punti di vista, le richieste rivolte alla politica – spesso troppo miope perché troppo legata ai tornaconti elettorali sottolineano il carattere laico. «Politiche pubbliche», dice il cardinale Ruini e, escludendo in modo netto “ogni coercizione”, chiede che : «Si rimuovano le cause economico sociali» che spingono all'interruzione di gravidanza. E poi, Blangiardo fa riferimento all' esempio della Francia, politiche tariffarie, politiche abitative, asili nido, conciliazione dei tempi di lavoro e quelli della famiglia. Laicamente.

l’Unità 6.10.11
Pochi figli, è in gioco il futuro
di Roberto Monteforte


Lo chiama il «suicidio demografico» il cardinale Angelo Bagnasco. Per il presidente del Progetto Culturale, cardinale Camillo Ruini si tratta di un «circolo vizioso involutivo da cui il Paese non sembra ancora in grado di uscire». È l’Italia che invecchia inesorabilmente. Non solo perché aumenta l’aspettativa di vita, ma proprio perché con quel tasso dell’1,4 di natalità siamo con il Giappone, fanalino di coda dei paesi industrializzati. Non si fanno figli e così non vi è un gran futuro all’orizzonte. Siamo una società vecchia, che senza ricambi vitali si fa sempre più povera. Non solo in senso economico, ma anche progettuale e culturale. Quando «si interrompe la catena generativa e si blocca il circuito della testimonianza tra le generazioni» si ha di fronte una società più povera e isterilita» osserva il presidente della Cei.
La Chiesa, alla domanda sul perché del calo delle nascite, risponde mettendo sotto accusa il modello «più consumo e meno figli». Non è così che si affronta l’emergenza economica. Non è certo colpa di chi vive la precarietà del quotidiano. Occorre mutare prospettiva e priorità. Puntare sulla famiglia e sul patto generazionale, quardando al futuro e contrastando la «cultura nichilista» e iperindividualista che in questi anni ha «decostruito» la società. E che ha pure fallito.
Bagnasco che torna a invocare una svolta per invertire quel declino del paese di cui è sintomo il calo demografico, esprime una critica netta ai modelli culturali proposti e perseguiti. Non si ferma alla denuncia. Con il «Rapporto-proposta» Il cambiamento demografico la Cei avanza analisi e proposte avvalendosi del contributo di esperti. Chiede di cambiare passo. Non è accettabile «aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, quando si prosciugherà il destino di un popolo». Questa volta la Chiesa non si ferma alla difesa dei valori «non negoziabili». Con l’emergenza denatalità pone all’agenda del paese il tema del suo futuro.

l’Unità 6.10.11
La Chiesa e la cultura della sinistra
Le parole di Bagnasco contengono una critica all’individualismo su cui è necessario confrontarsi Dobbiamo aggiornare il patrimonio dei diritti collegandolo alla valorizzazione dei legami umani
di Livia Turco


redo sia utile tornare sul discorso pronunciato dal cardinale Bagnasco nel corso dell’ultimo consiglio permanente della Conferenza episcopale. L’aspetto che più mi ha colpito della prolusione del presidente della Cei è la cosiddetta “visione antropologica”, la critica all’individualismo ed al radicalismo. «Sarà bene anche affinare l’attitudine a cercare, sotto la scorza dei cambiamenti di breve periodo, le trasformazioni più profonde e durature, consci, tra l’altro, che una certa cultura radicale al pari di una mentalità demolitrice tende ad inquinare ogni ambito di pensiero e di decisione. Muovendo da una concezione individualistica, essa rinchiude la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale. Per questo, dietro una maschera irridente, riduce l’uomo solo con se stesso e corrode la società, intessuta invece di relazioni interpersonali e legami virtuosi di dedizione e sacrificio».
Tale visione è coniugata a quel “c’è bisogno di purificare l’aria”, il richiamo duro alla questione morale, l’investimento sui giovani indicati come i veri protagonisti della riscossa del nostro Paese. Questa visione antropologica dell’uomo relazionale, della persona che riconosce la sua dipendenza dall’altro e del suo bisogno di comunità, di relazioni umane significative, costituisce il nucleo di una elaborazione che è stata rilanciata in questi ultimi anni dalla Chiesa, è stata al centro dei documenti delle Settimane Sociali. Personalmente lo considero un approccio molto fecondo. Farebbero bene le diverse culture politiche a collocarsi su questo piano della discussione e della sfida.
Che cosa significa questa proposta per la cultura della sinistra? Io credo, mettere in discussione una concezione dei diritti che talvolta si è basata su una visione riduttiva della libertà personale e dell’autodeterminazione. Riduttiva quando non ha saputo cogliere ciò che è di fronte ai nostri occhi e vive nella nostra esperienza: il bisogno dell’altro, il legame di interdipendenza tra le persone come nutrimento della libertà e dell’autonomia individuale.
Bisogna dunque aggiornare la cultura dei diritti collegandola alla responsabilità e alla valorizzazione dei legami umani. Diritto non è solo ciò che aspetta e compete a ciascuna persona in nome del valore universale della dignità umana ma anche ciò che ciascuno è chiamato a dare e fare per gli altri in quanto componente della comunità. Diritto è sentirsi parte di una comunità, è servirla perché questo senso attivo di appartenenza è parte integrante della dignità umana. Ha ragione Francesca Izzo (l’Unità, 3 ottobre) quando afferma che la ridefinizione della cultura dei diritti e della libertà individuale deve basarsi sul riconoscimento della differenza sessuale, della libertà femminile e di quanto è stato pensato dalle donne.
Se questa è l’evoluzione che deve compiere e sta compiendo la cultura della sinistra e del Pd, una domanda va posta alla Chiesa: questa critica all’individualismo e al radicalismo contiene forse un “non detto” secondo cui radicalismo e individualismo sono storicamente e ontologicamente identificabili con la sinistra? Oppure la Chiesa propone una visione dell’uomo e della società che interroga tutte le culture politiche? Per esempio, costituisce una critica alla società consumista ed edonista al relativismo etico che nell’ultimo ventennio è stata propinata dal berlusconismo; o a quella visione della ineluttabilità della diseguaglianza umana e sociale, quel timore della diversità umana che contraddistinguono le culture politiche del centrodestra?
Insomma, la sfida della responsabilità e del bene comune proposta dalla Chiesa è feconda se sollecita un’azione rigeneratrice e una ricerca innovativa in tutte le culture politiche, se costituisce lievito che alimenta tutti ed è a disposizione di tutti e non se, in modo indiretto e tacito, segna campi e confini di appartenenza politica che questa volta scaturirebbero da valutazioni addirittura antropologiche. Come a dire la sinistra è irrimediabilmente individualista e radicale e dunque incompatibile con un umanesimo autenticamente cristiano e quindi luogo improprio per un cattolico. Pongo tale questione perché sono convinta che la sfida della responsabilità e del bene comune, la riproposizione dell’uomo in relazione con l’altro non è solo il ritorno ad una visione tradizionale della Chiesa e della pastorale cattolica. Non è solo la riproposizione di un nucleo antico e permanente del pensiero cattolico ma contiene una lettura dell’esperienza umana che dovrebbe coinvolgere tutti noi. Per questo è importante misurarsi con essa, farsi guidare per capire le domande profonde dell’uomo moderno e per cercare di aggiornare il linguaggio e la cultura della politica.

l’Unità 6.10.11
Studenti in piazza
La scuola pubblica non è una spesa: è un investimento
di Mariano Di Palma
, coordinatore nazionale Unione degli Studenti

Guardando gli ultimi anni di attacchi alla scuola pubblica sembra che ormai lo spazio pubblico della formazione italiana abbia ormai esaurito le sue potenzialità, abbia raggiunto uno stadio così detto «di non ritorno». Spulciando la finanziaria ancora una volta non abbiamo trovato un euro di investimento reale alla voce istruzione pubblica. Sarà che non ci siamo abituati alla logica della scuola come spesa e non come investimento. La soluzione alla crisi in salsa italiana, del resto, è l’impoverimento sociale e culturale del Paese, la cancellazione dei diritti, la distruzione di ogni dimensione pubblica. L’aumento delle classi pollaio, l’assenza di voci di bilancio sul diritto allo studio, i tagli all’offerta formativa, le poche briciole sull’edilizia scolastica con le scuole che cadono a pezzi, è solo il campanello di allarme dello stato in cui versa la scuola italiana da anni agli ultimi posti in Europa. Questo è il prezzo che il Governo Berlusconi fa pagare alle studentesse e agli studenti per una crisi e un debito causati dalla mala politica di questi decenni.
La sfida che lanciamo quest’autunno, a partire da domani, è tutta culturale e sociale. Pensiamo, infatti, che cambiare la scuola dal basso sia una possibilità reale. Abbiamo costruito in questi anni di mobilitazione un percorso che abbiamo chiamato AltraRiforma; scendendo in piazza, occupando e autogestendo, e ogni giorno nelle nostre aule vogliamo dimostrare come sia possibile trasformare la scuola pubblica dal basso.
Ad una valutazione autoritaria e basata su criteri soggettivi, sul voto di condotta e sul limite di 50 assenze proponiamo un nuovo modello di valutazione, basato sul confronto mensile tra studente e docente che analizzi e recuperi davvero le carenze, una valutazione che superi l’idea di sentenza e sia in grado di valorizzare davvero non solo le conoscenze, ma anche le competenze, le creatività e le attitudini. Stiamo sperimentando nelle scuole lo strumento del referendum per ribaltare il modello piramidale fondato sui presidi-manager, lo statuto dei diritti in stage, per tutelare i tantissimi studenti che vengono sfruttati durante i percorsi di alternanza scuola lavoro, senza tutele e diritti.
Ovviamente questo non basta. Per questo domani chiederemo una legge quadro sul diritto allo studio, di tagliare le spese militari per investire su trasporti gratuiti e borse di studio, sul libero accesso alla cultura e su un piano straordinario per l’edilizia scolastica. Vogliamo contare davvero.
Da domani, passando per la mobilitazione internazionale del 15, questo governo dovrà fare i conti con noi in oltre 70 piazze italiane, stanchi di subire le scelte scellerate, di non poter decidere anche noi cosa studiare, chi essere, cosa sognare.

l’Unità 6.10.11
Il veto di Russia e Cina fermauna risoluzione critica verso il regime di Bashar al-Assad
L’opposizione siriana insorge: quel veto al Consiglio di Sicurezza «incoraggerà» la violenza
Mosca e Pechino salvano la Siria Onu, sanzioni bloccate
Il regime canta vittoria. L’opposizione denuncia: è una licenza d’uccidere concessa a chi ha già sulla coscienza oltre 2.700 morti. Il veto di Cina e Russia blocca una risoluzione «anti-Assad» al Consiglio di sicurezza
di Umberto De Giovannangeli


Il regime canta vittoria. L’opposizione denuncia: è una licenza d’uccidere concessa a chi ha già sulla coscienza oltre 2.700 morti. Russia e Cina bloccano la carica dei Paesi europei contro il regime di Bashar alAssad. I due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu hanno posto infatti il veto sulla bozza di risoluzione promossa da Francia, Germania, Inghilterra e Portogallo. Bozza in cui si condannava il regime di Assad per la dura repressione delle manifestazioni e si chiedeva alle autorità di Damasco di porre fine immediatamente ad ogni tipo di violenza contro i civili.
BATTUTA D’ARRESTO
Dopo settimane di sforzi diplomatici per trovare una strada comune, i Quindici si sono spaccati, nonostante l’appello della comunità internazionale affinchè l’Onu assumesse una posizione chiara e decisa contro la sanguinosa repressione delle dimostrazioni per la democrazia in Siria. Nove i voti a favore del progetto di risoluzione promosso dai Paesi europei: oltre a quelli di Francia, Inghilterra, Germania, Portogallo, anche quelli di Stati Uniti, Bosnia Erzegovina, Nigeria, Gabon, Colombia. Quattro invece gli astenuti: India, Sud Africa, Libano e Brasile. Dura la reazione al veto di Mosca e Pechino da parte dei Paesi occidentali. Susan Rice, rappresentante permanente degli Stati Uniti all'Onu, ha dichiarato che gli Usa sono «indignati», «furenti», per il risultato del voto. «Oggi la Siria ha avuto la prova di quali sono i Paesi che hanno ignorato il suo appello. Questo Consiglio ha sottolineato Rice ha il dovere di porre fine a sei mesi di violenze, torture e repressioni. E ha il dovere di prendere una decisione che garantisca la pace e la sicurezza di un Paese e di milioni di persone». Usa e Paesi europei speravano in un voto solido da parte dei Quindici per inviare un messaggio chiaro al leader di Damasco. Il rappresentante francese Geraud Araud ha parlato di «veto politico» dettato da interessi particolari, che non tiene conto di una situazione drammatica e della morte di 2.700 persone innocenti. La versione finale della bozza di risoluzione promossa da Inghilterra, Germania, Portogallo e Francia, più volte modificata per tentare di raggiungere un accordo con Mosca, prevedeva l'esortazione alle autorità di Damasco a porre fine «immediatamente» ad ogni tipo di violenza. Non si parlava sanzioni, sicuramente bloccate dalla Russia, ma veniva menzionata l'assunzione da parte dell'Onu di misure «mirate» in caso di prosecuzione della repressione.
DAMASCO ESULTA
L'Onu ha conosciuto una «giornata storica» con la decisione di Mosca e Pechino di mettere il veto al progetto di risoluzione di condanna della Siria, bloccato in Consiglio di Sicurezza. Ad affermarlo è Bouthaina Shaabane, consigliere del presidente siriano. «Questa è giornata storica, perché la Russia e la Cina, come nazioni, si sono messe al fianco dei popoli e contro le ingiustizie», ha detto Shaabane. «Il loro veto ha aggiunto ci dà il tempo per rafforzare e migliorare le riforme. Penso che tutti i siriani ora siano felici di sapere che ci sono altre potenze nel mondo che resistono all'egemonia e all'interferenza militare negli affari interni di popoli e Paesi». Di segno diametralmente opposto è la reazione delle forze che si oppongono al regime baathista. Il veto della Russia e della Cina «incoraggerà» la violenza: a denunciarlo è Burhan Ghalioun, presidente del Consiglio nazionale siriano, principale organo dell'opposizione al regime di Damasco. «Sostenere (il presidente siriano) Bashar al-Assad nel suo progetto militarista e fascista non incoraggerà il popolo siriano a restare nella rivoluzione pacifica...Il “no all’Onu incoraggia davvero la violenza», insiste Ghalioun. Il presidente del Consiglio Nazionale ha inoltre auspicato l'organizzazione di una Conferenza internazionale sulla Siria che «riunisca le grandi potenze, i Paesi arabi ma anche i russi, malgrado mantengano una posizione insostenibile». Il veto russo-cinese non ferma la Turchia. «Il governo siriano avrebbe dovuto ricevere un avvertimento I siriani non devono sopportare un regime tirannico senza pietà e senza vergogna che bombarda il suo popolo», dichiara il premier turco Recep Tayyip Erdogan, giudicando «deplorevole» il mancato sì alla risoluzione. «Il fatto che la risoluzione sia fallita non ci fermerà conclude Erdogan imporremo inevitabilmente e subito un pacchetto di sanzioni».

Repubblica 6.10.11
Gli esperti di flussi migratori: tensioni in crescita per la crisi economica
"Speranze deluse e degrado la miccia di lotte razziali"
di Vladimiro Polchi


Quartieri dormitorio, comunità straniere chiuse e impermeabili, disagio economico. L´Italia dei ghetti è una coperta d´Arlecchino: tanti colori, quanti sono i fattori di rischio. La miccia esplosiva? Le seconde generazioni di immigrati e la delusione delle loro aspettative.
«Nel nostro Paese è in corso un processo di ghettizzazione del territorio - conferma Gian Carlo Blangiardo, esperto di immigrazione e direttore del dipartimento di statistica alla Bicocca di Milano - questo è dovuto sia alle catene migratorie che portano i cittadini stranieri ad abitare laddove trovano altri connazionali, sia allo status socio-economico che accomuna chi, italiano o non, abita nei quartieri periferici». Blangiardo fa gli esempi delle forti concentrazioni di cinesi e sudamericani in alcune zone di Milano. L´Italia dunque a rischio banlieue? In verità, la presenza dei migranti nel nostro Paese è distribuita in maniera piuttosto uniforme: un pulviscolo di nazionalità scarsamente concentrate. «Oltretutto - spiega Asher Colombo, docente di sociologia delle migrazioni internazionali a Bologna - gli immigrati creano anche dei flussi interni, in una situazione territoriale di grande fluidità». Crescono però le situazioni di degrado e sovraffollamento. In testa Roma e Milano con 300mila e 217mila immigrati residenti rispettivamente. Un campanello d´allarme arriva da un studio dell´università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, secondo il quale «le periferie urbane si configurano come veri e propri incubatori di razzismo e xenofobia». C´è poi il caso Roma: «Gli ingenti flussi migratori che si sono riversati qui negli ultimi anni - si leggeva nel "Primo rapporto sugli immigrati in Italia" del Viminale datato 2007 - hanno dato luogo a fenomeni tangibili di segregazione residenziale, basata sul gruppo etnico di appartenenza».
Quali sono le comunità più chiuse? «Generalmente quelle cinesi, indiane, pachistane e bengalesi - risponde Blangiardo - anche per le obiettive difficoltà di lingua». Una conferma arriva da una recentissima ricerca Abis per conto dell´associazione Genemaghrebina: i pachistani in Italia risultano spesso isolati, chiusi al mondo esterno, con «una minore integrazione delle donne che vivono quasi esclusivamente all´interno della comunità familiare allargata».
In questo contesto, le tensioni possono arrivare dal crescente disagio economico: «In un periodo di crisi, quando i servizi sociali scarseggiano - sostiene Blangiardo - le determinanti di tensione aumentano». In vista però non ci sarebbero «scontri razziali, ma guerre tra poveri, anche perché va dato atto al nostro Paese di essere riuscito in un modo o nell´altro ad accogliere in poco tempo i cinque milioni di immigrati residenti».
A rischio ghetto potrebbero essere allora le seconde generazioni, «che scontano - ricorda Colombo - una vecchia e inadeguata legge sulla cittadinanza». «Il milione di giovani immigrati che vive in Italia - prosegue Blangiardo - potrebbe costituire la futura miccia di tensioni razziali: non ora, ma quando e se le loro aspettative di vita e di eguaglianza con i coetanei italiani non venissero soddisfatte». Non solo. Altro fattore di rischio sono gli irregolari: «La crisi economica sta colpendo anche i lavoratori stranieri - avverte Colombo - e questi in base alla Bossi-Fini se perdono il lavoro rischiano di perdere pure il permesso di soggiorno, accrescendo così la già pericolosa area dell´irregolarità strutturale».

Repubblica 6.10.11
Le periferie dell’Islam
Banlieu, i ragazzi della nuova Europa
di Gilles Kepell


Un quarto di secolo dopo la prima indagine sulle periferie, i ricercatori hanno scoperto che molte cose sono cambiate. E che quando lo Stato è inadempiente e manca il lavoro, la dimensione religiosa tende a sostituirsi alle istituzioni. Così i giovani chiedono di essere integrati nella società
Dall´85 a oggi è aumentata la difficoltà della scuola a educare la nuova generazione
In questo contesto sono scoppiate le sommosse di Clichy e Montfermeil dell´autunno 2005
In Gran Bretagna e Olanda le logiche multiculturali sono state minate dai terroristi islamici

L´Islam come rivendicazione sociale, religiosa e politica: nel 1985 fu il tema di una prima inchiesta, Les banlieues de l´Islam. Un quarto di secolo dopo, la situazione è molto cambiata e per questo abbiamo voluto indagare a Clichy-sous-Bois e Montfermeil, epicentro delle sommosse dell´autunno 2005. L´estrema ghettizzazione di questa borgata, il sentimento di relegazione che domina fra i suoi abitanti ha avuto come effetto di compensazione, in un certo modo, l´affermarsi di un´identità religiosa più forte.
I valori religiosi sono un vettore di coesione sociale, nell´Islam come nel cristianesimo o il giudaismo. Ma quando si ha l´impressione che le istituzioni siano inadempienti, quando manca il lavoro, la dimensione religiosa tende a sostituirsi alle istituzioni, ma questo è anche un modo per chiedere di essere integrati nella società.
I protagonisti della nostra inchiesta sono diversi da quelli del 1985. Allora si trattava di lavoratori immigrati, che in grande maggioranza non erano francesi, e di confessione musulmana.
Oggi, in gran parte dei casi, hanno lasciato il posto a una giovane generazione, nata qui, di nazionalità francese: non è più l´Islam in Francia, ma l´Islam della Francia. Questo fenomeno si è sviluppato mentre al tempo stesso si osservava una progressione notevole della disoccupazione e la crescente difficoltà della scuola a educare questi giovani per consentire loro di avere accesso ai nuovi impieghi, in particolare nel terziario.
La deficienza dell´istruzione ha messo in difficoltà la logica dell´integrazione, non solo sociale ma anche culturale. In questo contesto che si sono prodotti gli avvenimenti dell´autunno 2005, le sommosse scoppiate a Clichy e Montfermeil.
Esplose nonostante ci fosse stato un importante coinvolgimento dello Stato nelle borgate popolari, contrariamente a quel che si è potuto vedere in Gran Bretagna, negli Stati Uniti o altrove, in particolare grazie alla politica di rinnovamento urbano, che consisteva a distruggere gli enormi edifici vetusti per rimpiazzarli con costruzioni più moderne e piacevoli. Ciò nonostante, il problema è adesso quello di entrare in una nuova fase, passare, dal rinnovamento dell´habitat al rinnovamento sociale e culturale.
La principale posta in gioco è l´istruzione, che deve permettere l´accesso all´occupazione. Non è solo una questione qualitativa, perché questa occupazione può anche consentire alla Francia di mantenere la sua competitività economica internazionale. Ma è anche la promessa di un´integrazione culturale migliore, che possa permettere anche a chi vede nell´Islam la propria identità di negoziarla nel quadro della Repubblica e dell´ordine repubblicano.
Oggi, nei quartieri in cui la République e le sue istituzioni sono meno presenti c´è la tendenza ad avere, soprattutto nelle borgate più isolate, un´auto-organizzazione, modi di resistenza che si riferiscono sempre più alla cultura musulmana. Lo si vede con lo sviluppo dell´alimentazione halal, con i matrimoni contratti soprattutto all´interno della comunità, mentre il modello francese d´integrazione si è appoggiato molto, per esempio, sui matrimoni misti. E´ un fenomeno che riguarda soprattutto i quartieri isolati e non si ritrova allo stesso modo altrove, ma oggi è un fenomeno preoccupante. Tutto ciò per dire che le forme prese dallo sviluppo dell´Islam in Francia, assai diversificate, indicano le difficoltà incontrate dalle borgate popolari e le sfide che aspettano il prossimo presidente della Repubblica: la questione delle banlieue centrale per la coesione sociale, per il dinamismo e la prosperità della Francia di domani. Reintegrare le borgate popolari nel tessuto sociale è un obiettivo essenziale e Clichy-Montfeermeil è la Francia, non è qualcosa di nascosto dietro i muri anti-rumore delle autostrade, di cui non si parla mai o che è oggetto di strumentalizzazioni demagogiche.
La situazione è invece molto diversa nei paesi che avevano una forte dimensione comunitaria, come la Gran Bretagna, l´Olanda, la Germania, dove si pensava che gli individui potessero vivere ripiegati su loro stessi e dove non c´è una cultura di integrazione o di assimilazione come quella francese. Le logiche multiculturali presenti in quei paesi sono state profondamente minate dallo sviluppo di movimenti terroristi islamici: gli attentati di Madrid nel 2004, quelli di Londra nel 2005, l´assassinio di Theo Van Gogh in Olanda e poi l´affare delle vignette in Danimarca. O tutto ciò ha suscitato una reazione contraria e quei paesi multiculturali sono forse oggi i più chiusi alla diversità sociale. La Francia non è mai stata multiculturale e mi sembra meglio attrezzata per affrontare una questione essenziale: rinnovare e rifondare una politica di integrazione sociale e culturale, basata sul postulato che chiunque arriva in Francia, si integra socialmente e culturalmente, è francese come chi è nato da sempre in questo paese. Si è francesi per cultura come si è greci per la palestra e il liceo. Credo sia qualcosa che non si è stati abbastanza capaci di mettere in opera nelle banlieue, ma che mi pare realizzabile.
Nella nostra inchiesta colpisce una cosa: al di là dell´azione dello Stato, ci sono fenomeni di successo individuale che vengono da imprenditori di origine immigrata e che sono fra i migliori vettori dell´integrazione. La società è pronta, tutti i francesi, tranne forse in alcune zone rurali, sono abituati a vivere con persone di origine straniera, è una tradizione antica. Si tratta di sapere se le culture devono convivere in una logica antagonista o comunitaria oppure se nelle diverse tradizioni culturali quel che è comune deve prendere il sopravvento su quel che è diverso.
è questa l´integrazione: occorre un´azione pubblica, ma ci vogliono anche campagne di sensibilizzazione, perché quel che abbiamo in comune abbia il sopravvento nel progetto sociale.

La Stampa 6.10.11
Indignati, le bandiere rosse sfilano a Wall Street
In piazza con i manifestanti anche studenti e sindacati. Lo slogan: finite la guerra, tassate i ricchi
di Maurizio Molinari


Con una inattesa dimostrazione di forza gli indignati di «Occupy Wall Street» invadono le strade di Downtown Manhattan riempiendo a migliaia Foley Square al grido di «End the War, Tax the Rich», fine alla guerra e tasse ai ricchi.
Tutto inizia a Zuccotti Park alle 15, le 21 in Italia.
Tutto inizia quando l’accampamento dei drappelli protestatari su Liberty Street accoglie una marea umana multicolore. il popolo delle associazioni studentesche e delle Unions, i sindacati degli operai di New York. Fino a questo momento gli indignati di «Occupy Wall Street» sono stati soli nella sfida all’«avarizia dei ceo» iniziata il 17 settembre, negli scontri con la polizia sabato sera sul Ponte di Brooklyn e nelle notti trascorse nei sacchi a pelo, giocando a scacchi o suonando i tamburi. Ma con l’arrivo di insegnanti ispanici, operai filippini, studenti universitari, magliette blu degli idraulici del Bronx, insegne rosse delle «famiglie lavoratrici» e un’infinità di altre sigle del proletariato urbano cambiano i numeri e anche l’impatto della rivolta che si propone di «trasformare Wall Street in Piazza Tahrir» come riassume Jouno, 20 anni, studentessa di Portland, Oregon. L’appuntamento fra gli studenti e i sindacati avviene con puntualità sotto gli occhi di dozzine di agenti, schierati con auto, mezzi e anche le torrette bianche che consentono di osservare tutto dall’alto. L’abbraccio fra le diverse anime della protesta si svolge all’incrocio fra Liberty Street e Broadway attorno ad un piccolo cartello bianco con scritto «Jobs» (posti di lavoro), che diventa la testa del corteo. Gli ordini della polizia sono rigidi: chi invade le corsie stradali rischia l’arresto. E così a centinaia risalgono Broadway verso Nord invadendo i marciapiedi. Al passaggio di cartelli «Eat the Rich» (Mangia i ricchi), gruppi di improvvisati suonatori jazz e cori «Siamo il 99 per cento, unisciti a noi» succede di tutto. I turisti messicani si sporgono dagli autobus facendo con le dita il segno di vittoria, dal negozio di AT&T all’angolo con Vesey Street i commessi afroamericani escono applaudendo, davanti al Sun Building un passante caraibico alza al cielo il pugno nero dell’orgoglio afro, alcuni broker bianchi contestano la protesta e vengono subissati dai fischi. Lo schieramento di polizia è massiccio ma il servizio d’ordine dei manifestanti non ha sbavature, ripete in continuazione «restate sui marciapiedi» facendo ricorso anche ai megafoni. L’obiettivo è arrivare a Foley Square, la piazza davanti al tribunale di Manhattan intitolata al combattivo fabbro che a fine Ottocento contribuì a creare il partito democratico cittadino. Sono da poco passate le 17, le 23 in Italia, quando la testa del corteo entra nei giardini. Ad accoglierla c’è un’orchestra di tamburi e trombe e un’altra massa di manifestanti, ancora dei sindacati come anche di MoveOn.org, l’associazione ultraliberal che nel 2008 tanto contribuì all’elezione di Barack Obama e che continua ad essere finanziata da George Soros, lo spericolato speculatore che si è schierato a favore di «Occupy Wall Street».
Foley Square si trasforma rapidamente in un tappeto umano che contiene oltre 10 mila anime, forse di più. Sventolano i drappi rossi dei socialisti, le bandiere americane rovesciate dei pacifisti, i colori dei cubani che auspicano «il risveglio popolare» e, sui gradini del tribunale, campeggia un grande striscione con scritto a caratteri cubitali «Revolt». Ad averlo confezionato sono due ragazze, Kerry di Miami e Lora di New York. «Rivolta non significa prendere le armi ma auspicare un grande cambiamento - dice Kerry, tenendolo bene in alto - proprio come avviene nel linguaggio musicale». Per Lora «qui stiamo facendo la storia e abbiamo voluto dare un nostro contributo». Pochi gradini più sotto un ragazzo con una maschera dorata assicura nel suo cartello che «la lotta di classe sta arrivando» e in effetti nella piazza ricolma sono temi e colori della sinistra radicale a prevalere. Dei militanti del Tea Party visti pochi giorni prima a Zuccotti Park non c’è traccia e i sostenitori del repubblicano Ron Paul riescono a farsi largo a fatica solo gridando «End the Fed», poniamo fine alla Banca Centrale. Gli avversari di Obama tuttavia non mancano: dai ragazzi di Queens con le magliette anti-Barack agli irridenti adesivi sulla «speranza mai avveratasi» con tanto di effigie presidenziale. La piazza degli indignati non si riconosce in leader e partiti esistenti, sfida tutti, accomunata dalla convinzione che si possa mettere fine alla crisi finanziaria «terminando la guerra e tassando i ricchi» al fine di rovesciare un mondo dove «i cittadini falliscono e le banche vengono salvate», come gridano i cori ritmati. Quando su Manhattan arriva il tramonto, gli indignati sfollano ordinatamente, tornando a Zuccotti Park dove da oggi si sentono più forti e meno isolati. Anche perché i sit-in di protesta si moltiplicano da Los Angeles a Boston.

Corriere della Sera 6.10.11
L’America degli indignati si rimette in marcia
di Massimo Gaggi

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Corriere della Sera 6.10.11
«Attivisti depressi e strizzacervelli ma anche lavoratori rimasti al palo»
di Michele Farina

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Corriere della Sera 6.10.11
Giovani e in bici
Il governo danese di Helle «la rossa»
Al Fisco uno studente di 26 anni
di Luigi Ofeddu

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il Fatto 6.10.11
La pricipessa che tortura i medici del Bahrain
di Barbara Schiavulli


Sono colpevoli di aver soccorso i feriti delle manifestazioni. Ogni giorno dal febbraio scorso la gente scende in piazza per protestare, almeno 35 persone sono morte, centinaia sono stati ferite, migliaia vivono nella paura. I dottori della capitale del Bahrein, che lavorano all’ospedale di Salmaniya, sono colpevoli di aver fatto quello che fanno ovunque i medici: aiutare qualcuno che sta male. Decine di dottori sono stati imprigionati, torturati, costretti a firmare confessioni false e condannati ad anni di prigione. In realtà il reato che hanno commesso è stato quello di essere i primi testimoni della brutalità del regime. I dottori per mesi sono stati rinchiusi, silenziosi come voleva il regime, per paura di ritorsioni verso le loro famiglie o loro stessi. Ma ora che le condanne – dai 5 anni all’ergastolo – piovono sulle loro vite hanno deciso di parlare con chiunque, siano essi organizzazioni per i diritti umani, social network o giornalisti. Prima la loro vita era normale, avevano soldi, casa e amici, poi hanno scoperto che chi non sta dalla parte del regime non è nessuno. Hanno visto la morte in faccia e sanno che l’unica cosa che li può salvare sono proprio le loro storie. E una di queste punta il dito contro uno dei torturatori, lo raccontano le dottoresse appena uscite di prigione.
 “LA CHIAMAVANO Sheika, era l’unica donna nella stanza, ma io non potevo vederla perché ero bendata. Mi ha schiaffeggiata, mi ha picchiata, mi ha detto che ero una maledetta sciita. Poi mi ha infilato dei cavi nelle orecchie e sono stata aggredita dalla corrente”, racconta Nada Dhaif, 36 anni, chirurgo che la settimana scorsa è stata condannata a 15 anni. Alla fine dell’interrogatorio le hanno tolto lo straccio dagli occhi e l’ha riconosciuta: Sheika Noora Bint Ibrahim, della Famiglia Reale che governa il Bahrein. La principessa lavora di solito sotto copertura per la polizia dell’antidroga, nata dal terzo ramo della famiglia reale, è cugina della Regina Sabika bint Ibrahim al Khalifa.
 “Il re Hamad bin Isa al Khalifa ha nominato una commissione per indagare”, è l’unico commento rilasciato dal ministero dell’Informazione. La dottoressa Fatima Haji racconta di essere stata prelevata, in piena notte, da uomini in borghese, comandate da una donna, rivelatasi poi la principessa. “Pensavo mi avessero rapito, ho scoperto invece che mi avevano portato in prigione. Sheika ha preso il mio BlackBerry”. Haji aveva scritto all’organizzazione Human Rights Watch per raccontare della sua sospensione all’ospedale dove lavorava. “Presto mi arresteranno – aveva scritto – in nome dell’umanità, siamo solo dottori che curano i feriti. Vi chiediamo aiuto, il Bahrein sta affondando e stiamo vivendo una crisi umanitaria”. L’email non è piaciuta alla principessa. “Mi ha urlato contro: come osi distruggere l’immagine del mio paese? Poi mi ha fa fatto l’elettrochoc in faccia”, ha detto Haji che è stata condannata a cinque anni, accusata di avere avuto un ruolo nelle manifestazioni antigovernative. “Ho perso la vista per due giorni e sono stata aggredita sessualmente dalle guardie per firmare una confessione che non ho neanche letto”.

il Fatto 6.10.11
Una sentenza non è la Verità
di Bruno Tinti


 Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti. Non è, non dovrebbe essere una notizia importante: di omicidi ce ne sono tanti, tutti i giorni. Però ne parlano tutti. E, considerata l’inesistente preparazione giuridica del 99% di quelli che ne parlano, è ovvio che non si tratta di interesse scientifico sull’attendibilità del Dna come prova. Un Grande Fratello estremamente realistico, con tanto di giochi erotici, morto ammazzato e prigione vera: voyeurismo collettivo, ecco cos’è.
 UNA PARTE dei voyeur non perderà occasione per prendersela con i giudici che “sbagliano”: “Amanda era innocente, lo vedete come funziona male la giustizia? Adesso chi la ripaga del male che le hanno fatto?”. Problema serio questo dei giudici che sbagliano. Allora perché parlare di voyeur? È gente che pensa, critica, partecipa della vita pubblica . Cittadini. Ah, sì? E dove sono tutti i giorni, quando, in ogni Corte d’appello, un colpevole viene dichiarato innocente; o il contrario? Non lo sanno che è normale che succeda? Non pensano che, se non fosse così, il processo d’Appello non servirebbe a nulla: giudici, avvocati, funzionari amministrativi, soldi e tempo impegnati, tutti i giorni, a confermare le sentenze di primo grado? Una follia. Solo con Amanda scoprono che le sentenze di primo grado possono essere ribaltate?
 Allora Amanda e Raffaele sono innocenti? Sì, lo dice una sentenza dello Stato. Se la Cassazione confermerà la sentenza (sempre che qualcuno ricorra), saranno innocenti in via definitiva. Processualmente innocenti, sì. Allora non hanno ammazzato Meredith? Ecco, questo non si può dire. Nessuno lo sa; e nessuno lo saprà mai. I giudici di primo grado pensavano di sì; quelli dell’Appello hanno pensato di no; e quelli che verranno dopo (se la Cassazione troverà errori di diritto), chi lo sa. Ma si tratterà di una sentenza, non della Verità.
 Allora, potrebbero dire i voyeur, anche il mio giudizio conta: se è una questione di opinioni... No, per niente. I giudici sono attrezzati professionalmente e dispongono di tutte le informazioni che riguardano il caso. I cittadini, di diritto e delle più svariate scienze coinvolte in un processo (dalla balistica alla genetica), non sanno nulla; e, quanto alle informazioni, le raccolgono dove capita: anche se non sono distorte, restano frammentarie. È per questo che, in tutto il mondo, esiste una convenzione sociale (e costituzionale) che attribuisce ai giudici il compito di attribuire torti e ragioni, di assolvere o condannare. Perché questo sistema fornisce le più alte probabilità di accertare i fatti accaduti e le responsabilità di chi vi è stato coinvolto. Probabilità. Non di più.
 Ecco perché, in caso di sentenze contrastanti, quella che vale, giuridicamente e costituzionalmente, è l’ultima. Non perché è sicuramente giusta; ma perché occorre mettere una parola fine ai conflitti. Altrimenti la convivenza non sarebbe possibile. Tu devi dare dei soldi e tu devi riceverli; così ha detto il giudice. Sarà giusto? Mah. Però, se non si adotta questo sistema, cosa si fa? Facciamo a botte e vinca il più forte? Uno ammazza l’altro? Camminiamo sui carboni ardenti e, se vado più lontano di te, vuol dire che Dio è dalla mia parte? Non c’è un’alternativa.
 MA POI. Giudici di primo grado, giudici d’Appello, giudici di Cassazione. Sempre giudici sono. Essere giudice d’Appello non ti fa essere più intelligente, più preparato, più attento del giudice di primo grado. Forse, fino a ieri, il giudice di Appello di oggi lavorava in tribunale. E viceversa. Niente permette di pensare che le sentenze di Appello siano più “giuste” di quelle di tribunale. Forse in primo grado hanno deciso bene e quelli che si sono sbagliati sono stati i giudici dell’Appello. Però la sentenza d’Appello (o di Cassazione) è l’ultima. Res judicata pro veritate habetur. Così dicevano i romani: la sentenza definitiva equivale alla Verità. Equivale. Ma non è la Verità. E infine. Ma quando si capirà che i processi non si fanno ai colpevoli? I processi servono per accertare (con i limiti visti sopra) se una persona è colpevole o innocente. Se non fosse così il pubblico ministero potrebbe decidere che l’indiziato è colpevole, metterlo in prigione, buttare via la chiave e chiasso finito. O, se decide che è innocente, piantarla lì. Se uno è innocente, non è giusto sottoporlo al processo.
 LO DICEVA anche Carnelutti (celebre avvocato dei tempi andati): “Il processo è già una pena”. Ah sì? E se uno è innocente ma il pm lo acchiappa e lo sbatte in galera? Non gli piacerebbe un’analisi un po’ più approfondita? Con le famose “garanzie di difesa”? Per esempio un giudice che valuta le prove ed emette una sentenza. O una Corte d’appello che fa le pulci alla sentenza del giudice e la riforma; o magari la conferma. Certo, tutti possono sbagliare; si tratta di diminuire le probabilità di errore. La beffa è che, forse, aveva ragione il pm... Però, che ci si può fare, questa è la giustizia umana. Per quella divina si sta lavorando.

Repubblica 6.10.11
La rivolta contro il potere e le tentazioni populiste
di Carlo Galli


L´illusione tecnocratica, l´assalto ai governanti "tutti ladri e corrotti": analisi di un fenomeno che da decenni attraversa la storia della Repubblica
L´indignazione non è contro un sistema da abbattere ma contro un ceto che ha deluso e che viene rifiutato con la stessa energia con cui lo si era amato
C´è già chi si prepara a sfruttare ancora una volta, dopo la prima nel 1994, la stanchezza dei cittadini per costruirci sopra una nuova carriera

Antipolitica è molte cose. È la disperazione di Adelchi morente: «non resta che far torto o patirlo. Una feroce forza il mondo possiede». La politica ha in sé, per sempre, lo stigma del peccato, della violenza che si replica nei secoli. Antipolitica è essere persuasi che la politica è l´Inferno in terra. Antipolitica è anche l´ostinazione di Antigone a uscire dall´implacabile logica amico/nemico che il re Creonte codifica nelle sue leggi: chi ha combattuto contro la città va messo al bando dall´umanità, anche da morto; va escluso dalla sepoltura. Ma un´uscita verso una comunità d´amore e non d´odio – quell´uscita che Antigone desidera – non può avvenire sulla terra: solo nell´Ade c´è spazio per la pietà. Antipolitica è poi quella di Julien Benda che difende la purezza disinteressata del sapere dalla commistione con la politica. Ed è anche lo sforzo di Thomas Mann di sfuggire alla forza d´attrazione gravitazionale che si sprigiona dal semplice sapere che la politica esiste, e che è la dimensione della nostra finitezza.
Questa antipolitica "di rinuncia" (tragica oppure profetica: dopo tutto anche il Sermone della Montagna è antipolitico) è una critica della politica così radicale che, paradossalmente, la conferma nei suoi tratti più crudi – quelli stessi evidenziati dai "realisti" più spietati –, proprio perché vede nella politica solo violenza e dominio. Una posizione che rinuncia ad agire, rivolgendosi all´aldilà o ipotizzando un mondo radicalmente diverso da questo; e che deve accettare di pagare con la morte e con la sconfitta – sempre – ogni tentativo di modificare la politica e le sue bronzee leggi.
Ma antipolitica può anche essere, al contrario, l´atteggiamento rivoluzionario di chi vede in un sistema politico un ostacolo da rimuovere integralmente, per instaurare un nuovo ordine di cose. L´originaria aspirazione del marxismo era portare l´umanità, attraverso il proletariato, a superare del tutto la politica: che è falsa e mistificante perché rispecchia e codifica l´alienazione che si genera nei rapporti di produzione capitalistici. Ma non si può certo affermare che questa fosse una fuga dalla politica: anzi, ha generato una potenza politica enorme, un anelito alla palingenesi che ha segnato più d´un secolo di storia mondiale.
Ci sono poi altre forme di antipolitica. C´è la tecnocrazia, ovvero la convinzione – maturata nel positivismo ottocentesco, e nelle pratiche manageriali novecentesche – che la politica sia un modo primitivo di regolare la coesistenza degli uomini. Quanto più la scienza e la tecnica progrediscono, tanto più emergono problemi oggettivi, né di destra né di sinistra, che richiedono, per essere risolti, non politica ma competenza, non conflitti ma decisioni efficaci, nate da un sapere specialistico, interno alle cose. È cronaca di oggi, ma è anche storia: la storia dell´illusione novecentesca della pianificazione, l´utopia dell´automazione. Ed è anche la ricorrente tentazione di non volere vedere che quanto più la società è complessa tanto più è intrinsecamente politica; che non esistono soluzioni ‘tecniche´ ai problemi politici, che la pretesa di oggettività è sempre veicolo di potere: che chi pianifica – chiunque sia – fa politica, non tecnica.
Se questa antipolitica vuole cacciare i politici perché incompetenti, per sostituirli con tecnici, un´altra, analoga a questa, li vuole cacciare perché ladri e corrotti. Ma l´antipolitica ‘di protesta´, dell´indignazione, dell´onestà e della legalità, per giustificata che sia (del resto, anche quella della competenza lo è: pensiamo ai tunnel per i neutrini), non va al di là della rabbia contro la Casta, del lancio di monetine, dello sventolio di cappi. In ogni caso, questa antipolitica è rivolta non contro la politica in quanto tale né contro un sistema da abbattere con la rivoluzione, ma contro un ceto politico che ha deluso le aspettative – che viene rifiutato con la stessa feroce energia con cui lo si era amato; che viene respinto come corrotto tanto quanto da esso ci si era lasciati corrompere – . Ed è quindi, con ogni evidenza, essa stessa una politica, che non sa di esserlo, o non vuole ammetterlo.
Il rischio a cui va incontro è che risulti passiva e inefficace, che sia una valvola di sfogo per i cittadini, che si sottraggono alle proprie responsabilità e le scaricano sulla classe politica, divenuta il capro espiatorio universale. È questo rischio che rende questa antipolitica manovrabile da chi ne sa cogliere l´ingenuità credulona, cioè dall´imprenditore politico populista, che sfrutta il qualunquismo e l´indignazione per sostituirsi ai vecchi politici, e finge che tutto cambi perché tutto resti com´è (o peggiori radicalmente).
Non a caso, c´è già chi (il solito Cavaliere) si prepara a sfruttare ancora una volta – dopo la prima, nel 1994 – la stanchezza dei cittadini per l´indecenza, l´inettitudine, la corruzione, dei politici, e a costruirci sopra una nuova carriera politica. E ci si dovrà veramente dichiarare "antipolitici" se questa operazione di ri-verginazione avrà successo: se cioè Berlusconi, con un "partito dell´antipolitica" (un ossimoro che si smaschera da sé), riuscirà a convincere gli italiani che è un uomo nuovo, non toccato da scandali, competente, non contaminato dalla politica. Se cioè, invece di venire escluso, saprà ancora includere gli italiani nel suo populismo affabulatorio – tanto più politico quanto più antipolitico –.

Repubblica 6.10.11
Da Guglielmo Giannini a Beppe Grillo
La malattia qualunquista
di Nello Ajello


Già subito dopo l´unità d´Italia abbondano le denunce degli intrighi parlamentari e si diffonde la sfiducia verso i governanti. Anche Croce e D´Annunzio si fanno contagiare nei primi anni del Novecento

La denunzia è tagliente. In Italia le consultazioni popolari vengono manovrate dall´alto, ad opera delle «direzioni dei partiti, che ne governano i rappresentanti, allontanando nella rielezione coloro che hanno dato segno d´indipendenza». A rivelarlo non è un fustigatore dei metodi che hanno aperto a Scilipoti le porte del potere. L´autore di quella requisitoria è, quanto ad anagrafe, meno fresco di così.
Si chiama Benedetto Croce, e il sistema di cui parla risale ai primi del secolo scorso. Altrettanto drastico era, negli stessi anni, Piero Gobetti: eccolo lamentarsi del fatto che, che «nella palestra del collegio uninominale», si va «addestrando all´intrigo una classe dirigente abile nel mercato dei voti».
Non è ancora l´"antipolitica", ma se ne scorgono moventi o pretesti. Già da tempo, D´Annunzio ha tuonato: «Per servire alla stabilità di Depretis e all´eloquenza di Cavallotti in Italia si vendono i voti». Modico stupore. Gli annali della storia d´Italia traboccano, infatti, dei trucchi e dei brogli connessi alla scelta dei "patres conscripti" sia civili che religiosi. A partire da ciò che ai suoi tempi Guicciardini riferiva su Rodrigo Borgia, candidato alla fine del 1400 al seggio di san Pietro e poi eletto con il nome di Alessandro VI, il quale «comperò, parte con denari parte con la promessa degli uffici o benefici suoi, molti voti di cardinali».
È partendo da simili precedenti che davanti all´"antipolitica" propriamente detta si stendono praterie. Ancora prima che Mussolini decreti il tramonto dei "ludi cartacei" (così ribattezzerà le elezioni) già celebri letterati, dal Fogazzaro nel Daniele Cortis (1884) alla Serao della Conquista di Roma (1885), hanno mostrato le magagne elettorali dell´Italia da poco diventata "una", fra l´impegno dei moderati a compiacere le proprie clientele e il disinganno dei clericali di provincia bloccati dal Non expedit, cioè dal divieto delle gerarchie a scendere in politica. Più avanti, nel 1914, una livida avversione per il parlamentarismo e per i singoli parlamentari, giudicati infidi, corrotti, opportunisti, inetti e traditori trionferà in un libello intitolato I moribondi di Montecitorio, cui arriderà una certa fortuna: esso risente degli umori dello "scapigliato" Paolo Valera, e del giornale La Folla. I toni, se un parallelo è praticabile a tanta distanza di tempo, somigliano, con qualche finezza in più, a quelli populisti adoperati da un Beppe Grillo. Il parallelo, certo azzardato a tanta distanza di decenni e di persone, può far capire che, fra i rami dell´antipolitica, non ne manca qualcuno di sinistra.
Ma consentiamoci a questo punto una trasvolata nel tempo. Non sarà affatto di sinistra, anzi intrisa di rimpianto per il fascismo, l´antipolitica che animò, tra il 1944 e il 1948, l´attività pubblica di Guglielmo Giannini. Il programma? Basta sapere che L´uomo qualunque, giornale diventato partito, è «stufo di tutto». A governare, spiegava quel leader, servono «degli amministratori, non dei politici». Insomma, «non occorrono né Bonomi, né Croce, né Nenni, né il pio Togliatti, né l´accorto De Gasperi». Va ricordato che di poltitica Giannini, si sforzò, sia pure invano, di farne parecchia. L´antipolitica ha sempre offerto simili sorprese.
E oggi? Colpisce il fatto che, tra i seguaci del premier, molti trovano che sarebbe bello restaurare lo spirito del ´94, cioè offrire al Paese a un´energica ripresa di quell´"antipolitica" che ai suoi esordi il patron di Forza Italia prometteva in dosi-urto. Perché, allora, non tornare al 1944, ai riposanti sospiri anti-antifascisti dell´UQ? In un´Italia in preda al sonno, nessun prodigio appare fuori posto.

Repubblica 6.10.11
Gli Usa tra "Tea Party" e proteste a Wall Street
Indignados d'America
di Vittorio Zucconi


La diffidenza del cittadino qualsiasi, ingenuo e onesto contro i signori di Washington fa parte dell´immaginario collettivo dalle origini degli States. Si manifesta nei vecchi film come nella rabbia di oggi verso i banchieri

Nata dalla più classica delle rivolte popolari contro la politica nella sua espressione più odiosa – le tasse – la Repubblica Americana porta dal 1773 il germe dell´antipolitica nel proprio corpo. Non c´è parola d´ordine più rilanciata nei due secoli di storia civica americana, dalla destra come dalla sinistra, dai Roosevelt agli Obama passando per i Reagan i e Bush, che la promessa di ripulire la infetta Washington ladrona e restituire la patria a "the people", il popolo.
La inestirpabile diffidenza verso i signori in panciotto e cilindro e più tardi in completo blu scuro che di volta in volta governano la nazione non è l´eccezione, ma la norma nel rapporto fra i cittadini e chi è delegato a rappresentarlo. Un sentimento che la Costituzione stessa scolpisce in meccanismi elettorali e istituzionali studiati nel calendario che impone una elezione legislativa o presidenziale ogni due anni e l´autonomia della magistratura. Il mazzo del potere deve essere continuamente rimescolato e sparigliato, per stanare i bari.
Ma neppure questa complicata ingegneria ideata dai Padri Fondatori ha impedito che la "political class", i professionisti del potere pubblico, si abbarbicasse periodicamente alle poltrone e ai corridoi marmorei dei palazzi, soprattutto attraverso la complicità fra la politica e il business, ben consci del famoso detto secondo il quale «il danaro è il latte materno della politica». Per interrompere questo empio allattamento, o almeno per inacidire il latte, ecco che periodicamente l´anima populista, ribellista, anti-politica si risveglia e grida.
Quando abbastanza cittadini si rendono conto che i bonificatori ufficiali non hanno bonificato niente – Reagan lasciò la capitale dopo otto anni avendo aumentato di 36 mila persone quella classe di "burocrati parassiti" che aveva giurato di sterminare – si alza il Mr. Smith del celebre film di Frank Capra, il cittadino qualsiasi spedito a Washington per ripulire l´aria. Riaffiora il "folk hero" alla Davy Crockett che rifiuta l´autorità costituita.
Scoppiettano i focolai di "milizie armate" che si preparano alla resistenza finale contro la politica, arrivando a tragedie terroristiche come l´attentato al palazzo del governo a Oklahoma City, espressione ultima e tragica dell´antipolitica a mano armata. La superstiziosa fede nel possesso individuale di armi è una manifestazione indiretta ma chiara dell´antipolitica latente.
E quando il senso di tradimento, l´ansia e lo scontento si allargano, l´antipolitica si coagula in grandi movimenti continentali, informi, senza partito, spesso senza leader, ma possenti. Deflagra nell´opposizione alla guerra in Vietnam. Sfonda le barriere dei partiti con il Women´s Lib, il femminismo militante. Trova nell´odio per Obama la miccia che innesca il Tea Party e fa eleggere stuoli di parlamentari antistatalisti e antigoverno nel 2010, ma subisce poi la stessa sorte del proprio bersaglio: il Parlamento americano ha un "rating favorevole" di appena il 10%. E oggi tenta di rivivere in quei falò di ribellione al nuovo impero del Male, quella Borsa di Wall Street alimentata dai salvataggi del governo. Dunque dalla politica. Tutto, nella storia americana, puntualmente si allarga e poi si placa nel grande bacino alluvionale di una politica così abilmente camaleontica da sapersi trasformare in antipolitica per assorbire l´esondazione della rabbia.
Perché il limite finora invalicabile e invalicato dall´antipolitica è nel suo rischiare di apparire antiamericana e antipatriottica. Certamente, il patriottismo è l´ultimo rifugio del mascalzoni, ma finora il bunker ha retto benissimo alle periodiche bombe dell´antipolitica.

La Stampa 6.10.11
Sicilia 1956, processo alla Costituzione
Torna il libro di Danilo Dolci in difesa dell’articolo 4. La vicenda paradossale del sociologo condannato per avere portato un gruppo di braccianti disoccupati a lavorare su un campo abbandonato
di Marcello Sorgi


La Repubblica riconosce a tutti i cittadini... La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Costituzione della Repubblica italiana, Articolo 4

La mattina del 30 gennaio 1956 a Partinico, un paese tra Palermo e Trapani, un gruppo di braccianti siciliani disoccupati e disperati mise in pratica una singolare forma di protesta: lo «sciopero alla rovescia». Andarono su una vecchia trazzera abbandonata, che portava verso una distesa di terre incolte, e cominciarono a lavorare con vanghe e badili per renderla praticabile. Dopo meno di un’ora di lavoro volontario, non retribuito, a dispetto, furono caricati dalla polizia. Si sedettero per terra annunciando che per otto ore avrebbero continuato a protestare digiunando, cosa alla quale erano per altro allenati, non avendo da tempo nulla da mangiare. Uno dopo l’altro vennero arrestati e portati in carcere all’Ucciardone.
Nessuno degli ufficiali di polizia impegnati in quei mesi a reprimere le occupazioni delle terre, da parte di disgraziati affamati che si battevano per l’applicazione della legge agraria, poteva immaginare che da quella singolare manifestazione, e dagli incidenti che ne erano seguiti, avrebbe preso origine una vicenda che fece il giro del mondo, mobilitando tutto insieme in Italia il Gotha degli intellettuali laici e di sinistra e quella che molti anni dopo in Italia si sarebbe chiamata la «società civile».
Il merito di questa mobilitazione, che accese un faro di luce mediatica e politica su un pezzo di Sicilia derelitta in cui si viveva in condizioni da Terzo mondo, fu di Danilo Dolci, un cattolico triestino sociologo e poeta, già religioso dell’Ordine dei Servi di Maria: una specie di Pannella ante litteram che inaugurò a Partinico la sua battaglia non violenta e i suoi ripetuti digiuni, e divenne il protagonista del «processo all’articolo 4». I cui imputati erano incredibilmente chiamati a rispondere di aver chiesto solo l’applicazione della Costituzione, nel punto in cui «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». A 55 anni dai fatti, Sellerio ha meritoriamente ripubblicato il libro con lo stesso titolo (Danilo Dolci, Processo all’articolo 4 , pp. 425, 15) uscito a suo tempo per rievocare la storia. Al suo arrivo in Sicilia a Trappeto, vicino a Partinico, dove aveva insediato il suo centro studi - in realtà una sorta di ospedale da campo in cui si cercava di dare aiuto a una popolazione affollata di moribondi -, Dolci era rimasto impressionato dalle condizioni di abbandono, ai limiti della sopravvivenza, in cui la gente si trascinava. E quando, nel novembre ’55, una bambina di cinque mesi era morta di fame, vomitando nel sangue, tra le braccia della sorellina, l’ultimo alito di vita, la sua coscienza civile s’era ribellata. Era nata così l’idea dello «sciopero alla rovescia», preparata con una serie di petizioni alle più alte autorità nazionali e locali, e accompagnata da una serie di diffide preventive della polizia, che avevano messo in guardia Dolci dal proseguire nelle sue iniziative. Era l’embrione dello scontro, che si preparava, tra un’idea della Costituzione come regola vivente dei cittadini e la resistenza politica ad attuarla da parte dei primi governi Dc, con un’autoritaria politica della sicurezza e rudi direttive di repressione impartite alle forze dell’ordine.
Dolci teorizzava che quelli che la polizia si ostinava a considerare «banditi» perché si ribellavano a insopportabili condizioni di vita, e imbracciavano talvolta il fucile per reagire ai soprusi dei gabelloti mafiosi posti a guardia dei feudi abbandonati, erano uomini che reagivano con fierezza alla sottomissione. Su questo aveva pubblicato da Einaudi un libro, Banditi a Partinico , con la prefazione di Norberto Bobbio. E Bobbio, con Carlo Levi, Alessandro Galante Garrone, Lucio Lombardo Radice e Mauro Calamandrei, per citare i principali, furono tra i primi a mobilitarsi.
Nell’aula del processo, sotto gli occhi allibiti della corte, si presentarono uno dopo l’altro, sottolineando il senso e il valore dell’azione non violenta di Dolci e il suo diritto a battersi per il lavoro garantito dalla Costituzione. Il giovane avvocato palermitano Nino Sorgi, ragazzo di bottega di un collegio di difesa guidato dal futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini e dal padre costituente Calamandrei, li accompagnava uno dopo l’altro a rendere testimonianza. Le telecamere della Rai torinese fermavano le immagini di una delle prime esperienze di cronaca giudiziaria televisiva e giornalismo di denuncia. Gli inviati dei grandi giornali stranieri fissavano sui taccuini il resoconto dei discorsi dei testimoni, un corteo surreale per il tempo e il luogo in cui si muoveva. Il discorso più drammatico, forse perché siciliano lontano da tempo dalla terra natale, lo fece Elio Vittorini, paragonando l’isola a una sorta di India italiana e lodando, appunto, la predicazione digiunatrice e non violenta di Dolci come la più adatta a promuovere il riscatto delle debolissime masse siciliane. L’Italia democristiana del tempo assistette sorpresa, senza sapere cosa pensare, alla sfilata degli intellettuali laici in difesa del sociologo cattolico servo di Maria, finito in galera perché si batteva contro la fame in Sicilia. E alla fine, a ogni buon conto, anche per ristabilire i rapporti di forza reali tra i fortissimi governi postquarantotteschi della Dc e la minoritaria Italia laica di allora, Dolci fu condannato per occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale.

La Stampa 6.10.11
Elio Vittorini
“I suoi metodi gandhiani sono i più adatti per la nostra isola”


“Conosco Danilo Dolci da due anni. È stato un religioso dell’ordine dei servi di Maria, mio amico di vecchia data, a presentarmelo. Io ero in principio diffidente. Inclino sempre a diffidare delle attività in cui si mescolano le manifestazioni religiose e le rivendicazioni sociali. Ma appena ho conosciuto Danilo le mie riserve sono cadute.
«Quanto alle sue idee, quanto ai suoi propositi, quanto soprattutto ai suoi metodi (i suoi metodi di tipo indiano che molti trovano così sconcertanti), debbo dire che li giudico i più adatti per la Sicilia. Nell’Italia settentrionale non sarebbero forse pertinenti. I digiuni e le altre forme di protesta passiva cui Danilo ricorre potrebbero anzi riuscire, nell’Italia settentrionale, addirittura ridicole.
«Ma la Sicilia somiglia molto all’India. Io sono siciliano, signor Presidente, e lo so fin dalla mia infanzia. Esiste in Sicilia la stessa profonda separazione tra le classi, la stessa segregazione classista, che esiste tuttora in gran parte dell’India. Inoltre le masse contadine siciliane hanno una sensibilità a fondo religioso non diversa da quella delle masse popolari indiane. In una situazione di tipo indiano è proprio con l’azione di tipo indiano svolta da Danilo che si hanno le maggiori probabilità di portare le masse a inserirsi nello Stato e a rendervi lo Stato presente in senso moderno.
«In India vi sono decine di uomini come Danilo che vanno promuovendo, e in sostanza preparando, nelle zone meno progredite della società, l’intervento riformatore dello Stato, e il governo non li ostacola affatto, anzi li aiuta. Anche in Sicilia ci vorrebbero decine di uomini come Danilo che il governo non ostacolasse e anzi li aiutasse».
Al processo del marzo 1956 contro Danilo Dolci, accusato di occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale, sfilarono come testimoni a favore dell’imputato diversi intellettuali di varia estrazione, tra gli altri Vittorio Gorresio, Lucio Lombardo Radice, Carlo Levi, Elio Vittorini e Norberto Bobbio. Delle deposizioni degli ultimi due pubblichiamo qui uno stralcio

La Stampa 6.10.11
Norberto Bobbio
“Lontana dal suo animo ogni idea di violenza”


“Conosco Danilo Dolci dal gennaio 1954, e ho avuto frequenti occasioni di intrattenermi con lui e ascoltarlo. Aggiungo che sono l’autore della prefazione dell’ultimo lavoro di Dolci, Banditi a Partinico .
«L’ultima volta che ho visto il Dolci è stato il 12 gennaio scorso; l’indomani egli doveva parlare alla televisione ed esporre pubblicamente il suo programma di azione. Di tale programma egli mi parlò il 12 gennaio, in particolare mi disse che si proponeva di attuare in Partinico una manifestazione la quale doveva consistere nella esecuzione di lavori in una pubblica trazzera abbandonata, da parte di disoccupati di quella zona. Egli tenne a precisare il carattere apolitico della manifestazione e l’assoluta assenza di qualsiasi idea di lucro. La manifestazione doveva avere un carattere anche simbolico.
«Il Dolci ancora una volta affermò che era lontana dal suo animo ogni idea di violenza e che avrebbe attuato la manifestazione solo se avesse avuto la certezza che nessuno dei partecipanti avesse usato la violenza.
«Quanto ebbe a dirmi quel giorno il Dolci, confermava quello che egli aveva scritto nei propri libri che io ben conoscevo».

l’Unità 6.10.11
Facciamo la rivoluzione con i libri
L’Italia nei rapporti internazionali è in coda: economia, educazione e qualità della vita, consumi culturali sotto la media europea. E con i governi di Berlusconi va in malora il patrimonio artistico. Ma se i cittadini si ribellassero?
di Giordano Montecchi


Eurostat, Cultural Statistics. 2011 Edition; Oecd (ma noi la chiamiamo Ocse), Education at a Glance 2011; Federculture, La Cultura serve al presente. Sono solo i più recenti fra i tanti rapporti nazionali e internazionali che ci informano sulla salute del nostro paese: economia, cultura, educazione, qualità della vita. Dati e raffronti che si accumulano, si accodano come una litania monotona; una mesta variazione sul tema dell’Italia in coda, all’ultimo posto, sull’orlo del burrone eccetera. Litania ripetitiva e stancante, per cui meglio meglio riderci su: si accende la tv e tutte quelle ombre, quei menagramo che dipingono vergogne e profetizzano sventure, svaniscono come d’incanto e si torna alla realtà vera: quella che ogni giorno ci cola addosso dagli schermi televisivi.
Quante volte abbiamo passato in rassegna i numeri di questa tristezza? Troppe, tanto da far passare la voglia di riaprire il discorso. Eppure occorre insistere, ripetere, denunciare, aggiornare. Perché alla radice del male italiano la politica che va in cancrena, la metastasi della delinquenza organizzata, il malfunzionamento di ogni cosa, l’evasione fiscale allucinante, le sperequazioni più vergognose sta forse un fatto preciso: quell’ignoranza degli italiani che, coltivata, alimentata, accarezzata persino, è sempre stata e resta la migliore alleata di tutti quei poteri che sabotano e combattono la democrazia; poteri visibili o occulti, laici o ecclesiastici, che da sempre si spendono contro il progresso sociale e l’emancipazione culturale, continuando a dragare quel fossato profondo tra noi e il resto d’Europa; fossato che nonostante gli sforzi non si riesce a colmare.
Diceva Don Milani: «È la lingua che ci fa uguali». Sette parole per dire che non esiste democrazia se non fondata su una cittadinanza culturalmente emancipata, su una coscien-za critica collettiva capace di giudicare e indirizzare le scelte della politica. Per qualcuno è utopia, per altri è sovversione, come un secolo fa, quando Umberto Zanotti Bianco, nella sua appassionata inchiesta intitolata Il martirio della scuola in Calabria, raccontava di maestri trattati come sovversivi, bollati come «socialisti» e maestre marchiate come «puttane» solo perché insegnando a leggere e a scrivere e a pensare con la propria testa portavano disordine in un sistema atavicamente immutabile. Riapriamo La cultura degli italiani (Laterza), un volumetto di Tullio De Mauro che resta la più lucida e impietosa analisi della nostra attuale condizione culturale. De Mauro racconta di un’altra inchiesta condotta in Sicilia nel 1876 dal giovane Sidney Sonnino, futuro primo ministro della destra storica. In merito alle miserevoli condizioni di vita dei contadini del Mezzogiorno, Sonnino ammoniva su quanto fosse pericoloso «insegnar loro unicamente a leggere e a scrivere, perché essi sappiano bene che sono infelici». Miglioriamo pure la loro condizione, ma guai a renderli consapevoli del loro stato, ragionava Sonnino; se lo faremo «avremo seminato vento per raccogliere tempesta», avremo fatto cioè di essi dei potenziali rivoluzionari.
In materia di formazione e di politica culturale è ancora questa la mentalità che ispira l’indirizzo squisitamente reazionario non c’è altra parola dei governi di destra succedutisi in questi ultimi due decenni. Parola chiave è quell’inculcare pronunciata tempo fa dall’attuale nefasto inquilino di Palazzo Chigi: una dichiarazione di guerra a un’educazione indipendente dal potere, che formi una coscienza civile e un pensiero critico non controllabili.
Purtroppo in questa guerra, l’attuale destra di governo vanta alleati molto più potenti e duraturi di un piccolo quanto devastante despota ormai in vista del capolinea. Berlusconi passerà, ma i templari dell’ignoranza resteranno a guardia di questo paese i cui inestimabili patrimoni d’arte e cultura finiscono in malora davanti agli occhi sbarrati del mondo intero. A meno che..... A meno che gli italiani non facciano una rivoluzione culturale.
Proprio così. Gli ultimi resoconti non ci lasciano scampo. I consumi culturali degli italiani sono drammaticamente sotto la media europea. L’Ocse sentenzia che fra i 34 paesi presi in esame, l’Italia è al penultimo posto nella percentuale di spesa pubblica destinata alla scuola. Rivoluzione culturale fa ridere. Eppure basterebbe che un numero crescente di italiani capisse che, per come stanno le cose, leggere un libro, comprare un giornale, andare al cinema, a teatro, a un concerto, a una mostra, a una conferenza, sono gesti che rivestono un grande significato politico. Ma se siamo così poveri, si dirà. Poverì sì, eppure per abbigliamento, cosmetici o generi di lusso spendiamo molto di più dei nostri concittadini europei. Bisognerebbe iniziare a fare scelte diverse; soprattutto insegnare a fare scelte diverse: una griffe in meno e un libro in più, un cellulare in meno e una sera a teatro in più. Far capire che l’uscire di casa, entrare in una libreria o in un cinema sono comportamenti che oggi acquistano un valore civile tutto particolare. Significano ribellarsi a quel trincerarsi in casa nella rassicurante narcosi televisiva; disobbedire ai vari «ministri della paura» che continuano a ripeterci che fuori per strada c’è l’inferno, la giungla dei clandestini che ti violentano e ti derubano. Diventare meno buzzurri e più europei, questo ci serve. Non possono farlo i politici, possono e devono farlo i cittadini, la società civile e la scuola, la grande nemica di chi ci «governa». È un obiettivo per raggiungere il quale occorreranno generazioni. Però: se non ora quando? Se quei milioni che oggi firmano e poi votano i referendum, iniziassero a spegnere la tv, a bloccare la diossina mediatica che inquina cosìgravemente la nostra esistenza...È una vecchia idea, eppure è una delle poche armi che restano a questa nostra democrazia rantolante.

il Fatto 6.10.11
L’altra metà del male
Dietro un grande massacratore c’è (spesso) una massacratrice: storie delle mogli dei dittatori
di Giampiero Gramaglia


Ritratti di donne al fianco dei peggiori dittatori del XX secolo: alcune ‘anime nere’ del loro uomo, pervase come lui dal demone del potere e istigatrici di violenze e ingiustizie; altre assoggettate dal suo magnetismo, capaci di essergli accanto anche nei finali tragici; altre ancora semplicemente innamorate, spose, amanti, compagne, talora ammiratrici, talora ispiratrici. Il tema del rapporto tra gli uomini di potere e le loro donne (e, viceversa, tra le donne e il potere) non è originale: persino un campione dello stereotipo come Bruno Vespa l’ha recentemente affrontato, ovviamente da un punto di partenza attuale, italiano, berlusconiano, Silvio e Veronica, nel suo libro Donne di Cuori. La giovane giornalista, storica, filosofa francese Diane Ducret, all’esordio come autrice di un volume, concentra il suo sguardo su alcuni satana del secolo scorso, che tanti ne ha conosciuti. L’ordine non è né alfabetico né cronologico, né ideologico né geografico; anzi, pare proprio un disordine: Benito Mussolini, Lenin, Stalin, Antonio Salazar, l’imperatore Bokassa, Mao Tse-Tung, Nicolae Ceausescu, Adolf Hitler. I capitoli su Mussolini e Hitler sono i più lunghi, con titoli che sono giochi di parole un po’ azzardati (la duce vita, oppure un Führer chiamato desiderio).
 Il libro, edito ora in Italia da Garzanti con il titolo Le donne dei dittatori (405 pagg, 22,60 euro), va al di là dell’ammiccante fascetta “il rapporto segreto tra sesso e potere”, perché non di solo sesso si tratta, anche se spesso, e anzi quasi sempre, il sesso c’entra e parecchio. La Ducret ha conquistato e tenuto per mesi, la vetta della classifica dei saggi più venduti in Francia un po’ perché il suo lavoro “si legge come un romanzo” – il complimento è di Daringtodo, un quotidiano online di arte, informazione culturale e spettacolo – e soprattutto perché quei personaggi continuano a esercitare un fascino malsano sul grande pubblico del XXI secolo.
 Prima che una scrittrice, la Ducret, che ha studiato storia e filosofia all’Ecole Normale Supérieure, è una ricercatrice e autrice di programmi televisivi per History Channel e per altre reti televisive francesi. L’introduzione del libro presenta e commenta una sequela di lettere d’amore ai due dittatori feticcio delle tenebre europee fra le due guerre, il Führer e il Duce: un fenomeno di adorazione e di soggezione che le cronache perpetuano nelle lettere d’amore che ricevono in carcere serial killer e criminali autori delle peggiori violenze, anche e specie sulle donne.
 La stampa francese è stata prodiga di elogi per la Ducret, il cui libro è stato giudicato dall’edizione transalpina di Grazia “abbastanza scandaloso da farci molto divertire e abbastanza serio per non farci sentire in colpa” divertendoci, o almeno non rivoltandoci, di fronte ad alcuni episodi raccontati. E se L’Express esalta “i brillanti ritratti delle compagne di strada dei megalomani del XX secolo”, Le Point osserva che “il potere seduce, ma fa impazzire” (chi lo esercita e chi gli sta accanto). Una morale non c’è: il detto ‘dimmi che donna hai e ti dirò che dittatore sei’ non vale. C’è la moglie che fa politica come Jang Qing e quella che se ne disinteressa come Claretta, c’è chi induce alla moderazione e chi alla crudeltà. Certo, il libro non approfondisce tutte le donne dei dittatori raccontati, che più di una ne hanno avute, ma ne sceglie una per ciascuno: Claretta, Nadia, Mira, Felismina, Catherine, Jang Qing, Elena, Magda (che non di Hitler era la moglie, ma di Goebbels): “Si sono innamorate di un uomo crudele, violento e tirannico, l'hanno convinto che era bello, affascinante, onnipotente. A volte l'hanno dominato, a volte sono state tradite e ingannate. Alcune di loro sono state quasi più feroci del loro compagno. Spesso l'hanno seguito fino alla morte. Hanno tutte contribuito a plasmare le personalità più potenti e terribili del XX secolo”.
 La Ducret ricostruisce gli incontri , le strategie di seduzione, gli amori e successivamente il peso e l’influenza sulle politiche e sulle scelte e il destino delle donne che hanno intrecciato le loro vite con quelle di potenti crudeli, dal momento in cui sono entrate nel loro letto fino a quando – è il caso di Claretta, Elena e anche di Magda Goebbels come di Eva Braun – lo hanno accompagnato nel momento supremo.
 Il libro, ne dice l’editore italiano, “esplora i meccanismi più profondi e segreti del rapporto che lega sesso e potere. E, raccontandoci la storia da un’angolatura inedita, ci aiuta a capire l'attualità”. Uno degli ingredienti fondamentali del successo politico dei grandi leader, che non sempre sono dittatori, è proprio il fascino esercitato sulle donne. Hitler l’aveva capito: “L'importante è conquistare le donne, il resto arriva dopo” (e, spesso, è più facile).

La Stampa 6.10.11
Non voglio morire cinese
di Antonio Scurati


L’avvento di una ipotetica sovranità politico-finanziaria cinese sulle nostre terre precipiterebbe il declino della civiltà europea per come l'abbiamo conosciuta, sognata e amata.
Non so voi ma io non avrei nessuna voglia di morire cinese. E, per come si mettono le cose, a questo punto la probabilità è piuttosto alta.
Giusto a metà settembre, proprio mentre tutto cominciava a precipitare verso il disastro nelle regioni meridionali d’Europa, nel corso dell’annuale convegno del World Economic Forum che dal 2007 si svolge - guarda caso - in Cina (quest’anno intitolato «New Champions 2011»!) il premier Wen Jabao annunciava che la Cina avrebbe continuato ad aumentare i propri investimenti nel «vecchio» continente. Con tempismo sinistro, nei giorni precedenti erano circolate voci insistenti sulle intenzioni di acquisto massiccio da parte cinese di buoni del Tesoro italiano, avvalorate dal viaggio a Roma del presidente della China Investment Corp, uno dei più ricchi fondi d’investimento del mondo, venuto in riva al Tevere per valutare significativi investimenti in società strategiche del nostro Paese. Da allora non passa giorno senza che tutti noi ci si chieda se i cinesi ci stiano salvando o invadendo.
Nel mio caso la domanda si fa piuttosto inquietante avendo io dato alle stampe un romanzo - La seconda mezzanotte , pubblicato per decreto del fato proprio il 14 settembre mentre le agenzie di stampa battevano la notizia degli annunci di Wen Jabao - in cui si prevede che nel 2092 l’Italia diverrà un Paese satellite della Cina dopo averle ceduto il suo intero debito estero e Venezia, acquistata da una azienda transnazionale di Pechino a seguito di una terribile alluvione, verrà rifondata come Zona Politicamente Autonoma e consegnata a un destino di parco giochi per il lusso e i vizi sfrenati dei nuovi ricchi orientali. Nel mio caso, dunque, a domanda inquietante si dà risposta inquietante. Lo dico quasi con una punta di dispetto (oltre che di sconforto): se cominciare a scrivere tre anni fa un romanzo apocalittico sul futuro dell’Italia (e di tutta l’Europa mediterranea) significava essere sfrenatamente visionari, pubblicarlo oggi significa essere banalmente realisti. Sì, perché tre anni or sono, è bene non dimenticarlo, l’Italia si riconsegnava, con una maggioranza parlamentare senza precedenti, all’uomo che da trent’anni aveva fatto del falso ottimismo forzoso la lugubrebandiera della nostra autentica decadenza.
Catastrofismi letterari a parte, a me pare, però, del tutto evidente che l’avvento di una ipotetica sovranità politico-finanziaria cinese sulle nostre antiche terre precipiterebbe il declino della civiltà europea per come l’abbiamo conosciuta, sognata e amata (magari anche solo idealmente). Temo che rappresenti una grave minaccia per i fondamenti culturali della civilizzazione occidentale europea moderna: sovranità politica del popolo, libertà di pensiero e d’espressione, diritti dei lavoratori e del cittadino, autonomia dell’individuo, solidarietà tra gli individui riuniti in società, valore della persona, sicurezza alimentare, sacralità della vita. Lo temo non solo perché ho ancora negli occhi quel ragazzo che in piazza Tienanmen affrontò un tank armato solo di due flosci sacchetti della spesa (il ragazzo era anche lui cinese, non va dimenticato), o perché preveda un conflitto di civiltà tra Europa e Cina ma perché mi spaventa la deriva di un capitalismo finanziario, di cui i fondi sovrani cinesi rappresentano oggi una punta avanzata, un uso del capitale nato per finanziare il lavoro e l’impresa ma finito con l’affossarla. Se in un futuro prossimo la politica non dovesse riuscire a ripercorrere all’indietro il cammino che l’ha condotta dalla sovranità all’oscenità, il rischio è davvero che in un futuro nemmeno tanto remoto si scateni un gigantesco conflitto di interessi tra gli interessi speculativi della finanza apolide - e qui che sia cinese, americana o nostrana poco importa - e i bisogni, le legittime aspettative, le speranze di noi tutti.

Repubblica 6.10.11
Se l'iPad ti prende l'anima l’ultimo libro di Ferraris
Se la nostra coscienza diventa un software
di Valerio Magrelli


Il nuovo libro di Maurizio Ferraris indaga il rapporto con l´oggetto hi-tech che oggi raffigura meglio di tutti il connubio tra mente e materia
Non c´è stata la scomparsa, ma, al contrario una proliferazione della scrittura
Non è affatto ovvio che Internet renda stupidi, quel che è certo è che può rendere schiavi

Questo di Maurizio Ferraris è un libro inevitabile, come il tracciato di certe rotte di collisione sulla carta nautica. Anima e iPad. E se l´automa fosse lo specchio dell´anima? (Guanda, pagg. 185, euro 16,50) rappresenta infatti la logica conclusione di un percorso ormai ventennale. Dopo aver esaminato, sulla scia di Derrida, il fenomeno dell´interpretazione (Storia dell´ermeneutica, 1988), della tecnologia (Dove sei? Ontologia del telefonino, 2005) e dell´iscrizione (Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, 2009), era giocoforza che le ricerche dello studioso convergessero verso l´iPad, l´oggetto che oggi meglio raffigura il connubio fra fisico e mentale. Tutto comincia dalla constatazione che l´evoluzione tecnologica non ha portato al trionfo dell´oralità e alla scomparsa della scrittura, ma, al contrario, a una proliferazione di quest´ultima. Prova ne sia che i telefonini, dopo essersi rimpiccioliti, si sono ingranditi di nuovo fino all´iPad, per avere uno schermo e una tastiera (dunque per poter scrivere, non per poter parlare); sono cioè diventati biblioteche, discoteche, cineteche e pinacoteche. Né è un caso che il traffico di sms abbia superato quello vocale. Dunque, nel suo profondo, la società della comunicazione pare piuttosto una società della registrazione, in cui tutto deve lasciare una traccia ed essere archiviato, col malizioso corollario per cui «la pentecoste è un fenomeno postale: non è la calata dello spirito, è la propagazione della lettera».
Eppure, se senza la tabula (vale a dire quel sistema d´iscrizioni e trascrizioni che forma la cultura) non c´è spirito, pensiero o mente, allora il passo successivo vedrà un progressivo avvicinamento fra anima e automa (il solito iPad). Con un affondo improvviso, Ferraris ci ricorda che non c´è niente di più umano della tecnica (e niente di meno umano di un uomo privo di tecnica), mentre al contempo ci svela una triste sorpresa: chi si aspettava da lei una qualche forma di emancipazione, dovrà ricredersi, constatando, al contrario, come essa si sia trasformata in un nuovo veicolo di sfruttamento. Essere sempre connessi, infatti, implica essere sempre disponibili al lavoro, «come pompieri in caserma». Ma c´è di peggio, in quanto nel nostro mondo vige ormai una registrazione totale. Basti pensare alla nozione di tracciabilità, che garantisce sia la provenienza di un prodotto, sia il controllo degli utenti telefonici e telematici (con buona pace dei criminali intercettati). Morale: non è affatto ovvio che Internet renda stupidi. Quel che è certo è che può rendere schiavi, secondo le abbaglianti premonizioni di Schmitt, Jünger e Foucault.
D´altronde, se l´addetto al call center può essere trasformato in macchina, è perché ogni uomo nasconde una essenza di macchina. Definendo la coscienza un "effetto collaterale", Ferraris cancella via via le differenze fra anima e automa, come nella depressione (che rende sensibili alla ripetizione facendo emergere l´automa che noi siamo) o nella vita quotidiana (che nella maggior parte del tempo trascorriamo a non pensare). Così giungiamo al punto, ovvero al dubbio che noi stessi possiamo essere automi: «Siamo automi spirituali ma liberi, cioè talmente complicati da non sapere di esserlo»…
Esposto in maniera limpida, serrata e brillante, il testo consta di due parti, ovviamente legate a doppio filo: da un lato l´ampia trattazione vera e propria, dall´altro una circoscritta ma puntuale confutazione delle tesi sostenute dal grande filosofo americano John Searle. Mettiamo tra parentesi la seconda sezione, più complessa e specifica, per osservare come Ferraris miri a superare il dualismo cartesiano fra anima e corpo, spirito e materia, o meglio, per usare un´altra contrapposizione, fra lettera e spirito. Lo scopo? Riabilitare la prima (poiché, come ci spiega con un gioco di parole, «la lettera gode di una cattiva stampa»), e riconoscere il ruolo della materia nella costituzione dello spirito. Ciò significa appunto mostrare l´analogia fra anima e iPad, ossia «dimostrare che la nostra mente è un apparato scrittorio». La lettera, pertanto, non va intesa alla stregua di un accessorio inerte, ma come «la condizione di possibilità dello spirito». Altrimenti detto, materia e forma sono inseparabili, malgrado chi si ostina a immaginare un omino (l´Homunculus) nascosto nel cervello per guidare i nostri atti corporei.
Anche nel chiuso della nostra anima, prosegue l´autore, c´è qualcosa come un documento, una iscrizione, una tabula su cui si forma ciò che chiamiamo idee, intenzioni, coscienza. Da qui una serie di note sull´essenza della tecnica, individuata nella registrazione, ossia nella memoria, la quale non è solo la madre delle Muse (come dicevano i greci), ma del pensiero in generale. Senza registrazione non c´è tecnica, né tantomeno quella "tecnica delle tecniche" che è la scrittura. La memoria, perciò, non è qualcosa che si aggiunge a una psiche già formata, bensì «costituisce la stoffa di cui è fatta la nostra anima». Peccato non poter raccontare le ultime pagine, dove si dispiega un´autentica fantasmagoria, fra tombe e bare a forma di telefonino, spettri telematici, mummie e resurrezioni. Questo corredo funebre non è una bizzarria, ma funge da reperto per comprovare come «la struttura testamentaria sembri costituire l´essenza del web». Il tono spesso ironico non nasconde la gravità di tali implicazioni, come quando Ferraris parafrasa il Vangelo. Protendendo un iPad, per esempio, potremmo dire: «Prendete, questo è il mio corpus» (ovvero l´insieme di tutte le iscrizioni). Se questo è vero, tanto vale arrendersi, e infine riconoscere, negli ultimi modelli della Apple, le nostre nuove Tablet della Legge.

il Riformista 6.10.11
Alla ricerca di una fede perplessa
Il Vangelo di Gesù secondo Mancuso
di Corrado Ocone

qui