martedì 11 ottobre 2011

Repubblica 11.10.11
Se il potere esige la privacy
di Carlo Galli


LA MAGGIOR parte dei goffi tentativi di rendere accettabile l'inaccettabile legge-bavaglio si fonda sull'argomento liberale della privacy, cioè della tutela della vita privata del cittadino. Ma si tratta di una mistificazione. Lo dimostra un'analisi non ideologica. Lo dimostra una valutazione non dogmatica ma storica e politica del liberalismo. È una mistificazione che nasce dall'identificazione di Berlusconi con "il cittadino", ovvero dall'omissione, voluta e consapevole, dell'elemento del potere, dei rapporti di potere; omissione che è appunto l'essenza dell'ideologia. La privacy - insieme all'habeas corpus di cui è una conseguenza - è stata infatti progressivamente elaborata, in età moderna, per affermare l'autonomia e l'autocontrollo del cittadino, il suo dominio su se stesso, per consentirgli, insomma, di difendersi dal potere; per istituire uno spazio fortificato, e ben presidiato dalla legge, che custodisce la prima libertà moderna: la vita del singolo. Ma questa affermazione di libertà si inserisce in una lotta fra popolo e governi assoluti, e non si esaurisce in se stessa; fa parte di una più ampia rivendicazione di trasparenza e di pubblicità del potere, delle sue origini e dei suoi modi d'esercizio, che dal liberalismo storico si è diffusa fino alla contemporanea civiltà democratica, divenendo patrimonio di costumi e di costituzioni.
L'opacità difensiva che riveste la sfera privata del singolo individuo ha infatti il proprio pendant nella lotta dei cittadini contro il segreto, contro l'opacità della politica assolutistica, contro gli arcana imperii. Il liberalismo non consiste solo nel fare i propri comodi, nel vivere nascosti, come sembrano ritenere parecchi di coloro che affollano l'improvvisata platea dei liberali italiani: è anche iscrivere la vita politica di tutti nel paradigma della pubblicità. Ossia dell'opinione pubblica, e delle pubbliche istituzioni. E la pubblicità implica non solo la strenua difesa della prima e più elementare forma di trasparenza, cioè della legalità - tema liberale anch'esso, non "giacobino" né "comunista" - e l'esercizio della critica; che per avere senso deve essere informata.
Di qui il ruolo decisivo, in un contesto liberale, della libera stampa, che fornisca al pubblico le notizie sul potere, delle quali i cittadini hanno bisogno per poterlo criticare e giudicare, approvare o disapprovare. E quindi per tentare - esercizio sempre più difficile - di essere liberi. Eludere la dialettica fra il potere e i cittadini, uniformarli entrambi in uno spazio politico omogeneo e informe costituito da monadi tutte ugualmente chiuse in se stesse, opache a ogni valutazione, non è liberalismo; è appunto una mistificazione. È infatti evidente che ciò che non fa notizia nel caso di un privato cittadino - le sue conversazioni, o il fatto che porti i calzini viola (come invece fu amabilmente fatto rilevare da una persecutoria trasmissione televisiva a proposito di un giudice sgradito al potere) - può farlo se il soggetto che agisce è uno degli uomini più importanti d'Italia, la principale carica politica del governo. Le cui azioni e frequentazioni, i cui stili di vita pubblica e privata - soprattutto quando pubblicoe privato, spassi sessuali e appalti, si intrecciano l'un l'altro inestricabilmente - , hanno rilievo pubblico perché rientrano nella sfera del potere; che in una società liberale, in una cultura politica liberale, è sempre tenuto a un tasso di virtuosità e di trasparenza superiore a quelli dei cittadini. O, se si vuole è sempre sorvegliato speciale; così che tutto ciò che lo riguarda fa notizia: la pera di Ein a u d i c o m e l e escort di Berlusconi. Se, come nel caso che il nostro Paese per l'ennesima volta si appresta ad affrontare, il potere si difende sprofondandosi nell'opacità, nella riservatezza, nel bunker della privacy, benché si collochi sullo stesso piano dei cittadini fa in realtà un'operazione assolutamente contraria, nella sostanza, all'uguaglianza; fa un'operazione da ancien régime, aggiornata nella forma in omaggio ai tempi nuovi - non moderni ma postmoderni - . Infatti, l'insindacabilità della vita privata del premier implica di fatto l'insindacabilità del suo agire pubblico, che privato dello sfondo su cui si staglia resta anch'esso opaco, incomprensibile. Un premier che vuole presentarsi ai cittadini come crede meglio, mettendo in scena se stesso con tutti gli artifici e gli accorgimenti del caso, per nascondere i retroscena, non è il premier di un Paese libero, o liberale; è una nuova edizione dell'autorappresentazione barocca del potere. Incarna la vecchia pretesa al monopolio dello sguardo, dell'interpretazione, della decifrazione della politica. È un potere estraneo alla pubblicità e alle sue logiche politiche, che di volta in volta vuole lo status di 'difeso speciale' dalla magistratura e quello di 'semplice cittadino' uguale a tutti gli altri. È, in una parola, un potere arbitrario, un'autocrazia che, classicamente, esercita una vera e propria censura, ammantandosi di malintesa liberaldemocrazia garantista.
La legge-bavaglio, proprio perché è un dramma per la magistratura e per la libera stampa, colpendo la legalità e la libertà d'informazione, è quindi un dramma per l'insieme delle civili libertà, per ciò che ne resta. Un dramma che, come spesso accade, stravolge concetti, li imbastardisce, e priva i cittadini di ogni difesa - logica, intellettuale, prima che politica - davanti alle vecchie e nuove forme del sopruso. Che tale resta, anche se passa attraverso il lavacro formale della legge.

Repubblica 11.10.11
Editori in rivolta: no alla legge bavaglio
"Libera informazione a rischio". Il direttore di Einaudi firma a titolo personale
di Maurizio Bono


MILANO - Come un anno e mezzo fa, maggio del 2010 al Salone di Torino, ma con ancora più forza di allora, e su una ribalta internazionale, la Fiera del libro di Francoforte che apre domani i battenti, dove la protesta degli editori contro la "legge bavaglio" del governo Berlusconi detona come una clamorosa difesa di diritti e principi di libertà minacciati. L'appello, come la prima volta, parte nella mattinata di ieri dai vertici di quattro case editrici di cultura, Marco Cassini e Daniele di Gennaro di Minimum fax, Giuseppe e Alessandro Laterza della storica casa editrice che fu di Benedetto Croce, Stefano Mauri e Luigi Spagnol del Gruppo Editoriale Mauri Spagnol. Il testo vede nella «legge che vieta la pubblicazione delle intercettazioni disposte dai magistrati» uno dei «tentativi di restringere in maniera drastica il diritto di informazione dei cittadini», ricorda che «i provvedimenti proposti in Italia dall'attuale maggioranza sulle intercettazioni hanno sollevato forti perplessità perfino da parte di qualificati rappresentanti di istituzioni quali l'Osce, l'Onu e l'Unione Europea», e chiede «alla vigilia della Fiera internazionale del libro, dove potremo condividere la nostra preoccupazione con i colleghi editori di tutto il mondo, al Governo e al Parlamento di recedere da questo nuovo tentativo di bloccare la diffusione di conoscenze rilevanti e significative sugli atti processuali».
L'invito è «ai colleghi editori e agli amici librai per la firma di questo appello» entro mercoledì, quando la Fiera di Francoforte entrerà nel vivo e tra i primi convegni importanti si terrà quello dell'Aie dedicato all'editoria italiana. Ma già ieri in giornata la pagina della protesta fa il giro del mondo dei libri. Aderiscono Feltrinelli, Giunti, Fazi, Newton Compton, Dalai. È «inequivocabilmente orientato a firmare», dicono in via Mecenate, il gruppo Rcs, che aspetta solo di formalizzare la decisione dei vertici (nel 2010 firmò per il gruppo Paolo Mieli, ora all'estero). L'Aie fa sapere che contro la "legge bavaglio" sarà una parte della relazione del presidente.
Ma questa volta firma "a titolo personale" anche Ernesto Franco, direttore editoriale dell'Einaudi. Mentre ufficialmente la casa editrice di Torino "comunicherà mercoledì le sue decisioni" e anche Mondadori aspetta la scadenza per dire la sua. Due anni fa la mobilitazione era già riuscita a rispedire momentaneamente nel limbo delle leggi ritirate il "decreto anti-intercettazioni", ma aveva spaccato l'editoria italiana in due: da una parte 188 firmatari dell'appello, dall'altra la Mondadori di proprietà del presidente del consiglio e la sua controllata Einaudi inchiodate in difesa, con l'argomento che la protesta nascondeva «una operazione di marketing» dei concorrenti. Da allora la Mondadori, dove si era già consumato lo scontro tra la sua presidente Marina Berlusconi e Saviano, è stata al centro di nuove polemiche per le difese del premier da parte della figlia contro la magistratura, per il licenziamento dell'editor della saggistica Andrea Cane e l'assunzione come consulente di Sandro Bondi, ma anche per la perdita di autori importanti (dopo Vito Mancuso e Saviano, Vittorio Zucconi e Corrado Augias).
Molti autori Einaudi, da Gustavo Zagrebelsky a Marco Revelli, contro la legge bavaglio hanno già firmato l'appello.

Corriere della Sera 11.10.11
Quella scure sugli editori (di libri)
di Caterina Malavenda


Ora che la maggioranza parlamentare sembra intenzionata a discutere persino con l'opposizione la modifica delle norme che hanno suscitato le polemiche più aspre, risolti forse con un emendamento i problemi dei blog, sono gli editori dei libri a rischiare di rimanere con il cerino in mano.
Già gravati, al pari di quelli che pubblicano anche o solo giornali, degli oneri che derivano dalla responsabilità amministrativa, nel caso in cui un autore pubblichi intercettazioni illegali o irrilevanti, saranno anche le sole vittime della «nuova» rettifica.
Nel silenzio quasi assoluto di chi ha protestato fino allo sfinimento contro l'udienza filtro, infatti, l'art. 29 del disegno di legge, sottoposto all'approvazione della Camera, concede a chiunque si sia visto attribuire in un libro, immagini, atti, pensieri o affermazioni diffamatori o contrari a verità il diritto di indicare non più di due quotidiani nazionali, sui quali l'editore dovrà far pubblicare, a sue spese, un testo di rettifica senza replica dell'autore.
La rettifica è un istituto antico, saggiamente introdotto nel 1948 nella legge sulla stampa dall'Assemblea costituente, con il chiaro obiettivo di dar voce a quanti, diffamati sui giornali, volessero replicare, raccontando la propria verità.
A tale scopo si ritenne di riservar loro uno spazio qualificato — medesima pagina e uguale evidenza — sullo stesso periodico che aveva divulgato notizie false, per consentire — confidando sulla fedeltà dell'utente — a chi le avesse lette di essere informato della posizione dell'interessato, senza ulteriori spese per l'editore, proprietario di quello spazio. Per l'impossibilità pratica di ottenere il medesimo risultato con i libri, i lungimiranti componenti dell'Assemblea non ritennero che l'istituto potesse riguardarli.
Ora, invece, con scelta improvvida ed assai costosa, si pretende di estendere il diritto di rettifica anche al loro contenuto, ponendo a carico degli editori l'obbligo di acquistare gli spazi necessari per la diffusione delle rettifiche, come detto pubblicandole senza replica.
Basta ricordare quel detenuto che inviò una rettifica da San Vittore, sostenendo di non essere mai stato arrestato, per apprezzare la conseguenza di una tale previsione, la circolazione su quotidiani nazionali di informazioni prive di controllo, provenienti da chi, senza contraddittorio, potrà smentire anche fatti veri.
La soluzione adottata, comunque, non ha alcuna speranza di ottenere il suo scopo: quanti saranno i lettori che hanno letto quel libro e che ricordano la circostanza smentita e che leggono proprio quei quotidiani? Talmente pochi da vanificare lo sforzo economico.
L'insensatezza della previsione è proporzionale ai costi esorbitanti che editori, anche di nicchia, dovrebbero affrontare, specie quando abbiano pubblicato libri su argomenti delicati o inchieste su personaggi potenti. Potrebbero finire sommersi di rettifiche, con costi spesso insostenibili.
La soluzione? Presto detto, passare ad autori che si occupino degli scandali nell'antica Roma o nel Risorgimento. Chi mai potrebbe chiedere una rettifica per conto di Cesare o di Garibaldi?
avvocato penalista
esperto in Diritto dell'informazione 

Repubblica 11.10.11
Hanno già aderito centinaia di cittadini, scrittori e artisti. Daria Colombo: una storia che parte dai girotondi
La campagna dei nastrini arancioni "Un segno per dire basta al governo"
di Annalisa Cruzzocrea


ROMA - Il colore è quello delle vittorie di Milano e Napoli. La rivoluzione ucrainaè lontana, non lo sono i trionfi arancioni di Giuliano Pisapia e Luigi de Magistris.
Su quell'onda, con quell'intento - di politica che si apre alla società, di partiti che si mescolano con associazioni e movimenti nasce un appello insolito: mettere sul bavero della giacca, attaccato al cappotto, annodato alla borsa, o semplicemente come braccialetto, un nastrino arancione. Per dire: «Io desidero che il governo si dimetta», o anche solo: «Non condivido la politica del governo Berlusconi». Un piccolo segno, che hanno già scelto in molti. L'elenco mandato dai promotori - rigorosamente in ordine alfabetico - comincia con Wahid Abdu, gelataio, e si chiude con Silvia Zingone, laureata disoccupata. In mezzo ci sono gli scrittori Barbara Alberti, Massimo Carlotto, Dacia Maraini, Antonio Pennacchi, il premio Nobel Dario Fo insieme a Franca Rame, la grecista Eva Cantarella, l'attrice Giuliana de Sio e la sorella Teresa, Massimo Ghini, Silvio Muccino e Neri Marcorè, per restare al cinema, Paolo Rossi per il teatro, l'astronauta Umberto Guidoni, il filosofo Giulio Giorello, don Gino Rigoldi, e i cantanti Fiorella Mannoia, Daniele Silvestri, Antonello Venditti, Roberto Vecchioni. C'è anche la moglie di Vecchioni, Daria Colombo, scrittrice e già animatrice dei girotondi del 2002. È tra coloro che hanno steso l'appello: «Noi, come semplici cittadini italiani consapevoli e responsabili, siamo convinti, a prescindere dai nostri orientamenti politici, che l'attuale governo non corrisponda più alla maggioranza degli elettori del nostro Paese. Per questo riteniamo che esso debba rimettere quanto prima il suo mandato nelle mani del Presidente della Repubblica».
Per chiederlo, si vuole colorare l'Italia di arancione. «Si è già mosso molto, le contestazioni studentesche, il milione di donne in piazza, le elezioni amministrative,i referendum, gli amici al Teatro Valle, hanno fatto riemergere il fiume carsico del sentimento civile. E tutto è cominciato con i girotondi del 2002», dice Daria Colombo. Che rivendica quell'esperienza come tutt'altro che fallimentare: «È stato il primo movimento, e ha fatto quello che doveva fare: muovere, scuotere, far aprire gli occhi non solo sul berlusconismo al potere, ma su quella che era diventata una mentalità. I girotondi hanno creato quel percorso irreversibile che ha portato alle vittorie di Milano e di Napoli. Pisapia ha fatto una campagna elettorale basata sull'ascolto di tutti, e lo ha trasformato in proposta politica.
Questo è risultato vincente».
Don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria e fondatore della Comunità nuova, un'associazione che aiuta i ragazzi in difficoltà a reinserirsi nella società, spiega di aver aderito appena letto l'appello: «Serve un altro governo, servono competenza, serietà, visione dei bisogni. A parte i comportamenti singoli del nostro premier, tutt'altro che affascinanti, ho l'impressione che ci sia una grande distanza dalle necessità della vita reale. Anche un nastrino arancione può segnalare una voglia di cambiamento, la volontà di chiudere una partita che ci pare decisamente perdente».

Corriere della Sera 11.10.11
Veltroni sfida Bersani: ora governo d'emergenza
«Mai farò qualcosa come quello che ho subito io». Il leader pd: al 2013 non si arriva
di Monica Guerzoni


ROMA — Non farà a Bersani quel che è stato fatto a lui. Non chiuderà il segretario nell'angolo fino a costringerlo alle dimissioni. Non si metterà alla testa di una corrente che logori la leadership: «Non mi piacciono, non ne sarei capace». Ma Walter Veltroni è in campo e, chiudendo l'assemblea di MoDem, detta la linea a Bersani. No al voto anticipato, sì a un governo di transizione che salvi il Paese da una crisi di sistema: «Se parliamo di primarie o di elezioni indeboliamo questa possibilità. Dobbiamo concentrare gli sforzi su un governo di emergenza».
La sfida è lanciata, il finale è tutto da scrivere. A sera Massimo D'Alema parlerà di «sostanziale unità», ma nel Pd si respira un'aria densa di sospetti e veleni incrociati. Al raduno veltroniano Dario Franceschini arriva da pontiere e apre a una «coalizione larga, anche con il terzo polo». Ma l'ospite più applaudito è Enrico Letta, accolto come uno di casa per l'assoluta sintonia con le posizioni della minoranza. Il vicesegretario sposa il governo di larghe intese e ammonisce che la caduta di Berlusconi rischia di far crollare anche il Pd, «se non resta unito e se non interpreta il cambiamento».
Tocca a Veltroni, e l'ex segretario ritrova gli accenti programmatici del Lingotto, torna a parlare di «vocazione maggioritaria» e, pur declinando le sue idee all'insegna di un ecumenico «noi», mette a dura prova la tenuta del leader. Promette lealtà: «Mai farò qualcosa che possa configurarsi come quello che io ho subito alla guida del Pd». Però contesta il tempismo del leader e smonta uno dei pilastri simbolici del partito «pesante» di Bersani: «Noi non siamo una ditta, ma una comunità di uomini e donne...». Ricorda che nelle vene dei democratici non scorre solo sangue socialista, invoca una «leadership collettiva», rivendica di aver detto «cose scomode» quanto lungimiranti. E si prende il merito della raccolta referendaria, un milione e mezzo di firme per cambiare la legge elettorale: «Abbiamo fatto bene a combattere e a vincere».
Il problema è cosa fare adesso. Ancora ieri Bersani ha lasciato aperta sia la strada di un nuovo governo che quella delle elezioni «perché al 2013 non ci si arriva». Veltroni invece si candida a guidare i tifosi della svolta parlamentare: «Se diciamo elezioni il Pdl si blinda attorno a Berlusconi. Non vogliamo un governo del ribaltone, ma una fase di decantazione». E anche sulle alleanze sferza Bersani, che a Vasto ha benedetto il «Nuovo Ulivo» con Vendola e Di Pietro. Per Marco Follini è il «modo più sicuro per restituire a Berlusconi gli elettori che se ne stanno andando» e Veltroni contesta la scelta di mettere le alleanze prima dei programmi. Tanto più che l'Ulivo di Vasto «non avrebbe la maggioranza al Senato». È un attacco a tutto campo. Paolo Gentiloni chiede di «cambiare rotta», di smetterla di «oscillare» tra ricette riformiste e «sbandate» passatiste. Beppe Fioroni vuole «cambiare il profilo del partito», però ritiene «folle» il sospetto che la minoranza inciuci per mandare a casa Bersani. Eppure la fibrillazione è forte e Oriano Giovannelli, coordinatore dell'area bersaniana, denuncia «il tentativo di logorare il segretario». Un sospetto che lo stesso Veltroni s'incarica di respingere: «Come non è giusto dire che Bersani e i suoi parlano di elezioni con l'obiettivo di blindare il leader, così è ingiusto dire che noi pensiamo a un governo di transizione per cambiare il leader».

Corriere della Sera 11.10.11
E Renzi lancia  il «Big bang»


ROMA — Tornano i «rottamatori» del Pd e promettono un «Big bang». Matteo Renzi, sindaco di Firenze, lancia la sua nuova convention per il 28, 29 e 30 ottobre alla stazione Leopolda, dove nel 2010 si tenne il primo raduno degli arrabbiatissimi «giovani» del Pd. «Big bang» è il titolo ispirato a Jovanotti, che ben si adatta al teorico del «ricambio totale» della classe dirigente. Cos'ha in mente, il sindaco? Vuole candidarsi alle primarie? Sogna di prendere il posto di Bersani e magari anche di Berlusconi? «Nessuna candidatura», per ora. L'urgenza di Renzi è spazzare via «volgarità e mediocrità» e scrivere l'incipit di «un'altra storia». Sfida il segretario del Pd, ma non solo lui. Nel mirino di Renzi ci sono gli altri trenta-quarantenni del Pd, Civati e la Serracchiani (che il 22 e il 23 ottobre saranno a Bologna) e soprattutto Zingaretti, il presidente della Provincia di Roma che il 16 sarà all'Aquila con Fassina e Orlando.

Repubblica 11.10.11
I sospetti del leader: "Puntano a isolarmi ma nel partito restano una minoranza"
E sul governo di transizione rilancia: "Sono stato io il primo a parlarne, c'è anche la prova filmata del discorso"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Bersani continua a sospettare un uso improprio della bandiera "governo di transizione" da parte di Veltroni. Un modo per schiacciarlo sull'alleanza di Vasto (la foto con lui, Di Pietro e Vendola) e per metterlo ai margini di un ipotetico e remoto esecutivoponte. «Ma il primo a parlarne sono stato io», ricorda ai suoi interlocutori. C'è anche la prova filmata: il discorsoa Montecitorio sul voto di fiducia alla manovra datato 28 luglio 2010, più di un anno fa.
«Il berlusconismo è finito, il Pd è pronto a una fase di transizione», disse quel giorno. E il video corre su Facebook nelle pagine dei fedelissimi bersaniani. Ma il segretario vuole evitare la polemica, anche se ha registrato le punzecchiature dell'assemblea di Movimento democratico. «Non ho alcuna intenzione di polarizzare lo scontro. C'è stata una riunione della minoranza del partito. Hanno partecipato anche Letta e Franceschini ma non mi risulta si siano iscritti a Modem.
E le tesi sostenute in quella sede, esecutivo di transizione a parte, continuano a essere largamente minoritarie nel Pd».
Assemblea più che legittima, ma stavolta Bersani non ne condivide lo spirito. Non a caso ha evitato di farsi vedere, a differenza della convention al Lingotto di Torino dello scorso gennaio dove accettò con calore l'invito e intervenne dal palco. Il movimentismo di Veltroni (venerdì scorso ha tessuto la sua tela incontrando a pranzo il presidente della Camera Gianfranco Fini), le parole di dissenso di Paolo Gentiloni («non è scontato che Bersani sia il nostro leader, neanche se si vota nel 2012) lo hanno ferito. Ha apprezzato invece l'intervento di ieri di Beppe Fioroni che ha chiarito un punto cruciale nella minoranza. «Chi pensa che siamo qui per dire Bersani a casa non ha capito nulla». Modem sulla leadership ha scelto un profilo basso, nessun attacco diretto, nessuna sconfessione.
Eppure il ruolo di Bersani rimane nel mirino di più fronti. Magari contrapposti, divisi, ma lo stesso insistenti. L'annuncio di Matteo Renzi va in questa direzione. «Il big bang del sindaco di Firenze - dice Matteo Orfini, membro della segreteria, alla guida del gruppo di trentaquarantenni anti-rottamatori - è carico di fuffa. La cornice sarà diversa, però la valanga di idee darà sempre la stessa musica, cioè il tentativo di imprimere una svolta neomoderata al Pd».E Veltroni? «Forse non è la linea di Walter ma in alcune settori di Modem la voglia di logorare Bersani esiste. Ma ieri non c'è stato l'affondo. Semmai un'operazione che punta ad allargare la minoranza sulla base di alcune politiche economiche». Il riferimento è a Enrico Letta e alla condivisione della lettera della Bce a Berlusconi. La sfida sulla leadership resta dunque sottotraccia. Ma c'è un nervosismo evidente nel Pd e intorno al segretario. Anche e soprattutto per fattori esterni al dibattito interno. Il 21 ottobre, fra dieci giorni, il Tribunale del Riesame decide sulla richiesta di arresto per Filippo Penati da parte della procura di Monza.
Sarà riuscito a convincere i pm, domenica, della sua buona fede? Quel "verdetto" rischia di far precipitare di nuovo nella bufera il partito e il suo segretario. Perché è vero che Penati è stato sospeso, ma rimane l'ex capo della segreteria di Bersani.
Sulla questione morale la tensione tra le varie anime del Pd continua a essere visibile e scoperta. Tanto per dire ieri su Facebook se le sono date di santa ragione due giovani leve democratiche, il direttore di Youdem, la tv ufficiale, Chiara Geloni, bersaniana e Pina Picierno, vicinissima a Franceschini ed ex leader dei giovani della Margherita. Una lite feroce intorno alla vicenda Penati e all'acquisto dell'autostrada MilanoSerravalle condita da parolacce, accuse di "berlusconismo"e riferimenti (scherzosi ma non troppo) all'assunzione di stupefacenti. Bersani cerca di mantenere la barra dritta. Visti i toni morbidi di Modem sulla sua persona, ha ordinato ai suoi collaboratori di non fare commenti. Da D'Alema ha incassato il riferimento all'intervento alla Camera del 2010: «Il segretario è stato il primo a parlare di transizione. Tutti seguono la sua linea». Ma il governo di emergenza gli appare una chimera difficilissima da raggiungere.
Proprio per questo l'unità oggi è tanto più indispensabile. E a Largo del Nazareno sperano che non arrivino spaccature dai prossime tre week end in cui i giovani del Pd si dividono. Prima la riunione dei 30-40enni guidati da Andrea Orlandoe Orfini all'Aquila (con Zingaretti e Enrico Rossi guest star), poi Civati e la Serracchiani a Bologna e infine la Leopolda 2 di Renzi a Firenze. Ma sul punto Veltroni dà una mano al vertice del Pd piazzando una frase velenosa: «Ben vengano i tre convegni dei giovani anche se alcuni di loro li conosco da trent'anni...».

La Stampa 11.10.11
Stati Uniti. Protesta a Wall street
È caccia al voto degli indignati A favore
I democratici: difendiamoli dagli insulti della destra
di Maurizio Molinari


Protesta coraggiosa I giovani possono guidare la società su un terreno più sano
Un modo costruttivo per avviare il cambiamento che arriva dalla gente comune
Il messaggio che viene rivolto all’establishment è la necessità di un cambiamento

nvidiosi, mafiosi e un danno per l’economia, oppure coraggiosi, altruisti e un modello di impegno da sostenere? L’America politica si divide su «Occupy Wall Street», il gruppo di protesta che dal 17 settembre presidia Zuccotti Park a Downtown Manhattan e ha dato origine a sit-in simili in almeno altre 25 città americane, da Washington a Los Angeles. L’attacco più duro arriva da Herman Cain, l’uomo d’affari afroamericano candidato alla nomination repubblicana, secondo il quale dietro la contestazione anti-ricchi «c’è la gelosia per il successo altrui» da parte di «persone a cui piace fare le vittime per impossessarsi di Cadillac che non hanno».
Eric Cantor, leader dei repubblicani alla Camera, parla di «comportamenti mafiosi da parte di americani che hanno sputato su altri americani». Cain è convinto che «non sia una protesta spontanea» ma «organizzata dai sindacati per distrarre l’attenzione dai danni all’economia causati da Obama». «Protestando contro Wall Street e i banchieri - aggiunge Cain - si comportano da anti-capitalisti». Altri repubblicani sono più prudenti e, come Paul Ryan presidente della commissione Bilancio alla Camera, puntano l’indice verso Obama, accusandolo di «fomentare divisioni dopo aver promesso di unire la società».
Il sindaco Michael Bloomberg, indipendente, sceglie una posizione a metà strada perché, se da un lato parla di «protesta che danneggia l’economia della città che deve molto al Distretto finanziario», dall’altro assicura che «i manifestanti potranno rimanere nel parco a tempo indeterminato a patto che non violino la legge». In realtà «Occupy Wall Street» è cresciuto di dimensioni al punto da stare stretto a Zuccotti Park e per questo domenica ha marciato sul più grande parco di Washington Square, portando con sé un vitello d’oro in cartapesta per evocare la Bibbia nella denuncia dell’«avidità dei banchieri».
A sostenere a chiare lettere tali iniziative è Nancy Pelosi, capo dei democratici alla Camera eletta nella liberal San Francisco. «Mi sento al loro fianco perché la gente è infuriata, non possiamo andare avanti così, bisogna trovare il modo per cambiare davvero l’America» dice l’ex presidente della Camera, secondo cui «la protesta dà voce a un’ampia base di scontento per il sistema finanziario». Robby Mook, direttore della campagna elettorale democratica per il Congresso, ha lanciato una petizione popolare per raccogliere 100 mila firme a favore dei manifestanti «insultati da Cain e Cantor» profilando lo scenario di catapultare Zuccotti Park al centro della battaglia del 2012.
I portavoce della protesta vivono però con un certo disagio il tentativo dei democratici di impossessarsi della loro battaglia mentre Bloomberg lascia intendere che «forse la soluzione arriverà dal clima»: l’inverno è alle porte e le tende di plastica blu potrebbero non resistere a neve, pioggia e ghiaccio.

Repubblica 11.10.11
Il ritorno di Karl Marx nel cuore di Wall Street
Quei ricchi isterici che minacciano i valori americani
di Paul Krugman


NON sappiamo ancora se i manifestanti del movimento Occupy Wall Street imprimeranno una svolta all'America. Di certo, le proteste hanno provocato una reazione incredibilmente isterica da parte di Wall Street, dei super ricchi in generale.
Edi quei politici ed esperti che servono fedelmente gli interessi di quell'un per cento più facoltoso. Questa reazione ci dice qualcosa di importante,e cioè che gli estremisti che minacciano i valori americani sono quelli che Franklin Delano Roosevelt definiva i monarchici economici ("economic royalists") non la gente che si accampaa Zuccotti Park. Si consideri, innanzi tutto, come i politici repubblicani abbiano raffigurato queste piccole, anche se crescenti dimostrazioni, che hanno comportato qualche scontro con la polizia - scontri dovuti, pare, a reazioni esagerate della polizia stessa - ma nulla che si possa definire una sommossa.
Non c'è stato nulla, finora, di paragonabile al comportamento delle folle raccolte dal Tea Party nell'estate del 2009.
Ciò nonostante, Eric Cantor, leader della maggioranza alla Camera, ha denunciato degli «assalti» e «la contrapposizione di americani contro americani». Sono intervenuti nel dibattito anche i candidati alla presidenza del partito repubblicano, il cosiddetto Grand Old Party, con Mitt Romney che accusa i manifestanti di dichiarare una «guerra di classe», mentre Herman Cain li definisce «antiamericani». Il mio preferito, comunque, è il senatore Rand Paul che, per qualche motivo, teme che i manifestanti cominceranno a impossessarsi degli iPads, perché credono che i ricchi non se li meritino.
Michael Bloomberg, sindaco di New York e gigante della finanza a pieno titolo, è stato un po' più moderato. Pur accusando anche lui i manifestanti di voler «portar via il posto a chi lavora in questa città», una dichiarazione che non ha nulla a che vedere con i reali obiettivi del movimento. E se vi è capitato di sentire i mezzibusti della CNBC, gli avrete sentito dire che i manifestanti si sono «scatenati» e che sono «allineati con Lenin».
Per capire tutto questo, bisogna rendersi conto che fa parte di una sindrome più ampia, nella quale gli americani ricchi, che beneficiano ampiamente di un sistema truccato a loro favore, reagiscono in modo isterico contro chiunque metta in evidenza quanto sia truccato questo sistema.
L'anno scorso, probabilmente lo ricorderete, alcuni baroni della finanza si infuriarono per alcune critiche molto miti fatte dal presidente Obama. Accusarono Obama di essere quasi un socialista perché appoggiava la cosiddetta legge Volcker, che voleva semplicemente impedire alle banche sostenute da garanzie federali di intraprendere speculazioni rischiose. E riguardo alla proposta di metter fine a una scappatoia che permette a molti di loro di pagare delle tasse bassissime, Stephen Schwarzman, presidente del Gruppo Blackstone, ha reagito paragonandola all'invasione nazista della Polonia.
Poi c'è la campagna diffamatoria contro Elizabeth Warren, una riformatrice del sistema finanziario che si candida al senato per il Massachusetts. Recentemente, un suo video su YouTube, in cui spiegava in molto eloquente e comprensibile a tutti perché si debbano tassare i ricchi, ha fatto il giro del web. Non diceva nulla di radicale: era solo una moderna versione della famosa definizione di Oliver Wendell Holmes, secondo la quale «le tasse sono ciò che paghiamo per vivere in una società civile».
Ma se dessimo ascolto ai paladini della ricchezza, dovremmo pensare che la Warren sia la reincarnazione di Lev Trotsky. George Will ha dichiarato che ha un «programma collettivista» e che crede che «l'individualismo sia una chimera». Rush Limbaugh l'ha definita, invece, «un parassita che odia il proprio ospite e che vuole distruggerlo mentre gli succhia il sangue».
Ma che sta succedendo? La risposta, di sicuro, è che i Masters of the Universe di Wall Street capiscono, nel profondo del loro cuore, quanto sia moralmente indifendibile la loro posizione. Non sono John Galt; non sono nemmeno Steve Jobs. Sono gente che è diventata ricca trafficando con complessi schemi finanziari che, lungi dal portare evidenti benefici economici agli americani, hanno contribuito a gettarci in una crisi i cui contraccolpi continuano a devastare la vita di decine di milioni di loro concittadini.
Non hanno ancora pagato nulla. Le loro istituzioni sono state salvate dalla bancarotta dai contribuenti, con poche conseguenze per loro. Continuano a beneficiare di garanzie federali esplicite ed implicite - fondamentalmente, siamo ancora in una partita in cui loro fanno testa e vincono, mentre i contribuenti fanno croce e perdono. E beneficiano anche di scappatoie fiscali grazie alle quali, spesso, gente che ha redditi multimilionari paga meno tasse delle famiglie della classe media.
Questo trattamento speciale non sopporta un'analisi approfondita e, perciò, secondo loro, non ci deve essere nessuna analisi approfondita. Chiunque metta in evidenza ciò che è ovvio, per quanto possa farlo in modo calmo e moderato, deve essere demonizzato e cacciato via. Infatti, più una critica è ragionevole e moderata, più chi la porta dovrà essere immediatamente demonizzato, come dimostra il disperato tentativo di infangare Elizabeth Warren.
Chi sono, dunque, gli antiamericani? Non i manifestanti, che cercano semplicemente di far sentire la propria voce. No, i veri estremisti, qui, sono gli oligarchi americani, che vogliono soffocare qualsiasi critica sulle fonti della loro ricchezza.
© 2011 New York Times News Service. Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 11.10.11
E gli Usa rinnegano il mito del capitale
di Federico Rampini


Il movimento anti-Wall Street che da giorni scende in piazza ha scelto il proprio "guru". E, a sorpresa, ha rispolverato Marx e le sue teorie. Nella nazione in cui parlare male dei miliardari era diventato un tabù, sembra l'inizio di una svolta rispetto agli ultimi 30 anni segnati dall'egemonia culturale dell'edonismo reaganiano

NEW YORK C'è un nuovo guru i cui testi sono diventati un'ispirazione per Wall Street: è un tedesco barbuto, si chiama Karl Marx. A riscoprire l'autore del "Capitale" e del "Manifesto del partito comunista" non sono soloi giovani che da tre settimane protestano contro i soprusi dei banchieri. Il movimento "Occupy Wall Street" è arrivato secondo in questa riscoperta. Il revival di Marx era già iniziato altrove: ai piani alti di quegli stessi grattacieli di Downtown Manhattan, contro cui i manifestanti gridano i loro slogan. Michael Cembalest, capo della strategia d'investimento per la JP Morgan Chase, in una lettera riservata ai clienti Vip della sua banca scrive che «i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari».
(segue dalla copertina) Cembalest riecheggia ampiamente l'analisi di Marx sulle crisi di sovrapproduzione, provocate da un capitalismo che comprime il potere d'acquisto dei lavoratori. Sottolinea che a fronte dei profitti-record c'è «un livello salariale sceso ai minimi da 50 anni, sia se lo si misura in percentuale del fatturato delle imprese, sia in proporzione al Pil americano». Tre suoi colleghi di Citigroup, altro colosso bancario di Wall Street, nei loro studi per i clienti descrivono gli Stati Uniti come una «plutonomia, dominata da una ristretta élite del denaro».
La rivista The New Republic parla di "bolscevismo alla Brooks Brothers": è la riscoperta delle teorie classiche del padre del comunismo da parte di chi indossa le celebri camice che sono uno status-symbol della élite di Manhattan. La rivista economico-finanziaria Bloomberg Businessweek intitola un reportage "Marx to Market, come la crisi ha reso le sue teorie rilevanti". Cita un altro esperto di una grande banca, George Magnus della Ubs, secondo il quale l'attuale livello di disoccupazione può essere descritto come «l'esercito industriale di riserva» di Marx: un'arma in mano ai capitalisti per ricattare chi ha lavoroe comprimerei livelli retributivi. Il capitalismo - sostiene Bloomberg Businessweek - ha cercato di ovviare alla depressione dei consumi con la finanza creativa e cioè offrendo all'esercito dei nuovi poveri un credito a buon mercato: ma lo scoppio della bolla dei mutui subprime ha interrotto quell'illusione.
Il pensiero marxiano torna a fiorire nelle aule universitarie, e non solo nei corsi di scienze politiche e di storia che non lo avevano mai completamente dimenticato. Alla University of Santa Cruz, California, un circolo interdisciplinare di lettura e commento dei testi del grande Karl, di Friedrich Engelse di Antonio Gramsci si è formato attorno al Dipartimento di Scienze Ambientali, dove abitualmente si prediligono chimica e biologia. Aumentano gli abbonamentia The Nation, l'unica rivista storica della sinistra americana che non ha mai ripudiato il marxismo; la sua direttrice Katrina Vanden Heuvel è un'opinionista corteggiata dai network televisivi Abc, Cnn, Msnbc, Pbs.
Per il pubblico di massa, la tv ha appena lanciato due serial praticamente sovversivi. Basta "Sex and the City"e altre storie eroticofrivole da borghesi spendaccioni, roba datata pre-recessione. Ora vanno in onda "2 Broke Girls" storia di due ragazze spiantate (vedi il titolo) che faticano per sopravvivere coni magri salari da cameriere. Sul network Abc il serial del momentoè "Revenge", dove la protagonista trama vendette contro i banchieri e altri privilegiati che hanno rovinato suo padre. Gli episodi si svolgono agli Hamptons, la località di villeggiatura marittima dei miliardari newyorchesi, luogo ideale per chi voglia punire i capitalisti. L'attrice Madeleine Stowe che recita da protagonista della "Vendetta", è convinta che «in questo particolare momento della nostra storia, l'americano medio vuol vederei ricchi messi al tappeto».
E' un inizio di svolta rispetto agli ultimi trent'anni, segnati dall'egemonia culturale dell'"edonismo reaganiano"? Questa è la nazione dove parlar male dei ricchi era diventato un tabù, perché il dogma dell'American Dream è che un giorno ricchi lo saremo tutti. Per anni in cima alla classifica dei best-seller si sono avvicendati libri come "Secrets of the Millionaire Mind", "The Millionaire Next Door", "Rich Dad Poor Dad": i lettori sembravano ossessionati dalla voglia di carpire i segreti del milionario della porta accanto, il suo modo di pensare, i metodi con cui educai suoi figli. Perfino le chiese evangeliste si erano adeguate, scordandosi della parabola sul "riccoe la cruna dell'ago" avevano abbandonato il Vangelo di Matteo a favore di un culto della prosperità: successoe ricchezza come segni della predestinazione divina. Ora tutto ciò sembra invecchiato di colpo, di fronte all'efficacia dello slogan di "Occupy Wall Street": «Siamo il 99%, riprendiamoci un'America cheè stata sequestrata dall'1% dei plutocrati».
I manifestanti sono ancora un minoranza, ma dietro di loro c'è una realtà terribile. La recessione del 2007-2009 ha lasciato 25 milioni di americani senza lavoro e ha tagliato del 3,2% i redditi di chi ancora ha un posto. Dopo quella botta le cose non sono affatto migliorate, anzi: dal giugno 2009 al giugno 2011 il reddito della famiglia media è sceso ancora di più, meno 6,7%. Nel frattempo per i ricchi nulla è cambiato. E non importa se siano incompetenti: Léo Apotheker, il disastroso chief executive di Hewlett-Packard defenestrato dal Consiglio d'amministrazione il mese scorso, è stato ringraziato con un "premio di licenziamento" di 13 milioni di dollari che si aggiungono a quello che lui aveva guadagnato di stipendio normale cioè 10 milioni in soli 11 mesi. Il suo collega chief executive di Amgen (biotecnologie) se n'è andato con 21 milioni di stipendio annuo dopo che il valore dell'azienda in Borsa era caduto del 7%e lui aveva licenziato 2.700 dipendenti.
Barack Obama ha colto il cambiamento di clima e da un paio di settimane il suo tono è un po' più radicale. Ha proposto la tassa sui milionari, sfidando la destra a bocciargliela al Congresso. Ha espresso «comprensione» per il movimento "Occupy Wall Street", noncurante del fatto che la polizia di New York ne abbia arrestato 700 aderenti per il blocco illegale del ponte di Brooklyn. Subito da destra è partita contro il presidente l'accusa di «fomentare l'odio di classe» (Rick Perry), di «incitare alla lotta di classe» (Mitt Romney). Sembrano riecheggiare Ronald Reagan, il padre storico dei neoconservatori, quando diede la sua versione della discriminante tra destra e sinistra: «Noi aumentiamo la ricchezza nazionale perché tutti abbiano di più, loro redistribuiscono quello che abbiamo già, cioè spartiscono la povertà».
Ma il Verbo reaganiano ha perso credibilità, dopo trent'anni di regressione delle classi lavoratrici e del ceto medio. Sotto lo shock di questo declino della middle class, si cominciaa riscoprire che gli anni d'oro dell'American Dream furono segnati proprio dalla lotta di classe: all'epoca dei presidenti democratici Woodrow Wilson e Franklin Roosevelt c'erano potenti forze socialiste nel paese; sotto John Kennedy e Lyndon Johnson la piena occupazione coincise con il massimo potere contrattuale dei sindacati. David Harvey, il 75enne storico e geografo che ha sempre insegnato Marx ai suoi studenti (prima a Oxford poi a Johns Hopkins) è convinto che la storia si ripete: come ai tempi della Grande Depressione, «in mano al capitalismo sregolatoe alla destra, l'economia di mercato va verso l'autodistruzione». Un segnale arriva perfino dalla superpotenza governata da un partito che si definisce comunista. In Cina l'attenzione verso "Occupy Wall Street" è intensa, sul blog Utopia animato da accademici nostalgici del maoismo quella protesta viene definita come «l'inizio di una rivoluzione che spazzerà il mondo». E non si limiterà agli Stati Uniti: secondo quei blogger cinesi «i paesi emergenti hanno lo stesso destino, le stesse sofferenze, gli stessi problemie gli stessi conflitti; di fronte a una élite globale che è il comune nemico, i popoli hanno una sola opzione, unirsi per rovesciare lo strapotere delle oligarchie capitalistiche». Come diceva Lui: proletari del mondo intero...

La Stampa 11.10.11
Amazon sbanca l’asta per il dissidente cinese
Il nuovo romanzo di Liao Yiwu sarà il primo bestseller annunciato a uscire direttamente in formato Kindle
di Bruno Ventavoli


Per Rushdie è il nuovo Solzenicyn. Per Hertha Müller, il nuovo Pasternak. Per molti, Liao Yiwu sarà prima o poi un premio Nobel, perché alla forza poetica della parola aggiunge una vita di coraggio.

Liao Yiwu, 53 anni, dopo aver irritato il regime di Pechino, sconvolgerà il mercato editoriale dell’Occidente. Amazon lancerà il suo nuovo romanzo Per una canzone e altre cento subito in “kindle”.
Conduce infatti la sua battaglia contro gli orrori polizieschi della Cina capitalcomunista. Ma questo autore di 53 anni, dopo aver irritato il regime di Pechino, sconvolgerà il mercato librario dell’Occidente. Il suo nuovo libro, Per una canzone e cento altre , è stato acquistato ad un’asta da Amazon, che ha stracciato con offerte milionarie protagonisti dell’editoria come il raffinato Pantheon (che aveva già pubblicato Il cadavere che cammina ) o Harper Collins (che pubblicherà Dio è rosso ). Sarà così il primo bestseller annunciato della letteratura mondiale ad uscire direttamente in formato «kindle», oltre che in volume. E se sarà un successo, getterà probabilmente nel panico i «publisher» tradizionali già impensieriti dalla potenza commerciale di Jeff Bezos, e perplessi sul futuro della lettura.
Che il colosso di Seattle volesse sfidare il mercato cartaceo non è una novità. Da tempo, smania per produrre «contenuti», e non solo supporti informatici. Allo scopo, «Amazon Publishing» ha arruolato editor, redattori, autori un po’ ovunque. Il debutto è stato da bestseller, non certo da Nobel. Primo titolo sfornato, sia in digitale che su pagine, il manuale Cuoco in 4 ore di Tim Ferriss, guru del «self help». Poi sono arrivate una collana di thriller, Thomas & Mercer (dal nome delle due vie che costeggiano il quartier generale dell’azienda), una di «rosa», e una che seleziona i migliori e-book pescati dalla propria piattaforma di self-publishing.
Con il dissidente cinese, il discorso cambia radicalmente. Dopo i testi facili, di bassa qualità, Amazon punta all’alta letteratura. Quella che conquista critici, gli editoriali, il clamore internazionale. Liao Yiwu, non insegna a trovare felicità o ricchezza con rapidi consigli da talk show, lui ha scommesso la vita, e pagato duramente, per incidere nei libri l’ardore della libertà. Figlio di un perseguitato dalla rivoluzione culturale, ha trascorso la giovinezza da poeta underground, senza tetto né legge, e neppure ideologie politiche. Ma nell’89, dopo la repressione del movimento studentesco, ha denunciato nella poesia Massacro la brutalità del governo. Sapendo che versi così scomodi mai sarebbero stati pubblicati, li registrò su cassette, miscelandoli con le cantilene tradizionali per invocare gli spiriti dei morti. Arrestato nel febbraio ’90, finì per due anni in galera, e altrettanti in un campo di rieducazione. Per una canzone e cento altre racconta le torture, le umiliazioni, le violenze sui prigionieri. Fu vergato, notte dopo notte, di nascosto, su supporti di fortuna, bordi di giornali, pagine di riviste, brandelli di carta igienica. E memorizzato parola per parola, per salvarlo da eventuali sequestri di secondini. Fortunosamente, avventurosamente, Liao è ora arrivato in Germania. E ha tutti i requisiti per diventare una star dell’editoria mondiale, oltre che un campione della democrazia e dei diritti umani.
In Germania «il diario di prigionia» è già uscito con successo da Fischer (l’Adelphi tedesco), in Italia verrà proposto da Mondadori. La scelta di Amazon, che vuole darsi una credibilità nuova nei confronti del mercato, degli autori e dei critici, si presenta dunque come un azzardo, perché il rischio che Liao Yiwu finisca al pubblico sbagliato è alto. Ma l’azienda di Seattle crede che il futuro della letteratura, e non solo della lettura, si giocherà sulle piattaforme digitali. D’altronde, che siamo di fronte a una rivoluzione della stampa, forse la più radicale dai piombi di Gutenberg, lo dicono i numeri. L’e-book in America detiene ormai il 12% del mercato. I cosiddetti libri da stazione, i gialli, i rosa, i romanzi a basso costo che si leggevano e dimenticavano sui treni, viaggiano quasi esclusivamente sul binario informatico. La stessa narrativa «colta» non disdegna i nuovi supporti: su dieci McEwan o Roth venduti nell’universo inglese, 2,5 finiscono su Kindle. Per la lettura, le intuizioni di Bezos, sono state sferzate corroboranti: l’ebook ha aumentato la vendita di titoli, testi, idee, tendenze. Ma per il traballante mondo delle librerie, è stato un micidiale uppercut. Barnes & Noble continua a chiudere punti vendita. La catena Borders si arrende. E chi cammina a New York, tra Central Park e Union Square, uno dei paesaggi più intellettuali del mondo, non trova più un solo negozio di libri, né piccolo e sentimentale, né grande e impersonale. Niente di niente. E per la geografia urbana degli ultimi due secoli, non è una metamorfosi da poco.

Corriere della Sera 11.10.11
La Buchmesse di Francoforte
Pochi ebook. Ma più lettori
L'editoria elettronica non decolla, mentre cresce il numero di chi legge
di Cristina Taglietti


Si inaugura domani la Buchmesse di Francoforte e, come sempre, sarà l'occasione per l'editoria italiana di fare il punto sullo stato di salute del mercato del libro. L'Aie inserirà i nuovi dati del 2011 e le ripercussioni sulle vendite estive del varo della legge Levi nel contesto generale emerso dall'ultimo rapporto su dati Istat che mostra segni positivi, con un milione di italiani in più rispetto all'anno precedente che hanno letto almeno un libro. I dati propongono anche l'identikit del lettore medio che è essenzialmente giovane (legge il 65,4% nella fascia 11-14 anni), donna (53,1% rispetto al 40,1% degli uomini), risiede al Nord (per il 54% rispetto al 35,2% del Mezzogiorno), è laureato (oltre l'80%), ricopre alti incarichi (oltre il 62%) o è studente (65,2%). Il rapporto degli italiani con il libro, tuttavia, è ancora «debole e occasionale», visto che i lettori forti (che leggono più di 12 libri l'anno) sono soltanto 4 milioni, il 7,1% della popolazione con più di 6 anni. Secondo un'indagine dell'ufficio studi dell'Aie sui prezzi dei libri in classifica il confronto con gli altri Paesi europei mette in luce che in Italia è il più basso d'Europa.
In questo panorama generale si deve inserire anche la valutazione del mercato dell'ebook. È questo uno dei punti caldi della Buchmesse di cui ieri si è avuta un'anticipazione durante la giornata di studi «Publishers Launch Conferences». All'incontro «Ebooks around the world», Bookrepublic e A.T. Kearney hanno presentato una panoramica della situazione globale che aggiorna la ricerca — presentata per la prima volta a luglio 2011 — sui dati di vendita dell'editoria digitale (il rapporto si basa sulla copertura dell'80 per cento del mercato globale e su quaranta interviste con editori e retailers) mostrando un universo per ora decisamente a due velocità: da un lato il Nord America (seguito a diverse lunghezze dall'Asia), dall'altro il resto del mondo con diversi gradi di approssimazione che dipendono dalla diffusione di Internet, dalla consuetudine con l'e-commerce, dalla presenza nel Paese dei cosiddetti «big players», dalla tassazione applicata (bisogna sempre ricordare che l'Iva sul libro elettronico in Italia è del 20%, mentre sul cartaceo è del 4%).
Nonostante Mike Shatzkin, coordinatore dell'incontro, dichiari di ritenere impossibile che da qui a dieci anni ci possano ancora essere differenze tra Paese e Paese nella diffusione dell'editoria digitale (tutti leggeremo ebook), rimane il fatto che in Italia la diffusione di questo mercato resta ben al di sotto delle speranze (e di tante ottimistiche previsioni), con un valore percentuale inferiore allo 0,5, mentre il Paese europeo più avanzato in questo senso, la Gran Bretagna, è al 3,7. D'altro canto i titoli disponibili da noi sono intorno ai 20 mila (da poco c'è stato lo sbarco dei grandi editori sull'iBookstore di Apple), mentre soltanto circa 700 mila persone possiedono un tablet e 200 mila un altro dispositivo di lettura (in Inghilterra i primi sono circa 2 milioni e 100 mila e quelli che possiedono un e-reader 1 milione e 600 mila). «Ciò che emerge — spiega Marco Ferrario fondatore con Marco Ghezzi di BookRepublic — è che la crescita del mercato americano non deriva soltanto dall'introduzione di un numero maggiore di titoli, di nuovi supporti di lettura, ma soprattutto da nuovi modelli di business basati, come dimostra bene il caso di Amazon che ha stabilito una relazione forte con i lettori sfruttando il più possibile il social reading in senso lato, e con gli autori incentivando il self publishing, indipendentemente dagli agenti letterati».
Proprio il «potere» degli agenti è stato uno dei punti toccati da Riccardo Cavallero, numero uno di Mondadori, che ha accusato la categoria di essere troppo conservatrice criticandola per l'insistenza sul fatto che sul libro elettronico non possa essere fatto un ribasso superiore al 30 per cento rispetto al prezzo del libro cartaceo. «Se pensate che gli editori siano conservatori non avete mai incontrato un agente. Noi, in confronto, siamo dei rivoluzionari» ha scherzato Cavallero aggiungendo che Mondadori (che ha siglato un accordo con Barnes & Noble per vendere titoli italiani sul lettore Nook) non rispetta questi contratti perché «non si può avere paura dei prezzi o della cannibalizzazione, altrimenti non ci lanceremo mai nell'editoria digitale».
Negli Stati Uniti, secondo il rapporto, il periodo gennaio-maggio segna una flessione del mercato dei libri, a valore, del 3,4% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. «Ma si notano anche — spiega Giovanni Bonfanti di A. T. Kearney che ha condotto la ricerca — due comportamenti ben diversi tra la carta e il digitale, perché se il mercato cartaceo cede il 15,6% , quello digitale segna un più 160%. Considerato che il prezzo degli ebook in America è diminuito del 40 per cento rispetto all'anno precedente si può facilmente ipotizzare un aumento delle vendite a volume». In generale, sempre sulla base dell'esperienza americana, si possono individuare alcuni fattori che potranno incentivare lo sviluppo futuro del mercato in una circolarità «virtuosa». «La scelta dell'autopubblicazione e i programmi di selfpublishing che possono incidere considerevolmente sul prezzo — riassume Marco Ferrario —.Poi i comportamenti del cliente che si avvicina ai vari siti d'acquisti e che si traducono in maggiore informazione riguardo a formati e prodotti permettendo ai retailers online di personalizzare l'offerta e di usare la promozione dei libri che i lettori possono fare consigliandoli nei social media, facendo recensioni, parlandone in Rete. Si può ipotizzare che i mercati dove si svilupperanno questi modelli cresceranno più degli altri».
L'Italia, secondo la ricerca dovrebbe arrivare al 5-6% di diffusione nei prossimi cinque anni, con una decisa accelerazione nell'ultimo anno. Per ora è in una fase di sostanziale attesa, con Apple che è partita, Google e Amazon in arrivo. Quando tutti i grandi players saranno operativi che cosa succederà al nostro mercato? Non verranno fagocitate le librerie online indipendenti? «Secondo Cavallero i tre grandi si prenderanno il 50% per cento del mercato — dice Ferrario —. Quindi vuol dire che l'altro 50% sarà disponibile per chi saprà fare meglio».

Repubblica 11.10.11
Cinquant'anni dopo l'uscita, torna aggiornato un saggio fondamentale per l'urbanistica della capitale
Perché Roma non è moderna
di francesco Erbani


Uscito cinquant'anni fa, torna Roma moderna, il libro di Italo Insolera sulla storia urbanistica della capitale (Einaudi, pagg. 403, euro 25), da molti giudicato fondamentale anche per la storia in generale di Roma da Porta Pia in poi. La nuova edizione è aggiornata: inizia con la Roma napoleonica e in quattro capitoli finali racconta la Roma dagli anni Ottanta a oggi (con Insolera ha collaborato Paolo Berdini). Ma la vera novità sta in un punto interrogativo che nella premessa Insolera giustappone al titolo: Roma moderna? È da qui che comincia la chiacchierata con l'urbanista, classe 1929, insegnante a Venezia e a Ginevra e autore di numerosi saggi.
Alla domanda se Roma sia una città moderna e, se non lo sia, perché non lo è, Insolera apre a caso le pagine dello stradario. L'occhio casca su una delle borgate abusive della zona orientale, poi assorbita nello sviluppo tumultuoso dell'abitato. Il dito seguei tracciatie si perde su vie che si aggrovigliano, si allargano a circonvallazione e poi finiscono nel nulla. Insolera scuote la testa, alza lo sguardo: «Non può definirsi moderna una città che ammette questo disordine». Ma questa è la città abusiva.
«È vero. Però casualità e insensatezza le troviamo anche in quartieri sorti legalmente, ma frutto di speculazione, dove si è pensato ai palazzi e non alle strade. E poi l'abusivismo edilizio non è stato solo un fenomeno che ha interessato la città in alcune parti».
E che cosa è stato? «Per molti aspetti è il modo d'essere della città. Si calcola che il venti per cento del territorio edificato sia abusivo (diecimila ettari su cinquantamila). Sono stati spesi tanti soldi per riagganciare questi nuclei alla città. Tutta Roma è stata investita da simili tentativi. I risultati sono stati però scarsi.È un problema politico, ma anche dell'architettura». In che senso c'entra l'architettura? «Che l'architettura possa riscattare la società è cosa da dimostrare: soprattutto quando è solo disegno di forme e non ricerca dei valori di cui le forme sono espres sione. Vista dall'alto, la metropoli abusivae poi sanata dai condoni si presenta come una massa continua, compatta, indifferente. Come d'altronde si presentava cinquant'anni fa la città delle palazzine». Lei pone uno spartiacque nell'immediato dopoguerra.
«Fino ad allora troviamo un impianto stradale e un'architettura discutibili quanto si vuole. Ma funzionanti. Andando ancora indietro nel tempo vediamo piazze disegnate in modo esemplare, come piazza Mazzinio piazza Verbano. Alcuni insediamenti popolari sono all'altezza di una città moderna. Poi questa sapienza urbanistica viene sovrastata dagli interessi speculativi».
Torniamo ancora più indietro.
Finora lei cominciava la storia di Roma moderna con il 1870. Ora con Napoleone. Perché? «Potrei cavarmela con la battuta che Napoleone è meglio di Raffaele Cadorna. Napoleone è comunque uno dei pochi grandi che si occupino di Roma. Dal 1809 al 1814 Roma è annessa all'impero napoleonico e il prefetto De Tournon elabora un progetto per scavi archeologici e due grandi parchi, uno a Piazza del Popolo, l'altro nell'area fra i Fori, il Colosseo e il Palatino...» Nasce allora l'idea che verrà ripresa negli anni Settanta del Novecento da Leonardo Benevolo, Antonio Cederna, Adriano La Regina, da lei e dal sindaco Petroselli? «Nasce allora. Non se ne fece niente. Se Napoleone non fosse stato sconfitto, questi progetti sarebbero stati alla base del primo piano regolatore di Roma moderna». Napoleone va bene, ma Pio IX? «Si deve al ministro del papa, monsignor De Mérode, l'istituzione della stazione Termini e l'avvio dell'espansione cittadina verso nord-est, che verrà poi realizzata dal Regno d'Italia. Sebbene De Mérode avesse acquistato quei terreni e dunque fosse uno speculatore, anche quella fu una scelta da città moderna».
Veniamo di nuovo a un periodo più vicino a noi. La sua ricostruzione della speculazione anni nel Novecento ha fatto scuola.
Una prima svolta si registra con Argan e Petroselli fra il 1976 e il 1981. Poi nel 1993 inizia la stagione del centrosinistra.
«Nel programma di Francesco Rutelli c'era un capitolo intitolato "Una rivoluzione urbanistica".
Una rivoluzione rispetto alle pratiche dominanti a Roma, resa necessaria anche perché la città aveva smesso di crescere demograficamente». Ed è stata compiuta questa rivoluzione? «L'attività di quell'amministrazione si è caratterizzata per la discontinuità con una consolidata cultura urbana progressista».
Quindi si è andati in una direzione diversa.
«Partirei da un episodio specifico. A Tor Marancia, un'area grande 120 ettari di meravigliosa campagna romana vicina all'Appia Antica, erano previste enormi cubature, ma il soprintendente La Regina pose un vincolo che avrebbe impedito di costruire. I proprietari si sarebbero dovuti rassegnare». E invece? «E invece grazie a uno strumento appena introdotto, quello della compensazione urbanistica, quel milione e ottocentomila metri cubi di case furono trasferiti altrove, ma diventarono cinque milioni e duecentomila. L'amministrazione comunale riconosceva ai proprietari un "diritto edificatorio" che se non esercitato in quello veniva spostato in un altro luogo, ma con un enorme incremento. Insomma, si stabiliva l'intangibilità della rendita fondiaria, nonostante importanti giuristi avessero sostenuto che quel tipo di "diritto edificatorio" non esiste».
Quella scelta che conseguenze ha avuto? «Si è stabilito un principio, poi adottato altre volte, per cui molti costruttori hanno potuto invadere la campagna romana con insediamenti anche enormi, non raggiunti da un trasporto pubblico adeguato, in una città che perdeva residenti ma che si disperdeva sempre di più. Quella norma, che in teoria è anche corretta, ha accompagnato l'urbanistica romana da Rutelli a Veltroni. Ed è il segno di un'involuzione culturale.
L'urbanistica e la pianificazione del territorio sono state accantonate: il mercato non ne ha avuto bisogno e non ha più trovato ostacoli». Poi è arrivato Gianni Alemanno. «E con lui il progetto di trasformare l'Eur in pista per la Formula 1 con invasione di cemento. Contemporaneamente arriva il "piano casa", un ulteriore colpo alla cultura urbanistica. Ognuno si fa la sopraelevazione che vuole, consuma suolo e verde. Il progetto della città non è al centro degli interessi dei legislatori nazionali e regionali». Roma può tornare a essere una città moderna? «Sì, ad alcune condizioni. La prima è che non cresca più. La seconda, gettando lo sguardo oltre le questioni urbanistiche, è che faccia leva sulla cultura multietnica.
Una cultura che si esprime simbolicamente intorno a Piazza Vittorio Emanuele, ora luogo popolato da immigrati e che fu costruita e abitata dagli immigrati di allora, i piemontesi venuti a Roma dopo il 1870».

Repubblica 11.10.11
Che cosa insegna il processo di Perugia
di Giancarlo De Cataldo


La sentenza di Perugia e il dibattito internazionale che ne è scaturito potevano essere sfruttati per avviare una seria riflessione sulle falle del sistema processuale italiano, ripensare criticamente alcuni istituti, spingere politici e operatori del diritto a costruire un modello più comprensibile e utile alla collettività. Invece su tutto è calata come un macigno la beffarda domanda di un ex-ministro: "Chi paga"? Su questa cultura del "chi paga?" prima o poi bisognerà interrogarsi. Da un lato, riflette il disprezzo del produttore di cose materiali per chi opera nei settori dell'immateriale: solo ciò che si può fisicamente misurare, o forse pesare sulla bilancia, ha un valore, ovviamente espresso in denaro. Tutto il resto non conta,a meno che non sia riconducibile allo stesso metro di valutazione. "Chi paga?" è, sotto questo aspetto, il perfetto pendant di "con la cultura non si mangia". A un diverso livello, il "chi paga?" incarna una sorta di ossessione sociale che trasforma in rischio patrimoniale ogni assunzione di responsabilità. La medicina, per dirne una, da scienza e arte della cura del corpo, con annessi sofisticati risvolti tecnici, muta in un esercizio commerciale e burocratico teso a evitare la compromissione della sfera patrimoniale del medico: vuoi la diagnosi? Prima firmami una caterva di carte e sciroppati una miriade di analisi, perché "non si sa mai". E poi stiamo a vedere. Il medico non deve salvarti la vita perché è un professionista e ha un'elevata coscienza etica. Deve salvarti per salvare se stesso. E così la giustizia. Il giudice non studia gli atti e scrive le sentenze nel rispetto della legge e dell'etica, ma per salvare il portafogli.
Nella cultura del "chi paga", il processo non è luogo di accertamento della (probabile) verità, centro di tutela e garanzia dei diritti dei cittadini tutti, attività complessa regolamentata da leggi che, se pure discutibili, sono frutto di alcuni millenni di elaborazione dottrinaria e culturale. Eppure, proprio dopo Perugia, il "New York Times" ha ringraziato la nostra giustizia.
"Brava Italia", si legge in un editoriale, per aver trovato il coraggio di "do-over", cioè di ribaltare la sentenza di primo grado: fatto da noi ordinario, ma alquanto raro da quelle parti.
Contemporaneamente, l'inglese "Guardian" ha puntato il dito contro il nostro sistema processuale, accusato di tendere alla spettacolarizzazione, e, in particolare, contro la singolarità di processi separati per imputati dello stesso reato. Ma da noi, l'elogio del Nytè passato inosservato,oè stato interpretato tendenziosamente. Ne deriva che, ogni volta che qualcuno viene assolto in appello, il sistema, invece di dimostrare la sua serietà, infligge all'opinione pubblica, per definizione "sconcertata", una ferita insanabile. Tanto vale dire, sbrigativamente, che ogni processoè un processo serio, valido, giustoe quant'altro soltanto se si conclude con l'inesorabile condanna del sospetto. Da qui alla tortura per ottenere la confessione che ci manda tranquilli a nanna il passo (solo culturale, mi auguro) è breve.
E, sempre da noi, la critica del "Guardian" è stata invece recepita e valorizzata in tutte le salse: il processo italiano fa acqua da tutte le parti, e la colpa, ovviamente, è dei giudici, o, peggio ancora, dei pm. Premessa accettabile: il sistema è carente, pletorico, confuso e contraddittorio. Il regime processuale di imputati e coimputati è scarsamente decifrabile anche dagli addetti ai lavori, e la frammentazione dei riti rasenta l'ingestibile. Qualcuno si è preso la briga di spiegare alla "gente" che i vari racconti resi da Amanda Knox possono essere pubblicati sui giornali ma il giudice ha obbligo di non tenerne conto perché "inutilizzabili"? Che qualunque imputato ha il diritto di mentire, tacere, ritrattare e di ottenere a richiesta il giudizio abbreviato, senza che nessuno, tanto meno il pm, possa opporsi? Che esito avrebbe avuto la vicenda di Perugia se, come accade in altri ordinamenti, l'accesso ai riti alternativi o la riduzione di pena fossero vincolati all'impegno a rendere dichiarazioni secondo lo schema concordato con la pubblica accusa? O se gli imputati fossero stati processati insieme e al giudice fosse stato consentito di acquisire e verificare le loro dichiarazioni incrociate? Il processo non funziona. Ma a disegnarlo in questo modo non sono state né le toghe rosse né le procure eversive: semmai, le maggioranze che si sono alternate in questi anni al governo. Dunque, per stare al gioco: chi paga?

Corriere della Sera 11.10.11
Incisi nella pietra i segni dei bimbi di 13 mila anni fa
di Paola Caruso


Nel periodo Paleolitico i bambini in età prescolare non avevano carta e pennarelli per scarabocchiare, ma disponevano di caverne con pareti molli come il pongo, su cui tracciare scanalature con le dita. I loro segni si trovano nella grotta di Rouffignac, in Francia, e risalgono a 13 mila anni fa.
La scoperta del solchi nella roccia non è recente, ma soltanto adesso l'archeologa Jessica Cooney dell'Università di Cambridge, insieme a Leslie Van Gelder, si è accorta che quelle scanalature («finger fluting») sono da attribuire a bambini di 3-7 anni. Le dimensioni e le distanze tra le dita non lasciano dubbi: è opera di baby artisti. La Cooney ha presentato la ricerca alla conferenza «Child Labour in the Past» di Cambridge, sottolineando la presenza della mano femminile nei disegni. «Sembra che le tracce siano di almeno quattro bambini — dice Diego E. Angelucci dell'Università di Trento —. Ma quelle più ricorrenti sono state attribuite a una bambina». Insomma, una femmina più attiva dei maschi.
«La gender archaeology sta rivalutando il ruolo della donna nelle società preistoriche — aggiunge Angelucci —, dove spesso ci immaginiamo la figura dell'uomo cacciatore, coltivatore e guerriero, mentre la donna è sottovalutata».
Le scanalature di Rouffignac ci dicono anche altro. Primo: alcune linee sono troppo regolari per un bambino, spingendoci a credere che la minuscola mano sia stata guidata da una sorta di maestro/a. Secondo: i segni sono concentrati in un'unica stanza. Se mettiamo insieme le due osservazioni, possiamo dedurre che forse in quel luogo era presente una «scuola d'arte» per minori. «Le tracce in alto sulla parete indicano che i bambini venivano sollevati o tenuti sulle spalle — commenta Angelucci — e ciò ci fa capire quanta attenzione ci fosse per loro. Già in quel periodo i piccoli avevano uno status sociale. Lo si nota dal corredo funerario: il bimbo di Lagar Velho in Portogallo di 25 mila anni fa è stato sepolto con un coniglietto da compagnia».

Repubblica 11.10.11
La chimica del piacere analizzata in un libro che in America fa già scalpore. L'autore è Stanley Siegel Tutto nasce dai rapporti avuti in famiglia nell'infanzia: dalle storie serie alle infatuazioni passeggere
Scoprite il segreto del desiderio è nella vostra vita da bambino
di Angelo Aquaro


Se vi sentite irrimediabilmente attratti dalla biondona incrociata sull'autobus - o dal ragazzo che lascia spuntare il tatuaggio sotto la manica rivoltata - da oggi sapete da cosa dipende: dal fanciullino che è in voi. Dice: ma il sesso non è quel brivido dentro? Sbagliato.
La reazione fisica è solo l'ultimo atto di un'esplosione chimica: rintracciabile in un arco di tempo che va da zero a 14 anni. Per esempio. La bionda vi attrae perché vi rimanda all'idea di spensieratezza che vi fa sentire meno colpevoli. E il ragazzo con il tatuaggio? È il pirata che avete sempre sognato da quando papà per punirvi vi mandava a nanna senza il bacio della buonanotte. Almeno questo sostiene un libro che deve ancora uscire e già eccita l'America: "Your Brain on Sex: come il sesso più intelligente può cambiare la vostra vita".
Ok, sesso e intelligenza sono due concetti che non siamo abituati a pensare a braccetto, tantomeno cambiandone l'ordine.
Eppure proprio il Desiderio Intelligente si chiama il percorso proposto dal professor Stanley Siegel. La tesi scavalca a sinistra la psicanalisi: "Al di là della biologia nulla influisce la nostra sessualità più che la famiglia. E i nostri desideri sono il prodotto dei conflitti che abbiamo vissuto durante l'infanzia". Il momento critico è l'adolescenza: quando il sentimento trova la prima traduzione fisiologica.
"Erotizzare i conflitti è il nostro modo di sanarli. Trasformiamo la pena in piacere attraverso fantasie e desideri". E così come la psicoanalisi ci riconnette con l'Io nascosto, così Siegel risale all'infanzia per interpretare l'attrazione dell'altra/o. "Noi pensiamo che le nostre fantasie sessuali vengano a caso: invece sono finestre nei livelli più profondi della nostra psiche. E possono aiutarci a migliorare non solo la vita sessuale: ma a capire chi siamo". Per carità: buona già la prima. Ma come decodificare la chimica dell'attrazione per riconoscere il partner ideale? Qui il professore suggerisce un test che ciascuno può attuare: a suo rischio e pericolo. "La prossima volta che prendete la metropolitana o un treno" scrive su Psychology Today "scegliete un estraneo che trovate attraente. Prendete nota di capelli, occhi, pelle, bocca, statura, mani, piedi. Se parla, ascoltate il timbro della voce. Se siete abbastanza vicini, catturatene l'odore". Se a questo punto la biondona,o il bel tatuato, non avranno già chiamato la polizia, forse potrete concentrarvi sull'esercizio: "Bisogna tenere a mente che c'è una differenza tra attrazione fisica e attrazione sessuale. E una volta preso nota delle caratteristiche fisiche, ora chiedetevi: perché mi attrae?".
È a questo punto che si risale al fanciullino. La persona che abbiamo di fronte accenderà il desiderio che in realtàè stato innescato già da quel dì. L'uomo in giacca e cravatta o in uniforme rimanda al desiderio di protezione. La ragazza con gli occhi scuri al bisogno di sottomissione. Quella con gli occhi chiari al sentimento di sicurezza.
Banali stereotipi? Ma no. Il test fatto prima avrà dimostrato che non è (solo) l'apparenza che conta: ma "che cosa" quell'apparenza accende in noi. Se poi accende solo quella cosa lì, beh, il professore ha anche qui una risposta: il vostro desiderio riempie il senso di vuoto di un'infanzia in cui avete sofferto per l'estraniamento e l'isolamento. Altro che partner ideale: cercate un partner e basta. E al diavolo il fanciullino.

Repubblica 11.10.11
L'intervista Alessandra Graziottin non crede alla matrice negativa dell'attrazione
"L'identità sessuale è complessa Vogliamo chi ci cura dal passato"
di M.C.


ROMA - Dottoressa Alessandra Graziottin, sessuologa, siamo così condizionati da quello che accade nell'infanzia? «Non credo. Rifuggirei dal determinismo. Quello che è accaduto nell'infanzia, come quello che è avvenuto nell'utero, ci condiziona ma non in modo così drastico. Alcune esperienze ci segnano più di altre, abbiamo le nostre aree di vulnerabilità che rendono in una certa situazione una risposta più probabile e una scelta del partner più possibile. Ma non esageriamo, questo tipo di determinismo non solo è troppo meccanico ma direi anche tetro».
Perché tetro? «Perché queste profezie possono avere un effetto "nocebo", dire "accadrà questo" può attivare l'area dell'allarme, deprimere l'area dell'umore e condizionarci. Siamo la nostra storia ma anche capaci di grande plasticità. Se c'è stato un evento negativo va riconosciuto ma non può essere catalizzatore di tutto».
Cosa determina i nostri comportamenti sessuali? «Un insieme di causee fattori. L'identità sessuale si forma durante l'infanzia, ma ci sono anche radici biologiche e un passaggio importante è la pubertà, c'è poi il contesto sociale, quello in cui cresciamo».
Siamo più liberi di quello che pensiamo? «Sì, mi piace ricordare quello che ha scritto uno psicoterapeuta straniero: noi ci innamoriamo anche di persone di cui intuiamo la capacità di curarci da traumi del passato, di cui percepiamo l'effetto positivo che avranno sulla nostra vita, non solo di quelle che riflettono le nostre paure».

il Riformista 11.10.11
Scalfari, la politicizzazione a tutti i costi
di Corrado Ocone

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domenica 9 ottobre 2011

l'Unità 9.10.11
Cgil, sfila l’orgoglio degli statali
L’abbraccio di Camusso, Dettori e Pantaleo che marciano con migliaia tra lavoratori e studenti
di Jolanda Bufalini

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l'Unità 9.10.11
La sfida di Susanna
Ricostruire il patto  di cittadinanza
«Non ci stiamo a veder affondare il Paese» dice la leader
«Siamo l’Italia che non si rassegna». Nuovo attacco a Sacconi
di J. B.

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l'Unità 9.10.11
Smuraglia: «In piazza, perché indignarsi non basta più»
Il presidente Anpi «L’alternativa a questo governo c’è già
Ma mi preoccupo quando vedo le opposizioni dividersi»
di Laura Matteucci

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il Fatto 9.10.11
Piazza continua
La Cgil riempie Roma di statali e sosterrà la Fiom nello sciopero contro Marchionne
di Salvatore Cannavò


La Cgil ha deciso che la strategia della piazza fa bene all’organizzazione. Dopo lo sciopero generale del 6 settembre ieri c’è stata la manifestazione degli statali in vista di una “grande manifestazione per il lavoro” probabilmente il prossimo 5 novembre. E prima ancora, il 21 ottobre, ci sarà un nuovo appuntamento che segna il riavvicinamento con la Fiom: lo sciopero generale del gruppo Fiat con manifestazione nazionale a Roma.
STAVOLTA senza contrasti tra i metalmeccanici e il sindacato confederale ma con una strategia comune riassumibile nel “no all’articolo 8” della manovra economica, quello che minaccia lo Statuto dei lavoratori e il contratto nazionale. La Cgil ne ha fatto una bandiera, la Fiom ragiona su un referendum abrogativo.   Certo, Maurizio Landini e Susanna Camusso hanno idee diverse su Emma Marcegaglia, sul rapporto con Confindustria ma è anche vero che oggi sono riuniti sul contrasto a Sergio Marchionne e alla sua uscita da Confindustria per applicare integralmente   l’articolo 8. Susanna Camusso ha avuto buon gioco ieri a coniugare l’attacco all’ad della Fiat e la richiesta di cacciare il governo Berlusconi.
Il corteo di ieri è stato promosso dalla categoria della Funzione pubblica contro la manovra del governo particolarmente brutale nei confronti degli Statali. Erano circa 20 mila i lavoratori che hanno sfilato per le vie di Roma con il tradizionale kit dei cortei sindacali al sabato: palloncini, cartelloni contro il premier e la sua “forza gnocca”, richiesta di dignità per le donne e rispetto per il lavoro pubblico bollato da Renato Brunetta come il popolo dei “fannulloni” e poi, in piazza, musica e parole di “Bella ciao” per terminare la giornata.
“Lo abbiamo detto allo sciopero generale – ha spiegato Susanna Camusso – lo diciamo ora: non ci rassegniamo a veder affondare il paese. Ci vergogniamo per come siamo visti nel mondo”, ha aggiunto chiedendo al governo di andarsene e di mettere al centro dell’agenda del Paese, il lavoro, “la vera emergenza nazionale”. Ad aprire il corteo c’era anche lo striscione dell'Associazione   nazionale Partigiani con la scritta “Un paese senza memoria è un paese senza futuro-25 aprile 1945” ma anche quello dedicato alle vittime di Barletta: “San Giuliano, Torino, Barletta. Tragedie causate dall'indifferenza”, per ricordare il crollo della scuola che fece 27 morti, il rogo della ThyssenKrupp e infine la morte delle cinque donne pugliesi.
Se il corteo di ieri ha avuto una caratteristica più politica, – il gioco di sponda tra Camusso e il   Pd di Pier Luigi Bersani è evidente – quello indetto dalla Fiom per il prossimo 21 ottobre avrà invece un tratto chiaramente sindacale ma non per questo meno importante.
A MARCHIONNE che esce da Confindustria impugnando l’articolo 8 della manovra finanziaria, infatti, la Fiom risponde con lo sciopero in tutto il gruppo Fiat, con manifestazione nazionale a Roma. Un’iniziativa   che ha l’appoggio del segretario Cgil. Si tratta di un fatto rilevante, perché è dal 2002 che la Fiom non organizza una manifestazione di tale dimensione a Roma. “Lo facciamo per unificare le diverse vertenze in corso” spiega Giorgio Airaudo, responsabile Auto nazionale, “per rimettere al centro la questione del piano industriale, visto che Fabbrica Italia non esiste ma anche per conquistare il contratto nazionale e battere la tentazione dell’articolo 8”.
Sullo sfondo, la vertenza su Termini Imprese, “abbandonata” dal Lingotto e quella dell’Irisbus con i lavoratori già in mobilità.   La Fiom va dunque al contrattacco intuendo che la mossa di Marchionne si porta dietro l’ipotesi dell’estensione del modello Pomigliano a tutti gli stabilimenti del gruppo come del resto ha annunciato lo stesso ad del Lingotto. Ed è una mossa che polarizza di nuovo lo scontro con la Fiat da una parte e la Fiom dall’altra. La differenza però è che stavolta la Cgil si schiera con la Fiom anche perché la rottura di Marchionne con Confindustria – criticata ieri anche da Carlo De Benedetti – ha per obiettivo proprio quell’accordo siglato da Emma Marcegaglia e Susanna Camusso e contrastato da Maurizio Landini.

il Fatto 9.10.11
Chi ha paura del referndum?
di Salvatore Vassallo


Quel che è stato - fino ad ora, del referendum - è stato. Chi lo ha promosso ha avuto ragione. Chi si è impegnato nella raccolta delle firme ha dato ai cittadini l'occasione per esprimere una domanda di cambiamento di cui l'Italia ha disperatamente bisogno. Chi è rimasto alla finestra ha dimostrato di non capirla o di non volerla interpretare. Più di un milione e duecentomila firme indicano una intenzione più forte di quella registrata nel 1993, per il referendum   che travolse la Prima Repubblica, quando se ne raccolsero poco meno in molto più tempo. Ora si tratta di investire nel migliore dei modi il capitale accumulato. Soprattutto, si deve rspettare la volontà espressa da quei cittadini e dai molti, molti, molti di più che avrebbero firmato se solo avessero trovato un banchetto nel loro quartiere, magari davanti a tutti i circoli del Pd.
Non sarà una passeggiata. È evidente infatti che l'imponente segnale lanciato dai cittadini rende più probabile la dichiarazione di   ammissibilità dei quesiti. I dubbi espressi sul piano giuridico sono infatti fragili e controvertibili, mentre la Corte ha dimostrato più volte, ad esempio pochi mesi fa riguardo al nucleare, di far   prevalere la sostanza delle domande poste dai ed ai cittadini mediante il referendum rispetto a cavilli di dubbia ragionevolezza. Tanto maggiore la probabilità che l'obiettivo di cambiare il sistema elettorale si realizzi, tanto più ciniche e sfrontate saranno le manovre di chi vuole conservarlo   com'è.
In questo caso, a dispetto delle contorte alchimie che continuano a caratterizzare la politica italiana, le alternative sono nette e gli opposti schieramenti, quindi,   facilmente identificabili. Il porcellum si può cambiare, si possono superare le lunghe liste bloccate tornando ai collegi uninominali, ad una sola condizione: che il referendum si tenga la prossima primavera. Posto che, se il referendum si tenesse, i Sì sarebbero una valanga, chi non vuole cambiare ha due possibilità: a) premere sulla Corte Costituzionale perchè non ammetta i quesiti; b) provocare lo scogli-mento anticipato delle Camere. Al primo sport si stanno già dedicando anche autorevoli esponenti del centrosinistra che avevano sollecitato il referendum Passigli e che oggi cercano consensi per qualcos'altro nelle file del PdL. Ma qui siamo alle tattiche di retrovia. Il vero discrimine sono le elezioni. Tenerle di nuovo con l'attuale sistema sarebbe come uccidere il Parlamento, già segnato da una riprovazione sociale senza limiti. Significherebbe   costituire un Governo già azzoppato, destinato a subire, ad un anno dall'investitura, l'onta di una sconfessione di massa verso il sistema con cui si è formata la sua base parlamentare.
Sarebbe meglio battere il centro-destra subito. Come accadrebbe nel Paese normale che purtroppo non siamo. Per cambiare pagina, per superare il ventennio berlusconiano, è indispensabile passare attraverso il bagno referendario. Servono un anno di transizione e un Governo di responsabilità nazionale che, messo da parte Berlusconi, ristabilisca la credibilità dell'Italia sul piano finanziario, includendo le parti sociali in un Patto per la crescita, come fece nel 1993 il governo Ciampi. Il PD non può rimanere anche stavolta in mezzo al guado. Dica "senza sè e senza ma" che questa è la strada maestra, e lavori per realizzarla.

«Bontà e cattiveria, egoismo e altruismo, interessi particolari e solidarietà sociale non descrivono una società antropologicamente spaccata in due. Sono piuttosto due vocazioni naturali, due istinti che albergano in ciascuno di noi, Eugenio Scalfari in La rabbia dei giovani, la miseria del sud su repubblica di oggi

il Riformista 9.10.11
I giovani separati dalla politica
di Emanuele Macaluso

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il Riformista 9.10.11
Socialismo oggi, è ancora attuale
di Mario Ricciardi

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il Fatto 9.10.11
E venne il giorno del bavaglio
di Furio Colombo


Domanda: Egregio Colombo, come si può avere rispetto per una classe politica che non ha nessun rispetto per i cittadini italiani? Ogni parlamentare dovrebbe agire come rappresentante dei cittadini e cercare di risolvere i gravi problemi che ci riguardano tutti, facendosi garante dei nostri diritti e portavoce delle nostre disperate aspettative." Firmato Baretton Ettore, Treviso.
RISPOSTA: Giovedì 6 ottobre. Sono appena passate le 10,30. Una cinquantina di adulti, uomini e donne, ministri e deputati, ascoltano e ridono alla fine di ogni battuta, come in certi spettacoli della Tv americana anni Cinquanta.   Sono il pubblico entusiasta e affezionato di un narratore di barzellette. Le storielle sono vivaci, lunghe, elaborate. Richiedono buffe espressioni facciali, gesti delle mani (lunghezza, larghezza di qualcosa che fa ridere), richiede movimenti in su e in giù delle dita, nell'atto di dirigere o dare il ritmo. L'aggregato umano si sposta, come la coreografia di un balletto, piccoli passi in qua e in là, svelti per non perdere il contatto, evidentemente benefico, con il narratore. Si spostano se si sposta lui. Lui è Berlusconi, il presidente del Consiglio italiano. Il luogo è l'emiciclo della Camera dei Deputati, mentre una seduta del Parlamento è sospesa. 
Berlusconi di solito non viene mai in Parlamento. Giustamente lo considera una perdita di tempo perché ottiene approvazione solo con la procedura detta "voto di fiducia" che è un voto di sfiducia, perché non ti fidi di nessuno. E infatti nessuno, neppure i tuoi più fidati, ha la possibilità di discutere. Ma oggi è venuto perché è il giorno della legge bavaglio, quella che proibisce, pena la prigione, di parlare di tutto il fango che sta colando sull'Italia e ne ha già stroncato la reputazione. Oggi il Capo del Governo è venuto per far vedere che non è affatto disperato di essere l'autore del più grande fallimento   italiano dopo il 1945. Anzi, è allegro perché sta per arrivare la legge bavaglio, e ha voglia di condividere il suo buon umore, subito dopo che il debito italiano è stato pesantemente declassato, provocando costi altissimi nel pieno di una crisi già molto grave. A un certo punto, in quel cerchio di persone aggrappate al lui, scoppia un applauso, una risata forte e piena, come nel momento più riuscito di una gita aziendale. La gita aziendale di Berlusconi in Parlamento dura poco. Una volta dimostrato che il suo umore è sempre eccellente, una volta confermato che il giorno del bavaglio è giorno suo perché   è esclusivamente per lui la legge, una volta stabilito che se non ti occupi della crisi che travolge il Paese, quella crisi se ne andrà da sola, anzi non esiste perché è una invenzione della sinistra e dei giudici, la piccola testa marrone scuro di Berlusconi scompare in fretta.
RESTANO, un po' svuotati, i suoi deputati e deputate e ministri, che adesso devono sostenere da soli che "la legge sulle intercettazioni ce la chiedono i cittadini". A sostegno della memorabile impresa c'è il governo al gran completo, dal ministro degli Esteri che aveva appena mentito sulla Libia assicurando ottimi rapporti con persone che hanno già annunciato il loro ritiro dal governo di quel Paese, al ministro dell'Interno, che si vanta di avere inventato le prigioni galleggianti davanti al porto di Palermo, per rinchiudere profughi fuggiti dalla Libia. E c'è il ministro Romano   , in forte odore di mafia e il ministro Romani, che dovrebbe, almeno lui, essere occupato giorno e notte altrove, perché gli è stato affidato l'incarico, subito prima della scena   delle barzellette narrate in aula con trionfo di risate dei dipendenti, di procedere a "rimettere in moto l'Italia" e a "dare il via alla crescita." Invece è una seduta lunga e squallida. L' opposizione (tutta) riesce per il momento a impedire che ci siano i primi voti sul progetto di legge più vergognoso di una vergognosa legislatura.
Ma subito l'allegro presidente del Consiglio, di cui l'intero mondo democratico attende le dimissioni, fa sapere che ci sarà un nuovo partito, e si chiamerà "Forza gnocca". E un suo ministro ha un'idea anche più adeguata al prestigio della vita e delle opere del governo   di cui fa parte. Cito dal Corriere della Sera (6 ottobre): “Ignazio la Russa, ministro della Difesa, lasciando via del Plebiscito mostra ad alcuni giornalisti il bozzetto con il logo del nuovo partito: la bandiera italiana con le parole 'viva la fica, Berlusconi Presidente'. "Notare che il ministro della Difesa sta giocando - per disegnare il logo del suo partito 'viva la fica' - con la stessa bandiera che, ogni due o tre settimane, mette sulla bara dei soldati morti in Afghanistan. Famiglia cristiana, il settimanale cattolico, ha già mandato una lettera: "presidente, se lei non si vergogna, ci vergogniamo noi. E chiediamo scusa, a suo nome, di fronte al mondo”. Ma in aula - testimonia e scrive il deputato Sarubb –- un leghista (pensate, si dovrebbe dire “collega”) ha gridato alla deputata   Lucia Codurelli (Pd ): “Vai a farti scopare, che è meglio". Scrive il Corriere che ho citato: “Alessandra Mussolini definisce "splendida" la battuta”.
ERA IL GIORNO in cui nessuna decisione è stata presa o annunciata sul nuovo governatore della Banca d'Italia, ma tutti i deputati hanno trovato in casella un testo anonimo in cui si descrive ognuno degli squallidi eventi italiani che coinvolgono e svergognano il premier come una serie di complotti orditi da giudici comunisti che, da un capo all'altro della penisola, tramano la rovina del Paese attraverso gli attacchi contro Berlusconi. Tutto ciò serve da cornice alla giornata e per dire: la legge bavaglio è legittima difesa. Più o meno la logica di Totò Riina quando ha organizzato la eliminazione di Falcone e Borsellino. Sono gesti da disperati, e basterebbe leggere il verbale della seduta   della Camera dei Deputati e le dichiarazioni urlate dei deputati di "forza gnocca" e "viva la fica" per constatare la disperazione. Però perché una armata di disperati in cerca precipitosa di qualche forma di salvezza vuole governare? È la risposta che non so dare all'angosciato lettore di cui ho pubblicato la lettera.

il Fatto 9.10.11
Noi non obbediremo alla legge bavaglio
B. può imporre i suoi diktat, ma i nostri lettori sapranno tutto su inchieste e processi. Lo consentono Costituzione e leggi europee
di Bruno Tinti


Come questo giornale ha detto molte volte, non obbediremo alla legge bavaglio. I nostri lettori leggeranno le informazioni derivanti da un processo penale quando sarà caduto il segreto investigativo e quindi quando saranno pubbliche per legge.
Come questo giornale ha detto molte volte, non obbediremo alla legge bavaglio. I nostri lettori leggeranno le informazioni derivanti da un processo penale quando sarà caduto il segreto investigativo (art. 329 codice di procedura) e quindi quando saranno pubbliche per legge. Senza attendere l’udienza preliminare o altre scadenze processuali che la fantasia di B&C si inventerà. E non solo le informazioni di rilevanza penale, questa ridicola categoria che la Federazione della Stampa ha accettato, rendendosi schiava volontaria del giudice che dovrebbe stabilire, lui, quali notizie si possono pubblicare e quali no. Un nuovo Minculpop, con veline preconfezionate per giornali e giornalisti megafono del potere. Le leggeranno tutte; tutte, si capisce, quelle interesse pubblico. B che ha pagato Mills perché dicesse il falso; ma anche B che si circonda di puttane e di magnaccia e che si fa ricattare. 
COMMETTEREMO un reato, forse parecchi reati. E magari, oltre a noi de Il Fatto, qualche altro giornalista disobbedirà alla legge più vergognosa che B&C hanno avuto il coraggio di inventarsi   . Perché delinquere e com-portarsi con sfrenata immoralità è cosa grave. Ma costruirsi un’immagine pubblica falsa attraverso la menzogna e l’intimidazione è da veri tiranni. E i tiranni vanno combattuti. E, prima ancora, per convincere abbastanza persone della necessità di combatterli, vanno smascherati; bisogna far vedere che persone spregevoli sono; e così “radunare le truppe”. Poi qualcuno le organizzerà e le condurrà “all’immancabile vittoria”. Diciamo che i giornalisti saranno l’avanguardia: è una buona ragione per farsi processare. Questi toni da farsa militaresca (non prendersi troppo sul serio aiuta sempre a essere consapevoli dei propri limiti) non devono spaventare. Rischi veri non ce ne sono   . Un po’ di udienze, un buon palcoscenico per parlare finalmente di democrazia, di diritti, di doveri, di specifiche vergogne rese pubbliche (mica male come effetto collaterale), un po’ di soldi spesi e poi il ritorno a casa con l’aureola dell’eroe.
Questa che segue   è una ragionevole anticipazione di quello che succederà. Un gip cattura un magnaccia che ha procurato puttane a B motivando il suo provvedimento con i risultati delle indagini del pm. Tra questi ci sono le trascrizioni di intercettazioni di conversazioni telefoniche nel corso delle quali B promette lucrose consulenze e ancora più lucrosi appalti al magnaccia e ai suoi amici; e anche manifesta preferenze per pratiche sessuali particolari e aspetto fisico delle donne con cui vuole accoppiarsi. Il magnaccia e il suo avvocato si leggono il provvedimento del gip che, per legge, da quel momento è pubblico. Il Fatto pubblica le trascrizioni; l’autore, il direttore e il vice direttore (non vedo perché Marco Travaglio se la debba   passare liscia) vengono denunciati e incriminati. Tutti chiederanno di essere sentiti dal pm e lì confesseranno la loro responsabilità penale: è vero, ho commesso il fatto e l’ho commesso con piena consapevolezza di violare la legge.
SARANNO quindi rinviati a giudizio (a piede libero: incensurati e con ragionevole probabilità di godere della sospensione condizionale della pena) oppure avanti al gip. Qui eccepiranno l’incostituzionalità della legge bavaglio per violazione dell’art. 21 della Costituzione e il giudice quasi certamente riterrà la questione “non manifestamente infondata” e la trasmetterà alla Corte. Questo per via dei precedenti di seguito sommariamente indicati:
Il diritto di cronaca può essere esercitato, anche quando ne possa derivare lesione all'altrui reputazione, purché: la notizia sia vera; esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti; l'informazione sia mantenuta   nei giusti limiti di obbiettività. (Cass. pen., 10/12/1997, n. 1473).
LA LIBERTÀ di cronaca (comprensiva della acquisizione delle notizie) e la libertà d’informazione, sono i cardini del regime di democrazia garantito dalla Costituzione; la stampa è strumento essenziale di quelle libertà. (Corte cost., sent. n. 1/1981)
La Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo sancisce (art. 10), il principio della libertà di manifestazione del pensiero. Tale diritto abbraccia la libertà di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche. I limiti della critica esercitabile nei confronti di dirigenti politici sono più ampi di quelli relativi ai semplici privati. (CEDU, 8/7/1986, Lingens c. Austria; 25/3/1985, Barthold c. Repubblica Federale di Germania).
Il diritto della stampa di informare su indagini in corso e quello del pubblico di ricevere notizie su inchieste scottanti prevalgono sulle esigenze di segretezza. (CEDU 7/6/2007)
Gli Stati contraenti sono vin-colati ad uniformarsi alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo dà delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. (Corte cost. sent. 39/2008) La Corte dichiarerà la   legge bavaglio incostituzionale (con questi precedenti!) e noi ce ne torneremo in redazione e ci ubriacheremo tutti. Ma, se non andasse così, ricominceremo tutto daccapo in Appello e in Cassazione (non l’eccezione di incostituzionalità già respinta e che non avrebbe senso riproporre). Condannati (tecnicamente siamo colpevoli), faremo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ci darà ragione sicuramente e condannerà B e i suoi amici a darci un sacco di soldi per risarcimento danni. Molto più ricchi di prima, torneremo in redazione e ci ubriacheremo con champagne millesimato. Insomma: B&C non imparano mai. Non basta far scrivere al Parlamento norme stupide per farle diventare leggi dello Stato; bisogna che siano conformi alla Costituzione italiana; e anche ai principi fondamentali delle democrazie occidentali. Con buona pace di B, il mondo, non comincia e non finisce ad Arcore.

il Fatto 9.10.11
Roberto Natale, presidente Fnsi
“Notizie sempre: pronti a gesti choc”


Disobbedienza civile. Adesso per bloccare il Parlamento che s'affanna per approvare il testo, poi per ignorare il bavaglio se diventerà legge. Perché le regole ingiuste non vanno rispettate, spiega Roberto Natale, presidente della Fedazione Nazionale della Stampa: “Bisogna fare il contrario di quel che prescrivono le leggi sbagliate. Il bavaglio sulle intercettazioni è una contraddizione per i giornalisti: noi dobbiamo dare le notizie senza preoccuparci di sanzioni, ma la politica pensa di mandarci in carcere. Mi sento di promettere ai cittadini che siamo disposti a qualsiasi gesto eclatante pur di garantire loro il diritto di essere informati”. La Camera procede, il Cavaliere chiede un voto, subito. “Noi combattiamo giorno per giorno il percorso parlamentare - dice Natale -, ma siamo sicuri che, attraverso la Rete o la Corte Costituzionale o la Corte Europea, riusciremo a rompere   il bavaglio senza perdere una notizia che, ripeto, è tale anche se non di rilevanza penale”. Faccia un esempio: “Forse non è reato un imprenditore che porta a casa del presidente del Consiglio un gruppo di belle ragazze, però che lo faccia per avere appalti o amicizie con una multinazionale è prima   di tutto una grossa notizia e poi, deciderà la magistratura, se un reato da perseguire”. C'è ottimismo in giro, eppure B. crede di aver trovato la cura giusta per risolvere i suoi guai: “No, io sono certo che per noi il bavaglio sarà come quell'obbligo assurdo per i medici quando dissero che   dovevano denunciare gli immigrati senza permesso di soggiorno. Il mestiere dei medici è curare, e così fecero, il nostro è dare le notizie e non potremmo sottrarci mai, a dispetto di qualsiasi conseguenza”. State preparando una manifestazione nazionale come nel 2009 e nel 2010, i cittadini   avvertono anche stavolta il problema? “I cittadini non sono stanchi della politica, ma dei politici. L'informazione è come l'acqua, un bene primario per una democrazia degna di questo nome, e se dovesse esserci un referendum, sarebbe un plebiscito. L'Italia ha gli anticorpi per rimuovere - conclude Natale - un male che vuole uccidere l'informazione”.
C.T.

l'Unità 9.10.11
Il Forum immigrazione mobilitato per le due leggi d’iniziativa popolare
Bersani: «Già nel nostro programma, l’Italia diventi un Paese inclusivo»
Il Pd: voto ai migranti e subito la cittadinanza a chi nasce in Italia

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La Stampa 9.10.11
L'esercito dei nuovi clandestini
Dei 25 mila migranti sbarcati sulle nostre coste dopo la «primavera araba» circa 12 mila hanno ottenuto il permesso di soggiorno temporaneo, 841 sono stati subito rimpatriati. E gli altri? Sono spariti nel nulla
di Niccolò Zancan


Che fine hanno fatto Sabri, Tarek e tutti gli altri? I ragazzi accampati in mezzo ai rifiuti, sulla collina della vergogna. Yassine con la maglietta fradicia, che ripeteva come una litania: «Italia dolce vita. Italia dolce vita». Ed era il suo modo per dire che non si aspettava un’accoglienza così.
Sono i tunisini di Lampedusa. Quelli arrivati prima. I frutti della rivoluzione. Trasbordati su un traghetto e rinchiusi nel centro di Manduria. Scappati in massa. A piedi per chilometri. Persi e ritrovati nelle stazioni di confine. Respinti dalla Francia e salvati in extremis, con decreto legislativo firmato dal governo italiano il 7 aprile: «Possono chiedere il permesso di soggiorno temporaneo i cittadini appartenenti ai Paesi del Nord Africa affluiti sul territorio nazionale dall’1 gennaio 2011 al 5 aprile 2011». Prima e dopo. Sommersi e salvati.
Oggi, passati sei mesi, si può dire che molti di quelli che hanno in tasca il permesso sono ancora in viaggio. «Stanno cercando disperatamente di inserirsi, ma sbattono contro una situazione economica difficilissima. Non trovano aiuti». L’avvocato Lorenzo Trucco è presidente dell’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Ha conosciuto molti di quei ragazzi, di pochi può raccontare un lieto fine: «Due di loro, partiti da Zarzis, sono stati assunti come panettieri nel torinese».
I numeri spiegano bene. Erano 25 mila gli aspiranti. Sono riusciti ad ottenere il permesso in 11.800. In questi sei mesi il governo italiano ha rimpatriato 841 tunisini. Molti, dunque, sono rinchiusi nei Cie, dispersi sul territorio nazionale o altrove. Le regioni italiane si sono spartite 22.212 profughi. Se ne occupano la Caritas, Connecting People ed altre associazioni umanitarie. Il problema più grave, però, è che i tunisini in regola non stanno molto meglio di quelli già finiti in clandestinità. Venerdì il governo ha concesso una proroga di sei mesi. Ma mancano i soldi persino per chiedere il rinnovo. A Bologna, una rete di associazioni, ha istituto «il kit della dignità»: 94 euro per le marche da bollo e i documenti necessari.
Cristina Molfetta ha conosciuto i tunisini di Lampedusa lavorando per l’ufficio della Pastorale Migranti: «All’inizio sembravano spariti tutti. Ma poi sono tornati. Li abbiamo visti lavorare in Piemonte per la raccolta della frutta. Prima come stagionali nelle regioni del Sud Italia. La stragrande maggioranza, dopo il permesso di soggiorno, non ha ricevuto alcun genere di sostegno». Così non è facile emergere. Lo sta verificando sul campo anche l’avvocato Alessandra Ballerini, consulente per l’immigrazione della Cgil e di Terre des Hommes. «Sembra che essere tunisini rappresenti un’aggravante. Non vengono considerati profughi né meritevoli di nulla. A marzo erano gli eroi della rivoluzione dei gelsomini, ora li trattiamo da pezzenti. Stanno facendo una fatica enorme. Per loro c’è solo l’opzione lavoro nero».
Molti hanno rinunciato. Fine del sogno. Sono già tornati a casa. Ma di là del mare, l’arcivescovo di Tunisi Maroun Lahham, mette tutti in guardia: «Per uno che torna, tanti altri stanno cercando di partire. Qui il turismo è calato del 60 per cento. L’economia non riesce a ripartire. La disoccupazione è passata dal 12 al 40 per cento. Sono più di centomila i ragazzi senza lavoro. Ecco spiegato questo flusso continuo». Italia dolce vita, ancora e nonostante tutto.

La Stampa 9.10.11
Pd, in campo i quarantenni ma sono già divisi in tre
Per sostenere Renzi arrivano il produttore dell’Isola dei famosi e Baricco
Il 16 i più vicini a Bersani il 22 il gruppo Civati il 28 il sindaco di Firenze
di Fabio Martini

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Corriere della sera 9.10.11
La sinistra di governo è divisa su tutto
Scelta del leader, riforme, politica estera: i nodi (aperti) nell'opposizione
Economia, Confindustria e inviti della Bce lacerano i Democratici
di Antonio Polito

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Corriere della Sera 9.10.11
Democrazie amiche della religione
I nuovi confini della tolleranza
di Tony Blair


Nel ventunesimo secolo sarà improbabile assistere al conflitto di ideologie politiche che ha dominato invece il ventesimo. Ma lo scontro potrebbe essere a livello di ideologie religiose e culturali.
Il mondo sta sperimentando un cambiamento rapido e tumultuoso. Per questo lo studio e la comprensione della religione sono oggi più importanti che mai. La globalizzazione, accelerata dalla rivoluzione delle comunicazioni, guida questo processo abbattendo confini, alterando la composizione di intere comunità, persino di interi Paesi.
I cambiamenti creano oggi sfide condivise che possono essere affrontate solo unendo le forze: terrorismo, crisi finanziaria, cambiamenti climatici e persino la nostra risposta alla primavera araba.
L'interdipendenza è la condizione umana di oggi. L'interconnessione è la realtà. Commerci, migrazioni, viaggi, portano persone, culture e religioni faccia a faccia nelle nostre città, spesso al di là della libera scelta personale.
Internet crea non meno importanti incontri, molti dei quali positivi. Ma può portare anche divisioni e ostilità sociale e alcune conseguenze vengono attribuite alla religione. Oggi un terzo della popolazione mondiale vive in Paesi in cui stanno crescendo le restrizioni nei confronti della fede e le ostilità sociali basate su differenze religiose.
Diventa quindi difficile per le persone praticare il proprio credo e la stessa fede può diventare sinonimo di disprezzo e settarismo, e non di riconciliazione e giustizia, i valori fondamentali delle fedi del mondo. Il diritto alla libertà di religione sancito nella Dichiarazione universale delle Nazioni Unite è spesso abrogato in nome di una presunta sicurezza nazionale. Le restrizioni ai diritti legittimi delle minoranze religiose non aiutano l'armonia sociale. È evidente che, invece, siano all'origine dei crescenti conflitti legati alla religione determinando altre conseguenze negative. E non è una buona notizia per i governi che perdono credibilità e legittimità nei confronti dei propri cittadini.
L'Europa è tutt'altro che immune da queste pressioni. In un rapporto recente del Pew Research Center, nel 2009 l'Italia rientra nella categoria dei Paesi con un basso livello di restrizioni governative sulla religione ma con una moderata ostilità sociale nei confronti delle persone di altre fedi. Come molti Paesi del Sud Europa, la cattolica Italia è sempre più consapevole di essere il confine nord del musulmano Nord Africa.
Questo è il background della mia Faith Foundation che tiene una serie di 4 seminari in autunno (il 13 ottobre a Roma, il 27 a Bologna; il 10 novembre a Milano e il 30 a Venezia, ndr), in collaborazione con la Fondazione per la Sussidiarietà, l'Università Luiss Guido Carli di Roma, l'Università di Bologna, l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e l'Università Ca' Foscari di Venezia.
La nostra iniziativa Faith and Globalisation (fede e globalizzazione) coinvolge Università in tutto il pianeta per analizzare l'importanza della religione nel mondo interconnesso del ventunesimo secolo.
La prospettiva italiana in questa serie di seminari conferma il ruolo che la religione svolge nelle complesse sfide contemporanee che la società italiana si trova ad affrontare. In primo luogo si assiste a un cambiamento significativo del ruolo della fede nella crescente contrapposizione fra pensiero religioso e secolare a proposito dell'ordinamento della società e delle priorità dei valori. In secondo luogo si assiste al bisogno di integrare i migranti di minoranze religiose, la maggior parte delle quali è costituita da islamici che approdano in una società tradizionalmente cattolica. Questo determina una nuova domanda in termini di educazione, cura pastorale, dialogo interreligioso e un ripensamento dell'insegnamento sociale cattolico.
L'Italia non è la sola a confrontarsi con la richiesta di pluralismo religioso. L'Europa non ha una posizione univoca sul ruolo della religione nella vita pubblica e neanche sul pieno significato del diritto universale alla libertà di religione delle Nazioni Unite.
Nel mondo non mancano gli esempi di successo di religioni «amiche della democrazia» spesso associate a «democrazie amiche della religione». Dove questi esempi mancano, la religione diventa parte del problema soprattutto quando le democrazie secolari si rifiutano di vedere come la religione permei gli spazi della politica.
Come il secolarismo, o la laicità, abbia a che fare con la partecipazione delle persone di fede nel dibattito pubblico, nella società civile, nella religione e nella sua relazione con lo Stato, sta diventando rapidamente una questione politica chiave per l'Europa di oggi. Abbiamo visto molti modi, legittimi e illegittimi, con cui le religioni influenzano l'ambito pubblico, le differenti forme di tradizione repubblicana e altri approcci secolari alla religione nella vita politica. Ma cosa significa per una democrazia essere «amica della religione» e come possono i governi democratici salvaguardare i diritti delle minoranze religiose?
Gli uomini di Stato e i leader politici che ignorano l'importanza dell'identità religiosa oggi lo fanno a loro rischio e pericolo. La tensione fra diritti religiosi individuali e collettivi, il bisogno di una identità aperta che convive con la diversità, per una libertà religiosa posta al cuore dei diritti umani, sono tutti problemi comuni all'intera Europa. Creare una cultura di dialogo, rispetto e comprensione per le altre fedi non è un optional.
«La persona umana ha diritto alla libertà religiosa e tutte le persone, in ogni parte del mondo, dovrebbero essere immuni da costrizioni da parte di individui, gruppi sociali e ogni potere umano» scrive Giovanni Paolo II in Ecclesia in Europa.
Ma, per un'Europa sempre più secolarizzata, anche le più fondamentali domande devono essere poste e ottenere risposta: «Perché la fede è importante in un mondo globalizzato?». «Quali valori e virtù sono richiesti in questo passaggio di globalizzazione per sostenere il pluralismo politico e religioso delle nazioni democratiche del ventunesimo secolo?». «E di quale educazione hanno bisogno i giovani per essere pronti a vivere questo mondo in cui differenti fedi, inevitabilmente, si incontrano?».
Durante la mia esperienza come Primo Ministro, la fede è stata una forza propulsiva straordinaria nel campo dello sviluppo internazionale, della salute e dell'educazione. Dobbiamo ricercare e costruire i valori universali nella comprensione di giustizia e carità come temi religiosi principali delle fedi monoteistiche.
Lo studio di fede e globalizzazione è diventato essenziale per l'attuale vita accademica. Vorrei che si radicasse nelle Università italiane per aiutarci a comprendere l'impatto della religione, positivo o negativo che sia.
Uno straordinario esempio di Chiesa globalizzata che ha saputo creare una solida rete di interconnessione è l'Unione Superiore Maggiori d'Italia, che contrasta con la sua battaglia il traffico sessuale, il lato più oscuro della globalizzazione, lavorando con Religiose in giro per il mondo.
Una protagonista assoluta di questa missione pastorale nei confronti delle donne vittime della tratta, Suor Eugenia Bonetti, ha affermato con orgoglio: «Abbiamo una rete più potente di Al-Qaeda». Possa questa essere la realtà dominante nel secondo decennio dopo l'11 settembre.
Fondatore e leader della Tony Blair Faith Foundation. (www.tonyblairfaithfoundation.org). Mr Blair è lieto che la sua Fondazione collabori con la Fondazione per la Sussidiarietà. (www.sussidiarieta.net)

Corriere della Sera 9.10.11
La vergogna dell'armadio (della vergogna)
di Paolo Fallai


Non può esserci pace senza giustizia. E sarebbe una verità quasi banale, se non vivessimo in un Paese che, da decenni, si sforza con ogni mezzo di negarla. È tornato in libreria, con una nuova edizione, il libro di Franco Giustolisi, che ne è diventato l'assioma: L'armadio della vergogna (Beat, pagine 383, 9). La storia che Giustolisi racconta è semplice e terribile: fra il 1943 e il 1945 decine di migliaia di civili, tra loro bambini, donne, vecchi, vennero uccisi nel corso di 2.273 stragi compiute dai nazisti e dai fascisti. Avete capito bene: 2.273 stragi, in una geografia dell'orrore che non risparmia un angolo d'Italia. In questo lugubre elenco vi sono nomi conosciuti, come Stazzema, Marzabotto Fivizzano, Fossoli, Cefalonia, accanto a un elenco impressionante di località grandi e piccole che si fa fatica a trovare anche sulla carta geografica. Giustolisi, giornalista e scrittore, ricostruisce come dopo la Liberazione, molti dei responsabili di questi orrendi massacri vennero individuati. E di come siano stati aperti centinaia di fascicoli in vista di processi che avrebbero dovuto punire i colpevoli. Ma non ci furono né istruttorie, né processi. Nel 1947 migliaia di fascicoli vennero sepolti in un vecchio armadio «marrone scuro, in più parti tarlato» finito in un «andito seminascosto» di palazzo Cesi, in via degli Acquasparta a Roma, sede della Procura generale militare. Per essere sicuri che a nessuno venisse in mente di aprirlo, quel mobile aveva le ante rivolte verso il muro. Venne scoperto solo nel 1994 quando il procuratore militare Antonino Intelisano, preparando l'estradizione dall'Argentina dell'ufficiale delle SS Erich Priebke, chiese e ottenne i documenti sulla strage delle Fosse Ardeatine. È in quel momento che un vecchio mobile da ufficio, diventa «l'armadio della vergogna». Dalla sua scoperta sarebbe stato lecito aspettarsi uno scatto di dignità, capace di restituire al nostro Paese il coraggio di perseguire e finalmente processare i massacratori. Neppure questo è successo. Neanche dopo la pubblicazione della prima edizione di questo libro, ormai sette anni fa. «L'armadio della vergogna — dice Franco Giustolisi, che non ha perso la volontà di combattere, ma fatica a trovare ragioni di speranza — ormai è diventato la "vergogna dell'armadio"». Il silenzio della politica, le pavide esitazioni del Parlamento, le vergognose compromissioni tra eredità politiche opposte, unite solo dall'interesse a insabbiare la verità, sono i genitori dell'incapacità di guardare a occhi aperti la nostra storia. Ora questa nuova edizione è nelle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dovrebbe finire anche in quelle dei nostri studenti, per completare i loro studi di storia contemporanea e avviarli alla scoperta di discipline non comprese nei programmi ufficiali: l'umiliazione delle vittime, la vigliaccheria di una nazione.

Corriere della Sera 9.10.11
L'Islanda indaga alla Buchmesse
Indridason: «Il mio giallo sul dramma della violenza alle donne»
di Dino Messina


Come il vulcano dal nome impronunciabile che all'improvviso ha sconvolto le nostre vite interrompendo nel 2010 il traffico aereo e influenzando questi strani anni meteorologici, così la letteratura islandese irrompe alla Buchmesse di Francoforte dispiegando una ricchezza inaspettata. Certo il Dna non mente, era stato Borges ad affermare che con le loro saghe medioevali gli islandesi avevano scoperto quell'arte del romanzo che i vari Flaubert e Balzac avrebbero reso grande nell'Ottocento. Ma stupisce vedere una nutrita pattuglia di scrittori in rappresentanza di un Paese che è grande geograficamente poco meno di un terzo dell'Italia ma che ha soltanto 320 mila abitanti. Da noi sono tradotti classici come Sotto il ghiacciaio di Halldór Laxness, unico premio Nobel islandese (1955) o La corona d'alloro di Thor Vilhjamsson, grande scrittore scomparso quest'anno (entrambi usciti da Iperborea). Ma i nostri editori sono attenti anche agli autori che si sono affermati di recente, come Arnaldur Indridason, classe 1961, uno dei maggiori interpreti del noir nordico, che martedì pomeriggio sarà uno dei relatori alla cerimonia d'apertura della 63esima Fiera del libro.
«L'appuntamento di Francoforte è un grande evento per una piccola nazione come la nostra, un omaggio sia a una tradizione che risale al Medioevo sia agli scrittori contemporanei», ci dice Indridason, tradotto in una cinquantina di lingue e in italiano da Guanda, editore che ha appena mandato in libreria Un doppio sospetto (pagine 316, 18), giallo che ruota attorno al dramma della violenza sulle donne. Una storia che richiede un investigatore particolare. Mandato in viaggio verso i fiordi dell'est il suo tormentato detective Erlendur Sveinsson, personaggio amato in Germania e nei Paesi scandinavi al pari di Maigret, l'autore ha affidato le indagini a una collega rimasta a Reykjavík nella sezione omicidi. Sicché il tono, rispetto alle precedenti storie come La voce, Un corpo nel lago, Un caso archiviato, è meno cupo, la narrazione risulta più morbida. E lo sguardo sulla società attraverso il punto di vista di Elínborg, investigatrice ma anche moglie e madre di tre figli, si allarga al mondo degli adolescenti, al loro totalizzante rapporto con il mondo di Internet, alla diffusione della droga che ha conosciuto un'escalation anche tra i giovani islandesi. L'indagine infatti parte da un omicidio e da un potente psicofarmaco usato per annullare le difese della vittima a scopo di violenza carnale.
«Ho pensato che per trattare un caso di questo genere — confessa Indridason — fosse necessario un tocco femminile. E sono ricorso all'aiuto di Elínborg, una delle collaboratrici di Erlendur, il mio maggiore personaggio». Erlendur, protagonista dei romanzi di Indridason, ritornerà nel prossimo libro tradotto in italiano, che ci dice l'autore toccherà anche il tema della crisi economica: «La storia si svolge negli anni precedenti al crollo, quando il mondo globalizzato di cui ci parlavano era pervaso da una incredibile avidità».
Chi conosce un po' il giallo nordico, a cominciare dalla trilogia di Larsson, ha imparato che non si tratta di un genere di pura evasione. E ciò vale anche per l'autore di Un doppio sospetto, che confessa: «Tra le detective stories amo quelle della coppia svedese Maj Sjöwall e Per Wahlöö che scrivevano negli anni Sessanta e Settanta. Mi affascinava la maniera realistica in cui descrivevano la società del tempo così come amavo il loro principale personaggio, Martin Beck. Tra gli americani mi piace molto Ed McBain».
A una lettura della società contemporanea analizzata nei suoi aspetti più critici, Indridason, ex giornalista con una laurea in storia, unisce una sensibilità per «il mondo di ieri» (non a caso uno dei suoi autori preferiti è Stefan Zweig), che si avverte particolarmente in alcune opere come Un corpo nel lago, la cui vicenda si svolge in parte nella Lipsia, ex Germania dell'Est, degli anni Cinquanta.
Le atmosfere cupe della Guerra Fredda, le eredità scomode del secondo conflitto mondiale sono ancora temi vivi nella narrativa di Indridason, capace di far dialogare il mondo di ieri con la contemporaneità. Così come una delle costanti dei suoi romanzi è la difesa della lingua: «In Islanda siamo 320 mila persone a parlare l'islandese. È stato detto che la nostra lingua, così come noi la conosciamo, sparirà tra cento anni per l'influsso dell'inglese. A mio avviso è invece molto importante mantenerla viva anche se diventa un'impresa sempre più difficile davanti all'influenza dell'industria culturale americana attraverso il cinema, la televisione, il linguaggio del computer. Il mio principale personaggio, il detective Erlendur Sveinsson, è molto attento a questa deriva della lingua nazionale. Ed è una delle preoccupazioni che condivido con lui».
Lettore delle saghe medioevali, Indridason confessa di non conoscere molto della letteratura italiana contemporanea, a parte Il nome della rosa di Umberto Eco, che considera una «detective story molto brillante». Ed è poco stupito, o comunque molto meno di alcuni critici italiani, del premio Nobel assegnato al poeta svedese Tranströmer: «Sono davvero contento che sia stato un poeta a vincere il Nobel, perché sono un avido lettore di versi, soprattutto islandesi. La poesia influenza molto il mio lavoro. Il mio poeta preferito in Islanda è attualmente Hannes Pétursson, che secondo me parla della condizione umana in un'isola lontana, della nostra storia e della nostra natura in uno stile davvero toccante».

Corriere della Sera 9.10.11
gli Indignati diversi dai No Global
sono Riformisti, non Rivoluzionari
di Ennio Caretto


È troppo presto per affermare che i venti del cambiamento che hanno prodotto la primavera araba in Medio Oriente e la protesta degli indignati in Europa e in America saranno forti come quelli del '68. Ma per quanto riguarda l'Occidente non è troppo presto per distinguere tra il movimento degli indignati e il movimento dei no global, nato a Seattle nel '99, alla conferenza annuale dell'Organizzazione mondiale dei commerci.
Si può già dire che i no global, la cui campagna fu ed è spesso macchiata dalla violenza dei black bloc, ebbero più torto che ragione, mentre gli indignati, le cui dimostrazioni sono state sinora pacifiche tranne che in Inghilterra, hanno più ragione che torto. Il motivo è semplice: la globalizzazione, che ha portato benefici quasi ovunque, non la si può stroncare senza cadere in una crisi economica e finanziaria più grave di quella del 2008, la si può solo regolamentare. Le riforme chieste dagli indignati, invece, riforme dei sistemi politici nei Paesi capitalisti, sistemi che contribuirono al crack di tre anni fa e che minacciano l'impiego e il welfare, sono realizzabili.
Non sorprende che i venti del cambiamento soffino sulle economie e sulle società occidentali. Sorprende semmai che soffino tardi. I no global rappresentarono e rappresentano una minoranza, ma potenzialmente gli indignati rappresentano la maggioranza di chi lavora e paga le tasse. Non sono «il 99 per cento» del pubblico come sostiene «Occupare Wall Street», ma possono essere i suoi due terzi, quei ceti medio-bassi a cui dal 2008 vengono addossati sempre maggiori sacrifici. Il loro movimento non è rivoluzionario, al contrario è un movimento dei diritti civili, come quello dell'integrazione in America cinquanta anni fa.
Nella crisi più grave dalla Grande Depressione negli anni Trenta dello scorso secolo, i giovani senza futuro, le madri e i padri disoccupati, le famiglie senza assistenza adeguata rischiano di diventare cittadini di serie B. Per ora gli indignati ne incanalano e controllano la protesta. Ma se gli attuali vuoti politici non verranno riempiti e i perduranti eccessi finanziari non verranno fermati, le tensioni sociali esploderanno. Lo hanno già ammonito banchieri centrali come Ben Bernanke e Jean Claude Trichet.

Corriere della Sera 9.10.11
«Viviamo in un mondo di pace»
Guerre e violenze: Steven Pinker rilegge le statistiche storiche. Ecco la conclusione
di Massimo Gaggi


NEW YORK — L'Olocausto? I milioni di russi morti nei campi di prigionia e nelle purghe staliniane? I genocidi della Cambogia, del Ruanda, del Darfur? I 150 mila morti, solo pochi anni fa, nelle guerre balcaniche? Un milione di nigeriani trucidati negli anni Sessanta nella guerra separatista del Biafra? «Tragedie dolorose ma minori, se le confrontiamo con tutti gli altri periodi della storia dell'umanità. Voi giornalisti tendete ad alimentare una percezione diversa, ma la verità è che viviamo nell'era della Grande Pace. L'ultima guerra nella quale si sono confrontate grandi potenze è quella di Corea: 1953, quasi sessant'anni fa. Non era mai successo. E non parliamo solo di violenza pubblica: anche quella privata è in rapido calo. La strage familiare che va in prima pagina ci sarà sempre, ma i numeri sono inconfutabili: in pochi decenni violenze domestiche e stupri sono calati dell'80 per cento».
In un loft del West Village, dove un gruppo di sociologi, filosofi, antropologi, matematici e giornalisti si è riunito per discutere di The Better Angels of Our Nature («Gli angeli migliori della nostra natura»), un saggio sul declino della violenza nel mondo che esce in questi giorni negli Stati Uniti, l'autore, Steven Pinker, mi spiega con grande fervore che viviamo nel migliore dei mondi possibili: «Chi nasce oggi ha una probabilità cinquanta volte inferiore di essere ucciso rispetto all'uomo del Medio Evo». E la minaccia del terrorismo? «Spaventosa, non si può certo abbassare la guardia. Fa notizia, ma dal punto di vista dei numeri è poco significativa. E c'è un motivo: l'obiettivo del terrorista è quello di diffondere il massimo livello di paura per ogni unità uccisa».
Il libro è pieno di grafici che illustrano il calo della violenza nei secoli, soprattutto l'ultimo, ma la sua analisi risale fino alla preistoria. L'applicazione del metodo statistico a un'analisi sulla violenza ha sicuramente un suo valore. In fondo anche la scienza medica lascia alla statistica il giudizio sull'efficacia dei farmaci anticancro o delle terapie per le malattie cardiovascolari.
Ma che dati si possono raccogliere sulla preistoria o sugli assiro babilonesi? Pinker, psicologo e studioso di scienze cognitive di Harvard che ha già fatto molto discutere coi suoi saggi sui meccanismi della mente e sull'impatto del linguaggio nel comportamento degli uomini, è abituato a fronteggiare sguardi scettici. Fa un sorrisetto di comprensione e si mette a illustrare le basi scientifiche del suo metodo di ricerca, difende l'accuratezza dei «database» che ha usato: «I governi dell'antichità ci hanno lasciato molti documenti utili per ricostruire le dimensioni dei massacri e oggi possiamo contare anche sui risultati di discipline nuove come l'archeologia forense, una specie di Csi della preistoria. Gli studi fatti sugli scheletri trovati nei siti archeologici ci dicono che nel 15 per cento dei casi questi uomini andarono incontro a una morte violenta».
Una percentuale che scende man mano che l'uomo cacciatore comincia a dedicarsi alla pastorizia, all'agricoltura, costruisce le prime comunità. La svolta che riduce la violenza diffusa sul territorio risale alla formazione degli Stati, col loro monopolio dell'uso legittimo della forza. Certo, l'aveva già spiegato Hobbes, non c'era bisogno di Pinker. Ma nel suo libro lui fotografa in modo inedito quei fenomeni.
Lo Stato più sanguinario della storia? «Gli aztechi in Messico. Sotto il loro regime si arrivò a un 5 per cento della popolazione eliminato con la violenza. Per contro in Europa, anche nei periodi più sanguinosi — il XVII secolo e la Seconda guerra mondiale — i morti nei conflitti non sono mai andati oltre il 3 per cento della popolazione». E l'Europa di oggi, scossa da una crisi economica senza precedenti, piena di debiti e di disoccupati? Per Pinker è un'isola felice: «L'Europa occidentale non è solo il posto più sicuro in cui oggi si può vivere, ma è anche il luogo più pacifico dell'intera storia dell'umanità». Sempre che non si consideri la prima metà del Novecento. «Certo, quello cambia il quadro — ammette Pinker — ma solo fino a un certo punto. I 55 milioni di morti della Seconda guerra mondiale sono un'enormità, ma non sono molti più dei 40 milioni uccisi nel XIII secolo dai conquistatori mongoli. E allora la popolazione del mondo era un settimo rispetto a quella del 1945. La verità è che il conflitto scatenato da Hitler è solo al nono posto tra le stragi della storia dell'umanità, mentre la Prima guerra mondiale è fuori dalla top ten».
Il sociologo Malcom Gladwell (suoi Blink e Il Punto critico) lo ascolta assorto senza mai aprire bocca (forse memore di una vecchia polemica sui giornali nella quale Pinker lo definì un «genio minore»). Chris Anderson, organizzatore della Ted, la conferenza di intellettuali e tecnologi che si tiene ogni anno in California, elogia con enfasi la sua ricerca anche se poi, sfogliando il tomo, nota: «Ottocento pagine. Nell'era digitale non se le legge nessuno. Però i capitoli sono bene ordinati, ognuno trova quello che gli interessa. Mi piace come spieghi questi fenomeni».
Già, perché siamo diventati più miti? È cambiata la nostra genetica? «Lo escluderei — risponde Pinker avvertendo che qui sta solo ragionando su ipotesi —. Non siamo cambiati biologicamente: tre quarti degli uomini e due terzi delle donne ammettono di avere ogni tanto delle fantasie nelle quali uccidono qualcuno. I fattori che ci hanno cambiato nei secoli, a mio avviso, sono tre: il monopolio della violenza legittima passato agli Stati, la crescita dei commerci e una serie di fattori — soprattutto la diffusione dei libri, dell'istruzione, dei viaggi, del giornalismo — che hanno sviluppato la nostra empatia, lo spirito di cooperazione. Più ancora del nostro spirito morale, hanno sviluppato il nostro autocontrollo, la capacità di capire le conseguenze delle nostre azioni. Siamo più cosmopoliti, comprendiamo meglio le ragioni degli altri. E non sottovalutate l'emancipazione della donna, il successo delle battaglie per i diritti civili. Certo, vediamo ancora violenze e discriminazioni inaccettabili, ma vi siete dimenticati che ancora negli anni Cinquanta nel sud degli Stati Uniti era normale vedere una pubblicità nella quale il marito picchiava la moglie perché non aveva comprato la marca giusta di caffè?».
Su alcuni giornali il filosofo John Gray ha criticato i toni da «fine della violenza» di Pinker: «È pericoloso far credere che l'Illuminismo e l'età della ragione abbiano prodotto cambiamenti così radicali». Un altro filosofo, il docente di bioetica di Princeton Peter Singer, che definisce il libro «un'opera di suprema importanza» in una recensione che uscirà oggi sul «New York Times», nota, tuttavia, che il mondo rimane esposto a rischi come quelli del terrorismo nucleare e di uno scontro di civiltà tra Occidente e Islam. «Se poi hanno ragione gli studiosi della Columbia University per i quali la violenza nelle zone tropicali del mondo cresce quando "El Niño" fa salire le temperature», Pinker dovrà inserire nel suo studio anche la variante riscaldamento globale.
«So che tutto è reversibile, che ci sono incognite ovunque — conviene lo studioso di Harvard —. Ma col mio lavoro credo di aver dimostrato che il passato è meno innocente e il presente meno sinistro di quanto comunemente si crede».

Corriere della Sera 19.10.11
Il rapporto tra pensiero scientifico e azione
Hegel e Darwin sono stati i  teorici del riscatto: l'evoluzionismo e la definizione filosofica del rapporto servo padrone sono la base della moderna emancipazione dei popoli. Ma oggi serve un cambiamento di codice: le lotte per la libertà devono partire dal basso
Schiavitù
Idee per liberare i nuovi dannato
di Giulio Giorello


«Ovunque l'Europa pone piede si direbbe che la morte perseguiti l'aborigeno»: Charles Robert Darwin sul finire del Viaggio del Beagle (1839) constatava come il contatto con la cosiddetta civiltà comportasse, se non lo sterminio, una drastica diminuzione della popolazione indigena. Guerra, malattia, sfruttamento: le cause erano sempre le stesse «dalle Americhe alla Polinesia, dal Capo di Buona Speranza all'Australia». Ciò, notava ancora il naturalista, ha fatto sì che i conquistatori si trovassero sempre più spesso costretti a importare manodopera da altrove. In particolare, la tratta dei neri era stata giustificata con motivi teologico-umanitari fin da quando Bartolomé de Las Casas, in pieno Cinquecento, aveva denunciato la ferocia dei connazionali spagnoli nei confronti degli indios, salvo suggerire l'impiego di «più robusti» schiavi importati dall'Africa. Poi, solerti studiosi di fisiognomica avevano cercato nell'anatomia del corpo il fondamento dell'«indole servile» dello schiavo nero, dopotutto «felice» della sua condizione, come dichiarava Robert FitzRoy, il comandante del brigantino che aveva accolto il giovane Charles come «naturalista di bordo», anche se all'inizio la forma del naso di Darwin aveva insospettito l'uomo di mare circa «energia e determinazione» del nuovo arrivato.
Il collerico capitano, che i marinai avevano soprannominato «caffè bollente», aveva infine messo a tacere le perplessità, non avendo idea del ginepraio in cui si era cacciato ammettendo a bordo quello che lui stesso definiva «il nostro filosofo». Darwin infatti pensava da «sovversivo», e non solo in biologia. Il nonno Erasmus, rinomato medico, tombeur de femmes e brillante riformatore, «aborriva la schiavitù», mentre l'intera famiglia disprezzava quei «fogli scurrili» in cui si sosteneva che gli schiavi erano soddisfatti del cibo e della sicurezza che i padroni garantivano loro.
Tutto questo potrebbe suonare bizzarro a chi, speculando sul titolo completo del capolavoro del 1859, L'origine delle specie, ovvero la conservazione delle razze avvantaggiate nella lotta per la vita, crede ancora allo stereotipo di un Darwin profeta dell'imperialismo, del razzismo e dell'eugenetica: è la maschera che gli è stata imposta dal cosiddetto darwinismo sociale, che personalmente lui detestava. In un libro ben documentato (Colpa di Darwin?, Utet, 2009), lo storico del pensiero scientifico Antonello La Vergata ha smantellato tutto questo, mostrando come coloro che cercano di giustificare la discriminazione etico-politica invocando «leggi naturali» pecchino della stessa arroganza morale di quanti sovrappongono i loro valori assoluti al corso della natura e della storia. E due grandi biografi di Darwin, Adrian Desmond e James Moore, in Darwin's Sacred Cause (anch'esso del 2009) sostengono che proprio la passione per la «sacra causa», cioè l'eliminazione della schiavitù, doveva spingere il tranquillo Charles alla concezione evoluzionistica di Homo sapiens: dal lombrico al cittadino britannico l'avventura umana è emersa dall'incessante ridistribuzione della materia vivente, governata dalla selezione naturale, esercitata da un ambiente geologico in perpetua trasformazione; per di più, l'umanità attuale, con tutte le sue varianti, deriva «da un unico ceppo».
A ribattere agli avversari, che teorizzavano il «pluralismo», cioè l'origine separata di ciascuna «razza», Darwin spediva il suo «mastino» Thomas Henry Huxley, mentre lui restava a gingillarsi con le orchidee, un po' come capita, nei gialli di Rex Stout, a Nero Wolfe, che tira le fila dell'inchiesta chiuso nella sua serra, lasciando al vigoroso Archie Goodwin il «lavoro sul campo». Comunque, quella clausura darwiniana doveva infine mostrare che nelle trame dell'evoluzione non c'è posto per alcun apartheid!
Guai agli «educatissimi selvaggi d'Inghilterra» che ai neri «non concedono il rango di loro fratelli neppure agli occhi di Dio» o della natura, diceva Darwin. Il Parlamento aveva vietato il commercio degli schiavi entro l'Impero britannico nel 1807; decretato la fine della schiavitù nelle colonie nel 1833; affrancato nel 1838 centinaia di migliaia di schiavi nelle Indie occidentali. Ma non bastava. Fin dal tempo della Guerra d'indipendenza delle tredici colonie del Nordamerica, protestanti pieni di zelo e illuministi amanti del genere umano nel Regno Unito avevano rimproverato i libertari americani di essere sì ribelli alla Corona ma anche proprietari di schiavi! Invece, le élite britanniche del commercio e della finanza dovevano guardare con sempre maggior simpatia all'impero del cotone e appoggiare gli Stati del Sud nel loro tentativo di rompere con il Nord industriale. Riorientare l'opinione pubblica in favore degli abolizionisti, soprattutto dopo che il 1° gennaio 1863, in piena Guerra civile, il presidente Abraham Lincoln aveva dichiarato illegale la schiavitù, era sentito come compito primario da tutti gli «amici inglesi dell'umanità», compresi Darwin e i suoi. Si è detto che la «crociata della Gran Bretagna contro la schiavitù» altro non fosse che una mossa funzionale al libero mercato, che trovava ormai un ostacolo nell'economia schiavistica. Al contrario, Kwame Anthony Appiah (attualmente all'Università di Princeton), sostiene che tale campagna, «ben lungi dall'essere sospinta dagli interessi economici britannici, è andata contro di essi», come ben capiva il leader conservatore Benjamin Disraeli, che la trovava «forse virtuosa, ma non saggia».
Ma cos'è davvero la virtù, se viene separata dalla saggezza? Nel suo Il codice d'onore (Raffaello Cortina, 2011), Appiah risale a Tommaso d'Aquino, il quale aveva dichiarato che «conferendo onore diamo un riconoscimento all'onestà, e il costitutivo dell'onestà si identifica con la virtù»: con un paziente lavoro sulle consuetudini e sulle parole, gli abolizionisti sono riusciti a mutare la schiavitù da «condizione naturale» a vergogna per la democrazia, facendo breccia là dove non aveva sfondato l'entusiasmo dei predicatori evangelici o dei teorici della pura ragione. Con buona pace di coloro che pensano che l'impresa scientifica sia qualcosa di asettico, che esclude passione e sentimento morale, Darwin aveva dato il suo non piccolo contributo! Per di più, al tempo del proclama di Lincoln, aveva compreso come l'emancipazione non coincidesse con il riconoscimento dei pieni diritti umani degli schiavi liberati, destinati a essere discriminati sul piano della società civile, dall'istruzione al matrimonio.
Meglio era per i neri — diceva — un luogo come Haiti, dove costituendo la maggioranza della popolazione avrebbero ottenuto il posto che loro spettava come esseri umani. E, nota Appiah, noi tutti abbiamo bisogno di confrontarci con gli altri per rispondere alla domanda su «chi siamo e come agiamo, per venire riconosciuti come creature consapevoli e affinché, al contempo, il riconoscimento risulti reciproco».
E qui entra in gioco un altro filosofo, morto (1831) poco prima che Darwin iniziasse la crociera sul Beagle; quel Georg Friedrich Wilhelm Hegel, il genio dell'idealismo tedesco, il quale aveva finito col confessare «questa vecchia Europa mi tedia»: il Nuovo Mondo era il futuro! «Quando il signore si realizza compiutamente come tale, egli vede dinanzi a sé tutt'altro che una coscienza autonoma, ma piuttosto una coscienza non autonoma»: la verità della sua coscienza è la coscienza del suo servo. E «come la signoria ha mostrato che la sua essenza è proprio l'inverso di ciò che la signoria stessa vuole essere, così anche la servitù, una volta compiuta, diventerà il contrario di ciò che è immediatamente». Sono parole della Fenomenologia dello spirito (1807). Per quanto ostenti il suo dominio, qualsiasi «signore» (proprietario terriero o capitano d'industria) dipende dalle «cose del mondo» che solo il lavoro del servo (lo schiavo o l'operaio salariato), imbrigliato dalla paura del potente, fa diventare «cosa per lui». Ma se sono i servi che trasformano col lavoro la realtà in cui vive il signore, costoro possono diventare coscienti del loro ruolo essenziale e dunque anch'essi «ostinarsi nella libertà». Aggiungeva Hegel che tale lotta per il riconoscimento (il «mutamento di codice», direbbe Appiah) è questione di vita o di morte, perché «l'individuo che non ha messo a rischio la propria vita potrà pure essere riconosciuto come persona, ma non verrà riconosciuto come autocoscienza, e dunque, quando mette a rischio la propria esistenza ogni individuo deve tendere alla morte dell'altro, proprio perché ritiene di non valere meno dell'altro».
Ovviamente, questa lotta mortale si dipana nello hegeliano teatro dello spirito; ma è stata, ancor prima che Hegel la descrivesse su carta, lotta fatta di carne e sangue. Dal 1791 al 1803 nella parte francofona dell'isola di Santo Domingo gli schiavi dei grandi piantatori avevano conquistato la loro «autocoscienza» con le armi, mentre nella «madrepatria» francese i politici eredi dei philosophes discutevano se ai neri spettassero gli stessi diritti e forme di rappresentanza che ai bianchi. Solo nel febbraio 1794, a Parigi, la Convenzione aveva abolito la schiavitù, sotto l'impulso del «cittadino» Maximilien de Robespierre. Ma poi Direttorio e Napoleone avevano cercato di mantenere il controllo dell'isola, finché le truppe francesi erano state disfatte dall'esercito «di colore» guidato da Jean-Jacques Dessalines, che sarà «governatore generale» (1804) della Repubblica di Haiti. È il secondo Stato che nasce dalle ceneri del sistema coloniale in America; ma diventerà lo spauracchio degli eredi dei Washington e dei Jefferson, che pur avevano realizzato l'esperimento democratico degli Stati Uniti: qui i cittadini bianchi temevano che gli schiavi di casa loro avrebbero potuto seguire l'esempio di quei «servi» che avevano strappato col machete il riconoscimento della loro «coscienza autonoma». Benché Hegel non citi mai esplicitamente Haiti, una ricostruzione dell'americana Susan Buck-Morss (col titolo Hegel und Haiti è comparsa ora in tedesco da Suhrkamp) mostra come la parola della Fenomenologia costeggi, nelle tortuosità della dialettica, l'azione risoluta dei «giacobini neri», che batterono sul campo i soldati di Napoleone, in anticipo su Wellington a Waterloo.
Filosofi e schiavi: le questioni più profonde della filosofia rivelano la loro controparte politica. Come mostra l'analisi di Emanuela Fornari (Bollati Boringhieri, 2011) delle Linee di confine rimodellate dagli «studi post-coloniali», il pensiero della modernità è andato alla scoperta del soggetto come portatore della libertà di ogni essere umano; eppure, quella stessa parola ha significato soppressione della libertà, perché «soggetto» è appunto lo schiavo al padrone (ma anche la donna al maschio o l'operaio al capitale). Lo schiavismo è stato la continuazione del primo colonialismo con altri mezzi; l'emancipazione dall'alto — come aveva compreso Darwin — non ha formato necessariamente dei cittadini; l'ostinazione nella libertà dei neri delle Americhe o dell'Africa, se ha vinto le forme più rozze dell'imperialismo europeo, non ha evitato lo scoglio dell'assoggettamento a un neocolonialismo solo in apparenza più «dolce»; la tragedia dei migranti ripropone oggi in modo ancor più drammatico il tema dell'emancipazione dei «dannati della Terra».
La dialettica tra signore e servo pone sempre e ovunque nuove trappole. Abbiamo bisogno ancora una volta di un cambiamento di codice: di fronte al fallimento dei modelli proposti dall'evangelizzazione cristiana e dal pensiero illuminista, che hanno teorizzato libertà ove i loro epigoni hanno realizzato oppressione, i casi accoppiati di Hegel e di Darwin ci mostrano quanto ci sia ancora bisogno di onestà scientifica non disgiunta dall'«onore» della filosofia.

Corriere della Sera 9.10.11
La differenza tra i Greci e i Barbari

dii Aristotele

Se si studiassero le cose svolgersi dall'origine, anche qui come altrove se ne avrebbe una visione quanto mai chiara. È necessario in primo luogo che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati l'uno dall'altro, per esempio la femmina e il maschio in vista della riproduzione e chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione. In realtà, l'essere che può prevedere con l'intelligenza è capo per natura, è padrone per natura, mentre quello che può col corpo faticare, è soggetto e quindi per natura schiavo: perciò padrone e schiavo hanno gli stessi interessi. Per natura, dunque, femmina e schiavo sono distinti (infatti la natura nulla produce con economia, come i fabbri il coltello delfico, ma una sola cosa per un solo fine, perché in tal modo ogni strumento sarà davvero un prodotto perfetto, qualora non serva a molti usi, ma a uno solo): tra i barbari la donna e lo schiavo sono sullo stesso piano e il motivo è che ciò che per natura comanda essi non l'hanno, e quindi la loro comunità è formata di schiava e schiavo. Di conseguenza i poeti dicono: «Dominare sopra i Barbari agli Elleni ben s'addice» come se per natura barbaro e schiavo fossero la stessa cosa.
(da «Politica», Laterza 2007)

La Stampa 9.10.11
Perse le tracce del Nobel Xiaobo e della moglie
All’indomani dell’ultimo premio per la Pace, timori per la sorte della coppia. Gli amici: impossibile contattarli
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG Undici anni di prigione È la pena che deve scontare lo scrittore e attivista per i diritti civili. Sopra, manifestazione a Hong Kong
2010, la sedia vuota Oslo, 10 ottobre 2010, la sedia vuota per il premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo: le autorità cinesi non gli permisero di ritirare il riconoscimento
Auna cena a Pechino fra amici (i cui nomi non possono essere riportati per intero per ovvie ragioni), dopo aver commentato gli ultimi premi attribuiti dall’Accademia di Stoccolma, presto la conversazione si sposta sul vincitore del Premio Nobel per la Pace dello scorso anno: «E Liu Xiaobo?», chiede Wang «Lo hanno lasciato andare a visitare la famiglia quando suo padre è morto, sette giorni dopo il decesso. Poi lo hanno riportato in carcere», risponde Meng. «E Liu Xia?», chiede ancora Wang, riferendosi alla moglie di Liu Xiaobo: «Niente da fare», continua Meng: «Niente da fare. Ogni settimana provo a chiamare, per vedere se le hanno riconnesso il telefono, e ogni settimana niente. Dall’anno scorso non l’ha vista nessuno, nemmeno la famiglia, e nessuno sa come stia. Peggio che agli arresti domiciliari: segregata. Non può nemmeno mandare un e-mail o un sms». Tutti scuotono la testa, e guardano nelle loro scodelle per un momento, masticando come se avessero in bocca veleno, e come si fa spesso in Cina quando la discussione a tavola si sposta su temi scottanti, rispetto ai quali si è impotenti.
Appena pochi giorni prima, il quotidiano cinese il lingua inglese «China Daily» aveva pubblicato un bizzarro articolo su come mai la Cina non avesse ancora ricevuto un Premio Nobel. Forse badando ancora alle apparenze, anche il «China Daily» si preoccupava di concentrarsi sui premi di carattere scientifico, vinti in diverse occasioni da cittadini americani di discendenza cinese, da taiwanesi e perfino da persone di Hong Kong, ma mai da cinesi «del continente» attivi su suolo cinese al momento della premiazione.
Come se nulla fosse, come se Liu Xiaobo non esistesse, la stampa cinese continua a parlare di una «ossessione per il Nobel» che serpeggia nel Paese, mentre i vincitori del prestigioso premio possono contare sul fatto che, prima o poi, riceveranno un invito a parlare in un qualche ateneo cinese. E in queste occasioni la domanda su perché «nessun cinese» abbia vinto il Nobel finora viene sempre formulata: esperti e vincitori del passato, chissà se in un tentativo estremo di essere ben educati, rispondono che forse il sistema scolastico avrebbe bisogno di qualche riforma, per favorire il pensiero indipendente e coltivare nelle giovani menti l’abitudine al dubbio, e il coraggio di fare esperimenti senza essere bloccati dal timore di sbagliare. Ignorando così lo scrittore Gao Xingjian, Premio Nobel per la Letteratura nel 2000, ora residente in Francia, i cui lavori sono considerati politicamente troppo «delicati» e non sono pubblicati in Cina. Ignorando il Dalai Lama, Premio Nobel per la Pace nel 1989, volendo. Ma soprattutto, ignorando Liu Xiaobo, critico letterario, scrittore, e dissidente che sta scontando undici anni di prigione per i suoi scritti, reputati sovversivi, e per essere stato uno degli istigatori della Carta 08, un documento firmato da centinaia di persone chiedendo maggiore democrazia, rispetto per i diritti umani e riforme politiche.
Da quando Liu ha ricevuto il premio lo scorso anno le notizie sul suo conto sono rade: è in prigione, sette giorni dopo la morte del padre gli è stato concesso di visitare la famiglia, mentre sua moglie, «colpevole» di averlo sposato e di aver cercato di dare il via a una petizione per il suo rilascio, è reclusa in casa, una situazione che non ha precedenti nella storia del Premio.
Nel frattempo, quello che di Internet può essere consultato tramite le vie normali in Cina (ovvero, senza ricorrere ai Vpn per lo più illegali e a pagamento che consentono di «scavalcare il muro» della censura) è stato accuratamente ripulito da ogni menzione di Liu Xiaobo, con il risultato non sorprendente che la maggior parte delle persone nel Paese, dopo decenni di censura, non hanno neppure idea di chi sia.

l'Unità 9.10.11
Sabina Guzzanti:
L'incubo sta per finire... Evviva
di Luigina Venturelli

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l'Unità 9.10.11
Herzog a tu per tu con la morte
Il grande autore tedesco ha presentato al Mip  di Cannes un estratto del nuovo documentario dedicato ai condannati alla pena capitale

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La Stampa 9.10.11
Herzog: con gli assassini nell’abisso della morte
Un film e una serie televisiva per raccontare le emozioni dei condannati alla pena capitale: “Un’esperienza unica”
di Michela Tamburrino


INVIATA A CANNES
Il regista WERNER HERZOG È ALLA RICERCA DI QUELLA CHE LUI CHIAMA VERITÀ ESTETICA, QUALCOSA CHE SI SPERIMENTA COME UN’ ESTASI RELIGIOSA. PER QUESTO L’AUTORE SI È SOTTOPOSTO A UN’ESPERIENZA CHE HA SEGNATO LA SUA VITA

Uno dei protagonisti del film è già morto. Gli altri hanno le ore, i giorni, i mesi contati. Non guardano già più. Qualcuno si rammarica. Non per la fine che farà ma per quello che ha già fatto e che l’ha portato lì, ad aggrapparsi a un vetro spesso, nel braccio della morte. Werner Herzog tira un pugno nello stomaco e questo voleva fare con Into the Abyss sottotitolo, A tale of death, a tale of life (Nell’abisso, storia di morte, storia di vita) che il regista, produttore, scrittore, attore, star internazionale, ha finito di montare a pochi giorni dal Festival di Toronto e che ha fatto vedere a brani durante la sua conferenza al MipCom, il più grande mercato degli audiovisivi appena concluso a Cannes. «Cinque detenuti in attesa di esecuzione, la loro storia attraverso un dettaglio, un quarto d’ora di tempo per girare, per entrare in contatto con loro. Prima una trafila di negoziazioni, con gli avvocati, con le guardie carcerarie. La scelta delle persone. Non volevamo che il film fosse un mezzo per provare colpevolezze o innocenze, non volevamo appoggiare o condannare l’istituto della pena capitale. Abbiamo scartato chi si definiva innocente. Volevamo il dramma del colpevole. E della famiglia di alcune vittime cui il film è dedicato. Ci siamo mossi tra Texas e Florida nelle prigioni di massima sicurezza. Volevamo filmare il come muori non il perché. Volevamo esplorare gli abissi del dolore dando un senso a quello che vedevamo. Andare oltre il casting dei casi. E’ stata una fatica psicologica immensa che ha persino generato un senso di enorme fascinazione. Pensate di parlare con una persona che deve morire, per pochi minuti, con una telecamera in mano sempre puntata sul volto, sulle mani. L’impatto è devastante. Il mio coproduttore ha ricominciato a fumare durante il montaggio, completamente preso dall’atmosfera. Il film più intenso che abbia mai girato».
Michael Perry, condannato a morte per triplice omicidio è già stato giustiziato. Ha la faccia da bambino e dice di essere cambiato. Ha studiato, si è convertito. Sorride alla morte, dice che tanto è tutto inutile. Hank Skinner ha assassinato la sua ragazza e i figli psichicamente ritardati, sembra un ragioniere quando racconta le modalità dell’omicidio, voce incolore. Gira intorno a questi condannati a morte un mondo da inferno dantesco: «Ogni detenuto ha le sue groupies, Melissa è una di loro e ha sposato il suo idolo, in stanze separate. Le abbiamo chiesto di descrivere le mani di lui quando si incontrano e lei ha risposto, “le mettiamo contro il vetro in maniera alternata così che sembrino intrecciate”. Ora lei è incinta di lui senza che si siano mai toccati. Le guardie carcerarie fanno contrabbando di tutto, droga per alleviare l’angoscia degli ultimi minuti e anche di liquido seminale per chi vuole lasciare una parte di sé». E c’è il cappellano che vede morti viventi tutti i giorni. Andando verso la prigione in un giorno di esecuzioni fece un mezzo incidente per evitare di mettere sotto uno scoiattolo, «Un altro morto no e non per mano mia. Io che ogni giorno ho a che fare con dei condannati che non posso aiutare». All’inizio del film si vede una donna che è parente di una vittima, racconta che dopo l’omicidio del figlio si è sentita anche lei in carcere; non usciva più, non si vestiva, non si lavava. Catatonica. Poi la vita ha preso il sopravvento e lei se ne sente colpevole. «Anche loro precipitano nello stesso abisso. Per una questione di correttezza, non abbiamo mai rivelato ai familiari delle vittime quello che ci hanno detto gli assassini nel nostro colloquio. Storie di vita e storie di morte»
Un progetto complesso che ha anche una sua emanazione televisiva con la serie che si chiama Death Row , serie corta con casi completamente differenti nel quale, a differenza del film, compaiono anche le donne. «La percentuale è di dieci su quattrocento. Ne abbiamo messe due perché nello Utah mentre gli uomini possono scegliere come morire, le donne no. A loro viene praticata solo l’iniezione letale». Il film prima ancora di uscire in sala ha creato discussione in America, sia per la durezza sia perché si è pensato che in qualche modo si giustificassero i criminali. Assolutamente no ma distinguiamo: ad essere mostruosi sono i crimini, non gli uomini. Parlando con pietà dell’aspetto umano non abbiamo fatto alcun torto. Bisogna anche pensare che si tratta di un mondo pazzesco: un secondino non ha smesso di piangere per giorni e giorni, poi, accompagnando l’ennesimo condannato alla camera della morte, si è girato e si è licenziato. E ha smesso di piangere». La serie tv nei giorni del Mip Com è stata acquistata da Channel 4, il film, prodotto anche dalla Werner Herzog Film, uscirà in novembre negli Usa e in Inghilterra il prossimo anno. La tedesca ZDF Enterprises ha acquistato i diritti per il cinema e per la tv in tutto il mondo tranne che negli Usa e Inghilterra.

l'Unità 9.10.11
Viaggiare nel verso di Bellocchio
In due cofanetti tutta l’opera del regista piacentino
da «I pugni in tasca» commentato all’intimo «Serelle Mai» fino a «Vincere»
di Dario Zonta

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Repubblica 9.10.11
Goce Smilevski fa una finta autobiografia tratta da una storia rimossa La protagonista è Adolfine che ripercorre la sua vicenda dal lager
Il destino segreto delle sorelle di Freud dimenticate a Vienna
di Leonetta Bentivoglio


rosa, Marie, Adolfine e Pauline furono le sorelle immolate al nazismo da Sigmund Freud. Le condannò per ignavia, trascuratezza, egoismo o per chissà quali segreti rancori familiari. Soltanto Anna, la maggiore, evitò i lager, emigrando in America nel 1889. Le altre quattro perirono in modo tragico e umiliante, in campo di concentramento, tra il 1942 e il 1943, mentre il loro celebre fratello si era spento nella quiete della sua bella casa inglese nel 1939, un mese dopo l´inizio della guerra. Semplicemente Sigmund aveva deciso di abbandonarle alla sventura. Già molto infragilito dal cancro, lo scienziato, dopo l´Anschluss, aveva ceduto alle pressioni della sua cerchia di devoti, che lo spingevano a lasciare l´Austria. In principio aveva fatto resistenza, sentendosi troppo debole e anziano per andarsene da Vienna; poi convenne che era la cosa giusta. Per un personaggio tanto noto internazionalmente, non fu difficile trovare, in un paese come l´Inghilterra, la disposizione ad accoglierlo, e affinché i nazisti gli consentissero di partire vennero sollecitate molte prestigiose intercessioni, tra cui quella di Roosevelt. Ci fu tra l´altro il benevolo intervento di Mussolini, grande ammiratore di Freud. Quest´ultimo riuscì a salvaguardare la fetta più sostanziosa del suo patrimonio, incluse le amate collezioni di antiche statuette, che approdarono intatte a Londra, e si permise l´acquisto di Maresfeld Garden, l´abitazione oggi divenuta un museo, che in suo onore guadagnò un accessorio prezioso come l´ascensore. L´aspetto incredibile di questa storia è che, lasciando Vienna, Freud aveva avuto la possibilità di portare con sé i propri cari, e nell´elenco che stilò per l´occasione figuravano la moglie, i figli, la cognata, le due assistenti, il medico personale con famiglia al seguito e persino il cane. Ma non le quattro povere sorelle.
Pur nel continuo proliferare di omaggi ad un eroe che non passa mai di moda (l´ultimo è il film, fastidiosamente iconografico, A Dangerous Method, di David Cronenberg, dedicato al suo incontro-scontro con Jung), è mancata sempre un´indagine seria riguardo alle cause di quest´inspiegabile episodio, sul quale le biografie tendono a sorvolare. Il principale agiografo del fondatore della psicoanalisi, Ernest Jones, scrisse, a proposito dell´orrenda fine delle quattro donne: «Freud, per fortuna, non avrebbe mai saputo nulla di ciò che sarebbe accaduto loro». D´altra parte Sigmund, commentava con ipocrisia lo stesso Jones, «non aveva alcun motivo di preoccuparsi delle sorelle, visto che all´epoca del suo trasferimento a Londra la persecuzione degli ebrei era appena cominciata».
Il giovane scrittore macedone Goce Smilevski (è nato nel 1975) si è ispirato a questa strana e rimossa vicenda per un romanzo di evidente asprezza, votato all´esplorazione della sorte di Adolfine. È alla sua voce che si affida l´intero racconto, plasmato come una finta autobiografia, e oscillante tra verità documentate e liberissime invenzioni. Pubblicato nel 2007, La sorella di Freud è stato subito un successo, e nel 2010 un suo estratto è apparso nell´antologia "Best European Fiction 2010", con un´introduzione di Zadie Smith. L´hanno comprato vari paesi, tra cui Inghilterra, Francia, Spagna e Stati Uniti, e ora sta per uscire in Italia per Guanda.
Nel lager di Terezin, dov´è rinchiusa in un assoluto stato d´infelicità e rimpianti, e dove si prepara con stoicismo alla morte (che sopraggiunge, nell´ultimo capitolo, come un tuffo finalmente lieve nell´oblio), Adolfine ripercorre la sua vita. Scorrono gli anni dell´infanzia, le tensioni all´interno della famiglia e lo speciale rapporto instaurato con Sigmund, poi sfociato in un allontanamento nell´adolescenza, quando tra loro si frappose un "qualcosa" che aveva molto a che vedere con la differenza di genere sessuale. C´è l´amore disperato di Adolfine per Rajner, un ragazzo malinconico fino al torpore e con tendenze autodistruttive, e l´ansia martellante di una maternità mai realizzata. C´è la lunga amicizia con Klara Klimt, sorella del pittore Gustav, protesa in modo agguerritissimo e totalizzante, fino al martirio o al fanatismo, verso l´obiettivo di un mondo diverso per le donne, più paritario e giusto. C´è soprattutto il legame di Adolfine con sua madre, presenza angosciosa e punitiva al massimo, vera fonte del dolore esistenziale della figlia, perché in ogni vita ci sono ferite che scompaiono e altre che restano, ed è questo, forse, il tema-cardine del libro: l´idea di un danno primario, da considerare come il più autentico. Gli altri, andando avanti, ci colpiscono per suo tramite, e ogni seguente sofferenza trova la sua forza fin tanto che gli si avvicina. Il dolore di Adolfine aveva un nome, quello della madre, siglato nella sua memoria più profonda, e intimamente connesso ai tormenti successivi, come sgorgati da un´unica radice.
La sorella di Freud non è un romanzo "d´ambiente". Sprazzi della Vienna di quel periodo affiorano nelle dissertazioni sulla sessualità, sull´ebraismo e sul nascente femminismo, così come negli accenni all´opera freudiana. Ma Freud e Vienna sono soltanto un´occasione per un viaggio lungo il male oscuro di una donna schiacciata da un destino di passività. Ce lo restituisce una scrittura ruvida, insidiosa, ossessiva. E sempre consapevolmente disattenta alle ripetizioni. Un po´ come nello stile di autori quali Saramago, che sembrano voler abbattere i più gentili criteri della forma per dimostrare che è importante la sostanza.

l'Unità 9.10.11
Gli artisti sovietici si mettono in mostra

Il Palazzo delle Esposizioni (Roma) presenta al pubblico  due grandi mostre, a partire da martedì: «Realismi socialisti. Grande pittura sovietica 1920 - 1970» a cura di Matthew Bown, Evgenija Petrova, Zelfira Tregulova e «Aleksandr Rodcenko», a cura di Olga Sviblova (fino all’8 gennaio).


La Stampa 9.10.11
Il piacere si fa Occulto nella cultura dei Lumi
Nasce a fine Settecento la passione per spiriti, streghe e fantasmi Attraverserà non solo letteratura e arte, ma a sorpresa anche la scienza
di Alberto Mattioli


A Strasburgo. Dipinti, libri, foto e documenti esoterici
Una mostra da incubo. Ma stavolta è un complimento. Perché questa colossale esposizione L’Europe des esprits , «L’Europa degli spiriti o il fascino dell’occulto, 1750-1950» insegue, passando per arte, grafica, letteratura, teatro, architettuta, fotografia e scienza, il fantasma inafferrabile dell’inspiegabile, fra medium, sedute spiritiche, messe nere, levitazioni, chiacchiere con i morti, tarocchi, quarta dimensione, tavolini che ballano e balli di streghe. Il tutto da ieri a Strasburgo, Al nuovissimo Musée d’art moderne e contemporain ci sono, su duemila e 500 metri quadrati, 500 opere d’arte, 150 oggetti scientifici, altrettanti libri, un centinaio di documenti.Macbeth Faust
INVIATO A STRASBURGO
Qui accanto il dipinto di Paul-Elie Ranson, del 1891, Le streghe intorno al fuoco : il tema del Sabba, ossia della danza delle streghe è un tema ricorrente nell’occultismo. Il dipinto è conservato al museo di Saint-Germain-en-Laye in Francia
Due secoli di sogni che spesso poi sono incubi, con gli artisti che immaginano, gli scienziati che misurano e i filosofi che ci ragionano su. Se c’è una morale della storia raccontata da questa colossale mostra di Strasburgo, L’Europe des esprits , «L’Europa degli spiriti o la fascinazione dell’occulto, 1750-1950», è che l’aldilà resta un’attrazione irresistibile per chi sta aldiquà.
Certo, stupisce che proprio mentre la Ragione trionfa e i Lumi rischiarano tutta Europa si sviluppi il gusto dell’occulto. E spesso nelle stesse persone. Vedi Goya, passato dalla critica illuminista alla Spagna arretrata a dipingere streghe che divorano bambini vivi (crudeli crudités) e capricci horror: il sonno della Ragione genera mostri, davvero. Il negativo dei Lumi è lo svedese Swedenborg, popolarissimo e lettissimo, ben introdotto nel mondo degli spiriti, il «più grande e più elevato dei cervelli umani»: tarda definizione griffata Arthur Conan Doyle, il papà del pur positivista Sherlock Holmes.
In questo scorcio di Settecento già quasi romantico colpisce il revival di Shakespeare: dall’Inghilterra alla Francia alla Germania è tutto un fiorire di sogni di una notte di mezza estate popolati di folletti, fantasmi di Riccardo III, tempeste esoteriche e, naturalmente, streghe davanti a pentoloni fumanti in attesa di Macbeth. Lo stesso Goethe, regista a Weimar, schizza le scene per un , prima di scatenare con il suo un’altra ondata di diavoli, sabba, filtri magici e notti di Walpurga. I soliti romantici? Macché. Il libro degli spiriti di Allan Kardec (1857) e I grandi iniziati di Edouard Schuré (1889) sono i due bestseller che affascinano i simbolisti. La teosofia conquista Kupka e Mondrian, Kandinsky e Arp e si accomoda perfino nel razionalissimo Bauhaus. A Parigi, il «Salone dei rosacroce» del misterioso Sar Peladan è un successo costante fino al 1897, e con colonna sonora di Erik Satie (a proposito: la musica, come al solito in queste grandi mostre interdisciplinari, è la grande sacrificata. Sì, ci sono i ben noti bozzetti di Schinkel per Il flauto magico , ma non una parola sul melodramma romantico a base di sonnambulismi e pazzie. E poco anche su Wagner).
Intanto tornano alla grande, sulla fin-de-siècle, i miti esoterici di Edipo e Orfeo, mentre sono molto ben rappresentati (saranno le lunghe notti e gli inverni lunghissimi?) gli artisti nordici, baltici, scandinavi, polacchi. I surrealisti sguazzano nell’occulto: André Breton ordina di «prendere ordini dal meraviglioso» e prefà un libro su Satana, Salvador Dalí dipinge una stupenda Vacca spettrale . E poi Rudolf Steiner e il Monte Verità di Ascona con la relativa comunità esoterica, che reinventa la danza come strumento di comunione e comunicazione con l’Altrove.
Si passa già un po’ stremati ai libri e alla grafica, con chicche come la prima edizione del celebre Malleus Maleficarum pubblicato nel 1487, guarda caso proprio a Strasburgo (città «magica» come Torino), attraversando sale piene di Cabale ebraiche, libri dei morti egiziani, manuali per l’evocazione degli spiriti, tentazioni di Sant’Antonio, sibille classiche e poi naturalmente il cavaliere, la morte e il diavolo. E si arriva alla scienza, che di tutto questo bric-à-brac sembrerebbe la negazione. Invece, a sorpresa, capita tutt’altro. E non solo nel Settecento di Messmer (c’è il suo apparecchio per curare con il magnetismo, già sbeffeggiato da Mozart nel Così fan tutte ), ma proprio con i campioni della ricerca moderna. Pierre e Marie Curie si interessano ai medium e sottopongono la celebre Eusapia Palladino, «la diva des savants» a sedute estenuanti insieme a Camille Flammarion, astronomo, autore del saggio Les forces naturelles inconnues e fratello di Ernest, fondatore della casa editrice che traduce Ipnotismo e spiritismo di Cesare Lombroso.
Nel frattempo si inventano strani strumenti per monitorare trance ed ectoplasmi e macchine fotografiche speciali per immortalare fantasmi. Man mano che la scienza avanza si ritira l’occulto, ma i due campi non sono così impermeabili. William Crookes, presidente della Royal Society of Science, studia i medium e conclude che sì, Daniel Douglas Home riesce davvero a sollevare i tavolini e Florence Cook, legata a una sedia, a far materializzare il fantasma di Ketty King, figlia del pirata Morgan (ma pare che Crooks fosse innamorato cotto della signorina, il che riduce di molto la scientificità dell’esperimento). Nel 1905 a Villa Carmen, vicino ad Algeri, le apparizioni del fantasma del principe indù Bien-Boa attraverso la medium Marthe Béraud sono testimoniate da Charles Richet, Nobel per la Medicina nel 1913 e inventore di una nuova scienza, la «metapsichica». Ahimè, una controinchiesta dimostrerà poi che le foto di BienBoa sono taroccate.
Mentre questi eminenti vittoriani con il barbone e il pince-nez fanno volare i tavolini, è interessante vedere come la volgarizzazione della scienza ricorra ancora a metafore tratte dall’occulto. Alle masse, la natura appare ancora dominata da forze misteriose e incontrollabili: nel 1888, l’esposizione elettrica di Berlino è annunciata da un bellissimo manifesto della «fée électricité», la fata elettricità. L’ultimo rigurgito di un’occultismo «savant» è la Prima guerra mondiale, quando l’immane macello rilancia alla grande il bisogno di comunicare con i morti. Ma lo scienziato, ormai, ha un altro status, si professionalizza: non a caso, la mostra si conclude con l’inaugurazione del Palais de la Decouverte, nel 1937 a Parigi, per spiegare la scienza a tutti. E se il meraviglioso e lo spettacolare servono ad attirare le folle, la loro spiegazione è ormai rigorosamente scientifica. Gli spiriti non sono più oggetto di ricerca; diventano, al massimo, soggetti per una bella mostra.

Corriere della sera 9.10.11
Modigliani e Dalí, la follia del genio
I successi e le miserie di grandi innovatori come Picasso e Magritte
di Sebastiano Grasso

C'è un proliferare di mostre sulla Parigi inizio secolo-anni Trenta da far paura. Tema certo affascinante, esplorato in tutte le salse, ma che non si finisce mai di scandagliare. Ed ecco l'ennesima esposizione a riguardo, intitolata Gli anni folli. La Parigi di Modigliani, Picasso e Dalí 1918-1933, curata da Simonetta Fraquelli, Susan Davidson e Maria Luisa Pacelli.
Si parte da un paio d'anni prima della morte di Modigliani, il quale dal 1911 lavora anche come scultore in un cortile vicino al suo atelier. È il periodo in cui l'artista livornese sogna l'Egitto e, incontrata Anna Achmatova, di cinque anni più giovane — con cui ha una relazione — la ritrae come una regina o danzatrice egiziana.
Un giorno che l'Achmatova gli porta un mazzo di rose rosse e non lo trova nello studio, gliele lancia attraverso una finestra aperta. A una a una. Quando Modigliani ritorna e trova i fiori sparpagliati per terra, a circolo, chiede alla poetessa russa come abbia fatto a entrare senza chiavi.
Nel luglio del 1918, nella chiesa russa di rue Daru, «tra nuvole d'incenso e canti ortodossi», Picasso sposa Olga Khokhlova. Testimoni per il pittore, Guillaume Apollinaire («Letterato, decorato con la Croce di guerra») e Max Jacob («Letterato»); per la russa, Valerien Irtchenko Svetlov («Capitano di cavalleria») e Jean Cocteau («Letterato»).
Quattro mesi dopo, la sera del 9 novembre 1918, mentre Picasso passeggia per rue de Rivoli, il vento sfila un velo nero dalla testa di una vedova di guerra che finisce contro il suo viso. Convinto che si tratti di un presagio funesto, torna a casa, si guarda allo specchio e comincia a tracciare il proprio autoritratto.
Qualche minuto dopo, squilla il telefono: Apollinaire è spirato da qualche minuto, vittima della febbre «spagnola».
La mostra di Ferrara presenta ottanta fra sculture, dipinti, disegni, maquettes, costumi, fotografie e ready made. Due dipinti di Renoir (La fonte, 1906) e di Monet (Il ponte giapponese a Giverny, 1918) aprono le danze. Seguono Modigliani e Foujita, con il Nudo disteso (1922), per il quale aveva posato Kiki de Montparnasse. Si racconta che quando la modella si era spogliata nell'atelier del pittore giapponese, questi avesse obiettato come le mancasse la peluria nelle parti intime. «Cresce durante la posa» aveva risposto Kiki, prendendo una matita nera e disegnandosela sul corpo.
Il giro continua con il chierichetto di Soutine, il gallo di Chagall, uno studio di Montparnasse di Wynne Nevinson, un ritratto di Brook, i fili di ferro di Calder, un nudo di Bonnard, la Venere di Maillol. Ed ecco, ancora: Matisse, Ozefant, Le Corbusier, Lipchitz, Léger, Picasso, Gris, Braque, Robert Delaunay, Mondrian, Larionov, de Chirico, Man Ray, Krull, Kertész, Douaze, Bing, Derain, Laurens, Severini, De Pisis, Savinio, Duchamp, Picabia, Arp, Giacometti, Ernst, Masson, Tanguy, Magritte, Miró e Dalí. Insomma, buona parte degli artisti che, in quegli anni, gravitavano su Parigi, assieme a scrittori, musicisti, coreografi, ballerini.
Anni «folli», «mitici»? Allora, certamente, folli, spesso miserabili, tristissimi. Basta leggere quello straordinario libro di Dan Franck, uscito in Italia (Garzanti) col titolo di Montmartre & Montparnasse, per capire come oggi, solo il trascorrere del tempo li abbia fatti diventare mitici, ma che in realtà di mitico, allora, c'era ben poco.
Certo la rassegna ferrarese dà conto di taluni passaggi nodali di stili, interessi, recuperi, rotture definitive e mélanges di pittura, musica e coreografia che trasformano Parigi in una sorta di laboratorio internazionale in cui si danno appuntamento tutte le menti innovatrici del secolo, decise a sovvertire regole e sperimentare nuove tecniche. Ci sono il giapponismo, la Scuola di Parigi e les italiens, lo strappo dell'astratto, il nuovo linguaggio di pittura e scultura che rileggono miti, classicismo e commedia dell'arte, il fascino dell'arte primitiva e negra, la leggibilità del cubismo, dadaismo, surrealismo e metafisica, l'estetica delle macchine, la sperimentazione in teatro di artisti, scrittori, musicisti e coreografi che assommano i loro linguaggi sulla scena, creandone altri ex novo, l'irruzione dell'architettura nel sistema dell'arte, l'incidenza dei pionieri della fotografia. Eccetera, eccetera, eccetera, come diceva Yul Brinner ne Il re e io, celebre film di Walter Lang.

La mostra: «Gli anni folli. La Parigi di Modigliani, Picasso e Dalí. 1918-1933», Ferrara, Palazzo dei Diamanti, fino all'8/1. Info: tel. 0532/24.49.49; www.palazzodiamanti.it. Catalogo Ferrara Arte, pp. 216, 28

Corriere della Sera 9.10.11
Pacifismo italiano: successi e traversie da Capitini a oggi
di Monica Ricci Sargentini


Divisioni, asimmetrie, strumentalizzazioni politiche. La storia del movimento per la pace in Italia è segnata da alti e bassi. Era il 24 settembre del 1961 quando ventimila persone percorsero i 21 chilometri che separano Perugia da Assisi. La prima marcia della pace fu l'atto di fondazione del pacifismo italiano. Fu un corteo autonomo, eccezionale, totalmente slegato dai partiti. I cartelli sbandierati erano un richiamo alla pace, all'amore, alla non violenza. Sugli striscioni si rincorrevano le parole di San Francesco e di Gandhi. Ma quanto quel movimento rimase fedele nel tempo alle intenzioni del suo inventore, il filosofo nonviolento Aldo Capitini?
Ne Le ambiguità del pacifismo, pubblicato in questi giorni da Minerva Edizioni, Gabriella Mecucci ripercorre con maestria tutte le tappe di una storia segnata da luci e ombre. Dopo la prima marcia Perugia-Assisi iniziarono scontri e strumentalizzazioni tanto che Capitini, gandhiano doc, non riuscì a organizzarne una seconda, paralizzato dai veti incrociati. L'iniziativa rispuntò dieci anni dopo la sua morte, nel 1978, con caratteristiche profondamente diverse. Ne nacque, sostiene Mecucci, un movimento largamente egemonizzato dal Pci. Silenzioso verso le violazioni dei diritti umani nell'Est comunista, la guerra afghana voluta dal Cremlino e il totalitarismo teocratico iraniano. Nei primi anni 80 centinaia di migliaia di persone manifestarono contro l'installazione degli euromissili, ma nessuno proferì verbo contro gli SS20 sovietici che erano stati piazzati sulle rampe ben prima della decisione di Carter di mettere i Pershing e i Cruise in Europa. Il governo italiano però in quell'occasione fece una scelta nettamente filoccidentale e il pacifismo «a senso unico» subì una prima, secca sconfitta.
Oltreché antiamericano, il movimento ha assunto nel tempo anche connotati antisraeliani e filoarabi. Le convinzioni del suo fondatore sono state più volte calpestate. Capitini — come attesta un carteggio con Lucio Lombardo Radice — guardava invece con simpatia a Israele e ne apprezzava le ragioni. Tanto da rifiutarsi di firmare, subito dopo la fine della guerra dei Sei giorni, un documento che, pur accettando l'esistenza dello Stato israeliano, lo criticava duramente per essersi schierato con «l'imperialismo americano» e gli chiedeva di restituire i territori, appena conquistati.
E ora? A dieci anni dall'11 settembre qual è la strada che il pacifismo potrebbe percorrere? «È più che maturo il tempo — si legge nel libro — di tornare a riflettere sul significato della pace e su come raggiungerla, sapendo innanzitutto che non può esistere se non è coniugata con altri valori: libertà, giustizia e sicurezza».

Il libro: Gabriella Mecucci, «Le ambiguità del pacifismo», Minerva Edizioni, pp. 151, 12

Repubblica 9.10.11
Al Grand Palais una mostra racconta l´avventura europea di Leo, Gertrude, Michael e Sarah: da Cezanne a Matisse e soprattutto Picasso, così nacque una straordinaria collezione
Gli americani a Parigi che amarono i più grandi del ´900


Parigi agli esordi del Novecento attrae artisti e letterati da ogni dove, e tutti contribuiscono a creare il suo mito di superville della modernità, ma sono davvero pochi coloro che assumono il ruolo degli Stein, famiglia benestante di origine ebraica di Pittsburgh. Léo a trent´anni è il primo a giungere a Parigi nel 1902: ha alle spalle studi svogliati di diritto, una spiccata inclinazione per le arti e un suo Autoritratto, 1906, ci fa intendere quanto sia affascinato da Cézanne. E infatti il suo primo acquisto nel 1903 da Ambroise Vollard, il mitico mercante degli impressionisti, è La Conduite de l´eau: nel 1903 giunge a Parigi la sorella Gertrude di due anni più giovane e condivide con lui l´appartamento a rue de Fleurus a pochi passi da Saint-Germaine-des-Pres. Nello stesso anno Léo sente il bisogno di andare in Italia e si ferma a Firenze, dove frequenta assiduamente Bernard Berenson e l´esteta inglese Roger Frey: un incontro che affina la sua educazione artistica che aveva alle spalle anche l´insegnamento a Harvard di William James sulla percezione dei "valori tattili". Nel ´27 pubblicherà un testo teorico A-B-C of Aesthetics. Al rientro Léo e la sorella acquistano da Vollard, due Cézanne, due Gauguin, due Renoir. Tra essi figura Madame Cézanne à l´éventail, un capolavoro. Nell´anno successivo li raggiunge Michael e sua moglie Sarah, che avrà un ruolo decisivo nella compagine familiare per la sua precoce attenzione a Matisse, al quale la coppia resterà legata per tutta la vita, contribuendo alla sua fortuna negli Stati Uniti. La loro casa è a rue Madame a pochi passi da Leo e Gertrude. La famiglia è benestante, ma non ricchissima: si trasferisce a Parigi per trent´anni mossa da ambizioni intellettuali, da una sincera passione per le arti, da una vocazione al collezionismo e uno spirito mecenatesco fuori dalle righe. Al Salon d´Automne del 1905 Léo e Gertrud acquistano il primo Matisse Femme au Chapeau: tela fauve, nel quale Henri raffigura sua moglie in un tripudio di colori squillanti. E´ una delle tele che figurano nella ricchissima e magnifica mostra L´avventura degli Stein, al Grand Palais (fino al 18 gennaio, poi a San Francisco e New York) articolata in sei sezioni che pongono al centro i protagonisti di questa avventura intellettuale e le loro diverse inclinazioni.
Léo chiaramente privilegia i grandi della modernità: Manet, Cézanne, Renoir e Degas; acquista con Gertrude regolarmente disegni e tele di Picasso del periodo blu e precubista, ma condivide solo in parte la netta predilezione per Picasso di Gertrude ed è tiepido verso Matisse di cui pure è il primo acquirente. La rete di relazioni tra gli Stein e i loro pittori preferiti è tessuta con sapienza analitica da Cécile Debray, Janet Bishop e Rebecca Rabinow in un catalogo che resterà un punto fermo negli studi. Straordinaria la documentazione fotografica che ci mostra gli appartamenti, prima due, poi tre quando Gertrude decide di vivere con la compagna della sua vita la scrittrice Alice Toklas. Tra gli acquisti di Léo, (circa 180 pezzi), figurano quattro Cézanne, tra cui i Bagnanti e una Montagna di Sainte-Victoire. L´incontro con Picasso è per Gertrude un colpo di fulmine: Pablo, taciturno e sicuro di sé, disegna a penna un ritratto di Léo e propone a Gertrude di farle il ritratto che resterà un testo memorabile di questo incontro, pendant al suo autoritratto. A chi vede il ritratto dell´amica e osserva saccente che non rassomiglia al modello, replica sferzante: "Gli rassomiglierà", e le foto tarde di Man Ray e Cecil Beaton stanno a confermarlo. Gertrude è così acuta da acquistare i primi dipinti cubisti di Picasso, come Donna con il tovagliolo,1905, e il carnet di studi per le Demoiselles d´Avignon. La rivalità tra Picasso cubista e Matisse del Nu Bleu è palpabile nei "sabati" degli Stein, dove, ora a casa di uno ora dell´altro, passano i maggiori artisti e letterati che sono a Parigi: tra questi i grandi fotografi Alfred Stieglitz e Edward Steichen che, con la rivista Camera work e la galleria, introduce a New York l´avanguardia parigina: e poi Hemingway, Scott Fitzgerald, Man Ray, ma anche i tedeschi Hans Purrmann e Max Weber.
Un cenacolo a cui danno il loro contributo Michael e Sarah i quali divengono i primi "matissiens" di Parigi, acquistando un notevole numero di tele. Con una ferita mai rimarginata: prestano nel 1914 a Gurlitt, un mercante di Berlino, diciannove opere dell´artista, che verranno requisite a causa della guerra. Saranno costretti al venderle nel 1920, ma un formidabile assieme è così disperso. Sarah induce nel 1908 Matisse a creare un´Accademia per diffondere attraverso l´insegnamento la grammatica della sua arte. La rivalità tra Picasso e Matisse è un dato di fatto e i due maestri si muovono su strade che nettamente divergono. Sono Michael e Sarah a dare un segno della loro audace modernità commissionando a Le Corbusier la villa Stein-Mozie a Vaucresson: un capolavoro dell´architettura del XX secolo che in qualche modo è un suggello di vetro e cemento a questa vicenda.

il Riformista 9.10.11
I due whig radicali che ispirarono Jefferson
di Edoardo Petti

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