mercoledì 12 ottobre 2011

Corriere della Sera 12.10.11
Mondo arabo e Islanda, primi affari alla Buchmesse
di Dino Messina


FRANCOFORTE — Cautela, speranza e qualche affare. La sessantatreesima edizione della Buchmesse, la maggiore fiera internazionale del libro, apre i battenti questa mattina, ma già ieri, mentre si svolgevano i discorsi ufficiali, al bar del Frankfurter Hof, l'albergo che è il quartier generale di agenti letterari e editori di mezzo mondo (7.384 sono gli espositori accreditati da 106 Paesi), era cominciato il lavoro vero. E nella concitazione di sempre si potevano sentire i primi titoli che si annunciano come i bestseller del prossimo anno. Andrew Wylie, l'agente americano più famoso e temuto, anche quest'anno è arrivato con l'asso nella manica e ha già venduto in diversi Paesi il romanzo di una giovanissima autrice israeliana, Stani Bonjanjin, «The people of forever are not afraid» che ha come protagonista una soldatessa dell'esercito israeliano. Dal Medio Oriente arriva anche un altro bestseller annunciato: il romanzo della siriana Samar Yazbek, una delle testimoni della rivolta: si intitola Fuochi incrociati e Marco Vigevani, che rappresenta anche un'agenzia araba, l'ha già venduto in Germania e in Francia. Di sicuro successo, almeno così sperano gli editor del gruppo Longanesi che l'hanno appena acquisito per l'Italia, si annuncia il thriller dell'americana Koethi Zan, «Aftermath», una storia di donne che cercano di uscire dal trauma di un delitto.
Ma prima di continuare con qualche altro titolo e fare il nome degli autori italiani cui Francoforte guarda con grande interesse è opportuno fermarsi per una riflessione sul mercato librario successivo al «novembre nero» di due anni fa, quando, come ricorda Alessandra Bastagli, senior editor di Simon & Schuster appena sbarcata da New York, le case editrici licenziarono decine di impiegati, con il colosso Random House costretto a ridurre i suoi marchi da cinque a tre. «Adesso — dice Alessandra Bastagli — sembra ci sia un'inversione di tendenza, con la nascita di nuove sigle all'interno dei grandi gruppi: si guarda per esempio con interesse a Live Rights, nato all'interno di Norton per iniziativa di Bob Weil. Ma è ancora presto per fare previsioni, perché se gli ebook vanno molto bene non fanno gli stessi profitti dei libri su carta».
In giro, aggiunge Marco Vigevani, vedo «tanta cautela e un tono generale piuttosto depresso. Una situazione in cui è difficile vendere libri di un certo livello, trovare editori disposti a dare anticipi decenti. Questo deprime, a mio avviso, la qualità. Ci sono poi Paesi che tengono meglio, come la Germania, o altri, come il Brasile che sono addirittura in espansione».
Pessimismo a parte, di certo in questi due anni qualcosa si è mosso: intanto, è tramontato l'interesse per la grande saggistica storica, inoltre gli editori non guardano più al mondo anglosassone come alla Mecca dell'editoria. Lo confermano il boom dei narratori nordici, che continua al di là del fenomeno Larsson e del rinascimento letterario dell'Islanda, Paese ospite della Buchmesse (per esempio Cristina Palomba di Ponte alle Grazie ha appena acquisito il romanzo Contro natura del norvegese Jonas Espedal) oltre a un rinato interesse per la narrativa latinoamericana.
E gli italiani? Quest'anno sono arrivati con due sorprese: Paolo Zaninoni, direttore editoriale della Rizzoli, ci dice che Il mio inverno a zerolandia dell'esordiente libraia marchigiana Paola Predicatori è stato già comprato in Brasile, Olanda e ha suscitato interesse in molti altri Paesi. Il libro della Predicatori uscirà a gennaio, al pari di Così in terra del siciliano Davide Enia, edito da Dalai, una saga famigliare che racconta mezzo secolo di storia: dai bombardamenti alleati sul Palermo del 1942 alle bombe della strage di Capaci del 1992 e che è stato già opzionato da sette editori in Spagna, Francia, Olanda, Germania, Portogallo, Israele e Polonia.

il Fatto 11.10.11
Il Pd tra vescovi e parrocchie
di Marco Politi


Sarà una balena tricolore. Lo vogliono Casini e il Vaticano. Dunque, non una formazione bianca, dichiaratamente confessionale, bensì un partito nazional-popolare fortemente legato ai valori indicati dalla Chiesa. Il ping-pong di interventi, verificatosi domenica scorsa tra Benedetto XVI, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini e il presidente della Cei Bagnasco ha mostrato un timing troppo perfetto per essere casuale. Apre piuttosto una nuova stagione all’insegna di un’accelerata manovra di incanalamento dell’associazionismo cattolico verso un’area moderata di centrodestra depurata da Berlusconi.
Si realizzi o no, il disegno è questo e il conclave di Todi – che vedrà riunito il 17 ottobre il mondo dei movimenti cattolici ad ascoltare una relazione di Bagnasco – a questo deve servire.
Domenica, nel suo breve pellegrinaggio in Calabria, Benedetto XVI ha auspicato “vivamente” che dal confronto con il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa “scaturisca una nuova generazione di uomini e donne capaci di promuovere non tanto interessi di parte, ma il bene comune”. È da tre anni, dal suo viaggio a Cagliari, che il Papa pungola i fedeli cattolici all’impegno politico. Ma il suo appello, pronunciato a Lamezia Terme durante la messa, ha un senso d’urgenza impossibile da non cogliere.
E infatti Pier Ferdinando Casini ha risposto immediatamente sul suo blog con uno squillante “eccomi”. Visto che Benedetto XVI “ha ribadito la necessità di un impegno dei cattolici per salvare l’Italia”, Casini ha indicato l’obiettivo, agganciandolo esplicitamente al messaggio papale: “Nessuno può o vuole rifare la Dc o ricostruire steccati fra credenti e non”. Invece, ha spiegato, stante il fallimento di questa stagione “tutti, nel Pd come nel Pdl, sentono che c’è bisogno di qualcosa di nuovo che recuperi forti valori e ricette per la crescita, a partire dalle politiche per la famiglia”. È una grande occasione, ha sottolineato Casini “con orgoglio”.
IL SEGNALE è evidente. In questa visione Pdl e Pd vengono posti sullo stesso piano come formazioni in cui non ha senso militare, mentre è bene che i cattolici per affermare i propri valori trovino la loro casa (assieme a laici di buona volontà) in “qualcosa di nuovo”.
Il discorso è fatto per piacere alla gerarchia ecclesiastica, al cui interno un 30 per cento si sente vicino al Pdl, un 40 all’Udc, un altro 30 al centrosinistra. Insomma due terzi dell’episcopato sono in partenza ben disposti verso una formazione moderata di centrodestra, anche se priva di contrassegni confessionali, a metà strada tra Sarkozy e la Merkel. Con tempismo notevole nella stessa giornata il cardinale Bagnasco ha rimarcato che “non esiste nessun partito di Bagnasco, sarebbe assurdo”.
A completare il quadro è intervenuto a stretto giro anche il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, da sempre ben introdotto nelle stanze vaticane. È l’ora – ha dichiarato – di “maturare un cambio di strategia da parte dei cattolici impegnati in politica: non è più sufficiente la difesa dei valori non negoziabili, occorre invece partecipare attivamente alla ricostruzione del bene comune”. Un altro larvato invito alla raccolta dei cattolici in una formazione unitaria.
COSÌ, NELL’ARCO di un weekend, vengono archiviate definitivamente sia la strategia di Ruini (che ha tenuto banco nel ventennio berlusconiano, propugnando la difesa trasversale dei “valori non negoziabili” da parte dei cattolici collocati nei differenti blocchi) sia la tentazione del cardinale Bertone di premere per la fondazione di un nuovo partito cattolico.
Nell’area ecclesiastica ha vinto alla fine la strategia tenacemente portata avanti da Casini da due anni: nessuna alleanza con Berlusconi, rimozione del premier e poi creazione di un partito moderato non confessionale.
Il problema si pone ora al Pd. È evidente, come ha rivelato anche l’ultima indagine di Roberto Cartocci, pubblicata dal Mulino, che il nucleo dei cattolici attivi nelle parrocchie e nei movimenti è rimasto probabilmente l’unica minoranza attiva nel Paese “capace di coniugare insieme solidi riferimenti ideali, dedizione e capacità di organizzarsi in autonomia”. È un mondo indispensabile per ricostruire l’Italia, come hanno dimostrato i referendum sull’acqua e il legittimo impedimento e l’elezione di Pisapia a Milano, ma anche di Vendola a governatore della Puglia.
La questione è come rapportarsi a questa realtà. C’è chi nel Pd vorrebbe dimostrare alla Chiesa di essere altrettanto “affidabile” dei cattolici del centrodestra. È una gara persa in partenza. Se il metro è accettare i paletti del Vaticano, Pier Ferdinando Casini sarà sempre più vicino alla gerarchia ecclesiastica così come Carlo Casini (leader del Movimento per la vita) sarà sempre più inflessibile nella difesa dei “principi non negoziabili” del suo omonimo postdemocristiano.
Il centrosinistra ha un solo modo di approcciarsi alla questione cattolica in maniera vincente. Quello che ha portato alla vittoria di Pisapia a Milano. E cioè di coinvolgere direttamente le forze cattoliche, confrontandosi realmente con i loro valori nell’obiettivo di una rinascita civile. Mantenendo chiarezza sui diritti (coppie di fatto o testamento biologico) su cui oltre due terzi degli italiani sono d’accordo.
Perché nell’urna conta in ultima analisi unicamente il consenso degli italiani, credenti e diversamente credenti, su un preciso programma. Proporsi di inseguire su ogni progetto di legge l’imprimatur della gerarchia è un gioco a perdere. 

Repubblica 12.10.12
Il caso "L'eccesso di attenzioni equivale al maltrattamento"
Madri iperprotettive la Cassazione: è reato
di Elsa Vinci


ROMA  Iper protettive, ansiose, soffocanti. Pur di tutelare i figli, pronte a isolarli dal mondo. Madri possessive, asfissianti, che non sanno di rischiare il carcere. «Sommergere di attenzioni e cure un bambino, sinoa ritardarne la regolarità dello sviluppo, può costituire il reato di maltrattamenti». La Corte di Cassazione ha confermato la condannaa un annoe quattro mesi ad una mamma emiliana troppo apprensiva con il proprio figlio. Un ragazzino trattato come un bebè, che a sei anni aveva ancora difficoltà a camminare.
Quella che in psicologia viene codificata come la "sindrome della madre malevola" nel solco della giurisprudenza non trova scampo. Da anni i tribunali italiani e la Suprema Corte mettono fortemente in dubbio le capacità formative ed educative delle madri, dei genitori, delle famiglie iper protettive. Nel 2003 la Cassazione ha negato l'affidamento del figlio tredicenne ad una mamma separata che faceva il cibo a pezzetti nel piatto per paura che mangiando il ragazzo soffocasse. Stavolta la Corte siè spinta sino a configurare un reato.
Con la sentenza depositata ieri, la sesta sezione penale ha punito l'atteggiamento della madre e del nonno che hanno impedito a un ragazzino rapporti con coetanei sino alla prima elementare. Non solo, in seguito i due hanno imposto comportamenti «riservati all'età infantile» sino alla pre-adolescenza. Il bambino viveva prigioniero dell'amore materno, chiuso in casa. La madre separata e il nonno temevano che giocando coni compagnio seguendo una banale lezione di ginnastica, il bambino potesse farsi male. Per anni sono rimasti sordi ai richiami di insegnanti ed esperti che stigmatizzavano tanta «patologica esasperazione».
Il caso è scoppiato su denuncia del papà, insospettito dal rifiuto del figlio ad incontrarlo. Il bambino - scrivono i supremi giudici - era stato "educato" persino a respingere i contatti con la figura paterna.
La condanna per la signoraè arrivata nel 2007 dal tribunale di Ferrara, con conferma dalla Corte d'appello di Bologna. Senza successo Elisa G. e il nonno materno hanno protestato in Cassazione: tutte le cure con le quali circondavano il piccolo non potevano essere equiparatea chi usa vera violenza sui minorio li manda per stradaa chiedere l'elemosina. «L'iper protettività, lungi dal costituire maltrattamenti, nasceva da intenzioni positive e lodevoli». Tra l'altro il bambino non si era mai sentito «una vittima».
Ma la loro buona fede per la Corte è solo «falsa coscienza». Poiché «la persistenza delle metodiche di iper accudienza e isolamento, segnala l'intenzionalità, che - oltre ogni ragionevole dubbio - connota il reato di maltrattamenti».

Repubblica 12.10.12
Primo sì alla pillola dei 5 giorni dopo "Ma serve il test di gravidanza"


ROMA - La commissione tecnica (Cts) dell'Aifa dà il via libera alla pillola dei 5 giorni dopo in Italia ma chiede che prima di prenderla le donne facciano, come indicato dal Consiglio superiore di sanità, il test di gravidanza con l'analisi del sangue. Uno dei punti su cui si erano concentrate le polemiche viene dunque confermato dall'agenzia del farmaco. La pillola non dovrebbe arrivare in farmacia prima dell'inizio del 2012. La pratica infatti ora passa al Cda dell'Aifa, che dovrà dare il suo ok e disporre la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Infine all'azienda produttrice di "EllaOne", la Hra Pharma, toccherà chiedere i bollini per le confezioni. La richiesta di autorizzazione della pillola, già diffusa in molti paesi, in Italia è stata presentata ben 2 anni fa.

Corriere della Sera 12.10.11
Gli archivi storici in pericolo: non c'è rinnovo generazionale
di Antonio Carioti


Oggi cominciano quattro giorni all'insegna di Agatha Christie. Non si parla però di libri gialli, ma di archivi. Si chiama infatti «...E poi non rimase nessuno», dal titolo di un famoso thriller dell'autrice inglese, l'iniziativa promossa dall'Associazione nazionale archivistica italiana (Anai), con varie manifestazioni in programma da oggi a sabato 15 ottobre, per richiamare l'attenzione sul rischio che un'intera categoria scompaia, lasciando sguarnite istituzioni fondamentali per la conservazione della memoria storica. Il fatto è che gli archivisti, man mano che vanno in pensione, non vengono sostituiti e il mancato avvicendamento rischia di portare in pochi anni alla paralisi delle strutture. A Milano stasera, presso l'Archivio di Stato, si tiene uno degli incontri organizzati per denunciare il problema. Il titolo è «La dissolvenza degli archivisti: l'ultimo chiuda la porta». Conduce Benedetta Tobagi e partecipano vari esponenti della società civile, tra cui il presidente del tribunale Livia Pomodoro, il direttore del «Corriere» Ferruccio de Bortoli, l'attore Paolo Rossi. Molte naturalmente le adesioni di storici, tra i quali Carlo Capra, biografo di Pietro Verri: «L'ultima leva di archivisti, entrata in ruolo 20-30 anni fa, si sta esaurendo — ricorda lo studioso — e il futuro appare un'assoluta incognita. Già adesso gli archivi stanno riducendo il servizio: a Milano si è passati da sei a tre pezzi consultabili ogni giorno, ma in tutta Italia gli orari di apertura e la distribuzione del materiale si sono ridotti in modo drastico».
Se continua così, si rischia la chiusura: «La storia — sottolinea Capra — si scrive lavorando negli archivi e di questo passo il nostro lavoro diventerà impossibile. Lo stesso avviene per le biblioteche che non comprano più libri: ormai per aggiornarsi sulla letteratura scientifica bisogna andare a Parigi o a Cambridge. È un'autentica emergenza: l'Italia si avvia a diventare un Paese di serie B dal punto di vista culturale».

La Stampa TuttoScienze 12.10.12
Intervista a Carlo Rovelli
“Soltanto chi si ribella troverà”
Storia. Se Galileo e Newton sono padri nobili, la scienza del XXI secolo ha bisogno di riscoprire Anassimandro “E’ certo che dal razionalismo non si può più tornare indietro, però è sbagliato pretendere di cancellare gli dei”
di Gabriele Beccaria


L’ANTISCIENTISMO «Rinasce forte e pericoloso come dimostrano gli Usa»
LA RICETTA «Nessuna certezza ma dati in continua trasformazione»

Non uccidete gli dei. Metteteli solo un po’ da parte, ma usate la parte razionale del cervello per studiare sia il mondo sia i loro enigmatici messaggi. Ecco la provocatoria ricetta per addentrarsi nel XXI secolo, ispirata a un filosofo-scienziato di 2500 anni fa, Anassimandro. Tra gli effetti sperati, meno guerre ideologiche, tipo quella emblematica tra creazionisti e darwiniani, e una scienza più «friendly», che non faccia paura, per esempio quando ci mette di fronte al nucleare, alla clonazione o agli Universi paralleli.
Professor Carlo Rovelli, non sarà facile convincere gli scettici sulla bontà della sua idea, raccontata nel saggio «Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro». Quando si pensa a formule e teorie, vengono in mente Einstein, Newton o Galileo. Non certo Anassimandro, che lei descrive come uno straordinario intreccio di astronomo, cartografo, biologo e antropologo.
«Anassimandro è all’origine di diverse idee scientifiche di portata immensa, ma soprattutto è il primo a concepire la conoscenza come un atto di ribellione, rispettosa ma profonda, contro il sapere del presente. Ecco perché è uno dei padri del pensiero scientifico».
Sono passati 26 secoli e, nonostante la Relatività e gli iPhone, lei sostiene che quell’originaria lezione razionalista resta ancora controversa: perché?
«Pochi l’avrebbero previsto mezzo secolo fa, ma oggi si percepisce di nuovo un forte e pericoloso antiscientismo: oltre il 50% degli americani, per esempio, ritiene che l’Universo abbia meno di 6 mila anni, perché - dicono - così sostiene la Bibbia. Forse è una reazione agli eccessi scientisti dell’Ottocento, quando i positivisti pensavano che la scienza offrisse solo certezze assolute».
Per molti la situazione è anche peggiore: la scienza è accusata di essere «distruttrice» e basta, anche di tutti i valori morali e religiosi.
«Si dimentica che i valori di oggi nascono dalla distruzione di valori precedenti. La legittimità della schiavitù, l’origine divina del potere dei re, la sottomissione della donna e l’intolleranza verso altre religioni erano valori morali, alcuni difesi fino a poco fa perfino dalla Chiesa cattolica. Ce ne siamo tutti sbarazzati e ne siamo tutti ben contenti. L’idea che i valori buoni siano quelli antichi e non quelli nuovi, che si sostituiscono ai precedenti, è evidentemente sbagliata».
Paure e sospetti, però, rimangono, come ai tempi di Anassimandro. Faccia un po’ di autocritica: in che cosa sbagliano gli scienziati?
«Penso che non dovrebbero nascondere il fatto che la scienza può sbagliare e che non spiega tutto. Ma non per questo è meno affidabile».
Per esempio?
«Ci ricordiamo il caso Di Bella e le miracolose guarigioni dal cancro? Alcuni scienziati andarono in tv e tennero le labbra serrate, parlando solo di protocolli e certezze scientifiche. Sarebbe bastato spiegare che le guarigioni incomprensibili tra i pazienti di Di Bella erano tanto frequenti quanto le guarigioni incomprensibili tra i malati non curati da nessuno. Oggi, invece, ci interroghiamo sul riscaldamento climatico. Ma il problema non sono le certezze, è il rischio serio che deve spingerci ad agire. Intanto i creazionisti contestano l’evoluzionismo, sostenendo che a Darwin manca la prova definitiva. E tuttavia non servono prove assolute: servono ragioni plausibili. Le alternative a Darwin sono tutte immensamente più implausibili».
Esagerando, la scienza è affidabile, pur essendo incerta?
«Esatto. Le soluzioni della scienza non sono definitive. Sono le più credibili che abbiamo oggi».
Pensa che spiegare questo atteggiamento «aperto» ridurrebbe davvero i conflitti scienza-religione?
«Penso che il conflitto sia inevitabile con le religioni che pretendono di imporre i propri valori agli altri o di essere depositarie di certezze assolute. Queste, talvolta, hanno difficoltà a tollerare lo spirito critico. Ma penso che la religione esprima bisogni umani profondi e reali ed eserciti funzioni essenziali, che mi sembra superficiale non vedere. Disconoscere gli aspetti spirituali solo perchè non li abbiamo ancora decifrati razionalmente mi pare un atteggiamento miope nei confronti della complessità umana. Si può essere serenamente atei e allo stesso tempo percepire il mistero, amare il prossimo, possedere valori etici forti, sentire la sacralità del mondo, cercare la verità e anche ringraziare gli dèi per una giornata di felicità».
Torniamo ad Anassimandro: nella sua interpretazione è uno scienziato ante-litteram (immagina che la Terra galleggi nel vuoto) e un tollerante intelligente (non si fa beffe dei riti). Oggi che cosa significa ispirarsi a lui?
«Il successo storico della rivoluzione di Anassimandro insegna che dal razionalismo scientifico non si torna indietro senza rischiare la barbarie. Non dobbiamo ripudiare la ricchezza di pensiero che l’Illuminismo ci ha lasciato. Lo scientismo, però, deve allargare i propri orizzonti e tenere conto della complessità ancora così poco compresa del pensiero umano e soprattutto avere chiari limiti del nostro sapere: per quanto vaste siano le conoscenze, c’è un oceano di fenomeni ancora da capire. Accettare l’ignoranza è il primo passo per imparare».

La Stampa TuttoScienze 12.10.12
Steven Pinker. Perché siamo più buoni
Il nuovo saggio di Pinker vuole dimostrare che viviamo nella società più pacifica di sempre Il merito è dell’evoluzione culturale, ma il rischio di un salto all’indietro è sempre incombente
di Maurilio Orbecchi


Che ci crediate o no – e so che molta gente non ci crede - la violenza è in declino da molto tempo. Noi viviamo, probabilmente, nel periodo più pacifico dell’esistenza dell’intera specie umana». Steven Pinker presenta con queste parole il suo nuovo libro, intitolato «The Better Angels of Our Nature: How Violence Has Declined», in uscita negli Stati Uniti.
Pinker, titolare della cattedra di psicologia a Harvard, è una star internazionale, al punto di essere stato inserito dalla rivista «Time» tra gli uomini più influenti al mondo. Per sostenere la sua tesi, si avvale di una notevole quantità di esempi e di dati. Parte dall’archeologia forense, disciplina che indaga sul rinvenimento dei resti scheletrici. Questi studi rilevano, su oltre il 15% degli scheletri preistorici, segni di traumi come teschi sfondati da colpi violenti, scheletri decapitati, femori con frecce conficcate e mummie con funi attorno al collo. Paragonando questi dati con quelli degli Usa e dell’Europa nel XX secolo, che hanno una media di morti violente inferiori all’1%, nonostante due guerre mondiali e alcune altre a dimensione regionale, si evidenzia una differenza netta, che indica maggiore violenza nella Preistoria rispetto ad oggi. Se poi si allarga la valutazione del XX secolo a tutto il mondo, considerando come morti violente anche quelle dovute alle grandi carestie create dall’uomo, la differenza si attenua leggermente, perché si arriva al 3% dei morti per cause violente. Una percentuale che, tuttavia, rimane ancora ben lontana da quella della Preistoria.
Un altro settore di studio utilizzato è quello della statistica etnografica contemporanea, che registra, nelle società prestatali ancora esistenti, una media di 500 persone morte per omicidio (con punte di 1500) ogni 100 mila. Tra le società statali più violente del XX secolo ci sono, a quote decisamente più basse, la Germania, con un tasso di 135 persone per 100 mila abitanti, la Russia (130) e il Giappone (30). La media del mondo intero, includendo le carestie indotte dall’uomo, è di 60 morti violente per 100 mila persone.
Una terza disciplina utilizzata da Pinker per provare la sua tesi è la criminologia della storia. Il ricercatore di punta in questo settore è Manuel Eisner dell’Università di Zurigo, i cui studi hanno evidenziato un forte declino delle morti violente nel nostro continente. In Inghilterra e in Germania, per esempio, calano di oltre il 95%, dall’anno 1300 a oggi.
La prima causa della diminuzione degli omicidi va sicuramente riferita alla formazione degli Stati moderni, che si riservano il monopolio dell' uso della forza, del giudizio e della pena, rendendo meno frequenti le ritorsioni private che creano faide plurigenerazionali. Tuttavia gli stessi Stati hanno prodotto una grande violenza al loro interno. Pinker evidenzia con l’ausilio di eloquenti grafici che la violenza degli Stati, terribile all’inizio della loro formazione, è diminuita ancor più degli omicidi nel corso dei secoli. Per esempio la tortura è stata progressivamente vietata a cominciare dalla fine del 1600 in Inghilterra e Scozia; il divieto si è poi esteso alla maggior parte dei Paesi europei alla fine del 1700, per finire con Spagna, Vaticano, Portogallo e Russia, gli ultimi Stati ad aver abolito la tortura nel XIX secolo.
Nello stesso periodo c’è stata una riduzione dell’uso della pena di morte per crimini non letali. Per esempio in Inghilterra si è passati da 222 ragioni per comminare la pena di morte nel 1600 (tra cui sodomia, furto, adulterio, falsificazione e stregoneria) ad appena 4 motivi, nel 1861. La pena di morte è poi stata abolita progressivamente in tutta l’Europa. Gli Usa, l’unica nazione occidentale a mantenerla in vigore ancora oggi (in due terzi degli Stati, mentre in un terzo è abolita), hanno conosciuto una diminuzione notevole delle pene capitali, passando dalle 16.500 esecuzioni annuali del 1700alle 50 esecuzioni (in media) di questi ultimi anni.
Negli ultimi due secoli la schiavitù, un altro indicatore inequivocabile di violenza interna allo Stato, è stata abolita in tutto il mondo. Se poi si considera quanto avvenuto dal 1945 a oggi, il periodo che Pinker chiama «la lunga pace», vediamo che tutti gli Stati più sviluppati hanno vietato il maltrattamento e la discriminazione di gruppi da sempre svantaggiati, come le minoranze razziali, gli omosessuali, le donne, i bambini e perfino gli animali. Non dobbiamo però - avverte Pinker - cadere in facili illusioni. Il declino della violenza non avviene per un' evoluzione della specie umana, ma per un'evoluzione culturale della società. Per questo motivo non siamo al riparo dal rischio che la violenza si ripresenti in forme anche molto gravi e distruttive. Ma una visione corretta della storia aiuta a creare le condizioni per ascoltare i propri migliori angeli, ossia la parte più nobile della natura umana.
Per la quantità e la qualità dei dati offerti Pinker risulta convincente. Il suo libro può segnare una svolta nella concezione che l’essere umano ha della propria storia e del suo futuro.
LE PROVE Dalla preistoria fino al presente un declino costante

La Stampa TuttoScienze 12.10.12
Nel Nord Africa o nel Vicino Oriente, avviati a trasformazioni geopolitiche di esito ancora incerto, qual è il futuro del passato?
È qui il futuro del passato
A Roma meeting di Diplomacy: “Sono molto più che scavi”
di Cinzia Di Cianni


L’archeologia richiede indagini multidisciplinari: dalla antropologia all’archeobotanica fino all’ultima frontiera delle ricostruzioni virtuali

In un quadro di instabilità chi difenderà l'eredità fragile della loro storia? La tutela del patrimonio archeologico nei Paesi del Mediterraneo è il tema di un convegno che si svolge oggi a Roma nell' ambito di Diplomacy, secondo Festival internazionale della diplomazia. Oltre il fascino romantico delle avventure alla Indiana Jones, le missioni archeologiche sono un «avamposto» nel campo delle relazioni diplomatiche: basti pensare che attorno al Mare Nostrum si effettuano ogni anno 800 operazioni, che coinvolgono 14 mila «attori» locali e 2 mila studiosi in missione. «La cooperazione internazionale vive un momento difficile ma eccezionale. - commenta Sergio Ribichini dell'ISCIMA-CNR, responsabile italiano dei lavori ad Althiburos, in Tunisia, una delle 157 missioni italiane in corso -. E' fondamentale incrementare gli scambi culturali con questi Paesi, anche per favorire l'evoluzione della democrazia».
Le parole vincenti per affrontare le sfide future sono cooperazione, conservazione e sviluppo tecnologico. La missione archeologica, infatti, è un fenomeno complesso, che richiede indagini multidisciplinari: archeologia in senso stretto, ma anche epigrafia, numismatica, archeo-antropologia, archeo-zoologia, archeo-botanica, storia politica e artistica, storia economica e storia delle religioni, ricostruzioni virtuali e altre tecnologie applicate ai Beni culturali. Inoltre, coinvolge vari livelli culturali, sociali ed economici, perché un sito archeologico non è solo un oggetto di ricerca, ma anche una meta turistica.
Il valore simbolico del patrimonio storico è emerso drammaticamente con la distruzione dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, o, al contrario, nelle vicende di piazza Tahrir al Cairo, dove i cittadini si sono stretti in una catena umana per proteggere il «loro» museo dai saccheggi. «Uno straordinario simbolo del nuovo Egitto che avanza - commenta Marilina Betrò, direttore della missione a Dra Abu el-Naga (Luxor) - come i guardiani dei nostri scavi e la gente che nella necropoli tebana si è organizzata per fare le ronde a difesa dei monumenti. E questo è il duplice ruolo delle testimonianze del passato: tramite di identità nazionale, ma anche del sentimento collettivo del nostro essere uomini, senza confini o barriere etniche».
In Libia, intanto, «non ci sono allarmi - assicura Luisa Musso, docente di Archeologia all'Università di Roma Tre e direttore della missione italiana a Leptis Magna -: musei e grandi monumenti non hanno subito atti vandalici e solo il museo di Bani Walid, teatro di guerra, potrebbe essere danneggiato». Finora - aggiunge - «ci hanno chiesto soprattutto la formazione del personale locale e anche la creazione di parchi archeologici che possano diventare una fonte di reddito».
Oggi, tra le discipline umanistiche, l’archeologia è, di certo, la più tecno-scientifica. Prima di iniziare, bisogna acquisire tutto ciò che si può sapere senza scavare e per questo si ricorre ai satelliti, ai Gis (i sistemi informativi territoriali computerizzati), ad analisi geofisiche o geomagnetiche, oltre che a strumenti innovativi per il restauro, la conservazione, la diffusione delle conoscenze. E in Egitto, dove sono attive 23 missioni italiane, 11 delle quali in collaborazione con istituzioni egiziane, il futuro è già arrivato. «Un aspetto innovativo è l'utilizzo della realtà virtuale, - ricorda Marilina Betrò -: è una tecnologia che nella cosiddetta “realtà aumentata” permette non solo di creare repliche fedeli di monumenti e ambienti del passato, e di interagirvi, ma anche di integrare le informazioni fornite dallo scavo e dall'interpretazione archeologica. E' ciò che abbiamo fatto per la tomba del sacerdote Huy a Dra Abu el-Naga, dopo aver eseguito la scansione del monumento con laser scanner 3D».
Dall’Egitto alla Siria sono tanti i Paesi con un patrimonio inestimabile: sapranno difenderlo e valorizzarlo? Secondo Ribichini, ci sono buone speranze per la Tunisia. «Sami Ben Tahar, specialista della civiltà cartaginese, è oggi sindaco di Jerba Houmt Souk spiega -. Pur non essendo un politico di professione, si è messo a disposizione per questo periodo di transizione». Ma bisogna agire in fretta: anche per le gloriose vestigia del passato il futuro non è più quello di una volta.

La Stampa TuttoScienze 12.10.12
Dal Cern al Gran Sasso si passa per la Sardegna
di Gianni Parrini


Ora i neutrini rischiano di diventare le prime donne della nuova fisica. Non resta che aspettare e vedere per capire se davvero questi elementi infinitesimali viaggiano a una velocità superiore a quella della luce. Certo è che nel rivoluzionario esperimento condotto tra il Cern e i Laboratori del Gran Sasso c'è anche un po' di Sardegna.
Nel 2005, infatti, alcuni fisici e ingegneri del Crs4, il centro di calcolo a 30 km da Cagliari, si trovavano nei laboratori di Ginevra per realizzare una simulazione numerica del «target di carbonio», l'obiettivo contro cui si indirizza il fascio di protoni e da cui si generano i neutrini, poi intercettati dai laboratori abruzzesi. In pratica, i ricercatori cagliaritani avevano il compito di valutare la resistenza del bersaglio nella parte finale dell' acceleratore di protoni e nel quale viene concentrata l'energia.
«L'impatto dei protoni sul target disgrega la materia, rilasciando le particelle che la costituiscono, tra cui i neutrini - Luca Massidda, protagonista dello studio -. Il sistema può essere paragonato a quello di un fucile collocato a Ginevra che spara un proiettile di neutrini verso un bersaglio al Gran Sasso. Il nostro contributo era realizzare il modello delle “cartucce” e verificarne le prestazioni».
Il team ha utilizzato delle asticelle di carbonio (dello stesso tipo dei freni di F1), lunghe meno di due metri e con un diametro di pochi millimetri: «Dovevano assorbire la giusta quantità di energia immessa attraverso il fascio di protoni e soprattutto resistere alle sollecitazioni senza rompersi - prosegue il 39enne Massidda -. Abbiamo analizzato l'interazione dei protoni con la materia da vari punti di vista,strutturale e termico, e per farlo ci siamo serviti dei codici di calcolo sviluppati al Crs4, perché i normali processori non sono in grado di affrontare problemi simili».
Il centro situato a Pula, in effetti, vanta padri nobili (il primo presidente è stato Carlo Rubbia) ed è all'avanguardia nell'ambito delle tecnologie computazionali abilitanti e nelle applicazioni alla biomedicina, alla società dell'informazione, all'energia e all'ambiente. Non è un caso che il 12 e il 13 settembre scorsi, a Cagliari, si sia tenuta una conferenza per la ricerca e l'innovazione a cui hanno partecipato 500 ricercatori da tutto il mondo, con lo scopo di rafforzare le strategie dei propri centri di studio.
«Non si tratta di un episodio casuale - spiega Paolo Zanella, presidente del centro di calcolo -.  La Sardegna si è costruita un ruolo importante: è la regione italiana che investe di più in ricerca (300 milioni in due anni) e possiede le risorse per trasformarsi in una sorta di California: un luogo in cui si studiano nuove tecnologie con ricadute industriali». Il Crs4, che compie 20 anni e ha una potenza di 47 teraflop (47 milioni di operazioni al secondo), ha già raggiunto risultati ragguardevoli: negli ultimi 12 mesi, per esempio, ha completato il sequenziamento di oltre mille genomi, un numero pari a quello di tutti i sequenziamenti completati nel mondo nello stesso periodo. Grazie a questa banca dati i ricercatori di Cagliari e Sassari hanno individuato il gene responsabile della sclerosi multipla.
«Viviamo in una società in cui occorre gestire un'infinita quantità di dati - prosegue Zanella -. Il calcolo scientifico numerico diventa quindi indispensabile: dalla medicina all’energia, fino al visual computing». E la capacità di creare modelli in 3D è stata usata anche dall'imprenditoria: il centro ha contribuito a realizzare il primo modello di aereo tridimensionale «manipolabile». Questo Boeing 747 virtuale promette l’ennesima rivoluzione per progettisti e ingegneri.

Corriere della Sera 12.10.11
Il finanziere ammazzato e i segreti dell'Opus Dei
di G. Fas.


MILANO — La volta dell'incontro «off the record»: Gianmario Roveraro accettò di parlare del caso Parmalat a patto di rimanere anonimo. «Sono stupito di quello che fa Tanzi» esordì, «è una persona buona... per me il suo è un comportamento schizofrenico». La volta che Antonello Zunino (cda di Mediolanum morto pochi giorni fa) passeggiò con Roveraro per le vie di Londra e vide macchie di sangue sui suoi pantaloni. «Che succede?» chiese. «Porto il cilicio» confessò lui, «l'ho stretto troppo». Gli inviati del Sole 24 Ore Angelo Mincuzzi e Giuseppe Oddo raccontano episodi come questi e molto molto di più in Opus Dei. Il segreto dei soldi, un libro Feltrinelli da oggi nelle librerie. È un'inchiesta che annoda i fili di una storia di cronaca nera, giudiziaria, finanziaria, umana: quella, appunto, di Gianmario Roveraro, cattolico che più cattolico non si può, finanziere e uomo-vetrina dell'Opus Dei che nell'estate del 2006 fu ammazzato e tagliato in sette pezzi da Filippo Botteri, un ragazzo che viveva alla giornata, che amava i soldi e la bella vita, che si occupava di investimenti fai-da-te prima di diventare socio di Roveraro in una operazione dai contorni non chiari. Botteri fu condannato all'ergastolo, il caso ebbe la sua soluzione e tutto quel che riguardava gli strani personaggi e gli ancor più strani affari ai quali erano interessati rimase nell'ombra. Il libro di Mincuzzi e Oddo, adesso, mette in fila circostanze e persone che aiutano a definire nei dettagli il caso Roveraro, «lasciando parlare soltanto i fatti» tengono a precisare loro stessi. Un lavoro durato tre anni, la testimonianza di 150 persone (molte hanno chiesto l'anonimato) e la ricerca metodica di conferme, un passo dopo l'altro. Ricostruendo la storia di Roveraro, i due inviati si sono imbattuti in quella che definiscono «una galassia opaca di società controllate e gestite da uomini della Prelatura». Le conservatorie immobiliari, le camere di commercio e le testimonianze raccolte hanno disegnato a poco a poco una struttura verticale di società, controllate da fondazioni che hanno alle spalle associazioni. Un modo per rendere poco trasparente la proprietà di queste società che l'Opus Dei utilizza per gestire scuole, residenze, ospedali, patrimoni immobiliari. Il libro è un fascio di luce che illumina i dettagli più inquietanti del caso. Per esempio: quattro anni prima di essere ucciso Roveraro si era imbarcato in una misteriosa operazione finanziaria internazionale. Qual era la natura di quell'affare?

Corriere della Sera 12.10.11
Identikit della classe operaia cinese
ovvero piccoli padroni crescono
di Marco Del Corona


Esistono. Non sono più proiezioni fantastiche, figure ideali. Gli operai cinesi esistono, e non sono nemmeno l'indistinto sfondo ai record della seconda economia del mondo. La carne del boom, i lavoratori delle fabbriche hanno bisogno di un volto. Ecco allora che una ricerca del China Labour Bulletin (Clb), organizzazione non governativa di Hong Kong, tenta di sottrarre i lavoratori agli stereotipi semplificatori dell'Occidente. A riprova che il tema è urgente, Pechino ha appena diffuso il numero dei migranti, ovvero coloro che per lavorare si sono spostati dalle campagne alle città: 221 milioni. E due giovani studiosi italiani, Tommaso Facchin e Ivan Franceschini, hanno realizzato un documentario commovente, Dreamwork China, che fa parlare gli operai, quelli della famigerata Foxconn di Shenzhen. Dicono di sé. Sogni inclusi.
Scandagliate dal 2009 al 2011 aziende private e a proprietà statale (Soe), il dossier del Clb racconta di lavoratori cinesi ormai consapevoli che il guadagno delle fabbriche è tale da pretendere retribuzioni meno punitive. Gli operai «non aspettano più che siano il governo o altri a farsi carico delle loro condizioni di lavoro». Aumenta la capacità organizzativa, c'è «un crescente senso di unità fra i lavoratori» (e infatti il rapporto si intitola «L'unità fa la forza») potenziato dall'«uso di cellulari e social network» che rende «più facile avviare, organizzare e sostenere proteste». Nelle quali, peraltro, si segnalano sempre più successi: in Cina «le proteste hanno creato un embrionale sistema di contrattazione collettiva».
C'è forse troppo ottimismo nell'analisi del Clb. Nessuna rivoluzione operaia sembra covare in Cina. Tuttavia, è utile sapere che gli operai venuti dalle campagne «non hanno intenzione di tornare al villaggio per aggiungere un piano alla loro casa. Vogliono farsi una vita in città, e per questo hanno bisogno di soldi». O ascoltare — come all'inizio di Dream- work China — il «piccolo sogno» di un'operaia: «Aprire un negozio di cosmetici». E quello di un giovanissimo collega: «Diventare un padrone». Appunto.

Corriere della Sera 12.10.11
L’Oriente prima della Grecia
I nostri padri? Egizi e semiti
di Pierluigi Panza


Il primato ellenico viene «costruito» solo a metà Settecento

Nel 1987 lo studioso Martin Bernal pubblicò un libro controverso intitolato Black Athena: Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica. Sviluppava due temi: il primo riguarda lo studio dei prelievi culturali dei greci dalle civiltà egiziana e fenicia; il secondo, al quale qui accenniamo (e potrà essere approfondito sui volumi della collana), la costruzione culturale di una Grecia «ariana» come luogo d'origine della civiltà occidentale avvenuta in Europa nella seconda metà del Settecento.
A parte l'«afrocentrismo» di Bernal — già criticato da Mary Lefkowitz — resta indubbio che, sino ad allora, i padri delle civiltà e della «prisca sapienza» erano ritenuti gli egiziani e i semiti. Entrambi potevano vantare le più antiche tradizioni culturali e religiose, monumenti identitari diventati archetipi (le piramidi e il tempio di Salomone) e le lingue più vicine agli dei o a Dio: i geroglifici e la lingua ebraica.
Semplificando, dal tardo Umanesimo sino a metà Settecento — quando iniziano le spedizioni degli eruditi a Levante — le grandi tradizioni culturali che si sviluppano nell'Europa colta sono fondate o legate a queste due civiltà. L'esempio più noto è quello fornito da Marsilio Ficino alla corte medicea che interrompe la traduzione di Platone per passare a quelle del Pimander e dell'Asclepius, i testi ermetici (sono compilazioni greche, ma allora ritenute dell'egiziano Ermete Trismegisto) portati in Europa dai sapienti in fuga da Bisanzio conquistata dall'islam. Tra il 1471 e il 1641 si contano 25 edizioni della traduzione ficiniana del 1463.
La pubblicazione della Hieroglyphica di Orapollo nel 1505, e l'analogo testo del Valeriano in 58 libri del 1556, rappresentano i vertici degli indefessi studi dedicati dagli eruditi alla decifrazione della lingua sacra, i geroglifici. Del resto nessuno dubita che gli egizi siano anche gli inventori delle future Belle arti: «Li Egiptii — scrive Leon Battista Alberti nel De re edificatoria — affermano bene anni seimila essere la pittura stata in uso prima che fusse traslata in Grecia».
Ovviamente anche le più magnificenti costruzioni dell'antichità sono in Egitto o nel bacino semitico. Basti pensare alla straordinaria fioritura di libri sulle cosiddette sette meraviglie del mondo tra il Cinque e il Seicento: la maggior parte degli autori che tentano di fissarne il canone le stabilisce a Levante. Sono piramidi, giardini pensili di Babilonia, Tempio di Salomone, Colosso di Rodi… Quando le si individua in Morea, queste fanno spesso riferimento a un'età anteriore a quella della Grecia classica. Le piramidi, poi, danno vita allo sviluppo di una vera e propria disciplina, la piramidografia, tesa a studiare le «esatte dimensioni» di queste architetture misteriose e sacre. Burattini e Graves ritennero di essere riusciti a misurare la grande piramide.
Ma non sono solo le piramidi a interessare gli eruditi, anche il tempio di Salomone. Due gesuiti, Prado e Villalpando, tra il 1596 e il 1604 ne tentano una ricostruzione geometrica sulla base del Libro di Ezechiele. E il tempio di Salomone, come l'Arca dell'Alleanza e quella di Noè diventano gli archetipi di una nuova tradizione artistica, quella salomonica, di cui la costruzione dell'Escorial è il vertice. Tradizione che trova il suo corrispettivo nella Storia naturale nella cosiddetta teoria mosaica dello sviluppo della terra (alla quale l'epistemologo Paolo Rossi ha dedicato insigni studi). Non c'è Wunderkammer nel Sei-Settecento che non ambisca ad esporre rarità di naturalia o artificialia provenienti dall'Oriente o dall'Africa, dai coccodrilli del Nilo ai coralli, dai corni di rinoceronte ai mattoni della torre o delle mura di Babele. Li esibisce il più grande erudito dei Seicento, il gesuita Athanasius Kircher nel suo museo al collegio romano, tra decine di obelischi in legno, modellini di quelli che, negli stessi secoli, venivano innalzati a Roma. Uno anche in piazza San Pietro dall'architetto Domenico Fontana: un'impresa talmente eroica da scriverne un libro nel 1590.
Tutto questo cambiò dalla metà del Settecento sulla base di molteplici spinte, da quelle accademiche (nei paesi tedeschi) a quelle politiche a quelle nate sulla spinta delle prime misurazioni dei monumenti greci di Stuart e Revett nel 1764, anno in cui Winckelmann pubblicò la bibbia della rinascita greca nell'arte, la Geschichte, ovvero la Storia dell'arte nell'antichità. La Francia colta, da monsignor Mariette sino agli accademici Beaux arts, contribuirà alla costruzione del mito greco mandando in soffitta i grandi repertori sulle antichità di Caylus e Montfauçon, troppo aderenti all'antico modello. La sconfitta di Napoleone in Egitto — nonostante il colossale sforzo documentativo della Description de l'Egypte — contribuirà ulteriormente allo spostamento d'interesse. La «liberazione» della Grecia dal giogo turco favorirà la costruzione di una idea diversa del Levante, che diventerà, per gli orientalisti europei, il luogo dell'esotico, del pittoresco e del mistero. Mentre la Grecia liberata dagli ellenisti europei, come Byron, la culla della nostra civiltà.
Un corpo di spedizione francese, in accordo con le altre due potenze (Inghilterra e Russia), invierà nell'agosto del 1828 una spedizione di studiosi, guidata da Bory de Saint-Vincent, per documentare tutte le caratteristiche della Grecia (Expédition scientifique de Morée, Parigi, 1831-1835, tre volumi). Abel Blout, che ne cura la parte relativa ai monumenti, si esalta nel «portare la civiltà» in Grecia, scrive, «patria» di quell'Europa rinnovata dalla rivoluzione del 1789. Il suo era un ideale di libertà da «esportare», nato con i libri di Volnay ed elaborato dall'ambasciatore Forbin. E vivo ancora oggi! Basta sostituire la parola libertà con democrazia.

Repubblica 12.10.12
Futuro Il computer che prevede crisi economiche e rivoluzioni
È il più grande progetto mondiale di raccolta dati ad usare informazioni di Twitter, Facebook e motori di ricerca Obiettivo: rielaborarle per rivelare le leggi del comportamento umano, come si fa con i fenomeni naturali
di John Markoff


Più di 60 anni fa, nel suo "ciclo delle Fondazioni", il grande autore di fantascienza Isaac Asimov inventò una nuova scienza - la psicostoria - che univa la matematica e la psicologia per prevedere il futuro. Oggi i sociologi tentano di scavare tra le immense risorse di Internet - come le ricerche sul Web e i messaggi su Twitter, Facebook e i post sui blog, o le tracce digitali generate da miliardi di telefoni cellulari - per fare la stessa cosa.
I ricercatori credono che questo immagazzinamento di dati rivelerà per la prima volta le leggi sociologiche del comportamento umano - mettendoli in grado di predire crisi politiche, rivoluzioni e altre forme di instabilità sociale ed economica, così come i fisici e i chimici possono predire i fenomeni naturali. «Si tratta di un passo in avanti significativo», dice Thomas Malone, direttore del Center for Collective Intelligence presso il Massachusetts Institute of Technology. «Abbiamo a disposizione tutta una serie di dati più ricchi e dettagliati e degli algoritmi da usare per le previsioni. Questo rende possibile un tipo di previsione che prima non sarebbe mai stata immaginabile».
Il governo è interessato a queste ricerche. Nei mesi scorsi un'agenzia di intelligence ha fatto circolare una proposta di ricerca: il suo obiettivo è trovare nelle facoltà universitarie di sociologia e nelle imprese idee che consentano di analizzare automaticamente Internet in 21 paesi dell'America Latina per raccogliere ed elaborare una grande quantità di informazioni. L'esperimento triennale, che comincerà il prossimo aprile, è finanziato dall'Intelligence Advanced Research Projects Activity, o Iarpa, che fa parte dell'ufficio del direttore dei servizi segreti americani.
Il sistema di raccolta automatica dei dati dovrà concentrarsi sui modelli di comunicazione, consumo e movimento delle popolazioni. Userà dati accessibili al pubblico, tra cui ricerche su Internet, interventi nei blog, flussi di traffico su Internet, indicatori del mercato finanziario, webcam sul traffico e correzioni nelle voci di Wikipedia.
Il sistema dovrebbe essere totalmente automatico: una sorta di "grande occhio" per analizzare i dati su Internet senza alcun intervento umano. La ricerca non si limiterebbe a eventi politici ed economici, ma esplorerebbe anche la capacità di predire pandemie e altri tipi di contagio su vasta scala, un tentativo già fatto indipendentemente da ricercatori civili e da alcune imprese come Google. Alcuni sociologi sostengono che questo progetto ricorda il Total Information Awareness, un programma ideato dal Pentagono dopo l'11 settembre per dare la caccia a potenziali attentatori identificando dei modelli in grandi raccolte di dati sia pubblici che privati: intercettazioni telefoniche, e-mail, informazioni sui viaggi, sui visti, sul passaporto e sulle transazioni fatte con la carta di credito.
«Di fronte a simili iniziative mi viene in mente il Total Information Awareness», dice David Price, antropologo della St. Martin's University di Lacey, nello stato di Washington, che si è occupato di collaborazioni tra sociologi e agenzie di intelligence. «Seè comprensibile che uno stato-nazione voglia seguire eventi come l'esplosione di una pandemia, dubito che questo possa accadere in modo totalmente automatico».
Esiste un progetto simile promosso dall'analogo ente militare, la Defense Advanced Research Projects Agency, o Darpa, che si propone di identificare automaticamente i social network ribelli in Afghanistan. L'agenzia sostiene che la sua analisi può rivelare cellule terroristiche e altri gruppi internazionali seguendo le tracce dei loro incontri, degli addestramenti, degli scambi di materialee dei trasferimenti di denaro.
L'anno scorso, i ricercatori degli HP Labs, i laboratori della Hewlett-Packard, hanno usato i dati di Twitter per prevedere con precisione gli incassi al botteghino dei film di Hollywood. Nel mese di agosto, la National Science Foundation ha approvato il finanziamento di una ricerca che userà social media come Twitter e Facebook per stabilire i danni causati dai terremoti in tempo reale.
L'accessibilità e la informatizzazione di grandi banche dati ha cominciatoa stimolare lo sviluppo di nuove tecniche statistiche e di software per gestire la raccolta di dati con miliardi di elementi. «Questi dati consentono di muoversi oltre l'inferenza e la rilevanza statistica e andare verso analisi utili e precise», dice Norman Nie, uno dei pionieri nello sviluppo di strumenti statistici per i sociologi e che ha fondato una nuova società, la Revolution Analytics, per elaborare un software che analizza immense raccolte di dati.
Fin dal 2008, un progetto del Pentagono chiamato Minerva Initiative ha pagato una serie di studi, tra cui una ricerca dell'Arizona State University sugli avversari politici del radicalismo islamico e uno studio della University of Texas sugli effetti del cambiamento climatico sulla stabilità politica africana.
I sociologi che cooperano con le agenzie di ricerca sostengono che le nuove tecnologie avranno un effetto positivo. «Il risultato sarà una comprensione migliore di ciò che avviene nel mondo di quanto i governi locali sappiano gestire la situazione», dice Sandy Pentland, studiosa di informatica al M.I.T. Media Laboratory. «È forse la prima vera opportunità per tutta l'umanità di avere un governo trasparente».
Alcuni informatici non credono che si possa prevedere un'instabilità politica con indicatori come le ricerche su Web. «Non credo che stiamo assistendo a una rivoluzione», dice Prabhakar Raghavan, direttore degli Yahoo Labs. Si è scritto molto, fa notare, sulla possibilità di prevedere le epidemie influenzali osservando le ricerche sul Web del termine "flu" (influenza), ma le previsioni non sono migliorate rispetto a quello che si poteva trovare nei dati dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie.
Altri ricercatori sono ottimisti.
«In questi dati c'è un grande potere di previsione», dice Albert-Laszlo Barabasi, fisico della University of Notre Dame. «Se ogni ora ho informazioni sulla tua ubicazione, posso prevedere con un'attendibilità del 93 per cento dove ti troverai tra un'ora o tra un giorno».
C'è anche una questione più profonda e cioè se sarà possibile trovare delle leggi del comportamento compatibili con le leggi delle scienze fisiche. Per Isaac Asimov,i poteri di previsione della psicostoria funzionavano solo a condizione che fosse possibile misurare la popolazione umana di un'intera galassia.
(Copyright New York Times - La Repubblica. Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 12.10.12
Il segreto dell'amore con l'handicap
Diversamente amati. Quando tuo figlio non è come gli altri
di Julia Kristeva


Julia Kristeva racconta nel suo ultimo saggio in forma di dialogo il nostro complesso rapporto con l'handicap e la sua storia personale di madre

Il termine «diverso» sembra un eufemismo che nega la diversità specifica che è l'handicap. La visione caritatevole ingloba l'handicap nella categoria generale dei «poveri» (secondo i testi antichi) o dei «diversi» (come si dice oggi per non ferire nessuno): è importante interrogarsi su come quella differenza, che è un deficit incrociato (al crocevia di un corpo e di una società), esponga coloro che ne sono portatori e coloro che li accompagnano a un'esclusione senza paragoni. Riguarda la capacità di un essere vivente di dare un senso e di partecipare al patto sociale. Perché eccede ampiamente le «differenze» economiche, sociali, etniche, nazionali, religiose o razziali. Un giorno dovremmo ritornare sul discorso, se vorrai.
Restiamo per il momento sull'immagine, che sembri condividere, del desiderio materno: non mi sono riconosciuta neanche in quella.
Non più di quanto mi sia riconosciuta nelle sconvolgenti affermazioni delle madri giunte da zone difficili, che ho ascoltato parlare mercoledì, al forum del CESE, in occasione della Giornata delle donne maltrattate, dove hanno annunciato che nel 2010 la «violenza sulle donne» è diventata nel nostro paese una «causa nazionale». Nonostante la loro ribellione le partecipanti avevano interiorizzato a menadito quel che LA società domanda ai genitori, e ancor più alle madri: riuscire a ottenere il posto migliore nel «sistema», un sistema fatto di «posti» e non di singole persone. Mi è venuto in mente Céline: «Il proletario è un borghese fallito». «Vogliamo che i nostri figli abbiano successo, ottengano quel che noi non abbiamo potuto avere e fare», diceva in buona sostanza una di quelle donne. Applausi scroscianti in sala. Non ero assolutamente in sintonia, avrei detto piuttosto: «Amo mio figlio così com'è, vorrei aiutarlo a scoprire i suoi desideri e a realizzarli secondo le sue possibilità».
Due maniere di essere madre? Ma cos'è una madre? Mi pare questa la prima domanda da porci prima di chiederci: che cos'è una madre di un portatore di handicap? Lo ripeto spesso, e ti prego di scusarmi: la securizzazione è l'unico approccio che sulla maternità non fa un discorso diverso da quello del consumismo («ci sveniamo per comprare ai nostri figli tutto quel che desiderano»), della pediatria (la riparazione del corpo sostituisce la vita interiore) o, al limite, della pedopsichiatria (quando questa vita interiore si rivela troppo dolorosa e imbarazzante). E arrischio una semplice risposta.
La «madre sufficientemente buona» (parafrasando la chimera inventata dal più grande esperto moderno in materia, lo psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott) è capace di spogliarsi della passione materna - vale a dire di svincolarsi dalla presa possessiva che una madre tende a esercitare sul «suo» figlio immaginario, facendolo oscillare tra il bambino-oggettoe il bambino-re - e pensare in tal modo dal punto di vista dell'altro. (...) Ma la madre di un bambino handicappato? Sento la tua impazienza. Ebbene, è la stessa cosa. Con la sola differenza, non da poco, che le occorre accompagnare, attraversare e tradurre l'incontro con l' irrimediabile differenza cheè la menomazione.
Come può essere possibile? Piene di senso di colpa e di vergogna, ferite a vita, alcune crollano, si accusano di tutti i mali della terra. Altre abbandonano il bambino - raramente, ma capita. Restano altre tre possibilità. O la madre si rifiuta di sapere: non ammette, nel proprio intimo, il deficit neurologico, sensoriale, motorio ecc., di suo figlio, e si rinchiude in un fuori dal mondo a due, monade immaginaria e idealizzata che si trasforma ben presto in guerra senza via d'uscita con l'intrattabile realtà sociale. Oppure la madre glorifica quel rifiuto fino a considerarlo un segno di elezione (abbracciando anche alcune credenze religiose) e cercando di trovare o creare una comunità protetta, oasi di carità, dove suo figlio vivrà tagliato fuori dall'ostilità circostante, rassicurato dalla più sincera delle compassioni possibili che gli ordini caritatevoli prodigano da secoli. O ancora, quel deficit mette i due genitori (parleremo in un altro momento del padre, sei d'accordo?) di fronte alla propria vulnerabilità, alla sua profondità sino ad allora ignorata.
Io sono come quella madre scioccata, stordita, che incontra la propria morte: sì, caro Jean, ho conosciuto momenti simili molto prima dell'arrivo di Davide anche insieme a lui, e li ho chiamati una «dissociazione passeggera» (non dimenticare le virgolette!) per sottolineare due cose.
Per prima cosa, l'esperienza della nostra mortalità. Non parlo della morte astratta affrontata dalla filosofia («filosofare significa imparare a morire» ecc.); e neppure delle cure palliative che un g iorno o l'altro noi, cittadini sempre più vecchi delle democrazie medicalizzate, dovremo subire volenti o nolenti. Ma del contatto simbolico, immaginario e reale, che un essere umano è capace di provare con la propria mortalità in corso, per tutta la vita. Sì, la psicoanalisi ha scoperto che l'inconscio è non solo una messa in atto dei desideri (compresi i desideri di «successo»!), ma una messa in atto della distruzione di sé e dell'altro. Sì, il trattamento psicoanalitico di Freud e dopo Freud preferisce privilegiare la messa in atto dei desideri erotici nell'ascolto dell'inconscio. Tuttavia, col prodursi di certi traumi o disordini psicosomatici, si comincia a scoprire il posto centrale della mortalità (distruzione e autodistruzione) nello psichismo dell'essere parlante, come pure il suo ruolo fondamentale nelle attività creative, ad esempio l'arte e la letteratura. (...) Madre di un disabile, cerco di non voltare le spalle alla mortalità; la condivido, ne faccio parte, edè soltantoa questa condizione che posso accompagnare la vulnerabilità. Sperando di favorire con essa e attraversandola - lo sbocciare della creatività in David. Lo so: per fortuna, paragonati ad altri i suoi problemi forse sono minori, e mio figlio trova posto in un mondo che noi (lui, suo padre e io) cerchiamo di rendere più generoso di «fioriture» per tutti. Ma - per essere giusta con lui e permettergli di realizzare le sue potenzialità - non ho bisogno dello sguardo ingenuo che una madre dovrebbe portare sul «bambino piccolo», e ancor meno della voglia di farlo «riuscire» là dove io ho fallito. Vivo con la sua incapacità, con quel che percepisco, provo e penso della sua vulnerabilità. E fino alla mortalità che è sostanziale a quella vulnerabilità come alla mia. (...) E se non si potesse dire l'handicap diversamente da così: con una costellazione di pensieri che sbriciola discipline, norme e categorie, e sollecita l'infinito del pensabile? Evitando ogni etichetta: «tu sei qui», «io sono lì», «essere significa essere felici», «Bontà di Dio»... Ma «vivendo l'handicap», per l'appunto, come una prova sovradeterminata e che sfida tutto quel che ci rinchiude in una convenzione («norma», «disciplina», «certezza», «successo»...) pretendendo di sapere cosa significhi UMANO. Mi segui? Intendo dire che «vivere l'handicap» cercando di pensarlo per sventare la morte di coloro che ne sono afflitti (migliorando le loro condizioni di vita e sensibilizzando quanti se ne credono risparmiati), significa anche sfidare la metafisica.
Contro le sue categorie, non è anche un'autentica «contentezza» per la vita del pensiero? E per la vita nel suo complesso? (Traduzione di Alessia Piovanello) © Donzelli editore

C’è chi ha scomodato il ’68, ci saranno le sigle della sinistra radicale: Sinistra e libertà, Federazione della sinistra, Sinistra Critica, le varie sigle comuniste. Ci sarà anche Nichi Vendola, ma anche la Rifondazione comunista di Paolo Ferrero...
il Fatto 12.10.11
Un mondo di indignados
La contestazione partita in Spagna contagia il globo Sabato le mille anime del movimento in piazza a Roma
di Salvatore Cannavò


Scusate il disturbo ma questa è una rivoluzione”. Inizia così la presentazione che il movimento spagnolo 15M, meglio conosciuto come quello degli “indignados” ha fatto ieri della giornata del 15 ottobre. La data era stata lanciata quasi in sordina prima dell’estate dai giovani spagnoli che hanno occupato le piazze del loro paese. Ora è diventata mondiale. Non si contano, infatti, le città del pianeta che hanno deciso di manifestare sabato prossimo contro gli effetti della crisi economica, il taglio della protezione sociale ma anche contro il riscaldamento del pianeta, la corruzione, per una nuova democrazia. C’è un video del movimento spagnolo che elenca 99 ragioni per manifestare sabato, e il 99 per cento è la percentuale di coloro che pagano la crisi mentre l’1 per cento della popolazione detiene nelle proprie mani la maggior parte delle ricchezze.
C’È CHI ha scomodato il ’68 e chi, più modestamente, il movimento “no global” che attraversò il pianeta circa dieci anni fa, per descrivere l’impatto della nuova ventata di indignazione. Certamente, la crisi globale ha contribuito a generare una rivolta generazionale più o meno estesa che, però, sembra avere una forte efficacia mediatica. Si pensi alle immagini che provengono da New York, dove “Occupy Wall Street” sta catalizzando l’attenzione della stampa e degli opinionisti antisistema più noti come Michael Moore, Naomi Klein o Slavoj Zizek. Un altro video del movimento spagnolo dà il senso di questa visione globale: si vedono, infatti, le immagini delle piazze del Cile, dell’Egitto, della Tunisia, di Israele, di New York e di Madrid come segnali di un vento globale che scuote il mondo intero e che, da sabato prossimo, dovrebbe soffiare anche in Italia.
La giornata italiana indetta dal Coordinamento “15 ottobre” si snoderà da piazza della Repubblica (appuntamento alle ore 14) fino a piazza San Giovanni. “Gli esseri umani prima dei profitti – dice l’appello di convocazione – non siamo merce nelle mani di politici e banchieri, chi pretende di governarci non ci rappresenta, l’alternativa c’è ed è nelle nostre mani, democrazia reale ora!”. I toni sono analoghi a quelli spagnoli, viene denunciata la politica portata avanti da Commissione europea, Banca centrale, Fondo monetario internazionale. E se si respira un’aria antigovernativa e antiberlusconiana gli “indignados” italiani puntano il dito anche contro i “dogmi intoccabili quali il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita”. Scelte “non obbligate” perché ci sono “altre strade” dicono i promotori che chiedono “riconversione ecologica, giustizia sociale, saperi, cultura, territorio”. Si fa riferimento al referendum del 12 e 13 giugno, alla difesa dei beni comuni, ai diritti dei migranti e alla riduzione delle spese militari. Si parla anche di debito e della possibilità di non pagarlo. Il cartello di forze riunite è molto ampio e comprende più associazioni, sindacati e comitati che partiti. C’è l’Arci e la Fiom, Legambiente e il Popolo viola, quasi tutti i sindacati di base, le organizzazioni studentesche protagoniste dei movimenti degli ultimi anni, i centri sociali e poi le sigle della sinistra radicale: Sinistra e libertà, Federazione della sinistra, Sinistra Critica, le varie sigle comuniste. Le previsioni per il corteo di sabato sono molto ottimistiche. I pullman sono tra i cento e i duecento – difficile una stima precisa perché ogni struttura organizza i propri e non c’è un coordinamento centrale – con un impegno corale da parte di tutte le anime. Che sono diverse tra loro e non sempre d’accordo su tutto. C’è una componente, ad esempio, che ha visto riunire sotto la sigla “Uniti per l’alternativa” un sindacato come la Fiom e i centri sociali “ex disobbedienti” che progetta di costruire “uno spazio pubblico politico e di movimento” e si riconosce nelle varie manifestazioni sociali, ma che guarda con interesse anche alle primarie “di programma” e all’impresa di Nichi Vendola; c’è un cartello, piuttosto distante dal Pd, che invece si riconosce nello slogan “Non paghiamo il debito” e che ha visto riunite circa mille persone a Roma il 1 ottobre in una assemblea introdotta da Giorgio Cremaschi, esponente della sinistra Cgil; poi c’è l’area dello “sciopero precario” che si muove attorno a parole d’ordine come “diritto all’insolvenza e reddito di base” e che è animata da centri sociali, ma anche da economisti come Andrea Fumagalli; poi ci sono soggetti più contigui al Pd come l’Arci o Legambiente, ma anche la Rifondazione comunista di Paolo Ferrero. Tra i politici in piazza si annuncia anche la partecipazione di Antonio Di Pietro che al Fatto spiega di aver registrato “una spontanea partecipazione di tanti uomini e donne dell’Idv”. Ci sarà anche Luigi De Magistris e molto probabilmente Nichi Vendola.
LA CHIUSURA formale del corteo sarà in piazza San Giovanni dove non parleranno né politici né personalità riconosciute, ma i rappresentanti di trenta vertenze, dai NoTav ai lavoratori della Fincantieri, dai NoPonte ai cassintegrati. E se alcuni settori pensano di non fermarsi o di non arrivare a San Giovanni altri invece terranno degli “speak-corners”, angoli della piazzaattrezzatidialtoparlantiper tenere comizi spontanei. Ma sabato in piazza potrebbero vedersi anche diverse tende da campeggio. Gli universitari di Atenei in Rivolta, ad esempio, stanno sostenendo la campagna “Yes we camp”, per “scendere in piazza e rimanerci fino a quando questo governo non se ne sarà andato”. Gli studenti della Link, invece, dicono “chi vuole intendere inTenda” slogan corredato dall’immancabile igloo sul modello delle piazze spagnole a loro volte mutate da piazza Tahrir. Tutti gli studenti, comunque, si sono dati appuntamento per sabato alle 12 all’Università di Roma in piazzale Aldo Moro.
E POI C’È l’anteprima che si terrà oggi all’insegna di “Occupiamo Banca d’Italia” promossa anche in questo caso dagli studenti a cominciare da Unicommon. L’istituto presieduto da Mario Draghi organizza un convegno al quale parteciperà anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E a lui i “Draghi ribelli” vogliono consegnare una lettera (box in alto). L’appuntamento sarà probabilmente animato – ieri la polizia ha bloccato i precari che volevano occupare simbolicamente la Biblioteca nazionale – e anche in questo caso ci sono diverse tende pronte ad accamparsi nel centro della città. Sono in molti a sostenere, infatti, che dopo “Occupy Wall Sreet” è venuto il tempo di “occupare Roma”.

il Fatto 12.10.11
La Guzzanti sei anni dopo
“Altro che Zapatero”
Sabina torna in tv con il suo film-denuncia e prepara un corso per aspiranti autori di satira
di Federico Mello


Viva Zapatero sei anni dopo. Sabina Guzzanti torna in tv: venerdì La7 trasmetterà il suo film-documentario vincitore del nastro d’Argento che ha svelato all’Italia e all’estero i meccanismi dell’asfissiante cappa che grava sull’informazione italiana. “Viva Zapatero – ci spiega lei – è stato un film che ha scosso molti. Ma allora l’opinione pubblica era reattiva, c’era un clima diverso: non c’era ancora la sensazione, arrivata con le elezioni del 2008, che la situazione assurda del nostro Paese non sarebbe mai finita.
Scontiamo vecchi errori?
Dopo il film il centrosinistra andò al governo. Ero convinta che avrebbe colto l’occasione per battersi per l’informazione libera, era una battaglia molto popolare dopo tutte le iniziative di quel periodo. Invece, non hanno fatto nulla.
La chiusura di Raiot fu censura?
Fu censura nel senso letterale del termine, e la più eclatante. Se una persona finisce la stagione e non la richiami, è una censura, certo. Ma non era mai successo, e non si è più verificato, che un programma venisse interrotto dopo una sola puntata.
Tutta colpa degli ascolti, forse.
Da subito il direttore di Rai3 Ruffini voleva bloccare tutto. Poi era intervenne l’Annunziata, allora presidente Rai, che chiese di mandarlo in onda convinta che sarebbe stato un tonfo. Facemmo il 18 per cento: il massimo che Rai3 aveva fino ad allora fatto nella sua storia. E ciononostante ci chiusero subito.
Con quali motivazioni?
Tutte quelle che allora apparivano disgustose, ma alle quali oggi siamo assuefatti. Dissero che Mediaset ci aveva fatto una causa miliardaria e lo dichiarano prima che Mediaset ci querelasse in fretta e furia chiedendo 20 milioni di euro: bisognava creare un minaccia seria per dire che con noi l’azienda rischiava problemi economici. Venimmo assolti.
Quale fu la frase incriminata?
Era il periodo in cui si approvava la Gasparri. Dissi: “Conosco un poverino che si è fatto nove anni per aver masterizzato un cd mentre Rete4 è abusiva”.
A minacce simili abbiamo assistito anche in seguito.
Certo, di recente i casi di San-toro e della Dandini. Ma in questi anni tutti abbiamo dovuto fare i conti giornalmente con la censura.
Le cose sono peggiorate?
Sicuramente. Sullo schema che Viva Zapatero documenta: all’improvviso giornalisti ed esponenti politici hanno iniziato ad utilizzare discorsi illogici e in malafede come giustificazione. Solo il fatto che ripetano tutti in coro le stesse cose, le fa diventare “vere” e difficili da contestare.
E i giornalisti?
Il disgusto che abbiamo per la classe politica andrebbe esteso ai giornalisti: sono stati i loro migliori complici. Al di là dei precari che sono gli unici giustificati, è incredibile come, nonostante i loro ottimi stipendi, abbiano rinunciato a fare le domande, a raccontare, persino a vedere. Sarebbe bastata un po’ di solidarietà e la censura non sarebbe stata possibile. Invece chi ha alzato la testa è stato licenziato o emarginato, e se l’è presa in saccoccia. Mentre a destra si ironizzava sulle “aspirazioni al martirio”.
Da aprile hai sposato anche l’impegno sul campo, sei impegnata in un’attività culturale nel quartiere San Lorenzo a Roma.
Volevano trasformare il Cinema Palazzo, un posto dove si è esibito per anni Petrolini, in una sala giochi, un casinò. Ci siamo opposti, abbiamo ridato quel luogo al quartiere. Tra l’altro, non si capisce come il municipio abbia potuto dare i permessi a questa società: stiamo indagando ma, chissà perchè, non riusciamo ad avere le carte che abbiamo chiesto
Che attività fate?
 Incontri con attori e scrittori, proiezioni, iniziative culturali. E puntiamo alla “formazione”. Il 17 presenteremo un corso di satira a cui parteciperanno molti autori e interpreti satirici: gli studenti universitari potranno usare la partecipazione al corso come credito formativo. Faremo anche corsi di teatro civile, proiezioni di film non distribuiti e spettacoli dal vivo. Anche musica, condomini permettendo.
A Roma anche il teatro Valle è in piena attività. Gli artisti si sono svegliati?
No. Sono ugualmente colpevoli in questi anni, di aver parlato d’altro, di non aver raccontato la vera situazione del Paese. Solo quando il governo ha cominciato a farci la guerra per sterminarci ci sono state delle reazioni.
Come vedi il dopo Berlusconi?
È evidente che c'è bisogno di una proposta di cambiamento che deve venire dal basso, dall'opinione pubblica. È evidente che i partiti non hanno capacità né intellettuale né pratica di riformarsi. Ma c’è fermento intorno, e grande voglia di cambiamento.
Per costruire cosa?
La direzione la dobbiamo scegliere noi. Ma si discute e si progetta. Mi sto divertendo molto.

il Fatto 11.10.11
La Libia ha solo cambiato padrone
di Massimo Fini


 Il presidente del Consiglio nazionale transitorio (Cnt), Mustafa Abdel Jalil, si è genuflesso davanti al nostro ministro della Difesa, l'ex fascista Ignazio La Russa, giustificando il colonialismo italiano, fascista, degli anni Trenta in Libia: "Il colonialismo italiano, nonostante tutti gli sbagli, non potrà mai essere paragonato a Gheddafi . Gheddafi è stato assai peggio. Il colonialismo italiano portò strade e palazzi ancora oggi bellissimi a Tripoli, Derna, Ben-gasi. Portò sviluppo agricolo, leggi giuste e processi giusti. Gheddafi invece è stato l'esatto opposto". Intorno a Jalil ragazzini libici sventolavano bandiere tricolori, le nostre, gridando "Viva l'Italia!". Il ministro La Russa, preso da entusiasmo, ha risposto al grido di "Allah Akbar!" (Allah è grande!). E lo credo bene. Il colonialismo italiano, in Libia e altrove, è stato peggiore, come scrive Sergio Romano sul Corriere , di quello inglese e francese. Il che è tutto dire.
Se avevo dei dubbi su questi rivoltosi libici adesso non li ho più. Sono, oltre che, perlomeno nelle alte sfere, degli ex gheddafiani che hanno cambiato sponda al momento opportuno, a cominciare da Jalil che sotto Gheddafi era ministro della Giustizia, proprio il posto peggiore, degli imbelli, dei servi antropologici che senza il pesantissimo apporto dell'aviazione Nato non sarebbero andati da nessuna parte. Non sono stati loro a rivendicarsi in libertà. La guerra l'ha vinta la Nato.
E quando non ci si rivendica da sé in libertà, ma si ricorre all'aiuto determinante dello straniero, poi si pagano pedaggi pesantissimi. Fatte tutte le debite proporzioni, è quanto è avvenuto all'Italia nel periodo 1943-45. Non siamo stati noi a liberarci dal fascismo, ma le truppe americane, inglesi, neozelandesi, australiane, marocchine e dei razzisti sudafricani. La Resistenza è stata il riscatto morale di poche decine di migliaia di uomini e di donne coraggiosi, ma dal punto di vista militare, ad onta di tutta la retorica di cui l'ammantiamo da sessant'anni, non ha avuto nessuna influenza sull'esito del conflitto. E le conseguenze si sono viste. Nonostante noi ci si sia autoconvinti di aver vinto una guerra che invece avevamo perso, e nel peggiore dei modi, siamo diventati dei sudditi, militarmente, politicamente, economicamente e, alla fine, anche culturalmente degli americani. Non solo e non tanto perché gli Stati Uniti mantengono sul nostro territorio un'infinità di basi i cui militari godono di extraterritorialità per cui possono compiere impunemente stragi (Cermis) o stuprare le ragazze napoletane (sì loro, i vessilliferi della dignità e dei diritti delle donne), ma ci costringono a seguirli nel loro avventurismo imperiale: aggressione alla Serbia nel 1999 (governo D'Alema), occupazione dell'Afghanistan da dieci anni, uno scandalo silenziato che grida vendetta al cielo, e la stessa aggressione alla Libia. A cui Berlusconi non avrebbe voluto partecipare perché è tutto, e il peggio di tutto, ma non è un guerrafondaio. Ha altri interessi, i suoi.
Adesso la Libia diventerà un protettorato occidentale che, come tutti i protettorati, sfrutterà le sue risorse tenendosi per sé il grosso e lasciando agli indigeni le briciole.
I libici non si sono liberati. Hanno solo cambiato padrone.

martedì 11 ottobre 2011

Repubblica 11.10.11
Se il potere esige la privacy
di Carlo Galli


LA MAGGIOR parte dei goffi tentativi di rendere accettabile l'inaccettabile legge-bavaglio si fonda sull'argomento liberale della privacy, cioè della tutela della vita privata del cittadino. Ma si tratta di una mistificazione. Lo dimostra un'analisi non ideologica. Lo dimostra una valutazione non dogmatica ma storica e politica del liberalismo. È una mistificazione che nasce dall'identificazione di Berlusconi con "il cittadino", ovvero dall'omissione, voluta e consapevole, dell'elemento del potere, dei rapporti di potere; omissione che è appunto l'essenza dell'ideologia. La privacy - insieme all'habeas corpus di cui è una conseguenza - è stata infatti progressivamente elaborata, in età moderna, per affermare l'autonomia e l'autocontrollo del cittadino, il suo dominio su se stesso, per consentirgli, insomma, di difendersi dal potere; per istituire uno spazio fortificato, e ben presidiato dalla legge, che custodisce la prima libertà moderna: la vita del singolo. Ma questa affermazione di libertà si inserisce in una lotta fra popolo e governi assoluti, e non si esaurisce in se stessa; fa parte di una più ampia rivendicazione di trasparenza e di pubblicità del potere, delle sue origini e dei suoi modi d'esercizio, che dal liberalismo storico si è diffusa fino alla contemporanea civiltà democratica, divenendo patrimonio di costumi e di costituzioni.
L'opacità difensiva che riveste la sfera privata del singolo individuo ha infatti il proprio pendant nella lotta dei cittadini contro il segreto, contro l'opacità della politica assolutistica, contro gli arcana imperii. Il liberalismo non consiste solo nel fare i propri comodi, nel vivere nascosti, come sembrano ritenere parecchi di coloro che affollano l'improvvisata platea dei liberali italiani: è anche iscrivere la vita politica di tutti nel paradigma della pubblicità. Ossia dell'opinione pubblica, e delle pubbliche istituzioni. E la pubblicità implica non solo la strenua difesa della prima e più elementare forma di trasparenza, cioè della legalità - tema liberale anch'esso, non "giacobino" né "comunista" - e l'esercizio della critica; che per avere senso deve essere informata.
Di qui il ruolo decisivo, in un contesto liberale, della libera stampa, che fornisca al pubblico le notizie sul potere, delle quali i cittadini hanno bisogno per poterlo criticare e giudicare, approvare o disapprovare. E quindi per tentare - esercizio sempre più difficile - di essere liberi. Eludere la dialettica fra il potere e i cittadini, uniformarli entrambi in uno spazio politico omogeneo e informe costituito da monadi tutte ugualmente chiuse in se stesse, opache a ogni valutazione, non è liberalismo; è appunto una mistificazione. È infatti evidente che ciò che non fa notizia nel caso di un privato cittadino - le sue conversazioni, o il fatto che porti i calzini viola (come invece fu amabilmente fatto rilevare da una persecutoria trasmissione televisiva a proposito di un giudice sgradito al potere) - può farlo se il soggetto che agisce è uno degli uomini più importanti d'Italia, la principale carica politica del governo. Le cui azioni e frequentazioni, i cui stili di vita pubblica e privata - soprattutto quando pubblicoe privato, spassi sessuali e appalti, si intrecciano l'un l'altro inestricabilmente - , hanno rilievo pubblico perché rientrano nella sfera del potere; che in una società liberale, in una cultura politica liberale, è sempre tenuto a un tasso di virtuosità e di trasparenza superiore a quelli dei cittadini. O, se si vuole è sempre sorvegliato speciale; così che tutto ciò che lo riguarda fa notizia: la pera di Ein a u d i c o m e l e escort di Berlusconi. Se, come nel caso che il nostro Paese per l'ennesima volta si appresta ad affrontare, il potere si difende sprofondandosi nell'opacità, nella riservatezza, nel bunker della privacy, benché si collochi sullo stesso piano dei cittadini fa in realtà un'operazione assolutamente contraria, nella sostanza, all'uguaglianza; fa un'operazione da ancien régime, aggiornata nella forma in omaggio ai tempi nuovi - non moderni ma postmoderni - . Infatti, l'insindacabilità della vita privata del premier implica di fatto l'insindacabilità del suo agire pubblico, che privato dello sfondo su cui si staglia resta anch'esso opaco, incomprensibile. Un premier che vuole presentarsi ai cittadini come crede meglio, mettendo in scena se stesso con tutti gli artifici e gli accorgimenti del caso, per nascondere i retroscena, non è il premier di un Paese libero, o liberale; è una nuova edizione dell'autorappresentazione barocca del potere. Incarna la vecchia pretesa al monopolio dello sguardo, dell'interpretazione, della decifrazione della politica. È un potere estraneo alla pubblicità e alle sue logiche politiche, che di volta in volta vuole lo status di 'difeso speciale' dalla magistratura e quello di 'semplice cittadino' uguale a tutti gli altri. È, in una parola, un potere arbitrario, un'autocrazia che, classicamente, esercita una vera e propria censura, ammantandosi di malintesa liberaldemocrazia garantista.
La legge-bavaglio, proprio perché è un dramma per la magistratura e per la libera stampa, colpendo la legalità e la libertà d'informazione, è quindi un dramma per l'insieme delle civili libertà, per ciò che ne resta. Un dramma che, come spesso accade, stravolge concetti, li imbastardisce, e priva i cittadini di ogni difesa - logica, intellettuale, prima che politica - davanti alle vecchie e nuove forme del sopruso. Che tale resta, anche se passa attraverso il lavacro formale della legge.

Repubblica 11.10.11
Editori in rivolta: no alla legge bavaglio
"Libera informazione a rischio". Il direttore di Einaudi firma a titolo personale
di Maurizio Bono


MILANO - Come un anno e mezzo fa, maggio del 2010 al Salone di Torino, ma con ancora più forza di allora, e su una ribalta internazionale, la Fiera del libro di Francoforte che apre domani i battenti, dove la protesta degli editori contro la "legge bavaglio" del governo Berlusconi detona come una clamorosa difesa di diritti e principi di libertà minacciati. L'appello, come la prima volta, parte nella mattinata di ieri dai vertici di quattro case editrici di cultura, Marco Cassini e Daniele di Gennaro di Minimum fax, Giuseppe e Alessandro Laterza della storica casa editrice che fu di Benedetto Croce, Stefano Mauri e Luigi Spagnol del Gruppo Editoriale Mauri Spagnol. Il testo vede nella «legge che vieta la pubblicazione delle intercettazioni disposte dai magistrati» uno dei «tentativi di restringere in maniera drastica il diritto di informazione dei cittadini», ricorda che «i provvedimenti proposti in Italia dall'attuale maggioranza sulle intercettazioni hanno sollevato forti perplessità perfino da parte di qualificati rappresentanti di istituzioni quali l'Osce, l'Onu e l'Unione Europea», e chiede «alla vigilia della Fiera internazionale del libro, dove potremo condividere la nostra preoccupazione con i colleghi editori di tutto il mondo, al Governo e al Parlamento di recedere da questo nuovo tentativo di bloccare la diffusione di conoscenze rilevanti e significative sugli atti processuali».
L'invito è «ai colleghi editori e agli amici librai per la firma di questo appello» entro mercoledì, quando la Fiera di Francoforte entrerà nel vivo e tra i primi convegni importanti si terrà quello dell'Aie dedicato all'editoria italiana. Ma già ieri in giornata la pagina della protesta fa il giro del mondo dei libri. Aderiscono Feltrinelli, Giunti, Fazi, Newton Compton, Dalai. È «inequivocabilmente orientato a firmare», dicono in via Mecenate, il gruppo Rcs, che aspetta solo di formalizzare la decisione dei vertici (nel 2010 firmò per il gruppo Paolo Mieli, ora all'estero). L'Aie fa sapere che contro la "legge bavaglio" sarà una parte della relazione del presidente.
Ma questa volta firma "a titolo personale" anche Ernesto Franco, direttore editoriale dell'Einaudi. Mentre ufficialmente la casa editrice di Torino "comunicherà mercoledì le sue decisioni" e anche Mondadori aspetta la scadenza per dire la sua. Due anni fa la mobilitazione era già riuscita a rispedire momentaneamente nel limbo delle leggi ritirate il "decreto anti-intercettazioni", ma aveva spaccato l'editoria italiana in due: da una parte 188 firmatari dell'appello, dall'altra la Mondadori di proprietà del presidente del consiglio e la sua controllata Einaudi inchiodate in difesa, con l'argomento che la protesta nascondeva «una operazione di marketing» dei concorrenti. Da allora la Mondadori, dove si era già consumato lo scontro tra la sua presidente Marina Berlusconi e Saviano, è stata al centro di nuove polemiche per le difese del premier da parte della figlia contro la magistratura, per il licenziamento dell'editor della saggistica Andrea Cane e l'assunzione come consulente di Sandro Bondi, ma anche per la perdita di autori importanti (dopo Vito Mancuso e Saviano, Vittorio Zucconi e Corrado Augias).
Molti autori Einaudi, da Gustavo Zagrebelsky a Marco Revelli, contro la legge bavaglio hanno già firmato l'appello.

Corriere della Sera 11.10.11
Quella scure sugli editori (di libri)
di Caterina Malavenda


Ora che la maggioranza parlamentare sembra intenzionata a discutere persino con l'opposizione la modifica delle norme che hanno suscitato le polemiche più aspre, risolti forse con un emendamento i problemi dei blog, sono gli editori dei libri a rischiare di rimanere con il cerino in mano.
Già gravati, al pari di quelli che pubblicano anche o solo giornali, degli oneri che derivano dalla responsabilità amministrativa, nel caso in cui un autore pubblichi intercettazioni illegali o irrilevanti, saranno anche le sole vittime della «nuova» rettifica.
Nel silenzio quasi assoluto di chi ha protestato fino allo sfinimento contro l'udienza filtro, infatti, l'art. 29 del disegno di legge, sottoposto all'approvazione della Camera, concede a chiunque si sia visto attribuire in un libro, immagini, atti, pensieri o affermazioni diffamatori o contrari a verità il diritto di indicare non più di due quotidiani nazionali, sui quali l'editore dovrà far pubblicare, a sue spese, un testo di rettifica senza replica dell'autore.
La rettifica è un istituto antico, saggiamente introdotto nel 1948 nella legge sulla stampa dall'Assemblea costituente, con il chiaro obiettivo di dar voce a quanti, diffamati sui giornali, volessero replicare, raccontando la propria verità.
A tale scopo si ritenne di riservar loro uno spazio qualificato — medesima pagina e uguale evidenza — sullo stesso periodico che aveva divulgato notizie false, per consentire — confidando sulla fedeltà dell'utente — a chi le avesse lette di essere informato della posizione dell'interessato, senza ulteriori spese per l'editore, proprietario di quello spazio. Per l'impossibilità pratica di ottenere il medesimo risultato con i libri, i lungimiranti componenti dell'Assemblea non ritennero che l'istituto potesse riguardarli.
Ora, invece, con scelta improvvida ed assai costosa, si pretende di estendere il diritto di rettifica anche al loro contenuto, ponendo a carico degli editori l'obbligo di acquistare gli spazi necessari per la diffusione delle rettifiche, come detto pubblicandole senza replica.
Basta ricordare quel detenuto che inviò una rettifica da San Vittore, sostenendo di non essere mai stato arrestato, per apprezzare la conseguenza di una tale previsione, la circolazione su quotidiani nazionali di informazioni prive di controllo, provenienti da chi, senza contraddittorio, potrà smentire anche fatti veri.
La soluzione adottata, comunque, non ha alcuna speranza di ottenere il suo scopo: quanti saranno i lettori che hanno letto quel libro e che ricordano la circostanza smentita e che leggono proprio quei quotidiani? Talmente pochi da vanificare lo sforzo economico.
L'insensatezza della previsione è proporzionale ai costi esorbitanti che editori, anche di nicchia, dovrebbero affrontare, specie quando abbiano pubblicato libri su argomenti delicati o inchieste su personaggi potenti. Potrebbero finire sommersi di rettifiche, con costi spesso insostenibili.
La soluzione? Presto detto, passare ad autori che si occupino degli scandali nell'antica Roma o nel Risorgimento. Chi mai potrebbe chiedere una rettifica per conto di Cesare o di Garibaldi?
avvocato penalista
esperto in Diritto dell'informazione 

Repubblica 11.10.11
Hanno già aderito centinaia di cittadini, scrittori e artisti. Daria Colombo: una storia che parte dai girotondi
La campagna dei nastrini arancioni "Un segno per dire basta al governo"
di Annalisa Cruzzocrea


ROMA - Il colore è quello delle vittorie di Milano e Napoli. La rivoluzione ucrainaè lontana, non lo sono i trionfi arancioni di Giuliano Pisapia e Luigi de Magistris.
Su quell'onda, con quell'intento - di politica che si apre alla società, di partiti che si mescolano con associazioni e movimenti nasce un appello insolito: mettere sul bavero della giacca, attaccato al cappotto, annodato alla borsa, o semplicemente come braccialetto, un nastrino arancione. Per dire: «Io desidero che il governo si dimetta», o anche solo: «Non condivido la politica del governo Berlusconi». Un piccolo segno, che hanno già scelto in molti. L'elenco mandato dai promotori - rigorosamente in ordine alfabetico - comincia con Wahid Abdu, gelataio, e si chiude con Silvia Zingone, laureata disoccupata. In mezzo ci sono gli scrittori Barbara Alberti, Massimo Carlotto, Dacia Maraini, Antonio Pennacchi, il premio Nobel Dario Fo insieme a Franca Rame, la grecista Eva Cantarella, l'attrice Giuliana de Sio e la sorella Teresa, Massimo Ghini, Silvio Muccino e Neri Marcorè, per restare al cinema, Paolo Rossi per il teatro, l'astronauta Umberto Guidoni, il filosofo Giulio Giorello, don Gino Rigoldi, e i cantanti Fiorella Mannoia, Daniele Silvestri, Antonello Venditti, Roberto Vecchioni. C'è anche la moglie di Vecchioni, Daria Colombo, scrittrice e già animatrice dei girotondi del 2002. È tra coloro che hanno steso l'appello: «Noi, come semplici cittadini italiani consapevoli e responsabili, siamo convinti, a prescindere dai nostri orientamenti politici, che l'attuale governo non corrisponda più alla maggioranza degli elettori del nostro Paese. Per questo riteniamo che esso debba rimettere quanto prima il suo mandato nelle mani del Presidente della Repubblica».
Per chiederlo, si vuole colorare l'Italia di arancione. «Si è già mosso molto, le contestazioni studentesche, il milione di donne in piazza, le elezioni amministrative,i referendum, gli amici al Teatro Valle, hanno fatto riemergere il fiume carsico del sentimento civile. E tutto è cominciato con i girotondi del 2002», dice Daria Colombo. Che rivendica quell'esperienza come tutt'altro che fallimentare: «È stato il primo movimento, e ha fatto quello che doveva fare: muovere, scuotere, far aprire gli occhi non solo sul berlusconismo al potere, ma su quella che era diventata una mentalità. I girotondi hanno creato quel percorso irreversibile che ha portato alle vittorie di Milano e di Napoli. Pisapia ha fatto una campagna elettorale basata sull'ascolto di tutti, e lo ha trasformato in proposta politica.
Questo è risultato vincente».
Don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria e fondatore della Comunità nuova, un'associazione che aiuta i ragazzi in difficoltà a reinserirsi nella società, spiega di aver aderito appena letto l'appello: «Serve un altro governo, servono competenza, serietà, visione dei bisogni. A parte i comportamenti singoli del nostro premier, tutt'altro che affascinanti, ho l'impressione che ci sia una grande distanza dalle necessità della vita reale. Anche un nastrino arancione può segnalare una voglia di cambiamento, la volontà di chiudere una partita che ci pare decisamente perdente».

Corriere della Sera 11.10.11
Veltroni sfida Bersani: ora governo d'emergenza
«Mai farò qualcosa come quello che ho subito io». Il leader pd: al 2013 non si arriva
di Monica Guerzoni


ROMA — Non farà a Bersani quel che è stato fatto a lui. Non chiuderà il segretario nell'angolo fino a costringerlo alle dimissioni. Non si metterà alla testa di una corrente che logori la leadership: «Non mi piacciono, non ne sarei capace». Ma Walter Veltroni è in campo e, chiudendo l'assemblea di MoDem, detta la linea a Bersani. No al voto anticipato, sì a un governo di transizione che salvi il Paese da una crisi di sistema: «Se parliamo di primarie o di elezioni indeboliamo questa possibilità. Dobbiamo concentrare gli sforzi su un governo di emergenza».
La sfida è lanciata, il finale è tutto da scrivere. A sera Massimo D'Alema parlerà di «sostanziale unità», ma nel Pd si respira un'aria densa di sospetti e veleni incrociati. Al raduno veltroniano Dario Franceschini arriva da pontiere e apre a una «coalizione larga, anche con il terzo polo». Ma l'ospite più applaudito è Enrico Letta, accolto come uno di casa per l'assoluta sintonia con le posizioni della minoranza. Il vicesegretario sposa il governo di larghe intese e ammonisce che la caduta di Berlusconi rischia di far crollare anche il Pd, «se non resta unito e se non interpreta il cambiamento».
Tocca a Veltroni, e l'ex segretario ritrova gli accenti programmatici del Lingotto, torna a parlare di «vocazione maggioritaria» e, pur declinando le sue idee all'insegna di un ecumenico «noi», mette a dura prova la tenuta del leader. Promette lealtà: «Mai farò qualcosa che possa configurarsi come quello che io ho subito alla guida del Pd». Però contesta il tempismo del leader e smonta uno dei pilastri simbolici del partito «pesante» di Bersani: «Noi non siamo una ditta, ma una comunità di uomini e donne...». Ricorda che nelle vene dei democratici non scorre solo sangue socialista, invoca una «leadership collettiva», rivendica di aver detto «cose scomode» quanto lungimiranti. E si prende il merito della raccolta referendaria, un milione e mezzo di firme per cambiare la legge elettorale: «Abbiamo fatto bene a combattere e a vincere».
Il problema è cosa fare adesso. Ancora ieri Bersani ha lasciato aperta sia la strada di un nuovo governo che quella delle elezioni «perché al 2013 non ci si arriva». Veltroni invece si candida a guidare i tifosi della svolta parlamentare: «Se diciamo elezioni il Pdl si blinda attorno a Berlusconi. Non vogliamo un governo del ribaltone, ma una fase di decantazione». E anche sulle alleanze sferza Bersani, che a Vasto ha benedetto il «Nuovo Ulivo» con Vendola e Di Pietro. Per Marco Follini è il «modo più sicuro per restituire a Berlusconi gli elettori che se ne stanno andando» e Veltroni contesta la scelta di mettere le alleanze prima dei programmi. Tanto più che l'Ulivo di Vasto «non avrebbe la maggioranza al Senato». È un attacco a tutto campo. Paolo Gentiloni chiede di «cambiare rotta», di smetterla di «oscillare» tra ricette riformiste e «sbandate» passatiste. Beppe Fioroni vuole «cambiare il profilo del partito», però ritiene «folle» il sospetto che la minoranza inciuci per mandare a casa Bersani. Eppure la fibrillazione è forte e Oriano Giovannelli, coordinatore dell'area bersaniana, denuncia «il tentativo di logorare il segretario». Un sospetto che lo stesso Veltroni s'incarica di respingere: «Come non è giusto dire che Bersani e i suoi parlano di elezioni con l'obiettivo di blindare il leader, così è ingiusto dire che noi pensiamo a un governo di transizione per cambiare il leader».

Corriere della Sera 11.10.11
E Renzi lancia  il «Big bang»


ROMA — Tornano i «rottamatori» del Pd e promettono un «Big bang». Matteo Renzi, sindaco di Firenze, lancia la sua nuova convention per il 28, 29 e 30 ottobre alla stazione Leopolda, dove nel 2010 si tenne il primo raduno degli arrabbiatissimi «giovani» del Pd. «Big bang» è il titolo ispirato a Jovanotti, che ben si adatta al teorico del «ricambio totale» della classe dirigente. Cos'ha in mente, il sindaco? Vuole candidarsi alle primarie? Sogna di prendere il posto di Bersani e magari anche di Berlusconi? «Nessuna candidatura», per ora. L'urgenza di Renzi è spazzare via «volgarità e mediocrità» e scrivere l'incipit di «un'altra storia». Sfida il segretario del Pd, ma non solo lui. Nel mirino di Renzi ci sono gli altri trenta-quarantenni del Pd, Civati e la Serracchiani (che il 22 e il 23 ottobre saranno a Bologna) e soprattutto Zingaretti, il presidente della Provincia di Roma che il 16 sarà all'Aquila con Fassina e Orlando.

Repubblica 11.10.11
I sospetti del leader: "Puntano a isolarmi ma nel partito restano una minoranza"
E sul governo di transizione rilancia: "Sono stato io il primo a parlarne, c'è anche la prova filmata del discorso"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Bersani continua a sospettare un uso improprio della bandiera "governo di transizione" da parte di Veltroni. Un modo per schiacciarlo sull'alleanza di Vasto (la foto con lui, Di Pietro e Vendola) e per metterlo ai margini di un ipotetico e remoto esecutivoponte. «Ma il primo a parlarne sono stato io», ricorda ai suoi interlocutori. C'è anche la prova filmata: il discorsoa Montecitorio sul voto di fiducia alla manovra datato 28 luglio 2010, più di un anno fa.
«Il berlusconismo è finito, il Pd è pronto a una fase di transizione», disse quel giorno. E il video corre su Facebook nelle pagine dei fedelissimi bersaniani. Ma il segretario vuole evitare la polemica, anche se ha registrato le punzecchiature dell'assemblea di Movimento democratico. «Non ho alcuna intenzione di polarizzare lo scontro. C'è stata una riunione della minoranza del partito. Hanno partecipato anche Letta e Franceschini ma non mi risulta si siano iscritti a Modem.
E le tesi sostenute in quella sede, esecutivo di transizione a parte, continuano a essere largamente minoritarie nel Pd».
Assemblea più che legittima, ma stavolta Bersani non ne condivide lo spirito. Non a caso ha evitato di farsi vedere, a differenza della convention al Lingotto di Torino dello scorso gennaio dove accettò con calore l'invito e intervenne dal palco. Il movimentismo di Veltroni (venerdì scorso ha tessuto la sua tela incontrando a pranzo il presidente della Camera Gianfranco Fini), le parole di dissenso di Paolo Gentiloni («non è scontato che Bersani sia il nostro leader, neanche se si vota nel 2012) lo hanno ferito. Ha apprezzato invece l'intervento di ieri di Beppe Fioroni che ha chiarito un punto cruciale nella minoranza. «Chi pensa che siamo qui per dire Bersani a casa non ha capito nulla». Modem sulla leadership ha scelto un profilo basso, nessun attacco diretto, nessuna sconfessione.
Eppure il ruolo di Bersani rimane nel mirino di più fronti. Magari contrapposti, divisi, ma lo stesso insistenti. L'annuncio di Matteo Renzi va in questa direzione. «Il big bang del sindaco di Firenze - dice Matteo Orfini, membro della segreteria, alla guida del gruppo di trentaquarantenni anti-rottamatori - è carico di fuffa. La cornice sarà diversa, però la valanga di idee darà sempre la stessa musica, cioè il tentativo di imprimere una svolta neomoderata al Pd».E Veltroni? «Forse non è la linea di Walter ma in alcune settori di Modem la voglia di logorare Bersani esiste. Ma ieri non c'è stato l'affondo. Semmai un'operazione che punta ad allargare la minoranza sulla base di alcune politiche economiche». Il riferimento è a Enrico Letta e alla condivisione della lettera della Bce a Berlusconi. La sfida sulla leadership resta dunque sottotraccia. Ma c'è un nervosismo evidente nel Pd e intorno al segretario. Anche e soprattutto per fattori esterni al dibattito interno. Il 21 ottobre, fra dieci giorni, il Tribunale del Riesame decide sulla richiesta di arresto per Filippo Penati da parte della procura di Monza.
Sarà riuscito a convincere i pm, domenica, della sua buona fede? Quel "verdetto" rischia di far precipitare di nuovo nella bufera il partito e il suo segretario. Perché è vero che Penati è stato sospeso, ma rimane l'ex capo della segreteria di Bersani.
Sulla questione morale la tensione tra le varie anime del Pd continua a essere visibile e scoperta. Tanto per dire ieri su Facebook se le sono date di santa ragione due giovani leve democratiche, il direttore di Youdem, la tv ufficiale, Chiara Geloni, bersaniana e Pina Picierno, vicinissima a Franceschini ed ex leader dei giovani della Margherita. Una lite feroce intorno alla vicenda Penati e all'acquisto dell'autostrada MilanoSerravalle condita da parolacce, accuse di "berlusconismo"e riferimenti (scherzosi ma non troppo) all'assunzione di stupefacenti. Bersani cerca di mantenere la barra dritta. Visti i toni morbidi di Modem sulla sua persona, ha ordinato ai suoi collaboratori di non fare commenti. Da D'Alema ha incassato il riferimento all'intervento alla Camera del 2010: «Il segretario è stato il primo a parlare di transizione. Tutti seguono la sua linea». Ma il governo di emergenza gli appare una chimera difficilissima da raggiungere.
Proprio per questo l'unità oggi è tanto più indispensabile. E a Largo del Nazareno sperano che non arrivino spaccature dai prossime tre week end in cui i giovani del Pd si dividono. Prima la riunione dei 30-40enni guidati da Andrea Orlandoe Orfini all'Aquila (con Zingaretti e Enrico Rossi guest star), poi Civati e la Serracchiani a Bologna e infine la Leopolda 2 di Renzi a Firenze. Ma sul punto Veltroni dà una mano al vertice del Pd piazzando una frase velenosa: «Ben vengano i tre convegni dei giovani anche se alcuni di loro li conosco da trent'anni...».

La Stampa 11.10.11
Stati Uniti. Protesta a Wall street
È caccia al voto degli indignati A favore
I democratici: difendiamoli dagli insulti della destra
di Maurizio Molinari


Protesta coraggiosa I giovani possono guidare la società su un terreno più sano
Un modo costruttivo per avviare il cambiamento che arriva dalla gente comune
Il messaggio che viene rivolto all’establishment è la necessità di un cambiamento

nvidiosi, mafiosi e un danno per l’economia, oppure coraggiosi, altruisti e un modello di impegno da sostenere? L’America politica si divide su «Occupy Wall Street», il gruppo di protesta che dal 17 settembre presidia Zuccotti Park a Downtown Manhattan e ha dato origine a sit-in simili in almeno altre 25 città americane, da Washington a Los Angeles. L’attacco più duro arriva da Herman Cain, l’uomo d’affari afroamericano candidato alla nomination repubblicana, secondo il quale dietro la contestazione anti-ricchi «c’è la gelosia per il successo altrui» da parte di «persone a cui piace fare le vittime per impossessarsi di Cadillac che non hanno».
Eric Cantor, leader dei repubblicani alla Camera, parla di «comportamenti mafiosi da parte di americani che hanno sputato su altri americani». Cain è convinto che «non sia una protesta spontanea» ma «organizzata dai sindacati per distrarre l’attenzione dai danni all’economia causati da Obama». «Protestando contro Wall Street e i banchieri - aggiunge Cain - si comportano da anti-capitalisti». Altri repubblicani sono più prudenti e, come Paul Ryan presidente della commissione Bilancio alla Camera, puntano l’indice verso Obama, accusandolo di «fomentare divisioni dopo aver promesso di unire la società».
Il sindaco Michael Bloomberg, indipendente, sceglie una posizione a metà strada perché, se da un lato parla di «protesta che danneggia l’economia della città che deve molto al Distretto finanziario», dall’altro assicura che «i manifestanti potranno rimanere nel parco a tempo indeterminato a patto che non violino la legge». In realtà «Occupy Wall Street» è cresciuto di dimensioni al punto da stare stretto a Zuccotti Park e per questo domenica ha marciato sul più grande parco di Washington Square, portando con sé un vitello d’oro in cartapesta per evocare la Bibbia nella denuncia dell’«avidità dei banchieri».
A sostenere a chiare lettere tali iniziative è Nancy Pelosi, capo dei democratici alla Camera eletta nella liberal San Francisco. «Mi sento al loro fianco perché la gente è infuriata, non possiamo andare avanti così, bisogna trovare il modo per cambiare davvero l’America» dice l’ex presidente della Camera, secondo cui «la protesta dà voce a un’ampia base di scontento per il sistema finanziario». Robby Mook, direttore della campagna elettorale democratica per il Congresso, ha lanciato una petizione popolare per raccogliere 100 mila firme a favore dei manifestanti «insultati da Cain e Cantor» profilando lo scenario di catapultare Zuccotti Park al centro della battaglia del 2012.
I portavoce della protesta vivono però con un certo disagio il tentativo dei democratici di impossessarsi della loro battaglia mentre Bloomberg lascia intendere che «forse la soluzione arriverà dal clima»: l’inverno è alle porte e le tende di plastica blu potrebbero non resistere a neve, pioggia e ghiaccio.

Repubblica 11.10.11
Il ritorno di Karl Marx nel cuore di Wall Street
Quei ricchi isterici che minacciano i valori americani
di Paul Krugman


NON sappiamo ancora se i manifestanti del movimento Occupy Wall Street imprimeranno una svolta all'America. Di certo, le proteste hanno provocato una reazione incredibilmente isterica da parte di Wall Street, dei super ricchi in generale.
Edi quei politici ed esperti che servono fedelmente gli interessi di quell'un per cento più facoltoso. Questa reazione ci dice qualcosa di importante,e cioè che gli estremisti che minacciano i valori americani sono quelli che Franklin Delano Roosevelt definiva i monarchici economici ("economic royalists") non la gente che si accampaa Zuccotti Park. Si consideri, innanzi tutto, come i politici repubblicani abbiano raffigurato queste piccole, anche se crescenti dimostrazioni, che hanno comportato qualche scontro con la polizia - scontri dovuti, pare, a reazioni esagerate della polizia stessa - ma nulla che si possa definire una sommossa.
Non c'è stato nulla, finora, di paragonabile al comportamento delle folle raccolte dal Tea Party nell'estate del 2009.
Ciò nonostante, Eric Cantor, leader della maggioranza alla Camera, ha denunciato degli «assalti» e «la contrapposizione di americani contro americani». Sono intervenuti nel dibattito anche i candidati alla presidenza del partito repubblicano, il cosiddetto Grand Old Party, con Mitt Romney che accusa i manifestanti di dichiarare una «guerra di classe», mentre Herman Cain li definisce «antiamericani». Il mio preferito, comunque, è il senatore Rand Paul che, per qualche motivo, teme che i manifestanti cominceranno a impossessarsi degli iPads, perché credono che i ricchi non se li meritino.
Michael Bloomberg, sindaco di New York e gigante della finanza a pieno titolo, è stato un po' più moderato. Pur accusando anche lui i manifestanti di voler «portar via il posto a chi lavora in questa città», una dichiarazione che non ha nulla a che vedere con i reali obiettivi del movimento. E se vi è capitato di sentire i mezzibusti della CNBC, gli avrete sentito dire che i manifestanti si sono «scatenati» e che sono «allineati con Lenin».
Per capire tutto questo, bisogna rendersi conto che fa parte di una sindrome più ampia, nella quale gli americani ricchi, che beneficiano ampiamente di un sistema truccato a loro favore, reagiscono in modo isterico contro chiunque metta in evidenza quanto sia truccato questo sistema.
L'anno scorso, probabilmente lo ricorderete, alcuni baroni della finanza si infuriarono per alcune critiche molto miti fatte dal presidente Obama. Accusarono Obama di essere quasi un socialista perché appoggiava la cosiddetta legge Volcker, che voleva semplicemente impedire alle banche sostenute da garanzie federali di intraprendere speculazioni rischiose. E riguardo alla proposta di metter fine a una scappatoia che permette a molti di loro di pagare delle tasse bassissime, Stephen Schwarzman, presidente del Gruppo Blackstone, ha reagito paragonandola all'invasione nazista della Polonia.
Poi c'è la campagna diffamatoria contro Elizabeth Warren, una riformatrice del sistema finanziario che si candida al senato per il Massachusetts. Recentemente, un suo video su YouTube, in cui spiegava in molto eloquente e comprensibile a tutti perché si debbano tassare i ricchi, ha fatto il giro del web. Non diceva nulla di radicale: era solo una moderna versione della famosa definizione di Oliver Wendell Holmes, secondo la quale «le tasse sono ciò che paghiamo per vivere in una società civile».
Ma se dessimo ascolto ai paladini della ricchezza, dovremmo pensare che la Warren sia la reincarnazione di Lev Trotsky. George Will ha dichiarato che ha un «programma collettivista» e che crede che «l'individualismo sia una chimera». Rush Limbaugh l'ha definita, invece, «un parassita che odia il proprio ospite e che vuole distruggerlo mentre gli succhia il sangue».
Ma che sta succedendo? La risposta, di sicuro, è che i Masters of the Universe di Wall Street capiscono, nel profondo del loro cuore, quanto sia moralmente indifendibile la loro posizione. Non sono John Galt; non sono nemmeno Steve Jobs. Sono gente che è diventata ricca trafficando con complessi schemi finanziari che, lungi dal portare evidenti benefici economici agli americani, hanno contribuito a gettarci in una crisi i cui contraccolpi continuano a devastare la vita di decine di milioni di loro concittadini.
Non hanno ancora pagato nulla. Le loro istituzioni sono state salvate dalla bancarotta dai contribuenti, con poche conseguenze per loro. Continuano a beneficiare di garanzie federali esplicite ed implicite - fondamentalmente, siamo ancora in una partita in cui loro fanno testa e vincono, mentre i contribuenti fanno croce e perdono. E beneficiano anche di scappatoie fiscali grazie alle quali, spesso, gente che ha redditi multimilionari paga meno tasse delle famiglie della classe media.
Questo trattamento speciale non sopporta un'analisi approfondita e, perciò, secondo loro, non ci deve essere nessuna analisi approfondita. Chiunque metta in evidenza ciò che è ovvio, per quanto possa farlo in modo calmo e moderato, deve essere demonizzato e cacciato via. Infatti, più una critica è ragionevole e moderata, più chi la porta dovrà essere immediatamente demonizzato, come dimostra il disperato tentativo di infangare Elizabeth Warren.
Chi sono, dunque, gli antiamericani? Non i manifestanti, che cercano semplicemente di far sentire la propria voce. No, i veri estremisti, qui, sono gli oligarchi americani, che vogliono soffocare qualsiasi critica sulle fonti della loro ricchezza.
© 2011 New York Times News Service. Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 11.10.11
E gli Usa rinnegano il mito del capitale
di Federico Rampini


Il movimento anti-Wall Street che da giorni scende in piazza ha scelto il proprio "guru". E, a sorpresa, ha rispolverato Marx e le sue teorie. Nella nazione in cui parlare male dei miliardari era diventato un tabù, sembra l'inizio di una svolta rispetto agli ultimi 30 anni segnati dall'egemonia culturale dell'edonismo reaganiano

NEW YORK C'è un nuovo guru i cui testi sono diventati un'ispirazione per Wall Street: è un tedesco barbuto, si chiama Karl Marx. A riscoprire l'autore del "Capitale" e del "Manifesto del partito comunista" non sono soloi giovani che da tre settimane protestano contro i soprusi dei banchieri. Il movimento "Occupy Wall Street" è arrivato secondo in questa riscoperta. Il revival di Marx era già iniziato altrove: ai piani alti di quegli stessi grattacieli di Downtown Manhattan, contro cui i manifestanti gridano i loro slogan. Michael Cembalest, capo della strategia d'investimento per la JP Morgan Chase, in una lettera riservata ai clienti Vip della sua banca scrive che «i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari».
(segue dalla copertina) Cembalest riecheggia ampiamente l'analisi di Marx sulle crisi di sovrapproduzione, provocate da un capitalismo che comprime il potere d'acquisto dei lavoratori. Sottolinea che a fronte dei profitti-record c'è «un livello salariale sceso ai minimi da 50 anni, sia se lo si misura in percentuale del fatturato delle imprese, sia in proporzione al Pil americano». Tre suoi colleghi di Citigroup, altro colosso bancario di Wall Street, nei loro studi per i clienti descrivono gli Stati Uniti come una «plutonomia, dominata da una ristretta élite del denaro».
La rivista The New Republic parla di "bolscevismo alla Brooks Brothers": è la riscoperta delle teorie classiche del padre del comunismo da parte di chi indossa le celebri camice che sono uno status-symbol della élite di Manhattan. La rivista economico-finanziaria Bloomberg Businessweek intitola un reportage "Marx to Market, come la crisi ha reso le sue teorie rilevanti". Cita un altro esperto di una grande banca, George Magnus della Ubs, secondo il quale l'attuale livello di disoccupazione può essere descritto come «l'esercito industriale di riserva» di Marx: un'arma in mano ai capitalisti per ricattare chi ha lavoroe comprimerei livelli retributivi. Il capitalismo - sostiene Bloomberg Businessweek - ha cercato di ovviare alla depressione dei consumi con la finanza creativa e cioè offrendo all'esercito dei nuovi poveri un credito a buon mercato: ma lo scoppio della bolla dei mutui subprime ha interrotto quell'illusione.
Il pensiero marxiano torna a fiorire nelle aule universitarie, e non solo nei corsi di scienze politiche e di storia che non lo avevano mai completamente dimenticato. Alla University of Santa Cruz, California, un circolo interdisciplinare di lettura e commento dei testi del grande Karl, di Friedrich Engelse di Antonio Gramsci si è formato attorno al Dipartimento di Scienze Ambientali, dove abitualmente si prediligono chimica e biologia. Aumentano gli abbonamentia The Nation, l'unica rivista storica della sinistra americana che non ha mai ripudiato il marxismo; la sua direttrice Katrina Vanden Heuvel è un'opinionista corteggiata dai network televisivi Abc, Cnn, Msnbc, Pbs.
Per il pubblico di massa, la tv ha appena lanciato due serial praticamente sovversivi. Basta "Sex and the City"e altre storie eroticofrivole da borghesi spendaccioni, roba datata pre-recessione. Ora vanno in onda "2 Broke Girls" storia di due ragazze spiantate (vedi il titolo) che faticano per sopravvivere coni magri salari da cameriere. Sul network Abc il serial del momentoè "Revenge", dove la protagonista trama vendette contro i banchieri e altri privilegiati che hanno rovinato suo padre. Gli episodi si svolgono agli Hamptons, la località di villeggiatura marittima dei miliardari newyorchesi, luogo ideale per chi voglia punire i capitalisti. L'attrice Madeleine Stowe che recita da protagonista della "Vendetta", è convinta che «in questo particolare momento della nostra storia, l'americano medio vuol vederei ricchi messi al tappeto».
E' un inizio di svolta rispetto agli ultimi trent'anni, segnati dall'egemonia culturale dell'"edonismo reaganiano"? Questa è la nazione dove parlar male dei ricchi era diventato un tabù, perché il dogma dell'American Dream è che un giorno ricchi lo saremo tutti. Per anni in cima alla classifica dei best-seller si sono avvicendati libri come "Secrets of the Millionaire Mind", "The Millionaire Next Door", "Rich Dad Poor Dad": i lettori sembravano ossessionati dalla voglia di carpire i segreti del milionario della porta accanto, il suo modo di pensare, i metodi con cui educai suoi figli. Perfino le chiese evangeliste si erano adeguate, scordandosi della parabola sul "riccoe la cruna dell'ago" avevano abbandonato il Vangelo di Matteo a favore di un culto della prosperità: successoe ricchezza come segni della predestinazione divina. Ora tutto ciò sembra invecchiato di colpo, di fronte all'efficacia dello slogan di "Occupy Wall Street": «Siamo il 99%, riprendiamoci un'America cheè stata sequestrata dall'1% dei plutocrati».
I manifestanti sono ancora un minoranza, ma dietro di loro c'è una realtà terribile. La recessione del 2007-2009 ha lasciato 25 milioni di americani senza lavoro e ha tagliato del 3,2% i redditi di chi ancora ha un posto. Dopo quella botta le cose non sono affatto migliorate, anzi: dal giugno 2009 al giugno 2011 il reddito della famiglia media è sceso ancora di più, meno 6,7%. Nel frattempo per i ricchi nulla è cambiato. E non importa se siano incompetenti: Léo Apotheker, il disastroso chief executive di Hewlett-Packard defenestrato dal Consiglio d'amministrazione il mese scorso, è stato ringraziato con un "premio di licenziamento" di 13 milioni di dollari che si aggiungono a quello che lui aveva guadagnato di stipendio normale cioè 10 milioni in soli 11 mesi. Il suo collega chief executive di Amgen (biotecnologie) se n'è andato con 21 milioni di stipendio annuo dopo che il valore dell'azienda in Borsa era caduto del 7%e lui aveva licenziato 2.700 dipendenti.
Barack Obama ha colto il cambiamento di clima e da un paio di settimane il suo tono è un po' più radicale. Ha proposto la tassa sui milionari, sfidando la destra a bocciargliela al Congresso. Ha espresso «comprensione» per il movimento "Occupy Wall Street", noncurante del fatto che la polizia di New York ne abbia arrestato 700 aderenti per il blocco illegale del ponte di Brooklyn. Subito da destra è partita contro il presidente l'accusa di «fomentare l'odio di classe» (Rick Perry), di «incitare alla lotta di classe» (Mitt Romney). Sembrano riecheggiare Ronald Reagan, il padre storico dei neoconservatori, quando diede la sua versione della discriminante tra destra e sinistra: «Noi aumentiamo la ricchezza nazionale perché tutti abbiano di più, loro redistribuiscono quello che abbiamo già, cioè spartiscono la povertà».
Ma il Verbo reaganiano ha perso credibilità, dopo trent'anni di regressione delle classi lavoratrici e del ceto medio. Sotto lo shock di questo declino della middle class, si cominciaa riscoprire che gli anni d'oro dell'American Dream furono segnati proprio dalla lotta di classe: all'epoca dei presidenti democratici Woodrow Wilson e Franklin Roosevelt c'erano potenti forze socialiste nel paese; sotto John Kennedy e Lyndon Johnson la piena occupazione coincise con il massimo potere contrattuale dei sindacati. David Harvey, il 75enne storico e geografo che ha sempre insegnato Marx ai suoi studenti (prima a Oxford poi a Johns Hopkins) è convinto che la storia si ripete: come ai tempi della Grande Depressione, «in mano al capitalismo sregolatoe alla destra, l'economia di mercato va verso l'autodistruzione». Un segnale arriva perfino dalla superpotenza governata da un partito che si definisce comunista. In Cina l'attenzione verso "Occupy Wall Street" è intensa, sul blog Utopia animato da accademici nostalgici del maoismo quella protesta viene definita come «l'inizio di una rivoluzione che spazzerà il mondo». E non si limiterà agli Stati Uniti: secondo quei blogger cinesi «i paesi emergenti hanno lo stesso destino, le stesse sofferenze, gli stessi problemie gli stessi conflitti; di fronte a una élite globale che è il comune nemico, i popoli hanno una sola opzione, unirsi per rovesciare lo strapotere delle oligarchie capitalistiche». Come diceva Lui: proletari del mondo intero...

La Stampa 11.10.11
Amazon sbanca l’asta per il dissidente cinese
Il nuovo romanzo di Liao Yiwu sarà il primo bestseller annunciato a uscire direttamente in formato Kindle
di Bruno Ventavoli


Per Rushdie è il nuovo Solzenicyn. Per Hertha Müller, il nuovo Pasternak. Per molti, Liao Yiwu sarà prima o poi un premio Nobel, perché alla forza poetica della parola aggiunge una vita di coraggio.

Liao Yiwu, 53 anni, dopo aver irritato il regime di Pechino, sconvolgerà il mercato editoriale dell’Occidente. Amazon lancerà il suo nuovo romanzo Per una canzone e altre cento subito in “kindle”.
Conduce infatti la sua battaglia contro gli orrori polizieschi della Cina capitalcomunista. Ma questo autore di 53 anni, dopo aver irritato il regime di Pechino, sconvolgerà il mercato librario dell’Occidente. Il suo nuovo libro, Per una canzone e cento altre , è stato acquistato ad un’asta da Amazon, che ha stracciato con offerte milionarie protagonisti dell’editoria come il raffinato Pantheon (che aveva già pubblicato Il cadavere che cammina ) o Harper Collins (che pubblicherà Dio è rosso ). Sarà così il primo bestseller annunciato della letteratura mondiale ad uscire direttamente in formato «kindle», oltre che in volume. E se sarà un successo, getterà probabilmente nel panico i «publisher» tradizionali già impensieriti dalla potenza commerciale di Jeff Bezos, e perplessi sul futuro della lettura.
Che il colosso di Seattle volesse sfidare il mercato cartaceo non è una novità. Da tempo, smania per produrre «contenuti», e non solo supporti informatici. Allo scopo, «Amazon Publishing» ha arruolato editor, redattori, autori un po’ ovunque. Il debutto è stato da bestseller, non certo da Nobel. Primo titolo sfornato, sia in digitale che su pagine, il manuale Cuoco in 4 ore di Tim Ferriss, guru del «self help». Poi sono arrivate una collana di thriller, Thomas & Mercer (dal nome delle due vie che costeggiano il quartier generale dell’azienda), una di «rosa», e una che seleziona i migliori e-book pescati dalla propria piattaforma di self-publishing.
Con il dissidente cinese, il discorso cambia radicalmente. Dopo i testi facili, di bassa qualità, Amazon punta all’alta letteratura. Quella che conquista critici, gli editoriali, il clamore internazionale. Liao Yiwu, non insegna a trovare felicità o ricchezza con rapidi consigli da talk show, lui ha scommesso la vita, e pagato duramente, per incidere nei libri l’ardore della libertà. Figlio di un perseguitato dalla rivoluzione culturale, ha trascorso la giovinezza da poeta underground, senza tetto né legge, e neppure ideologie politiche. Ma nell’89, dopo la repressione del movimento studentesco, ha denunciato nella poesia Massacro la brutalità del governo. Sapendo che versi così scomodi mai sarebbero stati pubblicati, li registrò su cassette, miscelandoli con le cantilene tradizionali per invocare gli spiriti dei morti. Arrestato nel febbraio ’90, finì per due anni in galera, e altrettanti in un campo di rieducazione. Per una canzone e cento altre racconta le torture, le umiliazioni, le violenze sui prigionieri. Fu vergato, notte dopo notte, di nascosto, su supporti di fortuna, bordi di giornali, pagine di riviste, brandelli di carta igienica. E memorizzato parola per parola, per salvarlo da eventuali sequestri di secondini. Fortunosamente, avventurosamente, Liao è ora arrivato in Germania. E ha tutti i requisiti per diventare una star dell’editoria mondiale, oltre che un campione della democrazia e dei diritti umani.
In Germania «il diario di prigionia» è già uscito con successo da Fischer (l’Adelphi tedesco), in Italia verrà proposto da Mondadori. La scelta di Amazon, che vuole darsi una credibilità nuova nei confronti del mercato, degli autori e dei critici, si presenta dunque come un azzardo, perché il rischio che Liao Yiwu finisca al pubblico sbagliato è alto. Ma l’azienda di Seattle crede che il futuro della letteratura, e non solo della lettura, si giocherà sulle piattaforme digitali. D’altronde, che siamo di fronte a una rivoluzione della stampa, forse la più radicale dai piombi di Gutenberg, lo dicono i numeri. L’e-book in America detiene ormai il 12% del mercato. I cosiddetti libri da stazione, i gialli, i rosa, i romanzi a basso costo che si leggevano e dimenticavano sui treni, viaggiano quasi esclusivamente sul binario informatico. La stessa narrativa «colta» non disdegna i nuovi supporti: su dieci McEwan o Roth venduti nell’universo inglese, 2,5 finiscono su Kindle. Per la lettura, le intuizioni di Bezos, sono state sferzate corroboranti: l’ebook ha aumentato la vendita di titoli, testi, idee, tendenze. Ma per il traballante mondo delle librerie, è stato un micidiale uppercut. Barnes & Noble continua a chiudere punti vendita. La catena Borders si arrende. E chi cammina a New York, tra Central Park e Union Square, uno dei paesaggi più intellettuali del mondo, non trova più un solo negozio di libri, né piccolo e sentimentale, né grande e impersonale. Niente di niente. E per la geografia urbana degli ultimi due secoli, non è una metamorfosi da poco.

Corriere della Sera 11.10.11
La Buchmesse di Francoforte
Pochi ebook. Ma più lettori
L'editoria elettronica non decolla, mentre cresce il numero di chi legge
di Cristina Taglietti


Si inaugura domani la Buchmesse di Francoforte e, come sempre, sarà l'occasione per l'editoria italiana di fare il punto sullo stato di salute del mercato del libro. L'Aie inserirà i nuovi dati del 2011 e le ripercussioni sulle vendite estive del varo della legge Levi nel contesto generale emerso dall'ultimo rapporto su dati Istat che mostra segni positivi, con un milione di italiani in più rispetto all'anno precedente che hanno letto almeno un libro. I dati propongono anche l'identikit del lettore medio che è essenzialmente giovane (legge il 65,4% nella fascia 11-14 anni), donna (53,1% rispetto al 40,1% degli uomini), risiede al Nord (per il 54% rispetto al 35,2% del Mezzogiorno), è laureato (oltre l'80%), ricopre alti incarichi (oltre il 62%) o è studente (65,2%). Il rapporto degli italiani con il libro, tuttavia, è ancora «debole e occasionale», visto che i lettori forti (che leggono più di 12 libri l'anno) sono soltanto 4 milioni, il 7,1% della popolazione con più di 6 anni. Secondo un'indagine dell'ufficio studi dell'Aie sui prezzi dei libri in classifica il confronto con gli altri Paesi europei mette in luce che in Italia è il più basso d'Europa.
In questo panorama generale si deve inserire anche la valutazione del mercato dell'ebook. È questo uno dei punti caldi della Buchmesse di cui ieri si è avuta un'anticipazione durante la giornata di studi «Publishers Launch Conferences». All'incontro «Ebooks around the world», Bookrepublic e A.T. Kearney hanno presentato una panoramica della situazione globale che aggiorna la ricerca — presentata per la prima volta a luglio 2011 — sui dati di vendita dell'editoria digitale (il rapporto si basa sulla copertura dell'80 per cento del mercato globale e su quaranta interviste con editori e retailers) mostrando un universo per ora decisamente a due velocità: da un lato il Nord America (seguito a diverse lunghezze dall'Asia), dall'altro il resto del mondo con diversi gradi di approssimazione che dipendono dalla diffusione di Internet, dalla consuetudine con l'e-commerce, dalla presenza nel Paese dei cosiddetti «big players», dalla tassazione applicata (bisogna sempre ricordare che l'Iva sul libro elettronico in Italia è del 20%, mentre sul cartaceo è del 4%).
Nonostante Mike Shatzkin, coordinatore dell'incontro, dichiari di ritenere impossibile che da qui a dieci anni ci possano ancora essere differenze tra Paese e Paese nella diffusione dell'editoria digitale (tutti leggeremo ebook), rimane il fatto che in Italia la diffusione di questo mercato resta ben al di sotto delle speranze (e di tante ottimistiche previsioni), con un valore percentuale inferiore allo 0,5, mentre il Paese europeo più avanzato in questo senso, la Gran Bretagna, è al 3,7. D'altro canto i titoli disponibili da noi sono intorno ai 20 mila (da poco c'è stato lo sbarco dei grandi editori sull'iBookstore di Apple), mentre soltanto circa 700 mila persone possiedono un tablet e 200 mila un altro dispositivo di lettura (in Inghilterra i primi sono circa 2 milioni e 100 mila e quelli che possiedono un e-reader 1 milione e 600 mila). «Ciò che emerge — spiega Marco Ferrario fondatore con Marco Ghezzi di BookRepublic — è che la crescita del mercato americano non deriva soltanto dall'introduzione di un numero maggiore di titoli, di nuovi supporti di lettura, ma soprattutto da nuovi modelli di business basati, come dimostra bene il caso di Amazon che ha stabilito una relazione forte con i lettori sfruttando il più possibile il social reading in senso lato, e con gli autori incentivando il self publishing, indipendentemente dagli agenti letterati».
Proprio il «potere» degli agenti è stato uno dei punti toccati da Riccardo Cavallero, numero uno di Mondadori, che ha accusato la categoria di essere troppo conservatrice criticandola per l'insistenza sul fatto che sul libro elettronico non possa essere fatto un ribasso superiore al 30 per cento rispetto al prezzo del libro cartaceo. «Se pensate che gli editori siano conservatori non avete mai incontrato un agente. Noi, in confronto, siamo dei rivoluzionari» ha scherzato Cavallero aggiungendo che Mondadori (che ha siglato un accordo con Barnes & Noble per vendere titoli italiani sul lettore Nook) non rispetta questi contratti perché «non si può avere paura dei prezzi o della cannibalizzazione, altrimenti non ci lanceremo mai nell'editoria digitale».
Negli Stati Uniti, secondo il rapporto, il periodo gennaio-maggio segna una flessione del mercato dei libri, a valore, del 3,4% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. «Ma si notano anche — spiega Giovanni Bonfanti di A. T. Kearney che ha condotto la ricerca — due comportamenti ben diversi tra la carta e il digitale, perché se il mercato cartaceo cede il 15,6% , quello digitale segna un più 160%. Considerato che il prezzo degli ebook in America è diminuito del 40 per cento rispetto all'anno precedente si può facilmente ipotizzare un aumento delle vendite a volume». In generale, sempre sulla base dell'esperienza americana, si possono individuare alcuni fattori che potranno incentivare lo sviluppo futuro del mercato in una circolarità «virtuosa». «La scelta dell'autopubblicazione e i programmi di selfpublishing che possono incidere considerevolmente sul prezzo — riassume Marco Ferrario —.Poi i comportamenti del cliente che si avvicina ai vari siti d'acquisti e che si traducono in maggiore informazione riguardo a formati e prodotti permettendo ai retailers online di personalizzare l'offerta e di usare la promozione dei libri che i lettori possono fare consigliandoli nei social media, facendo recensioni, parlandone in Rete. Si può ipotizzare che i mercati dove si svilupperanno questi modelli cresceranno più degli altri».
L'Italia, secondo la ricerca dovrebbe arrivare al 5-6% di diffusione nei prossimi cinque anni, con una decisa accelerazione nell'ultimo anno. Per ora è in una fase di sostanziale attesa, con Apple che è partita, Google e Amazon in arrivo. Quando tutti i grandi players saranno operativi che cosa succederà al nostro mercato? Non verranno fagocitate le librerie online indipendenti? «Secondo Cavallero i tre grandi si prenderanno il 50% per cento del mercato — dice Ferrario —. Quindi vuol dire che l'altro 50% sarà disponibile per chi saprà fare meglio».

Repubblica 11.10.11
Cinquant'anni dopo l'uscita, torna aggiornato un saggio fondamentale per l'urbanistica della capitale
Perché Roma non è moderna
di francesco Erbani


Uscito cinquant'anni fa, torna Roma moderna, il libro di Italo Insolera sulla storia urbanistica della capitale (Einaudi, pagg. 403, euro 25), da molti giudicato fondamentale anche per la storia in generale di Roma da Porta Pia in poi. La nuova edizione è aggiornata: inizia con la Roma napoleonica e in quattro capitoli finali racconta la Roma dagli anni Ottanta a oggi (con Insolera ha collaborato Paolo Berdini). Ma la vera novità sta in un punto interrogativo che nella premessa Insolera giustappone al titolo: Roma moderna? È da qui che comincia la chiacchierata con l'urbanista, classe 1929, insegnante a Venezia e a Ginevra e autore di numerosi saggi.
Alla domanda se Roma sia una città moderna e, se non lo sia, perché non lo è, Insolera apre a caso le pagine dello stradario. L'occhio casca su una delle borgate abusive della zona orientale, poi assorbita nello sviluppo tumultuoso dell'abitato. Il dito seguei tracciatie si perde su vie che si aggrovigliano, si allargano a circonvallazione e poi finiscono nel nulla. Insolera scuote la testa, alza lo sguardo: «Non può definirsi moderna una città che ammette questo disordine». Ma questa è la città abusiva.
«È vero. Però casualità e insensatezza le troviamo anche in quartieri sorti legalmente, ma frutto di speculazione, dove si è pensato ai palazzi e non alle strade. E poi l'abusivismo edilizio non è stato solo un fenomeno che ha interessato la città in alcune parti».
E che cosa è stato? «Per molti aspetti è il modo d'essere della città. Si calcola che il venti per cento del territorio edificato sia abusivo (diecimila ettari su cinquantamila). Sono stati spesi tanti soldi per riagganciare questi nuclei alla città. Tutta Roma è stata investita da simili tentativi. I risultati sono stati però scarsi.È un problema politico, ma anche dell'architettura». In che senso c'entra l'architettura? «Che l'architettura possa riscattare la società è cosa da dimostrare: soprattutto quando è solo disegno di forme e non ricerca dei valori di cui le forme sono espres sione. Vista dall'alto, la metropoli abusivae poi sanata dai condoni si presenta come una massa continua, compatta, indifferente. Come d'altronde si presentava cinquant'anni fa la città delle palazzine». Lei pone uno spartiacque nell'immediato dopoguerra.
«Fino ad allora troviamo un impianto stradale e un'architettura discutibili quanto si vuole. Ma funzionanti. Andando ancora indietro nel tempo vediamo piazze disegnate in modo esemplare, come piazza Mazzinio piazza Verbano. Alcuni insediamenti popolari sono all'altezza di una città moderna. Poi questa sapienza urbanistica viene sovrastata dagli interessi speculativi».
Torniamo ancora più indietro.
Finora lei cominciava la storia di Roma moderna con il 1870. Ora con Napoleone. Perché? «Potrei cavarmela con la battuta che Napoleone è meglio di Raffaele Cadorna. Napoleone è comunque uno dei pochi grandi che si occupino di Roma. Dal 1809 al 1814 Roma è annessa all'impero napoleonico e il prefetto De Tournon elabora un progetto per scavi archeologici e due grandi parchi, uno a Piazza del Popolo, l'altro nell'area fra i Fori, il Colosseo e il Palatino...» Nasce allora l'idea che verrà ripresa negli anni Settanta del Novecento da Leonardo Benevolo, Antonio Cederna, Adriano La Regina, da lei e dal sindaco Petroselli? «Nasce allora. Non se ne fece niente. Se Napoleone non fosse stato sconfitto, questi progetti sarebbero stati alla base del primo piano regolatore di Roma moderna». Napoleone va bene, ma Pio IX? «Si deve al ministro del papa, monsignor De Mérode, l'istituzione della stazione Termini e l'avvio dell'espansione cittadina verso nord-est, che verrà poi realizzata dal Regno d'Italia. Sebbene De Mérode avesse acquistato quei terreni e dunque fosse uno speculatore, anche quella fu una scelta da città moderna».
Veniamo di nuovo a un periodo più vicino a noi. La sua ricostruzione della speculazione anni nel Novecento ha fatto scuola.
Una prima svolta si registra con Argan e Petroselli fra il 1976 e il 1981. Poi nel 1993 inizia la stagione del centrosinistra.
«Nel programma di Francesco Rutelli c'era un capitolo intitolato "Una rivoluzione urbanistica".
Una rivoluzione rispetto alle pratiche dominanti a Roma, resa necessaria anche perché la città aveva smesso di crescere demograficamente». Ed è stata compiuta questa rivoluzione? «L'attività di quell'amministrazione si è caratterizzata per la discontinuità con una consolidata cultura urbana progressista».
Quindi si è andati in una direzione diversa.
«Partirei da un episodio specifico. A Tor Marancia, un'area grande 120 ettari di meravigliosa campagna romana vicina all'Appia Antica, erano previste enormi cubature, ma il soprintendente La Regina pose un vincolo che avrebbe impedito di costruire. I proprietari si sarebbero dovuti rassegnare». E invece? «E invece grazie a uno strumento appena introdotto, quello della compensazione urbanistica, quel milione e ottocentomila metri cubi di case furono trasferiti altrove, ma diventarono cinque milioni e duecentomila. L'amministrazione comunale riconosceva ai proprietari un "diritto edificatorio" che se non esercitato in quello veniva spostato in un altro luogo, ma con un enorme incremento. Insomma, si stabiliva l'intangibilità della rendita fondiaria, nonostante importanti giuristi avessero sostenuto che quel tipo di "diritto edificatorio" non esiste».
Quella scelta che conseguenze ha avuto? «Si è stabilito un principio, poi adottato altre volte, per cui molti costruttori hanno potuto invadere la campagna romana con insediamenti anche enormi, non raggiunti da un trasporto pubblico adeguato, in una città che perdeva residenti ma che si disperdeva sempre di più. Quella norma, che in teoria è anche corretta, ha accompagnato l'urbanistica romana da Rutelli a Veltroni. Ed è il segno di un'involuzione culturale.
L'urbanistica e la pianificazione del territorio sono state accantonate: il mercato non ne ha avuto bisogno e non ha più trovato ostacoli». Poi è arrivato Gianni Alemanno. «E con lui il progetto di trasformare l'Eur in pista per la Formula 1 con invasione di cemento. Contemporaneamente arriva il "piano casa", un ulteriore colpo alla cultura urbanistica. Ognuno si fa la sopraelevazione che vuole, consuma suolo e verde. Il progetto della città non è al centro degli interessi dei legislatori nazionali e regionali». Roma può tornare a essere una città moderna? «Sì, ad alcune condizioni. La prima è che non cresca più. La seconda, gettando lo sguardo oltre le questioni urbanistiche, è che faccia leva sulla cultura multietnica.
Una cultura che si esprime simbolicamente intorno a Piazza Vittorio Emanuele, ora luogo popolato da immigrati e che fu costruita e abitata dagli immigrati di allora, i piemontesi venuti a Roma dopo il 1870».

Repubblica 11.10.11
Che cosa insegna il processo di Perugia
di Giancarlo De Cataldo


La sentenza di Perugia e il dibattito internazionale che ne è scaturito potevano essere sfruttati per avviare una seria riflessione sulle falle del sistema processuale italiano, ripensare criticamente alcuni istituti, spingere politici e operatori del diritto a costruire un modello più comprensibile e utile alla collettività. Invece su tutto è calata come un macigno la beffarda domanda di un ex-ministro: "Chi paga"? Su questa cultura del "chi paga?" prima o poi bisognerà interrogarsi. Da un lato, riflette il disprezzo del produttore di cose materiali per chi opera nei settori dell'immateriale: solo ciò che si può fisicamente misurare, o forse pesare sulla bilancia, ha un valore, ovviamente espresso in denaro. Tutto il resto non conta,a meno che non sia riconducibile allo stesso metro di valutazione. "Chi paga?" è, sotto questo aspetto, il perfetto pendant di "con la cultura non si mangia". A un diverso livello, il "chi paga?" incarna una sorta di ossessione sociale che trasforma in rischio patrimoniale ogni assunzione di responsabilità. La medicina, per dirne una, da scienza e arte della cura del corpo, con annessi sofisticati risvolti tecnici, muta in un esercizio commerciale e burocratico teso a evitare la compromissione della sfera patrimoniale del medico: vuoi la diagnosi? Prima firmami una caterva di carte e sciroppati una miriade di analisi, perché "non si sa mai". E poi stiamo a vedere. Il medico non deve salvarti la vita perché è un professionista e ha un'elevata coscienza etica. Deve salvarti per salvare se stesso. E così la giustizia. Il giudice non studia gli atti e scrive le sentenze nel rispetto della legge e dell'etica, ma per salvare il portafogli.
Nella cultura del "chi paga", il processo non è luogo di accertamento della (probabile) verità, centro di tutela e garanzia dei diritti dei cittadini tutti, attività complessa regolamentata da leggi che, se pure discutibili, sono frutto di alcuni millenni di elaborazione dottrinaria e culturale. Eppure, proprio dopo Perugia, il "New York Times" ha ringraziato la nostra giustizia.
"Brava Italia", si legge in un editoriale, per aver trovato il coraggio di "do-over", cioè di ribaltare la sentenza di primo grado: fatto da noi ordinario, ma alquanto raro da quelle parti.
Contemporaneamente, l'inglese "Guardian" ha puntato il dito contro il nostro sistema processuale, accusato di tendere alla spettacolarizzazione, e, in particolare, contro la singolarità di processi separati per imputati dello stesso reato. Ma da noi, l'elogio del Nytè passato inosservato,oè stato interpretato tendenziosamente. Ne deriva che, ogni volta che qualcuno viene assolto in appello, il sistema, invece di dimostrare la sua serietà, infligge all'opinione pubblica, per definizione "sconcertata", una ferita insanabile. Tanto vale dire, sbrigativamente, che ogni processoè un processo serio, valido, giustoe quant'altro soltanto se si conclude con l'inesorabile condanna del sospetto. Da qui alla tortura per ottenere la confessione che ci manda tranquilli a nanna il passo (solo culturale, mi auguro) è breve.
E, sempre da noi, la critica del "Guardian" è stata invece recepita e valorizzata in tutte le salse: il processo italiano fa acqua da tutte le parti, e la colpa, ovviamente, è dei giudici, o, peggio ancora, dei pm. Premessa accettabile: il sistema è carente, pletorico, confuso e contraddittorio. Il regime processuale di imputati e coimputati è scarsamente decifrabile anche dagli addetti ai lavori, e la frammentazione dei riti rasenta l'ingestibile. Qualcuno si è preso la briga di spiegare alla "gente" che i vari racconti resi da Amanda Knox possono essere pubblicati sui giornali ma il giudice ha obbligo di non tenerne conto perché "inutilizzabili"? Che qualunque imputato ha il diritto di mentire, tacere, ritrattare e di ottenere a richiesta il giudizio abbreviato, senza che nessuno, tanto meno il pm, possa opporsi? Che esito avrebbe avuto la vicenda di Perugia se, come accade in altri ordinamenti, l'accesso ai riti alternativi o la riduzione di pena fossero vincolati all'impegno a rendere dichiarazioni secondo lo schema concordato con la pubblica accusa? O se gli imputati fossero stati processati insieme e al giudice fosse stato consentito di acquisire e verificare le loro dichiarazioni incrociate? Il processo non funziona. Ma a disegnarlo in questo modo non sono state né le toghe rosse né le procure eversive: semmai, le maggioranze che si sono alternate in questi anni al governo. Dunque, per stare al gioco: chi paga?

Corriere della Sera 11.10.11
Incisi nella pietra i segni dei bimbi di 13 mila anni fa
di Paola Caruso


Nel periodo Paleolitico i bambini in età prescolare non avevano carta e pennarelli per scarabocchiare, ma disponevano di caverne con pareti molli come il pongo, su cui tracciare scanalature con le dita. I loro segni si trovano nella grotta di Rouffignac, in Francia, e risalgono a 13 mila anni fa.
La scoperta del solchi nella roccia non è recente, ma soltanto adesso l'archeologa Jessica Cooney dell'Università di Cambridge, insieme a Leslie Van Gelder, si è accorta che quelle scanalature («finger fluting») sono da attribuire a bambini di 3-7 anni. Le dimensioni e le distanze tra le dita non lasciano dubbi: è opera di baby artisti. La Cooney ha presentato la ricerca alla conferenza «Child Labour in the Past» di Cambridge, sottolineando la presenza della mano femminile nei disegni. «Sembra che le tracce siano di almeno quattro bambini — dice Diego E. Angelucci dell'Università di Trento —. Ma quelle più ricorrenti sono state attribuite a una bambina». Insomma, una femmina più attiva dei maschi.
«La gender archaeology sta rivalutando il ruolo della donna nelle società preistoriche — aggiunge Angelucci —, dove spesso ci immaginiamo la figura dell'uomo cacciatore, coltivatore e guerriero, mentre la donna è sottovalutata».
Le scanalature di Rouffignac ci dicono anche altro. Primo: alcune linee sono troppo regolari per un bambino, spingendoci a credere che la minuscola mano sia stata guidata da una sorta di maestro/a. Secondo: i segni sono concentrati in un'unica stanza. Se mettiamo insieme le due osservazioni, possiamo dedurre che forse in quel luogo era presente una «scuola d'arte» per minori. «Le tracce in alto sulla parete indicano che i bambini venivano sollevati o tenuti sulle spalle — commenta Angelucci — e ciò ci fa capire quanta attenzione ci fosse per loro. Già in quel periodo i piccoli avevano uno status sociale. Lo si nota dal corredo funerario: il bimbo di Lagar Velho in Portogallo di 25 mila anni fa è stato sepolto con un coniglietto da compagnia».

Repubblica 11.10.11
La chimica del piacere analizzata in un libro che in America fa già scalpore. L'autore è Stanley Siegel Tutto nasce dai rapporti avuti in famiglia nell'infanzia: dalle storie serie alle infatuazioni passeggere
Scoprite il segreto del desiderio è nella vostra vita da bambino
di Angelo Aquaro


Se vi sentite irrimediabilmente attratti dalla biondona incrociata sull'autobus - o dal ragazzo che lascia spuntare il tatuaggio sotto la manica rivoltata - da oggi sapete da cosa dipende: dal fanciullino che è in voi. Dice: ma il sesso non è quel brivido dentro? Sbagliato.
La reazione fisica è solo l'ultimo atto di un'esplosione chimica: rintracciabile in un arco di tempo che va da zero a 14 anni. Per esempio. La bionda vi attrae perché vi rimanda all'idea di spensieratezza che vi fa sentire meno colpevoli. E il ragazzo con il tatuaggio? È il pirata che avete sempre sognato da quando papà per punirvi vi mandava a nanna senza il bacio della buonanotte. Almeno questo sostiene un libro che deve ancora uscire e già eccita l'America: "Your Brain on Sex: come il sesso più intelligente può cambiare la vostra vita".
Ok, sesso e intelligenza sono due concetti che non siamo abituati a pensare a braccetto, tantomeno cambiandone l'ordine.
Eppure proprio il Desiderio Intelligente si chiama il percorso proposto dal professor Stanley Siegel. La tesi scavalca a sinistra la psicanalisi: "Al di là della biologia nulla influisce la nostra sessualità più che la famiglia. E i nostri desideri sono il prodotto dei conflitti che abbiamo vissuto durante l'infanzia". Il momento critico è l'adolescenza: quando il sentimento trova la prima traduzione fisiologica.
"Erotizzare i conflitti è il nostro modo di sanarli. Trasformiamo la pena in piacere attraverso fantasie e desideri". E così come la psicoanalisi ci riconnette con l'Io nascosto, così Siegel risale all'infanzia per interpretare l'attrazione dell'altra/o. "Noi pensiamo che le nostre fantasie sessuali vengano a caso: invece sono finestre nei livelli più profondi della nostra psiche. E possono aiutarci a migliorare non solo la vita sessuale: ma a capire chi siamo". Per carità: buona già la prima. Ma come decodificare la chimica dell'attrazione per riconoscere il partner ideale? Qui il professore suggerisce un test che ciascuno può attuare: a suo rischio e pericolo. "La prossima volta che prendete la metropolitana o un treno" scrive su Psychology Today "scegliete un estraneo che trovate attraente. Prendete nota di capelli, occhi, pelle, bocca, statura, mani, piedi. Se parla, ascoltate il timbro della voce. Se siete abbastanza vicini, catturatene l'odore". Se a questo punto la biondona,o il bel tatuato, non avranno già chiamato la polizia, forse potrete concentrarvi sull'esercizio: "Bisogna tenere a mente che c'è una differenza tra attrazione fisica e attrazione sessuale. E una volta preso nota delle caratteristiche fisiche, ora chiedetevi: perché mi attrae?".
È a questo punto che si risale al fanciullino. La persona che abbiamo di fronte accenderà il desiderio che in realtàè stato innescato già da quel dì. L'uomo in giacca e cravatta o in uniforme rimanda al desiderio di protezione. La ragazza con gli occhi scuri al bisogno di sottomissione. Quella con gli occhi chiari al sentimento di sicurezza.
Banali stereotipi? Ma no. Il test fatto prima avrà dimostrato che non è (solo) l'apparenza che conta: ma "che cosa" quell'apparenza accende in noi. Se poi accende solo quella cosa lì, beh, il professore ha anche qui una risposta: il vostro desiderio riempie il senso di vuoto di un'infanzia in cui avete sofferto per l'estraniamento e l'isolamento. Altro che partner ideale: cercate un partner e basta. E al diavolo il fanciullino.

Repubblica 11.10.11
L'intervista Alessandra Graziottin non crede alla matrice negativa dell'attrazione
"L'identità sessuale è complessa Vogliamo chi ci cura dal passato"
di M.C.


ROMA - Dottoressa Alessandra Graziottin, sessuologa, siamo così condizionati da quello che accade nell'infanzia? «Non credo. Rifuggirei dal determinismo. Quello che è accaduto nell'infanzia, come quello che è avvenuto nell'utero, ci condiziona ma non in modo così drastico. Alcune esperienze ci segnano più di altre, abbiamo le nostre aree di vulnerabilità che rendono in una certa situazione una risposta più probabile e una scelta del partner più possibile. Ma non esageriamo, questo tipo di determinismo non solo è troppo meccanico ma direi anche tetro».
Perché tetro? «Perché queste profezie possono avere un effetto "nocebo", dire "accadrà questo" può attivare l'area dell'allarme, deprimere l'area dell'umore e condizionarci. Siamo la nostra storia ma anche capaci di grande plasticità. Se c'è stato un evento negativo va riconosciuto ma non può essere catalizzatore di tutto».
Cosa determina i nostri comportamenti sessuali? «Un insieme di causee fattori. L'identità sessuale si forma durante l'infanzia, ma ci sono anche radici biologiche e un passaggio importante è la pubertà, c'è poi il contesto sociale, quello in cui cresciamo».
Siamo più liberi di quello che pensiamo? «Sì, mi piace ricordare quello che ha scritto uno psicoterapeuta straniero: noi ci innamoriamo anche di persone di cui intuiamo la capacità di curarci da traumi del passato, di cui percepiamo l'effetto positivo che avranno sulla nostra vita, non solo di quelle che riflettono le nostre paure».

il Riformista 11.10.11
Scalfari, la politicizzazione a tutti i costi
di Corrado Ocone

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