giovedì 13 ottobre 2011

il Fatto 13.10.11
Ancora soldi al Vaticano
Con la legge di stabilità che sarà varata oggi il governo rifinanzia scuole private e autotrasporto
di Giorgio Meletti


 Per le scuole private ci sono 242 milioni di euro. Poi 20 milioni, meglio di niente, per le Università non statali legalmente riconosciute.Per l’autotrasporto 400 milioni. Le rispettive lobby (Vaticano nel primo caso, Confcommercio a nome degli altri nel secondo) festeggiano. La legge di stabilità che questa mattina va all’approvazione del Consiglio dei ministri rispetta alcuni debiti d’onore, con il governo impegnato, nonostante il convulso clima politico, a pagare alcune cambiali irrevocabili. I contenuti del disegno di legge sono stati in parte anticipati in serata dall’agenzia Ansa, verosimilmente ispirata dai ministri competenti ansiosi di cantare vittoria, Maria Stella Gelmini dell’Istruzione per le scuole private e Altero Matteoli per i Trasporti. Complessivamente si parla di un’allocazione di risorse per 4.183 milioni di euro, a cui corrisponderanno tagli di spesa di eguale misura, le cui vittime saranno scoperte nei prossimi giorni. Il provvedimento, quello che una volta era la Finanziaria, è snello, di appena 9 articoli, dei quali il primo sul saldo netto da finanziare e l’ultimo sull'entrata in vigore.
 NEL DOCUMENTO si fa riferimento alle due manovre estive, e per questo con la legge di Stabilità non ci sono “effetti correttivi sui saldi di finanza pubblica”, si legge nella Relazione Illustrativa. La politica del Tesoro non cambia: “L'azione del governo non può che essere rigorosamente vincolata al mantenimento della stabilità dei conti pubblici”, si legge nella bozza. Tra gli impegni di spesa contenuti nelle bozze anticipate dall’Ansa c’è un miliardo di euro per rifinanziare gli ammortizzatori sociali nel 2012. Le risorse sono però destinate solo alla cassa integrazione “in deroga”, quella per chi non ne avrebbe diritto stando alla legislazione vigente: ma si tratta proprio delle categorie che in questo momento ne hanno più bisogno.
 Le missioni militari internazionali vengono rifinanziate per 700 milioni di euro. Viene prorogato per il 2012 il cosiddetto “bonus produttività”, la tassazione agevolata al 10 per cento per premi, lavoro straordinario e lavoro notturno. La regola vale solo per i redditi fino a 40 mila euro. Viene confermata la dotazione di 400 milioni per il 5 per mille, la parte di tasse che ciascun contribuente può devolvere in favore delle onlus.
 Confermato il pugno di ferro sulle spese dei ministeri. Per chi non raggiunge “gli obiettivi” di riduzione della spesa è prevista “una riduzione lineare delle dotazioni finanziarie delle missioni e dei programmi di spesa di ciascun ministero interessato”. Aumenta la cosiddetta flessibilità gestionale della spesa, cioè la possibilità di spostare i fondi da un capitolo di spesa all’altro: “Le rimodulazioni potranno riguardare anche le spese classificate tra quelle non rimodulabili”.
 La Gelmini può cantare vittoria anche per l’Università, che otterrebbe secondo la bozza 150 milioni per il diritto allo studio e 400 milioni per aumentare il fondo ordinario di funzionamento dell’Università.
 DELUSIONE per il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani: il fondo aggiuntivo di 1,6 miliardi di euro proveniente dall’asta per le frequenze messe in vendita alle società telefoniche non andrà allo sviluppo della banda larga, ma verrà interamente incamerato per altri scopi: precisamente andrà per metà al fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (cioè alla riduzione del debito pubblico) e l’altra metà a un fondo con diverse finanzlità, tra le quali aiuti all’istruzione e nuove risorse per eventi internazionali.
 La relazione tecnica, stando alle bozze, giudica imprescindibile la destinazione di “risorse aggiuntive” ai fondi Fas, quelli per il sostegno allo sviluppo del Mezziogiorno, ma chiarisce che tutto ciò sarà possibile solo a partire dal 2015.

Repubblica 13.10.11
La Finanziaria redistribuisce 4,8 miliardi a vari settori. Si profila una nuova stretta sui ministeri inadempienti
Soldi a scuole private e missioni scippati 800 milioni alla banda larga
di Roberto Pietrini


ROMA - Nel caos provocato dalla bocciatura del Rendiconto generale dello Stato (che oggi sarà ripresentato ), si fa largo la legge di Stabilità (la ex Finanziaria) la cui approvazione è prevista nella riunione odierna del governo. Un testo striminzito, a saldo zero, di soli nove articoli, ma ampiamente anticipato dalla doppia manovra triennale d´estate dal valore di 59 miliardi.
La «Finanziaria», in attesa del prossimo decreto «sviluppo» (oggi ci sarà un primo esame), è bastata tuttavia per far emergere un nuovo braccio di ferro nel governo per la destinazione degli 800 milioni provenienti dall´asta delle frequenze 4G: le risorse erano destinate, dalla Finanziaria per quest´anno, alla banda larga e così ha chiesto fino all´ultimo il ministro per lo Sviluppo Romani, ma il Tesoro ha vinto la partita e i fondi sono stati ridistribuiti per far fronte alle necessità più urgenti dei vari ministeri e in parte (800 milioni) andranno all´ammortamento dei titoli di Stato. «Le promesse sulla banda larga non sono state mantenute», ha osservato il Pd Gentiloni.
Raschiando il barile la nuova legge di Stabilità è riuscita a recuperare 4,8 miliardi per finanziare una serie di interventi urgenti e non, facendo conto anche su un taglio del Fondo speciale di Palazzo Chigi. Tra le voci più significative ci sono i fondi per scuole private (262 milioni più 20 per gli atenei privati) e le università pubbliche (400 milioni); la copertura per 400 milioni del 5 per mille; la proroga al primo semestre 2012 delle missioni internazionali per 700 milioni mentre 36,4 milioni vanno alle assunzioni per Forze armate e Polizia. Risorse per 400 milioni sono state recuperate anche per il settore dell´autotrasporto. Da segnalare il «pacchetto lavoro»: prorogati al 2012 gli sgravi per i salari di produttività (400 milioni) dei lavoratori con un tetto di 40 mila euro di remunerazione e arriva un miliardo per gli ammortizzatori in deroga per il 2011.
Su alcune disposizioni sarà battaglia fino all´ultima ora. E´ il caso del taglio ai ministeri che, stabiliti con il decreto del 23 settembre, ora devono essere recepiti nelle tabelle della legge di Stabilità: sono ancora in corso serrate trattative tra i tecnici dei diversi dicasteri e la Ragioneria. Per ora si profila un parziale allentamento della gestione della spesa da parte dei ministri che avranno maggiore flessibilità interna: una misura accompagnata tuttavia dalla minaccia di «ulteriori correttivi» per i dicasteri che «non hanno raggiunto gli obiettivi» stabiliti dalle manovre d´agosto.

Corriere della Sera 13.10.11
La legge che regola la fecondazione assistita è in contrasto con le regole della medicina e del buonsenso
Ricerca scientifica e paradossi italiani
di Giuseppe Remuzzi

qui
http://www.scribd.com/doc/68590231/Corriere-Della-Sera-13-10-11-p45

Repubblica 13.10.11
"Politici come francescani" a Todi l´offensiva dei cattolici punta tutto sui nuovi moderati
"Serve un De Gasperi". Attesa per Bagnasco
Il direttore di Avvenire Tarquinio e "l´insignificanza dei cattolici nel centrosinistra"
Forlani: "La Dc? Non cerchiamo di tornare alla prima Repubblica, ma di uscire da questa"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il quotidiano Avvenire definisce i contorni del nuovo soggetto cattolico, frutto della crisi totale della politica. È un passaggio che fa una certa chiarezza alla vigilia del seminario di Todi (lunedì) convocato dal forum delle associazioni cattoliche, nucleo di una nuova unità dei cattolici davanti ai problemi della società. Il direttore del quotidiano dei vescovi Marco Tarquinio boccia Pdl e Pd e individua le poche novità della politica fuori dai blocchi contrapposti: «Terzo polo, la vecchia-nuova sinistra di Sel, i movimenti antipolitici dei grillini e le forze associative cattoliche e non solo». La sua è una risposta nella rubrica della lettere al deputato del Pd Giorgio Merlo. Merlo prova a difendere le buone ragioni democratiche per intercettare il malcontento dei credenti verso la classe dirigente. Ma la risposta di Tarquinio è un boomerang per il malcapitato Merlo: «Lei la chiama marginalità quella dei cattolici nel centrosinistra, io l´ho chiamata insignificanza».
Sul Pdl e su Berlusconi si sono già abbattuti con nettezza gli strali del presidente della Cei Angelo Bagnasco. Una scomunica clamorosa quanto attesa, quasi ineluttabile. Ma non è dall´altra parte che lo scontento della Chiesa sembra rivolgersi. È evidente che un segnale le gerarchie se lo aspettano dal fronte moderato per quella che tutti vedono come una riedizione della Balena bianca con i protagonisti che respingono sdegnati il riferimento al passato. «Niente nostalgie», scrive Tarquinio. «Semmai noi cerchiamo una via d´uscita dalla Seconda repubblica, non la porta per tornare alla Prima», spiega Natale Forlani, che del Forum è portavoce, animatore e del seminario di Todi è il principale organizzatore.
Quell´appuntamento sarà aperto da Bagnasco in persona con una prolusione che molti prevedono «impegnativa» sul piano delle scelte future. «Il cardinale ha accettato il nostro invito e ne siamo lietissimi. Ma l´obiettivo è sollecitare i laici a darsi da fare». Il titolo del meeting è la "La buona politica per il bene comune. I cattolici protagonisti della politica italiana». Gli ospiti sono i leader delle associazione che hanno formato il Forum: Acli, Movimento cristiano lavoratori, Compagnia delle Opere, Cisl, Concooperative, Coldiretti, Confartigianato. Come si vede c´è la spina dorsale sociale ed economica che ha sostenuto per 50 anni la Democrazia cristiana. Tra i relatori l´amministratore delegato di IntesaSanPaolo Corrado Passera, il Rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi, il sociologo Giuseppe De Rita, l´economista Stefano Zamagni e il segretario della Cisl Raffaele Bonanni. Presente anche monsignor Paglia, che celebrerà la messa. In sala ci sarà Andrea Riccardi, fondatore di Sant´Egidio su cui sono puntati i riflettori per una futuribile leadership di questa ritrovata unità dei cattolici. Ma Forlani smentisce: «Non pensiamo ad alcuna gerarchia leaderistica. Siamo ai primi passi di un percorso, creiamo un pensatoio. Ma la grande novità è essere riusciti mettere insieme associazioni che negli ultimi anni si sono mosse in ordine sparso». Il giudizio sull´attuale classe dirigente è pessimo, praticamente demolitorio. «Il rinnovamento della politica è necessario. Quale degli attori in campo oggi è in grado di raccogliere i 500 miliardi che servono per uscire dalla crisi?». Nessuno, è la risposta del portavoce del Forum. Forlani pensa a una catarsi assoluta, «al ritorno a una politica del dovere». Che è ben sintetizzata in un´immagine lontana dall´esperienza del quindicennio appena trascorso. «In un nuovo modello di sviluppo - dice il leader delle associazioni - i politici devono essere dei francescani, devono dare l´esempio. Penso ad Alcide De Gasperi, che si rivoltava il cappotto logoro quando partecipava ai vertici internazionali».

Repubblica 13.10.11
Renzi: "Bersani leader? Devono dirlo le primarie"

ROMA - «Bersani leader del Pd? Lo diranno le primarie». A dichiararlo ieri è stato Matteo Renzi. «Il Pd deve consentire a dirigenti, militanti, simpatizzanti di scegliere un candidato». Per il sindaco di Firenze le primarie «devono essere aperte, si potrà votare Bersani o Vendola o una ragazza di trent´anni».

il Fatto 13.10.11
Veleni
Al Manifesto vince lo scontro interno


Nelle dimissioni di Norma Rangeri e Angelo Mastrandrea dalla direzione del manifesto non c’è solo la rassegnata ammissione che “recuperare lettori (...) si è rivelata una missione impossibile”. Ma anche la denuncia a suo modo coraggiosa che per minare la vita dei giornali, soprattutto se militanti, può essere decisivo il fattore umano. E così, nel lungo editoriale di commiato pubblicato ieri, i due direttori descrivono “un gruppo di lavoro ridotto a molte individualità di valore, ma sfiduciato, stanco”. Nel quale “il collettivo”, cioè l’assemblea dei lavoratori giornalisti e non, ha bocciato la proposta di esntare dalla cassa integrazione a rotazione “alcune funzioni basilari (la direzione, i capiredattori e altri ruoli chiave)”.
Si racconta anche “la scelta dell’assemblea, punitiva nei confronti di molti compagni storici del giornale, incentivati alla pensione per alleggerire le nostre casse e, contemporaneamente, considerati come un impedimento al rinnovamento generazionale”. Questa frattura, “molto grave in un collettivo già provato”, si aggiunge all’eterno scontro assembleare sulla linea politica del giornale, sul quale “troppi articoli sono scritti in un linguaggio per pochi”. Marxianamente parlando, non è solo questione di soldi.

La Stampa 13.10.11
Intervista a Franco «Bifo» Berardi
L’ex leader del ’77: “Attenti, rischiamo un’altra Genova”
di Franco Giubilei


BOLOGNA. Franco «Bifo» Berardi Professore alle superiori, noto «agitatore culturale» è stato uno dei leader del ‘77 bolognese

Franco Berardi detto Bifo, agitatore e leader del movimento bolognese del Settantasette, commenta così le cariche di ieri e dipinge una situazione allarmante in vista della manifestazione di sabato a Roma: «Non vorrei che Roma fosse la ripetizione di Genova. Lì può capitare veramente di tutto».
Pessima prospettiva, e perché potrebbe degenerare così malamente?
«Nessuno sta dando organizzazione all’appuntamento di sabato è il contrario di quanto accadde a Genova col Social Forum, che invece aveva in mano la situazione. In più si prevede un grande afflusso di gente. La voce prevalente che si sente è di non accettare lo scontro, ma comunque di non tornarsene a casa».
C’è un precedente preoccupante, i disordini di del 14 dicembre.
«Neanche in quel caso nessuno lo aveva deciso, i disobbedienti facevano i pompieri e gli antagonisti come quelli di Askatasuna a quanto so non avevano preparato niente. La realtà è che la polizia si è trovata di fronte dei ragazzini».
Ma che cosa rende pericolosa la nuova protesta?
«Ai tempi di Cossiga il sistema reprimeva ma rilanciava la crescita, il capitale aveva una strategia, oggi siamo all’agonia della capacità di governo del capitalismo, qui sta crollando tutto».
Vede delle analogie con quanto successe nel Settantasette, quando le manifestazioni si incendiarono in tutta Italia?
«Io scontri come quelli di Roma li ho visti solo nel ’77, come allora c’è un’anti-istituzionalità radicale e come allora i soggetti della protesta erano gli studenti precari».
E le differenze? Sono passati trentaquattro anni…
«Negli anni Settanta c’era la percezione di un avversario consapevole, che doveva reprimere e poi ricominciare, c’era un antagonista, lo Stato, padrone di sé, che aveva in mente la riconversione e la ripresa del controllo delle fabbriche, sullo sfondo della rivoluzione tecnologica imminente. Oggi invece non c’è nessuna idea di come se ne esce. Essendo un cocciuto marxista, posso dire che non siamo mai stati così vicini al comunismo…».
E come promuovono la loro azione gli attuali protagonisti?
«Più che coi blog, ormai superati, comunicano attraverso i social network (il solito Facebook, Twitter etc, ndr), e grazie ad ambienti virtuali, siti come Edufactory, Scepsi, Kafca».
Cosa si augura per la manifestazione di sabato?
«Che non ci siano scontri, ma la campada, gli accampamenti che hanno occupato le piazze in Spagna».

Repubblica 13.10.11
I tecnici prevedono un grande afflusso di persone. E il dibattito sulla fiducia alla Camera rischia di far salire la tensione
"Saranno tantissimi", capitale blindata per l´I-Day
Il Viminale teme la mancanza di servizio d´ordine. Zona rossa intorno ai Palazzi del potere
di Carlo Bonini


ROMA - Chini come aruspici sugli umori di una piazza che ha perso ormai da tempo ogni riferimento tradizionale, per sua scelta priva di leader e dunque «orizzontale», che ripropone sul marciapiede quel che è nella vita di ogni giorno (invisibile, atomizzata, precaria), gli addetti alla sicurezza del Viminale preparano l´I-day attingendo a un format che abbiamo imparato a conoscere. L´»isolamento». Sabato, la Roma dei Palazzi, il quadrilatero del Potere verrà fisicamente separato e reso inaccessibile agli indignati, alla generazione dei "Draghi" cui è stato rubato il futuro. Quel che è possibile a Wall Street e nella City di Londra - l´occupazione simbolica dello spazio - non lo sarà a Roma. E poco importa se le zone di "esclusione" o di "rispetto" avranno un colore (il rosso) o meno.
In un assedio alla rovescia (di cui ieri pomeriggio si è avuta una prova generale nel pesante dispositivo di ordine pubblico che ha isolato Palazzo Koch, utilizzando anche il "filtraggio" dei passanti) che marca un ulteriore grado di separazione, anche simbolica, uomini (si parla di oltre 2000) e mezzi di Polizia e carabinieri presidieranno i varchi urbani che danno accesso a Palazzo Chigi, a Montecitorio, al Senato, alla residenza privata del Presidente del Consiglio. Fisseranno in Largo Ricci (il punto in cui il corteo prenderà la via di san Giovanni, allontanandosi dal centro storico) la linea invalicabile tra le due città. Quella libera e quella proibita. Nella convinzione (nonostante l´esperienza spesso e volentieri abbia dimostrato l´esatto contrario) che la «separatezza» sia la chiave per evitare o eccitare il contatto.
Nella scelta - per quanto riferiscono in queste ore fonti qualificate del Dipartimento di Pubblica sicurezza - pesano i numeri della piazza, che si annunciano importanti (di gran lunga superiori ai 150 mila, con una grande partecipazione soprattutto dal Nord), la constatazione che il corteo non avrà un suo servizio d´ordine (almeno nel senso classico del termine), perché così vuole la natura del movimento. E dunque - come è ormai chiaro anche da quanto accaduto ieri a Bologna - la convinzione che ciascun blocco sociale e geografico presente alla manifestazione deciderà, «assumendosene la responsabilità», come stare in piazza. Che, insomma, nessuno può ragionevolmente prevedere (al netto del liso canovaccio di allarmi di intelligence e delle provocazioni che normalmente segnano la vigilia di appuntamenti di questo genere), se e quanto peserà la componente di "riot", di rivolta esistenziale, prima ancora che sociale, che attraversa il movimento. E di cui il 14 dicembre 2010 e la rivolta no-tav in val di Susa sono stati dei test.
Ma soprattutto, nella scelta del Viminale pesa la consapevolezza che gli umori di chi sfilerà sabato nelle strade di Roma sono appesi anche e soprattutto a quanto accadrà a Montecitorio da oggi a venerdì. Per una cabala che nessuno poteva prevedere e che per giunta ripropone come un calco il contesto politico del 14 dicembre del 2010, l´I-day arriva infatti a ridosso di un passaggio parlamentare cruciale per la sopravvivenza del Governo. E, per dirla con le parole di un alto dirigente di Polizia, «lo spettacolo che offrirà la politica nelle prossime ore potrà trasformare sabato in un giorno di festa liberatoria o raddoppiare l´indignazione».

l’Unità 13.10.11
Fiera del libro
Al padiglione italiano editori contro il decreto anti-intercettazioni
A Francoforte domina la polemica antibavaglio
di Maria Serena Palieri


A proposito di libertà di opinione, le norme sulle intercettazioni, pensate per bloccare diffusioni più o meno lecite sulla stampa quotidiana e periodica, online e offline, hanno sui libri effetti ancora più assurdi. Per questo siamo a fianco dei nostri colleghi dell’editoria quotidiana e periodica nell’esprimere la preoccupazione per le norme attualmente in discussione». Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana degli Editori, sceglie lo sfondo internazionale della LXIII Buchmesse per schierare l’Aie contro il decreto intercettazioni. Lanciato alla vigilia della Fiera da un trio Gems, Laterza, minimumfax cui man mano si sono aggiunti altri editori (tra loro «a titolo personale» Ernesto Franco, direttore editoriale di Einaudi), l’appello contro la legge-bavaglio ha incassato quindi un sostegno di sostanza. Anche in nome dell’assurdità di una rettifica immediata, impossibile da sostenersi per chi fabbrica libri e non giornali.
All’inaugurazione del padiglione italiano, presente il sottosegretario ai Beni culturali Riccardo Villari, il tema intercettazioni diventa dominante. Allo stand di Chiarelettere i libri sono ornati da post-it con la scritta «No alla legge bavaglio». Con la polemica antintercettazioni concorda Stefano Mauri, ad di Gems, che spiega al sottosegretario: «Il problema di questo decreto per noi editori non è solo politico. È pratico: andrebbe a finire che dovremmo rettificare nell’immediato qualunque refuso, da un’eta sbagliata attribuita, da un autore di un nostro libro, a Raffaella Carrà, al nome non corretto del sindaco di un qualunque paesello». Accanto a lui Ricky Cavallero, direttore di Mondadori, sorride.
Polillo, da Francoforte, ha polemizzato anche su altri piani. Ricordato che l’industria italiana è al 7-8 ̊ posto nel mondo e al 4-5 ̊ in Europa, ha rintuzzato le accuse di chi dice che è «sovvenzionata» («semmai siamo noi privati a finanziare dei progetti del Centro per il Libro»); che i prezzi dei nostri libri siano maggiori di quelli di altri Paesi; e che la legge Levi ammazzi il libero mercato. 
A riprova, ecco uno dei dati dell’annuale Rapporto sull’Editoria, basato sull’indagine NielsenBookScan. Il mese di maggior sofferenza, per le vendite, nel 2011 è stato agosto, con un calo rispetto ad agosto 2010 del 7,6%. E agosto è stato il mese in cui chiunque pensasse di goderne vantaggi si è buttato su un’ultima campagna di supersconti, in attesa che il primo settembre entrasse in vigore la legge che disciplina gli sconti. Ora, per capire se la legge Levi aiuti o deprima il mercato, bisognerà aspettare l’anno prossimo, coi risultati di quest’ultimo quadrimestre. Per il resto, l’editoria italiana, com’è ormai uso dire, regge più di altri settori: il 2010 si è chiuso con un segno più, pure se flebile: +0,3% di fatturato. per un totale di 3.417 milioni di euro.
La salvezza passa per l’ebook? Le vendite, seppure in crescita, sono ancora in termini di 0,04% del mercato complessivo. Lamenta Polillo: a fronte degli investimenti che gli editori hanno fatto nel campo (il 20% delle novità ora esce anche in digitale), si sconta l’Iva tuttora al 21%: l’ebook è tassato non come «contenuto» (il libro) ma come «contenitore» (come una tv, un lettore di dvd, un Mp3...). Questo, sottolinea Polillo, «nell’indifferenza del nostro governo» rispetto alla discussione che sta avvenendo nell’Unione Europea.
Cresce, con quei dati però sempre titubanti, il numero di italiani che leggono: sono 26,4milioni (+ 1,7 punti percentuali sul 2009), quelli che nel 2010 hanno letto «un» libro. Cresce il peso dei tascabili: oggi costituiscono il 20,3% del mercato trade. E cresce il ruolo della piccola editoria: 13,5% del fatturato dei canali trade. Diminuisce del 2,8% il peso della libreria a conduzione familiare mentre sale del 2,9% quello delle librerie di catena. Quanto al numero di titoli offerto dagli editori, diminuiscono anche nel 2010: calano titoli (a quota 57mila), novità (122milioni) e copie (208milioni).

Repubblica 13.10.11
A Francoforte l'allarme dell'Aie: "La politica non si preoccupa della nostra situazione"
Gli editori: vendite in calo ma nessuno ci sostiene


Cavallero (Mondadori) e l´appello contro la legge bavaglio: "Sotto la mia direzione non si firmerà ma non sono in disaccordo con gli altri" Che hanno promosso l´iniziativa

FRANCOFORTE. Una voce circola tra gli stand degli editori italiani alla Fiera del Libro di Francoforte. Gli ultimi mesi dell´anno sono stati un disastro per il libro. Le librerie sono vuote. Gli sconti non hanno portato ossigeno al mercato. E nemmeno l´ebook, che rappresenta ancora lo 0,04 per cento del fatturato, ha compensato la forte flessione del mercato librario. Ma Marco Polillo, presidente dell´Associazione degli Editori, ha assicurato che i dati dell´editoria, sebbene non rosei, non sono drammatici. "E´ ora di fare chiarezza: sembra che il nostro sia un mercato finito, autoreferenziale, con l´ebook che affonda il libro cartaceo, ma le cose non stanno così e le cifre lo dimostrano", ha detto alla tradizionale conferenza stampa dell´AIE alla Buchmesse. Nel 2010 è tornato un modesto segno "più". Per un fatturato di 3,417 milioni di euro a prezzo di copertina. Nei primi mesi del 2011 il modesto trend di ripresa ha però subito una frenata, che ha segnato un vero e proprio crollo in agosto (- 8 per cento).
Un segnale allarmante che molti editori presenti a Francoforte confermano, ad eccezione di Gianluca Foglia ("la Feltrinelli cresce, non c´è stato nessun rallentamento"). "Guardiamo quanto vende un bestseller oggi e quanto vendeva un anno fa si vedrà che i numeri sono quasi dimezzati" spiegano da minimum fax. Oppure, come dice Francesco Colombo di Dalai, bisogna tener conto i che i bestseller oggi sono soprattutto libri da 9 euro.
Polillo ha difeso gli editori da una serie di accuse. Non è vero che il libro in Italia sia troppo caro, anzi "è il più economico in Europa", e lo stesso vale per l´ebook, che costa in media meno che negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Francia. Non è vero che gli editori si arricchiscano vietando gli sconti. Non è vero infine che l´editoria è assistita, lo Stato "non dà un euro di aiuto, ora che sono state abolite le agevolazioni sulle tariffe postali e spedire un pacco di quattro libri all´estero costa 50 euro", molto per un settore il cui fatturato complessivo è intorno ai 3,4 miliardi di euro (i tedeschi, tanto per fare un paragone, hanno comprato nel 2010 quasi 10 miliardi di euro di libri).
In più - con la chiusura dell´ICE (l´Istituto per il commercio estero) - l´anno prossimo non ci sarà nemmeno lo stand Punto Italia: come faranno gli editori a pagarsi la carissima partecipazione alla Buchmesse? Il disinteresse del governo è totale, ha detto Polillo: "La Fiera di New York è stata inaugurata da me e dal console, non c´era un solo politico italiano". Sono anni che anche a Francoforte non si vede un ministro. Quest´anno è venuto il sottosgretario ai Beni culturali Riccardo Villari, che ha fatto un po´ di generiche promesse dopo aver detto qualche frase retorica: "la cultura è il nostro petrolio" o "i libri mi affascinano".
Gli editori si difendono perché il mercato internazionale tira: Dalai ha venduto Così in terra, romanzo di esordio del palermitano Davide Enia, in otto Paesi, tra cui gli Stati Uniti. Il romanzo racconta cinquant´anni di storia italiana dai bombardamenti di Palermo nel ´42 alle bombe del ´92. Ma anche su questo fronte ci sono segnali preoccupanti. Le case editrici tedesche cominciano a voltare le spalle all´Italia, spiega una agente. "O si tratta di nomi famosissimi oppure il declino italiano ha un riflesso anche sui libri, e gli editori pensano che i lettori siano meno interessati alle cose italiane".
Al margine dell´appuntamento dell´Aie, Riccardo Cavallero, direttore generale libri trade Mondadori e ad di Einaudi, definisce la posizione dell´azienda sull´appello contro la legge bavaglio, nel frattempo sottoscritto "a livello personale" da mezzo stato maggiore di via Biancamano, dal presidente onorario Cerati ai direttori di Stile libero Severino Cesari e Paolo Repetti, all´editor della narrativa italiana Paola Gallo: «Sotto la mia direzione le case editrici non firmeranno appelli di nessun tipo ma non sono in disaccordo con gli altri editori. Del resto la Mondadori fa parte dell´Aie, e sull´argomento l´Aie si è espressa nella relazione di Polillo».

Corriere della Sera 13.10.11
Crisi di vendite per la grande storia
È finita la generazione dei Le Goff
di Dino Messina

qui
http://www.scribd.com/doc/68590231/Corriere-Della-Sera-13-10-11-p45


Repubblica 13.10.11
La diseguaglianza insopportabile
di Nadia Urbinati


CHE cosa vogliono le migliaia di cittadini che da quasi un mese manifestano davanti a Wall Street sollevando un´ondata di protesta che interessa ormai le maggiori città americane?
Come leggere questo movimento variegato che non ha leadership, non ha scopi definiti, non si lascia facilmente rubricare da un´etichetta di partito? Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni importanti sindacati; ma non è per nulla inquadrabile in un´organizzazione gerarchica e poco inclusiva come il sindacato. Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni esponenti democratici di prestigio (e la buona menzione del presidente Obama); ma è critico nei confronti di un partito che non ha dimostrato coraggio di fronte ai repubblicani e attenzione all´impoverimento della società americana. Ma, nonostante questi distinguo rispetto alla politica organizzata, i cittadini che manifestano non sono "mob", non sono una massa arrabbiata di americani invidiosi dei loro pochi ricchi concittadini, come gridano i repubblicani di "FoxNews". E non sono neppure una pericolosa espressione di populismo anarchico, teste calde che vogliono, ancora secondo le accuse repubblicane, dividere l´America con la lotta di classe.
In effetti la stessa espressione "populismo" è poco adatta a rappresentare questo nuovo movimento di protesta, che per la radicalità ma anche ragionevolezza degli slogan e dei messaggi assomiglia al movimento per i diritti civili degli anni ´60, quello che ha manifestato contro la guerra in Vietnam, contro la discriminazione razziale e di genere. In quelle lotte vi era il futuro. L´America di oggi è figlia di quel movimento giovanile. Sarà anche questa volta così? Per molti intellettuali e per alcuni commentatori televisivi potrebbe essere così. E quindi, l´espressione populismo (di per sé una categoria fumosa e difficile da tradurre in un concetto chiaro) è ancora meno adatta.
Populista è certamente il movimento del Tea Party, una congerie di molte delle categorie tradizionalmente associabili a questo tipo di movimento, per esempio: anti-intellettualismo o attacco ai "sapientoni" (per dirla con il Senatore Bossi) perché criticano e non si identificano con le opinioni popolari, istintive e radicali; e anti-governo o attacco alle politiche sociali che creano grossa burocrazia e mettono in moto più Stato e quindi un surplus di controllo della sfera economica. Il Tea Party si sente a suo agio con l´agenda repubblicana che da diversi decenni ha dato la sua totale adesione alla dottrina liberista, la quale addossa le responsabilità del declino economico dell´America a chi propone una più giusta distribuzione della ricchezza non a chi l´avversa, nella convinzione che se la natura degli interessi e dell´accumulazione seguisse il suo corso, a beneficiarne sarebbero tutti in proporzione. La retorica cristiana dei talenti e della responsabilità di usarli al meglio dà pathos a questa ideologia anarco-liberista, che si sente autorizzata dal Vangelo a svolgere la sua propaganda contro lo Stato, luogo satanico del potere e contro coloro che pensano di usarlo per una buona causa di giustizia. Dunque, anti-razionalismo, anti-intellettualismo, anti-governo: ecco gli ingredienti del populismo dei Tea Party. Il quale non è soltanto un movimento di protesta, ma è un movimento con un´agenda politica ben precisa, come il Congresso americano uscito dalle ultime elezioni sta dimostrando. Certo, il Tea Party non è unito sotto la guida di un leader carismatico e in questo non è simile ai populismi europei. È federalista come il Paese nel quale è nato, diramato attraverso le chiese evangeliche, riunito sotto i vari predicatori che mettono insieme l´omelia ogni domenica.
Occupy Wall Street non ha nulla di tutto questo. Ed è questa la ragione dell´incredibile attacco dei leader del Tea Party, i quali hanno annusato molto correttamente che questi manifestanti non hanno nulla da spartire con loro. Occupy Wall Street è un movimento spontaneo, e quindi democratico nel senso più elementare del termine, perché ispirato a ideali di auto-governo e di eguaglianza di cittadinanza. Lo slogan "Noi siamo il 99%" non intende fare guerra all´1%, cioè ai miliardari. Non è l´invidia che li guida come ha sostenuto un candidato repubblicano. Lo slogan chiede più semplicemente che chi ha più deve più contribuire anche perché quel di più lo ha in ragione di politiche adottate dai governi americani dalla fine degli anni ´70. Politiche alle quali tutti hanno obbedito e che però hanno favorito non tutti allo stesso modo. E non a causa dei talenti che il Signore distribuisce diversamente, ma di una mirata e sistematica politica della diseguaglianza.
L’equità fiscale non è proprio un obiettivo rivoluzionario. Se così appare è perché le diseguaglianze economiche e sociali sono ormai così radicali da aver dato vita a due popoli, un po´ come nell´antica Atene: anche oggi, gli oligarchi, benché dentro il sistema democratico, scalpitano per avere privilegi e non sottostare alla regola dell´eguaglianza. Occupy Wall Street mette in luce questa antica e sempre nuova lotta tra oligarchia e democrazia. Soprattutto, mostra come la seconda non sia semplicemente una forma di governo, ma anche un ideale, una visione di società che quando le diseguaglianze si radicalizzano, come ora, non riesce più ad avere il consenso di tutti. L´1% simbolico – i super miliardari – sta a significare che alcuni sono fuori dal patto democratico dell´eguaglianza. È questa la radicalità di Occupy Wall Street.
A chi è indirizzata questa radicalità? Qual è la relazione di questo movimento democratico con la democrazia delle istituzioni? Queste domande mettono in luce la crisi profonda di rappresentatività delle istituzioni democratiche. Occupy Wall Street non ha specifici obiettivi se non uno: entrare in comunicazione con coloro che operano nelle istituzioni, i quali hanno da anni spento l´auricolare e sono, come si dice in Italia, auto-referenziali. Dall´interno dei parlamenti non si vuole ascoltare. La scollatura tra dentro e fuori delle istituzioni democratiche è preoccupante e, purtroppo, non è destinata a risanarsi velocemente. Questo movimento chiede dunque una ricostituzione della rappresentanza politica. Sfida gli eletti nel nome dell´autorità dell´ascolto. E ha senso occupare le piazze fisiche, visto che quelle mediatiche sono interessate a mettere una cortina di silenzio sulle opinioni dei cittadini. Se c´è un contributo che Occupy Wall Street può dare è quello di creare un clima politico finalmente di attenzione; di costringere chi si occupa delle politiche nazionali a non girare le spalle a coloro che di quelle politiche devono subire le conseguenze. Si tratta di un richiamo ai principi democratici, dunque: a quella promessa di libertà e giustizia per tutti che è scritta nelle nostre costituzioni.

Corriere della Sera 13.10.11
Un volume di Jeffrey Herf sulla propaganda del Terzo Reich in Nord Africa e Medio OrienteQuando l’Islam seguì la svastica
Così Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme, si piegò a Hitler
di Luciano Canfora

qui
http://www.scribd.com/doc/68590231/Corriere-Della-Sera-13-10-11-p45

Repubblica 13.10.11
Contrordine, buoni si nasce trovato il gene dell’egoismo
Il gene dell’altruismo che ci fa nascere buoni
Una ricerca rivela: la scarsa generosità frutto di una disfunzione del Dna
di Federico Rampini


I due terzi dei bambini scelgono di lasciare gli adesivi agli altri che non ne hanno
Il gene si chiama Avpr1a e regola nel cervello ormoni legati ai nostri comportamenti

New York. Egoisti si nasce, altruisti si diventa? Questo luogo comune ci accompagna da tempo immemorabile. È stato immortalato in un capolavoro letterario come Il signore delle mosche (1954) del premio Nobel William Golding, sui ragazzi dispersi in un´isola deserta che incrudeliscono sui più deboli con ferocia.
Nel 1976 un avallo scientifico a quell´idea sembrò arrivare dal saggio dell´evoluzionista Richard Dawkins sul "Gene egoista", anche se Dawkins sostiene di essere stato spesso frainteso. Ma anche i più diffusi manuali divulgativi sull´educazione dei figli, come il popolare "Handbook of Child Psychology" in America, istruiscono i genitori su come "correggere" l´indole spontanea del loro bambino che vorrebbe tutto per sé. Ora sappiamo che non è vero, non è così che nasce il bambino. Un´importante ricerca pubblicata sulla rivista scientifica PLoS, e ripresa dal Wall Street Journal, dimostra in modo convincente che siamo programmati biologicamente con un "gene dell´altruismo". Almeno: molti di noi ce l´hanno, attivo e funzionante. Mentre sono gli "egoisti alla nascita" la vera anomalìa, perché vittime di una disfunzione genetica. Questo è il risultato dell´esperimento condotto da un´équipe di psicologi in un laboratorio israeliano, sotto la guida del professor Reut Avinum della Hebrew University. Il test è semplice, comincia con 136 bambini di età compresa fra i 3 e i 4 anni. Uno alla volta, ogni bambino entra da solo in una stanza arredata come la sala-giochi di una scuola materna. Gli vengono consegnate sei confezioni di adesivi colorati. «Puoi tenerli tutti per te - gli spiega l´istruttore - oppure puoi darne qualcuno a un altro bambino, che non ne ha». Gli "sticker" colorati rappresentano immagini belle, attraenti. Nessun altro coetaneo appare nella stanza, quindi il bambino non ha la più pallida idea di chi sarebbe il beneficiario del suo dono eventuale. Gli si chiede uno sforzo d´immaginazione notevole per quella età, la sua generosità deve esercitarsi a favore di un essere astratto. Eppure il risultato del test è inequivocabile: i due terzi dei bambini scelgono di lasciare qualche confezione ad altri, solo perché gli è stato detto che da qualche parte esistono dei bambini che non hanno alcun adesivo. Non ci sono differenze tra maschi e femmine. Alcuni addirittura rinunciano alla totalità del dono. Interrogati sul perché di questo altruismo estremo, rispondono: «Perché è così che ci si sente più felici». Tutto merito dell´educazione ricevuta in famiglia? Nient´affatto. Gli psicologi israeliani hanno individuato un gene, Avpr1a, che "regola nel cervello ormoni legati ai nostri comportamenti sociali", incluso l´altruismo e lo spirito cooperativo. Usando la tecnologia di risonanza magnetica che consente di raffigurare in immagini la nostra attività cerebrale, gli stessi scienziati hanno osservato che ad ogni atto di generosità il gene Avpr1a rilascia neurotrasmittenti simili alla dopamina, che producono una sensazione di benessere fisico. Alla stessa conclusione è giunta una ricerca indipendente, condotta alla University di Washington e anch´essa pubblicata sulla rivista PLoS: in quel caso addirittura sono stati identificati riflessi altruisti e un senso di "equità" in bambini di soli 15 mesi, misurando la loro voglia di condividere il giocattolo favorito. È tra quei bambini che si rifiutano di donare e invece vogliono tutto per sé, che gli scienziati individuano l´eccezione alla norma: che si spiega con una variazione nel gene Avpr1a. Queste ricerche confermano l´interesse crescente degli studi scientifici nel campo dell´altruismo, un ambito che sta attirando finanziamenti come quelli della Templeton Foundation in favore della Science of Generosity Initiative. Lo studioso di Harvard Yochai Benkler nel suo saggio "The Penguin and the Leviathan" allarga il discorso a tutte le scienze sociali e all´economia. La teoria dell´evoluzione, se applicata non solo alla biologia individuale ma alla selezione dei gruppi e delle specie, dimostra che prevalgono le società e organizzazioni complesse dove si esalta il "gene della cooperazione".

il Riformista 13.10.11
Ferraris, perché l’anima rassomiglia ad un Ipad
Saggio. Il filosofo spiega come la tecnologia sia un riflesso conseguente del pensiero occidentale.
di Corrado Ocone

qui
http://www.scribd.com/doc/68590234

Repubblica 13.10.11
Casa Pintor
"Quanti sacrifici" La vita di famiglia vista dalla madre
Scrive a Giaime: "Tu ed io siamo il nemico. Io qui non ho saputo amalgamarmi"
Pubblicate le lettere inedite di Dedè, testimonianza al femminile delle relazioni tra genitori e figli (illustri) in mezzo ai rovesci della Storia
di Simonetta Fiori


In un pacchetto di lettere, trovato nei faldoni di un archivio, possono essere custodite molte cose. Nelle missive di Adelaide Pintor, intellettuale inquieta e madre di Giaime e Luigi, è conservata la voce di una donna straordinaria finora oscurata dalla fama dei suoi figli illustri, l´eroe e il giornalista. L´unica testimonianza al femminile di una famiglia borghese in fuga dalla mediocrità del tempo, un mondo colto e insieme complesso, legato all´establishment del fascismo ma anche estraneo alle sue liturgie, trama di affetti e intelligenze di cui ora conosciamo la sapiente tessitrice (Da casa Pintor. Un´eccezionale normalità borghese: lettere famigliari, 1908-1968, a cura di Monica Pacini, Viella editore, pagg. 232, euro 25).
Casa Pintor, raccontata da Dedè, è una storia del secolo scorso, tra tragedie pubbliche e minuti rituali quotidiani. L´anniversario della marcia su Roma e l´arrivo dei mobili in lucidissimo mogano. La visita a casa del vicesegretario del Pnf Arturo Marpicati e la majonnaise impazzita. Il sangue d´Europa e i gemelli d´oro di Giaime, "adatti per le mondanità" della Capitale. Di questo lessico famigliare, ambientato tra gli anni Venti e Trenta nel Castello di Cagliari ma successivamente nel romano quartiere Trieste, appaiono frammenti in Doppio Diario di Giaime e nei bellissimi libri di Luigi, sempre all´affannosa rincorsa di quel suo maggiore che gli destinò l´ultima lettera poi divenuta vangelo della Resistenza, scherzo crudele da non fare mai a un fratello. Lontani echi si trovano anche nelle lettere dello zio Fortunato e nell´affascinante affresco sui Pintor tratteggiato da Cecilia Calabri. Ma ora per la prima volta, grazie allo sguardo di Dedè - e alla cura meticolosa della Pacini - penetriamo nell´intimità della casa cagliaritana di via Genovesi con il suo giardino sospeso e lo specchio del mare, nel delicato gioco delle relazioni tra genitori e figli, ritratto con ironico e femminile disincanto sullo sfondo del ventennio nero. Un viaggio attraverso il fascismo che include sì l´entusiasmo per le imprese coloniali, ma poi una crescente insofferenza per i suoi limiti culturali, per uno stile retorico svuotato di contenuti, per "l´asfissiante" gigantismo ginnico, per la "consegna di russare" patita con la chiusura di Omnibus. «C´è anche per la letteratura la campagna demografica», scrive Dedè a Giaime nel 1939. «Deve nascere ad ogni costo una folla di chiari prodotti fascisti».
La fotografia scattata da Adelaide Dore - questo il suo nome da ragazza, nata a Firenze da padre sardo nel 1890 - ci mostra una madre vivacissima e culturalmente attrezzata, però sacrificata alla vita domestica, "incapace di conciliare le faccende della maternità con i miei desideri", dunque irrequieta, sempre più "stanca e malinconica", mai fino in fondo riconosciuta nella sua diversità. Al suo fianco è Beppino Pintor, di un anno più grande, ultimo di quattro fratelli tutti destinati a carriere d´eccellenza - Fortunato direttore della Biblioteca del Senato, Pietro generale di corpo d´armata, Luigi alto funzionario pubblico - , lui invece inconcludente e innamorato della musica, direttore d´orchestra mancato, costretto a trovare un impiego presso il Provveditorato delle Opere Pubbliche, un carattere forse più incline alla fragilità, facile a spezzarsi.
Al centro della casa è il primogenito Giaime, "bimbo fatto di sole, creaturina di magia", su cui si concentrano le aspirazioni naufragate di Dedè e Beppino. Il secondo figlio maschio, Luigi, mostra invece un tratto da ribelle, "un bamboccio piccolo che in pieno regime fascista si dichiara anarchico rispetto alle sue intime effusioni". E ancora - ma un po´ relegate sullo sfondo - le due figlie femmine Silvia e Antonietta, educate all´emancipazione, dunque il più possibile al riparo dai damaschi spagnoleggianti delle famiglie aristocratiche di Castello, "fieramente soddisfatte di sé", "sicure della propria signorilità, del proprio diritto, della propria virtù". Un ambiente - quello della piccola nobiltà spagnola da cui anche i Pintor provenivano - per Dedè insopportabile, "esilio" e "prigionia" agli occhi di una donna cresciuta alla scuola pedagogica di Giuseppe Lombardo Radice, lettrice onnivora di anglosassoni e francesi, Chesterton e Huxley, Anatole France e Maurois, insofferente alle buffonerie futuriste ma anche a Moravia, traduttrice di Zola, Dumas e Daudet, autrice di racconti per l´editore Paravia.
La scrittura e dunque le centinaia di lettere diventano per Dedè l´uscita di sicurezza, "la salvezza dei momenti neri". Ma è una fuga di cui avverte tutta la fragilità. «Nella mia vita non ho fatto che scrivere a vuoto», annota in una malinconica missiva a Giaime, il figlio che forse sente più vicino. («Tu ed io siamo il nemico. Tu perché l´isola hai voluto lasciarla, io perché non ho potuto amalgamarmi»). Alla relazione stretta tra Dedè e Giaime, nutrita da comune ambizione letteraria, sembra far da contrappunto l´intesa tra Beppino e Luigi, fortificata dalla passione per la musica, il trio di Schubert come costante colonna sonora. E quando il padre nell´estate del 1940 appare "sperduto" sotto il peso delle responsabilità e della lontananza - la famiglia a Roma, lui ancora a Cagliari -, la bocca impastata dagli optalidon, è Luigi a invocare al cospetto di un irritato Giaime: «È solo col cuore che lo si può salvare». Sempre Luigi - mezzo secolo dopo - annoterà con il suo consueto stile: «Le unioni coniugali sentimentali dovrebbero essere proibite».
Sulla vita di Dedè cala definitiva l´ombra con la morte del primogenito, nel dicembre del 1943. «Il mio Giaime, il mio Giaime», ripete la madre senza urla quando Luigi le dà la notizia, il lamento di una bestia ferita. Quella che era stata il "deposito dell´ottimismo", seppur costantemente minacciata dalla malinconia, sembra lentamente svuotarsi. Ancora traduzioni e collaborazioni editoriali, ma nella separazione dal mondo, «come se ci guardasse da un´altra sponda». Muore a 82 anni, in una clinica romana. È stata Antonietta Pintor Raicich, l´unica figlia sopravvissuta, a voler ora pubblicare una scelta delle missive. «Un debito di gratitudine verso mia madre», ci dice Antonietta. «Era un´intellettuale, ma dovette sacrificarsi per la famiglia. Un giorno già anziana mi portò a pranzo a Monte Mario e piangendo confessò: "Voi non lo sapete, ma vostra madre è stata una gran donna". Come se noi non l´avessimo mai compresa». Ora Dedè è stata risarcita.

Repubblica 13.10.11
Realismi socialisti
Falce e pennello. I grandi quadri del regime
L’arte sovietica in due mostre al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Dalla pittura verista di Stato al genio creativo dei maestri


Una macchina che per più di mezzo secolo ha prodotto consenso e propaganda
Quello che colpisce maggiormente sono le dimensioni iperboliche delle opere esposte

ROMA. In un olio alquanto provocatorio di Vitalij Komar e Aleksandr Melamid del 1982 il realismo socialista è rappresentato come una musa vecchia maniera che con la mano sinistra ricalca sul muro l´ombra del profilo, proiettata sulla parete – alla luce di una flebile torcia – da uno Stalin irrigidito nella sua abituale divisa da Generalissimo. Un´ombra del Potere, un calco elegante e minuzioso eseguito con la mano sbagliata. La mostra Realismi socialisti. Grande pittura sovietica 1920-1970 (al Palazzo delle Esposizioni fino all´8 gennaio), cerca di problematizzare quest´immagine un po´ semplificata del realismo socialista come monolitica arte di regime, decisa nel politbjuro e messa in circolo dal volano delle asservite associazioni artistiche, che ha di fatto bloccato in URSS il naturale sviluppo delle arti. Una macchina che per più di mezzo secolo ha prodotto propaganda e consenso, offrendo la richiesta visione edulcorata della società e dei suoi leader, e questo grazie ad artisti disposti – in buona ma spesso in cattiva fede – a chiudere gli occhi sul sanguinoso apparato repressivo che lo stesso politbjuro introduceva nel paese.
Introdotto nel discorso critico sovietico già a partire dal 1932 e codificato come "metodo" dagli interventi di danov e Gorkij al Primo congresso degli scrittori sovietici a Mosca nel ´34 (dove, tra l´altro, Radek aveva definito Joyce – prototipo dello scrittore d´avanguardia – «un mucchio di letame brulicante di vermi fotografato attraverso un microscopio»), il realismo socialista – in quella tranciante definizione – poneva ai nuovi ingegneri delle anime umane il compito di «descrivere fedelmente la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario». Definizione già sufficientemente ambigua da produrre molteplici interpretazioni (e così del resto avvenne), ma anche del tutto parca di indicazioni sugli aspetti specifici della creazione artistica.
E se l´imposizione del realismo socialista avviene, in fondo, in piena coincidenza con quel ritorno all´ordine e al figurativo che attraversa la pittura europea dalla metà degli anni Venti, producendo ovunque – come sistemica reazione all´astrattismo avanguardistico – Neoclassicismi e Nuove Oggettività, in URSS la discussione sulle modalità di un´arte "realista" incomincia in realtà subito all´indomani della rivoluzione del ´17, quando Anatolij Lunacarskij, commissario del popolo all´Istruzione, teorizza per la futura arte proletaria quello che definisce un «idealismo realistico», in cui già si anticipa il carattere utopico del modello realsocialista, la sua caratteristica di futuro (o presente) idealizzato.
Nato da tali premesse, il realismo rappresentato qui da tele che coprono un cinquantennio della produzione sovietica, non potrà essere che una molteplicità di realismi: dalle dettagliatissime scene d´insieme che immortalano importanti cerimonie pubbliche a rappresentazioni come da pittura popolare (come l´enorme sbandieratore bolscevico di un olio del 1920, gigantesco tra manifestanti lillipuziani); dal bozzetto minimalista di vita quotidiana, come attinto dai realisti tardottocenteschi, al ritratto olografico dei potenti che rimanda al trionfalismo barocco; dalle luminose scene di lavoro sui campi, dalla messa in scena dei collettivi di lavoratori, alla rappresentazione di gruppi ormai sfilacciati, monadi autonome tenute insieme solo da uno sfondo (Costruttori di Bratsk, 1960) o da un´attività comune (Ginnasti dell´URSS, 1964-´65); per arrivare infine alla serie che Gelij Korev dedica al ricordo del conflitto bellico (Bruciati dal fuoco di guerra), spezzando la predilezione realsocialista per la figura intera, ingigantendo non più il corpo ma un semplice dettaglio: il viso di un uomo senza un occhio, un abbraccio, lo scorcio di un reduce coperto di cicatrici: ingrandimenti di una sofferenza che non ha più bisogno di una narrazione eroica.
E ci sono poi interpretazioni ancora più personali, come la Formula del proletariato di Pietrogrado (1920-´21) dell´enigmatico Pavel Filonov, mosaico di cerchi e sghembi cristalli di case, punteggiato dal ritorno continuo di un volto, lui solo reso con tratti realistici. O quadri che per il loro iperrealismo spingono a tristi considerazioni sul rapporto tra pittura e fotografia, come il ritratto – a grandezza naturale – di Vorošilov, Commissario del Popolo per la Difesa, sugli sci. Studiando la documentazione nel ricco catalogo che accompagna la mostra (a cura di M. Bown e M. Lafranconi, Skira, pagg. 280, euro 49) scopriamo che, prima di mettersi all´opera, il pittore Isaak Brodskij aveva chiesto al suo segretario di spedirgli «tutte le foto che lo ritraggono sugli sci». Per lo sfondo, invece, Brodskij non pareva aver avuto problemi, attingendo – verrebbe da pensare – direttamente ai Cacciatori nella neve (1565) di Pieter Brueghel. Un´abitudine, questa di utilizzare fotografie invece del modello reale, che aveva in altra occasione scatenato la reazione piccata del fotografo dell´ormai defunto Lenin, che si sentiva defraudato dei lauti guadagni dei ritrattisti postumi. Questioni di realismo.
Visitando la mostra, quello che però maggiormente colpisce sono le dimensioni iperboliche di molte delle opere esposte, che talvolta vanno anche a superare i cinque o sei metri, come se la monumentalità dell´epoca e dei soggetti dovesse necessariamente passare attraverso il puro còmputo di base e altezza. Così in Guida, maestro e amico Stalin ascolta, immobile e cortese, le proposte di un gruppo di kolchoziani come squassati da una folata di vento, come apostoli dell´Ultima cena. In un´altra tela, invece, il giovane capitano Judin osserva soddisfatto, tra i carristi del Konsomol, lo striscione per il ventesimo anniversario dell´Armata Rossa su cui s´inneggia alla "famiglia socialista", ma l´immagine che s´intravede è quella di un soldato con la baionetta inastata. Imponente, infine, il Trionfo del popolo vittorioso (1949) di Michail Chmel´ko: su una Piazza Rossa come in cinemascope, i soldati tedeschi depongono vessilli e insegne ai piedi degli alti ufficiali russi. Stalin è in alto, mescolato agli altri notabili, defilato. Ma all´incrocio degli sguardi dei presenti.

Repubblica 13.10.11
La breve stagione dell'avanguardia dopo la Rivoluzione russa: il Costruttivismo
Il mondo obliquo del ribelle Rodcenko
di Lea Mattarella


La ragazza sorridente che incita alla lettura, creata da Aleksandr Rodcenko per la pubblicità della sezione di Leningrado della casa editrice di Stato nel 1925, è un´immagine-simbolo. Concentra in un grido gioioso il racconto del sogno, dell´illusione, della grande utopia di un popolo e di un gruppo di artisti che credeva davvero di poter cambiare il mondo. Com´è andata lo sappiamo tutti, ma in quel momento, come afferma Ol´ga Sviblova curatrice della personale che Palazzo delle Esposizioni dedica a questo grande rivoluzionario dello sguardo, «sperimentazione artistica e sociale coincidevano».
E così ecco Rodcenko attraversare la fotografia, il cinema, il fotomontaggio e inventare un linguaggio per il nuovo spirito dei tempi. Nato nel 1891 a San Pietroburgo e scomparso nel 1956 in una Russia diventata Unione Sovietica che, dagli anni Trenta in avanti, ne aveva mortificato l´entusiasmo rivoluzionario fino a impedirgli di lavorare espellendolo dall´Unione degli artisti, questa figura poliedrica è stata una delle più affascinanti dell´avanguardia russa nel suo movimento più significativo: il Costruttivismo. Gli scatti e le invenzioni dell´artista, circa 300, sono raccolti in questa esposizione e rivelano tutta la modernità di un punto di vista che niente ha a che vedere con il "realismo socialista" teorizzato dal governo sovietico come stile necessario al nuovo corso politico. Da qui le sofferenze e le fatiche di un uomo che diceva: «Voglio guidare il popolo all´arte, non usare l´arte per condurre il popolo chissà dove», e nei suoi diari prometteva di non fare più le "prospettive sbagliate" che tanto disturbavano i governanti. Ma poi aggiungeva: «non posso farci niente, la mia mano va da sola». Ecco i geniali fotomontaggi, gli interventi per libri e riviste: figure che si sovrappongono e si accavallano, inventano spazi, modificano la realtà con ironia, divertimento, senso della cronaca. «La fotografia è scrittura dei fatti» affermava. In bianco e nero scrive la storia di un momento che cercava di essere eroico ed è diventato tragico. Lo fa inquadrando i volti, come quello, celebre, della madre, ma anche quelli di attori, poeti, scrittori, la moglie Varvara Stepanova, artista come lui, indimenticabile con la sua sigaretta tra le labbra. Anche Majakosvkij fuma e guarda nell´obiettivo, siamo nel 1924; si ucciderà sei anni dopo.
Ma la cosa straordinaria di Rodcenko è la singolarità del punto di vista sulla città: diagonali, vedute dall´alto e dal basso rendono dinamici i palazzi e le piazze di Mosca. E anche la vita dei suoi abitanti. Ci sono scale, gradinate e reticoli di ombre che sono capolavori di silenzio. E poi momenti in cui anche la folla sembra ordinata. Niente è come sembra. Rodcenko inquadra un mondo inclinato che non può certamente piacere al regime. Anche quando realizza reportage sullo sport, sulla gioventù sovietica, sui lavoratori, la sua mancanza di retorica, il suo occhio concentrato sull´inaspettato sono sempre un inno alla libertà, quasi una denuncia del fatto che l´Unione Sovietica vuole trasformare gli esseri umani in ingranaggi di una macchina terribile. Inquadra la natura e chiama i boschi Legname, per evocare subito l´idea del lavoro, delle costruzioni a cui questo materiale sarà destinato. E tuttavia non riesce a tradire il suo sguardo romantico: file di pini che svettano in uno spazio infinito. Ma nei suoi scatti malinconici di foreste in bianco e nero, qualche albero si spezza. «Come fosse una metafora della vita e degli ideali di Rodcenko» suggerisce la Sviblova.

La Stampa 13.10.11
La nave romana emerge dagli abissi del passato
Trapani, affondata 1700 anni fa: è la più completa mai ritrovata
di Laura Anello


Il veliero è una nave «oneraria» romana (destinata ai commerci tra Roma e l'Africa) del III secolo dC. Il carico era di anfore piene verosimilmente di olive, vino, olio frutta secca e salsa di pesce
Il vasellame Il legno Recuperate anche ceramiche da cucina databile III sec. d.C.
Il naufragio. Le cause sono da individuare nella difficoltà di manovra dell’imbarcazione che, avvicinatasi alla costa, si deve essere arenata nel corso di una tempesta
Ora i 700 pezzi recuperati - i più piccoli di appena 40 centimetri -  saranno restaurati in un laboratorio specializzato di Salerno

TRAPANI. I sub nuotano dentro lo scafo, misurano il fasciame, toccano la chiglia. Davanti ai loro occhi c’è il miracolo di una nave commerciale romana del terzo secolo dopo Cristo affondata e rimasta quasi intatta a dispetto della latitudine niente affatto nordica. Siamo a Marausa, a un passo da Trapani, e questo è il più grande relitto dell’epoca mai tirato fuori nei nostri mari. Operazione titanica, che vede all’opera archeologi, subacquei, ingegneri, restauratori. Bagnati, emozionati, in movimento continuo.
Tutti insieme, a tirare fuori pezzo a pezzo un gigante lungo più di venti metri e largo nove, affondato 1.700 anni fa nei bassi fondali durante la manovra di ingresso nel fiume Birgi, che allora era una via navigabile per parecchi chilometri e adesso è soltanto il nome dell’aeroporto della città. Un tesoro a portata di mano, tre metri di profondità e 150 dalla riva, e nonostante questo rimasto segreto per secoli perché coperto da un metro di argilla e di radici di posidonia, la pianta del mare. Un rivestimento naturale che l’ha tenuta in uno stato eccezionale di conservazione.
«È stata la costruzione di un molo abusivo qui vicino a determinare un brusco cambiamento di correnti che hanno eroso la prateria e mostrato il relitto. Senza quel cemento non avremmo la nave», scherza Sebastiano Tusa, il soprintendente ai Beni culturali di Trapani che da dodici anni - dalle prime segnalazioni fatte nell’agosto del 1999 da Antonio Di Bono e Dario D’Amico della sezione locale dell’Archeoclub - sognava di disseppellire quel tesoro e di portarlo alla luce. «Ormai preferiamo lasciare i relitti dove stanno - spiega - favorire itinerari di turismo sottomarini, ma questo è un caso eccezionale, sia per la mole e l’integrità della nave, sia perché è così vicina alla costa da farci temere per la sua sicurezza. Un’operazione da oltre 800 mila euro, fondi del Lotto. Settecento pezzi, lunghi da 40 centimetri a qualche metro, che adesso saranno assemblati come un gigantesco puzzle, con la stessa testardaggine dei modellisti, ma su scala reale. Destinazione finale il baglio Tumbarello di Marsala, accanto alla sala espositiva che già ospita una nave punica.
E allora, eccoli i tecnici della società specializzata «Atlantis» tirare fuori prima il fasciame interno, poi l’ossatura, quindi quello esterno. E ancora le anfore con le tracce di olive, noci e fichi portati dal Nordafrica verso il mercato siciliano. Poi i segni della vita di bordo, come pezzi di vasellame e di bicchieri utilizzati dall’equipaggio, una decina di marinai che arrivavano probabilmente dall’attuale Tunisia, perché da lì veniva la ciurma di Roma. Infine, tracce del carico di contrabbando: i cosiddetti «tubuli da extradosso», condotte cave in terracotta impiegate nelle costruzioni per alleggerire le volte e gli archi, e che in Africa si compravano a un quarto del costo di rivendita a Roma. «Era un commercio illecito ma tollerato - racconta Tusa - i tubuli venivano nascosti dappertutto, e così i marinai arrotondavano guadagni davvero magri». Stipendi di Stato, perché queste imbarcazioni commerciali erano dell’Annona, quindi pubbliche, affidate ai navicolari, gli amatori che pagavano i marinai.
Ecco quante cose raccontano questi legni inzuppati, portati fuori come trofei. I primi pezzi risalgono dal mare nelle mani dell’archeosub Francesco Tiboni e dell’operatore tecnico Francesco Scardino, entrambi della Soprintendenza del mare, sotto lo sguardo trepidante del direttore di cantiere, l’ingegnere Gaetano Lino. «È un corrente di stiva», esulta lui, termine che indica l’elemento cardine dell’ossatura. Chissà quale maestro d’ascia l’aveva costruita, con una tecnica «a guscio portante», esattamente al rovescio di quella attuale: prima si montava la chiglia, poi l’esterno, quindi l’ossatura, memoria forse dell’imbarcazione primordiale, il tronco scavato.
Adesso tutto è in viaggio verso Salerno, al laboratorio «Legni e segni della memoria» che si occuperà di togliere dal relitto l’acqua di cui è inzuppato e di restaurarlo con una tecnica innovativa che è stata brevettata proprio dai suoi esperti, con l’iniziale collaborazione dell’Università de La Rochelle. Difficile da credere adesso, ma questi legni ammalorati che grondano di mare torneranno a essere quella nave. Intatta e veleggiante, un attimo prima del naufragio, come in un salto sulla macchina del tempo.

La Stampa 13.10.11
«Questo gioiello tornerà a vivere»
domande a Giovanni Gallo di L. An.


26 mesi di lavori. Ci vorranno poco più di due anni per completare il restauro: 6 mesi per i pezzi più piccoli 18 per tutti gli altri e 2 per l’assemblaggio

SALERNO. «Sarà una bella sfida, un grande puzzle. I pezzi più piccoli, le serrette del fasciame interno, sono lunghe 40 centimetri, larghe 10 e profonde 2. Moltiplichi tutto per 700 parti numerate e avrà idea di che cosa ci aspetta». Giovanni Gallo è il responsabile di «Legni e segni di memoria», il laboratorio di Salerno che ha brevettato un metodo innovativo di restauro dei materiali vecchi di secoli.
In che cosa consiste il metodo?
«Il primo problema è togliere l’acqua. Tradizionalmente questo avveniva con impregnazione, noi usiamo la disidratazione, condizionando il legno alla pressione di 650 millibar, come in una camera ipobarica, come sottovuoto. Più abbassi la pressione, più puoi lavorare efficacemente a basse temperature. Pensi che a 80 millibar l’acqua bolle a 40 gradi. Sfruttiamo poi quello che in fisica si chiama effetto flash, attraverso salti di pressione. Il risultato è un legno naturale, non modificato da alcun tipo di sostanze. Riusciamo a tipizzare con precisioni essenze vecchie di millenni. Questa, a occhio e croce, sembra una conifera, direi pino o abete».
Perché questa nave rappresenta un unicum?
«Perché è la più completa mai ritrovata. Ci sono eccezionalmente sia il lato sinistro sia quello destro dello scafo, cosa che ci consentirà di restituire al relitto, una volta restaurato, uno straordinario effetto in tre dimensioni. Sul fondale era aperto a libro».
Grazie ai rilievi?
«Grazie ai rilievi ma grazie anche a quello che gli elementi della nave ci raccontano. Attraverso le ordinate, cioè la costolatura perpendicolare allo scafo, riusciamo infatti a ricavare le cosiddette linee d’acqua, e quindi forma e proporzioni esatte. Bisognerà poi pensare a un allestimento che valorizzi, attraverso modellini, anche gli elementi interni del fasciame, in modo da mostrare la tecnica costruttiva».
Quanto tempo servirà?
«Sei mesi per trattare i pezzi più piccoli, 18 per completare il trattamento, due per l’assemblaggio. Tra due anni la nave tornerà a vivere».

Repubblica 13.10.11
Le riscostruzioni nei villaggi rurali per lanciare il turismo low cost
E ora Pechino clona i monumenti del mondo
Copie dei tesori nazionali riprodotte nei paesini. Come una Disneyland di se stessa
di Giampaolo Visetti


Scusi: dov´è la Città Proibita più vicina? E un pezzo di Grande Muraglia raggiungibile in due ore? O una torre di Pisa e un Arco di Trionfo a portata di corriera, da fotografare senza salire su un aereo per l´Europa? La Cina, nel turismo, è oltre il low cost. Si muove già nell´era in cui l´originale è un modello da scegliere in Internet e la copia diventa il reale da conquistare risparmiando più tempo e denaro possibili.
L´uovo di Colombo, per la culla del falso lusso "made in China" a prezzi da massa ex proletaria: non costringere i nuovi turisti a spostarsi nelle vecchie località turistiche, ma trasportare direttamente le attrazioni da chi desidera ammirarle. L´affare del secolo, ma non solo. Prima di tutto l´ordine della propaganda di partito: mostrare al popolo la grandezza della millenaria civiltà nazionale, per irrobustire l´orgoglio patriottico. Fino a ieri, per immaginare l´antico, i cinesi erano costretti al pellegrinaggio a Pechino. Itinerario classico e obbligato: Città Proibita e piazza Tiananmen, Grande Muraglia a Badaling, Palazzo d´Estate, Tempio del Cielo, torri del Tamburo e della Campana, prima di raggiungere Xian per impallidire davanti all´esercito di terracotta. Da oggi invece, si gira pagina: copie di tutti i tesori nazionali vengono seminate in decine di anonimi villaggi rurali dell´interno, sparse nelle città di seconda fascia delle regioni industriali, o concentrate nelle periferie delle nuove megalopoli. Un po´ di bellezza per tutti i compagni, in nome dell´uguaglianza.
Nella Cina trasformata in un´immensa Disneyland di se stessa, le copie delle colossali opere dell´epoca imperiale risorgono a grandezza naturale, indistinguibili dagli originali. A un povero villaggio sperduto tra le risaie, basta così ricostruire quattro hutong della capitale, circondati da un lago con ponticelli simil-Ming, o riprodurre una grotta della Lunga Marcia, per assicurarsi cinquantamila visitatori di Stato all´anno. Il simbolo è Huaxi, regione del Jangsu, considerato oggi il paese più ricco della nazione. Ambiva a diventare la mecca turistica della nuova classe media. In tre anni, al posto del vecchio mercato contadino, ha clonato Città Proibita e Grande Muraglia, ma pure un Arco di Trionfo, Campidoglio, Opera House di Sydney e un toro di Wall Street in oro massiccio. Con 470 milioni di dollari ci ha aggiunto il Longxi International Hotel, copia perfetta dell´Adlon di Berlino, e da sabato aprirà i battenti quello che promuove come «tutto il mondo in un villaggio».
Nell´Occidente ammalato di storia si può essere colti da un vago senso di ripugnanza. Per i cinesi invece è una meraviglia, ma soprattutto un fantastico affare: tutto nuovo di zecca, pochi yuan, qualche ora di treno, e si risparmiano i sacrifici per una vacanza vera nel passato. Un successo. Tale che il partito, entusiasta nel veder sorgere Templi della Terra in serie dentro squallidi distretti industriali, ha dato il via libera all´internazionalizzazione del capolavoro facsmile a portata di weekend aziendale: Venezie con Canal Grande e gondole a un´oretta da Shanghai, Torre di Londra e Piccadilly Circus a un tiro di schioppo da Chengdu, una porta di Brandeburgo e una Torre Eiffel all´ingresso di Hangzhou, o una fiammante piramide di Cheope oltre quota tremila, nello Yunnan. Tutta la Cina museificata e sotto casa, un´infinita scenografia turistica del regime e del pianeta, da girare come comparse in un film 3D: sarà pure il business del futuro e un mondo da scoprire, ma ricorda tanto uno spettrale mausoleo alla memoria. Non quello di Mao, ci mancherebbe: resta l´unico gioiello politicamente proibito, con copyright a prova di comitiva.

mercoledì 12 ottobre 2011

Corriere della Sera 12.10.11
Mondo arabo e Islanda, primi affari alla Buchmesse
di Dino Messina


FRANCOFORTE — Cautela, speranza e qualche affare. La sessantatreesima edizione della Buchmesse, la maggiore fiera internazionale del libro, apre i battenti questa mattina, ma già ieri, mentre si svolgevano i discorsi ufficiali, al bar del Frankfurter Hof, l'albergo che è il quartier generale di agenti letterari e editori di mezzo mondo (7.384 sono gli espositori accreditati da 106 Paesi), era cominciato il lavoro vero. E nella concitazione di sempre si potevano sentire i primi titoli che si annunciano come i bestseller del prossimo anno. Andrew Wylie, l'agente americano più famoso e temuto, anche quest'anno è arrivato con l'asso nella manica e ha già venduto in diversi Paesi il romanzo di una giovanissima autrice israeliana, Stani Bonjanjin, «The people of forever are not afraid» che ha come protagonista una soldatessa dell'esercito israeliano. Dal Medio Oriente arriva anche un altro bestseller annunciato: il romanzo della siriana Samar Yazbek, una delle testimoni della rivolta: si intitola Fuochi incrociati e Marco Vigevani, che rappresenta anche un'agenzia araba, l'ha già venduto in Germania e in Francia. Di sicuro successo, almeno così sperano gli editor del gruppo Longanesi che l'hanno appena acquisito per l'Italia, si annuncia il thriller dell'americana Koethi Zan, «Aftermath», una storia di donne che cercano di uscire dal trauma di un delitto.
Ma prima di continuare con qualche altro titolo e fare il nome degli autori italiani cui Francoforte guarda con grande interesse è opportuno fermarsi per una riflessione sul mercato librario successivo al «novembre nero» di due anni fa, quando, come ricorda Alessandra Bastagli, senior editor di Simon & Schuster appena sbarcata da New York, le case editrici licenziarono decine di impiegati, con il colosso Random House costretto a ridurre i suoi marchi da cinque a tre. «Adesso — dice Alessandra Bastagli — sembra ci sia un'inversione di tendenza, con la nascita di nuove sigle all'interno dei grandi gruppi: si guarda per esempio con interesse a Live Rights, nato all'interno di Norton per iniziativa di Bob Weil. Ma è ancora presto per fare previsioni, perché se gli ebook vanno molto bene non fanno gli stessi profitti dei libri su carta».
In giro, aggiunge Marco Vigevani, vedo «tanta cautela e un tono generale piuttosto depresso. Una situazione in cui è difficile vendere libri di un certo livello, trovare editori disposti a dare anticipi decenti. Questo deprime, a mio avviso, la qualità. Ci sono poi Paesi che tengono meglio, come la Germania, o altri, come il Brasile che sono addirittura in espansione».
Pessimismo a parte, di certo in questi due anni qualcosa si è mosso: intanto, è tramontato l'interesse per la grande saggistica storica, inoltre gli editori non guardano più al mondo anglosassone come alla Mecca dell'editoria. Lo confermano il boom dei narratori nordici, che continua al di là del fenomeno Larsson e del rinascimento letterario dell'Islanda, Paese ospite della Buchmesse (per esempio Cristina Palomba di Ponte alle Grazie ha appena acquisito il romanzo Contro natura del norvegese Jonas Espedal) oltre a un rinato interesse per la narrativa latinoamericana.
E gli italiani? Quest'anno sono arrivati con due sorprese: Paolo Zaninoni, direttore editoriale della Rizzoli, ci dice che Il mio inverno a zerolandia dell'esordiente libraia marchigiana Paola Predicatori è stato già comprato in Brasile, Olanda e ha suscitato interesse in molti altri Paesi. Il libro della Predicatori uscirà a gennaio, al pari di Così in terra del siciliano Davide Enia, edito da Dalai, una saga famigliare che racconta mezzo secolo di storia: dai bombardamenti alleati sul Palermo del 1942 alle bombe della strage di Capaci del 1992 e che è stato già opzionato da sette editori in Spagna, Francia, Olanda, Germania, Portogallo, Israele e Polonia.

il Fatto 11.10.11
Il Pd tra vescovi e parrocchie
di Marco Politi


Sarà una balena tricolore. Lo vogliono Casini e il Vaticano. Dunque, non una formazione bianca, dichiaratamente confessionale, bensì un partito nazional-popolare fortemente legato ai valori indicati dalla Chiesa. Il ping-pong di interventi, verificatosi domenica scorsa tra Benedetto XVI, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini e il presidente della Cei Bagnasco ha mostrato un timing troppo perfetto per essere casuale. Apre piuttosto una nuova stagione all’insegna di un’accelerata manovra di incanalamento dell’associazionismo cattolico verso un’area moderata di centrodestra depurata da Berlusconi.
Si realizzi o no, il disegno è questo e il conclave di Todi – che vedrà riunito il 17 ottobre il mondo dei movimenti cattolici ad ascoltare una relazione di Bagnasco – a questo deve servire.
Domenica, nel suo breve pellegrinaggio in Calabria, Benedetto XVI ha auspicato “vivamente” che dal confronto con il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa “scaturisca una nuova generazione di uomini e donne capaci di promuovere non tanto interessi di parte, ma il bene comune”. È da tre anni, dal suo viaggio a Cagliari, che il Papa pungola i fedeli cattolici all’impegno politico. Ma il suo appello, pronunciato a Lamezia Terme durante la messa, ha un senso d’urgenza impossibile da non cogliere.
E infatti Pier Ferdinando Casini ha risposto immediatamente sul suo blog con uno squillante “eccomi”. Visto che Benedetto XVI “ha ribadito la necessità di un impegno dei cattolici per salvare l’Italia”, Casini ha indicato l’obiettivo, agganciandolo esplicitamente al messaggio papale: “Nessuno può o vuole rifare la Dc o ricostruire steccati fra credenti e non”. Invece, ha spiegato, stante il fallimento di questa stagione “tutti, nel Pd come nel Pdl, sentono che c’è bisogno di qualcosa di nuovo che recuperi forti valori e ricette per la crescita, a partire dalle politiche per la famiglia”. È una grande occasione, ha sottolineato Casini “con orgoglio”.
IL SEGNALE è evidente. In questa visione Pdl e Pd vengono posti sullo stesso piano come formazioni in cui non ha senso militare, mentre è bene che i cattolici per affermare i propri valori trovino la loro casa (assieme a laici di buona volontà) in “qualcosa di nuovo”.
Il discorso è fatto per piacere alla gerarchia ecclesiastica, al cui interno un 30 per cento si sente vicino al Pdl, un 40 all’Udc, un altro 30 al centrosinistra. Insomma due terzi dell’episcopato sono in partenza ben disposti verso una formazione moderata di centrodestra, anche se priva di contrassegni confessionali, a metà strada tra Sarkozy e la Merkel. Con tempismo notevole nella stessa giornata il cardinale Bagnasco ha rimarcato che “non esiste nessun partito di Bagnasco, sarebbe assurdo”.
A completare il quadro è intervenuto a stretto giro anche il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, da sempre ben introdotto nelle stanze vaticane. È l’ora – ha dichiarato – di “maturare un cambio di strategia da parte dei cattolici impegnati in politica: non è più sufficiente la difesa dei valori non negoziabili, occorre invece partecipare attivamente alla ricostruzione del bene comune”. Un altro larvato invito alla raccolta dei cattolici in una formazione unitaria.
COSÌ, NELL’ARCO di un weekend, vengono archiviate definitivamente sia la strategia di Ruini (che ha tenuto banco nel ventennio berlusconiano, propugnando la difesa trasversale dei “valori non negoziabili” da parte dei cattolici collocati nei differenti blocchi) sia la tentazione del cardinale Bertone di premere per la fondazione di un nuovo partito cattolico.
Nell’area ecclesiastica ha vinto alla fine la strategia tenacemente portata avanti da Casini da due anni: nessuna alleanza con Berlusconi, rimozione del premier e poi creazione di un partito moderato non confessionale.
Il problema si pone ora al Pd. È evidente, come ha rivelato anche l’ultima indagine di Roberto Cartocci, pubblicata dal Mulino, che il nucleo dei cattolici attivi nelle parrocchie e nei movimenti è rimasto probabilmente l’unica minoranza attiva nel Paese “capace di coniugare insieme solidi riferimenti ideali, dedizione e capacità di organizzarsi in autonomia”. È un mondo indispensabile per ricostruire l’Italia, come hanno dimostrato i referendum sull’acqua e il legittimo impedimento e l’elezione di Pisapia a Milano, ma anche di Vendola a governatore della Puglia.
La questione è come rapportarsi a questa realtà. C’è chi nel Pd vorrebbe dimostrare alla Chiesa di essere altrettanto “affidabile” dei cattolici del centrodestra. È una gara persa in partenza. Se il metro è accettare i paletti del Vaticano, Pier Ferdinando Casini sarà sempre più vicino alla gerarchia ecclesiastica così come Carlo Casini (leader del Movimento per la vita) sarà sempre più inflessibile nella difesa dei “principi non negoziabili” del suo omonimo postdemocristiano.
Il centrosinistra ha un solo modo di approcciarsi alla questione cattolica in maniera vincente. Quello che ha portato alla vittoria di Pisapia a Milano. E cioè di coinvolgere direttamente le forze cattoliche, confrontandosi realmente con i loro valori nell’obiettivo di una rinascita civile. Mantenendo chiarezza sui diritti (coppie di fatto o testamento biologico) su cui oltre due terzi degli italiani sono d’accordo.
Perché nell’urna conta in ultima analisi unicamente il consenso degli italiani, credenti e diversamente credenti, su un preciso programma. Proporsi di inseguire su ogni progetto di legge l’imprimatur della gerarchia è un gioco a perdere. 

Repubblica 12.10.12
Il caso "L'eccesso di attenzioni equivale al maltrattamento"
Madri iperprotettive la Cassazione: è reato
di Elsa Vinci


ROMA  Iper protettive, ansiose, soffocanti. Pur di tutelare i figli, pronte a isolarli dal mondo. Madri possessive, asfissianti, che non sanno di rischiare il carcere. «Sommergere di attenzioni e cure un bambino, sinoa ritardarne la regolarità dello sviluppo, può costituire il reato di maltrattamenti». La Corte di Cassazione ha confermato la condannaa un annoe quattro mesi ad una mamma emiliana troppo apprensiva con il proprio figlio. Un ragazzino trattato come un bebè, che a sei anni aveva ancora difficoltà a camminare.
Quella che in psicologia viene codificata come la "sindrome della madre malevola" nel solco della giurisprudenza non trova scampo. Da anni i tribunali italiani e la Suprema Corte mettono fortemente in dubbio le capacità formative ed educative delle madri, dei genitori, delle famiglie iper protettive. Nel 2003 la Cassazione ha negato l'affidamento del figlio tredicenne ad una mamma separata che faceva il cibo a pezzetti nel piatto per paura che mangiando il ragazzo soffocasse. Stavolta la Corte siè spinta sino a configurare un reato.
Con la sentenza depositata ieri, la sesta sezione penale ha punito l'atteggiamento della madre e del nonno che hanno impedito a un ragazzino rapporti con coetanei sino alla prima elementare. Non solo, in seguito i due hanno imposto comportamenti «riservati all'età infantile» sino alla pre-adolescenza. Il bambino viveva prigioniero dell'amore materno, chiuso in casa. La madre separata e il nonno temevano che giocando coni compagnio seguendo una banale lezione di ginnastica, il bambino potesse farsi male. Per anni sono rimasti sordi ai richiami di insegnanti ed esperti che stigmatizzavano tanta «patologica esasperazione».
Il caso è scoppiato su denuncia del papà, insospettito dal rifiuto del figlio ad incontrarlo. Il bambino - scrivono i supremi giudici - era stato "educato" persino a respingere i contatti con la figura paterna.
La condanna per la signoraè arrivata nel 2007 dal tribunale di Ferrara, con conferma dalla Corte d'appello di Bologna. Senza successo Elisa G. e il nonno materno hanno protestato in Cassazione: tutte le cure con le quali circondavano il piccolo non potevano essere equiparatea chi usa vera violenza sui minorio li manda per stradaa chiedere l'elemosina. «L'iper protettività, lungi dal costituire maltrattamenti, nasceva da intenzioni positive e lodevoli». Tra l'altro il bambino non si era mai sentito «una vittima».
Ma la loro buona fede per la Corte è solo «falsa coscienza». Poiché «la persistenza delle metodiche di iper accudienza e isolamento, segnala l'intenzionalità, che - oltre ogni ragionevole dubbio - connota il reato di maltrattamenti».

Repubblica 12.10.12
Primo sì alla pillola dei 5 giorni dopo "Ma serve il test di gravidanza"


ROMA - La commissione tecnica (Cts) dell'Aifa dà il via libera alla pillola dei 5 giorni dopo in Italia ma chiede che prima di prenderla le donne facciano, come indicato dal Consiglio superiore di sanità, il test di gravidanza con l'analisi del sangue. Uno dei punti su cui si erano concentrate le polemiche viene dunque confermato dall'agenzia del farmaco. La pillola non dovrebbe arrivare in farmacia prima dell'inizio del 2012. La pratica infatti ora passa al Cda dell'Aifa, che dovrà dare il suo ok e disporre la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Infine all'azienda produttrice di "EllaOne", la Hra Pharma, toccherà chiedere i bollini per le confezioni. La richiesta di autorizzazione della pillola, già diffusa in molti paesi, in Italia è stata presentata ben 2 anni fa.

Corriere della Sera 12.10.11
Gli archivi storici in pericolo: non c'è rinnovo generazionale
di Antonio Carioti


Oggi cominciano quattro giorni all'insegna di Agatha Christie. Non si parla però di libri gialli, ma di archivi. Si chiama infatti «...E poi non rimase nessuno», dal titolo di un famoso thriller dell'autrice inglese, l'iniziativa promossa dall'Associazione nazionale archivistica italiana (Anai), con varie manifestazioni in programma da oggi a sabato 15 ottobre, per richiamare l'attenzione sul rischio che un'intera categoria scompaia, lasciando sguarnite istituzioni fondamentali per la conservazione della memoria storica. Il fatto è che gli archivisti, man mano che vanno in pensione, non vengono sostituiti e il mancato avvicendamento rischia di portare in pochi anni alla paralisi delle strutture. A Milano stasera, presso l'Archivio di Stato, si tiene uno degli incontri organizzati per denunciare il problema. Il titolo è «La dissolvenza degli archivisti: l'ultimo chiuda la porta». Conduce Benedetta Tobagi e partecipano vari esponenti della società civile, tra cui il presidente del tribunale Livia Pomodoro, il direttore del «Corriere» Ferruccio de Bortoli, l'attore Paolo Rossi. Molte naturalmente le adesioni di storici, tra i quali Carlo Capra, biografo di Pietro Verri: «L'ultima leva di archivisti, entrata in ruolo 20-30 anni fa, si sta esaurendo — ricorda lo studioso — e il futuro appare un'assoluta incognita. Già adesso gli archivi stanno riducendo il servizio: a Milano si è passati da sei a tre pezzi consultabili ogni giorno, ma in tutta Italia gli orari di apertura e la distribuzione del materiale si sono ridotti in modo drastico».
Se continua così, si rischia la chiusura: «La storia — sottolinea Capra — si scrive lavorando negli archivi e di questo passo il nostro lavoro diventerà impossibile. Lo stesso avviene per le biblioteche che non comprano più libri: ormai per aggiornarsi sulla letteratura scientifica bisogna andare a Parigi o a Cambridge. È un'autentica emergenza: l'Italia si avvia a diventare un Paese di serie B dal punto di vista culturale».

La Stampa TuttoScienze 12.10.12
Intervista a Carlo Rovelli
“Soltanto chi si ribella troverà”
Storia. Se Galileo e Newton sono padri nobili, la scienza del XXI secolo ha bisogno di riscoprire Anassimandro “E’ certo che dal razionalismo non si può più tornare indietro, però è sbagliato pretendere di cancellare gli dei”
di Gabriele Beccaria


L’ANTISCIENTISMO «Rinasce forte e pericoloso come dimostrano gli Usa»
LA RICETTA «Nessuna certezza ma dati in continua trasformazione»

Non uccidete gli dei. Metteteli solo un po’ da parte, ma usate la parte razionale del cervello per studiare sia il mondo sia i loro enigmatici messaggi. Ecco la provocatoria ricetta per addentrarsi nel XXI secolo, ispirata a un filosofo-scienziato di 2500 anni fa, Anassimandro. Tra gli effetti sperati, meno guerre ideologiche, tipo quella emblematica tra creazionisti e darwiniani, e una scienza più «friendly», che non faccia paura, per esempio quando ci mette di fronte al nucleare, alla clonazione o agli Universi paralleli.
Professor Carlo Rovelli, non sarà facile convincere gli scettici sulla bontà della sua idea, raccontata nel saggio «Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro». Quando si pensa a formule e teorie, vengono in mente Einstein, Newton o Galileo. Non certo Anassimandro, che lei descrive come uno straordinario intreccio di astronomo, cartografo, biologo e antropologo.
«Anassimandro è all’origine di diverse idee scientifiche di portata immensa, ma soprattutto è il primo a concepire la conoscenza come un atto di ribellione, rispettosa ma profonda, contro il sapere del presente. Ecco perché è uno dei padri del pensiero scientifico».
Sono passati 26 secoli e, nonostante la Relatività e gli iPhone, lei sostiene che quell’originaria lezione razionalista resta ancora controversa: perché?
«Pochi l’avrebbero previsto mezzo secolo fa, ma oggi si percepisce di nuovo un forte e pericoloso antiscientismo: oltre il 50% degli americani, per esempio, ritiene che l’Universo abbia meno di 6 mila anni, perché - dicono - così sostiene la Bibbia. Forse è una reazione agli eccessi scientisti dell’Ottocento, quando i positivisti pensavano che la scienza offrisse solo certezze assolute».
Per molti la situazione è anche peggiore: la scienza è accusata di essere «distruttrice» e basta, anche di tutti i valori morali e religiosi.
«Si dimentica che i valori di oggi nascono dalla distruzione di valori precedenti. La legittimità della schiavitù, l’origine divina del potere dei re, la sottomissione della donna e l’intolleranza verso altre religioni erano valori morali, alcuni difesi fino a poco fa perfino dalla Chiesa cattolica. Ce ne siamo tutti sbarazzati e ne siamo tutti ben contenti. L’idea che i valori buoni siano quelli antichi e non quelli nuovi, che si sostituiscono ai precedenti, è evidentemente sbagliata».
Paure e sospetti, però, rimangono, come ai tempi di Anassimandro. Faccia un po’ di autocritica: in che cosa sbagliano gli scienziati?
«Penso che non dovrebbero nascondere il fatto che la scienza può sbagliare e che non spiega tutto. Ma non per questo è meno affidabile».
Per esempio?
«Ci ricordiamo il caso Di Bella e le miracolose guarigioni dal cancro? Alcuni scienziati andarono in tv e tennero le labbra serrate, parlando solo di protocolli e certezze scientifiche. Sarebbe bastato spiegare che le guarigioni incomprensibili tra i pazienti di Di Bella erano tanto frequenti quanto le guarigioni incomprensibili tra i malati non curati da nessuno. Oggi, invece, ci interroghiamo sul riscaldamento climatico. Ma il problema non sono le certezze, è il rischio serio che deve spingerci ad agire. Intanto i creazionisti contestano l’evoluzionismo, sostenendo che a Darwin manca la prova definitiva. E tuttavia non servono prove assolute: servono ragioni plausibili. Le alternative a Darwin sono tutte immensamente più implausibili».
Esagerando, la scienza è affidabile, pur essendo incerta?
«Esatto. Le soluzioni della scienza non sono definitive. Sono le più credibili che abbiamo oggi».
Pensa che spiegare questo atteggiamento «aperto» ridurrebbe davvero i conflitti scienza-religione?
«Penso che il conflitto sia inevitabile con le religioni che pretendono di imporre i propri valori agli altri o di essere depositarie di certezze assolute. Queste, talvolta, hanno difficoltà a tollerare lo spirito critico. Ma penso che la religione esprima bisogni umani profondi e reali ed eserciti funzioni essenziali, che mi sembra superficiale non vedere. Disconoscere gli aspetti spirituali solo perchè non li abbiamo ancora decifrati razionalmente mi pare un atteggiamento miope nei confronti della complessità umana. Si può essere serenamente atei e allo stesso tempo percepire il mistero, amare il prossimo, possedere valori etici forti, sentire la sacralità del mondo, cercare la verità e anche ringraziare gli dèi per una giornata di felicità».
Torniamo ad Anassimandro: nella sua interpretazione è uno scienziato ante-litteram (immagina che la Terra galleggi nel vuoto) e un tollerante intelligente (non si fa beffe dei riti). Oggi che cosa significa ispirarsi a lui?
«Il successo storico della rivoluzione di Anassimandro insegna che dal razionalismo scientifico non si torna indietro senza rischiare la barbarie. Non dobbiamo ripudiare la ricchezza di pensiero che l’Illuminismo ci ha lasciato. Lo scientismo, però, deve allargare i propri orizzonti e tenere conto della complessità ancora così poco compresa del pensiero umano e soprattutto avere chiari limiti del nostro sapere: per quanto vaste siano le conoscenze, c’è un oceano di fenomeni ancora da capire. Accettare l’ignoranza è il primo passo per imparare».

La Stampa TuttoScienze 12.10.12
Steven Pinker. Perché siamo più buoni
Il nuovo saggio di Pinker vuole dimostrare che viviamo nella società più pacifica di sempre Il merito è dell’evoluzione culturale, ma il rischio di un salto all’indietro è sempre incombente
di Maurilio Orbecchi


Che ci crediate o no – e so che molta gente non ci crede - la violenza è in declino da molto tempo. Noi viviamo, probabilmente, nel periodo più pacifico dell’esistenza dell’intera specie umana». Steven Pinker presenta con queste parole il suo nuovo libro, intitolato «The Better Angels of Our Nature: How Violence Has Declined», in uscita negli Stati Uniti.
Pinker, titolare della cattedra di psicologia a Harvard, è una star internazionale, al punto di essere stato inserito dalla rivista «Time» tra gli uomini più influenti al mondo. Per sostenere la sua tesi, si avvale di una notevole quantità di esempi e di dati. Parte dall’archeologia forense, disciplina che indaga sul rinvenimento dei resti scheletrici. Questi studi rilevano, su oltre il 15% degli scheletri preistorici, segni di traumi come teschi sfondati da colpi violenti, scheletri decapitati, femori con frecce conficcate e mummie con funi attorno al collo. Paragonando questi dati con quelli degli Usa e dell’Europa nel XX secolo, che hanno una media di morti violente inferiori all’1%, nonostante due guerre mondiali e alcune altre a dimensione regionale, si evidenzia una differenza netta, che indica maggiore violenza nella Preistoria rispetto ad oggi. Se poi si allarga la valutazione del XX secolo a tutto il mondo, considerando come morti violente anche quelle dovute alle grandi carestie create dall’uomo, la differenza si attenua leggermente, perché si arriva al 3% dei morti per cause violente. Una percentuale che, tuttavia, rimane ancora ben lontana da quella della Preistoria.
Un altro settore di studio utilizzato è quello della statistica etnografica contemporanea, che registra, nelle società prestatali ancora esistenti, una media di 500 persone morte per omicidio (con punte di 1500) ogni 100 mila. Tra le società statali più violente del XX secolo ci sono, a quote decisamente più basse, la Germania, con un tasso di 135 persone per 100 mila abitanti, la Russia (130) e il Giappone (30). La media del mondo intero, includendo le carestie indotte dall’uomo, è di 60 morti violente per 100 mila persone.
Una terza disciplina utilizzata da Pinker per provare la sua tesi è la criminologia della storia. Il ricercatore di punta in questo settore è Manuel Eisner dell’Università di Zurigo, i cui studi hanno evidenziato un forte declino delle morti violente nel nostro continente. In Inghilterra e in Germania, per esempio, calano di oltre il 95%, dall’anno 1300 a oggi.
La prima causa della diminuzione degli omicidi va sicuramente riferita alla formazione degli Stati moderni, che si riservano il monopolio dell' uso della forza, del giudizio e della pena, rendendo meno frequenti le ritorsioni private che creano faide plurigenerazionali. Tuttavia gli stessi Stati hanno prodotto una grande violenza al loro interno. Pinker evidenzia con l’ausilio di eloquenti grafici che la violenza degli Stati, terribile all’inizio della loro formazione, è diminuita ancor più degli omicidi nel corso dei secoli. Per esempio la tortura è stata progressivamente vietata a cominciare dalla fine del 1600 in Inghilterra e Scozia; il divieto si è poi esteso alla maggior parte dei Paesi europei alla fine del 1700, per finire con Spagna, Vaticano, Portogallo e Russia, gli ultimi Stati ad aver abolito la tortura nel XIX secolo.
Nello stesso periodo c’è stata una riduzione dell’uso della pena di morte per crimini non letali. Per esempio in Inghilterra si è passati da 222 ragioni per comminare la pena di morte nel 1600 (tra cui sodomia, furto, adulterio, falsificazione e stregoneria) ad appena 4 motivi, nel 1861. La pena di morte è poi stata abolita progressivamente in tutta l’Europa. Gli Usa, l’unica nazione occidentale a mantenerla in vigore ancora oggi (in due terzi degli Stati, mentre in un terzo è abolita), hanno conosciuto una diminuzione notevole delle pene capitali, passando dalle 16.500 esecuzioni annuali del 1700alle 50 esecuzioni (in media) di questi ultimi anni.
Negli ultimi due secoli la schiavitù, un altro indicatore inequivocabile di violenza interna allo Stato, è stata abolita in tutto il mondo. Se poi si considera quanto avvenuto dal 1945 a oggi, il periodo che Pinker chiama «la lunga pace», vediamo che tutti gli Stati più sviluppati hanno vietato il maltrattamento e la discriminazione di gruppi da sempre svantaggiati, come le minoranze razziali, gli omosessuali, le donne, i bambini e perfino gli animali. Non dobbiamo però - avverte Pinker - cadere in facili illusioni. Il declino della violenza non avviene per un' evoluzione della specie umana, ma per un'evoluzione culturale della società. Per questo motivo non siamo al riparo dal rischio che la violenza si ripresenti in forme anche molto gravi e distruttive. Ma una visione corretta della storia aiuta a creare le condizioni per ascoltare i propri migliori angeli, ossia la parte più nobile della natura umana.
Per la quantità e la qualità dei dati offerti Pinker risulta convincente. Il suo libro può segnare una svolta nella concezione che l’essere umano ha della propria storia e del suo futuro.
LE PROVE Dalla preistoria fino al presente un declino costante

La Stampa TuttoScienze 12.10.12
Nel Nord Africa o nel Vicino Oriente, avviati a trasformazioni geopolitiche di esito ancora incerto, qual è il futuro del passato?
È qui il futuro del passato
A Roma meeting di Diplomacy: “Sono molto più che scavi”
di Cinzia Di Cianni


L’archeologia richiede indagini multidisciplinari: dalla antropologia all’archeobotanica fino all’ultima frontiera delle ricostruzioni virtuali

In un quadro di instabilità chi difenderà l'eredità fragile della loro storia? La tutela del patrimonio archeologico nei Paesi del Mediterraneo è il tema di un convegno che si svolge oggi a Roma nell' ambito di Diplomacy, secondo Festival internazionale della diplomazia. Oltre il fascino romantico delle avventure alla Indiana Jones, le missioni archeologiche sono un «avamposto» nel campo delle relazioni diplomatiche: basti pensare che attorno al Mare Nostrum si effettuano ogni anno 800 operazioni, che coinvolgono 14 mila «attori» locali e 2 mila studiosi in missione. «La cooperazione internazionale vive un momento difficile ma eccezionale. - commenta Sergio Ribichini dell'ISCIMA-CNR, responsabile italiano dei lavori ad Althiburos, in Tunisia, una delle 157 missioni italiane in corso -. E' fondamentale incrementare gli scambi culturali con questi Paesi, anche per favorire l'evoluzione della democrazia».
Le parole vincenti per affrontare le sfide future sono cooperazione, conservazione e sviluppo tecnologico. La missione archeologica, infatti, è un fenomeno complesso, che richiede indagini multidisciplinari: archeologia in senso stretto, ma anche epigrafia, numismatica, archeo-antropologia, archeo-zoologia, archeo-botanica, storia politica e artistica, storia economica e storia delle religioni, ricostruzioni virtuali e altre tecnologie applicate ai Beni culturali. Inoltre, coinvolge vari livelli culturali, sociali ed economici, perché un sito archeologico non è solo un oggetto di ricerca, ma anche una meta turistica.
Il valore simbolico del patrimonio storico è emerso drammaticamente con la distruzione dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, o, al contrario, nelle vicende di piazza Tahrir al Cairo, dove i cittadini si sono stretti in una catena umana per proteggere il «loro» museo dai saccheggi. «Uno straordinario simbolo del nuovo Egitto che avanza - commenta Marilina Betrò, direttore della missione a Dra Abu el-Naga (Luxor) - come i guardiani dei nostri scavi e la gente che nella necropoli tebana si è organizzata per fare le ronde a difesa dei monumenti. E questo è il duplice ruolo delle testimonianze del passato: tramite di identità nazionale, ma anche del sentimento collettivo del nostro essere uomini, senza confini o barriere etniche».
In Libia, intanto, «non ci sono allarmi - assicura Luisa Musso, docente di Archeologia all'Università di Roma Tre e direttore della missione italiana a Leptis Magna -: musei e grandi monumenti non hanno subito atti vandalici e solo il museo di Bani Walid, teatro di guerra, potrebbe essere danneggiato». Finora - aggiunge - «ci hanno chiesto soprattutto la formazione del personale locale e anche la creazione di parchi archeologici che possano diventare una fonte di reddito».
Oggi, tra le discipline umanistiche, l’archeologia è, di certo, la più tecno-scientifica. Prima di iniziare, bisogna acquisire tutto ciò che si può sapere senza scavare e per questo si ricorre ai satelliti, ai Gis (i sistemi informativi territoriali computerizzati), ad analisi geofisiche o geomagnetiche, oltre che a strumenti innovativi per il restauro, la conservazione, la diffusione delle conoscenze. E in Egitto, dove sono attive 23 missioni italiane, 11 delle quali in collaborazione con istituzioni egiziane, il futuro è già arrivato. «Un aspetto innovativo è l'utilizzo della realtà virtuale, - ricorda Marilina Betrò -: è una tecnologia che nella cosiddetta “realtà aumentata” permette non solo di creare repliche fedeli di monumenti e ambienti del passato, e di interagirvi, ma anche di integrare le informazioni fornite dallo scavo e dall'interpretazione archeologica. E' ciò che abbiamo fatto per la tomba del sacerdote Huy a Dra Abu el-Naga, dopo aver eseguito la scansione del monumento con laser scanner 3D».
Dall’Egitto alla Siria sono tanti i Paesi con un patrimonio inestimabile: sapranno difenderlo e valorizzarlo? Secondo Ribichini, ci sono buone speranze per la Tunisia. «Sami Ben Tahar, specialista della civiltà cartaginese, è oggi sindaco di Jerba Houmt Souk spiega -. Pur non essendo un politico di professione, si è messo a disposizione per questo periodo di transizione». Ma bisogna agire in fretta: anche per le gloriose vestigia del passato il futuro non è più quello di una volta.

La Stampa TuttoScienze 12.10.12
Dal Cern al Gran Sasso si passa per la Sardegna
di Gianni Parrini


Ora i neutrini rischiano di diventare le prime donne della nuova fisica. Non resta che aspettare e vedere per capire se davvero questi elementi infinitesimali viaggiano a una velocità superiore a quella della luce. Certo è che nel rivoluzionario esperimento condotto tra il Cern e i Laboratori del Gran Sasso c'è anche un po' di Sardegna.
Nel 2005, infatti, alcuni fisici e ingegneri del Crs4, il centro di calcolo a 30 km da Cagliari, si trovavano nei laboratori di Ginevra per realizzare una simulazione numerica del «target di carbonio», l'obiettivo contro cui si indirizza il fascio di protoni e da cui si generano i neutrini, poi intercettati dai laboratori abruzzesi. In pratica, i ricercatori cagliaritani avevano il compito di valutare la resistenza del bersaglio nella parte finale dell' acceleratore di protoni e nel quale viene concentrata l'energia.
«L'impatto dei protoni sul target disgrega la materia, rilasciando le particelle che la costituiscono, tra cui i neutrini - Luca Massidda, protagonista dello studio -. Il sistema può essere paragonato a quello di un fucile collocato a Ginevra che spara un proiettile di neutrini verso un bersaglio al Gran Sasso. Il nostro contributo era realizzare il modello delle “cartucce” e verificarne le prestazioni».
Il team ha utilizzato delle asticelle di carbonio (dello stesso tipo dei freni di F1), lunghe meno di due metri e con un diametro di pochi millimetri: «Dovevano assorbire la giusta quantità di energia immessa attraverso il fascio di protoni e soprattutto resistere alle sollecitazioni senza rompersi - prosegue il 39enne Massidda -. Abbiamo analizzato l'interazione dei protoni con la materia da vari punti di vista,strutturale e termico, e per farlo ci siamo serviti dei codici di calcolo sviluppati al Crs4, perché i normali processori non sono in grado di affrontare problemi simili».
Il centro situato a Pula, in effetti, vanta padri nobili (il primo presidente è stato Carlo Rubbia) ed è all'avanguardia nell'ambito delle tecnologie computazionali abilitanti e nelle applicazioni alla biomedicina, alla società dell'informazione, all'energia e all'ambiente. Non è un caso che il 12 e il 13 settembre scorsi, a Cagliari, si sia tenuta una conferenza per la ricerca e l'innovazione a cui hanno partecipato 500 ricercatori da tutto il mondo, con lo scopo di rafforzare le strategie dei propri centri di studio.
«Non si tratta di un episodio casuale - spiega Paolo Zanella, presidente del centro di calcolo -.  La Sardegna si è costruita un ruolo importante: è la regione italiana che investe di più in ricerca (300 milioni in due anni) e possiede le risorse per trasformarsi in una sorta di California: un luogo in cui si studiano nuove tecnologie con ricadute industriali». Il Crs4, che compie 20 anni e ha una potenza di 47 teraflop (47 milioni di operazioni al secondo), ha già raggiunto risultati ragguardevoli: negli ultimi 12 mesi, per esempio, ha completato il sequenziamento di oltre mille genomi, un numero pari a quello di tutti i sequenziamenti completati nel mondo nello stesso periodo. Grazie a questa banca dati i ricercatori di Cagliari e Sassari hanno individuato il gene responsabile della sclerosi multipla.
«Viviamo in una società in cui occorre gestire un'infinita quantità di dati - prosegue Zanella -. Il calcolo scientifico numerico diventa quindi indispensabile: dalla medicina all’energia, fino al visual computing». E la capacità di creare modelli in 3D è stata usata anche dall'imprenditoria: il centro ha contribuito a realizzare il primo modello di aereo tridimensionale «manipolabile». Questo Boeing 747 virtuale promette l’ennesima rivoluzione per progettisti e ingegneri.

Corriere della Sera 12.10.11
Il finanziere ammazzato e i segreti dell'Opus Dei
di G. Fas.


MILANO — La volta dell'incontro «off the record»: Gianmario Roveraro accettò di parlare del caso Parmalat a patto di rimanere anonimo. «Sono stupito di quello che fa Tanzi» esordì, «è una persona buona... per me il suo è un comportamento schizofrenico». La volta che Antonello Zunino (cda di Mediolanum morto pochi giorni fa) passeggiò con Roveraro per le vie di Londra e vide macchie di sangue sui suoi pantaloni. «Che succede?» chiese. «Porto il cilicio» confessò lui, «l'ho stretto troppo». Gli inviati del Sole 24 Ore Angelo Mincuzzi e Giuseppe Oddo raccontano episodi come questi e molto molto di più in Opus Dei. Il segreto dei soldi, un libro Feltrinelli da oggi nelle librerie. È un'inchiesta che annoda i fili di una storia di cronaca nera, giudiziaria, finanziaria, umana: quella, appunto, di Gianmario Roveraro, cattolico che più cattolico non si può, finanziere e uomo-vetrina dell'Opus Dei che nell'estate del 2006 fu ammazzato e tagliato in sette pezzi da Filippo Botteri, un ragazzo che viveva alla giornata, che amava i soldi e la bella vita, che si occupava di investimenti fai-da-te prima di diventare socio di Roveraro in una operazione dai contorni non chiari. Botteri fu condannato all'ergastolo, il caso ebbe la sua soluzione e tutto quel che riguardava gli strani personaggi e gli ancor più strani affari ai quali erano interessati rimase nell'ombra. Il libro di Mincuzzi e Oddo, adesso, mette in fila circostanze e persone che aiutano a definire nei dettagli il caso Roveraro, «lasciando parlare soltanto i fatti» tengono a precisare loro stessi. Un lavoro durato tre anni, la testimonianza di 150 persone (molte hanno chiesto l'anonimato) e la ricerca metodica di conferme, un passo dopo l'altro. Ricostruendo la storia di Roveraro, i due inviati si sono imbattuti in quella che definiscono «una galassia opaca di società controllate e gestite da uomini della Prelatura». Le conservatorie immobiliari, le camere di commercio e le testimonianze raccolte hanno disegnato a poco a poco una struttura verticale di società, controllate da fondazioni che hanno alle spalle associazioni. Un modo per rendere poco trasparente la proprietà di queste società che l'Opus Dei utilizza per gestire scuole, residenze, ospedali, patrimoni immobiliari. Il libro è un fascio di luce che illumina i dettagli più inquietanti del caso. Per esempio: quattro anni prima di essere ucciso Roveraro si era imbarcato in una misteriosa operazione finanziaria internazionale. Qual era la natura di quell'affare?

Corriere della Sera 12.10.11
Identikit della classe operaia cinese
ovvero piccoli padroni crescono
di Marco Del Corona


Esistono. Non sono più proiezioni fantastiche, figure ideali. Gli operai cinesi esistono, e non sono nemmeno l'indistinto sfondo ai record della seconda economia del mondo. La carne del boom, i lavoratori delle fabbriche hanno bisogno di un volto. Ecco allora che una ricerca del China Labour Bulletin (Clb), organizzazione non governativa di Hong Kong, tenta di sottrarre i lavoratori agli stereotipi semplificatori dell'Occidente. A riprova che il tema è urgente, Pechino ha appena diffuso il numero dei migranti, ovvero coloro che per lavorare si sono spostati dalle campagne alle città: 221 milioni. E due giovani studiosi italiani, Tommaso Facchin e Ivan Franceschini, hanno realizzato un documentario commovente, Dreamwork China, che fa parlare gli operai, quelli della famigerata Foxconn di Shenzhen. Dicono di sé. Sogni inclusi.
Scandagliate dal 2009 al 2011 aziende private e a proprietà statale (Soe), il dossier del Clb racconta di lavoratori cinesi ormai consapevoli che il guadagno delle fabbriche è tale da pretendere retribuzioni meno punitive. Gli operai «non aspettano più che siano il governo o altri a farsi carico delle loro condizioni di lavoro». Aumenta la capacità organizzativa, c'è «un crescente senso di unità fra i lavoratori» (e infatti il rapporto si intitola «L'unità fa la forza») potenziato dall'«uso di cellulari e social network» che rende «più facile avviare, organizzare e sostenere proteste». Nelle quali, peraltro, si segnalano sempre più successi: in Cina «le proteste hanno creato un embrionale sistema di contrattazione collettiva».
C'è forse troppo ottimismo nell'analisi del Clb. Nessuna rivoluzione operaia sembra covare in Cina. Tuttavia, è utile sapere che gli operai venuti dalle campagne «non hanno intenzione di tornare al villaggio per aggiungere un piano alla loro casa. Vogliono farsi una vita in città, e per questo hanno bisogno di soldi». O ascoltare — come all'inizio di Dream- work China — il «piccolo sogno» di un'operaia: «Aprire un negozio di cosmetici». E quello di un giovanissimo collega: «Diventare un padrone». Appunto.

Corriere della Sera 12.10.11
L’Oriente prima della Grecia
I nostri padri? Egizi e semiti
di Pierluigi Panza


Il primato ellenico viene «costruito» solo a metà Settecento

Nel 1987 lo studioso Martin Bernal pubblicò un libro controverso intitolato Black Athena: Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica. Sviluppava due temi: il primo riguarda lo studio dei prelievi culturali dei greci dalle civiltà egiziana e fenicia; il secondo, al quale qui accenniamo (e potrà essere approfondito sui volumi della collana), la costruzione culturale di una Grecia «ariana» come luogo d'origine della civiltà occidentale avvenuta in Europa nella seconda metà del Settecento.
A parte l'«afrocentrismo» di Bernal — già criticato da Mary Lefkowitz — resta indubbio che, sino ad allora, i padri delle civiltà e della «prisca sapienza» erano ritenuti gli egiziani e i semiti. Entrambi potevano vantare le più antiche tradizioni culturali e religiose, monumenti identitari diventati archetipi (le piramidi e il tempio di Salomone) e le lingue più vicine agli dei o a Dio: i geroglifici e la lingua ebraica.
Semplificando, dal tardo Umanesimo sino a metà Settecento — quando iniziano le spedizioni degli eruditi a Levante — le grandi tradizioni culturali che si sviluppano nell'Europa colta sono fondate o legate a queste due civiltà. L'esempio più noto è quello fornito da Marsilio Ficino alla corte medicea che interrompe la traduzione di Platone per passare a quelle del Pimander e dell'Asclepius, i testi ermetici (sono compilazioni greche, ma allora ritenute dell'egiziano Ermete Trismegisto) portati in Europa dai sapienti in fuga da Bisanzio conquistata dall'islam. Tra il 1471 e il 1641 si contano 25 edizioni della traduzione ficiniana del 1463.
La pubblicazione della Hieroglyphica di Orapollo nel 1505, e l'analogo testo del Valeriano in 58 libri del 1556, rappresentano i vertici degli indefessi studi dedicati dagli eruditi alla decifrazione della lingua sacra, i geroglifici. Del resto nessuno dubita che gli egizi siano anche gli inventori delle future Belle arti: «Li Egiptii — scrive Leon Battista Alberti nel De re edificatoria — affermano bene anni seimila essere la pittura stata in uso prima che fusse traslata in Grecia».
Ovviamente anche le più magnificenti costruzioni dell'antichità sono in Egitto o nel bacino semitico. Basti pensare alla straordinaria fioritura di libri sulle cosiddette sette meraviglie del mondo tra il Cinque e il Seicento: la maggior parte degli autori che tentano di fissarne il canone le stabilisce a Levante. Sono piramidi, giardini pensili di Babilonia, Tempio di Salomone, Colosso di Rodi… Quando le si individua in Morea, queste fanno spesso riferimento a un'età anteriore a quella della Grecia classica. Le piramidi, poi, danno vita allo sviluppo di una vera e propria disciplina, la piramidografia, tesa a studiare le «esatte dimensioni» di queste architetture misteriose e sacre. Burattini e Graves ritennero di essere riusciti a misurare la grande piramide.
Ma non sono solo le piramidi a interessare gli eruditi, anche il tempio di Salomone. Due gesuiti, Prado e Villalpando, tra il 1596 e il 1604 ne tentano una ricostruzione geometrica sulla base del Libro di Ezechiele. E il tempio di Salomone, come l'Arca dell'Alleanza e quella di Noè diventano gli archetipi di una nuova tradizione artistica, quella salomonica, di cui la costruzione dell'Escorial è il vertice. Tradizione che trova il suo corrispettivo nella Storia naturale nella cosiddetta teoria mosaica dello sviluppo della terra (alla quale l'epistemologo Paolo Rossi ha dedicato insigni studi). Non c'è Wunderkammer nel Sei-Settecento che non ambisca ad esporre rarità di naturalia o artificialia provenienti dall'Oriente o dall'Africa, dai coccodrilli del Nilo ai coralli, dai corni di rinoceronte ai mattoni della torre o delle mura di Babele. Li esibisce il più grande erudito dei Seicento, il gesuita Athanasius Kircher nel suo museo al collegio romano, tra decine di obelischi in legno, modellini di quelli che, negli stessi secoli, venivano innalzati a Roma. Uno anche in piazza San Pietro dall'architetto Domenico Fontana: un'impresa talmente eroica da scriverne un libro nel 1590.
Tutto questo cambiò dalla metà del Settecento sulla base di molteplici spinte, da quelle accademiche (nei paesi tedeschi) a quelle politiche a quelle nate sulla spinta delle prime misurazioni dei monumenti greci di Stuart e Revett nel 1764, anno in cui Winckelmann pubblicò la bibbia della rinascita greca nell'arte, la Geschichte, ovvero la Storia dell'arte nell'antichità. La Francia colta, da monsignor Mariette sino agli accademici Beaux arts, contribuirà alla costruzione del mito greco mandando in soffitta i grandi repertori sulle antichità di Caylus e Montfauçon, troppo aderenti all'antico modello. La sconfitta di Napoleone in Egitto — nonostante il colossale sforzo documentativo della Description de l'Egypte — contribuirà ulteriormente allo spostamento d'interesse. La «liberazione» della Grecia dal giogo turco favorirà la costruzione di una idea diversa del Levante, che diventerà, per gli orientalisti europei, il luogo dell'esotico, del pittoresco e del mistero. Mentre la Grecia liberata dagli ellenisti europei, come Byron, la culla della nostra civiltà.
Un corpo di spedizione francese, in accordo con le altre due potenze (Inghilterra e Russia), invierà nell'agosto del 1828 una spedizione di studiosi, guidata da Bory de Saint-Vincent, per documentare tutte le caratteristiche della Grecia (Expédition scientifique de Morée, Parigi, 1831-1835, tre volumi). Abel Blout, che ne cura la parte relativa ai monumenti, si esalta nel «portare la civiltà» in Grecia, scrive, «patria» di quell'Europa rinnovata dalla rivoluzione del 1789. Il suo era un ideale di libertà da «esportare», nato con i libri di Volnay ed elaborato dall'ambasciatore Forbin. E vivo ancora oggi! Basta sostituire la parola libertà con democrazia.

Repubblica 12.10.12
Futuro Il computer che prevede crisi economiche e rivoluzioni
È il più grande progetto mondiale di raccolta dati ad usare informazioni di Twitter, Facebook e motori di ricerca Obiettivo: rielaborarle per rivelare le leggi del comportamento umano, come si fa con i fenomeni naturali
di John Markoff


Più di 60 anni fa, nel suo "ciclo delle Fondazioni", il grande autore di fantascienza Isaac Asimov inventò una nuova scienza - la psicostoria - che univa la matematica e la psicologia per prevedere il futuro. Oggi i sociologi tentano di scavare tra le immense risorse di Internet - come le ricerche sul Web e i messaggi su Twitter, Facebook e i post sui blog, o le tracce digitali generate da miliardi di telefoni cellulari - per fare la stessa cosa.
I ricercatori credono che questo immagazzinamento di dati rivelerà per la prima volta le leggi sociologiche del comportamento umano - mettendoli in grado di predire crisi politiche, rivoluzioni e altre forme di instabilità sociale ed economica, così come i fisici e i chimici possono predire i fenomeni naturali. «Si tratta di un passo in avanti significativo», dice Thomas Malone, direttore del Center for Collective Intelligence presso il Massachusetts Institute of Technology. «Abbiamo a disposizione tutta una serie di dati più ricchi e dettagliati e degli algoritmi da usare per le previsioni. Questo rende possibile un tipo di previsione che prima non sarebbe mai stata immaginabile».
Il governo è interessato a queste ricerche. Nei mesi scorsi un'agenzia di intelligence ha fatto circolare una proposta di ricerca: il suo obiettivo è trovare nelle facoltà universitarie di sociologia e nelle imprese idee che consentano di analizzare automaticamente Internet in 21 paesi dell'America Latina per raccogliere ed elaborare una grande quantità di informazioni. L'esperimento triennale, che comincerà il prossimo aprile, è finanziato dall'Intelligence Advanced Research Projects Activity, o Iarpa, che fa parte dell'ufficio del direttore dei servizi segreti americani.
Il sistema di raccolta automatica dei dati dovrà concentrarsi sui modelli di comunicazione, consumo e movimento delle popolazioni. Userà dati accessibili al pubblico, tra cui ricerche su Internet, interventi nei blog, flussi di traffico su Internet, indicatori del mercato finanziario, webcam sul traffico e correzioni nelle voci di Wikipedia.
Il sistema dovrebbe essere totalmente automatico: una sorta di "grande occhio" per analizzare i dati su Internet senza alcun intervento umano. La ricerca non si limiterebbe a eventi politici ed economici, ma esplorerebbe anche la capacità di predire pandemie e altri tipi di contagio su vasta scala, un tentativo già fatto indipendentemente da ricercatori civili e da alcune imprese come Google. Alcuni sociologi sostengono che questo progetto ricorda il Total Information Awareness, un programma ideato dal Pentagono dopo l'11 settembre per dare la caccia a potenziali attentatori identificando dei modelli in grandi raccolte di dati sia pubblici che privati: intercettazioni telefoniche, e-mail, informazioni sui viaggi, sui visti, sul passaporto e sulle transazioni fatte con la carta di credito.
«Di fronte a simili iniziative mi viene in mente il Total Information Awareness», dice David Price, antropologo della St. Martin's University di Lacey, nello stato di Washington, che si è occupato di collaborazioni tra sociologi e agenzie di intelligence. «Seè comprensibile che uno stato-nazione voglia seguire eventi come l'esplosione di una pandemia, dubito che questo possa accadere in modo totalmente automatico».
Esiste un progetto simile promosso dall'analogo ente militare, la Defense Advanced Research Projects Agency, o Darpa, che si propone di identificare automaticamente i social network ribelli in Afghanistan. L'agenzia sostiene che la sua analisi può rivelare cellule terroristiche e altri gruppi internazionali seguendo le tracce dei loro incontri, degli addestramenti, degli scambi di materialee dei trasferimenti di denaro.
L'anno scorso, i ricercatori degli HP Labs, i laboratori della Hewlett-Packard, hanno usato i dati di Twitter per prevedere con precisione gli incassi al botteghino dei film di Hollywood. Nel mese di agosto, la National Science Foundation ha approvato il finanziamento di una ricerca che userà social media come Twitter e Facebook per stabilire i danni causati dai terremoti in tempo reale.
L'accessibilità e la informatizzazione di grandi banche dati ha cominciatoa stimolare lo sviluppo di nuove tecniche statistiche e di software per gestire la raccolta di dati con miliardi di elementi. «Questi dati consentono di muoversi oltre l'inferenza e la rilevanza statistica e andare verso analisi utili e precise», dice Norman Nie, uno dei pionieri nello sviluppo di strumenti statistici per i sociologi e che ha fondato una nuova società, la Revolution Analytics, per elaborare un software che analizza immense raccolte di dati.
Fin dal 2008, un progetto del Pentagono chiamato Minerva Initiative ha pagato una serie di studi, tra cui una ricerca dell'Arizona State University sugli avversari politici del radicalismo islamico e uno studio della University of Texas sugli effetti del cambiamento climatico sulla stabilità politica africana.
I sociologi che cooperano con le agenzie di ricerca sostengono che le nuove tecnologie avranno un effetto positivo. «Il risultato sarà una comprensione migliore di ciò che avviene nel mondo di quanto i governi locali sappiano gestire la situazione», dice Sandy Pentland, studiosa di informatica al M.I.T. Media Laboratory. «È forse la prima vera opportunità per tutta l'umanità di avere un governo trasparente».
Alcuni informatici non credono che si possa prevedere un'instabilità politica con indicatori come le ricerche su Web. «Non credo che stiamo assistendo a una rivoluzione», dice Prabhakar Raghavan, direttore degli Yahoo Labs. Si è scritto molto, fa notare, sulla possibilità di prevedere le epidemie influenzali osservando le ricerche sul Web del termine "flu" (influenza), ma le previsioni non sono migliorate rispetto a quello che si poteva trovare nei dati dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie.
Altri ricercatori sono ottimisti.
«In questi dati c'è un grande potere di previsione», dice Albert-Laszlo Barabasi, fisico della University of Notre Dame. «Se ogni ora ho informazioni sulla tua ubicazione, posso prevedere con un'attendibilità del 93 per cento dove ti troverai tra un'ora o tra un giorno».
C'è anche una questione più profonda e cioè se sarà possibile trovare delle leggi del comportamento compatibili con le leggi delle scienze fisiche. Per Isaac Asimov,i poteri di previsione della psicostoria funzionavano solo a condizione che fosse possibile misurare la popolazione umana di un'intera galassia.
(Copyright New York Times - La Repubblica. Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 12.10.12
Il segreto dell'amore con l'handicap
Diversamente amati. Quando tuo figlio non è come gli altri
di Julia Kristeva


Julia Kristeva racconta nel suo ultimo saggio in forma di dialogo il nostro complesso rapporto con l'handicap e la sua storia personale di madre

Il termine «diverso» sembra un eufemismo che nega la diversità specifica che è l'handicap. La visione caritatevole ingloba l'handicap nella categoria generale dei «poveri» (secondo i testi antichi) o dei «diversi» (come si dice oggi per non ferire nessuno): è importante interrogarsi su come quella differenza, che è un deficit incrociato (al crocevia di un corpo e di una società), esponga coloro che ne sono portatori e coloro che li accompagnano a un'esclusione senza paragoni. Riguarda la capacità di un essere vivente di dare un senso e di partecipare al patto sociale. Perché eccede ampiamente le «differenze» economiche, sociali, etniche, nazionali, religiose o razziali. Un giorno dovremmo ritornare sul discorso, se vorrai.
Restiamo per il momento sull'immagine, che sembri condividere, del desiderio materno: non mi sono riconosciuta neanche in quella.
Non più di quanto mi sia riconosciuta nelle sconvolgenti affermazioni delle madri giunte da zone difficili, che ho ascoltato parlare mercoledì, al forum del CESE, in occasione della Giornata delle donne maltrattate, dove hanno annunciato che nel 2010 la «violenza sulle donne» è diventata nel nostro paese una «causa nazionale». Nonostante la loro ribellione le partecipanti avevano interiorizzato a menadito quel che LA società domanda ai genitori, e ancor più alle madri: riuscire a ottenere il posto migliore nel «sistema», un sistema fatto di «posti» e non di singole persone. Mi è venuto in mente Céline: «Il proletario è un borghese fallito». «Vogliamo che i nostri figli abbiano successo, ottengano quel che noi non abbiamo potuto avere e fare», diceva in buona sostanza una di quelle donne. Applausi scroscianti in sala. Non ero assolutamente in sintonia, avrei detto piuttosto: «Amo mio figlio così com'è, vorrei aiutarlo a scoprire i suoi desideri e a realizzarli secondo le sue possibilità».
Due maniere di essere madre? Ma cos'è una madre? Mi pare questa la prima domanda da porci prima di chiederci: che cos'è una madre di un portatore di handicap? Lo ripeto spesso, e ti prego di scusarmi: la securizzazione è l'unico approccio che sulla maternità non fa un discorso diverso da quello del consumismo («ci sveniamo per comprare ai nostri figli tutto quel che desiderano»), della pediatria (la riparazione del corpo sostituisce la vita interiore) o, al limite, della pedopsichiatria (quando questa vita interiore si rivela troppo dolorosa e imbarazzante). E arrischio una semplice risposta.
La «madre sufficientemente buona» (parafrasando la chimera inventata dal più grande esperto moderno in materia, lo psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott) è capace di spogliarsi della passione materna - vale a dire di svincolarsi dalla presa possessiva che una madre tende a esercitare sul «suo» figlio immaginario, facendolo oscillare tra il bambino-oggettoe il bambino-re - e pensare in tal modo dal punto di vista dell'altro. (...) Ma la madre di un bambino handicappato? Sento la tua impazienza. Ebbene, è la stessa cosa. Con la sola differenza, non da poco, che le occorre accompagnare, attraversare e tradurre l'incontro con l' irrimediabile differenza cheè la menomazione.
Come può essere possibile? Piene di senso di colpa e di vergogna, ferite a vita, alcune crollano, si accusano di tutti i mali della terra. Altre abbandonano il bambino - raramente, ma capita. Restano altre tre possibilità. O la madre si rifiuta di sapere: non ammette, nel proprio intimo, il deficit neurologico, sensoriale, motorio ecc., di suo figlio, e si rinchiude in un fuori dal mondo a due, monade immaginaria e idealizzata che si trasforma ben presto in guerra senza via d'uscita con l'intrattabile realtà sociale. Oppure la madre glorifica quel rifiuto fino a considerarlo un segno di elezione (abbracciando anche alcune credenze religiose) e cercando di trovare o creare una comunità protetta, oasi di carità, dove suo figlio vivrà tagliato fuori dall'ostilità circostante, rassicurato dalla più sincera delle compassioni possibili che gli ordini caritatevoli prodigano da secoli. O ancora, quel deficit mette i due genitori (parleremo in un altro momento del padre, sei d'accordo?) di fronte alla propria vulnerabilità, alla sua profondità sino ad allora ignorata.
Io sono come quella madre scioccata, stordita, che incontra la propria morte: sì, caro Jean, ho conosciuto momenti simili molto prima dell'arrivo di Davide anche insieme a lui, e li ho chiamati una «dissociazione passeggera» (non dimenticare le virgolette!) per sottolineare due cose.
Per prima cosa, l'esperienza della nostra mortalità. Non parlo della morte astratta affrontata dalla filosofia («filosofare significa imparare a morire» ecc.); e neppure delle cure palliative che un g iorno o l'altro noi, cittadini sempre più vecchi delle democrazie medicalizzate, dovremo subire volenti o nolenti. Ma del contatto simbolico, immaginario e reale, che un essere umano è capace di provare con la propria mortalità in corso, per tutta la vita. Sì, la psicoanalisi ha scoperto che l'inconscio è non solo una messa in atto dei desideri (compresi i desideri di «successo»!), ma una messa in atto della distruzione di sé e dell'altro. Sì, il trattamento psicoanalitico di Freud e dopo Freud preferisce privilegiare la messa in atto dei desideri erotici nell'ascolto dell'inconscio. Tuttavia, col prodursi di certi traumi o disordini psicosomatici, si comincia a scoprire il posto centrale della mortalità (distruzione e autodistruzione) nello psichismo dell'essere parlante, come pure il suo ruolo fondamentale nelle attività creative, ad esempio l'arte e la letteratura. (...) Madre di un disabile, cerco di non voltare le spalle alla mortalità; la condivido, ne faccio parte, edè soltantoa questa condizione che posso accompagnare la vulnerabilità. Sperando di favorire con essa e attraversandola - lo sbocciare della creatività in David. Lo so: per fortuna, paragonati ad altri i suoi problemi forse sono minori, e mio figlio trova posto in un mondo che noi (lui, suo padre e io) cerchiamo di rendere più generoso di «fioriture» per tutti. Ma - per essere giusta con lui e permettergli di realizzare le sue potenzialità - non ho bisogno dello sguardo ingenuo che una madre dovrebbe portare sul «bambino piccolo», e ancor meno della voglia di farlo «riuscire» là dove io ho fallito. Vivo con la sua incapacità, con quel che percepisco, provo e penso della sua vulnerabilità. E fino alla mortalità che è sostanziale a quella vulnerabilità come alla mia. (...) E se non si potesse dire l'handicap diversamente da così: con una costellazione di pensieri che sbriciola discipline, norme e categorie, e sollecita l'infinito del pensabile? Evitando ogni etichetta: «tu sei qui», «io sono lì», «essere significa essere felici», «Bontà di Dio»... Ma «vivendo l'handicap», per l'appunto, come una prova sovradeterminata e che sfida tutto quel che ci rinchiude in una convenzione («norma», «disciplina», «certezza», «successo»...) pretendendo di sapere cosa significhi UMANO. Mi segui? Intendo dire che «vivere l'handicap» cercando di pensarlo per sventare la morte di coloro che ne sono afflitti (migliorando le loro condizioni di vita e sensibilizzando quanti se ne credono risparmiati), significa anche sfidare la metafisica.
Contro le sue categorie, non è anche un'autentica «contentezza» per la vita del pensiero? E per la vita nel suo complesso? (Traduzione di Alessia Piovanello) © Donzelli editore

C’è chi ha scomodato il ’68, ci saranno le sigle della sinistra radicale: Sinistra e libertà, Federazione della sinistra, Sinistra Critica, le varie sigle comuniste. Ci sarà anche Nichi Vendola, ma anche la Rifondazione comunista di Paolo Ferrero...
il Fatto 12.10.11
Un mondo di indignados
La contestazione partita in Spagna contagia il globo Sabato le mille anime del movimento in piazza a Roma
di Salvatore Cannavò


Scusate il disturbo ma questa è una rivoluzione”. Inizia così la presentazione che il movimento spagnolo 15M, meglio conosciuto come quello degli “indignados” ha fatto ieri della giornata del 15 ottobre. La data era stata lanciata quasi in sordina prima dell’estate dai giovani spagnoli che hanno occupato le piazze del loro paese. Ora è diventata mondiale. Non si contano, infatti, le città del pianeta che hanno deciso di manifestare sabato prossimo contro gli effetti della crisi economica, il taglio della protezione sociale ma anche contro il riscaldamento del pianeta, la corruzione, per una nuova democrazia. C’è un video del movimento spagnolo che elenca 99 ragioni per manifestare sabato, e il 99 per cento è la percentuale di coloro che pagano la crisi mentre l’1 per cento della popolazione detiene nelle proprie mani la maggior parte delle ricchezze.
C’È CHI ha scomodato il ’68 e chi, più modestamente, il movimento “no global” che attraversò il pianeta circa dieci anni fa, per descrivere l’impatto della nuova ventata di indignazione. Certamente, la crisi globale ha contribuito a generare una rivolta generazionale più o meno estesa che, però, sembra avere una forte efficacia mediatica. Si pensi alle immagini che provengono da New York, dove “Occupy Wall Street” sta catalizzando l’attenzione della stampa e degli opinionisti antisistema più noti come Michael Moore, Naomi Klein o Slavoj Zizek. Un altro video del movimento spagnolo dà il senso di questa visione globale: si vedono, infatti, le immagini delle piazze del Cile, dell’Egitto, della Tunisia, di Israele, di New York e di Madrid come segnali di un vento globale che scuote il mondo intero e che, da sabato prossimo, dovrebbe soffiare anche in Italia.
La giornata italiana indetta dal Coordinamento “15 ottobre” si snoderà da piazza della Repubblica (appuntamento alle ore 14) fino a piazza San Giovanni. “Gli esseri umani prima dei profitti – dice l’appello di convocazione – non siamo merce nelle mani di politici e banchieri, chi pretende di governarci non ci rappresenta, l’alternativa c’è ed è nelle nostre mani, democrazia reale ora!”. I toni sono analoghi a quelli spagnoli, viene denunciata la politica portata avanti da Commissione europea, Banca centrale, Fondo monetario internazionale. E se si respira un’aria antigovernativa e antiberlusconiana gli “indignados” italiani puntano il dito anche contro i “dogmi intoccabili quali il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita”. Scelte “non obbligate” perché ci sono “altre strade” dicono i promotori che chiedono “riconversione ecologica, giustizia sociale, saperi, cultura, territorio”. Si fa riferimento al referendum del 12 e 13 giugno, alla difesa dei beni comuni, ai diritti dei migranti e alla riduzione delle spese militari. Si parla anche di debito e della possibilità di non pagarlo. Il cartello di forze riunite è molto ampio e comprende più associazioni, sindacati e comitati che partiti. C’è l’Arci e la Fiom, Legambiente e il Popolo viola, quasi tutti i sindacati di base, le organizzazioni studentesche protagoniste dei movimenti degli ultimi anni, i centri sociali e poi le sigle della sinistra radicale: Sinistra e libertà, Federazione della sinistra, Sinistra Critica, le varie sigle comuniste. Le previsioni per il corteo di sabato sono molto ottimistiche. I pullman sono tra i cento e i duecento – difficile una stima precisa perché ogni struttura organizza i propri e non c’è un coordinamento centrale – con un impegno corale da parte di tutte le anime. Che sono diverse tra loro e non sempre d’accordo su tutto. C’è una componente, ad esempio, che ha visto riunire sotto la sigla “Uniti per l’alternativa” un sindacato come la Fiom e i centri sociali “ex disobbedienti” che progetta di costruire “uno spazio pubblico politico e di movimento” e si riconosce nelle varie manifestazioni sociali, ma che guarda con interesse anche alle primarie “di programma” e all’impresa di Nichi Vendola; c’è un cartello, piuttosto distante dal Pd, che invece si riconosce nello slogan “Non paghiamo il debito” e che ha visto riunite circa mille persone a Roma il 1 ottobre in una assemblea introdotta da Giorgio Cremaschi, esponente della sinistra Cgil; poi c’è l’area dello “sciopero precario” che si muove attorno a parole d’ordine come “diritto all’insolvenza e reddito di base” e che è animata da centri sociali, ma anche da economisti come Andrea Fumagalli; poi ci sono soggetti più contigui al Pd come l’Arci o Legambiente, ma anche la Rifondazione comunista di Paolo Ferrero. Tra i politici in piazza si annuncia anche la partecipazione di Antonio Di Pietro che al Fatto spiega di aver registrato “una spontanea partecipazione di tanti uomini e donne dell’Idv”. Ci sarà anche Luigi De Magistris e molto probabilmente Nichi Vendola.
LA CHIUSURA formale del corteo sarà in piazza San Giovanni dove non parleranno né politici né personalità riconosciute, ma i rappresentanti di trenta vertenze, dai NoTav ai lavoratori della Fincantieri, dai NoPonte ai cassintegrati. E se alcuni settori pensano di non fermarsi o di non arrivare a San Giovanni altri invece terranno degli “speak-corners”, angoli della piazzaattrezzatidialtoparlantiper tenere comizi spontanei. Ma sabato in piazza potrebbero vedersi anche diverse tende da campeggio. Gli universitari di Atenei in Rivolta, ad esempio, stanno sostenendo la campagna “Yes we camp”, per “scendere in piazza e rimanerci fino a quando questo governo non se ne sarà andato”. Gli studenti della Link, invece, dicono “chi vuole intendere inTenda” slogan corredato dall’immancabile igloo sul modello delle piazze spagnole a loro volte mutate da piazza Tahrir. Tutti gli studenti, comunque, si sono dati appuntamento per sabato alle 12 all’Università di Roma in piazzale Aldo Moro.
E POI C’È l’anteprima che si terrà oggi all’insegna di “Occupiamo Banca d’Italia” promossa anche in questo caso dagli studenti a cominciare da Unicommon. L’istituto presieduto da Mario Draghi organizza un convegno al quale parteciperà anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E a lui i “Draghi ribelli” vogliono consegnare una lettera (box in alto). L’appuntamento sarà probabilmente animato – ieri la polizia ha bloccato i precari che volevano occupare simbolicamente la Biblioteca nazionale – e anche in questo caso ci sono diverse tende pronte ad accamparsi nel centro della città. Sono in molti a sostenere, infatti, che dopo “Occupy Wall Sreet” è venuto il tempo di “occupare Roma”.

il Fatto 12.10.11
La Guzzanti sei anni dopo
“Altro che Zapatero”
Sabina torna in tv con il suo film-denuncia e prepara un corso per aspiranti autori di satira
di Federico Mello


Viva Zapatero sei anni dopo. Sabina Guzzanti torna in tv: venerdì La7 trasmetterà il suo film-documentario vincitore del nastro d’Argento che ha svelato all’Italia e all’estero i meccanismi dell’asfissiante cappa che grava sull’informazione italiana. “Viva Zapatero – ci spiega lei – è stato un film che ha scosso molti. Ma allora l’opinione pubblica era reattiva, c’era un clima diverso: non c’era ancora la sensazione, arrivata con le elezioni del 2008, che la situazione assurda del nostro Paese non sarebbe mai finita.
Scontiamo vecchi errori?
Dopo il film il centrosinistra andò al governo. Ero convinta che avrebbe colto l’occasione per battersi per l’informazione libera, era una battaglia molto popolare dopo tutte le iniziative di quel periodo. Invece, non hanno fatto nulla.
La chiusura di Raiot fu censura?
Fu censura nel senso letterale del termine, e la più eclatante. Se una persona finisce la stagione e non la richiami, è una censura, certo. Ma non era mai successo, e non si è più verificato, che un programma venisse interrotto dopo una sola puntata.
Tutta colpa degli ascolti, forse.
Da subito il direttore di Rai3 Ruffini voleva bloccare tutto. Poi era intervenne l’Annunziata, allora presidente Rai, che chiese di mandarlo in onda convinta che sarebbe stato un tonfo. Facemmo il 18 per cento: il massimo che Rai3 aveva fino ad allora fatto nella sua storia. E ciononostante ci chiusero subito.
Con quali motivazioni?
Tutte quelle che allora apparivano disgustose, ma alle quali oggi siamo assuefatti. Dissero che Mediaset ci aveva fatto una causa miliardaria e lo dichiarano prima che Mediaset ci querelasse in fretta e furia chiedendo 20 milioni di euro: bisognava creare un minaccia seria per dire che con noi l’azienda rischiava problemi economici. Venimmo assolti.
Quale fu la frase incriminata?
Era il periodo in cui si approvava la Gasparri. Dissi: “Conosco un poverino che si è fatto nove anni per aver masterizzato un cd mentre Rete4 è abusiva”.
A minacce simili abbiamo assistito anche in seguito.
Certo, di recente i casi di San-toro e della Dandini. Ma in questi anni tutti abbiamo dovuto fare i conti giornalmente con la censura.
Le cose sono peggiorate?
Sicuramente. Sullo schema che Viva Zapatero documenta: all’improvviso giornalisti ed esponenti politici hanno iniziato ad utilizzare discorsi illogici e in malafede come giustificazione. Solo il fatto che ripetano tutti in coro le stesse cose, le fa diventare “vere” e difficili da contestare.
E i giornalisti?
Il disgusto che abbiamo per la classe politica andrebbe esteso ai giornalisti: sono stati i loro migliori complici. Al di là dei precari che sono gli unici giustificati, è incredibile come, nonostante i loro ottimi stipendi, abbiano rinunciato a fare le domande, a raccontare, persino a vedere. Sarebbe bastata un po’ di solidarietà e la censura non sarebbe stata possibile. Invece chi ha alzato la testa è stato licenziato o emarginato, e se l’è presa in saccoccia. Mentre a destra si ironizzava sulle “aspirazioni al martirio”.
Da aprile hai sposato anche l’impegno sul campo, sei impegnata in un’attività culturale nel quartiere San Lorenzo a Roma.
Volevano trasformare il Cinema Palazzo, un posto dove si è esibito per anni Petrolini, in una sala giochi, un casinò. Ci siamo opposti, abbiamo ridato quel luogo al quartiere. Tra l’altro, non si capisce come il municipio abbia potuto dare i permessi a questa società: stiamo indagando ma, chissà perchè, non riusciamo ad avere le carte che abbiamo chiesto
Che attività fate?
 Incontri con attori e scrittori, proiezioni, iniziative culturali. E puntiamo alla “formazione”. Il 17 presenteremo un corso di satira a cui parteciperanno molti autori e interpreti satirici: gli studenti universitari potranno usare la partecipazione al corso come credito formativo. Faremo anche corsi di teatro civile, proiezioni di film non distribuiti e spettacoli dal vivo. Anche musica, condomini permettendo.
A Roma anche il teatro Valle è in piena attività. Gli artisti si sono svegliati?
No. Sono ugualmente colpevoli in questi anni, di aver parlato d’altro, di non aver raccontato la vera situazione del Paese. Solo quando il governo ha cominciato a farci la guerra per sterminarci ci sono state delle reazioni.
Come vedi il dopo Berlusconi?
È evidente che c'è bisogno di una proposta di cambiamento che deve venire dal basso, dall'opinione pubblica. È evidente che i partiti non hanno capacità né intellettuale né pratica di riformarsi. Ma c’è fermento intorno, e grande voglia di cambiamento.
Per costruire cosa?
La direzione la dobbiamo scegliere noi. Ma si discute e si progetta. Mi sto divertendo molto.

il Fatto 11.10.11
La Libia ha solo cambiato padrone
di Massimo Fini


 Il presidente del Consiglio nazionale transitorio (Cnt), Mustafa Abdel Jalil, si è genuflesso davanti al nostro ministro della Difesa, l'ex fascista Ignazio La Russa, giustificando il colonialismo italiano, fascista, degli anni Trenta in Libia: "Il colonialismo italiano, nonostante tutti gli sbagli, non potrà mai essere paragonato a Gheddafi . Gheddafi è stato assai peggio. Il colonialismo italiano portò strade e palazzi ancora oggi bellissimi a Tripoli, Derna, Ben-gasi. Portò sviluppo agricolo, leggi giuste e processi giusti. Gheddafi invece è stato l'esatto opposto". Intorno a Jalil ragazzini libici sventolavano bandiere tricolori, le nostre, gridando "Viva l'Italia!". Il ministro La Russa, preso da entusiasmo, ha risposto al grido di "Allah Akbar!" (Allah è grande!). E lo credo bene. Il colonialismo italiano, in Libia e altrove, è stato peggiore, come scrive Sergio Romano sul Corriere , di quello inglese e francese. Il che è tutto dire.
Se avevo dei dubbi su questi rivoltosi libici adesso non li ho più. Sono, oltre che, perlomeno nelle alte sfere, degli ex gheddafiani che hanno cambiato sponda al momento opportuno, a cominciare da Jalil che sotto Gheddafi era ministro della Giustizia, proprio il posto peggiore, degli imbelli, dei servi antropologici che senza il pesantissimo apporto dell'aviazione Nato non sarebbero andati da nessuna parte. Non sono stati loro a rivendicarsi in libertà. La guerra l'ha vinta la Nato.
E quando non ci si rivendica da sé in libertà, ma si ricorre all'aiuto determinante dello straniero, poi si pagano pedaggi pesantissimi. Fatte tutte le debite proporzioni, è quanto è avvenuto all'Italia nel periodo 1943-45. Non siamo stati noi a liberarci dal fascismo, ma le truppe americane, inglesi, neozelandesi, australiane, marocchine e dei razzisti sudafricani. La Resistenza è stata il riscatto morale di poche decine di migliaia di uomini e di donne coraggiosi, ma dal punto di vista militare, ad onta di tutta la retorica di cui l'ammantiamo da sessant'anni, non ha avuto nessuna influenza sull'esito del conflitto. E le conseguenze si sono viste. Nonostante noi ci si sia autoconvinti di aver vinto una guerra che invece avevamo perso, e nel peggiore dei modi, siamo diventati dei sudditi, militarmente, politicamente, economicamente e, alla fine, anche culturalmente degli americani. Non solo e non tanto perché gli Stati Uniti mantengono sul nostro territorio un'infinità di basi i cui militari godono di extraterritorialità per cui possono compiere impunemente stragi (Cermis) o stuprare le ragazze napoletane (sì loro, i vessilliferi della dignità e dei diritti delle donne), ma ci costringono a seguirli nel loro avventurismo imperiale: aggressione alla Serbia nel 1999 (governo D'Alema), occupazione dell'Afghanistan da dieci anni, uno scandalo silenziato che grida vendetta al cielo, e la stessa aggressione alla Libia. A cui Berlusconi non avrebbe voluto partecipare perché è tutto, e il peggio di tutto, ma non è un guerrafondaio. Ha altri interessi, i suoi.
Adesso la Libia diventerà un protettorato occidentale che, come tutti i protettorati, sfrutterà le sue risorse tenendosi per sé il grosso e lasciando agli indigeni le briciole.
I libici non si sono liberati. Hanno solo cambiato padrone.