venerdì 14 ottobre 2011

Se Bagnasco fa l’appello...l’Unità 14.10.11
L’associazionismo si dà appuntamento lunedì in Umbria con il presidente della Cei Bagnasco
I protagonisti escludono che l’obiettivo sia una nuova «Cosa Bianca». Conclusioni di Bonanni
L’unità culturale dei cattolici non produrrà una «nuova Dc»
Nessuna «Cosa bianca» all’orizzonte al seminario dell’associazionismo cattolico che si apre lunedì a Todi. Lo confermano il presidente dell’Azione cattolica e Andrea Riccardi. Attesa per le parole che dirà Bagnasco.
di Roberto Monteforte


A Todi non ci sarà nessuna fondazione di un nuovo partito cattolico. Almeno per ora. È questa l’unica certezza su quanto accadrà lunedì prossimo, 17 ottobre, al seminario che nel convento francescano di Montesanto vedrà ritrovarsi «rigorosamente a porte chiuse» le tante anime dell’associanismo cattolico per discutere della «buona politica per il bene comune». L’incontro che era stato promosso lo scorso 19 luglio dal Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro, ha cambiato natura. Soprattutto dopo le parole pronunciate dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco nella sua prolusione al Consiglio permanente con il suo «invito» ai laici cattolici a farsi «nuovo soggetto sociale e culturale» chiamato a dialogare con la politica.
Ora i riflettori sono puntati su Todi. Ci saranno tutti: dal Movimento cristiano lavoratori, alla Confartigianato, dalla Coldiretti, Confcooperative, alle Acli, alla Compagnia delle opere, alla Cisl ed anche i movimenti e le associazioni ecclesiali, dall’Azione cattolica e alla comunità di sant’Egidio, ai Focolarini. Realtà cattoliche molto diverse per storia e vocazione si confronteranno sul «bene comune». Discuteranno di come portare nella società italiana valori, proposte e progetti utili per affrontare la crisi morale oltre che materiale che vive il Paese e ridargli speranza.
Lo spiega il presidente dell’Azione Cattolica, professor Franco Miano. «Il paese ha bisogno di esercizi di dialogo e di impegno comune. Serve un nuovo patto educativo per ristabilire una base condivisa di valori per poi passare all’azione, e mettere al centro concetti come lavoro, famiglia, giustizia sociale, legalità, sviluppo del mezzogiorno». Dall’incontro di Todi ci si aspetta «uno spirito d’apertura al confronto e alla ricerca tra esperienze di impegno diverse come sono diverse». Sul dopo? «Non abbiamo risposte predefinite» scandisce il presidente dell’Azione cattolica. «Prima vi è da far maturare tra i cattolici un “nuovo sentire” che abbia al centro il bene comune, come ha detto Papa Benedetto XVI a Lamezia Terme, libero da interessi di parte. Poi si vedrà quale sarà la forma anche organizzativa più utile per far maturare un legame più stretto tra i cittadini e le istituzioni, per concorrere alla rinascita del Paese e vincere la rassegnazione».
Cosa partorirà l’appuntamento di Todi? «Nessuna “cosa bianca”». Lo assicura al settimanale Famiglia Cristiana il fondatore della Comunità di sant’Egidio, Andrea Riccardi. Per lo storico cattolico, molto accreditato anche Oltretevere, all’«orizzonte non vi è nessuna strategia per costruire una organizzazione, neppure di pressione sulla politica. Insomma nessun Comitato civico e nessun leader da legittimare». Ci vuole tempo. Così Riccardi raffredda le aspettative di chi punta alla fondazione di un partito cattolico moderato come risposta alla crisi del belusconismo.
Vi è molta attesa per quanto dirà al Forum, il cardinale Bagnasco. Parlerà in mattinata. Sarà l’unico intervento di un prelato. Poi la parola passerà al laicato cattolico e agli ospiti. Nessun politico è stato invitato. I lavori si articolarenno in tre sezioni: sui valori, sull’economia e sulla politica. Saranno introdotte da Lorenzo Ornaghi, rettore della Cattolica, dall'amministratore delegato di Banca Intesa, Corrado Passera, dall'economista Stefano Zamagni, dal sociologo Giuseppe De Rita. Le conclusioni saranno di Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl. Sarà un parterre significativo. Avere scelto come interlocutori il professor Ernesto Galli della Loggia, il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli e il banchiere Corrado Passera fa pensare al mondo cattolico che archiviato il rapporto privilegiato con gli «atei devoti» tanto cari al cardinale Ruini, pensi invece ad un rapporto privilegiato con la «borghesia liberale». Sarà un’apertura politica alla «terza forza»? È presto per dirlo. Il mondo cattolico alle prese con gli effetti della crisi, non pare favorevole a soluzioni moderate, alla «Sacconi», il ministro del welfare ora in rotta con Bonanni, che sabato 15 novembre si ritroverà a Norcia con i «cattolici» del Pdl.

...Beppe Fioroni, del Pd, risponde
l’Unità 14.10.11
Intervista a Beppe Fioroni
«Il Pd raccolga la sfida di una nuova politica»
L’esponente democratico avverte: «Molti credenti hanno guardato al Pdl Se adesso chiedono un cambiamento, spetta a noi essere all’altezza»
di Maria Zegarelli


Un’entità pre-politica, per ora. Una rete di associazioni che coinvolge milioni di persone. L’appuntamento dei cattolici a Todi, in programma lunedì prossimo, «La buona politica per il bene comune», è in fondo la conseguenza diretta di quel monito lanciato durante l’ultima prolusione dal cardinal Bagnasco, «Non possumus nunc silere», «non possiamo ora tacere». Per Beppe Fioroni è «un treno partito, che non si fermerà». Il punto è chi nell’attuale quadro politico sarà in grado di coglierne «la straordinaria sfida».
Fioroni, lei da cattolico impegnato politicamente come guarda all’appuntamento di Todi?
«Credo che nel panorama dell’Italia di oggi Todi rappresenti un elemento di novità molto importante. In un Paese dove paure e insicurezze portano tutti a chiudersi nel proprio egoismo, con una politica che dà l’idea di essere lo strumento con il quale i furbi realizzano i propri interessi a discapito degli altri, trovare una mobilitazione all’insegna della responsabilità penso sia il segnale di una rivoluzione del bene. Da lì si parte non per ricostruire un partito nuovo ma per lavorare, come sale e lievito, affinché si torni al futuro con una politica nuova».
Ma è o no la premessa per dare vita alla cosiddetta Cosa bianca?
«Da Todi parte un messaggio che diventerà un messaggio di popolo, si calerà nei territori per chiedere una vera offerta politica diversa da quello che c’è oggi. E si lancia una sfida ai soggetti politici esistenti: chi vuole interloquire deve dimostrare di essere all’altezza».
E il Pd secondo lei è all’altezza, può essere l’interlocutore di questo soggetto culturale e sociale, come si definisce?
«Se i cattolici fanno questa iniziativa è perché avvertono la necessità di una politica diversa e il Pd deve rendersi conto che se ritiene quel mondo un interlocutore fondamentale, senza il quale non si governa l’Italia, deve saper rispondere a una richiesta di proposte e iniziative politiche concrete. E i primi ad avere interesse ad avviare questo percorso devono essere i cattolici impegnati in politica».
Cioè, in buona sostanza, secondo lei il Pd così come è oggi non è all’altezza? «Il Pd e il Pdl fanno entrambi un errore sostanziale. Non hanno capito che per incrociare quel mondo bisogna essere rispettosi e la prima cosa da fare è smettere di pensare che siano un “franchising”. Il Pd non può pensare di rispondere su tre o quattro cose e dire di tacere su tutto il resto. Quello è un mondo che nella seconda Repubblica ha guardato a destra e se oggi avvia una iniziativa di interlocuzione è perché vuole un cambiamento».
Il Pdl li ha delusi, il Pd non li convince. Dipende dal fatto che non è sufficiente parlare di giustizia sociale e povertà, ma bisogna dare segnali concreti anche sui temi eticamente sensibili. È questo che pensa?
«Dico che il Pd deve cambiare approccio perché etica della vita e etica sociale hanno il medesimo fondamento. La testimonianza e l’impegno di un cattolico in politica in questo senso non deve essere considerata dal Pd come pesante libertà di coscienza, ma come una straordinaria opportunità per rappresentare la società e dire a quel mondo che può stare in questo partito. Nel campo dei diritti non può esserci la “valorialità fai da te”: sarebbe la codificazione del relativismo».
Che succede se il Pd non assume questo approccio? Lei se ne andrà e contribuirà a trasformare questo soggetto sociale e culturale in soggetto politico?
«Se il Pd non saprà raccogliere la sfida vuol dire che decide di rivolgere la testa indietro e rinunciare a essere quello che voleva per tornare a essere ciò che è già stato. Sarebbe un grande peccato».
Ma lei non risponde alla domanda. È tentato di lasciare il Pd davanti a questi nuovi scenari in evoluzione? «Io voglio che il mio partito rappresenti quel mondo, che mi dia la possibilità anche attraverso la mia azione di far sentire quel mondo rappresentato. Questo voglio».
Lei sostiene che il Pd rischia di tornare ad essere quello che era. E i cattolici non sono tentati di tornare ad essere quello che erano, tutti uniti nella Balena bianca seppur del nuovo Millennio?
«Quello che può diventare questo movimento è funzione di quello che i cattolici impegnati in politica sapranno fare. Se non saranno all’altezza quel treno è comunque partito e non si fermerà».
Il direttore di Avvenire, Tarquinio, sostiene che i cattolici hanno avuto un ruolo marginale in politica. «Vorrei ricordare al direttore che se la legge 40 è stata approvata, lo si deve ai popolari che l’hanno votata e sostenuta. Se le scuole paritarie e cattoliche oggi hanno molti meno fondi di quelli che ha garantito Prodi quando era al governo è perché i cattolici di centrosinistra non sono stati affatto irrilevanti».
Lei è uno degli interlocutori di quel mondo. Ci aiuta a capire in che cosa consiste questa richiesta di nuova politica?
«L’iniziativa di Todi parte da alcune riflessioni su quanto la politica ha fatto durante la seconda Repubblica. Sono tre i fondamenti su cui si è retto questo impianto che oggi quel mondo ci dice di modificare profondamente. Intanto la politica ha pensato che fosse nuovo e moderno rimuovere il concetto dell’agire fondato sui valori e quindi ha scardinato identità e appartenenze. In secondo luogo ha proposto una scissione tra il desiderio e il valore, ancora a scapito di quest’ultimo. Infine ha barattato la partecipazione con l’esaltazione della comunicazione, facendo saltare il rapporto tra l’eletto e l’elettore». Come si dovrebbe ricostruire su queste macerie?
«Tornando all’idea che l’impegno in politica sia finalizzato al bene comune e non personale. Per questo il cardinale Bagnasco ha lanciato un monito ai cattolici, perché c’è bisogno di una nuova partecipazione per “pulire l’aria”, per rimettere al centro valori, etica della vita e etica sociale».

il Fatto Saturno 14.10.11
Argentina
Benedetti assassini
I libri di Walsh e di Verbitsky: due testimonianze importanti sui massacri golpisti e sulle gravi responsabilità della Chiesa
di Daniela Padoan


DUE LIBRI, all’apparenza inattuali, escono contemporaneamente, legati da fili espliciti e sotterranei: Operazione massacro di Rodolfo Walsh – un implacabile reportage basato su cronache e testimonianze di un massacro di civili perpetrato dalla giunta golpista che, nel 1955, destituì Juan Domingo Perón – e Doppio gioco. L’Argentina cattolica e militare di Horacio Verbitsky, una serrata inchiesta sulle responsabilità della Chiesa nel golpe del 1976.
 Sul versante cronologico, il colpo di stato del 1955 è la condizione di possibilità del precipizio che, appena vent’anni dopo, avrebbe causato trentamila desaparecidos. Sul versante della coscienza civile, Walsh è il solco nel quale si inscrive l’accanita testimonianza civile di Verbitsky. Entrambi dedicheranno la propria esistenza a dire cos’è il potere assoluto, la sopraffazione dei singoli, il trionfo cieco dell’istituzione. Entrambi costituiscono, oggi, una figura di assunzione di responsabilità di fronte al tempo che ci tocca in sorte; di parresia, secondo il Foucault dell’ultimo seminario, dove il dire il vero al tiranno, a rischio della morte, diviene fondamento della polis.
 Nei primi anni della dittatura militare, i prigionieri della Scuola di meccanica della Marina – specializzata nel sequestro e nella tortura dei montoneros – venivano caricati sugli aerei e gettati ancora vivi nei fiumi o nel Mar de la Plata, con un blocco di cemento ai piedi, perché i cadaveri non riemergessero. Una volta a bordo, un medico praticava loro un’iniezione di pentotal nel cuore, soprannominata goliardicamente “pentonaval” dagli ufficiali della Marina. Al ritorno dei voli della morte, i cappellani militari davano l’assoluzione a chi fosse occasionalmente visitato da rimorsi, perché, assicuravano, avevano agito per il bene della patria, contro il pericolo della sovversione. Non si trattava, però, soltanto di singoli funzionari ecclesiastici: secondo la puntuale ricostruzione di Verbitsky, lo stesso monsignor Adolfo Tortolo, presidente della conferenza episcopale argentina e vicario castrense di Buenos Aires, difese la tortura con argomenti teologici e, il 27 giugno del 1976, dunque tre mesi dopo il golpe, il Nunzio apostolico inviato dal Vaticano in Argentina, monsignor Pio Laghi, affermò, in un’omelia contro i “sovversivi” e i comunisti, che «il paese ha un’ideologia tradizionale, e quando qualcuno pretende di imporre altre idee diverse ed estranee, la nazione reagisce come un organismo, con anticorpi di fronte ai germi, e nasce così la violenza. I soldati adempiono il loro dovere primario di amare Dio e la Patria che si trova in pericolo […]. Questo provoca una situazione di emergenza e, in simili circostanze, si può applicare il pensiero di san Tommaso d’Aquino, il quale insegna che l’amore per la Patria si equipara all’amore per Dio».
 Il testo integrale dell’omelia venne allegato, nel maggio 1997, alla denuncia che le Madri di Plaza de Mayo presentarono al ministero italiano di Grazia e giustizia contro Pio Laghi. La loro formazione era cattolica, così come quella di molti desaparecidos che si erano avvicinati alla teologia della liberazione, e questo rese ancora più insopportabile ai loro occhi che Pio Laghi, anziché essere inquisito, venisse promosso alla nunziatura apostolica degli Stati Uniti, successivamente elevato al rango di Prefetto del dicastero Vaticano dell’Educazione Cattolica nel mondo, e infine addirittura indicato come probabile successore di Giovanni Paolo II al soglio pontificio. Proprio come Verbitsky era passato da un varco, aperto dalle dichiarazioni dei cappellani militari, per arrivare fino alle alte gerarchie della chiesa, Rodolfo Walsh, che fu suo maestro – non appena venuto in possesso delle prime testimonianze del massacro di un gruppo di innocenti sospettati di attività sovversive – intuì che le responsabilità non erano imputabili a una caserma periferica, ma che in Argentina non c’era più scampo alla sopraffazione militare e poliziesca. Indagò, e da un episodio apparentemente marginale, andò al cuore ideologico della dittatura, dando inizio, un anno prima di Truman Capote, al cosiddetto new journalism, un nuovo genere letterario fondato su cronaca e fiction. In Argentina trascorsero vent’anni di alterne vicende politiche, di chiusure dispotiche e di speranze democratiche, fino al precipizio del 1976. Un anno esatto dopo che i militari avevano preso il potere, il 24 marzo del 1977, Walsh scrisse una lettera aperta al regime, «con la certezza di essere perseguitato», per chieder conto degli scomparsi: studenti, operai, sindacalisti, giornalisti, oppositori, tra cui la sua stessa figlia. Il giorno dopo venne sequestrato e ucciso. Il suo corpo non fu mai ritrovato.
 Rodolfo Walsh, Operazione Massacro, introduzione di Alessandro Leo-grande, La nuova frontiera, pagg. 256, 12,00; Horacio Verbitsky, Doppio gioco. L’Argentina cattolica e militare, Fandando, pagg. 723, • 22,00. Daniela Padoan è autrice di Le Pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Majo, Bompiani, pagg. 432, • 9,50

il Riformista 14.10.11
D'Alema, ovvero l’universo progressista
DI Massimo L. Salvadori

qui
http://www.scribd.com/doc/68740217

il Fatto 14.10.11
Rischio indignati
Il corteo di domani non avrà servizio d’ordine Timore per le infiltrazioni di provocatori
di Enrico Fierro


Arriveranno da tutta Italia e non saranno i 150 mila annunciati. Ma di più, molti di più. Perché sta funzionando il tam-tam di “movimenti”, gli appelli dei siti e quelli lanciati attraverso i social network. Le iniziative diffuse città per città, ieri a Napoli sul Maschio Angioino è stato appeso uno striscione di 5 metri per otto con la scritta “Sabato tutti a Roma”. Ma a fare da catalizzatore della voglia di stare in piazza domani nella Capitale, è la crisi economica assieme al disfacimento del governo Berlusconi.
 IL CAVALIERE potrà anche ottenere la fiducia oggi, ma la gente, quelli che il lavoro l'hanno perso, i giovani che non l'hanno mai avuto, gli abitanti delle mille galassie del precariato, il ceto medio impoverito, i senza futuro di ogni età e di ogni estrazione sociale, insomma, gli indigna-ti d'Italia, sanno che un ciclo politico si è chiuso. E soprattutto hanno la consapevolezza che le vittime della crisi mondiale sono loro.
 Non c'è un comitato organizzatore unico, la stessa adesione di partiti organizzati (Idv, Sel, Rifondazione, movimenti giovanili dei partiti di centrosinistra) non è di per sé sufficiente a garantire che nella fiumana umana che arriverà a Roma già alle prime luci dell'alba di domani, non ci saranno infiltrati e pezzi della rabbia italiana che hanno voglia di menar le mani e creare l'incidente. Da giorni, inoltre, si fa sempre più insistente il tam-tam delle cosiddette “qualificate fonti di sicurezza” che in modo rigorosamente anonimo fanno circolare notizie su possibili incidenti, aggressioni ad obiettivi sensibili (sedi istituzionali, banche, monumenti), o deviazioni dal percorso stabilito (i due chilometri che separano Piazza della Repubblica da Piazza San Giovanni). Blitz improvvisi tipo quello che si è verificato ieri a nella Capitale, quando gli indignados che dal giorno prima presidiavano Palazzo delle Esposizioni, si sono diretti verso via Nazionale, sede della Banca d'Italia e poi verso il ministero dell'Economia. “Ma parliamo dei contenuti della manifestazione, di quello che sta succedendo in Italia”, dice Paolo Ferrero, il segretario di Rifondazione comunista. Il suo partito aderisce al movimento degli indignati. “Questa storia di cosiddetti ambienti del Viminale che fanno circolare voci su infiltrati e disordini ogni volta che c'è una manifestazione, deve finire, siamo al boicottaggio. Stiamo lavorando pancia a terra per la riuscita, le nostre strutture di partito sono a completa disposizione del movimento che si batte contro il liberismo selvaggio, quello pornografico di Berlusconi e quello in giacca e cravatta dei Montezemolo, Della Valle e Profumo”. Anche Italia dei Valori sarà in piazza, “sperando che sia una grande manifestazione pacifica”, dice un dirigente che non nasconde la preoccupazione di eventuali infiltrati alla ricerca dello scontro. Ci sarà anche la Fiom di Maurizio Landini, “ma saremo presenti in un pezzo di corteo con gli operai Fincantieri, Fiat di Pomigliano e Termini Imerese, ma non tocca a noi la responsabilità dell'intera manifestazione”, precisa un sindacalista. Sel, il partito di Nichi Vendola, ci sarà, “i nostri – precisa un dirigente – saranno presenti nel corteo, ma non abbiamo voluto mettere il cappello politico ad una manifestazione che deve essere autonoma dai partiti”.
 ASSIEME alla preoccupazione (alcuni monumenti saranno blindati), qualche dichiarazione di troppo. “Non vi è nessun allarme, mi auguro che si dissenta in maniera democratica. Ma vorrei soprattutto capire cosa viene proposto. Sento solo proteste”, è il commento che il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, affida ai giornalisti. Cauto il capo della Polizia. ''Noi siamo in piazza non per contrastare i manifestanti ma per assicurare loro la libertà di espressione garantita dalla Costituzione”. Le prossime, è la riflessione del Prefetto Manganelli, saranno “giornate calde” dal punto di vista dell’ordine pubblico e le forze di polizia spesso sono chiamate a “compiti di supplenza” della politica “che manca di affrontare o affronta male le questioni sociali. Il compito delle forze dell'ordine “è quello di creare il giusto equilibrio tra il diritto al dissenso e la garanzia di chi vuole continuare a vivere normalmente. Useremo la forza quando incontreremo la violenza ma prima ancora useremo la testa per cercare di lasciare a tutti la possibilità di esprimere il proprio pensiero”.

il Fatto 14.10.11
Indignati sì, violenti no
di Vladimiro Giacché


Domani, in Italia come in molti altri Paesi, si svolgeranno le manifestazioni degli Indignati. Si tratta di un movimento che sta assumendo dimensioni globali e che intende dar voce, come dicono i cartelli issati dai manifestanti a Wall Street, a quel 99% della popolazione che sta pagando una crisi che non ha provocato. È importante che le ragioni di questa protesta non siano inquinate e distorte da atti di violenza che servirebbero soltanto a screditare il movimento, offrendo un’ottima scusa a chi non vuole entrare nel merito dei suoi motivi. Che sono molti e molto seri.
 A OLTRE quattro anni dall’inizio della crisi continuano i salvataggi di banche e assicurazioni con soldi pubblici: l’ultimo caso, di pochi giorni fa, riguarda Dexia e costerà 90 miliardi di euro a Belgio, Francia e Lussemburgo. In compenso si lascia marcire la crisi greca, dopo averla aggravata con il piano di austerity draconiano che ha accompagnato il “salvataggio” del 2010. I bilanci pubblici in Europa sono stati prima appesantiti accollando ad essi il debito privato, e ora si tenta di alleggerirli smantellando i sistemi di welfare e privatizzando a più non posso. Intanto si assiste ad uno spostamento di sovranità dagli Stati a una sorta di terra di nessuno in cui chi detta le regole sono di fatto i governi degli Stati “forti” dell’Unione o addirittura la Banca Centrale Europea. Quest’ultima, non contenta di far male il proprio lavoro (vedi l’aumento dei tassi di interesse a luglio), ha pensato bene di cominciare a dettare agli Stati le politiche economiche e sociali: richiedendo all’Italia con una lettera che avrebbe dovuto rimanere segreta “per non turbare i mercati” – di effettuare la “privatizzazione su larga scala” dei servizi pubblici, ridurre gli stipendi pubblici e rendere più facili i licenziamenti.
 Infine, a turbare non i mercati ma gli Indignati, c’è il governo peggiore di sempre: che prima ha negato la crisi, poi ha accettato senza fiatare una modifica del patto di stabilità punitiva per l’Italia e infine ha costruito una manovra economica (anzi: quattro) da manuale quanto ad iniquità e inutilità.
 “Noi il debito non lo paghiamo” è tra gli slogan di questa giornata in Italia. È condivisibile? Dipende. Se significa “ripudio del debito” è difficile essere d’accordo. Per almeno tre motivi:
 1) Perché il default sul debito italiano sarebbe pagato in parte non piccola proprio dai lavoratori e pensionati che da decenni sono abituati a considerare i titoli di Stato come il porto più sicuro per i propri (pochi) risparmi. Secondo stime di Morgan Stanley del luglio scorso, gli investitori privati italiani, con un 14% del debito totale, sono in assoluto tra i maggiori detentori del debito pubblico, secondi soltanto alle banche italiane (15%) e ai gruppi assicurativi esteri e fondi comuni europei (14,6%). A quella percentuale vanno aggiunti anche i fondi di investimento italiani (5,5%), i fondi italiani gestiti all’estero (6,1%) e una parte del debito in mano a compagnie assicurative italiane (11,4%): in definitiva, direttamente (acquistando titoli di Stato) o indirettamente (attraverso fondi e polizze che acquistano titoli di Stato), i cittadini italiani possiedono tra il 25% e il 30% dell’intero debito pubblico. Forse anche di più, viste le vendite massicce effettuate da banche e fondi esteri durante l’estate. Per aggirare questo problema, qualcuno propone un “default selettivo”. Il “default selettivo” però si ha quando non si ripaga (a nessuno) uno specifico titolo di Stato. Non si può, invece, in relazione a uno stesso titolo di Stato, scegliere i creditori da privilegiare rispetto ad altri: non solo è una violazione contrattuale, ma è impossibile sul piano pratico.
 2) Dopo un default i mercati internazionali dei capitali sarebbero indisponibili a finanziare l’Italia per diversi anni. Questo comporterebbe la necessità di un forte avanzo primario, e quindi di politiche di bilancio ancora più rigide di quelle oggi richieste dai più oltranzisti pasdaran del pareggio di bilancio.
 3) Un default andrebbe di pari passo con l’uscita dall’euro e una forte svalutazione. Tra gli effetti di quest’ultima ci sarebbe una notevole deflazione salariale causata dal crollo del potere d’acquisto dei lavoratori rispetto ai prodotti finiti importati e a quelli al cui prezzo contribuiscono beni intermedi importati (tra cui il petrolio e il gas). Alcuni economisti di destra consigliano le svalutazioni proprio perché rappresentano un modo per ridurre i salari tanto efficace quanto indiretto (e quindi tale da suscitare minori proteste di tagli diretti degli stipendi).
 Per questi motivi il default, anche per Argentina e Islanda, non è stato una scelta politica, ma una drammatica necessità.
 C’È PERÒ un altro modo per leggere lo slogan “noi il debito non lo paghiamo”: mettendo l’accento sul “noi”. Questa è invece una rivendicazione sacro-santa, soprattutto nei confronti di una finanziaria che tra colpi di scure alla finanza pubblica, abolizione di gran parte delle detrazioni fiscali e aumento delle imposte indirette – grava in gran parte su chi guadagna di meno e paga le tasse, mentre è in arrivo l’ennesimo condono-regalo per gli evasori. È giusto esigere che la crisi la paghi chi evade 120 miliardi di euro all’anno e chi detiene grandi patrimoni, e che i risparmi, anziché sugli asili nido e sulle scuole, si facciano sulle spese militari (26 miliardi) e sullo sperpero di denaro pubblico per le imprese private (30 miliardi all’anno). Avanzare oggi questa rivendicazione equivale a introdurre nelle dinamiche di questa crisi un vincolo nuovo: l’indisponibilità di chi sinora ne ha pagato il prezzo a continuare così. È l’unico vincolo in grado di imporre una svolta nella gestione di questa crisi.

Repubblica 14.10.11
Antiliberismo di massa


Sono alte le aspettative che la Federazione della Sinistra ripone nella manifestazione di domani a Roma «contro le banche e il potere dispotico del capitale». La prima pagina di «Liberazione» titolava così: «15 ottobre: cresce un movimento antiliberista di massa». Non un evento, dunque, ma «l´inizio di un percorso» che prevede, nella fase successiva, anche atti come «l´insubordinazione di massa ai diktat della Bce e la disobbedienza alle leggi ingiuste». Nella convinzione di Alfio Nicotra, autore dell´editoriale, la giornata di sabato può dar vita a «un movimento antiliberista di massa». Nessuna vocazione «minoritaria». Da Genova ci viene spiegato le cose sono cambiate, «il capitalismo in crisi si è fatto più feroce e noi rappresentiamo i bisogni del 99 per cento della popolazione».

l’Unità 14.10.11
I radicali restano in aula, è bufera
Il Pd: «Siete congelati»


«Siete congelati». A dirlo ai Radicali, secondo quanto riferisce Rita Bernardini, è stato Dario Franceschini. Di gelo, invece, la frase di Pier Luigi Bersani quando li ha visti in Aula: «I Radicali si sono autosospesi, ne prendiamo atto. Seguano la loro strada, affari loro». Furibonda Rosy Bindi: «Spero che qualcuno prenda le decisioni del caso». Esplusione, invoca Beppe Fioroni. Ma che significa «congelati»? «Nei fattirisponde Bernardiniche siamo estromessi, ma non hanno il coraggio di espellerci perché contano sul silenzio dei media su noi». La parlamentare radicale però, ricorda: «Ci siamo autosospesi dal gruppo Pd dal maggio 2010. Tanto è vero che è da più di un anno non partecipiamo alle riunioni del gruppo». Erano in Aula ieri e ci saranno oggi, per votare la sfiducia a Berlsuconi, come ha annunciato ieri Bernardini in Aula, dicendo che la loro presenza è legata al «rispetto delle istituzioni», ricordando che i radicali erano in Aula anche quando parlava Almirante. Accostamento Berlusconi-Almirante non gradito in casa Pdl. Presenza in Aula che sancisce lo strappo finale con il Pd, dopo quello verificatosi con la partecipazione al voto per la sfiducia al ministro Romano. «Voteremo contro la fiducia come sempre chiarisce Maurizio Turco -. Noi 6 siamo sempre qui a votare, quelli che sono passati col centrodestra venivano da Pd e Idv, se vogliamo proprio approfondire, perciò non capisco oggi quale sia lo scandalo, noi facciamo sempre le nostre lotte in Parlamento». Aggiunge: «Noi non abbiamo nessun motivo di polemica con il Pd e comunque non abbiamo né riceviamo nessuna acredine con la maggioranza dei deputati è solo una questione di oligarchie».

Repubblica 14.10.11
In cinque assistono al discorso del Cavaliere. Pannella: voteremo la sfiducia, ma i democratici ci prendano più sul serio
Bufera sui radicali, gli unici presenti L´ira di Pier Luigi: "Vadano per la loro strada"
Erano in aula a Montecitorio Coscioni, Beltrandi, Mecacci, Turco e Bernardini
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA «Quanto si agitano», dice a sera Rita Bernardini davanti ai timori del Pd. «Lo facessero di più per le questioni politiche che poniamo». La pattuglia radicale alla Camera è nel mirino dei democratici. Bersani e compagni hanno scoperto da una nota, poco prima che Berlusconi prendesse la parola alla Camera, che Elisabetta Coscioni, Marco Beltrandi, Matteo Mecacci, Maurizio Turco e appunto Rita Bernardini, sarebbero entrati in aula per ascoltare il presidente del Consiglio. Asserragliati come fanno da mesi nel banco più alto alla sinistra dell´emiciclo, sono stati ringraziati dal premier e applauditi, due volte, dalla maggioranza. A caldo, Rosy Bindi sbotta con il presidente della Camera Fini: «Mi chiedo per quanto tempo ancora un partito come il mio debba sopportare questa umiliazione». Lo psicodramma continua nell´ufficio del capogruppo Dario Franceschini: ci sono Bersani, D´Alema, Fioroni, Letta, e lei Rosy Bindi la più infuriata. Urla: «Cacciamoli via». Ne nasce una discussione che sfocia poi nella dichiarazione pubblica, e gelida, del segretario: «I radicali si sono autosospesi, ne prendiamo atto. Seguano la loro strada, affari loro».
Dal quartier generale di Marco Pannella in realtà filtrano dichiarazioni rassicuranti sul voto di oggi: «Voteremo la sfiducia al governo come abbiamo sempre fatto», dice Maurizio Turco. Lo stesso si legge in un comunicato in cui lo stesso Pannella replica a Luca Volonté, dell´Udc, che aveva detto: «I radicali tornano alla casa del padre, abbandonata nel ´94»: «Solo quelli di Famiglia Cristiana e Marco Follini scrive il leader radicale avrebbero voluto che si andasse a onorare l´istituzione parlamentare, andando ad ascoltare, intervenire e a votare, come noi, la sfiducia». Lo chiarisce seccata anche Rita Bernardini: «Bastava ascoltare le mie parole in aula». «Non voteremo la fiducia al governo aveva detto ma siamo qui per rispetto delle istituzioni». Si era poi rivolta a Fini: «Lo facevamo anche quando parlava Almirante e tutta l´unità partitocratica se ne andava». Parole che non sono servite a rassicurare il Pd. «Non votare la fiducia può anche dire uscire, astenersi», ragionavano al Nazareno, dove si diffonde un sospetto già emerso il 29 settembre, quando i radicali non votarono la sfiducia a Romano senza avvertire il gruppo. «E se c´entrasse il rinnovo della convenzione di Radio radicale con la presidenza del Consiglio?», chiede qualcuno. Fatto sta che il problema politico è aperto da tempo, che il gruppo pd dopo la vicenda Romano si era riunito e aveva passato la palla al segretario, e che doveva esserci un incontro tra Bersani e Pannella di cui non si è saputo più nulla. «Ci dicono che siamo congelati chiosa la Bernardini ma noi siamo abituati a lottare. Io, per protestare contro la situazione delle carceri, sono al trentesimo giorno di sciopero della fame».

Bernardini ha visto Nitto Palma, il ministro alla Giustizia: «se si creano le condizioni per un provvedimento di amnistia e indulto, noi siamo disposti a discutere con chiunque. Anche col Pd».
dal Riformista di oggi, pag.3

una lettera di Paolo Izzo sul Riformista di oggi...

Repubblica 14.10.11
La primavera nascosta di Teheran
Sotto la coltre dei divieti e della repressione brucia la voglia di cambiamento dei giovani iraniani. Viaggio dentro una rivoluzione silenziosa
di Vanna Vannuccini


Sarà l´economia a decidere il futuro di Ahmadinejad: ma molti non riescono a pagare le bollette Qualche protesta si leva negli stadi, il luogo dove la gente si può riunire senza destare sospetti Abbigliamento occidentale, parabole per vedere le tv straniere, cinema: il regime ha aumentato la pressione sugli oppositori, ma i giovani non hanno smesso di credere nel cambiamento. Ecco la generazione che sfida gli ayatollah in strada e tiene accesa la primavera

Teheran è diventata una città muta, da rumorosa e assordante che era. Nei taxi collettivi, termometro affidabile degli umori dei cittadini, la gente tace. Dalle automobili non esce più musica a tutto volume, e dalle case quella delle band iraniane che mischiano rock e musica tradizionale. «Questo silenzio non è il risultato dei divieti. È che tutti sono troppo depressi per aver voglia di sentir musica» dice Soheila, un´amica. I divieti non hanno cambiato le abitudini. Le ragazze continuano ad andare in giro nelle loro giacchettine attillate, strette quest´anno dalle cinture, e i ragazzi esibiscono pettinature tutte gel e ciuffi ritti sulla testa. Le parabole, che permettono l´ascolto delle tv estere, vengono confiscate e subito dopo ricomprate. Sulla via Shariati gli inquilini di uno stabile discutono chi di loro abbia aperto la porta del palazzo ai poliziotti, che sul marciapiede esibiscono una decina di parabole raccolte sui tetti dello stabile. Anche i gruppi che suonavano negli scantinati sono partiti, dice Soheila: chi per la Germania, chi per gli Stati Uniti. Lei quest´anno ha rinunciato al lavoro in uno studio di architettura: per chi non sa immaginare un futuro, dice, tutto diventa indifferente.
Davanti ai consolati occidentali che fanno in modo di non rendere le file troppo visibili ci sono fin dalla mattina presto studenti in attesa di visto. Ai corsi d´italiano per adulti, nella scuola italiana di Teheran, studiano circa 2000 studenti. Amore per la lingua italiana? Anche. Ma soprattutto la speranza di un visto per l´Italia, dove possibilmente rimanere (anche se le borse di studio che il governo italiano concedeva sono state tagliate da quest´anno) o da dove proseguire per altre destinazioni.
L´Iran è il paese con il più massiccio esodo di cervelli al mondo. Ogni anno quasi 300.000 giovani laureati se ne vanno. Il tasso ufficiale di disoccupazione è del 16, ma quello reale secondo gli economisti del 30 per cento.
L´altra ragione del silenzio, sottolinea Soheila, è che tutti sono affannati a far quadrare i conti, pagare le bollette, le tasse scolastiche. File interminabili di macchine si formano ai distributori di gas liquido perché il gas costa molto meno della benzina, aumentata del 500 per cento in un mese (sessanta litri al mese restano a prezzi calmierati), ma i distributori mancano. Ahmadinejad ha scommesso tutto sulla riforma economica, che ha abolito i sussidi su carburante e energia. Ma nelle grandi città i 30 euro al mese a persona non compensano l´inflazione che è salita alle stelle. Nelle campagne invece, dove 30 euro equivalgono quasi al salario di una settimana, il presidente si è guadagnato un posto nel cuore dei poveri. «Ho quattro figli, due senza lavoro, uno che va ancora a scuola e il maggiore che guadagna 200 euro al mese. 180 euro mi permettono di respirare» mi ha detto un uomo che scaricava tappeti da un camioncino nel bazar di Rasht, sul Caspio.
Il problema è che il risparmio per lo Stato che doveva venire dalla riforma e doveva essere destinato a investimenti, non c´è stato. Cifre alla mano, la Corte dei Conti dice che lo Stato anzi spende di più di quanto non spendesse per i sussidi.
«Sarà l´economia a decidere del futuro di Ahmadinejad» dice un economista alla festa nazionale dell´ambasciata tedesca. «Per il leader Khamenei la linea rossa è quella». In perfetto persiano l´ambasciatore tedesco cita la lettera che Goethe scrisse al suo editore nel 1815 per illustrargli che cosa l´avesse spinto a scrivere il Diwan, la grande raccolta di liriche ispirate alla poesia persiana. «La mia intenzione è collegare l´Occidente e l´Oriente, il presente e il passato, il persiano e il tedesco e lasciare che gli usi e le mentalità si intersechino». Nonostante le sanzioni, l´interscambio iraniano-tedesco resta significativo, il primo in occidente. «La Germania mantiene un equilibro tra il dire e il fare» dice il nostro interlocutore: «La Francia minaccia ma fa affari, mentre l´Italia arretra, eclissata da un´interpretazione estensiva delle sanzioni: tra poco non esporterà più nemmeno scarpe da tennis, non solo i prodotti "dual use" (vietati perché potrebbero essere utilizzati per l´arma atomica)».
La questione delle sanzioni divide gli esperti. Funzionano? Non funzionano? Secondo gli europei (meno la Gran Bretagna) finora le sanzioni hanno danneggiato tutto quello che di moderato c´era in Iran a livello economico e politico, e hanno mandato in rovina il settore privato permettendo così ai pasdaran di espandere la loro forza economica. Senza cambiare il comportamento del governo. Le nuove sanzioni che si preparano a Washington non daranno risultati diversi. Il prezzo del petrolio schizzerà ancora più in alto, mentre basterebbe un minimo allentamento della tensione a farlo calare di almeno 8 dollari al barile (cosa che significherebbe 8 miliardi di dollari in meno nelle casse dello Stato iraniano).
Incontro vecchi amici e nuove conoscenze. Uno è tornato nel mondo da poco, in un piccolo ufficio su una strada appartata cerca di ritrovare una vita normale. Non è facile, perché la sua scarcerazione è provvisoria, definitiva lo diventa solo per chi "confessa". Era stato un politico riformatore conosciuto, fu arrestato nel giugno 2009 il giorno stesso delle elezioni. Un arresto preventivo, per così dire. I primi quattro mesi li aveva passati in totale isolamento, in un stanzino «grande quanto questa tavola».
Un altro ha salito molte scale del potere. L´avevo conosciuto giornalista squattrinato e sottoccupato, ma capace di prevedere fino ai decimali dei risultati elettorali che nessuno si aspettava. Dall´agenzia Mehr all´agenzia Fars, seguendo sempre più da vicino il presidente Ahmadinejad, ora è approdato all´Young Journalist Club, una agenzia politica che ha la sede in una palazzina accanto all´Irib, la televisione di Stato, a cui fornisce il materiale. In Iran le cose funzionano spesso così: accanto all´istituzione prevista dalla legge ne viene creata un´altra che la controlla o ne condivide il potere. E a chi faccia capo la seconda nessuno esattamente lo sa.
Un terzo viene a fare una chiacchierata in albergo. È benevolo, informatissimo, competente, ironico. Parla sempre al plurale, "noi". Chi intende con noi?. «Ahmadinejad dice io quando parla di un errore, noi quando parla di una cosa importante che ha fatto: intende il popolo iraniano», risponde. Si concede una battuta quando il suo accompagnatore ci fissa un appuntamento per l´indomani: «Noi ci rivediamo alle dieci», dice l´accompagnatore e l´altro caustico: «Noi chi?».
Dalle montagne dell´Alborz arrivai un venticello autunnale. L´estate ormai è finita ma la primavera non c´è stata. Quella politica, che molti aspettavano, dopo Tunisi, il Cairo, la Libia. Ma a Teheran tutto è tranquillo. Le prigioni sono piene. Il numero delle esecuzioni ha raggiunto livelli record. I leader dell´opposizione sono agli arresti domiciliari. Qualche protesta, raramente, si leva negli stadi, il solo luogo dove masse di giovani possano raccogliersi senza insospettire le autorità: la più recente, contro il prosciugamento del grande lago salato Orumiyeh, provocato dalla costruzione di dighe inutili, costruite perché qualcuno voleva guadagnarci sopra.
«Il mio è il governo meno corrotto che l´Iran abbia avuto» si è vantato Ahmadinejad a New York. Ma non aveva fatto in tempo a dirlo che i suoi nemici (ne ha sempre di più numerosi tra i conservatori che l´avevano appoggiato alle elezioni) hanno portato alla luce lo scandalo finanziario più clamoroso della storia della Repubblica islamica: una frode bancaria di quasi 3 miliardi di dollari, pari all´uno per cento del prodotto interno lordo. Nelle tre banche coinvolte, due direttori sono stati licenziati, il terzo, della Banca Melli, si è dimesso riconoscendo le proprie responsabilità e il giorno dopo è filato in Canada. «Una pugnalata alle spalle» ha detto il presidente. La lotta all´interno del regime è diventata febbrile in vista delle elezioni parlamentari a marzo. Ahmadinejad vorrebbe crearsi in parlamento una base che gli permetta poi, alle presidenziali del 2013, quando non potrà più candidarsi per un terzo mandato, di candidare alla presidenza un suo uomo; ma il Leader Khamenei è deciso ad impedirglielo. Le elezioni qui servono a misurare il peso di ciascuna fazione politica rispetto alle altre, ma oggi il vero problema è come riportare la gente a votare. Le elezioni del 2009 hanno ucciso qualsiasi fiducia residua dei cittadini nel valore del voto.
La settimana scorsa il Young Journalist Club è stato il primo a dare la notizia dell´arresto di sei documentaristi accusati di collaborare con la Bbc. Dopo i politici riformatori e i giornalisti tocca alla gente del cinema essere presa di mira con l´accusa di collaborare «con l´impero mediatico del nemico». Attori sono in carcere, ad altri è stato tolto il passaporto, altri ancora sono già stati convocati in tribunale.

il Riformista 14.10.11
Giganti del pensiero illusi dalla politica
Novecento. Heidegger e Pirandello, due dei maggiori intellettuali del secolo scorso, vengono riletti dal punto di vista del loro appoggio alle dittature durante le quali operarono. Al primo fu concessa la possibilità di ritrattare i suoi trascorsi politici a favore di Hitler, ma rifiutò. Il secondo descriverà Mussolini come «l’unico capace di fare della politica un’arte, di continuo improvvisando e creando»
di Melo Freni

qui
http://www.scribd.com/doc/68740293

Corriere della Sera 14.10.11
C'è un licantropo dentro di noi
L'indagine di Robert Eisler è un'odissea nella carne e nello spirito
di Armando Torno


Robert Eisler (1882-1949) non è conosciuto in Italia. Nato in una famiglia ebraica di Vienna, studioso di storia delle religioni e di cosmologia antica, di misteri orfici e iconografia, frequentò Walter Benjamin e Gerschom Scholem. Deportato a Dachau e a Buchenwald, riuscì a riparare in Inghilterra dove continuò i suoi studi. Anche se per poco tempo.
Di lui esce la traduzione di un'opera sconvolgente, che vide la luce un anno prima della sua morte, nata dopo aver consultato una documentazione impressionante: Uomo lupo. Saggio sul sadismo, il masochismo e la licantropia (Medusa, pp. 320, 24). Un libro atipico, unico. Si presenta come una ricerca socio-antropologica sulla violenza e l'aggressività umane e costituisce la più inquietante esplorazione degli abissi dove si forma il comportamento, anzi la natura stessa del corpo della donna e dell'uomo. È un'odissea nella carne e nello spirito che evidenzia maschere, istinti inconfessabili, vizi, bisogni inspiegabili, supplizi. Eisler, studioso atipico dalla cultura vastissima, esamina i problemi partendo dai rituali espiatori del mondo antico per giungere ai fatti di cronaca nera.
Chi è l'uomo lupo? Oggi a questa domanda rispondiamo in diversi modi, a seconda della circostanza. Per alcuni è il serial killer. Per altri è il sadico, ovvero chi prova piacere nell'infliggere dolore fisico o umiliazioni psicologiche. Oppure è semplicemente il violento, magari tra le mura domestiche. Eisler suggerisce di intenderlo anche come il risultato della caduta della nostra specie, fenomeno che ha lasciato spazio ad azioni sempre meno controllate dalla ragione e dal timore religioso. Già, caduta: per avvicinarsi al suo significato è sufficiente leggere la Genesi, il primo libro della Bibbia, ma anche numerosi altri miti delle origini. Non si tratta, a detta di Eisler, di peccato o trasgressione, ma di un'autentica mutazione genetica. Del resto, quando si parla di pelo, di dentatura, di usanze o anche semplicemente di abiti o dello stesso corpo, forse si sta indagando sulla fine di uno stato di innocenza e sulla constatazione di una condotta predatoria. E ancora oggi, nonostante solidarietà e bene siano lodati da tutti, non mancano i cosiddetti orchi né i cannibali.
Entrare negli archetipi della predazione o del sado-masochismo, lasciandosi alle spalle il paradiso terrestre, significa cercare quel «lupo» che abita nei nostri desideri profondi e del quale abbiamo idee vaghe. Eisler, che è introdotto in questa prima edizione italiana della sua opera dai saggi di Martino Doni ed Enrico Giannetto, dedicati a «l'animale e l'archetipo» e all'«origine della violenza nel carnivorismo», intende individuare la causa preistorica «di ogni crimine». Un aiuto glielo fornisce la teoria junghiana delle idee archetipe. Quelle stesse che sopravvivono «negli strati ancestrali subconsci della mente e che si rivelano in tutto il mondo nelle leggende, nei miti e nei riti dell'uomo storico, nonché nei sogni effimeri e nelle illusioni durature dell'umanità contemporanea». Si scopre tra l'altro che la «caduta» con il suo strascico di violenze è forse l'autentica storia di cui siamo stati protagonisti.
L'analisi di Eisler è disincantata. Non crede che l'uomo sia naturalmente buono e che la società lo abbia corrotto, ma ricorda che il partner sadico non si eccita se non unendo la crudeltà (dal latino cruor, sangue: altro non è, appunto, che «passione per il sangue») all'amore, ovvero mescolando violenza al «desiderio di fare bene». E qui occorrerebbe soffermarsi sulle chiose di Tommaso d'Aquino riprese da Aristotele, ma il saggio ci porta più in là ed esamina chi — per esempio la confraternita marocchina dell'Isawiyya — attraverso un rito è spinto a fare a pezzi con i morsi il corpo di animali vivi. La pratica si ricollega alle orge greche delle menadi, «donne furiose» vestite di pelli di lince o leopardo o volpe, che in una tragedia perduta di Eschilo divoravano la carne cruda di cerbiatti, capretti, agnelli e altri esseri viventi dopo averla ridotta a brani. D'altra parte, Eisler fa notare che era usanza «smembrare» il capro espiatorio nell'antico rituale ebraico il Giorno dell'Espiazione. Accadeva anche nel culto di Bacco. In tal caso «l'orgia spaventosa» era legata al rito della vendemmia e alla libagione del vino novello.
Pagine densissime, piene di rimandi, di concatenazioni. E sulla licantropia? Noi chiamiamo in tal modo la patologia mentale che costringe chi ne soffre a voler assomigliare a un lupo nell'aspetto ma soprattutto si adegua alla fiera nel comportamento. Gli stadi più gravi di tale malattia inducono coloro che ne sono colpiti a cibarsi di carne cruda, anche umana, e di sangue. Eisler ne studia la genesi, notando che la medicina antica confuse questo indizio di psicosi con la rabbia canina; quindi analizza le leggende germaniche, tocca il problema dei vampiri, esamina il medioevo cinese e giapponese, torna in Plutarco per comprendere la caccia notturna con torce, verghe e lance delle «furiose» devote al dio tragico Zagreus.
Eisler chiude la sua ricerca ricordando che se non ci fu una caduta, allora non potrà esserci nemmeno una redenzione. Ma per giungere ad essa e alla pace, l'uomo dovrà gettare la sua maschera di lupo, domare la bestia archetipa che è in lui. Insomma, ripristinare l'innocenza un giorno perduta.

Repubblica 14.10.11
Il socialismo tradito dalla vodka
Graziosi: "Così è crollata l’Unione Sovietica"
di Leopoldo Fabiani


L´ultimo libro dello storico riassume decenni di studi sull´Urss e si concentra sui fenomeni che hanno logorato la società come la enorme diffusione dell´alcolismo
"Tra i genocidi che hanno costellato la vicenda del paese c´è anche quello meno noto della deportazione dei ceceni"
"Le riforme tentate da Gorbaciov hanno contribuito al collasso perché hanno accresciuto l´inefficienza del sistema"

«A vent´anni di distanza è ormai chiaro che nel crollo dell´Unione Sovietica ha avuto un ruolo di primissimo piano anche la straordinaria diffusione dell´alcolismo, insieme sintomo e causa di un degrado sociale e demografico che contribuiva a rendere la situazione assolutamente insostenibile». A offrire una prospettiva, finora poco frequentata per guardare alla crisi dell´impero comunista, è Andrea Graziosi, 57 anni, professore di Storia contemporanea a Napoli, fellow a Harvard associé alla École des Hautes Études di Parigi. Il suo ultimo lavoro, L´Unione Sovietica 1914-1991, in uscita in questi giorni (il Mulino, pagg. 688, euro 35) è una sintesi dei suoi studi pluridecennali sulla storia dell´Urss. Il libro ripercorre quelle vicende che hanno segnato il Novecento e le vite di milioni di uomini alla luce della documentazione più recente e allo stesso tempo fa il punto su un dibattito storiografico oggi uscito dalle passioni ideologiche della Guerra fredda, quando prevalevano le demonizzazioni senza appello o le esaltazioni che negavano i più elementari dati di fatto. Una storia che Graziosi definisce "sempre imprevedibile". A cominciare dalla presa del potere da parte di Lenin nel 1917 che sorprese il mondo intero, per finire all´incredibile dissoluzione pacifica di una superpotenza dotata di immensi arsenali atomici. E giusto venti anni fa, nel 1991, l´Unione Sovietica cessava di esistere, tra il "golpe" di agosto, sventato dalla reazione di Boris Eltsin e il 25 dicembre, quando sul Cremlino la bandiera tricolore russa prendeva il posto di quella rossa dell´Urss.
Professor Graziosi, del collasso sovietico si sono date tante spiegazioni: dalla pressione degli Stati Uniti di Reagan alle rivendicazioni nazionali, dalla crisi economica alle scelte politiche di Gorbaciov. In genere si parte dalla caduta del Muro di Berlino, nel 1989.
«Io non credo che la caduta del Muro sia stata una delle cause del crollo sovietico, piuttosto è vero il contrario. Voglio dire che il muro cade perché l´Urss è in crisi, ed è da qui che occorre partire, dalla crisi strutturale del sistema. Quando Mikhail Gorbaciov prende il potere nel 1985, tutti, dai dirigenti alle élite colte delle città so no consapevoli che "il paese è allo stremo" come si legge in un rapporto ufficiale. È la popolazione sa benissimo che in occidente si vive molto meglio. Lo stesso Gorbaciov ripete ossessivamente "così non si può più andare avanti". È la situazione economica e sociale a essere insostenibile. Tutto il gruppo dirigente, compatto, pensa che siano necessarie le riforme. Ma sono proprio le riforme il fattore scatenante del collasso».
È un ragionamento paradossale?
«No, io sostengo che, dal momento che il sistema produce solo inefficienza, l´accelerazione impressa da Gorbaciov ai meccanismi economici non fa che aumentare questa inefficienza. Nel 1989 tutti gli indicatori economici, reddito nazionale, debito pubblico, inflazione, bilancia commerciale, sono peggiorati. A questo punto Gorbaciov cambia strategia. Non crede più che il sistema comunista basato sul partito unico e l´economia di stato possa essere salvato. E decide invece che si può conservare la struttura statale, a patto di separare le sue sorti da quelle del sistema socialista. Qui si apre la frattura con il resto del gruppo dirigente, che poi porterà al golpe del ´91».
Quelle riforme erano allora sbagliate?
«Era assolutamente necessario cambiare, ma il cambiamento ha portato alla fine di un sistema che poteva invece declinare lentamente chissà fino a quando. Teniamo conto poi che la glasnost di Gorbaciov ha fatto deflagrare anche l´enorme problema della storia sovietica».
In che senso?
«La "trasparenza" gorbacioviana ha riaperto il dibattito sulle purghe staliniane, 700 mila fucilati in 15 mesi tra il 1937 e il 1938. Sono venuti alla luce dopo decenni i fatti delle carestie provocate da Mosca nel 1934 in Ucraina e in Kazakhstan dove morirono di fame rispettivamente 4 milioni e un milione e mezzo di persone. Ed è diventato impossibile per i dirigenti riformisti sostenere una qualsiasi forma di continuità con questo passato».
Si è molto dibattuto sulla natura "genocida" dell´Unione Sovietica. Qual è il suo giudizio?
«Non amo molto queste discussioni, perché si fa ricorso a categorie giuridiche che servono poco alla comprensione storica. In ogni caso il sistema sovietico è stato genocida, senza dubbio. Un episodio meno conosciuto di tanti altri: nel 1944 fu deportata in Asia centrale in due settimane tutta la popolazione cecena e il 20%, una percentuale spaventosa, non sopravvisse, erano soprattutto vecchi e bambini. L´Olocausto resta però un´altra cosa, perché nelle stragi sovietiche non c´è mai stata la volontà di sterminio totale, presente invece nella Shoah».
Con la "glasnost" diventa di dominio pubblico anche l´enorme problema dell´alcolismo.
«Quando si guarda alle statistiche demografiche, viene fuori un dato impressionante. Dal 1945 al 1965 l´aspettativa di vita in Unione Sovietica aumenta esattamente come in Occidente. Dopo peggiora, ma solo per gli uomini. E la spiegazione sta nella diffusione dell´alcolismo, che Gorbaciov cerca di combattere con politiche proibizioniste, subito abbandonate perché la produzione dell´alcol è statale e le casse dello stato hanno assoluta necessità di quelle entrate».
Quali sono le cause di questo fenomeno?
«Le spiegazioni possibili sono molte. La vodka è uno dei uno dei pochi beni di consumo disponibili, e quindi tutti la comprano. Oppure si dice che gli uomini sfogano così la frustrazione dovuta all´impossibilità di realizzare sé stessi nel lavoro creativo. Fatto sta che nulla di paragonabile si trova in nessun altro paese industriale avanzato. E che questo è un segnale inequivocabile che la situazione sociale in Unione Sovietica era arrivata davvero a un punto insostenibile».
Le conseguenze sono state pesanti anche sulla condizione femminile.
«Le donne sovietiche si sono trovate nel dopoguerra in una situazione terribile. Gli uomini erano pochi e spesso abbandonavano le mogli per compagne più giovani. Le politiche demografiche favorivano i figli illegittimi. Spesso toccavano alle donne i lavori più umili e dovevano allevare i figli da sole, oppure a casa trovavano mariti alcolizzati e violenti. Sono state la parte sana e forte della società, ma di sicuro hanno sofferto molto».

Corriere della Sera 14.10.11
Picasso
La furia creativa
Disegni ceramiche tele. A Palazzo Blu a Pisa si celebra il trionfo dell’eros e del vitalismo
articoli di Marco Gasparetti, Rachele Ferrario e Francesca Bonazzoli

due pagine qui
http://www.scribd.com/doc/68737919

Repubblica 14.10.11
Il Centro Pompidou di Parigi manda in tournée nei piccoli centri della Francia una selezione di opere Tele, video e installazioni sono esposti sotto un tendone colorato per avvicinare tutti ai capolavori
Arte. In viaggio con Picasso ecco il museo portatile
Dice il presidente del Beaubourg, Saban: "Porterei in provincia anche Leonardo"
di Laura Putti


CHAUMONT-SUR-MARNE. Tre tendoni da circo, ma a forma di rombo, sono montati sulla piazza di un parcheggio alla periferia di Chaumont, cittadina di poco più di ventimila abitanti a sud-est di Parigi, Francia profonda, due ore e mezzo di treno dalla capitale. Il colore esuberante dei tre tendoni uniti tra loro (tetti rosso-blu, blu-arancio e arancio-rosso) contrasta con il grigio del cielo, dei palazzi circostanti, e anche con quello dei pochi passanti. Ieri, grazie alle tensostrutture colorate, gli abitanti di Chaumont hanno ricevuto la visita del presidente Sarkozy, e domani entreranno ufficialmente a fare parte della Storia. Dell´arte. I tre tendoni sono il Centre Pompidou Mobile, primo esperimento al mondo di museo smontabile, e sotto il titolo La couleur espongono quattordici tra i capolavori della collezione del museo parigino disegnato da Renzo Piano e Richard Rogers. Le pareti colorate scorrono su dritte d´acciaio come le rande delle barche a vela; la tensostruttura non ha fondamenta, è sostenuta da sottili cavi d´acciaio e ancorata al suolo da grandi sacchi blu pieni di acqua. Tra tre mesi il museo cambierà di luogo e sarà rimontato a Cambrai; nel maggio 2012 a Boulogne-sur-Mer nel grande nord francese, poi via verso altre destinazioni, di tre mesi in tre mesi, per cinque anni. Costo totale: due milioni e mezzo di euro (tra museo, ministeri di Cultura ed Educazione e sponsor privati) più duecentomila a carico di ogni città visitata.
Il Beaubourg nomade è nato dalla fantasia di Alain Seban, energico presidente del museo parigino. Nel 2007, appena insediato, Seban si domanda: quanti francesi hanno, nella loro vita, visitato un museo? La risposta è: uno su due. Se il francese di provincia non va a Picasso, Picasso andrà al francese di provincia, decide Seban e indice un concorso per un museo smontabile. Lo vince l´architetto Patrick Bouchain con un museotenda «leggero, allegro, nello spirito del circo ambulante e delle feste di piazza», e colorato, nello spirito dell´opera di Piano & Rogers. Ma Seban preferisce definirla un´opera normale, perfetta per rassicurare un pubblico non abituato ai capolavori. «Il museo deve uscire da se stesso e andare verso un nuovo pubblico» dice, seduto in un salottino chiuso da una parete di cerata rossa. «Se fosse possibile si dovrebbe portare in provincia anche Leonardo o Gericault. Il Centre Pompidou dà in prestito moltissime opere: che la cultura si muova è la nostra idea fondamentale». All´interno delle tende, in teche di legno protette da vetri antiscasso e da sofisticati quanto invisibili impianti di sicurezza, c´è un´infilata impressionante di arte moderna: Kupka, Picasso, Matisse, Dubuffet; Braque (con la cornice rifatta da un falegname di Chaumont!), Albers, Klein; Calder, Léger; Sonia Delaunay (1938) confrontata a un´installazione in movimento di Olafur Eliasson (2004) in una saletta che da sola meriterebbe la visita; un video di Bruce Nauman accanto a una enorme coloratissima mucca di Niki de Saint Phalle. Tutti scelti dalla commissaria Emma Lavigne («Davanti a quanti quadri ci si ferma durante una visita guidata? Non più di dieci. Qui abbiamo portato quei dieci»), già assemblatrice, alla Cité de la Musique, di mostre su Lennon, Hendrix e altri miti della musica. Il Pompidou Mobile è aperto sei giorni alla settimana, l´ingresso è gratuito. Le visite saranno guidate da attori locali che spiegheranno ai ragazzi (dalle elementari al liceo) la magia del colore nella storia dell´arte.

il Fatto Saturno 14.10.11
Ad armi pari. “Anticati” o Scurati
“Il lupo e la luna” di Buttafuoco, ambientato nella Sicilia del ’700, sfoggia una lingua arcaica, ma un po’artificiosa. Come fece a suo tempo un altro giovane scrittore, ora proiettato nelf uturo
di Antonio Tricomi


CON IL LUPO E LA LUNA, Pietrangelo Buttafuoco racconta una storia, ambientata a cavallo fra sedicesimo e diciassettesimo secolo, che aspira a farci riflettere su uno scenario che contraddistingue anche la nostra epoca: il conflitto tra Oriente e Occidente. Nel libro, la Sicilia è infatti descritta sia come la spietata nutrice di due mondi, quello cristiano e quello islamico, uniti da un vincolo di consanguineità, sia come il teatro privilegiato di una feroce guerra fratricida tra due culture chiamate a odiarsi e amarsi, rispettarsi e sbranarsi. Lo scontro tra il messinese «Cicala il Rinnegato», in origine cristiano ma poi divenuto il comandante degli eserciti Ottomani di terra e di mare, e il fratello Filippo, rimasto fedele all’educazione cattolica ricevuta, appare perciò l’emblema di un confronto tra civiltà che, nell’ottica di Buttafuoco, è comunque destinato a passare per le armi, poiché i due contendenti sono storicamente inclini a ibridarsi tra loro, ma anche a radicalizzare ciascuno i suoi specifici tratti identitari per sottomettere il rivale. «Il tuo amore lo dimostri cercandolo in battaglia»: così dice la madre a Filippo, che, in nome dell’affetto che a lui lo lega, non vorrebbe combattere contro il fratello. Né la donna è meno decisa nell’aggiungere che ben conosce, e che occorre per tutti accettare, i soli esiti possibili di questa contesa: «Uno dei due, figlio, sopravvivrà»; «Oppure soccomberete entrambi».
 Più che per il messaggio che veicola, Il lupo e la luna risulta tuttavia grezzo per la struttura linguistica che lo caratterizza. Buttafuoco imita il “cuntu”, antica forma siciliana di narrazione orale, nel tentativo di costruire qualcosa che somigli a una favola. Ne viene invece fuori una sorta di meccanica e stucchevole cantilena, contraddistinta da scelte lessicali che vorrebbero essere eleganti, o persino dotte, ma si rivelano artificiose e addirittura goffe, giacché regalano al romanzo una patina arcaizzante, un’incongrua confezione vintage.
 Obiezioni in parte simili si potevano muovere a un libro di Antonio Scurati di qualche anno fa, Una storia romantica, debordante centone che rivisitava la nostra epopea risorgimentale sia appoggiandosi a fonti e modelli letterari ottocenteschi di cui lo scrittore imitava il lessico, fino a ottenere una lingua da “falso antico” a tratti pedestre, sia esibendo lacerti della cultura di massa contemporanea, nel discutibile desiderio di attualizzare, persino semanticamente, una vicenda sentita come ideale viatico del presente. Ed è ancora l’oggi che nel suo ultimo romanzo, La seconda mezzanotte, Scurati allusivamente trasferisce in un’altra dimensione temporale per farci scorgere, in filigrana, i rischi apocalittici in esso contenuti. È infatti nel futuro, nella Venezia del 2092, che egli, da cultore di «distopie», questa volta ci trasporta, con un testo che fa tornare alla memoria un altro romanzo italiano, relativamente recente, ambientato in un lontano domani: Il nemico negli occhi, pubblicato da Eraldo Affinati dieci anni orsono.
 La seconda mezzanotte narra così di una Cina «che ha ingrandito il mondo e rimpicciolito l’Occidente»; di un’era che somiglia al «bordello della fine dei tempi»; di una società governata da violenza e razzismo e nella quale, dal divieto della procreazione all’obbligo di abiurare qualunque fede, ogni cosa convalida il dominio di una spinta «al riflusso nell’increato». E a completare il quadro provvedono individui inclini a organizzare «attivamente l’oblio», nonché la fine dell’arte, di-venuta superflua in un contesto ridottosi a «politica e sopravvivenza». Debitamente ingigantite, le angosce e le sozzure del presente, come pure le tenaci speranze di salvezza che esso continua a nutrire, le troviamo insomma tutte, in questo ridondante e monocorde libro di Scurati.
 Pietrangelo Buttafuoco, Il lupo e la luna, Bompiani, pagg. 210, • 18,00; Antonio Scurati, La seconda mezzanotte, Bompiani, pagg. 352, • 19,00

il Fatto Saturno 14.10.11
Grandi ritorni. Riecco Majorana e la sua particella
Sulle tracce del “fermione”
Le intuizioni del genio italiano al vaglio della scienza
di Vittorio Pellegrini


AL SECONDO PIANO del dipartimento di fisica applicata dell’università di Delft, Leo Kouwenhoven, tra i fisici dello stato solido più conosciuti, si sbraccia alla lavagna. «È una missione impossibile, lo sappiamo», mi dice sorridendo, «ma ci stiamo investendo con tutte le nostre forze e speriamo di trovare il fermione di Majorana». È in quel momento che mi rendo conto che Ettore Majorana è finalmente tornato. Era la notte del 25 marzo 1938 quando, da poco nominato professore di fisica all’Università di Napoli, Ettore Majorana si imbarcò sul piroscafo che da Napoli lo portava a Palermo dopo aver inviato un telegramma al suo collega Carelli annunciando la sua scomparsa, forse il suicidio. Il 26 marzo inviò un secondo telegramma, in cui scrisse che il mare lo aveva rifiutato e che sarebbe ritornato rinunciando però all’insegnamento. Da quel giorno, il 26 marzo 1938, di Ettore Majorana si sono perse le tracce. Forse, probabilmente, morto suicida o invece scomparso ritiratosi in un monastero, come sostenuto da Leonardo Sciascia, o addirittura fuggito in Germania, come dicono altri. Ma chi era Ettore Majorana? Di lui scrisse Enrico Fermi, il suo primo maestro con cui ebbe sempre un rapporto conflittuale: «Ci sono scienziati di seconda categoria, che fanno il loro meglio ma non vanno molto lontano. Ci sono poi gli scienziati di prima categoria, quelli che fanno le grandi scoperte cruciali per l’avanzamento della scienza. Ci sono infine i geni, come Galilei e Newton. Ettore era uno di questi». Nonostante la sua genialità, e forse per il suo carattere complesso con tendenze alla depressione, Majorana fu riluttante a lasciare tracce dei suoi studi e delle sue scoperte. Per questo motivo scrisse appena nove articoli scientifici, una produzione scientifica così minuta che avrebbe relegato qualsiasi scienziato a una posizione di secondo piano nel panorama scientifico. Ma non fu così per il genio Majorana. In uno degli ultimi articoli, scritto nel 1937, Majorana introdusse con un’elegante intuizione matematica un’ipotetica nuova particella: il fermione di Majorana. Si trattava di un raffinato procedimento matematico applicato all’equazione di Dirac, introdotta alcuni anni prima dal padre della meccanica quantistica relativistica Paul Dirac. Perdonate l’astrattezza. Ma è necessario dire che l’equazione di Dirac ha soluzioni complesse . Tradotte dal linguaggio matematico a quello della fisica questo significa che l’equazione di Dirac è capace di predire sia l’esistenza dell’elettrone che della sua anti-particella, il positrone, del tutto identico all’elettrone ma con carica positiva. Il positrone fu in realtà osservato nel 1932 dopo l’uscita del lavoro di Dirac offrendo quindi una verifica sperimentale della validità della teoria di Dirac e segnando l’inizio dello studio dell’antimateria. Nel 1937 Majorana si chiese se potessero esistere particelle simili all’elettrone che potessero coincidere con le loro antiparticelle. Non come elettrone e positrone che avendo carica opposta sono ben distinte. Tradotto in linguaggio matematico si trattava di individuare soluzioni reali dell’equazione di Dirac, cosa che fu proprio quello che Majorana dimostrò nell’articolo del 1937. Interessante destino, quello di Majorana, che scomparendo assunse su di se, in qualche modo, l’essenza della sua predizione: una particella coincidente con la sua antiparticella. Ben presto, il fermione di Majorana diventò il sacro graal dei fisici delle particelle che per tutto il ventesimo secolo inseguirono invano la sua osservazione. Prima pensando che i neutrini potessero essere i fermioni di Majorana. Poi indagando tra le pieghe della recente teoria supersimmetrica che suppone l’esistenza di una nuova dimensione popolata da super-particelle partner di quelle che conosciamo. Per esempio il superpartner del fotone, il fotino, avrebbe tutte le caratteristiche per essere il fermione di Majorana. Ma nel frattempo, in un campo della fisica completamente diverso, quello dello stato solido, sono stati scoperti una serie di nuovi materiali denominati isolanti topologici basati su leghe di bismuto selenio e tellurio che hanno aperto un nuovo capitolo nella saga di Majorana. Questi materiali hanno una proprietà bizzara. Se facciamo passare una corrente elettrica attraverso il materiale, la corrente si propaga senza dissiparsi sulla superficie mentre l’interno rimane un robustissimo isolante. Gli sviluppi teorici più recenti hanno mostrato che se questi materiali sono messi in contatto con un superconduttore, proprio all’interfaccia si creerebbero fermioni di Majorana. La casa del fermione di Majorana si troverebbe quindi in un banalissimo pezzo di cristallo dal costo di pochi euro. La sua osservazione potrebbe aprire la strada a nuove architetture di computazione quantistica e quindi a calcolatori enormemente più potenti di quelli attuali. Ed è proprio questo che a Delft e in moltissimi altri laboratori al mondo, inclusi molti in Italia, stanno studiando. Majorana è tornato e la corsa a chi lo vede per primo è iniziata.
Per approfondimenti: www.ettoremajorana.eu  
Si può leggere inoltre João Magueijo, La particella mancante. Vita e mistero di Ettore Majorana, genio della fisica, Rizzo-li, pagg. 280, • 20,00

l’Unità 14.10.11
La ditta fiorentina Cobar spa non vede soldi da mesi e chiude il cantiere. Lavori completati per il 90%
Le statue ospitate, supine, presso il palazzo del Consiglio regionale. Il governo ha bloccato i fondi
Una delle 15 opere che dovevano dare lustro al 150esimo anniversario dell’Unità, l’ammodernamento del Museo nazionale della Magna Grecia di Reggio sullo Stretto, ha subito in settembre un brusco stop.
di Gianluca Ursini


REGGIO CALABRIA. «Bamboli non c’è una lira!». Carlo Taranto nelle riviste dell’italietta anni ’50 ironizzava su una nazione che mancava di tutto, ma nell’Italia della crisi e dei tagli tremontiani, non si trovano nemmeno quattrini per dare un tetto ai Bronzi di Riace. Una delle 15 opere che dovevano dare lustro al 150esimo anniversario dell’Unità, l’ammodernamento del Museo nazionale della Magna Grecia di Reggio sullo Stretto, ha subito in settembre un brusco stop. Chiude la ditta fiorentina che aveva portato a termine il 90 % dei lavori, la Cobar Spa: non vede soldi da mesi. Mancano 11 milioni di euro per completare un cantiere che originariamente ne doveva costare 15, con costi lievitati fino a 24 milioni. «Va detto come in questo caso non ci sia da pensar male: i costi lievitano perché in corso d’opera è cambiata la legislatura antisismica: criteri molto più rigorosi per i materiali, i calcoli del progetto originario da rifare», rassicura un tecnico che ha seguito il rifacimento di Palazzo Piacentini, uno dei tre Musei della Magna Grecia (con Napoli e Taranto). E i guerrieri ritrovati 30 anni fa? In restauro, supini, da due anni: ospiti dell’«astronave», orrido trapezio di cemento armato che ospita il Consiglio regionale della Calabria. «Enorme successo di pubblico: si era deciso, con i consiglieri, di non chiedere biglietto per visitare il cantiere del Restauro. Oltre 100mila visitatori per il2010», precisa la Sovrintendente Beni Culturali per la Calabria, Simonetta Bonomi.
TUTTI A CASA
Però adesso la ditta toscana ha chiuso il cantiere, inviato le lettere di licenziamento alle maestranze locali e fatto rientrare in sede i propri operai, proprio quando il Museo era quasi ultimato: pronto l’innovativo quarto piano in aggiunta, con un tetto trasparente che dall’atrio fa contemplare il cielo dello Stretto appena entrati; un moderno roof garden con caffetteria, pannelli, supporti multimediali video che spiegano la storia della Magna Grecia, ologrammi per mostrare la figura completa dei reperti: tutto quello che serve a un museo per diventare una esperienza di divulgazione storica. «Il massimo dell’innovazione disponibile allo stato dell’arte. E ora per soli 6 milioni, rischia di andare tutto a ramengo», sbuffa Bonomi, che ha dovuto far saltare la prevista mini-inaugurazione del 31 dicembre.
Pensare che mancano poche rifiniture. Essenziali però, come la guardiania. Servono i maledetti milioni che il Comitato interministeriale non sblocca, anche per la Sala Filtro e la Sala climatizzata per i Bronzi, spiega Bonomi: «Palazzo Piacentini è a ridosso del mare, e l’aria salsa non fa loro bene; si aggiunga la vicinanza dell’Etna che emana zolfo, più lo smog cittadino e i virus che portano dentro i turisti, non si può rischiare di vanificare il lavoro di due anni dei restauro». Così una opera artistica unica al mondo, le statue in bronzo meglio conservate dell’antichità, paragonabili solo al Poseidon di Capo Artemisio del Museo di Atene, rimangono parcheggiate. Che poi, caso unico, non ce la si può nemmeno prendere con i politici locali: la Regione, su 11 milioni mancanti, ha dato disponibilità per 5, già sbloccati; impeccabili al ministero, a detta di esponenti del Pd calabrese come l’ex sindaco Naccari: sia l’allora ministro Francesco Rutelli che sbloccò i primi fondi, che i successori. «Su Bondi e Galan nulla da dire– conferma Bonomi – solo non si capisce perché il Cipe nelle riunioni del 3 agosto e di metà settembre, pur avendo sbloccato fondi per svariati miliardi, non abbia inserito tra le priorità il Museo di Reggio, che tra tutte le incomplete del 150esimo, è quella a cui manca di meno per la consegna».

l’Unità 14.10.11
La protesta degli archivisti
L’allarme in tutta Italia: negli archivi pubblici non si assume, non c’è più il passaggio di competenze indispensabile per questo mestiere, sempre meno le risorse. E Napoli oggi scende in piazza. A Milano un convegno
di Jolanda Bufalini


Quando a Roma nel 2008 infuriava la rivolta contro la chiusura dell’ospedale San Giacomo, dall’archivio di Stato di Sant’Ivo alla Sapienza saltò fuori il testamento del cardinale Salviati che nel Cinquecento aveva donato l’ospedale a Roma con la clausola che fosse destinato a luogo di cura, altrimenti, dettava il cardinale, l’immobile doveva tornare agli eredi. Fu una brutta botta per chi avrebbe voluto trasformare in hotel di lusso quel prezioso isolato nel centro di Roma. Forse per questo gli archivi non stanno simpatici ai potenti e ai prepotenti: perché nella pancia di quei luoghi spesso negletti e polverosi si nasconde la fonte della difesa dei diritti.
Claudio Persio è un funzionario dell’università dell’Aquila e, dopo la scossa devastante del 6 aprile 2009 pensò subito: «La vita delle persone è nelle carte». Da allora ha passato le sue giornate nella «Cambogia sismica» del rettorato per recuperare i documenti indispensabili alla ricostruzione delle carriere di impiegati e professori.
Gli archivi sono la memoria della storia collettiva di un Paese. Questo dovrebbe essere una ragione sufficiente perché lo Stato ne assuma la cura. Ma, in tempi di crisi, quando i cittadini sono allarmati per i «tagli lineari» e i ministri pensano che «la cultura non si mangia», si dovrebbe far mente locale sulla funzione degli archivi che incide sulle vite individuali, sul diritto a una pensione o ad avere giustizia. L’Anai, l’associazione archivistica nazionale, ha preso in prestito un titolo de l’Unità del 14 luglio, «La dissolvenza degli archivisti», per dare vita ad iniziative in tutta Italia, a Milano, Bologna, Napoli (oggi a Palazzo Marigliano), Roma (oggi alle 11 a Sant’Ivo). L’allarme è generato dal fatto che negli archivi pubblici non si assume più, non c’è il passaggio di competenze indispensabile in un mestiere delicato, in cui spesso, anche per la cronica mancanza di spazio, c’è solo una persona a sapere dove mettere le mani. «L’ultimo chiuda la porta» è stato il titolo del convegno milanese, condotto da Benedetta Tobagi, al quale hanno partecipato magistrati, a cominciare da Edoardo Bruti Liberati, storici e ricercatori. Anche le risorse sono ridotte al lumicino, a Bologna, dice la direttrice dell’Archivio di Stato Elisabetta Arioti «Siamo passati da 400 mila euro nel 2007 a 100mila del 2011».
E il giudice Claudio Castelli, a Milano: «Avanti così e siamo alla paralisi». Gli archivi dei Tribunali sono uno strumento di lavoro indispensabile per i processi e una miniera d’oro per storici e giornalisti. Benedetta Tobagi ha passato centinaia di ore nell’archivio del Tribunale di Milano per ricostruire la storia di suo padre. Ci sono mitici cancellieri, come Paolo Musio a Roma e Umberto Valloreja a Milano, maghi e angeli custodi delle carte dei grandi processi italiani. Ma anche i cancellieri sono una specie in via di estinzione.
Nel documento preparatorio l’Anai fa l’esempio delle guerre in Bosnia, dove la distruzione degli archivi ha reso incerto i titoli di proprietà della popolazione musulmana. Ma aggiunge anche: «Senza gli archivi non si sarebbero potuti aprire i processi di risarcimento per le vittime dell’amianto. Senza i dati di studi e analisi degli archivi scientifici i medici non possono studiare le malattie. Senza la cartografia antica non potremmo prevenire alluvioni e frane o valutare il rischio sismico. Senza gli archivi è impossibile venire a conoscenza dei soprusi delle dittature». Non si può, dice Umberto Valloreja, «fare breccia nel muro del silenzio».
Gli archivi pubblici e privati «sono tutti importanti», dice Monica Calzolari, rappresentante Cgil a Sant’Ivo a Roma. E ricorda come «nella stagione di tangentopoli, per lo stato penoso degli archivi molti accusati non riuscivano a imbastire la propria difesa». Ma è vero anche che: «Lo Stato sta perdendo una marea di soldi perché i numeri dei conti bancari sequestrati sono sepolti in fascicoli processuali non archiviati».
Problemi che saranno risolti dalla «smaterializzazione», parola che fa battere il cuore a chi è nel business informatico? Il software non aiuta se non c’è la competenza di chi conosce come si archivia o che conserva memoria degli strumenti di lettura, in rapida obsolescenza per la rivoluzione tecnologica. Al ministero degli Affari esteri, per esempio, il più digitalizzato di tutti, si scartano i protocolli della corrispondenza. Non si saprà mai se un documento è entrato o uscito dal ministero.

l’Unità 14.10.11
Su Rai5 programma di musica classica
di Luca Del Fra


Era dagli anni 70 che la Rai non affidava a un compositore un programma tv dedicato alla musica classica: sabato alle 10 di mattina su Rai 5 arriva Petruška, programma di 15 puntate condotto da Michele dall’Ongaro, scritto da lui con Paolo Cairoli con la collaborazione di Emanuele Garofalo e la regia di Ariella Beddini. «Non facciamo paragoni azzardati esordisce dall’Ongaro -, quella trasmissione oltre alla conduzione di Luciano Berio aveva un retroterra di ben altri investimenti: vogliamo ripensare quella formula per il presente. Petruška è dedicato di volta in volta a un compositore e pur essendo un programma autonomo è funzionale a introdurre la messa in onda del concerto che segue nel palinsesto di Rai 5».
Petruška è una marionetta, dunque agile e scattante.
«Anche noi! Il programma, che è tutto realizzato con forze Rai e senza appalti esterni, si articola in tre parti: nella prima al pianoforte svelo l’ingranaggio che rende particolare la musica di un compositore, così non ascolterai mai più la sua musica alla stessa maniera».
E poi che succede?
«Dalla prospettiva di chi crea la musica, passiamo a quella di chi la suona, cioè dei musicisti dell’Orchestra Nazionale della Rai, che ha partecipato alla trasmissione. Nella prima puntata, dedicata a Cajkovskij ci sarà il primo violoncello Macrì. La prospettiva poi sarà quella di chi ascolta e nella musica vede anche altro».
Facile a dirsi, ma come farete?
«Saliamo sui tetti o per le strade e i ponti di Torino, città che ha collaborato con noi, e paragoniamo per esempio Mahler alla psicanalisi, oppure Brahms all’architettura e un architetto come Camerana ci spiegherà che camminare su un ponte è come camminare su una sinfonia».
Che modelli avete?
«Con la messa in onda di 900 concerti l’anno Radio 3 offre molta musica classica, ma è rivolta a chi è già interessato. Noi puntiamo anche agli altri».

La Stampa 14.10.11
Un’altra primavera per Cartagine
Non solo mare e spiagge: la nuova Tunisia uscita dalla rivoluzione dei gelsomini punta sul suo straordinario patrimonio archeologico
di Maurizio Assalto


«Macché barbari, la città di Annibale è parte integrante della civiltà mediterranea»
DECINE DI SITI raccontano secoli di feconda coesistenza e fusione tra popolazioni locali e Romani
IL MINISTRO DEL TURISMO «Ben Ali investiva sulla costa Noi faremo conoscere il vero Paese, quello dell’interno»

“Eccola, la Cartagine punica». Dal belvedere della collina di Byrsa, dove si trovava l’acropoli della città rasa al suolo dai Romani nel 146 a.C., Azedine Beschaouch, il ministro della Cultura del governo tunisino succeduto alla ventennale dittatura di Ben Ali, indica i resti di un quartiere dei tempi di Annibale. È questo il paradosso: «Mentre dei livelli più recenti, arabo e bizantino, non è rimasta traccia, è proprio la parte che diciamo distrutta a essere oggi visibile». È tornata alla luce tra il 1974 e il 1989, grazie a una campagna internazionale patrocinata dall’Unesco. Giaceva sotto i detriti delle costruzioni demolite dai conquistatori romani, usati come materiale di riempimento quando nel 44 a.C. l’Urbe decise di ricostruire la città e per prima cosa livellò il colle su cui avrebbe eretto il proprio centro monumentale (a sua volta distrutto nel 439 dai Vandali di Genserico).
«Del periodo punico, prima, avevamo soltanto le tombe e i materiali letterari», spiega Beschaouch, che è innanzitutto un archeologo, autorità mondiale nel campo della tutela, dai templi di Angkor alla stessa Cartagine per cui si è speso negli ultimi quattro decenni. Così l’antica rivale di Roma restava una leggenda, in gran parte nera. «Adesso invece si può verificare sul terreno il racconto di Polibio, che seguì Scipione Emiliano nella conquista e descrisse case di 4-5 piani». Ma non solo. «Guardate, la struttura urbanistica è uguale a quella romana, a pianta ortogonale. Sappiamo che qui si insegnava il latino e il greco. Cartagine partecipava a pieno titolo della koiné mediterranea. I Romani hanno alimentato l’immagine di una civiltà barbarica per giustificare a posteriori la distruzione, che aveva essenzialmente cause economico-politiche: due imperialismi che si disputavano le risorse agricole della Spagna e della Sicilia non potevano coesistere, uno dei due doveva soccombere». I sacrifici umani? «Si praticavano solo in situazioni eccezionali, come in tempi diversi avvenne anche presso i Greci, i Celti, gli Ebrei, e comunque cessarono quasi del tutto dal V secolo a.C.: al posto dei fanciulli si impiegavano polli, capre, e nelle dediche si legge “Grazie, Baal, che hai permesso la sostituzione...”».
Alle spalle del ministro, in lontananza, si scorge l’antico porto militare di forma circolare, con un isolotto nel mezzo, dove le navi della superpotenza mediterranea sparivano come per magia sotto gli occhi dei nemici. Di qui Didone seguì con lo sguardo la flotta di Enea in fuga da lei, prima di trafiggersi con la spada, non senza aver maledetto il fedifrago invocando eterna ostilità tra i rispettivi popoli: «Sponda contro sponda, marosi contro flutti, questo m’auguro, armate contro armate: e si combattano, loro e i nipoti» ( Eneide , IV, 628-9). Amore e odio fin dall’inizio, tra le due rive del mare comune.
La nuova Tunisia uscita dalla rivoluzione dei gelsomini, che si avvia tra molte ansie e non poche contraddizioni alle elezioni del 23 ottobre, per il suo futuro (si spera) democratico punta molto sulla cultura: come via per superare l’anatema delle mitica fondatrice, valicando antiche e nuove diffidenze, e come strumento per attrarre più turisti, e quindi più danaro. È per illustrare questi progetti che è stato convocato un gruppo di giornalisti dall’Italia. Non c’è solo Cartagine da vedere. A Tunisi il museo del Bardo, «il più antico dell’universo arabo», come sottolinea il conservatore Taher Ghalia, con cinquemila metri quadrati di mosaici (la collezione più ricca al mondo), sta completando i lavori di ristrutturazione e ampliamento, avviati due anni fa senza mai chiudere al pubblico, che ne faranno entro il marzo 2012 «un museo moderno secondo tutti gli standard internazionali, un vero e proprio museo nazionale, con testimonianze delle civiltà bizantina e islamica, oltre che di quella romana». In molti interlocutori tunisini c’è l’orgoglio di ricordare che fin dall’antichità questa terra è stata un crocevia di culture, dove si parlavano non meno di sei lingue (quella libica dei berberi o numidi, il punico, il greco, il latino, l’ebraico, perfino l’etrusco), dove ha tenuto lezione sant’Agostino (nativo della parte algerina dell’antica Numidia), che ha visto (nel 1861) la prima costituzione nordafricana, che addirittura ha dato il suo nome all’intero continente (Africa, dalla locale tribù berbera degli Afri, era la denominazione della prima provincia creata dai Romani su questa sponda del Mediterraneo).
Da Nord a Sud, sono decine i siti piccoli e grandi che hanno da offrire imprevedibili meraviglie. Come Oudhna, a pochi chilometri da Tunisi, dove un archeologo paziente e appassionato che di nome fa Habib Ben Hassen sta recuperando le imponenti vestigia di Uthina: anfiteatro, terme, Capitolium , domus lussuose. Impressionanti testimonianze del fecondo incontro tra elementi locali e conquistatori romani.
«Solo Cartagine fu distrutta, tutte le altre città ebbero un grande sviluppo», osserva Mustapha Kanoussi, che per 15 anni è stato il conservatore di Dougga, l’antica Thugga, il secondo sito più importante del Paese: una città fondata dai Numidi nell’VIII secolo a.C., citata nel IV da Diodoro Siculo come una polis bella e grande, passata sotto il dominio dell’Urbe nel 46 a.C., per diventare il vero centro del granaio di Roma. Un teatro molto ben conservato, ninfei, archi di trionfo, templi, domus : qui tutto parla della pacifica coesistenza e a volte della fusione tra antichi abitanti e nuovi venuti. In particolare è significativa l’area del Capitolium : «Un riassunto della storia di Dougga, anzi di tutta la Tunisia», dice Kanoussi. Da un lato c’è il foro, che era chiuso in fondo dal tempio di Mercurio, fatto costruire dal colono latino Quintus Pacuvius Saturus e dalla moglie berbera Nahania Victoria; dall’altro lato l’antica agorà dei Numidi, in cui il monumento consacrato al re Massinissa nel 139 a.C. è stato conservato dai Romani che vi eressero di fronte il tempio dedicato a Tiberio. Da solo, questo sito vale il viaggio.
Ma la cultura, per ora, non porta molti turisti: «Tra i 60 e gli 80 mila ogni anno», sospira Kanoussi, «pochi rispetto al valore archeologico di Dougga. Si capisce, dista due ore e mezza di auto da Tunisi, tre ore da Hammamet...». Ancora peggio va a Oudhna, nonostante sia più accessibile, e sebbene qui siano venuti a girare alcune scene di Assassinio in Mesopotamia , dal giallo di Agatha Christie, e un film su san Pietro con Omar Sharif: «Visitatori? Mica tanti», borbotta Ben Hassen. Il problema, come dice Ghalia, il conservatore del Bardo, è che «oggi il turismo culturale è un sottoprodotto di quello balneare». Una situazione che fin dal ’97 la Banca Mondiale aveva sollecitato a ribaltare. Adesso il nuovo governo si sta dando da fare. Mehdi Houas, il dinamico ministro del Turismo, è un manager che ha sempre lavorato all’estero, con studi anche al Politecnico di Torino. Ha le idee chiare: «Ben Ali aveva investito sulla costa, ma il nostro patrimonio culturale è nell’interno. È qui la vera Tunisia, quella che vogliamo far conoscere al mondo e sulla quale puntiamo per accrescere il numero dei visitatori. L’anno scorso sono stati 7 milioni, il mio obiettivo è arrivare a 10». Per questo occorre creare un circuito, migliorare la rete stradale e le altre infrastrutture, sensibilizzare i tour operator, inventare sinergie. «Per esempio, ai turisti che visitano il Colosseo a Roma si potrebbe proporre un ponte aereo con il nostro “Colosseo” di El Djem, una replica meglio conservata: sono 45 minuti di volo, si può andare e tornare in giornata».
Poi, naturalmente, c’è il discorso della tutela, dopo i guasti del regime. «Non basta conservare il singolo monumento», spiega Beschauoch, il ministro della Cultura, «adesso bisogna prestare attenzione anche all’ambiente che sta intorno al monumento». In Tunisia la cricca di Ben Ali aveva sottratto decine di oggetti dal Bardo per farne graziosi cadeaux , addirittura aveva declassato 16 ettari dell’area archeologica di Cartagine, patrimonio Unesco, per renderla edificabile e venderla a 1000 dinari (poco più di 500 euro) il metro quadro agli amici degli amici. Su 12 di quegli ettari il nuovo governo è riuscire a bloccare le ruspe, nei quattro che si era riservato Ben Ali sono già stati ultimati 85 appartamenti con vista prestigiosa sulle rovine, costruiti in una corsa contro il tempo, prima che qualcosa (hai visto mai, una rivoluzione...) li bloccasse. E adesso? «Abbattere queste case è inutile, perché ormai quel che c’era sotto è stato distrutto. E manca il denaro. Per il nuovo museo di Cartagine servono 15 milioni di euro, non sappiamo dove trovarli». Qualcuno, tra i giornalisti italiani, suggerisce di fare come da noi: un bel condono, duecentomila euro a testa e saltano fuori i soldi per il museo. Beschaouch sorride, non ci aveva mai pensato, si interessa: «Perché no, perché no... È un’idea».

il Fatto Saturno 14.10.11
Milano Fotografia
E Tina Modotti? Fa la modella
di Grazia Lissi


ANNUNCIATA, attesa: è l’America che si interroga. Dopo Boston, la mostra Conversations – Fotografie della Bank of America Merrill Lynch Collection – arriva a Milano nell’edizione italiana curata da Silvia Paoli, al Museo del Novecento. 80 immagini, 80 artisti, per un confronto su un paese e su un linguaggio che cambia, la fotografia. Due secoli, XIX e XX, per raccontare un viaggio, anche in camera oscura e nei laboratori di stampe a colori, alla ricerca della definizione. Da Julia Margaret Cameron con Mary Emily “May” Prinsep – uno splendido ritratto del 1860 stampato all’albumina – fino ai cibachrome degli anni Ottanta e Novanta: oggi, nell’era digitale, sono un ricordo lontano. Il percorso espositivo è diviso in nove sezioni: Paesaggio, Uno sguardo sull’arte, Ritratto, Astrazione-Sperimentazione, Viaggio, Società, Paesaggio industriale, Surrealismo, Astrattismo-Natura morta. Ogni immagine ha una sua storia e non sempre è collegata alla successiva. Un campo arato del Midwest, foto scattata da Art Sinsabaugh nel 1961, incontra la Berlino in costruzione del 1996 di Stephane Couturier, o la Chicago notturna del 1960 di Vera Lutter. La fotografia si confronta con l’arte, ecco l’ironia di Thomas Struth in Pubblico 4 – foto scattata agli Uffizi nel 1954 – ma ci sono anche immagini sperimentali come quella di Ruff – d.p.b. 08 – del 2000. Le foto più importanti restano quelle sociali: grandi reportage sono rappresentati con un’unica foto, spesso indimenticabile, come la ragazzina dell’Oklahoma, uno scatto di Dorothea Lange del 1936 per documentare la Grande Depressione, mentre nella Chicago di Harry Callahan i passanti si incontrano e non si vedono: è il 1960. Tram – immagine di Robert Frank scattata in Luisiana nel 1955 – sembra un polittico in bianco e nero, a ogni finestrino si affaccia un volto. Lo sguardo di Winogrand sulle persone confuse fra la folla appare in Esposizione Universale, scattata a New York City nel 1964: sedute su una panchina un gruppo di ragazze di diverse età a rappresentare l’universo femminile americano. Bella la sezione dei Ritratti, tutti famosissimi, da quelli composti e freddi del XIX secolo a quelli intensi e più psicologici del XX, Nancy Cunard, immortalata da Man Ray nel 1925 e la timida Dorothy Norman di Alfred Steiglitz del 1932, fino all’immancabile autoritratto di Cindy Sherman del 1979. Una curiosità: la fotografa Tina Modotti appare solamente come modella in un’immagine di Edmund Weston, è una foto scattata a luce naturale in Messico nel 1924. Ma di una delle più grandi fotografe del secolo passato avremmo voluto vedere anche qualcosa di suo.
Conversations, Milano, Museo del Novecento, fino al 15 gennaio 2012; www.museodelnovecento.org  

il Riformista Lettere 14.10
Indignados radicali

La buona notizia l’ha data Marco Pannella ai microfoni di Radio Radicale: nasceranno in tutta Italia dei comitati per candidare Emma Bonino alla Presidenza del Consiglio. La cattiva notizia è che... non se ne darà notizia, se non in un pezzettino di carta di giornale. A meno che gli “indignados” Radicali non digiunino a oltranza, non si incatenino alle porte di Palazzo Chigi, non circolino per il Paese vestiti da fantasmi con il bavaglio: non inscenino cioè quella estrema, colorata, radicale lotta nonviolenta che, in uno scenario bipartisan sempre più violento e anaffettivo, si sa, non paga e non fa prendere voti. Ma che, almeno, è un respiro di vera rivolta.
Paolo Izzo

giovedì 13 ottobre 2011

il Fatto 13.10.11
Ancora soldi al Vaticano
Con la legge di stabilità che sarà varata oggi il governo rifinanzia scuole private e autotrasporto
di Giorgio Meletti


 Per le scuole private ci sono 242 milioni di euro. Poi 20 milioni, meglio di niente, per le Università non statali legalmente riconosciute.Per l’autotrasporto 400 milioni. Le rispettive lobby (Vaticano nel primo caso, Confcommercio a nome degli altri nel secondo) festeggiano. La legge di stabilità che questa mattina va all’approvazione del Consiglio dei ministri rispetta alcuni debiti d’onore, con il governo impegnato, nonostante il convulso clima politico, a pagare alcune cambiali irrevocabili. I contenuti del disegno di legge sono stati in parte anticipati in serata dall’agenzia Ansa, verosimilmente ispirata dai ministri competenti ansiosi di cantare vittoria, Maria Stella Gelmini dell’Istruzione per le scuole private e Altero Matteoli per i Trasporti. Complessivamente si parla di un’allocazione di risorse per 4.183 milioni di euro, a cui corrisponderanno tagli di spesa di eguale misura, le cui vittime saranno scoperte nei prossimi giorni. Il provvedimento, quello che una volta era la Finanziaria, è snello, di appena 9 articoli, dei quali il primo sul saldo netto da finanziare e l’ultimo sull'entrata in vigore.
 NEL DOCUMENTO si fa riferimento alle due manovre estive, e per questo con la legge di Stabilità non ci sono “effetti correttivi sui saldi di finanza pubblica”, si legge nella Relazione Illustrativa. La politica del Tesoro non cambia: “L'azione del governo non può che essere rigorosamente vincolata al mantenimento della stabilità dei conti pubblici”, si legge nella bozza. Tra gli impegni di spesa contenuti nelle bozze anticipate dall’Ansa c’è un miliardo di euro per rifinanziare gli ammortizzatori sociali nel 2012. Le risorse sono però destinate solo alla cassa integrazione “in deroga”, quella per chi non ne avrebbe diritto stando alla legislazione vigente: ma si tratta proprio delle categorie che in questo momento ne hanno più bisogno.
 Le missioni militari internazionali vengono rifinanziate per 700 milioni di euro. Viene prorogato per il 2012 il cosiddetto “bonus produttività”, la tassazione agevolata al 10 per cento per premi, lavoro straordinario e lavoro notturno. La regola vale solo per i redditi fino a 40 mila euro. Viene confermata la dotazione di 400 milioni per il 5 per mille, la parte di tasse che ciascun contribuente può devolvere in favore delle onlus.
 Confermato il pugno di ferro sulle spese dei ministeri. Per chi non raggiunge “gli obiettivi” di riduzione della spesa è prevista “una riduzione lineare delle dotazioni finanziarie delle missioni e dei programmi di spesa di ciascun ministero interessato”. Aumenta la cosiddetta flessibilità gestionale della spesa, cioè la possibilità di spostare i fondi da un capitolo di spesa all’altro: “Le rimodulazioni potranno riguardare anche le spese classificate tra quelle non rimodulabili”.
 La Gelmini può cantare vittoria anche per l’Università, che otterrebbe secondo la bozza 150 milioni per il diritto allo studio e 400 milioni per aumentare il fondo ordinario di funzionamento dell’Università.
 DELUSIONE per il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani: il fondo aggiuntivo di 1,6 miliardi di euro proveniente dall’asta per le frequenze messe in vendita alle società telefoniche non andrà allo sviluppo della banda larga, ma verrà interamente incamerato per altri scopi: precisamente andrà per metà al fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (cioè alla riduzione del debito pubblico) e l’altra metà a un fondo con diverse finanzlità, tra le quali aiuti all’istruzione e nuove risorse per eventi internazionali.
 La relazione tecnica, stando alle bozze, giudica imprescindibile la destinazione di “risorse aggiuntive” ai fondi Fas, quelli per il sostegno allo sviluppo del Mezziogiorno, ma chiarisce che tutto ciò sarà possibile solo a partire dal 2015.

Repubblica 13.10.11
La Finanziaria redistribuisce 4,8 miliardi a vari settori. Si profila una nuova stretta sui ministeri inadempienti
Soldi a scuole private e missioni scippati 800 milioni alla banda larga
di Roberto Pietrini


ROMA - Nel caos provocato dalla bocciatura del Rendiconto generale dello Stato (che oggi sarà ripresentato ), si fa largo la legge di Stabilità (la ex Finanziaria) la cui approvazione è prevista nella riunione odierna del governo. Un testo striminzito, a saldo zero, di soli nove articoli, ma ampiamente anticipato dalla doppia manovra triennale d´estate dal valore di 59 miliardi.
La «Finanziaria», in attesa del prossimo decreto «sviluppo» (oggi ci sarà un primo esame), è bastata tuttavia per far emergere un nuovo braccio di ferro nel governo per la destinazione degli 800 milioni provenienti dall´asta delle frequenze 4G: le risorse erano destinate, dalla Finanziaria per quest´anno, alla banda larga e così ha chiesto fino all´ultimo il ministro per lo Sviluppo Romani, ma il Tesoro ha vinto la partita e i fondi sono stati ridistribuiti per far fronte alle necessità più urgenti dei vari ministeri e in parte (800 milioni) andranno all´ammortamento dei titoli di Stato. «Le promesse sulla banda larga non sono state mantenute», ha osservato il Pd Gentiloni.
Raschiando il barile la nuova legge di Stabilità è riuscita a recuperare 4,8 miliardi per finanziare una serie di interventi urgenti e non, facendo conto anche su un taglio del Fondo speciale di Palazzo Chigi. Tra le voci più significative ci sono i fondi per scuole private (262 milioni più 20 per gli atenei privati) e le università pubbliche (400 milioni); la copertura per 400 milioni del 5 per mille; la proroga al primo semestre 2012 delle missioni internazionali per 700 milioni mentre 36,4 milioni vanno alle assunzioni per Forze armate e Polizia. Risorse per 400 milioni sono state recuperate anche per il settore dell´autotrasporto. Da segnalare il «pacchetto lavoro»: prorogati al 2012 gli sgravi per i salari di produttività (400 milioni) dei lavoratori con un tetto di 40 mila euro di remunerazione e arriva un miliardo per gli ammortizzatori in deroga per il 2011.
Su alcune disposizioni sarà battaglia fino all´ultima ora. E´ il caso del taglio ai ministeri che, stabiliti con il decreto del 23 settembre, ora devono essere recepiti nelle tabelle della legge di Stabilità: sono ancora in corso serrate trattative tra i tecnici dei diversi dicasteri e la Ragioneria. Per ora si profila un parziale allentamento della gestione della spesa da parte dei ministri che avranno maggiore flessibilità interna: una misura accompagnata tuttavia dalla minaccia di «ulteriori correttivi» per i dicasteri che «non hanno raggiunto gli obiettivi» stabiliti dalle manovre d´agosto.

Corriere della Sera 13.10.11
La legge che regola la fecondazione assistita è in contrasto con le regole della medicina e del buonsenso
Ricerca scientifica e paradossi italiani
di Giuseppe Remuzzi

qui
http://www.scribd.com/doc/68590231/Corriere-Della-Sera-13-10-11-p45

Repubblica 13.10.11
"Politici come francescani" a Todi l´offensiva dei cattolici punta tutto sui nuovi moderati
"Serve un De Gasperi". Attesa per Bagnasco
Il direttore di Avvenire Tarquinio e "l´insignificanza dei cattolici nel centrosinistra"
Forlani: "La Dc? Non cerchiamo di tornare alla prima Repubblica, ma di uscire da questa"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il quotidiano Avvenire definisce i contorni del nuovo soggetto cattolico, frutto della crisi totale della politica. È un passaggio che fa una certa chiarezza alla vigilia del seminario di Todi (lunedì) convocato dal forum delle associazioni cattoliche, nucleo di una nuova unità dei cattolici davanti ai problemi della società. Il direttore del quotidiano dei vescovi Marco Tarquinio boccia Pdl e Pd e individua le poche novità della politica fuori dai blocchi contrapposti: «Terzo polo, la vecchia-nuova sinistra di Sel, i movimenti antipolitici dei grillini e le forze associative cattoliche e non solo». La sua è una risposta nella rubrica della lettere al deputato del Pd Giorgio Merlo. Merlo prova a difendere le buone ragioni democratiche per intercettare il malcontento dei credenti verso la classe dirigente. Ma la risposta di Tarquinio è un boomerang per il malcapitato Merlo: «Lei la chiama marginalità quella dei cattolici nel centrosinistra, io l´ho chiamata insignificanza».
Sul Pdl e su Berlusconi si sono già abbattuti con nettezza gli strali del presidente della Cei Angelo Bagnasco. Una scomunica clamorosa quanto attesa, quasi ineluttabile. Ma non è dall´altra parte che lo scontento della Chiesa sembra rivolgersi. È evidente che un segnale le gerarchie se lo aspettano dal fronte moderato per quella che tutti vedono come una riedizione della Balena bianca con i protagonisti che respingono sdegnati il riferimento al passato. «Niente nostalgie», scrive Tarquinio. «Semmai noi cerchiamo una via d´uscita dalla Seconda repubblica, non la porta per tornare alla Prima», spiega Natale Forlani, che del Forum è portavoce, animatore e del seminario di Todi è il principale organizzatore.
Quell´appuntamento sarà aperto da Bagnasco in persona con una prolusione che molti prevedono «impegnativa» sul piano delle scelte future. «Il cardinale ha accettato il nostro invito e ne siamo lietissimi. Ma l´obiettivo è sollecitare i laici a darsi da fare». Il titolo del meeting è la "La buona politica per il bene comune. I cattolici protagonisti della politica italiana». Gli ospiti sono i leader delle associazione che hanno formato il Forum: Acli, Movimento cristiano lavoratori, Compagnia delle Opere, Cisl, Concooperative, Coldiretti, Confartigianato. Come si vede c´è la spina dorsale sociale ed economica che ha sostenuto per 50 anni la Democrazia cristiana. Tra i relatori l´amministratore delegato di IntesaSanPaolo Corrado Passera, il Rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi, il sociologo Giuseppe De Rita, l´economista Stefano Zamagni e il segretario della Cisl Raffaele Bonanni. Presente anche monsignor Paglia, che celebrerà la messa. In sala ci sarà Andrea Riccardi, fondatore di Sant´Egidio su cui sono puntati i riflettori per una futuribile leadership di questa ritrovata unità dei cattolici. Ma Forlani smentisce: «Non pensiamo ad alcuna gerarchia leaderistica. Siamo ai primi passi di un percorso, creiamo un pensatoio. Ma la grande novità è essere riusciti mettere insieme associazioni che negli ultimi anni si sono mosse in ordine sparso». Il giudizio sull´attuale classe dirigente è pessimo, praticamente demolitorio. «Il rinnovamento della politica è necessario. Quale degli attori in campo oggi è in grado di raccogliere i 500 miliardi che servono per uscire dalla crisi?». Nessuno, è la risposta del portavoce del Forum. Forlani pensa a una catarsi assoluta, «al ritorno a una politica del dovere». Che è ben sintetizzata in un´immagine lontana dall´esperienza del quindicennio appena trascorso. «In un nuovo modello di sviluppo - dice il leader delle associazioni - i politici devono essere dei francescani, devono dare l´esempio. Penso ad Alcide De Gasperi, che si rivoltava il cappotto logoro quando partecipava ai vertici internazionali».

Repubblica 13.10.11
Renzi: "Bersani leader? Devono dirlo le primarie"

ROMA - «Bersani leader del Pd? Lo diranno le primarie». A dichiararlo ieri è stato Matteo Renzi. «Il Pd deve consentire a dirigenti, militanti, simpatizzanti di scegliere un candidato». Per il sindaco di Firenze le primarie «devono essere aperte, si potrà votare Bersani o Vendola o una ragazza di trent´anni».

il Fatto 13.10.11
Veleni
Al Manifesto vince lo scontro interno


Nelle dimissioni di Norma Rangeri e Angelo Mastrandrea dalla direzione del manifesto non c’è solo la rassegnata ammissione che “recuperare lettori (...) si è rivelata una missione impossibile”. Ma anche la denuncia a suo modo coraggiosa che per minare la vita dei giornali, soprattutto se militanti, può essere decisivo il fattore umano. E così, nel lungo editoriale di commiato pubblicato ieri, i due direttori descrivono “un gruppo di lavoro ridotto a molte individualità di valore, ma sfiduciato, stanco”. Nel quale “il collettivo”, cioè l’assemblea dei lavoratori giornalisti e non, ha bocciato la proposta di esntare dalla cassa integrazione a rotazione “alcune funzioni basilari (la direzione, i capiredattori e altri ruoli chiave)”.
Si racconta anche “la scelta dell’assemblea, punitiva nei confronti di molti compagni storici del giornale, incentivati alla pensione per alleggerire le nostre casse e, contemporaneamente, considerati come un impedimento al rinnovamento generazionale”. Questa frattura, “molto grave in un collettivo già provato”, si aggiunge all’eterno scontro assembleare sulla linea politica del giornale, sul quale “troppi articoli sono scritti in un linguaggio per pochi”. Marxianamente parlando, non è solo questione di soldi.

La Stampa 13.10.11
Intervista a Franco «Bifo» Berardi
L’ex leader del ’77: “Attenti, rischiamo un’altra Genova”
di Franco Giubilei


BOLOGNA. Franco «Bifo» Berardi Professore alle superiori, noto «agitatore culturale» è stato uno dei leader del ‘77 bolognese

Franco Berardi detto Bifo, agitatore e leader del movimento bolognese del Settantasette, commenta così le cariche di ieri e dipinge una situazione allarmante in vista della manifestazione di sabato a Roma: «Non vorrei che Roma fosse la ripetizione di Genova. Lì può capitare veramente di tutto».
Pessima prospettiva, e perché potrebbe degenerare così malamente?
«Nessuno sta dando organizzazione all’appuntamento di sabato è il contrario di quanto accadde a Genova col Social Forum, che invece aveva in mano la situazione. In più si prevede un grande afflusso di gente. La voce prevalente che si sente è di non accettare lo scontro, ma comunque di non tornarsene a casa».
C’è un precedente preoccupante, i disordini di del 14 dicembre.
«Neanche in quel caso nessuno lo aveva deciso, i disobbedienti facevano i pompieri e gli antagonisti come quelli di Askatasuna a quanto so non avevano preparato niente. La realtà è che la polizia si è trovata di fronte dei ragazzini».
Ma che cosa rende pericolosa la nuova protesta?
«Ai tempi di Cossiga il sistema reprimeva ma rilanciava la crescita, il capitale aveva una strategia, oggi siamo all’agonia della capacità di governo del capitalismo, qui sta crollando tutto».
Vede delle analogie con quanto successe nel Settantasette, quando le manifestazioni si incendiarono in tutta Italia?
«Io scontri come quelli di Roma li ho visti solo nel ’77, come allora c’è un’anti-istituzionalità radicale e come allora i soggetti della protesta erano gli studenti precari».
E le differenze? Sono passati trentaquattro anni…
«Negli anni Settanta c’era la percezione di un avversario consapevole, che doveva reprimere e poi ricominciare, c’era un antagonista, lo Stato, padrone di sé, che aveva in mente la riconversione e la ripresa del controllo delle fabbriche, sullo sfondo della rivoluzione tecnologica imminente. Oggi invece non c’è nessuna idea di come se ne esce. Essendo un cocciuto marxista, posso dire che non siamo mai stati così vicini al comunismo…».
E come promuovono la loro azione gli attuali protagonisti?
«Più che coi blog, ormai superati, comunicano attraverso i social network (il solito Facebook, Twitter etc, ndr), e grazie ad ambienti virtuali, siti come Edufactory, Scepsi, Kafca».
Cosa si augura per la manifestazione di sabato?
«Che non ci siano scontri, ma la campada, gli accampamenti che hanno occupato le piazze in Spagna».

Repubblica 13.10.11
I tecnici prevedono un grande afflusso di persone. E il dibattito sulla fiducia alla Camera rischia di far salire la tensione
"Saranno tantissimi", capitale blindata per l´I-Day
Il Viminale teme la mancanza di servizio d´ordine. Zona rossa intorno ai Palazzi del potere
di Carlo Bonini


ROMA - Chini come aruspici sugli umori di una piazza che ha perso ormai da tempo ogni riferimento tradizionale, per sua scelta priva di leader e dunque «orizzontale», che ripropone sul marciapiede quel che è nella vita di ogni giorno (invisibile, atomizzata, precaria), gli addetti alla sicurezza del Viminale preparano l´I-day attingendo a un format che abbiamo imparato a conoscere. L´»isolamento». Sabato, la Roma dei Palazzi, il quadrilatero del Potere verrà fisicamente separato e reso inaccessibile agli indignati, alla generazione dei "Draghi" cui è stato rubato il futuro. Quel che è possibile a Wall Street e nella City di Londra - l´occupazione simbolica dello spazio - non lo sarà a Roma. E poco importa se le zone di "esclusione" o di "rispetto" avranno un colore (il rosso) o meno.
In un assedio alla rovescia (di cui ieri pomeriggio si è avuta una prova generale nel pesante dispositivo di ordine pubblico che ha isolato Palazzo Koch, utilizzando anche il "filtraggio" dei passanti) che marca un ulteriore grado di separazione, anche simbolica, uomini (si parla di oltre 2000) e mezzi di Polizia e carabinieri presidieranno i varchi urbani che danno accesso a Palazzo Chigi, a Montecitorio, al Senato, alla residenza privata del Presidente del Consiglio. Fisseranno in Largo Ricci (il punto in cui il corteo prenderà la via di san Giovanni, allontanandosi dal centro storico) la linea invalicabile tra le due città. Quella libera e quella proibita. Nella convinzione (nonostante l´esperienza spesso e volentieri abbia dimostrato l´esatto contrario) che la «separatezza» sia la chiave per evitare o eccitare il contatto.
Nella scelta - per quanto riferiscono in queste ore fonti qualificate del Dipartimento di Pubblica sicurezza - pesano i numeri della piazza, che si annunciano importanti (di gran lunga superiori ai 150 mila, con una grande partecipazione soprattutto dal Nord), la constatazione che il corteo non avrà un suo servizio d´ordine (almeno nel senso classico del termine), perché così vuole la natura del movimento. E dunque - come è ormai chiaro anche da quanto accaduto ieri a Bologna - la convinzione che ciascun blocco sociale e geografico presente alla manifestazione deciderà, «assumendosene la responsabilità», come stare in piazza. Che, insomma, nessuno può ragionevolmente prevedere (al netto del liso canovaccio di allarmi di intelligence e delle provocazioni che normalmente segnano la vigilia di appuntamenti di questo genere), se e quanto peserà la componente di "riot", di rivolta esistenziale, prima ancora che sociale, che attraversa il movimento. E di cui il 14 dicembre 2010 e la rivolta no-tav in val di Susa sono stati dei test.
Ma soprattutto, nella scelta del Viminale pesa la consapevolezza che gli umori di chi sfilerà sabato nelle strade di Roma sono appesi anche e soprattutto a quanto accadrà a Montecitorio da oggi a venerdì. Per una cabala che nessuno poteva prevedere e che per giunta ripropone come un calco il contesto politico del 14 dicembre del 2010, l´I-day arriva infatti a ridosso di un passaggio parlamentare cruciale per la sopravvivenza del Governo. E, per dirla con le parole di un alto dirigente di Polizia, «lo spettacolo che offrirà la politica nelle prossime ore potrà trasformare sabato in un giorno di festa liberatoria o raddoppiare l´indignazione».

l’Unità 13.10.11
Fiera del libro
Al padiglione italiano editori contro il decreto anti-intercettazioni
A Francoforte domina la polemica antibavaglio
di Maria Serena Palieri


A proposito di libertà di opinione, le norme sulle intercettazioni, pensate per bloccare diffusioni più o meno lecite sulla stampa quotidiana e periodica, online e offline, hanno sui libri effetti ancora più assurdi. Per questo siamo a fianco dei nostri colleghi dell’editoria quotidiana e periodica nell’esprimere la preoccupazione per le norme attualmente in discussione». Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana degli Editori, sceglie lo sfondo internazionale della LXIII Buchmesse per schierare l’Aie contro il decreto intercettazioni. Lanciato alla vigilia della Fiera da un trio Gems, Laterza, minimumfax cui man mano si sono aggiunti altri editori (tra loro «a titolo personale» Ernesto Franco, direttore editoriale di Einaudi), l’appello contro la legge-bavaglio ha incassato quindi un sostegno di sostanza. Anche in nome dell’assurdità di una rettifica immediata, impossibile da sostenersi per chi fabbrica libri e non giornali.
All’inaugurazione del padiglione italiano, presente il sottosegretario ai Beni culturali Riccardo Villari, il tema intercettazioni diventa dominante. Allo stand di Chiarelettere i libri sono ornati da post-it con la scritta «No alla legge bavaglio». Con la polemica antintercettazioni concorda Stefano Mauri, ad di Gems, che spiega al sottosegretario: «Il problema di questo decreto per noi editori non è solo politico. È pratico: andrebbe a finire che dovremmo rettificare nell’immediato qualunque refuso, da un’eta sbagliata attribuita, da un autore di un nostro libro, a Raffaella Carrà, al nome non corretto del sindaco di un qualunque paesello». Accanto a lui Ricky Cavallero, direttore di Mondadori, sorride.
Polillo, da Francoforte, ha polemizzato anche su altri piani. Ricordato che l’industria italiana è al 7-8 ̊ posto nel mondo e al 4-5 ̊ in Europa, ha rintuzzato le accuse di chi dice che è «sovvenzionata» («semmai siamo noi privati a finanziare dei progetti del Centro per il Libro»); che i prezzi dei nostri libri siano maggiori di quelli di altri Paesi; e che la legge Levi ammazzi il libero mercato. 
A riprova, ecco uno dei dati dell’annuale Rapporto sull’Editoria, basato sull’indagine NielsenBookScan. Il mese di maggior sofferenza, per le vendite, nel 2011 è stato agosto, con un calo rispetto ad agosto 2010 del 7,6%. E agosto è stato il mese in cui chiunque pensasse di goderne vantaggi si è buttato su un’ultima campagna di supersconti, in attesa che il primo settembre entrasse in vigore la legge che disciplina gli sconti. Ora, per capire se la legge Levi aiuti o deprima il mercato, bisognerà aspettare l’anno prossimo, coi risultati di quest’ultimo quadrimestre. Per il resto, l’editoria italiana, com’è ormai uso dire, regge più di altri settori: il 2010 si è chiuso con un segno più, pure se flebile: +0,3% di fatturato. per un totale di 3.417 milioni di euro.
La salvezza passa per l’ebook? Le vendite, seppure in crescita, sono ancora in termini di 0,04% del mercato complessivo. Lamenta Polillo: a fronte degli investimenti che gli editori hanno fatto nel campo (il 20% delle novità ora esce anche in digitale), si sconta l’Iva tuttora al 21%: l’ebook è tassato non come «contenuto» (il libro) ma come «contenitore» (come una tv, un lettore di dvd, un Mp3...). Questo, sottolinea Polillo, «nell’indifferenza del nostro governo» rispetto alla discussione che sta avvenendo nell’Unione Europea.
Cresce, con quei dati però sempre titubanti, il numero di italiani che leggono: sono 26,4milioni (+ 1,7 punti percentuali sul 2009), quelli che nel 2010 hanno letto «un» libro. Cresce il peso dei tascabili: oggi costituiscono il 20,3% del mercato trade. E cresce il ruolo della piccola editoria: 13,5% del fatturato dei canali trade. Diminuisce del 2,8% il peso della libreria a conduzione familiare mentre sale del 2,9% quello delle librerie di catena. Quanto al numero di titoli offerto dagli editori, diminuiscono anche nel 2010: calano titoli (a quota 57mila), novità (122milioni) e copie (208milioni).

Repubblica 13.10.11
A Francoforte l'allarme dell'Aie: "La politica non si preoccupa della nostra situazione"
Gli editori: vendite in calo ma nessuno ci sostiene


Cavallero (Mondadori) e l´appello contro la legge bavaglio: "Sotto la mia direzione non si firmerà ma non sono in disaccordo con gli altri" Che hanno promosso l´iniziativa

FRANCOFORTE. Una voce circola tra gli stand degli editori italiani alla Fiera del Libro di Francoforte. Gli ultimi mesi dell´anno sono stati un disastro per il libro. Le librerie sono vuote. Gli sconti non hanno portato ossigeno al mercato. E nemmeno l´ebook, che rappresenta ancora lo 0,04 per cento del fatturato, ha compensato la forte flessione del mercato librario. Ma Marco Polillo, presidente dell´Associazione degli Editori, ha assicurato che i dati dell´editoria, sebbene non rosei, non sono drammatici. "E´ ora di fare chiarezza: sembra che il nostro sia un mercato finito, autoreferenziale, con l´ebook che affonda il libro cartaceo, ma le cose non stanno così e le cifre lo dimostrano", ha detto alla tradizionale conferenza stampa dell´AIE alla Buchmesse. Nel 2010 è tornato un modesto segno "più". Per un fatturato di 3,417 milioni di euro a prezzo di copertina. Nei primi mesi del 2011 il modesto trend di ripresa ha però subito una frenata, che ha segnato un vero e proprio crollo in agosto (- 8 per cento).
Un segnale allarmante che molti editori presenti a Francoforte confermano, ad eccezione di Gianluca Foglia ("la Feltrinelli cresce, non c´è stato nessun rallentamento"). "Guardiamo quanto vende un bestseller oggi e quanto vendeva un anno fa si vedrà che i numeri sono quasi dimezzati" spiegano da minimum fax. Oppure, come dice Francesco Colombo di Dalai, bisogna tener conto i che i bestseller oggi sono soprattutto libri da 9 euro.
Polillo ha difeso gli editori da una serie di accuse. Non è vero che il libro in Italia sia troppo caro, anzi "è il più economico in Europa", e lo stesso vale per l´ebook, che costa in media meno che negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Francia. Non è vero che gli editori si arricchiscano vietando gli sconti. Non è vero infine che l´editoria è assistita, lo Stato "non dà un euro di aiuto, ora che sono state abolite le agevolazioni sulle tariffe postali e spedire un pacco di quattro libri all´estero costa 50 euro", molto per un settore il cui fatturato complessivo è intorno ai 3,4 miliardi di euro (i tedeschi, tanto per fare un paragone, hanno comprato nel 2010 quasi 10 miliardi di euro di libri).
In più - con la chiusura dell´ICE (l´Istituto per il commercio estero) - l´anno prossimo non ci sarà nemmeno lo stand Punto Italia: come faranno gli editori a pagarsi la carissima partecipazione alla Buchmesse? Il disinteresse del governo è totale, ha detto Polillo: "La Fiera di New York è stata inaugurata da me e dal console, non c´era un solo politico italiano". Sono anni che anche a Francoforte non si vede un ministro. Quest´anno è venuto il sottosgretario ai Beni culturali Riccardo Villari, che ha fatto un po´ di generiche promesse dopo aver detto qualche frase retorica: "la cultura è il nostro petrolio" o "i libri mi affascinano".
Gli editori si difendono perché il mercato internazionale tira: Dalai ha venduto Così in terra, romanzo di esordio del palermitano Davide Enia, in otto Paesi, tra cui gli Stati Uniti. Il romanzo racconta cinquant´anni di storia italiana dai bombardamenti di Palermo nel ´42 alle bombe del ´92. Ma anche su questo fronte ci sono segnali preoccupanti. Le case editrici tedesche cominciano a voltare le spalle all´Italia, spiega una agente. "O si tratta di nomi famosissimi oppure il declino italiano ha un riflesso anche sui libri, e gli editori pensano che i lettori siano meno interessati alle cose italiane".
Al margine dell´appuntamento dell´Aie, Riccardo Cavallero, direttore generale libri trade Mondadori e ad di Einaudi, definisce la posizione dell´azienda sull´appello contro la legge bavaglio, nel frattempo sottoscritto "a livello personale" da mezzo stato maggiore di via Biancamano, dal presidente onorario Cerati ai direttori di Stile libero Severino Cesari e Paolo Repetti, all´editor della narrativa italiana Paola Gallo: «Sotto la mia direzione le case editrici non firmeranno appelli di nessun tipo ma non sono in disaccordo con gli altri editori. Del resto la Mondadori fa parte dell´Aie, e sull´argomento l´Aie si è espressa nella relazione di Polillo».

Corriere della Sera 13.10.11
Crisi di vendite per la grande storia
È finita la generazione dei Le Goff
di Dino Messina

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http://www.scribd.com/doc/68590231/Corriere-Della-Sera-13-10-11-p45


Repubblica 13.10.11
La diseguaglianza insopportabile
di Nadia Urbinati


CHE cosa vogliono le migliaia di cittadini che da quasi un mese manifestano davanti a Wall Street sollevando un´ondata di protesta che interessa ormai le maggiori città americane?
Come leggere questo movimento variegato che non ha leadership, non ha scopi definiti, non si lascia facilmente rubricare da un´etichetta di partito? Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni importanti sindacati; ma non è per nulla inquadrabile in un´organizzazione gerarchica e poco inclusiva come il sindacato. Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni esponenti democratici di prestigio (e la buona menzione del presidente Obama); ma è critico nei confronti di un partito che non ha dimostrato coraggio di fronte ai repubblicani e attenzione all´impoverimento della società americana. Ma, nonostante questi distinguo rispetto alla politica organizzata, i cittadini che manifestano non sono "mob", non sono una massa arrabbiata di americani invidiosi dei loro pochi ricchi concittadini, come gridano i repubblicani di "FoxNews". E non sono neppure una pericolosa espressione di populismo anarchico, teste calde che vogliono, ancora secondo le accuse repubblicane, dividere l´America con la lotta di classe.
In effetti la stessa espressione "populismo" è poco adatta a rappresentare questo nuovo movimento di protesta, che per la radicalità ma anche ragionevolezza degli slogan e dei messaggi assomiglia al movimento per i diritti civili degli anni ´60, quello che ha manifestato contro la guerra in Vietnam, contro la discriminazione razziale e di genere. In quelle lotte vi era il futuro. L´America di oggi è figlia di quel movimento giovanile. Sarà anche questa volta così? Per molti intellettuali e per alcuni commentatori televisivi potrebbe essere così. E quindi, l´espressione populismo (di per sé una categoria fumosa e difficile da tradurre in un concetto chiaro) è ancora meno adatta.
Populista è certamente il movimento del Tea Party, una congerie di molte delle categorie tradizionalmente associabili a questo tipo di movimento, per esempio: anti-intellettualismo o attacco ai "sapientoni" (per dirla con il Senatore Bossi) perché criticano e non si identificano con le opinioni popolari, istintive e radicali; e anti-governo o attacco alle politiche sociali che creano grossa burocrazia e mettono in moto più Stato e quindi un surplus di controllo della sfera economica. Il Tea Party si sente a suo agio con l´agenda repubblicana che da diversi decenni ha dato la sua totale adesione alla dottrina liberista, la quale addossa le responsabilità del declino economico dell´America a chi propone una più giusta distribuzione della ricchezza non a chi l´avversa, nella convinzione che se la natura degli interessi e dell´accumulazione seguisse il suo corso, a beneficiarne sarebbero tutti in proporzione. La retorica cristiana dei talenti e della responsabilità di usarli al meglio dà pathos a questa ideologia anarco-liberista, che si sente autorizzata dal Vangelo a svolgere la sua propaganda contro lo Stato, luogo satanico del potere e contro coloro che pensano di usarlo per una buona causa di giustizia. Dunque, anti-razionalismo, anti-intellettualismo, anti-governo: ecco gli ingredienti del populismo dei Tea Party. Il quale non è soltanto un movimento di protesta, ma è un movimento con un´agenda politica ben precisa, come il Congresso americano uscito dalle ultime elezioni sta dimostrando. Certo, il Tea Party non è unito sotto la guida di un leader carismatico e in questo non è simile ai populismi europei. È federalista come il Paese nel quale è nato, diramato attraverso le chiese evangeliche, riunito sotto i vari predicatori che mettono insieme l´omelia ogni domenica.
Occupy Wall Street non ha nulla di tutto questo. Ed è questa la ragione dell´incredibile attacco dei leader del Tea Party, i quali hanno annusato molto correttamente che questi manifestanti non hanno nulla da spartire con loro. Occupy Wall Street è un movimento spontaneo, e quindi democratico nel senso più elementare del termine, perché ispirato a ideali di auto-governo e di eguaglianza di cittadinanza. Lo slogan "Noi siamo il 99%" non intende fare guerra all´1%, cioè ai miliardari. Non è l´invidia che li guida come ha sostenuto un candidato repubblicano. Lo slogan chiede più semplicemente che chi ha più deve più contribuire anche perché quel di più lo ha in ragione di politiche adottate dai governi americani dalla fine degli anni ´70. Politiche alle quali tutti hanno obbedito e che però hanno favorito non tutti allo stesso modo. E non a causa dei talenti che il Signore distribuisce diversamente, ma di una mirata e sistematica politica della diseguaglianza.
L’equità fiscale non è proprio un obiettivo rivoluzionario. Se così appare è perché le diseguaglianze economiche e sociali sono ormai così radicali da aver dato vita a due popoli, un po´ come nell´antica Atene: anche oggi, gli oligarchi, benché dentro il sistema democratico, scalpitano per avere privilegi e non sottostare alla regola dell´eguaglianza. Occupy Wall Street mette in luce questa antica e sempre nuova lotta tra oligarchia e democrazia. Soprattutto, mostra come la seconda non sia semplicemente una forma di governo, ma anche un ideale, una visione di società che quando le diseguaglianze si radicalizzano, come ora, non riesce più ad avere il consenso di tutti. L´1% simbolico – i super miliardari – sta a significare che alcuni sono fuori dal patto democratico dell´eguaglianza. È questa la radicalità di Occupy Wall Street.
A chi è indirizzata questa radicalità? Qual è la relazione di questo movimento democratico con la democrazia delle istituzioni? Queste domande mettono in luce la crisi profonda di rappresentatività delle istituzioni democratiche. Occupy Wall Street non ha specifici obiettivi se non uno: entrare in comunicazione con coloro che operano nelle istituzioni, i quali hanno da anni spento l´auricolare e sono, come si dice in Italia, auto-referenziali. Dall´interno dei parlamenti non si vuole ascoltare. La scollatura tra dentro e fuori delle istituzioni democratiche è preoccupante e, purtroppo, non è destinata a risanarsi velocemente. Questo movimento chiede dunque una ricostituzione della rappresentanza politica. Sfida gli eletti nel nome dell´autorità dell´ascolto. E ha senso occupare le piazze fisiche, visto che quelle mediatiche sono interessate a mettere una cortina di silenzio sulle opinioni dei cittadini. Se c´è un contributo che Occupy Wall Street può dare è quello di creare un clima politico finalmente di attenzione; di costringere chi si occupa delle politiche nazionali a non girare le spalle a coloro che di quelle politiche devono subire le conseguenze. Si tratta di un richiamo ai principi democratici, dunque: a quella promessa di libertà e giustizia per tutti che è scritta nelle nostre costituzioni.

Corriere della Sera 13.10.11
Un volume di Jeffrey Herf sulla propaganda del Terzo Reich in Nord Africa e Medio OrienteQuando l’Islam seguì la svastica
Così Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme, si piegò a Hitler
di Luciano Canfora

qui
http://www.scribd.com/doc/68590231/Corriere-Della-Sera-13-10-11-p45

Repubblica 13.10.11
Contrordine, buoni si nasce trovato il gene dell’egoismo
Il gene dell’altruismo che ci fa nascere buoni
Una ricerca rivela: la scarsa generosità frutto di una disfunzione del Dna
di Federico Rampini


I due terzi dei bambini scelgono di lasciare gli adesivi agli altri che non ne hanno
Il gene si chiama Avpr1a e regola nel cervello ormoni legati ai nostri comportamenti

New York. Egoisti si nasce, altruisti si diventa? Questo luogo comune ci accompagna da tempo immemorabile. È stato immortalato in un capolavoro letterario come Il signore delle mosche (1954) del premio Nobel William Golding, sui ragazzi dispersi in un´isola deserta che incrudeliscono sui più deboli con ferocia.
Nel 1976 un avallo scientifico a quell´idea sembrò arrivare dal saggio dell´evoluzionista Richard Dawkins sul "Gene egoista", anche se Dawkins sostiene di essere stato spesso frainteso. Ma anche i più diffusi manuali divulgativi sull´educazione dei figli, come il popolare "Handbook of Child Psychology" in America, istruiscono i genitori su come "correggere" l´indole spontanea del loro bambino che vorrebbe tutto per sé. Ora sappiamo che non è vero, non è così che nasce il bambino. Un´importante ricerca pubblicata sulla rivista scientifica PLoS, e ripresa dal Wall Street Journal, dimostra in modo convincente che siamo programmati biologicamente con un "gene dell´altruismo". Almeno: molti di noi ce l´hanno, attivo e funzionante. Mentre sono gli "egoisti alla nascita" la vera anomalìa, perché vittime di una disfunzione genetica. Questo è il risultato dell´esperimento condotto da un´équipe di psicologi in un laboratorio israeliano, sotto la guida del professor Reut Avinum della Hebrew University. Il test è semplice, comincia con 136 bambini di età compresa fra i 3 e i 4 anni. Uno alla volta, ogni bambino entra da solo in una stanza arredata come la sala-giochi di una scuola materna. Gli vengono consegnate sei confezioni di adesivi colorati. «Puoi tenerli tutti per te - gli spiega l´istruttore - oppure puoi darne qualcuno a un altro bambino, che non ne ha». Gli "sticker" colorati rappresentano immagini belle, attraenti. Nessun altro coetaneo appare nella stanza, quindi il bambino non ha la più pallida idea di chi sarebbe il beneficiario del suo dono eventuale. Gli si chiede uno sforzo d´immaginazione notevole per quella età, la sua generosità deve esercitarsi a favore di un essere astratto. Eppure il risultato del test è inequivocabile: i due terzi dei bambini scelgono di lasciare qualche confezione ad altri, solo perché gli è stato detto che da qualche parte esistono dei bambini che non hanno alcun adesivo. Non ci sono differenze tra maschi e femmine. Alcuni addirittura rinunciano alla totalità del dono. Interrogati sul perché di questo altruismo estremo, rispondono: «Perché è così che ci si sente più felici». Tutto merito dell´educazione ricevuta in famiglia? Nient´affatto. Gli psicologi israeliani hanno individuato un gene, Avpr1a, che "regola nel cervello ormoni legati ai nostri comportamenti sociali", incluso l´altruismo e lo spirito cooperativo. Usando la tecnologia di risonanza magnetica che consente di raffigurare in immagini la nostra attività cerebrale, gli stessi scienziati hanno osservato che ad ogni atto di generosità il gene Avpr1a rilascia neurotrasmittenti simili alla dopamina, che producono una sensazione di benessere fisico. Alla stessa conclusione è giunta una ricerca indipendente, condotta alla University di Washington e anch´essa pubblicata sulla rivista PLoS: in quel caso addirittura sono stati identificati riflessi altruisti e un senso di "equità" in bambini di soli 15 mesi, misurando la loro voglia di condividere il giocattolo favorito. È tra quei bambini che si rifiutano di donare e invece vogliono tutto per sé, che gli scienziati individuano l´eccezione alla norma: che si spiega con una variazione nel gene Avpr1a. Queste ricerche confermano l´interesse crescente degli studi scientifici nel campo dell´altruismo, un ambito che sta attirando finanziamenti come quelli della Templeton Foundation in favore della Science of Generosity Initiative. Lo studioso di Harvard Yochai Benkler nel suo saggio "The Penguin and the Leviathan" allarga il discorso a tutte le scienze sociali e all´economia. La teoria dell´evoluzione, se applicata non solo alla biologia individuale ma alla selezione dei gruppi e delle specie, dimostra che prevalgono le società e organizzazioni complesse dove si esalta il "gene della cooperazione".

il Riformista 13.10.11
Ferraris, perché l’anima rassomiglia ad un Ipad
Saggio. Il filosofo spiega come la tecnologia sia un riflesso conseguente del pensiero occidentale.
di Corrado Ocone

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http://www.scribd.com/doc/68590234

Repubblica 13.10.11
Casa Pintor
"Quanti sacrifici" La vita di famiglia vista dalla madre
Scrive a Giaime: "Tu ed io siamo il nemico. Io qui non ho saputo amalgamarmi"
Pubblicate le lettere inedite di Dedè, testimonianza al femminile delle relazioni tra genitori e figli (illustri) in mezzo ai rovesci della Storia
di Simonetta Fiori


In un pacchetto di lettere, trovato nei faldoni di un archivio, possono essere custodite molte cose. Nelle missive di Adelaide Pintor, intellettuale inquieta e madre di Giaime e Luigi, è conservata la voce di una donna straordinaria finora oscurata dalla fama dei suoi figli illustri, l´eroe e il giornalista. L´unica testimonianza al femminile di una famiglia borghese in fuga dalla mediocrità del tempo, un mondo colto e insieme complesso, legato all´establishment del fascismo ma anche estraneo alle sue liturgie, trama di affetti e intelligenze di cui ora conosciamo la sapiente tessitrice (Da casa Pintor. Un´eccezionale normalità borghese: lettere famigliari, 1908-1968, a cura di Monica Pacini, Viella editore, pagg. 232, euro 25).
Casa Pintor, raccontata da Dedè, è una storia del secolo scorso, tra tragedie pubbliche e minuti rituali quotidiani. L´anniversario della marcia su Roma e l´arrivo dei mobili in lucidissimo mogano. La visita a casa del vicesegretario del Pnf Arturo Marpicati e la majonnaise impazzita. Il sangue d´Europa e i gemelli d´oro di Giaime, "adatti per le mondanità" della Capitale. Di questo lessico famigliare, ambientato tra gli anni Venti e Trenta nel Castello di Cagliari ma successivamente nel romano quartiere Trieste, appaiono frammenti in Doppio Diario di Giaime e nei bellissimi libri di Luigi, sempre all´affannosa rincorsa di quel suo maggiore che gli destinò l´ultima lettera poi divenuta vangelo della Resistenza, scherzo crudele da non fare mai a un fratello. Lontani echi si trovano anche nelle lettere dello zio Fortunato e nell´affascinante affresco sui Pintor tratteggiato da Cecilia Calabri. Ma ora per la prima volta, grazie allo sguardo di Dedè - e alla cura meticolosa della Pacini - penetriamo nell´intimità della casa cagliaritana di via Genovesi con il suo giardino sospeso e lo specchio del mare, nel delicato gioco delle relazioni tra genitori e figli, ritratto con ironico e femminile disincanto sullo sfondo del ventennio nero. Un viaggio attraverso il fascismo che include sì l´entusiasmo per le imprese coloniali, ma poi una crescente insofferenza per i suoi limiti culturali, per uno stile retorico svuotato di contenuti, per "l´asfissiante" gigantismo ginnico, per la "consegna di russare" patita con la chiusura di Omnibus. «C´è anche per la letteratura la campagna demografica», scrive Dedè a Giaime nel 1939. «Deve nascere ad ogni costo una folla di chiari prodotti fascisti».
La fotografia scattata da Adelaide Dore - questo il suo nome da ragazza, nata a Firenze da padre sardo nel 1890 - ci mostra una madre vivacissima e culturalmente attrezzata, però sacrificata alla vita domestica, "incapace di conciliare le faccende della maternità con i miei desideri", dunque irrequieta, sempre più "stanca e malinconica", mai fino in fondo riconosciuta nella sua diversità. Al suo fianco è Beppino Pintor, di un anno più grande, ultimo di quattro fratelli tutti destinati a carriere d´eccellenza - Fortunato direttore della Biblioteca del Senato, Pietro generale di corpo d´armata, Luigi alto funzionario pubblico - , lui invece inconcludente e innamorato della musica, direttore d´orchestra mancato, costretto a trovare un impiego presso il Provveditorato delle Opere Pubbliche, un carattere forse più incline alla fragilità, facile a spezzarsi.
Al centro della casa è il primogenito Giaime, "bimbo fatto di sole, creaturina di magia", su cui si concentrano le aspirazioni naufragate di Dedè e Beppino. Il secondo figlio maschio, Luigi, mostra invece un tratto da ribelle, "un bamboccio piccolo che in pieno regime fascista si dichiara anarchico rispetto alle sue intime effusioni". E ancora - ma un po´ relegate sullo sfondo - le due figlie femmine Silvia e Antonietta, educate all´emancipazione, dunque il più possibile al riparo dai damaschi spagnoleggianti delle famiglie aristocratiche di Castello, "fieramente soddisfatte di sé", "sicure della propria signorilità, del proprio diritto, della propria virtù". Un ambiente - quello della piccola nobiltà spagnola da cui anche i Pintor provenivano - per Dedè insopportabile, "esilio" e "prigionia" agli occhi di una donna cresciuta alla scuola pedagogica di Giuseppe Lombardo Radice, lettrice onnivora di anglosassoni e francesi, Chesterton e Huxley, Anatole France e Maurois, insofferente alle buffonerie futuriste ma anche a Moravia, traduttrice di Zola, Dumas e Daudet, autrice di racconti per l´editore Paravia.
La scrittura e dunque le centinaia di lettere diventano per Dedè l´uscita di sicurezza, "la salvezza dei momenti neri". Ma è una fuga di cui avverte tutta la fragilità. «Nella mia vita non ho fatto che scrivere a vuoto», annota in una malinconica missiva a Giaime, il figlio che forse sente più vicino. («Tu ed io siamo il nemico. Tu perché l´isola hai voluto lasciarla, io perché non ho potuto amalgamarmi»). Alla relazione stretta tra Dedè e Giaime, nutrita da comune ambizione letteraria, sembra far da contrappunto l´intesa tra Beppino e Luigi, fortificata dalla passione per la musica, il trio di Schubert come costante colonna sonora. E quando il padre nell´estate del 1940 appare "sperduto" sotto il peso delle responsabilità e della lontananza - la famiglia a Roma, lui ancora a Cagliari -, la bocca impastata dagli optalidon, è Luigi a invocare al cospetto di un irritato Giaime: «È solo col cuore che lo si può salvare». Sempre Luigi - mezzo secolo dopo - annoterà con il suo consueto stile: «Le unioni coniugali sentimentali dovrebbero essere proibite».
Sulla vita di Dedè cala definitiva l´ombra con la morte del primogenito, nel dicembre del 1943. «Il mio Giaime, il mio Giaime», ripete la madre senza urla quando Luigi le dà la notizia, il lamento di una bestia ferita. Quella che era stata il "deposito dell´ottimismo", seppur costantemente minacciata dalla malinconia, sembra lentamente svuotarsi. Ancora traduzioni e collaborazioni editoriali, ma nella separazione dal mondo, «come se ci guardasse da un´altra sponda». Muore a 82 anni, in una clinica romana. È stata Antonietta Pintor Raicich, l´unica figlia sopravvissuta, a voler ora pubblicare una scelta delle missive. «Un debito di gratitudine verso mia madre», ci dice Antonietta. «Era un´intellettuale, ma dovette sacrificarsi per la famiglia. Un giorno già anziana mi portò a pranzo a Monte Mario e piangendo confessò: "Voi non lo sapete, ma vostra madre è stata una gran donna". Come se noi non l´avessimo mai compresa». Ora Dedè è stata risarcita.

Repubblica 13.10.11
Realismi socialisti
Falce e pennello. I grandi quadri del regime
L’arte sovietica in due mostre al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Dalla pittura verista di Stato al genio creativo dei maestri


Una macchina che per più di mezzo secolo ha prodotto consenso e propaganda
Quello che colpisce maggiormente sono le dimensioni iperboliche delle opere esposte

ROMA. In un olio alquanto provocatorio di Vitalij Komar e Aleksandr Melamid del 1982 il realismo socialista è rappresentato come una musa vecchia maniera che con la mano sinistra ricalca sul muro l´ombra del profilo, proiettata sulla parete – alla luce di una flebile torcia – da uno Stalin irrigidito nella sua abituale divisa da Generalissimo. Un´ombra del Potere, un calco elegante e minuzioso eseguito con la mano sbagliata. La mostra Realismi socialisti. Grande pittura sovietica 1920-1970 (al Palazzo delle Esposizioni fino all´8 gennaio), cerca di problematizzare quest´immagine un po´ semplificata del realismo socialista come monolitica arte di regime, decisa nel politbjuro e messa in circolo dal volano delle asservite associazioni artistiche, che ha di fatto bloccato in URSS il naturale sviluppo delle arti. Una macchina che per più di mezzo secolo ha prodotto propaganda e consenso, offrendo la richiesta visione edulcorata della società e dei suoi leader, e questo grazie ad artisti disposti – in buona ma spesso in cattiva fede – a chiudere gli occhi sul sanguinoso apparato repressivo che lo stesso politbjuro introduceva nel paese.
Introdotto nel discorso critico sovietico già a partire dal 1932 e codificato come "metodo" dagli interventi di danov e Gorkij al Primo congresso degli scrittori sovietici a Mosca nel ´34 (dove, tra l´altro, Radek aveva definito Joyce – prototipo dello scrittore d´avanguardia – «un mucchio di letame brulicante di vermi fotografato attraverso un microscopio»), il realismo socialista – in quella tranciante definizione – poneva ai nuovi ingegneri delle anime umane il compito di «descrivere fedelmente la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario». Definizione già sufficientemente ambigua da produrre molteplici interpretazioni (e così del resto avvenne), ma anche del tutto parca di indicazioni sugli aspetti specifici della creazione artistica.
E se l´imposizione del realismo socialista avviene, in fondo, in piena coincidenza con quel ritorno all´ordine e al figurativo che attraversa la pittura europea dalla metà degli anni Venti, producendo ovunque – come sistemica reazione all´astrattismo avanguardistico – Neoclassicismi e Nuove Oggettività, in URSS la discussione sulle modalità di un´arte "realista" incomincia in realtà subito all´indomani della rivoluzione del ´17, quando Anatolij Lunacarskij, commissario del popolo all´Istruzione, teorizza per la futura arte proletaria quello che definisce un «idealismo realistico», in cui già si anticipa il carattere utopico del modello realsocialista, la sua caratteristica di futuro (o presente) idealizzato.
Nato da tali premesse, il realismo rappresentato qui da tele che coprono un cinquantennio della produzione sovietica, non potrà essere che una molteplicità di realismi: dalle dettagliatissime scene d´insieme che immortalano importanti cerimonie pubbliche a rappresentazioni come da pittura popolare (come l´enorme sbandieratore bolscevico di un olio del 1920, gigantesco tra manifestanti lillipuziani); dal bozzetto minimalista di vita quotidiana, come attinto dai realisti tardottocenteschi, al ritratto olografico dei potenti che rimanda al trionfalismo barocco; dalle luminose scene di lavoro sui campi, dalla messa in scena dei collettivi di lavoratori, alla rappresentazione di gruppi ormai sfilacciati, monadi autonome tenute insieme solo da uno sfondo (Costruttori di Bratsk, 1960) o da un´attività comune (Ginnasti dell´URSS, 1964-´65); per arrivare infine alla serie che Gelij Korev dedica al ricordo del conflitto bellico (Bruciati dal fuoco di guerra), spezzando la predilezione realsocialista per la figura intera, ingigantendo non più il corpo ma un semplice dettaglio: il viso di un uomo senza un occhio, un abbraccio, lo scorcio di un reduce coperto di cicatrici: ingrandimenti di una sofferenza che non ha più bisogno di una narrazione eroica.
E ci sono poi interpretazioni ancora più personali, come la Formula del proletariato di Pietrogrado (1920-´21) dell´enigmatico Pavel Filonov, mosaico di cerchi e sghembi cristalli di case, punteggiato dal ritorno continuo di un volto, lui solo reso con tratti realistici. O quadri che per il loro iperrealismo spingono a tristi considerazioni sul rapporto tra pittura e fotografia, come il ritratto – a grandezza naturale – di Vorošilov, Commissario del Popolo per la Difesa, sugli sci. Studiando la documentazione nel ricco catalogo che accompagna la mostra (a cura di M. Bown e M. Lafranconi, Skira, pagg. 280, euro 49) scopriamo che, prima di mettersi all´opera, il pittore Isaak Brodskij aveva chiesto al suo segretario di spedirgli «tutte le foto che lo ritraggono sugli sci». Per lo sfondo, invece, Brodskij non pareva aver avuto problemi, attingendo – verrebbe da pensare – direttamente ai Cacciatori nella neve (1565) di Pieter Brueghel. Un´abitudine, questa di utilizzare fotografie invece del modello reale, che aveva in altra occasione scatenato la reazione piccata del fotografo dell´ormai defunto Lenin, che si sentiva defraudato dei lauti guadagni dei ritrattisti postumi. Questioni di realismo.
Visitando la mostra, quello che però maggiormente colpisce sono le dimensioni iperboliche di molte delle opere esposte, che talvolta vanno anche a superare i cinque o sei metri, come se la monumentalità dell´epoca e dei soggetti dovesse necessariamente passare attraverso il puro còmputo di base e altezza. Così in Guida, maestro e amico Stalin ascolta, immobile e cortese, le proposte di un gruppo di kolchoziani come squassati da una folata di vento, come apostoli dell´Ultima cena. In un´altra tela, invece, il giovane capitano Judin osserva soddisfatto, tra i carristi del Konsomol, lo striscione per il ventesimo anniversario dell´Armata Rossa su cui s´inneggia alla "famiglia socialista", ma l´immagine che s´intravede è quella di un soldato con la baionetta inastata. Imponente, infine, il Trionfo del popolo vittorioso (1949) di Michail Chmel´ko: su una Piazza Rossa come in cinemascope, i soldati tedeschi depongono vessilli e insegne ai piedi degli alti ufficiali russi. Stalin è in alto, mescolato agli altri notabili, defilato. Ma all´incrocio degli sguardi dei presenti.

Repubblica 13.10.11
La breve stagione dell'avanguardia dopo la Rivoluzione russa: il Costruttivismo
Il mondo obliquo del ribelle Rodcenko
di Lea Mattarella


La ragazza sorridente che incita alla lettura, creata da Aleksandr Rodcenko per la pubblicità della sezione di Leningrado della casa editrice di Stato nel 1925, è un´immagine-simbolo. Concentra in un grido gioioso il racconto del sogno, dell´illusione, della grande utopia di un popolo e di un gruppo di artisti che credeva davvero di poter cambiare il mondo. Com´è andata lo sappiamo tutti, ma in quel momento, come afferma Ol´ga Sviblova curatrice della personale che Palazzo delle Esposizioni dedica a questo grande rivoluzionario dello sguardo, «sperimentazione artistica e sociale coincidevano».
E così ecco Rodcenko attraversare la fotografia, il cinema, il fotomontaggio e inventare un linguaggio per il nuovo spirito dei tempi. Nato nel 1891 a San Pietroburgo e scomparso nel 1956 in una Russia diventata Unione Sovietica che, dagli anni Trenta in avanti, ne aveva mortificato l´entusiasmo rivoluzionario fino a impedirgli di lavorare espellendolo dall´Unione degli artisti, questa figura poliedrica è stata una delle più affascinanti dell´avanguardia russa nel suo movimento più significativo: il Costruttivismo. Gli scatti e le invenzioni dell´artista, circa 300, sono raccolti in questa esposizione e rivelano tutta la modernità di un punto di vista che niente ha a che vedere con il "realismo socialista" teorizzato dal governo sovietico come stile necessario al nuovo corso politico. Da qui le sofferenze e le fatiche di un uomo che diceva: «Voglio guidare il popolo all´arte, non usare l´arte per condurre il popolo chissà dove», e nei suoi diari prometteva di non fare più le "prospettive sbagliate" che tanto disturbavano i governanti. Ma poi aggiungeva: «non posso farci niente, la mia mano va da sola». Ecco i geniali fotomontaggi, gli interventi per libri e riviste: figure che si sovrappongono e si accavallano, inventano spazi, modificano la realtà con ironia, divertimento, senso della cronaca. «La fotografia è scrittura dei fatti» affermava. In bianco e nero scrive la storia di un momento che cercava di essere eroico ed è diventato tragico. Lo fa inquadrando i volti, come quello, celebre, della madre, ma anche quelli di attori, poeti, scrittori, la moglie Varvara Stepanova, artista come lui, indimenticabile con la sua sigaretta tra le labbra. Anche Majakosvkij fuma e guarda nell´obiettivo, siamo nel 1924; si ucciderà sei anni dopo.
Ma la cosa straordinaria di Rodcenko è la singolarità del punto di vista sulla città: diagonali, vedute dall´alto e dal basso rendono dinamici i palazzi e le piazze di Mosca. E anche la vita dei suoi abitanti. Ci sono scale, gradinate e reticoli di ombre che sono capolavori di silenzio. E poi momenti in cui anche la folla sembra ordinata. Niente è come sembra. Rodcenko inquadra un mondo inclinato che non può certamente piacere al regime. Anche quando realizza reportage sullo sport, sulla gioventù sovietica, sui lavoratori, la sua mancanza di retorica, il suo occhio concentrato sull´inaspettato sono sempre un inno alla libertà, quasi una denuncia del fatto che l´Unione Sovietica vuole trasformare gli esseri umani in ingranaggi di una macchina terribile. Inquadra la natura e chiama i boschi Legname, per evocare subito l´idea del lavoro, delle costruzioni a cui questo materiale sarà destinato. E tuttavia non riesce a tradire il suo sguardo romantico: file di pini che svettano in uno spazio infinito. Ma nei suoi scatti malinconici di foreste in bianco e nero, qualche albero si spezza. «Come fosse una metafora della vita e degli ideali di Rodcenko» suggerisce la Sviblova.

La Stampa 13.10.11
La nave romana emerge dagli abissi del passato
Trapani, affondata 1700 anni fa: è la più completa mai ritrovata
di Laura Anello


Il veliero è una nave «oneraria» romana (destinata ai commerci tra Roma e l'Africa) del III secolo dC. Il carico era di anfore piene verosimilmente di olive, vino, olio frutta secca e salsa di pesce
Il vasellame Il legno Recuperate anche ceramiche da cucina databile III sec. d.C.
Il naufragio. Le cause sono da individuare nella difficoltà di manovra dell’imbarcazione che, avvicinatasi alla costa, si deve essere arenata nel corso di una tempesta
Ora i 700 pezzi recuperati - i più piccoli di appena 40 centimetri -  saranno restaurati in un laboratorio specializzato di Salerno

TRAPANI. I sub nuotano dentro lo scafo, misurano il fasciame, toccano la chiglia. Davanti ai loro occhi c’è il miracolo di una nave commerciale romana del terzo secolo dopo Cristo affondata e rimasta quasi intatta a dispetto della latitudine niente affatto nordica. Siamo a Marausa, a un passo da Trapani, e questo è il più grande relitto dell’epoca mai tirato fuori nei nostri mari. Operazione titanica, che vede all’opera archeologi, subacquei, ingegneri, restauratori. Bagnati, emozionati, in movimento continuo.
Tutti insieme, a tirare fuori pezzo a pezzo un gigante lungo più di venti metri e largo nove, affondato 1.700 anni fa nei bassi fondali durante la manovra di ingresso nel fiume Birgi, che allora era una via navigabile per parecchi chilometri e adesso è soltanto il nome dell’aeroporto della città. Un tesoro a portata di mano, tre metri di profondità e 150 dalla riva, e nonostante questo rimasto segreto per secoli perché coperto da un metro di argilla e di radici di posidonia, la pianta del mare. Un rivestimento naturale che l’ha tenuta in uno stato eccezionale di conservazione.
«È stata la costruzione di un molo abusivo qui vicino a determinare un brusco cambiamento di correnti che hanno eroso la prateria e mostrato il relitto. Senza quel cemento non avremmo la nave», scherza Sebastiano Tusa, il soprintendente ai Beni culturali di Trapani che da dodici anni - dalle prime segnalazioni fatte nell’agosto del 1999 da Antonio Di Bono e Dario D’Amico della sezione locale dell’Archeoclub - sognava di disseppellire quel tesoro e di portarlo alla luce. «Ormai preferiamo lasciare i relitti dove stanno - spiega - favorire itinerari di turismo sottomarini, ma questo è un caso eccezionale, sia per la mole e l’integrità della nave, sia perché è così vicina alla costa da farci temere per la sua sicurezza. Un’operazione da oltre 800 mila euro, fondi del Lotto. Settecento pezzi, lunghi da 40 centimetri a qualche metro, che adesso saranno assemblati come un gigantesco puzzle, con la stessa testardaggine dei modellisti, ma su scala reale. Destinazione finale il baglio Tumbarello di Marsala, accanto alla sala espositiva che già ospita una nave punica.
E allora, eccoli i tecnici della società specializzata «Atlantis» tirare fuori prima il fasciame interno, poi l’ossatura, quindi quello esterno. E ancora le anfore con le tracce di olive, noci e fichi portati dal Nordafrica verso il mercato siciliano. Poi i segni della vita di bordo, come pezzi di vasellame e di bicchieri utilizzati dall’equipaggio, una decina di marinai che arrivavano probabilmente dall’attuale Tunisia, perché da lì veniva la ciurma di Roma. Infine, tracce del carico di contrabbando: i cosiddetti «tubuli da extradosso», condotte cave in terracotta impiegate nelle costruzioni per alleggerire le volte e gli archi, e che in Africa si compravano a un quarto del costo di rivendita a Roma. «Era un commercio illecito ma tollerato - racconta Tusa - i tubuli venivano nascosti dappertutto, e così i marinai arrotondavano guadagni davvero magri». Stipendi di Stato, perché queste imbarcazioni commerciali erano dell’Annona, quindi pubbliche, affidate ai navicolari, gli amatori che pagavano i marinai.
Ecco quante cose raccontano questi legni inzuppati, portati fuori come trofei. I primi pezzi risalgono dal mare nelle mani dell’archeosub Francesco Tiboni e dell’operatore tecnico Francesco Scardino, entrambi della Soprintendenza del mare, sotto lo sguardo trepidante del direttore di cantiere, l’ingegnere Gaetano Lino. «È un corrente di stiva», esulta lui, termine che indica l’elemento cardine dell’ossatura. Chissà quale maestro d’ascia l’aveva costruita, con una tecnica «a guscio portante», esattamente al rovescio di quella attuale: prima si montava la chiglia, poi l’esterno, quindi l’ossatura, memoria forse dell’imbarcazione primordiale, il tronco scavato.
Adesso tutto è in viaggio verso Salerno, al laboratorio «Legni e segni della memoria» che si occuperà di togliere dal relitto l’acqua di cui è inzuppato e di restaurarlo con una tecnica innovativa che è stata brevettata proprio dai suoi esperti, con l’iniziale collaborazione dell’Università de La Rochelle. Difficile da credere adesso, ma questi legni ammalorati che grondano di mare torneranno a essere quella nave. Intatta e veleggiante, un attimo prima del naufragio, come in un salto sulla macchina del tempo.

La Stampa 13.10.11
«Questo gioiello tornerà a vivere»
domande a Giovanni Gallo di L. An.


26 mesi di lavori. Ci vorranno poco più di due anni per completare il restauro: 6 mesi per i pezzi più piccoli 18 per tutti gli altri e 2 per l’assemblaggio

SALERNO. «Sarà una bella sfida, un grande puzzle. I pezzi più piccoli, le serrette del fasciame interno, sono lunghe 40 centimetri, larghe 10 e profonde 2. Moltiplichi tutto per 700 parti numerate e avrà idea di che cosa ci aspetta». Giovanni Gallo è il responsabile di «Legni e segni di memoria», il laboratorio di Salerno che ha brevettato un metodo innovativo di restauro dei materiali vecchi di secoli.
In che cosa consiste il metodo?
«Il primo problema è togliere l’acqua. Tradizionalmente questo avveniva con impregnazione, noi usiamo la disidratazione, condizionando il legno alla pressione di 650 millibar, come in una camera ipobarica, come sottovuoto. Più abbassi la pressione, più puoi lavorare efficacemente a basse temperature. Pensi che a 80 millibar l’acqua bolle a 40 gradi. Sfruttiamo poi quello che in fisica si chiama effetto flash, attraverso salti di pressione. Il risultato è un legno naturale, non modificato da alcun tipo di sostanze. Riusciamo a tipizzare con precisioni essenze vecchie di millenni. Questa, a occhio e croce, sembra una conifera, direi pino o abete».
Perché questa nave rappresenta un unicum?
«Perché è la più completa mai ritrovata. Ci sono eccezionalmente sia il lato sinistro sia quello destro dello scafo, cosa che ci consentirà di restituire al relitto, una volta restaurato, uno straordinario effetto in tre dimensioni. Sul fondale era aperto a libro».
Grazie ai rilievi?
«Grazie ai rilievi ma grazie anche a quello che gli elementi della nave ci raccontano. Attraverso le ordinate, cioè la costolatura perpendicolare allo scafo, riusciamo infatti a ricavare le cosiddette linee d’acqua, e quindi forma e proporzioni esatte. Bisognerà poi pensare a un allestimento che valorizzi, attraverso modellini, anche gli elementi interni del fasciame, in modo da mostrare la tecnica costruttiva».
Quanto tempo servirà?
«Sei mesi per trattare i pezzi più piccoli, 18 per completare il trattamento, due per l’assemblaggio. Tra due anni la nave tornerà a vivere».

Repubblica 13.10.11
Le riscostruzioni nei villaggi rurali per lanciare il turismo low cost
E ora Pechino clona i monumenti del mondo
Copie dei tesori nazionali riprodotte nei paesini. Come una Disneyland di se stessa
di Giampaolo Visetti


Scusi: dov´è la Città Proibita più vicina? E un pezzo di Grande Muraglia raggiungibile in due ore? O una torre di Pisa e un Arco di Trionfo a portata di corriera, da fotografare senza salire su un aereo per l´Europa? La Cina, nel turismo, è oltre il low cost. Si muove già nell´era in cui l´originale è un modello da scegliere in Internet e la copia diventa il reale da conquistare risparmiando più tempo e denaro possibili.
L´uovo di Colombo, per la culla del falso lusso "made in China" a prezzi da massa ex proletaria: non costringere i nuovi turisti a spostarsi nelle vecchie località turistiche, ma trasportare direttamente le attrazioni da chi desidera ammirarle. L´affare del secolo, ma non solo. Prima di tutto l´ordine della propaganda di partito: mostrare al popolo la grandezza della millenaria civiltà nazionale, per irrobustire l´orgoglio patriottico. Fino a ieri, per immaginare l´antico, i cinesi erano costretti al pellegrinaggio a Pechino. Itinerario classico e obbligato: Città Proibita e piazza Tiananmen, Grande Muraglia a Badaling, Palazzo d´Estate, Tempio del Cielo, torri del Tamburo e della Campana, prima di raggiungere Xian per impallidire davanti all´esercito di terracotta. Da oggi invece, si gira pagina: copie di tutti i tesori nazionali vengono seminate in decine di anonimi villaggi rurali dell´interno, sparse nelle città di seconda fascia delle regioni industriali, o concentrate nelle periferie delle nuove megalopoli. Un po´ di bellezza per tutti i compagni, in nome dell´uguaglianza.
Nella Cina trasformata in un´immensa Disneyland di se stessa, le copie delle colossali opere dell´epoca imperiale risorgono a grandezza naturale, indistinguibili dagli originali. A un povero villaggio sperduto tra le risaie, basta così ricostruire quattro hutong della capitale, circondati da un lago con ponticelli simil-Ming, o riprodurre una grotta della Lunga Marcia, per assicurarsi cinquantamila visitatori di Stato all´anno. Il simbolo è Huaxi, regione del Jangsu, considerato oggi il paese più ricco della nazione. Ambiva a diventare la mecca turistica della nuova classe media. In tre anni, al posto del vecchio mercato contadino, ha clonato Città Proibita e Grande Muraglia, ma pure un Arco di Trionfo, Campidoglio, Opera House di Sydney e un toro di Wall Street in oro massiccio. Con 470 milioni di dollari ci ha aggiunto il Longxi International Hotel, copia perfetta dell´Adlon di Berlino, e da sabato aprirà i battenti quello che promuove come «tutto il mondo in un villaggio».
Nell´Occidente ammalato di storia si può essere colti da un vago senso di ripugnanza. Per i cinesi invece è una meraviglia, ma soprattutto un fantastico affare: tutto nuovo di zecca, pochi yuan, qualche ora di treno, e si risparmiano i sacrifici per una vacanza vera nel passato. Un successo. Tale che il partito, entusiasta nel veder sorgere Templi della Terra in serie dentro squallidi distretti industriali, ha dato il via libera all´internazionalizzazione del capolavoro facsmile a portata di weekend aziendale: Venezie con Canal Grande e gondole a un´oretta da Shanghai, Torre di Londra e Piccadilly Circus a un tiro di schioppo da Chengdu, una porta di Brandeburgo e una Torre Eiffel all´ingresso di Hangzhou, o una fiammante piramide di Cheope oltre quota tremila, nello Yunnan. Tutta la Cina museificata e sotto casa, un´infinita scenografia turistica del regime e del pianeta, da girare come comparse in un film 3D: sarà pure il business del futuro e un mondo da scoprire, ma ricorda tanto uno spettrale mausoleo alla memoria. Non quello di Mao, ci mancherebbe: resta l´unico gioiello politicamente proibito, con copyright a prova di comitiva.