sabato 15 ottobre 2011

Repubblica 9.10.11
Goce Smilevski fa una finta autobiografia tratta da una storia rimossa La protagonista è Adolfine che ripercorre la sua vicenda dal lager
Il destino segreto delle sorelle di Freud dimenticate a Vienna
di Leonetta Bentivoglio


Rosa, Marie, Adolfine e Pauline furono le sorelle immolate al nazismo da Sigmund Freud. Le condannò per ignavia, trascuratezza, egoismo o per chissà quali segreti rancori familiari. Soltanto Anna, la maggiore, evitò i lager, emigrando in America nel 1889. Le altre quattro perirono in modo tragico e umiliante, in campo di concentramento, tra il 1942 e il 1943, mentre il loro celebre fratello si era spento nella quiete della sua bella casa inglese nel 1939, un mese dopo l´inizio della guerra. Semplicemente Sigmund aveva deciso di abbandonarle alla sventura. Già molto infragilito dal cancro, lo scienziato, dopo l´Anschluss, aveva ceduto alle pressioni della sua cerchia di devoti, che lo spingevano a lasciare l´Austria. In principio aveva fatto resistenza, sentendosi troppo debole e anziano per andarsene da Vienna; poi convenne che era la cosa giusta. Per un personaggio tanto noto internazionalmente, non fu difficile trovare, in un paese come l´Inghilterra, la disposizione ad accoglierlo, e affinché i nazisti gli consentissero di partire vennero sollecitate molte prestigiose intercessioni, tra cui quella di Roosevelt. Ci fu tra l´altro il benevolo intervento di Mussolini, grande ammiratore di Freud. Quest´ultimo riuscì a salvaguardare la fetta più sostanziosa del suo patrimonio, incluse le amate collezioni di antiche statuette, che approdarono intatte a Londra, e si permise l´acquisto di Maresfeld Garden, l´abitazione oggi divenuta un museo, che in suo onore guadagnò un accessorio prezioso come l´ascensore. L´aspetto incredibile di questa storia è che, lasciando Vienna, Freud aveva avuto la possibilità di portare con sé i propri cari, e nell´elenco che stilò per l´occasione figuravano la moglie, i figli, la cognata, le due assistenti, il medico personale con famiglia al seguito e persino il cane. Ma non le quattro povere sorelle.
Pur nel continuo proliferare di omaggi ad un eroe che non passa mai di moda (l´ultimo è il film, fastidiosamente iconografico, A Dangerous Method, di David Cronenberg, dedicato al suo incontro-scontro con Jung), è mancata sempre un´indagine seria riguardo alle cause di quest´inspiegabile episodio, sul quale le biografie tendono a sorvolare. Il principale agiografo del fondatore della psicoanalisi, Ernest Jones, scrisse, a proposito dell´orrenda fine delle quattro donne: «Freud, per fortuna, non avrebbe mai saputo nulla di ciò che sarebbe accaduto loro». D´altra parte Sigmund, commentava con ipocrisia lo stesso Jones, «non aveva alcun motivo di preoccuparsi delle sorelle, visto che all´epoca del suo trasferimento a Londra la persecuzione degli ebrei era appena cominciata».
Il giovane scrittore macedone Goce Smilevski (è nato nel 1975) si è ispirato a questa strana e rimossa vicenda per un romanzo di evidente asprezza, votato all´esplorazione della sorte di Adolfine. È alla sua voce che si affida l´intero racconto, plasmato come una finta autobiografia, e oscillante tra verità documentate e liberissime invenzioni. Pubblicato nel 2007, La sorella di Freud è stato subito un successo, e nel 2010 un suo estratto è apparso nell´antologia "Best European Fiction 2010", con un´introduzione di Zadie Smith. L´hanno comprato vari paesi, tra cui Inghilterra, Francia, Spagna e Stati Uniti, e ora sta per uscire in Italia per Guanda.
Nel lager di Terezin, dov´è rinchiusa in un assoluto stato d´infelicità e rimpianti, e dove si prepara con stoicismo alla morte (che sopraggiunge, nell´ultimo capitolo, come un tuffo finalmente lieve nell´oblio), Adolfine ripercorre la sua vita. Scorrono gli anni dell´infanzia, le tensioni all´interno della famiglia e lo speciale rapporto instaurato con Sigmund, poi sfociato in un allontanamento nell´adolescenza, quando tra loro si frappose un "qualcosa" che aveva molto a che vedere con la differenza di genere sessuale. C´è l´amore disperato di Adolfine per Rajner, un ragazzo malinconico fino al torpore e con tendenze autodistruttive, e l´ansia martellante di una maternità mai realizzata. C´è la lunga amicizia con Klara Klimt, sorella del pittore Gustav, protesa in modo agguerritissimo e totalizzante, fino al martirio o al fanatismo, verso l´obiettivo di un mondo diverso per le donne, più paritario e giusto. C´è soprattutto il legame di Adolfine con sua madre, presenza angosciosa e punitiva al massimo, vera fonte del dolore esistenziale della figlia, perché in ogni vita ci sono ferite che scompaiono e altre che restano, ed è questo, forse, il tema-cardine del libro: l´idea di un danno primario, da considerare come il più autentico. Gli altri, andando avanti, ci colpiscono per suo tramite, e ogni seguente sofferenza trova la sua forza fin tanto che gli si avvicina. Il dolore di Adolfine aveva un nome, quello della madre, siglato nella sua memoria più profonda, e intimamente connesso ai tormenti successivi, come sgorgati da un´unica radice.
La sorella di Freud non è un romanzo "d´ambiente". Sprazzi della Vienna di quel periodo affiorano nelle dissertazioni sulla sessualità, sull´ebraismo e sul nascente femminismo, così come negli accenni all´opera freudiana. Ma Freud e Vienna sono soltanto un´occasione per un viaggio lungo il male oscuro di una donna schiacciata da un destino di passività. Ce lo restituisce una scrittura ruvida, insidiosa, ossessiva. E sempre consapevolmente disattenta alle ripetizioni. Un po´ come nello stile di autori quali Saramago, che sembrano voler abbattere i più gentili criteri della forma per dimostrare che è importante la sostanza.

Repubblica 10.10.11
Alla cura anti-stress adesso provvedono i consulenti filosofici
di Luciana Sica


Nessuno ne parla come di una terapia, tanto meno come di un'alternativa all'analisi: nel "prenderla con filosofia" non affascina l'enigmaticità dell'inconscio ma il rigore del pensiero, secondo l'idea che la sofferenza non è psicologica ma culturale: deriva dalla perdita di ogni bussola della mente, dal mondo indecifrabile e insensato in cui viviamo. Esclusa ogni ricetta sbrigativa controi più svariati disagi esistenziali, la consulenza filosofica punta a giocare sulla funzione critica del dubbio, scommette su scenari e argomenti nuovi, tenta di elaborare un punto di vista diverso e non schiacciato sulla realtà.
L'oggetto rimane comunque sfuggente, misterioso, evanescente. Sarà anche probabile che spesso Platone è meglio del Prozac, ma è esclusa la prescrizione dei filosofi al posto dei farmaci, a differenza di quanto promette quel titolo ad effetto del bestseller un po' facile di Lou Marinoff. Si potrà seguire il percorso di Hegel o Foucault, di Nietzsche o Popper, magari utilizzare il trascendentalismo di Kant o la fenomenologia di Husserl o la riflessione ontologica di Heidegger, ma fa sorridere l'idea di un collage di dotte citazioni e aforismi folgoranti adattati ai problemi di chi non si fida di un piccolo Freud e rischia di affidarsi a un Socrate in versione bonsai. In più, se rimanda a una questione culturale anche molto sofisticata, la consulenza filosofica neppure ancora si configura come un mestiere. È vero che in Italia, già da una decina d'anni, associazioni più o meno autorevoli e soprattutto master universitari formano consulenti filosofici. Non si sa però con precisione quanti sianoi "professionisti" - più di quattrocento, secondo una stima di massima - e soprattutto se e dove svolgano un'attività che in molti preferiscono definire una "pratica". Neri Pollastri, nome notissimo nell'ambiente, che per Apogeo ha scritto due libri importanti, il secondo con un titolo problematico: Consulente filosofico cercasi, è il fondatore e l'attuale presidente di un'associazione ormai "storica" come Phronesis. Ma non si affanna a nascondere la realtà: «Sono uno di quei tre o quattro che in tutta Italia vivono facendo esclusivamente il consulente filosofico. Lavoro a Firenze: nel mio studio e da un anno anche in un Centro di salute mentale, insieme con psichiatri e psicoanalisti: un esperimento davvero interessante... Come mi definirei? Una persona che con i suoi strumenti puramente filosofici indaga sulla visione del mondo di un'altra che ne fa richiesta. È una definizione minima, lo so, ma è anche la sola condivisa a livello internazionale. Certamente non dò mai consigli e tanto meno spiegazioni di storia della filosofia: chi viene da me è interessato a ben altro».
È stato il tedesco Gerd Achenbach a inaugurare nel 1981, giusto trent'anni fa, la consulenza filosofica. Da allora si è diffusa in diversi Paesi, come l'Olanda e Israele, la Francia e soprattutto gli Stati Uniti- dov'è diventata una tecnica di problem solving. Come documenta un articolo del Washington Post, ci sono trecento "philosophical counselors" in 36 States che rispondono a un dettagliato elenco di problemi: divorzi, stress da lavoro, rovesci economici, difficoltà genitoriali, malattie croniche, complicate questioni sentimentali. Disagi esistenziali più che patologie evidenti.
Dice Umberto Galimberti, analista junghiano e "apripista" dei master di consulenza filosofica nell'università di Venezia in cui insegna: «Oltre alle emozioni, si ammalano anche le idee che spesso sono anche più forti degli istinti.
Se la capacità di ragionare è deficitaria, se si hanno delle idee sbagliate in testa, servirebbe innanzitutto acquisire nuovi strumenti mentali per rendere la propria condizione meno irriflessa. È in questo scenario - quando non c'è più rimedio nella religione, forse neppure in psicoterapia, e tanto meno in farmacia - che va situata la pratica filosofica come critica radicale all'esistente, nel passaggio epocale dalla società della disciplina - del permesso e del proibito - a quella dell'efficienza, del ce la faccio o non ce la faccio...». Ma lei, professore, nel suo studio fa l'analista o il consulente filosofico? «Valuto di volta in volta, ma ormai per un 50 per cento dei casi faccio consulenza filosofica: alcuni di quelli che vengono da me, la chiedono esplicitamente».
Ma chi sono questi "consultanti" che Achenbach chiama "ospiti"? Ne traccia l'identikit Annalisa Decarli, che fa parte dell'Osservatorio critico sulle pratiche filosofiche presso l'ateneo di Trieste: «Sono persone normali che vivono crisi coniugali, lutti, impasse professionali, difficoltà con i figli... E che in alcun modo si considerano "malate". Hanno fra i trenta e i cinquant'anni e sono soprattutto donne: gli uomini non sono più del 30 per cento del totale». A istituire l'Osservatorio è stato cinque anni fa Pier Aldo Rovatti, che ha curato per Mimesis Consulente e filosofo: «È un libro nato da un convegno in cui si faceva il punto sullo stato dell'arte delle pratiche filosofiche in Italia, discutendo a più voci il tema della consulenza individuale, della funzione del filosofo in azienda, nelle scuole, nelle istituzioni pubbliche... Le iniziative concrete intanto si sono moltiplicate, ma almeno per me è l'aspetto filosofico la posta in gioco di tutto: la funzione radicalmente critica del dubbio. Questo era anche il senso del mio libro uscito da Cortina: La filosofia può curare?».
Tra le "iniziative concrete", in questa rigogliosa giungla della filosofia antiaccademica, c'è anche il tentativo di creare felicità spirituale negli ambienti di lavoro, c'è Il business del pensiero, almeno secondo il titolo di un saggio tagliente di Alessandro Dal Lago. Ci sono i manager folgorati dalla filosofia, com'è il caso di Andrea Vitullo, l'autore di Leadershit ("Rottamare la mistica della leadership e farci spazio nel mondo", Ponte alle Grazie), un economista che con la sua società "Inspire"- così si chiama - propone la strategia della consulenza filosofica a grandi banche, aziende farmaceutiche, imprese familiari, multinazionali - come Intesa Sanpaolo, Volvo Trust, Cisco. Dice lui: «Il nostro è un approccio di cuore, di testa, di pancia. L'irrazionale conta moltissimo e la gente ha un bisogno disperato di rintracciare un senso in quello che sta facendo. Funziona così: due consulenti filosofici, che provengono dai master di Venezia e Verona, portano le persone a riflettere su di sé attraverso interventi di gruppo, workshop o anche coaching one to one ».
Socrate dall'agorà in ufficio, per lavorare meglio, meno solitari e meno alienati. E poi, tra scuole e scuolette, anche gli "Sportelli del Filosofo" disseminati nelle città. A Roma ce n'è uno aperto dal Comune e affidato a Rosanna Buquicchio, attivissima presidente di "Vivere con Filosofia": «Affrontiamo il disagio esistenziale dei nostri consultanti attraverso un dialogo che si fonda sullo stile e il metodo della filosofia. Mediamente abbiamo avuto una sessantina di richieste l'anno, il servizio è gratuito...». In questi giorni la sua associazione ha ospitato nella capitale Ran Lahav, guru americano "alla ricerca della saggezza" (come si legge nel titolo di uno dei suoi libri usciti da Apogeo). E però lui stesso sembra dubitare del successo dell'impresa, se il tema della conferenza lasciava aperto l'interrogativo di fondo. Infatti: "La filosofia oggi può ancora aiutare?".
Nessuno ne parla come di una terapia, tanto meno come di un'alternativa all'analisi: nel "prenderla con filosofia" non affascina l'enigmaticità dell'inconscio ma il rigore del pensiero, secondo l'idea che la sofferenza non è psicologica ma culturale: deriva dalla perdita di ogni bussola della mente, dal mondo indecifrabile e insensato in cui viviamo. Esclusa ogni ricetta sbrigativa controi più svariati disagi esistenziali, la consulenza filosofica punta a giocare sulla funzione critica del dubbio, scommette su scenari e argomenti nuovi, tenta di elaborare un punto di vista diverso e non schiacciato sulla realtà.
L'oggetto rimane comunque sfuggente, misterioso, evanescente. Sarà anche probabile che spesso Platone è meglio del Prozac, ma è esclusa la prescrizione dei filosofi al posto dei farmaci, a differenza di quanto promette quel titolo ad effetto del bestseller un po' facile di Lou Marinoff. Si potrà seguire il percorso di Hegel o Foucault, di Nietzsche o Popper, magari utilizzare il trascendentalismo di Kant o la fenomenologia di Husserl o la riflessione ontologica di Heidegger, ma fa sorridere l'idea di un collage di dotte citazioni e aforismi folgoranti adattati ai problemi di chi non si fida di un piccolo Freud e rischia di affidarsi a un Socrate in versione bonsai. In più, se rimanda a una questione culturale anche molto sofisticata, la consulenza filosofica neppure ancora si configura come un mestiere. È vero che in Italia, già da una decina d'anni, associazioni più o meno autorevoli e soprattutto master universitari formano consulenti filosofici. Non si sa però con precisione quanti sianoi "professionisti" - più di quattrocento, secondo una stima di massima - e soprattutto se e dove svolgano un'attività che in molti preferiscono definire una "pratica". Neri Pollastri, nome notissimo nell'ambiente, che per Apogeo ha scritto due libri importanti, il secondo con un titolo problematico: Consulente filosofico cercasi, è il fondatore e l'attuale presidente di un'associazione ormai "storica" come Phronesis. Ma non si affanna a nascondere la realtà: «Sono uno di quei tre o quattro che in tutta Italia vivono facendo esclusivamente il consulente filosofico. Lavoro a Firenze: nel mio studio e da un anno anche in un Centro di salute mentale, insieme con psichiatri e psicoanalisti: un esperimento davvero interessante... Come mi definirei? Una persona che con i suoi strumenti puramente filosofici indaga sulla visione del mondo di un'altra che ne fa richiesta. È una definizione minima, lo so, ma è anche la sola condivisa a livello internazionale. Certamente non dò mai consigli e tanto meno spiegazioni di storia della filosofia: chi viene da me è interessato a ben altro».
È stato il tedesco Gerd Achenbach a inaugurare nel 1981, giusto trent'anni fa, la consulenza filosofica. Da allora si è diffusa in diversi Paesi, come l'Olanda e Israele, la Francia e soprattutto gli Stati Uniti- dov'è diventata una tecnica di problem solving. Come documenta un articolo del Washington Post, ci sono trecento "philosophical counselors" in 36 States che rispondono a un dettagliato elenco di problemi: divorzi, stress da lavoro, rovesci economici, difficoltà genitoriali, malattie croniche, complicate questioni sentimentali. Disagi esistenziali più che patologie evidenti.
Dice Umberto Galimberti, analista junghiano e "apripista" dei master di consulenza filosofica nell'università di Venezia in cui insegna: «Oltre alle emozioni, si ammalano anche le idee che spesso sono anche più forti degli istinti.
Se la capacità di ragionare è deficitaria, se si hanno delle idee sbagliate in testa, servirebbe innanzitutto acquisire nuovi strumenti mentali per rendere la propria condizione meno irriflessa. È in questo scenario - quando non c'è più rimedio nella religione, forse neppure in psicoterapia, e tanto meno in farmacia - che va situata la pratica filosofica come critica radicale all'esistente, nel passaggio epocale dalla società della disciplina - del permesso e del proibito - a quella dell'efficienza, del ce la faccio o non ce la faccio...». Ma lei, professore, nel suo studio fa l'analista o il consulente filosofico? «Valuto di volta in volta, ma ormai per un 50 per cento dei casi faccio consulenza filosofica: alcuni di quelli che vengono da me, la chiedono esplicitamente».
Ma chi sono questi "consultanti" che Achenbach chiama "ospiti"? Ne traccia l'identikit Annalisa Decarli, che fa parte dell'Osservatorio critico sulle pratiche filosofiche presso l'ateneo di Trieste: «Sono persone normali che vivono crisi coniugali, lutti, impasse professionali, difficoltà con i figli... E che in alcun modo si considerano "malate". Hanno fra i trenta e i cinquant'anni e sono soprattutto donne: gli uomini non sono più del 30 per cento del totale». A istituire l'Osservatorio è stato cinque anni fa Pier Aldo Rovatti, che ha curato per Mimesis Consulente e filosofo: «È un libro nato da un convegno in cui si faceva il punto sullo stato dell'arte delle pratiche filosofiche in Italia, discutendo a più voci il tema della consulenza individuale, della funzione del filosofo in azienda, nelle scuole, nelle istituzioni pubbliche... Le iniziative concrete intanto si sono moltiplicate, ma almeno per me è l'aspetto filosofico la posta in gioco di tutto: la funzione radicalmente critica del dubbio. Questo era anche il senso del mio libro uscito da Cortina: La filosofia può curare?».
Tra le "iniziative concrete", in questa rigogliosa giungla della filosofia antiaccademica, c'è anche il tentativo di creare felicità spirituale negli ambienti di lavoro, c'è Il business del pensiero, almeno secondo il titolo di un saggio tagliente di Alessandro Dal Lago. Ci sono i manager folgorati dalla filosofia, com'è il caso di Andrea Vitullo, l'autore di Leadershit ("Rottamare la mistica della leadership e farci spazio nel mondo", Ponte alle Grazie), un economista che con la sua società "Inspire"- così si chiama - propone la strategia della consulenza filosofica a grandi banche, aziende farmaceutiche, imprese familiari, multinazionali - come Intesa Sanpaolo, Volvo Trust, Cisco. Dice lui: «Il nostro è un approccio di cuore, di testa, di pancia. L'irrazionale conta moltissimo e la gente ha un bisogno disperato di rintracciare un senso in quello che sta facendo. Funziona così: due consulenti filosofici, che provengono dai master di Venezia e Verona, portano le persone a riflettere su di sé attraverso interventi di gruppo, workshop o anche coaching one to one ».
Socrate dall'agorà in ufficio, per lavorare meglio, meno solitari e meno alienati. E poi, tra scuole e scuolette, anche gli "Sportelli del Filosofo" disseminati nelle città. A Roma ce n'è uno aperto dal Comune e affidato a Rosanna Buquicchio, attivissima presidente di "Vivere con Filosofia": «Affrontiamo il disagio esistenziale dei nostri consultanti attraverso un dialogo che si fonda sullo stile e il metodo della filosofia. Mediamente abbiamo avuto una sessantina di richieste l'anno, il servizio è gratuito...». In questi giorni la sua associazione ha ospitato nella capitale Ran Lahav, guru americano "alla ricerca della saggezza" (come si legge nel titolo di uno dei suoi libri usciti da Apogeo). E però lui stesso sembra dubitare del successo dell'impresa, se il tema della conferenza lasciava aperto l'interrogativo di fondo. Infatti: "La filosofia oggi può ancora aiutare?".

l’Unità 15.10.11
Nel mondo dei sogni visibili e invisibili
Dai popoli primitivi all’analisi collettiva: 40 psichiatri e psicologi spiegano in un libro come curare i malati di mente con l’interpretazione dei racconti onirici. Anticipiamo stralci di un brano sulla storia del sogno nell’antichità
di Francesca Fagioli, Martina Apatnè e Ludovica Telesforo


Il sogno ha sempre avuto un ruolo rilevante nella storia dell’uomo, il quale si è costantemente interrogato sulle origini e sul significato di queste misteriose immagini. Per i popoli primitivi il sogno rappresentava una forma di comunicazione tra il mondo del divino e il mondo dell’umano: «Il mondo visibile e il mondo invisibile formano una sola cosa. La comunicazione tra ciò che noi chiamiamo realtà sensibile e le forze mistiche è costante e nei sogni avviene in modo immediato e completo. Il sogno porta così ai primitivi dei dati che, ai loro occhi, valgono altrettanto, se non più, che le percezioni acquisite durante la veglia».
Il sogno era quindi uno strumento per giungere a una conoscenza più ampia della realtà e consentiva di acquisire elementi nuovi del sapere. Concetto che viene ribadito in modo simile anche da Gerardus van der Leeuw, il quale nel suo L’uomo primitivo e la religione sottolineava come la coscienza onirica venisse considerata alla pari della coscienza diurna e che le uniche differenze fossero nelle modalità espressive, fatte di immagini e figure, nella prima, e di concetti, nella seconda.
Nei popoli primitivi si riconosceva inoltre una differenza tra sogni «veri» e validi e sogni «falsi» e ingannevoli, intendendo come «veri» quelli caratterizzati da una valenza profetica (sogni-presagio), e perciò considerati «sacri». La dimensione del presagio era comunque intima e personale, restando legata all’individuo che poteva scegliere di condividere o meno questa conoscenza con gli altri conferendogli così un valore sociale e collettivo. Il sogno sciamanico, al contrario, presentava una funzione più utilitaristica rispetto al sognopresagio, in quanto la sua interpretazione era sempre legata al verificarsi di eventi in rapporto a bisogni umani e sociali.
ASSIRO-BABILONESI
Nella vita degli Assiro-Babilonesi il sogno occupava un posto di estremo rilievo; gli interpreti dei sogni, la cui identità era essenzialmente magico-sapienzale, venivano consultati per qualsiasi decisione, dalla più comune, come un matrimonio, alla più importante, come il destino di un regno.
Anche gli Egizi discutevano di sogni: venivano considerati uno stato mentale extracosciente che permetteva l’accesso a un mondo dominato da forze primordiali eterne e non create; i sogni avevano facoltà premonitrici, divinatorie e terapeutiche (anche nei riguardi della sfera sessuale) e venivano suddivisi in sogni dei credenti, accompagnati da Horus, dio buono, e in sogni dei miscredenti, che viaggiavano con Seth, dio dell’ombra, una distinzione tra tipologie di sogni già presente nei popoli primitivi. Sappiamo inoltre, grazie al ritrovamento di un prezioso papiro, il Chester Beatty III, risalente al 2000 a.C., che gli Egizi utilizzavano diverse tecniche di interpretazione del sogno, basate su giochi di parole, sul modo in cui veniva narrato e sulla corrispondenza simbolica. In Egitto, inoltre, come racconta Erodoto, veniva praticata la tecnica dell’incubazione dei sogni, che consisteva nel «cercare», in luoghi di culto o preghiera, sogni che chiarificassero eventi futuri, generalmente riguardanti la salute del sognatore.
L’EBRAISMO
Per la cultura dell’antico Israele il sogno proveniva direttamente da Dio, che attraverso esso dettava le sue leggi, e i sogni più significativi erano considerati allegorici e profetici. Tuttavia, nell’Antico Testamento non mancano condanne contro l’oniromanzia – considerata un residuo della religiosità popolare e superstiziosa – che confermano un giudizio più che ambiguo nei riguardi del sogno. Nonostante questo, ci sono alcune regole che i maestri talmudici consideravano fondamentali per l’arte interpretativa: la simbologia e l’allegoria; la paronomasia, o bisticcio di parole, fondata sulle omofonie e omografie; il calcolo numerico delle lettere delle parole; lo scambio delle lettere alfabetiche.
L’ISLAM
L’oniromanzia veniva praticata in Arabia già nel periodo preislamico e successivamente dopo la diffusione dell’Islam fu l’unica arte divinatoria a non essere ripudiata, in quanto considerata mezzo fondamentale per conoscere la volontà del cielo e i segreti dell’avvenire. Nei testi onorimantici si legge che il Profeta Maometto era molto interessato a quest’arte e che la trasformò in una vera scienza con un assetto sistematico. Il Profeta Dinawari, massimo teorico del sogno dell’Islam, scriveva: «Il sogno è una conversazione tra l’uomo e il suo Dio», e queste parole si ritrovano anche nei versi del Corano. Non stupisce, perciò, l’importanza che veniva riconosciuta agli interpreti dei sogni, che dovevano essere uomini di cultura, credibili e dignitosi, spesso appartenenti alle file dei giudici, dei filosofi, dei medici e dei maghi. Numerose sono le testimonianze scritte sulle tecniche di interpretazione – esistevano persino dei dizionari di rapida consultazione – in cui, oltre a offrire preziosi suggerimenti, si invitava a tener presente il contesto sociale, economico e culturale del sognatore. L’importanza data al sogno è infine confermata da altri due elementi: il primo è che nel mondo islamico gli uomini venivano classificati in base a categorie che corrispondevano a ciò che sognavano e il secondo è che il custode dei sogni era chiamato Sadiqun, che in arabo vuol dire «veritiero».

Da oggi in libreria: Psicoterapia di gruppo Ecco un manuale
La medicina della mente, Daniela Colamedici Andrea Masini Gioia Roccioletti, pagine 396 , euro 30,00, L’asino d’oro
«La medicina della mente. Storia e metodo della psicoterapia di gruppo» è un manuale sulla cura della malattia mentale con l’interpretazione dei sogni.

l’Unità 15.10.11
Il bilancio: morti e dispersi nel Mediterraneo: 2151 in nove mesi
Tutte le vittime della fortezza Europa
Il dramma degli immigrati
di Valentina Brinis


Duemilacentocinquantuno (2151) è il numero delle persone che nel corso dei primi nove mesi del 2011 sono morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo per raggiungere le coste dell’Italia e della Spagna.
Morte oppure disperse. Dal momento che l’entità di un fenomeno è determinata da molti fattori e in primo luogo dalle cifre che lo descrivono, in questo caso, anche se si tratta di numeri approssimati per difetto, il quadro che emerge fa rabbrividire.
La fonte è quella delle brevi notizie battute dalle agenzie di stampa italiane e straniere e il rapporto Onu sulla condizione dei migranti e dei richiedenti asilo provenienti dal Nord Africa (settembre 2011).
Informazioni non esaustive? Probabilmente sì, ma quel che è certo è che la precisione in questo caso è impossibile poiché la cornice in cui si manifesta il dato (ripeto: 2151 tra morti e dispersi) è quello della completa irregolarità (causa principale dei naufragi).
Si tratta dell’irregolarità delle imbarcazioni, del numero di passeggeri, di chi li trasporta in Italia, delle condizioni di navigazione e, non meno problematica, l’irregolarità delle persone a bordo. Aspetto quest’ultimo che, al momento dell’approdo, preoccupa a tal punto da immaginare – e attuare – l’immediato rimpatrio.
Non solo, anche per chi sul territorio italiano riesce a rimanere è complicato far valere il motivo della fuga come ragione fondante della richiesta di protezione internazionale. A questi superstiti, poi, spetta il compito, come dire in qualità di esseri umani, di raccontare la tragedia dei compagni di viaggio che non ce l’hanno fatta. Tocca a loro dare un volto, associare una biografia e a volte offrire un fiore, a chi a quella fuga non è sopravvissuto. Tocca a loro connotare di umanità quel numero: 2151.
Una cifra che più viene pronunciata e più rischia di essere svalutata e banalizzata, fino a perdersi negli altri numeri tristi dell’emigrazione.
Una cifra che invece andrebbe considerata come la punta di un iceberg di cui pochi vogliono capire ed esaminare la dimensione e le caratteristiche.
Si tratterebbe infatti di un’analisi delle responsabilità perché quei morti e quei dispersi sono il primo effetto delle politiche di chiusura che hanno reso impermeabile il concetto di Fortezza Europa.
Tra le altre il potenziamento dell’agenzia Frontex, organo la cui principale attività è quella del pattugliamento delle “frontiere esterne” dei paesi dell’Unione Europea. Seppure non fosse una relazione immediata di causa-effetto non è indubbio che sistemi intransigenti di controllo vengano aggirati da strategie, ovviamente illegali, che producono più facilmente vittime. 2151 in nove mesi.

l’Unità 15.10.11
Aiutiamo ad essere italiani i ragazzi che compiono diciotto anni


Numerose in questi anni sono state le campagne per ricordare che l’attuale legge italiana sulla cittadinanza (la 91/92), contiene alcuni principi dello ius soli (è cittadino chi nasce in quel territorio) che rimangono sconosciuti a chi ne potrebbe beneficiare. Si tratta della possibilità per i neo diciottenni stranieri nati e cresciuti in Italia, di presentare domanda di cittadinanza entro il compimento del diciannovesimo anno. Da sempre, a occuparsi del tema, sono stati gli aderenti alla Rete G2, che di recente, assieme a Save The Children, hanno lanciato l’iniziativa “18 anni...in Comune” che ha trovato il sostegno dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci). L’idea, già sostenuta in passato ma che era rimasta inapplicata nella maggior parte dei casi, è quella di inviare una lettera a circa quindicimila diciassettenni attualmente stranieri anche se nati in Italia, invitandoli a presentare tempestivamente la domanda di cittadinanza entro il termine previsto. Quindi fino a che non verranno approvate nuove proposte di legge in materia, è meglio applicare al meglio quel che già c’è. Ma non è l’unico passo a proposito di cittadinanza. Il comitato “L’Italia sono Anch’io” da un paio di settimane raccoglie le firme perché la proposta di legge di iniziativa popolare, che prevede alcune modifiche all’attuale 91/92 arrivi in Parlamento. Si tratta di una iniziativa che propone uno ius soli “temperato” che prevede, anche in questo caso, un diritto di suolo che renda automaticamente cittadino chi nasce nel territorio dello stato, indipendentemente dalla cittadinanza dei suoi genitori. Cinquantamila sono le firme da raccogliere. Tutte le informazioni su dove trovare i banchetti nella vostra città sono sul sito www.litaliasonoanchio.it.

l’Unità 15.10.11
Intervista a Katrina vanden Heuvel
«Movimento innovativo non è il Tea Party di sinistra»
La direttrice di The Nation «Occupy Wall Street? È una ventata
di energia per i Democratici. Ma quello che si chiede è un cambiamento di sistema: ripulire la politica e l’economia per la middle class e i poveri»
di Martino Mazzonis


Oggi è stato un giorno importante: non hanno ripulito il parco, ed è stato emozionante vedere arrivare gli edili che stanno lavorando alle torri che sostituiranno il World Trade Centre e altra gente a proteggere l’occupazione. Poi per fortuna non è successo nulla». A raccontare del mancato sgombero di Zuccotti Park a Manhattan è Katrina vanden Heuvel, direttore di The Nation, il settimanale della sinistra americana per eccellenza. Katrina è anche una delle voci più note del movimento progressista.
Come è successo che una manifestazione simbolica organizzata da un piccolo gruppo sia diventata di colpo un movimento nazionale?
«In realtà sono mesi che gruppi e reti sono al lavoro, non c’è solo questa mobilitazione. Ma Occupy Wall street ha catturato l’immaginazione delle persone. L’obiettivo così simbolico, Wall street, e la forma di protesta, con le persone che si mettono in gioco occupando uno spazio pubblico, ha portato l’attenzione su molte altre cose che succedono in questo Paese. I media, che parlano del Tea Party come dell’unica cosa che si muove, hanno dato spazio ad altre forme di mobilitazione. E così, la gente in giro per il Paese ha visto e cominciato a organizzare le proprie occupazioni. Ce ne sono centinaia e sono ovunque. Poi si sono avvicinati i sindacati e altre organizzazioni sociali e politiche. Quindi, dai primi militanti, più attenti a grandi questioni generali, siamo ad una coalizione che potrebbe ridisegnare il panorama politico».
Perché è successo oggi e non quando c’erano importanti leggi in discussione e la destra era all’attacco? «Perché dopo l’elezione di Obama in molti hanno esitato a mobilitarsi. Peccato, perché è fondamentale per produrre cambiamenti nel nostro Paese. La storia delle riforme degli Usa è fatta di manifestazioni. Ma oggi, dopo una certa disillusione c’è la consapevolezza che Washington non sarà mai il traino di grandi riforme senza un vento popolare. La gente si rende conto che stare seduti ad aspettare non porta frutti».
Che filo lega questa protesta con quella del Wisconsin – una mobilitazione di settimane contro una legge statale che limita i diritti sindacali – o con Seattle nel 1999?
«Io credo ad esempio che tra il Wisconsin e gli indignados spagnoli ci fosse un legame. Tra quelli di Wall street ci sono persone che erano a Seattle. Ma nel 1999 l’obbiettivo era specifico – il Wto – e si trattava di una mobilitazione di una settimana. Stavolta siamo di fronte a qualcosa che ha l’aria di continuare. Credo che nelle manifestazioni di oggi avremo il senso di un movimento globale. Quel che non credo è che questo sia un Tea Party di sinistra, è un’altra cosa. Occupy Wall street cerca un cambiamento di sistema e vede i democratici come troppo dipendenti dai soldi delle corporation. C’è un’energia diversa che sente di poter provare a ripulire la nostra politica e far funzionare l’economia per chi lavora, per la middle class e per i poveri».
Riusciranno a stare insieme cose tanto diverse?
«Alcuni a Occupy Wall Street sono preoccupati di venire assorbiti dalla politica nazionale. Ma sanno anche che loro compito è quello di crescere e lavorare assieme agli altri in coalizione. Alla conferenza di Washington della scorsa settimana – «Take Back America», organizzata da sindacati, associazioni per i diritti, ambientalisti – c’era la comprensione dei diversi ruoli delle forme di partecipazione politica e sociale. Le organizzazioni progressiste nazionali ne avranno uno più legato alla politica elettorale. Almeno è quello che spero». Che effetto sta avendo questo movimento sui democratici?
«Credo che l’energia stia spingendo una parte del partito a ridefinire le priorità: c’è più discorso su lavoro e tasse per i milionari e meno sul deficit. Ma il partito democratico è composito. Il progressive caucus lavora costantemente con The Nation, poi ci sono democratici legati a doppio filo con le corporation. Questo movimento deve appoggiarsi e lavorare con il partito democratico ma non dipendere da esso».

La Stampa 15.10.11
Indignados. La rivolta a Wall Street
Un giorno nella vita di Zuccotti Park tra i ribelli pacati dell’altra America
Turisti, politici, intellettuali e broker di Borsa, tutti pazzi per i manifestanti
di Gianni Riotta


Puliscono il marmo di Zuccotti Park con spazzoloni, saponata e la foga di chi vuol dimostrare al mondo di sapersi comportar bene. Studentesse bionde venute dall’Alabama, mamme pacifiste che lavorano a maglia pregando, «Speriamo non ci sgombrino oggi, è il mio compleanno», militanti della vecchia sinistra Usa, per ora niente brutti ceffi. Benvenuti nella piazza americana della rivolta contro Wall Street, capitale di Occupy Wall Street, movimento esiguo nei numeri, vezzeggiato da media e potenti, diffuso alla velocità del web nel mondo 2011.
A Zuccotti Park ci sono ospedale e farmacia, gestiti da un infermiere in camice nero e croce rossa sul petto, i medicinali distribuiti a chi sembra più intronato, vuoi per l’umidità dopo settimane di occupazione, vuoi per birra e spinelli.Dietro è allestita la mensa, tavolini e tovaglie bianche dove si servono fette di pizza gelata, sandwich fatti in casa con la verza, frutta, un pentolone di anelletti al ragù - nessuna stella Michelin temo. Tutto gratis, chi vuole lascia qualcosa nel salvadanaio, raccolti finora 175.000 dollari (125.000 euro): la contabilità in pubblico su una lavagna.
Nell’angolo a Sud-Ovest la biblioteca: e mentre frugo tra i libri la ragazza che sta seduta davanti alle scatole impermeabili alla pioggia mi chiede di sostituirla: «Io? Lei, solo un attimo please». E così mi ritrovo bibliotecario di Zuccotti Park, e domando, preoccupato: «Prendo nota dei prestiti? Macché - ribatte lei libertaria - siamo comunità, unita come il mare e i fiumi buddhisti».
In effetti all’altra estremità di piazza Utopia, oltre i picchetti del sindacato con l’elmetto giallo Longshoremen, gli scaricatori, 32BJ, edili, oltre la band a torso nudo che impazza sui tam tam e balla, i buddhisti meditano in trance perché Wall Street, il cui stato maggiore ci scruta dai grattacieli intorno, «comprenda che l’1% della popolazione non può impoverire il 99%» come spiega Jeff Smith a chiunque chieda. Ha sul maglione il distintivo «Ask me», chiedimi pure, dei volontari per i media. In piazza ci saranno duemila persone, i giornalisti, i bloggers, i cameramen, i citizen reporter, le troupe nemiche e fischiate dei populisti di destra «Fox», sono invece frotte: la rivolta in real time. Passano i giganteschi bus a due piani con i turisti, mal comune di tutte le città, applaudono, mandano baci, incitano gli stanchi eroi di Zuccotti Park.
Guardo i titoli della biblioteca che son chiamato a custodire, il Manuale» di politica di Carville, guru del presidente Clinton, «L’Arte della Guerra» di Sun Tzu in un’ottima edizione, tascabili di fantascienza. Un ragazzo legge «Social problems, a modern approach» vecchio tomo del sociologo Becker e si tira sulla testa la tenda blu contro l’umidità. Chi volesse dedurre l’identità sociale, culturale e politica del movimento dai suoi libri, chi volesse ricavare il manifesto, le richieste, la filosofia nell’America della crisi economica e delle due guerre, in campagna elettorale per la Casa Bianca 2012, perderebbe tempo. I libri arrivano in omaggio, sì anche da manager in attillati blazer blu italiani, ma nel mio mandato da custode ne cederò in prestito solo uno: «Guida alle start up, come aprire in pochi giorni il vostro business privato».
Inutile gridare alla contraddizione, vi sgolereste senza persuadere nessuno qui, perché Zuccotti Park è il corto circuito delle ideologie del ‘900, Ground Zero dei fermenti del XXI secolo. Vi ammoniscono loro stessi, fanciulli con i riccioli rasta, sindacalisti duri, bloggers che twittano sotto la pioggerella, inastando su un cartelloil verso del poeta profeta d’America, il Walt Whitman caro a Pavese, «Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico, perché ho dentro moltitudini…».
Il movimento, malgrado vanti cortei in 100 città e 88 metropoli all’estero, resta piccino, una minoranza stretta tra le vetrine con i vestiti impeccabili di Brooks Brothers e l’onnipotenza di Wall Street due isolati a Nord, protetta dalle transenne grigie della polizia. Questa gente, il militante che suona Glory Alleluja al sax, il tamburino strafatto, il picchetto contro le miniere di shale gas, non vi darà nessuna idea che non sia «Noi siamo il 99%, Wall Street l’1%». La scrittrice «no Logo» Naomi Klein lo sa e fa un comizio senza altoparlante, vietato, si affida al microfono umano, passaparola nella folla: «Vi amo, non cediamo alla violenza, non facciamo la fine del movimento no global».
Eppure il movimento è coccolato da mezza America. Il presidente Obama e il suo vice Biden assicurano che da Zuccotti Park vengono sentimenti da ascoltare nella corsa alla Casa Bianca. John Podesta, stratega principe del Presidente, vuol sostenere anche con fondi i pionieri di Zuccotti Park. Il vecchio Bill Clinton, dal comico tv Letterman, giudica il movimento «molto positivo», il suo ex vicepresidente e premio Nobel per la pace Al Gore si precipita a imitarlo. I ribelli del 99%, con i loro cartelli gelidi «Obama grazie di tutto e vaff...», sono elogiati dal presidente della Federal Reserve, la Banca centrale, Ben Bernanke, «se la prendono con la finanza e la politica economica, come dar loro torto?», e l’esangue ministro del Tesoro Tim Geithner rilancia «Simpatizzo con i dimostranti». Il «New York Times» è innamorato dei ribelli, il Nobel Krugman tifa per loro, critico solo l’editorialista David Brooks «Tutto ok, ma che proponete?».
Insomma, mentre vengo congedato dal mio ruolo di bibliotecario che ha dato in prestito un volume di business ai nemici del business, mi aspetterei quasi che dalle torri di vetro e cemento che ci circondano scendano i gentlemen dell’1%, a genuflettersi e scusarsi, portando in tasca certificati di debito da stracciare, azioni da reinvestire sul mercato equo e solidale.
La simpatia che l’establishment americano - con l’eccezione della destra radicale - ha deciso di dimostrare al movimento contagia perfino l’esclusiva festa per i 90 anni del Council on Foreign Relations, bastione del potere Usa, organizzata a Manhattan. Con l’invito i Vip ricevono in anteprima uno scritto del saggista George Packer, «Il contratto infranto», che denuncia, al party delle élites, il fallimento delle élites, l’avarizia di Wall Street, il crollo delle istituzioni, la resa dei politici alle lobbies che ne finanziano le campagne elettorali - «i poveri non ci danno mica fondi» ironizzava il senatore Bob Dole -, la fine della classe media e l’era dei super-ricchi. E i super-ricchi che celebreranno a Park Avenue, mentre fuori Occupy Wall Street protesterà, citano compunti i numeri di Packer: «Tra il 1979 e il 2006 il ceto medio americano ha visto il proprio reddito, al netto di tasse e inflazione, salire del 21%. I poveri solo dell’11% mentre l’1% dei ricchi ha aumentato il reddito del 256%, triplicando la propria fetta di reddito nazionale fino al 23%, record dal 1928».
È in questi numeri la sola forza del movimento, non nelle povere tende di Zuccotti Park o nei teneri banchetti con i panini ammollati dalla pioggia, né tra i dimostranti con i cappellacci peruviani e il filtro biologico per trasformare l’acqua sporca dei piatti in concime per piante organiche. L’identikit sociale di questa folla è semplice, sono l’eterna «altra America» della scrittrice Nanda Pivano, i dropout, gli esclusi, sempre ai margini, vagabondi hobos, beatniks, hippy, no global. Ma le cifre di Packer sono vere, pesanti, e ogni banchiere in giacca e cravatta, ogni broker in tailleur blu che passano sa che suonano anche per loro e le loro famiglie. Nella rivolta di Berkeley del 1964 e a Columbia 1968 gli studenti imprecavano contro la middle class, la borghesia irrisa nel capolavoro del regista Nichols, «Il laureato». Oggi i ribelli - molti dei quali non hanno mai avuto un posto fisso - alzano cartelli chiedendo «più lavoro per il ceto medio» e prendono applausi e occhiate di simpatia. Marx voleva abbattere la borghesia, la borghesia ha cambiato il mondo e imposto se stessa in Russia e in Cina. Stretta alle corde dalla crisi 2007, trova sostegno in questi bizzarri ex nemici.
Non saranno i ragazzi di Zuccotti Park a cambiare l’America. Le loro idee (ieri sul «24 Ore» Christian Rocca ha anticipato il manifesto che apparirà su Google) sono elementari: tasse, welfare, un po’ di propaganda anti Casta, ecologia, pacifismo. E un sondaggio del settimanale «Time» conferma che la maggioranza degli americani ritiene effimera la protesta. Ma - ecco la paradossale energia di Occupy Wall Street - il 54% degli elettori ha stima della protesta, consenso doppio di quello, in declino, della destra Tea Party. Sono con la protesta il 57% dei maschi e il 51% delle donne, il 60% dei giovani sotto i 34 anni ma anche il 51% degli anziani. Popolari tra i democratici, gli occupanti sono sostenuti dal 55% degli elettori indipendenti e perfino da un repubblicano su tre.
Non vi aspettate di vedere questi numeri in piazza. La simpatia nasce dalla paura della crisi, dalla scomparsa dei posti di lavoro per il ceto medio anticipata dall’economista Rajan, non dall’adesione allo stile di vita alternativo di Zuccotti Park. E per questo, fin qui, nessuna traccia di protesta nelle università celebri, Princeton o Columbia, dove gli studenti seguono piuttosto Collegefashion.net, sito per imparare a vestirsi con eleganza: il sogno è finire nell’1% dei ricchi, prima di protestare con il 99% di chi ricco non è. La vecchia sinistra dei militanti 1968, come Todd Gitlin, oggi professore di mass media, cerca goffa di saltare sulla protesta ma non ce la farà. «Non abbiamo idee perché è troppopresto per averle, abbiamo candore morale» assicura il portavoce Jeff Smith. Chi passa da Wall Street, ammazzandosi di faticaper tenere duro nel ceto medio, lancia un sorriso di simpatia a chi, antiborghese tosto, fa da Piccola Vedetta di Downtown, nostalgica del buon capitalismo di una volta. La minoranza rumorosa ha finito per difendere la maggioranza silenziosa invocata dal presidente Nixon.
Doman tornerò alla mia biblioteca, portando in regalo qualche romanzo classico, qualche saggio con le idee nuove su mercato, lavoro e geopolitica del 2000, ma anche altri manuali per piccole imprese e professioni: dopotutto anche io sto nel 99% no?

La Stampa 15.10.11
Bloomberg rinvia lo sgombero Ma la polizia stringe l’assedio
Nuovi scontri con gli agenti che ora esibiscono mucchi di manette di plastica
di Maurizio Molinari


Con una levata di scope e mattarelli verso il cielo, accompagnata da boati di gioia, i manifestanti di Occupy Wall Street alle 6 e 40 del mattino di ieri hanno salutato come una vittoria la decisione del sindaco Michael Bloomberg di rinviare l’evacuazione forzata di Zuccotti Park, dove sono accampati dal 17 settembre per dimostrare contro «l’avidità del capitalismo». Il braccio di ferro si è concluso quando la città di New York, via Twitter, ha fatto sapere che la società immobiliare proprietaria di Zuccotti Park - Brookfield Properties - aveva deciso di non mandare le proprie squadre di spazzini in ragione dell’igiene ripristinata grazie all’impegno dei manifestanti nelle 48 ore precedenti. E in effetti Zuccotti Park è stato lavato da centinaia di volontari, che hanno anche tolto le insegne e riordinato tanto l’area del dormitorio che la zona della mensa.
Il passo indietro di Bloomberg ha scongiurato quella che si preannunciava come una vera battaglia perché Occupy Wall Street aveva promesso via Facebook «resistenza non violenta a oltranza» e «catene umane per resistere alla polizia». Ma la «festa delle scope», come alcuni manifestanti hanno chiamato la danza della vittoria, è degenerata quando l’eccesso di euforia ha portato piccoli gruppi a entrare in contatto con gli agenti, con il risultato di una decina di arresti e tafferugli. A confermare che fra agenti e manifestanti in realtà c’è solamente una precaria tregua è lo schieramento che il Dipartimento di polizia ha messo in atto subito dopo la mancata evacuazione: le transenne sono state spostate sopra il selciato del parco e i poliziotti hanno creato un’area dove è impossibile sostare lungo i bordi della zona verde, restringendo di fatto i movimenti dei manifestanti che per tutta risposta hanno innalzato cartelli contro «Il Dipartimento di polizia protettore dei ricchi» sventolando grandi bandiere pacifiste. Come se non bastasse gli agenti sono schierati a ridosso delle transenne con ben in vista mucchi di manette di plastica, lasciando intendere di avere l’ordine di adoperarle in fretta, se la situazione dovesse richiederlo. Occupy Wall Street può vantare di aver conservato il controllo di Zuccotti Park ma è di fatto cinta d’assedio e sebbene i sostegni in casa democratica continuino ad aumentare - ieri è stata la volta dell’ex presidente Al Gore a sottoscrivere la loro sfida - cominciano ad emergere anche le critiche. Come nel caso di quelle sollevate dall’ex presidente Bill Clinton che intervenendo al «Late Show» di David Letterman gli ha suggerito di «avanzare delle proposte concrete per evitare di finire per essere solo un movimento negativo, contro qualcosa e non per qualcosa».
A confermare che la pressione contro gli indignati americani sta crescendo c’è quanto avvenuto a Denver, dove la polizia ha evacuato con la forza il Lincoln Park davanti al Parlamento del Colorado con un blitz all’alba che ha lasciato poca scelta ai manifestanti: andarsene o finire in prigione.

il Fatto 15.10.11
Per un giorno il mondo parla spagnolo
Novecento città unite nella protesta nata 5 mesi fa a Madrid
di Manuel Anselmi, Alessandro Oppes e Angela Vitaliano


Il mondo parla con inconfondibile accento spagnolo. Sono più di novecento le città di oltre 80 paesi dei cinque continenti che oggi scenderanno in piazza rispondendo a un appello venuto da lontano.

MADRID Era il 30 maggio, appena due settimane dopo la nascita del movimento degli “indignados”, quando nel clima di euforia della Puerta del Sol, fra tende da campeggio, gruppi di lavoro e assemblee permanenti, nacque l’idea un po’ folle di trasformare una protesta locale in manifestazione planetaria. Lo slogan globale venne scandido la prima volta nelle piazze di Spagna il 15 maggio: “Uniti per un cambiamento globale. Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri, loro non ci rappresentano”. Parole concordate nell’assemblea preparatoria che, nei giorni scorsi, ha riunito a Barcellona i rappresentanti di una quindicina di paesi.
 In Spagna saranno oltre 60 le città che scenderanno in piazza, ma il cuore della protesta sarà, ancora una volta, la Puerta del Sol, dove tutto prese il via in un pomeriggio di primavera, a pochi giorni dalle elezioni amministrative che segnarono la disfatta del Psoe di Zapatero. Anche questa volta, ci sono elezioni in vista: manca un mese alle politiche. Ma loro, gli “indignados” di Spagna, ripetono: “Non ci interessa. Questi politici non ci rappresentano”.
 NEW YORK Alla fine, gli “indignados” di Wall Street si sono armati, ma solo di scope, disinfettanti e strumenti da giardinaggio per rifare un po’ il make up delle aiuole di Zuccotti Park. La decisione degli occupanti è scattata dopo che il sindaco Bloomberg, giovedì sera, aveva annunciato che ieri mattina, alle 7, gli addetti alla sanitation si sarebbero recati nell’area per il regolare lavoro di pulizia che, da circa un mese, non viene effettuato proprio per la protesta in atto. Il sindaco, che aveva fatto una visita a “sorpresa” agli “occupanti”, spiegando che Zuccotti Park doveva essere sgomberato prima dell’arrivo degli spazzini, aveva provato anche a rassicurarli sul fatto che, subito dopo, la protesta avrebbe potuto ricominciare regolarmente. Un’ipotesi che, però, non è andata giù ai ragazzi che temevano la messa in atto di regole ancor più restrittive, come il divieto di utilizzo di sacchi a pelo, unica difesa contro il freddo e la pioggia che nella notte di giovedì è caduta copiosa. Intanto per oggi, è prevista una mobilitazione degli studenti delle scuole di ogni grado, in supporto all'occupazione di Zuccotti Park la cui onda d'urto non accenna a diminuire.
 SANTIAGO Sono giovani, sono comuniste e sono donne. Hanno dei ruoli di dirigente, di portavoce, di responsabili. L’opinione pubblica mondiale, conosce soprattutto il nome di Camila Vallejo. Soprattutto grazie alla sua bellezza. Ma la Vallejo il 15 novembre, data della rielezione del portavoce della Confech, la confederazione dei movimenti universitari, molto probabilmente lascerà. Forse sparirà nell'anonimato come molti suoi predecessori, forse, come invece spera il Pc cileno che l'ha già inserita nel coordinamento nazionale del partito, continuerà a fare politica. Di sicuro, dietro di lei, tra le fila de movimento, ci sono tante ragazze pronte a prendere il suo posto. Come Camila Donato, Daniela Serrano o come Karola Carioli. Ancora più giovani della già giovane Vallejo. È singolare che molte di loro si chiamano Camila, qualcuno ipotizza in onore di Camilo Cienfuegos, il compagno di lotta di Fidel Castro morto per un incidente subito dopo la rivoluzione. Di sicuro molte di queste ragazze vengono da famiglie di comunisti che hanno sopportato duramente gli anni della dittatura di Pinochet.

il Fatto 15.10.11
Contro una casta senza onore c’è solo la ribellione
Massimo Ottolenghi ha 95 anni e sta con gli indignati
di Silvia Truzzi


La porta del taxi si apre da fuori: “Sono venuto a prenderla, avrebbe faticato a trovare la strada”. Massimo Ottolenghi ci accompagna dentro il parco di quella che un tempo era “la casa della villeggiatura” dei suoi nonni, un passo dopo l’altro. E sono passi fermi, meno incerti di quanto l’età farebbe immaginare. E sono occhi trasparenti, che hanno attraversato 95 anni con la mite sicurezza della ragione. Partigiano, magistrato, avvocato, scrittore: il suo ultimo libro potrebbe essere il manifesto degli indignados: Ribellarsi è giusto (Chiarelettere, 12 euro, 120 pagine).
 Perché è giusto ribellarsi?
 Ci troviamo di fronte a uno spettacolo disastroso: le istituzioni occupate dai partiti e strumento di una scalata al potere, da parte di una casta quanto meno non onorevole. C’è stata una fascistizzazione dei partiti: il partito fascista è stato il primo a occupare le istituzioni. Ma si fece un enorme sbaglio, da non ripetere, dopo la Liberazione.
 Quale?
 La mancata epurazione. Bisognava liberarsi degli autori di quella occupazione delle istituzioni. Non è stato fatto. Se il potere non è della legge, non è dei cittadini, ma delle cricche e degli affari come accade oggi, la democrazia si sfascia.
 Riciclarsi è il peggior vizio italico?
 Questa situazione che viviamo con Berlusconi, l’abbiamo già vista con Craxi: è un errore di sistema.
 Perché non siamo mai riusciti a individuare chi era stato dalla parte sbagliata nei momenti cruciali?
 Non è che non siamo riusciti. Non abbiamo affrontato un processo di rigenerazione come la Germania, che era arrivata a un punto tragico di degenerazione. Ma ha saputo riformare se stessa e le coscienze dei cittadini.
 Siamo in un regime?
 Si, perché siamo condizionati. Berlusconi è l’espressione di una continuità. Una malattia che nasce dal pietismo cattolico, dai comodi arrangiamenti nei momenti di trapasso dei poteri: penso alla Liberazione e a tutte le altre fasi critiche della storia d’Italia. Un eterno compromesso.
 Nel suo libro scrive: “Oggi non possiamo nemmeno sperare nel rinnovarsi del miracolo del 1945, di una momentanea convergenza di consensi degli estremi opposti”. Perché?
 Allora c’è stata una concorde discordia, di uomini onesti che avevano idee diverse: ma tutti avevano sofferto e combattuto il fascismo. Oggi non vedo figure di quello spessore. E poi non abbiamo bisogno di una Costituente. Abbiamo una Carta perfetta: calpestata e offesa. È stato un dono, grazie al sacrificio della nostra generazione.
 È stato buttato via?
 Sì, se non difendiamo la Costituzione.
 È arrabbiato?
 Molto, per il prezzo che è stato pagato. Ho visto un ragazzo di 18 anni morire dicendo: ‘Però si andrà al voto’. Oggi andare a votare è una volgarità.
 La legge elettorale è stata soprannominata Porcellum.
 Ha toccato un punto fondamentale. Tenga. (Mi porge un foglio, protetto dal cellophane. Dentro c’è la scheda elettorale del 1929, ndr). Erano le ultime elezioni, quando il fascismo cercò una legittimazione. Guardi cosa c’è scritto: ‘Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio nazionale del Fascismo?’. Che differenza c’è con oggi? Nessuna.
 Si è evocato il 25 luglio. Perfino pensando che Napolitano potesse essere un novello Dino Grandi.
 Dino Grandi era un fascista e Napolitano è sempre stato coerente con le sue idee. Ma non pensiamo che lo possano essere Scajola o Pisanu. Guai se barattiamo Berlusconi con Scajola. E poi Di-no Grandi, seppure fascista, era uomo di una certa statura.
 Invece la nostra classe politica?
 Nel nostro Parlamento siede la peggior schiuma del Paese. Ma che ci fa lì una schiera di imputati e avvocati di imputati?
 In catalogo abbiamo perfino un ministro imputato per mafia.
 Non mi stupisce affatto, viste le frequentazioni mafiose di Berlusconi.
 Se le avessero detto nel ‘45 che l’Italia sarebbe finita così, ci avrebbe creduto?
 Dopo la Liberazione ho pensato che avessimo fallito il nostro obiettivo. Perché nel nostro programma di Giustizia e Libertà al primo punto c’era l’epurazione di chi era stato responsabile, c’era il recupero della dignità del Paese. Togliatti per primo: ha fatto l’amnistia.
 Il suo collega Oreste Flamminii Minuto l’anno scorso, a proposito delle intercettazioni, disse: “Nemmeno il Fascismo aveva osato tanto”.
 Il Fascismo non aveva l’impudenza di affermare certe cose, anche se le attuava. Nessun giornale straniero era più in vendita in Italia. A parte l’Osservatore Romano e la Tribune de Genève, in qualche edicola di Roma, Milano e Torino. Alla sera quelli della sezione del partito vicino al giornalaio passavano a controllare quante copie erano state vendute e a chi. Noi li affittavamo, li facevamo girare il più possibile e poi li riportavamo all’edicola prima di sera.
 Le ha lette le intercettazioni che hanno innescato quest’ennesimo tentativo di bavaglio?
 Sì, purtroppo. A me fa dolore che i giovani vengano privati non solo del futuro e del lavoro, ma anche dell’amore. Perché con questo immaginario, questo linguaggio – che nemmeno si può definire da caserma – e questo mercato, la donna si riduce a una merce.
 Cosa ci salverà?
 Non basta eliminare Berlusconi. Bisogna sradicare il berlusconismo e tutti quelli che hanno partecipato al saccheggio del Paese. Quest’epoca deve essere dannata nella memoria storica dell’Italia. Ci vuole una svolta etica e giuridica di riappropriazione della Costituzione e dello Stato. Quelli che dicono che non c’è un leader carismatico mi fanno ridere. Basta un amministratore di condominio, saprebbe far meglio. Io ho attraversato tutto il Novecento: mai ho visto l’Italia così umiliata, inabissata da una guerra tra Stato e governo.

Repubblica 15.10.11
In piazza contro i banchieri
di Gad Lerner


Lungi dal rallegrarsi per il prestigioso incarico che un nostro connazionale verrà chiamato ad assolvere fra due settimane al vertice della Banca centrale europea, gli indignados lo demonizzano. Per loro, Draghi ribelli, il governatore rappresenta la personificazione di una cupola tecnocratica che impone sacrifici ai poveri e protegge i ricchi, costringendo i governi a onorare i debiti sovrani e finanziare le banche in crisi. Lo stesso presidente Napolitano viene criticato dai manifestanti per la sua "sottomissione" alle richieste della finanza internazionale, di cui Draghi sarebbe il rappresentante.
Fino a ieri nel nostro paese era più facile trovare qualcuno disposto a parlar male di Garibaldi, piuttosto che a criticare apertamente la Banca d´Italia, istituzione che ha sempre goduto di un raro rispetto bipartisan. Mai prima d´ora Palazzo Koch e le sedi periferiche della Banca d´Italia erano stati oggetto di azioni dimostrative e tentativi d´occupazione. È doveroso che tali proteste si mantengano entro i limiti della legge e della nonviolenza, ma, ciò premesso, sarebbe ingenuo liquidarle come isolato fenomeno estremista.
I giovani scolarizzati ma precari, i lavoratori autonomi della conoscenza e i dipendenti delle aziende in crisi, masticano abbastanza di economia e sono abbastanza informati sui meccanismi di arricchimento al vertice della piramide sociale, da trarne una consapevolezza divenuta senso comune: il potere e i soldi si allontanano; la finanza convive sempre peggio con la democrazia.
Ciò spiega il palese disinteresse rivelato dagli indignados nostrani, tutt´altro che provinciali, anzi, compiaciuti del proprio gergo poliglotta, nei confronti delle convulsioni parlamentari e governative in atto. Snobbano Berlusconi, marionetta in disuso; prendono sul serio Napolitano, quale garante della sovranità nazionale; ma gli preme di misurarsi con Draghi, figurandoselo entità sovrastante. È come se volessero sottolineare l´irrilevanza della politica, imbelle nel fronteggiare la Grande Depressione. Una politica soggiogata per intero al diktat che Jean-Claude Trichet e Mario Draghi il 5 agosto scorso hanno avuto l´ardire di certificare per iscritto, nella loro lettera ultimativa al governo italiano. Procedura inusitata, quella lettera, ma senza la quale probabilmente la Bce non avrebbe mai approvato il provvidenziale piano d´acquisti di Titoli di Stato italiani.
Ecco spiegata la ruvida attenzione concentrata sulla Banca d´Italia, di per sé un´istituzione dotata di poteri d´indirizzo e vigilanza tutto sommato ridotti, da quando non c´è più la lira; eppure riconosciuta più autorevole degli altri Palazzi, in quanto "succursale" di un vero potere sovranazionale. Perfino la torbida controversia sulla nomina del successore di Mario Draghi, irresponsabilmente trascinata oltre i limiti della decenza, contribuisce a enfatizzare Via Nazionale come nuovo Palazzo d´Inverno.
Mercoledì scorso, quando hanno consegnato al Presidente della Repubblica una lettera alternativa a quella firmata da Draghi e Trichet, chiedendo un rovesciamento delle priorità in essa contenute, i Draghi ribelli hanno compiuto un gesto tutt´altro che sprovveduto. Segnalano l´emergere su scala planetaria di un pensiero fortemente alternativo ai vincoli imposti dai mercati finanziari.
C´è molto imbarazzo nella sinistra italiana a discuterne, per il timore di figurare poco affidabili in Europa proprio ora che sembra riavvicinarsi la prospettiva del governo. Ma con le istanze del movimento che scende in piazza oggi a Roma sarà doveroso fare i conti. Perché la sinistra del futuro non potrà contraddistinguersi per il solo risanamento finanziario. Dovrà cimentarsi in un difficile tentativo di redistribuzione della ricchezza, dopo la lunga stagione dell´iniquità.
Le tende dei ragazzi accampati di fronte ai palazzi della finanza sono una visione imbarazzante e forse molesta. Ma contengono un presagio biblico, liberatorio, come di un deserto da attraversare con speranza. Non ce ne libereremo facilmente.

La Stampa 15.10.11
La protesta. Capitale invasa
Indignati in piazza: allarme sicurezza
A Roma sono attesi centomila manifestanti. Ieri uova contro Montecitorio e scontri a Milano
di Francesco Grignetti


La protesta degli indignati ieri è arrivata di fronte a Montecitorio: oltre ai cori e ai fischi in molti hanno lanciato uova contro il Palazzo

Temono colpi a sorpresa, disordini, tafferugli, qualche blitz contro sedi di banche. L’antipasto s’è visto ieri tra Roma e Milano, con l’irruzione a sorpresa nella sede della banca d’affari «Goldman Sachs» oppure in piazza Montecitorio a lanciare uova e ortaggi contro i simboli del potere. Alla vigilia della manifestazione nazionale degli «indignados» che si terrà oggi a Roma, dalle 14 alle 21, gli apparati del ministero dell’Interno non nascondono la preoccupazione. Forse non i centomila che s’aspettano gli organizzatori, ma comunque in piazza saranno molti e molto arrabbiati, chiamati a raccolta dalle sigle più impensate: dall’Arci ai referendari dell’acqua pubblica, al popolo viola, ai sindacati di base, ai gruppi anarchici, ai centri sociali, agli artisti di teatro. Così il Viminale e la questura di
Roma s’interrogano: in assenza di leader riconosciuti, chi saprà tenere la piazza? «Noi - annuncia il ministro Roberto Maroni siamo pronti. Abbiamo definito i piani di intervento. Mi attendo che tutto si svolga nella garanzia della manifestazione e nel rispetto dei limiti della legge».
Da giorni si svolge una trattativa sotterranea tra i responsabili dell’ordine pubblico e i leader dell’associazionismo e del sindacalismo di base. Viste le caratteristiche di questo movimento che ha nel suo Dna l’occupazione di vie e piazze, s’è discusso su quali strade «offrire» al movimento. Non via Nazionale, dove c’è la Banca d’Italia e dove tiene duro un piccolo presidio davanti al palazzo delle Esposizioni. Di sicuro verrà tollerata l’occupazione di piazza San Giovanni per chi vorrà piantare le tende nei giardini anche dopo i comizi di sabato sera. Altra location offerta al movimento, di ben maggiore spessore simbolico, è via dei Fori Imperiali, che in ogni caso domenica resterebbe chiusa al traffico. E se poi gli «indignados» vorranno affacciarsi su piazza Venezia, il questore di Roma, Francesco Tagliente, lascerà correre purché non si tenti di forzare i blocchi verso via del Plebiscito, dove abita Silvio Berlusconi, o via del Corso, in direzione del Parlamento. «Noi siamo in piazza non per contrastare i manifestanti, ma per assicurare loro la libertà di espressione garantita dalla Costituzione», spiega il capo della polizia, Antonio Manganelli. Le sue direttive sono di esercitare la massima disponibilità e la minima forza. Già, perché al prefetto Manganelli non piace affatto la prospettiva di far fronteggiare ai suoi agenti una sequela infinita di manifestazioni a rischio di degenerare in scontri violenti per tutto l’autunno. «L’ordine pubblico argomenta - è una materia sensibile che tocca problemi reali del Paese e che oggi spesso vede le forze dell’ordine chiamate a svolgere compiti di supplenza alla politica che manca di affrontare, o che affronta male, questioni sociali complesse».
Inutile dire, però, che la polizia e l’intelligence temono molto l’intreccio perverso tra manifestazioni di piazza e appuntamenti parlamentari. E così, visto l’ultimo voto di fiducia, gli analisti si attendono una manifestazione ancor più rabbiosa di quanto era in preventivo ad inizio settimana. Al ministero dell’Interno non dimenticano quanto accadde il 14 dicembre dell’anno scorso, mentre falliva la spallata di Gianfranco Fini a Berlusconi, quando d’improvviso via del Corso fu percorsa da scontri molto duri. Protagonisti dei tafferugli, quella volta, furono dei ragazzini senza storia politica alle spalle, ma con una gran voglia di rompere le vetrine e menare le mani. Ebbene è lo scenario che si sta per riproporre. Se non domani, magari tra qualche settimana. «Il problema è che non comanda nessuno e dunque bisognerà vedere chi prevarrà tra le diverse anime».
La questura ha deciso di presidiare alcune determinate aree «inviolabili» e di essere flessibile su tutto il resto. Per motivi di sicurezza verranno chiuse le stazioni metro di Colosseo, Cavour, piazza di Spagna e Barberini.

l’Unità 15.10.11
«Indignados» e primavere arabe
Alla Buchmesse di Francoforte va forte la corrente critica tra Europa e Wall Street, al tramonto le icone politiche di Berlusconi e Putin. E nello stand tunisino si parla di rivolta
di Maria Serena Palieri


FRANCOFORTE. Vadano bene, vadano male, gli affari dei libri, la Buchmesse è un luogo dove, a ottobre di ogni anno, il visitatore ha l'opportunità di cogliere al volo alcuni segnali dal pianeta. Geopolitici: hanno un' aria ormai assestata lo stand kossovaro e quello curdo, mentre in questo finale di 2011 sono in fibrillazione gli editori arabi, in zona Tunisia ed Egitto. Riassumiamo i temi forti di questa LXIII Buchmesse.
BERLUSCONI E PUTIN.
Le nostre vicende politiche riscuotono interesse all'estero? Da Chiarelettere, Luca Fazio, direttore editoriale, e Marco Tarò, ad, dicono che hanno venduto bene libri di valenza globale, come Io sono il mercato di Luca Rastello (sul traffico di cocaina) e Vaticano spa di Nuzzi; Planeta ha preso per Spagna e America Latina il Gramsci della nuova collana «Instant book»; e, assecondando la corrente di «indignazione» che corre tra Europa e Wall Street, loro stessi hanno comprato da Fayard il pamphlet di due grandi anziani, Stephane Hessel ed Edgar Morin, Il cammino della speranza. Vasco Rossi a novembre dirà la sua con La versione di Vasco. Non ha appeal l'immersione diretta nei nostri scandali. Il berlusconismo interessa ormai come sostrato epocale: il romanzo che Feltrinelli vende meglio è Dove eravate tutti di Paolo di Paolo, nato dall’esperienza di giova-
ne nato e cresciuto in Berluscolandia. In Einaudi riscuote molta attenzione Lettera di dimissioni di Valeria Parrella perché racconta l’inizio di tutto, negli anni ’90. Venduto in «world English» più Germania e Grecia Giudici di Camilleri-De CataldoLucarelli: per chi cerca di capire com’è che da noi il Grande Inquisito... L’icona politica più inquietante, in Fiera, è invece quella di Putin: tra le molte copertine dedicategli, la più espressiva quella col suo volto mascherato per The man without a face. The unlikely rise of Vladimir Putin, biografia di Masha Gessen per Granta. Massimo Turchetta (direttore generale libri trade Rcs) commenta: «In editoria vendono di più i grandi cattivi. Neanche come cattivi siamo più credibili».
È ANCORA PRIMAVERA?
Stand tunisino: il 90% dei titoli in francese sono sulla rivolta dei gelsomini, come Printemps de Tunis di Abdelwahab Meddeb e Dictateurs en sursis di Moucef Markouzy e Quand le peuple réussit di Boujemaaa Remili per Cérès. Ci sono le «bandes dessinées» su Ben Ali di Yassine Ellie. E ci sono i titoli prima censurati, come il libro nero sulla Tunisia di Reporters sans frontières per Rmr. Ma, parlando delle elezioni che si tengono a Tunisi il 23 ottobre, qui parlano del pericolo integralista, e fanno scongiuri.
COMPRATI E VENDUTI
Non ha circolato, in Fiera, nessun «gigalibro». E, com’è da tre anni a questa parte, non ci sono state aste milionarie. Mondadori ha comprato il vincitore del Bucherpreis Eugen Ruge e da Gallimard L’art français de la guerre di Alexis Jenni, su un veterano delle guerre coloniali. Minimumfax vende a Rotbuch (Germania) e a Verso (GB) il libro-inchiesta di Stefano Liberti Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, mentre – e qui siamo come con gli indignados Morin-Hessel nella corrente «rifondiamo il mondo», tradurrà il Manifesto degli economisti sgomenti firmato da 700 studiosi in Francia. Feltrinelli pubblicherà nel 2012 le memorie di Neil Young e Tutto ciò che sono di Anna Funder, romanzo tra Germania hitleriana e Australia (ma annunciano anche il definitivo passaggio delle opere di Giorgio Bassani da Mondadori a loro). Rizzoli ha comprato The people of forever are not afraid, romanzo sulle donne soldato israeliane di Shani Boianju e venduto in Israele, Brasile e Olanda Il mio inverno a Zerolandia della libraia marchigiano-milanese (esordiente) Paola Predicatori, in Italia esce a gennaio; mentre vende ancora (Finlandia e Romania) Acciaio di Silvia Avallone (nel 2012 uscirà negli Usa per Viking). Marsilio ha venduto Tu sei il male di Roberto Costantini in inglese, francese, spagnolo, norvegese, danese, Bompiani negli Usa Storia della mia gente di Edoardo Nesi. Einaudi compra Desemployments, racconti in stile «Addio alle armi» del ventottenne Phil Klay, capitano dei marines in congedo; e Helga diary, ultimo dei diari dal lager, di una allora undicenne ragazzina scampata a Theresienstadt e Auschwitz.
LE MODE
Il giallo scandinavo, inutile dirlo. Di Larsson ormai, oltre allo Stieg che è riuscito a sfondare perfino negli impenetrabili Usa, se ne contano a decine: in Svezia è un cognome comunissimo, significa «figlio di Lars», e in area Scandinavia ogni stand ha il suo o la sua. E noi, ridotti a «brand»: l'americana Atlantic Books pubblica a febbraio La Divina Commedia, romanzo di Craig Raine, a maggio esce Dante in love di A. N. Wilson, Granta pubblica Gioconda, fiction di Lucille Turner sulla vita del genio da Vinci. Ma la vera ossessione planetaria è la cucina: la Fiera inaugura una galleria «Gourmet» dove tra i libri si spadella, di cucina parlano il 40% dei titoli esposti, specialistici fino al volume di 400 pagine sui pani integrali senza glutine. E (padiglione Usa in primis) svettano le immagini di giovani «italiani» nomi più gettonati Leonardo o Nina – bellissimi, vestiti Armani, con mestolo in mano, che dettano legge culinaria al mondo. Il nostro residuo power, del tutto soft e odoroso di aglio, è questo.

l’Unità 15.10.11
«È ora di rottamare il neo-liberismo»
Il responsabile economico Pd tra i protagonisti del convegno all’Aquila «Con Bersani un gruppo di giovani dirigenti e una nuova cultura politica»
di Simone Collini


Dice Stefano Fassina che non è il dato anagrafico a caratterizzare l’appuntamento di domani a L’Aquila. Ci saranno sì i trenta-quarantenni che a settembre si sono incontrati a Pesaro (si rivedranno in una città del nord, in una del sud e poi organizzeranno una grande convention nazionale a Roma a gennaio). Ma il punto, dice il responsabile Economia del Pd che chiuderà l’incontro di domani, è che si tratta di «un gruppo di dirigenti che discute un progetto per il Paese».
Cominciamo dal luogo scelto: perché L’Aquila?
«Perché il tema su cui si misura la classe dirigente è la ricostruzione, innanzitutto morale, oltre che economica e sociale. L’Aquila è città simbolo di questa sfida». Discuterete della questione rinnovamento?
«Lo faremo nel modo giusto. Il Pd, grazie anche al lavoro di Bersani, ha messo in prima fila un gruppo di giovani dirigenti di qualità che si distingue non solo dalla carta di identità, ma da una cultura politica e un progetto che mette al centro e valorizza la persona che lavora. Ormai è chiaro che la crisi ha come causa di fondo la regressione delle condizioni di lavoro. E da qui bisogna ripartire per uscire dal tunnel e promuovere uno sviluppo sostenibile, se non vogliamo andare incontro a gravi rischi». Quali rischi?
«Oggi non c’è solo il problema di un’economia che non funziona. Ci sono problemi sociali così acuti da mettere a rischio la qualità della stessa democrazia, che rischia di essere un guscio vuoto visto che poteri decisionali sono stati spostati verso centri poco democratici. Bisogna allora ricostruire il nesso tra società e istituzioni. E per farlo la prima ricetta è più Europa, arrivare a un vero governo politico dell’economia dell’area Euro e ridare vigore a un processo democratico che ora è debole».
Rinnovamento allora anche rispetto alle politiche del centrosinistra? «Sì perché il centrosinistra negli anni ‘90 e fino a quando è scoppiata la crisi si è lasciato troppo affascinare da un impianto culturale
di tipo neoliberista, che assegnava alla politica un ruolo residuale e attribuiva all’economia la capacità di fare da sola, mentre è chiaro che così produce disastri e umilia le persone che lavorano. Noi vogliamo portare avanti questa riflessione che è ancora debole nel campo riformista mentre trova spazio nel mondo cattolico. L’enciclica Caritas in veritate parla di una politica in grado di governare l’economia».
Nuove ricette, nuova squadra di governo, in caso di vittoria?
«Fermo restando che il punto non è la carta di identità ma la capacità di analizzare i cambiamenti e di proporre risposte ai problemi del Paese, è naturale che un’esperienza di governo avrebbe tra i protagonisti chi oggi è protagonista nel lavoro nel partito e nelle istituzioni». Anche Renzi dice che non è solo questione di carta d’identità: perché non avete fatto un’iniziativa comune?
«Renzi, nonostante il tentativo di packaging diverso, ripropone l’impianto culturale che ha contagiato, a partire dalla metà degli anni ‘90 fino all’ultimo incontro dei Modem, quelli che lui vuole rottamare. Noi dobbiamo rottamare il paradigma neoliberista. Altrimenti, il giovanilismo è gattopardismo. E poi noi non diremmo mai che siamo “senza se e senza ma” con un manager che in un anno riceve capital gain pari al reddito dei “suoi” 5000 operai di Mirafiori costretti a scegliere tra lavoro e diritti». Secondo lei è possibile dar vita a un governo di transizione?
«Non vedo le condizioni in questo Parlamento. Le elezioni sono la strada da percorrere, se non vogliamo fare un danno a noi stessi, associandoci a chi è scollato dalla realt, e alle istituzioni. Non possiamo contribuire a rendere il Parlamento sempre più distante dal Paese, dalle domande delle giovani generazioni».
Sarà in piazza con gli indignados?
«Andrò per ascoltare. C’è una generazione precaria, disperata, e noi dobbiamo contribuire a convogliare le energie positive verso una prospettiva di rinnovamento della politica. Certo, dobbiamo dirgli che il bersaglio non può essere la Banca d’Italia, che l’obiettivo è la ricostruzione del Paese, ma dobbiamo ascoltare questi ragazzi che chiedono futuro e chiedono alla politica di rispondere. Ignorarli sarebbe un grave errore».

il Riformista 15.10.11
Socialismo, il futuro non è il progressismo
di Paolo Franchi

qui
http://www.scribd.com/doc/68862682

l’Unità 15.10.11
Il confronto in vista di Todi
I cattolici, una risorsa per un’Italia più giusta
Il Pd sappia ascoltare
L’appuntamento di lunedì è una novità per tre ragioni: si incontrano associazioni lontane e diverse, è un’iniziativa del tutto autonoma, cade nel momento più acuto di crisi
di Luigi Bobba


L’appuntamento dei movimenti cattolici a Todi è ormai alle porte. Solita minestra riscaldata o occasione per lanciare un nuovo partito di cattolici? Né l’una,né l’altra cosa.
Piuttosto un incontro inedito per almeno tre caratteristiche.È la prima volta che nell’ultimo decennio si ritrovano insieme associazioni storiche come le Acli o l’Azione cattolica; movimenti ecclesiali, come S.Egidio o Rinnovamento nello Spirito; nonché le realtà organizzate del mondo del lavoro con radici nella dottrina sociale della Chiesa come la Cisl, la Coldiretti o Confcooperative.
Già questa pluralità manifesta un carattere del cattolicesimo italiano: una realtà popolare che, pur dentro la secolarizzazione, ha conservato radici profonde nella vita quotidiana di molte comunità del nostro Paese.
In secondo luogo questo incontro nasce dall’autonoma iniziativa di movimenti e organizzazioni laicali anche se ha trovato una singolare risonanza nelle recenti parole del cardinale Bagnasco: «Sembra rapidamente stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto sociale e culturale di interlocuzione con la politica che coniugando strettamente l’etica della vita e l’etica sociale sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie o ingenue illusioni». Le parole sono misurate ma inequivocabili tanto da non lasciare dubbi che vi sia da parte della gerarchia la tentazione o il tentativo di far rinascere la Democrazia Cristiana.
La terza novità è data dal contesto in cui si inserisce l’appuntamento di Todi. Dopo le Settimane sociali della fine del 2010 a Reggio Calabria, che avevano registrato già un singolare effervescenza, era parso a molti che quelle energieprovenienti dalle parrocchie, dai movimenti e dalle associazioni,non avessero trovato una qualche forma di continuità.
Ora, un po’ come un fiume carsico, quelle energie tornano a rendersi visibili proprio quando il centrodestra, che aveva raccolto il consenso di tanti cattolici praticanti, conosce la sua crisi più acuta. Ma quale esito potrà avere questo incontro? Potrei cavarmela con il felice slogan di Andrea Riccardi : «Coraggio, fratelli d’Italia». Che significa che vi sono tante persone che amano l’Italia, che sono pronte ad assumersi responsabilità di fronte alla grave crisi del Paese per colmare la distanza sempre più evidente tra la politica e i cittadini.
E infine, quale atteggiamento può assumere il Pd di fronte a queste novità dell’arcipelago cattolico? Spesso non si hanno orecchie attente ad ascoltare e comprendere questi movimenti che attraversano le viscere del Paese. Talvolta vi è persino una diffidenza, alimentata da radicati pregiudizi laicisti, per cui si finisce per ascrivere ciò che si muove sul terreno della religione sempre al centrodestra.
Non bisogna avere fretta, né tanto meno pensare subito al bottino elettorale. Proprio i cattolici, che insieme ad altri hanno contribuito a scrivere la Costituzione e a tessere la rete delle istituzioni democratiche, possono ancora essere una risorsa per chi vuole un Paese insieme più libero e più giusto, più equo e più orientato al merito, più aperto alle sfide globali ma non privo di una solida identità.
Forse servirebbero dentro al Pd luoghi non recintati e strumenti appropriati per intessere un rapporto non episodico, né strumentale con questi mondi.
Una grande forza riformatrice, popolare e nazionale ha bisogno anche di queste energie e ha il compito di formulare una proposta convincente e coerente con i valori di questa parte dell’elettorato. C’è il rischio, che in parte è già realtà, che i cattolici, anche quelli impegnati e praticanti, si rifugino nell’astensionismo e nel non voto, non trovando un’offerta politica adeguata.
Così, all’apice della crisi del berlusconismo, questo elettorato in progressivo distacco dal centrodestra, potrebbe rivelarsi decisivo per un cambio di stagione. Ben venga dunque l’iniziativa di Todi se saprà mobilitare energie sociali e culturali nascoste o demotivate e obbligherà i soggetti della politica a misurarsi in modo inedito con questa singolare carattere della società italiana.

l’Unità 15.10.11
Renzi snobba Bersani «Nessuna polemica mio padre fa gli anni»


FIRENZE Bersani a Firenze ha aperto la mobilitazione straordinaria del Pd fissata per questo fine settimana in vista della manifestazione a Roma del 5 novembre. All’iniziativa che festeggiava il compleanno del Pd mancava però il sindaco “rottamatore” Matteo Renzi, non per motivi politici ha spiegato. Al segretario del Pd ha inviato un sms per dirgli che non ci sarebbe stato per il compleanno del padre «non facciamo polemiche» dice l’inventore del big bang, la convention programmata a fine mese alla Leopolda. «Auguri per il papà» ha risposto Bersani, che poi è intervenuto in un Palazzo dei congressi strapieno di gente. «Lui ha organizzato la convention di Napoli in contemporanea alla quella dei rottamatori a Firenze, io gli ho fatto nascere mio padre 60 anni fa» scherza Renzi. Per ironia della sorte ieri era anche il compleanno del padre del segretario del Pd toscano, Andrea Manciulli. A lui non è restato che fare gli auguri dal palco. O.SAB.

Corriere della Sera 15.10.11
L'alleanza e i dubbi di Casini. Ma Vendola ora è decisivo
I democratici hanno seguito l'idea udc in Aula in nome di un futuribile asse alle urne
di Maria Teresa Meli


ROMA — Certo, il Pd sperava di festeggiare il suo quarto compleanno in maniera migliore, e non con un tentativo, miseramente fallito, di sconfiggere Silvio Berlusconi sull'orlo del numero legale. Ma dire di «no» a Pier Ferdinando Casini non era nel novero delle cose possibili.
Il leader dell'Udc, convinto che questa era la volta buona, ha spinto l'acceleratore e il Partito democratico gli è andato appresso. Con qualche titubanza: «Se non abbiamo la sicurezza che i radicali non votano, non è un rischio?», chiedeva Paolo Gentiloni al capogruppo Dario Franceschini, già la sera prima. E la mattina dopo Pier Luigi Bersani: «Vedrete che quelli del Pr entreranno in aula». Il Pd, però, non poteva fare altrimenti, in nome di una futuribile e possibile alleanza con i centristi. Perciò ha seguito l'Udc in quello che un autorevole dirigente di Largo del Nazareno ha battezzato «il 14 dicembre di Casini», ricordando la sconfitta subita da Gianfranco Fini in un altro voto di fiducia ad altissima tensione.
Archiviato il fallimento, ora il Pd pensa al dopo, preparando l'offensiva nei confronti dei centristi per spingerli all'intesa in vista delle elezioni. Massimo D'Alema è convinto, e lo ha detto ai compagni di partito, «che si può riuscire ad agganciare l'Udc con una proposta di governo credibile». Che secondo alcuni dovrebbe passare per l'addio ad Antonio Di Pietro e Nichi Vendola. Ipotesi questa, pressoché impossibile. «Rischieremmo di prendere il 20 per cento», è l'opinione di Bersani. E di perdere pezzi del Pd: «Se andiamo alle elezioni senza Italia dei valori e Sel, io esco dal partito», ha minacciato il senatore Ignazio Marino. D'altra parte, anche secondo i sondaggi dei centristi, senza il movimento di Nichi Vendola non si va da nessuna parte.
L'idea del Partito democratico, quindi, è sempre la solita: mettere tutti insieme, appassionatamente. «Ma non sarà l'Unione — promette il segretario dei «Democrats» — del resto, in questi giorni la costruzione dell'alternativa si è rafforzata grazie al comune lavoro parlamentare». Sempre avendo in mente lo stesso obiettivo, Bersani respinge il pressing di Vendola e Di Pietro che vogliono tenere le primarie a gennaio: «Prima il programma, poi la coalizione, infine le primarie». Indire prima queste consultazioni significherebbe tagliare subito i ponti con l'Udc. A sentire Casini, però, le cose non sono così semplici come spera D'Alema, che pure con l'ex presidente della Camera ha un filo diretto, mai reciso, neanche nei momenti di maggior freddezza tra terzo polo e Pd. Il leader dell'Udc, che ieri sfoggiava un gessato «da gangster» (la definizione scherzosa è sua) che però «piace tanto al figlio di tre anni», non aveva la faccia dei giorni migliori, sebbene facesse di tutto per non darlo a vedere, e continuava a tenersi sulle sue: «Meglio soli...». Non vuole aprire nessuno spiraglio adesso, Casini, preferisce rinviare ogni decisione più in là nel tempo, quando avrà capito quale potrebbe essere l'esito di questa partita politica con troppi allenatori e aspiranti bomber.
Ma il leader dell'Udc potrebbe essere costretto a cambiare idea. Se passasse il referendum elettorale, infatti, i margini di manovra dei centristi rischierebbero di diventare inesistenti. Con il Mattarellum il terzo polo correrebbe il pericolo di diventare ininfluente: si pensi solo al fatto che il Ppi, nel 94, prese solo 33 deputati, con tutto che aveva una consistenza elettorale ben più pesante di quella del trio Udc-Fli-Api. Puntano anche a questo, nel Pd, per costringere Casini all'alleanza.
Insomma, il leader centrista sembrerebbe avere le spalle al muro. Ma non è detto. Innanzitutto, il via libera della Corte costituzionale ai referendum elettorali non è scontato. E comunque Casini accarezza un altro sogno. Cioè quello di un terzo polo non formato «mignon», come l'attuale, bensì ampio, con dentro Luca Cordero di Montezemolo e il suo movimento, gli scajoliani del Pdl e... E non è finita qui. Già, manca un pezzo. E quel pezzo è rappresentato dai cattolici del Partito democratico. O, meglio, da quei cattolici che dentro il Pd sono guidati da Beppe Fioroni. Il quale sta cercando in tutti i modi di frenare un'eventuale emorragia di ex popolari e per questa ragione continua a incitare il Pd «a darsi una mossa e a imboccare decisamente la via della moderazione». Altrimenti neanche lui riuscirà più ad arginare il malcontento dei cattolici del Partito democratico. Un terzo polo di queste dimensioni, e di queste fattezze, potrebbe aspirare a prendere tra il 15 e il 20 per cento e puntare a giocare la partita in proprio.

Corriere della Sera 15.10.11
dall’articolo di Alessandro Troncino

«...Emma Bonino è contraria a entrare in Aula e diversi altri temono l'accusa di «tradimento» e la cattiva pubblicità sulla stampa. Il ministro della Giustizia Nitto Palma si prodiga per convincerli invece a votare. Marco Pannella telefona, la situazione si sblocca e i radicali entrano tutti... «I radicali sono entrati quando il numero legale ancora non c'era».

La Stampa 15.10.11
I sospetti sull’ultimo sgambetto
Dagli uomini di Pannella un segnale a Bersani, ma c’è chi insinua: comprati dal Pdl
Un sms nel Pdl: «Nitto Palma ha fatto un gran lavoro, vedrete: verranno in aula»
Compravendita e silenzi: si sospettano garanzie sui fondi per la radio. Bonino silente e defilata
di Fabio Martini


L’ onorevole Pippo Fallica, segretario d’aula, sta mandando avanti la chiama dei deputati per la fiducia, scandendo stancamente i cognomi, ma arrivato a «Rampelli...», rompe la routine dell’ordine alfabetico. Fallica chiama a sorpresa la “b” di «Beltrandi», deputato radicale che dunque è il primo onorevole dell’opposizione che risponde all’appello. Alle 13,40 l’incantesimo si è rotto: disattendendo l’indicazione degli altri partiti di opposizione, in trepida attesa del «colpaccio», i Radicali hanno deciso di partecipare al voto, ben consapevoli di poter concorrere al conseguimento del numero legale. Più tardi si stabilirà che i cinque Radicali in realtà non sono stati determinanti per la validità della seduta, ma a caldo prevale lo choc per la decisione dei seguaci di Pannella di partecipare al voto e di farlo proprio in un frangente nel quale il quorum di 315 votanti appariva ancora incerto per la maggioranza.
I Radicali, traditori e salvatori di Berlusconi? Per due ore, in aula e in Transatlantico, i numerosissimi antipatizzanti di Pannella hanno dato sincero sfogo alla propria ripugnanza, in alcuni casi con espressioni da osteria. Come quando Maurizio Lupi, Pdl, vedendo infuriata Rosy Bindi, le dice: «Non prendetevela con i Radicali, il numero legale c’era comunque. E d’altra parte i voti sono voti...». E la Bindi, che è vicepresidente della Camera, replica testualmente: «Gli stronzi sono stronzi!» e poi a voce più bassa pare che abbia aggiunto: «... e galleggiano senz’acqua!».
Abituati a dar scandalo, da decenni guardati con ostilità da comunisti e cattolici democratici, le due «anime» prevalenti nel Pd, anche stavolta i Radicali hanno deliberatamente provocato, anche se subito dopo aver partecipato al voto i cinque deputati, si sono prudentemente tenuti lontani dal Transaltantico, dove sono continuate a fioccare insinuazioni di tutti i tipi: «Berlusconi ha aperto la bisaccia...», «sarà stata rinnovata la convenzione per Radio Radicale». Oppure per dirla col finiano Fabio Granata: «Che pena i radicali!». Marco Pannella ha risposto con sarcasmo: «Quelli del Pd sono degli artisti: hanno regalato a Berlusconi un altro successo. Mentre l’altro è ridotto in polpette, sono loro che finiscono mangiati». E sulla Bindi: «È fuori di testa».
In realtà dietro la decisione dei Radicali, così spiazzante e incomprensibile a prima vista, ci sono due retroscena: uno (interno al Pr) consumato ieri e uno di più lunga durata, tra Pannella e Bersani. Ieri mattina, alle 9.30, il presidente dei deputati Pd Dario Franceschini ha informato Rita Bernardini del cambio di programma: il Pd e le altre opposizioni non parteciperanno al voto e dunque «dateci una risposta entro le 11». Viene informato Marco Pannella che partecipa alla riunione con i suoi 5 deputati in collegamento telefonico. Il leader esordisce con un «so che vi siete orientati a votare...», che non convince Matteo Mecacci, trentaseienne deputato di Firenze. Pannella non gradisce affatto il dissenso e a quel punto si apre un dibattito che, a giudicare dal volume della voce dei partecipanti, è stato vivace e lungo. Una discussione alla quale non ha partecipato Emma Bonino (di cui trapela lo scetticismo rispetto alla linea pannelliana) e nel corso della quale è riaffiorata la vera questione non risolta: il difficile rapporto con il Pd, che non ha mai riconosciuto i Radicali come interlocutori, pur avendoli accolti nel 2008 all’interno dello stesso gruppo parlamentare. Racconta Marco Pannella: «Ma ci siamo autosospesi dal gruppo da un anno e mezzo. Noi siamo una delegazione autonoma, ma loro non ci hanno mai interpellato su nulla», mentre non c’è vertice delle opposizioni al quale non siano invitati personaggi «ballerini» come Italo Tanoni e Daniela Melchiorre. Pesa l’ostilità degli ex popolari che ha indotto Bersani ad evitare incontri ravvicinati con Pannella, se si esclude un colloquio «concesso» poco prima del voto di fiducia del 14 dicembre. Il governo ha concesso qualcosa sul sovraffollamento delle carceri? Ieri mattina, quando la suspence regnava su Montecitorio, da palazzo Chigi è partito un sms diretto ad un deputato Pdl: «Nitto Palma ha fatto un gran lavoro con i Radicali, fra poco verranno a votare». Vero, verosimile o falso? A fine giornata Pier Luigi Bersani buttava tanta acqua sul fuoco: «Oggi, a dir la verità, i Radicali non sono stati determinanti, va detto. Loro si sono autosospesi da tempo, seguono una loro strategia, la seguano...». Come dire: lontani da noi, ma visto che le elezioni si avvicinano, in coalizione potrebbe esserci posto per tutti.

l’Unità 15.10.11
I radicali rompono
il fronte del non-voto Alleati infuriati
Sono stati i radicali a tenere il Pd con il fiato sospeso. «Entrano o non entrano?». Entrano. E divampa la polemica. Bindi: «Sono fuori dal gruppo». La replica: «Non siamo stati determinanti». Liti e insulti fuori e dentro l’Aula
di Maria Zegarelli


Ettore Rosato, Pd, se ne sta appostato appena fuori della porta d’ingresso dell’Aula, in mano la lista dei deputati votanti. All’improvviso vede entrare da una porta secondaria il radicale Marco Beltrandi, seguito da Rita Bernardini, Maria Antonietta Coscioni e Maurizio Turco. Maurizio Mecacci arriva poco dopo. «Eccolì qui». Sono in aula, fine del pathos.
L’asticella è fissata a quota 315, Beltrandi è il votante 298, accolto con un applauso della maggioranza subito stoppato. Quando i pannelliani entrano, dopo essere stati «asserragliati» nel loro ufficio «senza rispondere a nessuno», ecco che anche i deputati delle minoranze linguistiche Brugger e Zeller decidono di rispondere alla chiama. Nello stesso momento nel cortile di Montecitorio davanti allo schermo dove stanno ammassati i deputati Pd, con Beppe Fioroni che tiene i conti del pallottoliere, partono imprecazioni più o meno ripetibili. Caterina Pes si fa scura in volto, «li dobbiamo cacciare questi qui», Walter Veltroni poco indietro alza le braccia sconfortato. Sul monitor si vedono sfilare gli altri tre radicali, poi altri 14 della maggioranza. La prima «chiama» si chiude con 315 sì alla fiducia, sette no. La polemica tra i Radicali e il Pd divampa immediata. Urla, qualche insulto, una rottura non più sanabile.
Poco dopo dentro l’Aula Giovanna Melandri, Rosa Villecco Calipari e Rolando Nannicini litigano con Coscioni, Beltrandi e Turco. In Transatlantico Maurizio Lupi, Pdl, fa lo spiritoso con Rosy Bindi, «I voti sono voti». Bindi furibonda lo gela: «No, gli stronzi sono stronzi». I Radicali, ovvio, che per la presidente Pd «ormai sono fuori dal gruppo, di fatto». E Antonio Di Pietro dall’Idv: «Dimenticano che ci sono momenti topici in cui ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Li rispetto ma non condivido il loro comportamento».
Ma servivano o no quei cinque voti per il quorum? Pasquale Laurito con la sua Velina Rossa la interpreta così: «È grazie ai Radicali che Berlusconi ha avuto il numero legale alla prima chiama». Per Dario Franceschini, che in mattinata aveva chiamato più volte Emma Bonino, no. Però: «Io ho fatto una constatazione aritmetica sul numero legale raggiunto dalla maggioranza senza il voto dei radicali. La gravità della loro scelta politica, fatta come sempre senza comunicarci nulla, resta enorme». «Il loro comportamento è censurabile», per Massimo D’Alema. Non determinanti neanche per Bersani. «Seguono la loro strategia dice il segretario . La seguano. Noi abbiamo altro da fare: dobbiamo mettere assieme tutte le forze che lavorano per una alternativa a Berlusconi. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità. Sempre pronti a discutere ma nella libertà reciproca». Da Fli Fabio Granata, riferendosi al rinnovo della convenzione per Radio Radicale che dovrà fare palazzo Chigi entro la fine del mese, lancia un siluro: «Che pena i radicali! Avessero almeno chiesto l’amnistia. Ma per un tozzo di pane o una radio non si può».
TURCO AVVERTE
Attenzione, replica Turco: «Per chi con qualsiasi mezzo dovesse diffondere o rilanciare notizie false e tendenziose preannunciamo il ricorso all’autorità giudiziaria». Il radicale spiega: «Abbiamo votato contro la fiducia al governo Berlusconi». Decisione arrivata dopo una riunione che non li ha visti compatti, tuttavia. Dubbi ne avevano all’inizio. «Riunione dice Turco resasi necessaria dopo che Franceschini alle 9.30 del mattino ci ha comunicato, come se fossimo a sua disposizione, le intenzioni delle opposizioni di tentare di far mancare il numero legale». Colpa loro se l’agguato è fallito? No, secondo Turco: «Alla fine della seconda chiama i numeri sono stati i seguenti: presenti e votanti 617, maggioranza 309, hanno risposto sì 316, hanno risposto no 301. Sulla base di questi numeri e visto che i radicali presenti erano 5, essendo Zamparutti impegnata in Ruanda, ed avendo votato no, per chi ha rudimenti aritmetici tirare in ballo i radicali per attribuirgli chissà quale responsabilità è frutto di un misto tra ignoranza e malafede». Beltrandi rilancia la palla nel Pd e dice che dopo quello che è successo oggi alla Camera, «sarebbe bene che i vertici del partito si facciano qualche esame di coscienza». Marco Pannella osserva e se la ride: «Non possiamo fare di mestiere quelli che salvano i carcerati e i Democratici». E aggiunge: «Bindi e il Pd sono fuori di testa».

il Fatto 15.10.11
Sgambetto radicale. All’opposizione
Pd, Idv e terzo polo cercano di far mancare il numero legale, loro votano lo stessodi Wanda Marra e Caterina Perniconi


C’è un uomo dell’opposizione davanti a ogni ingresso dell’aula, anche quelli sul retro. Vogliono impedire che qualche parlamentare male informato entri per sbaglio in aula e cambi le sorti di un’aspra battaglia parlamentare.
L’ansia a Montecitorio è altissima. Quando un funzionario del Pd blocca Arturo Parisi al volo sulla porta, il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, sbotta: “Ma perché non avete avvertito tutti? Perché?”. Non devono entrare in aula. L’estremo tentativo delle opposizioni unite è quello di far mancare il numero legale alla maggioranza, che deve avere almeno 315 presenti per rendere valida la votazione. Obiettivo: annullare la seduta e costringere il Colle a prendere atto che il governo non ha più i numeri per governare . “Se ci riusciamo, mi faccio i capelli fucsia”, commenta la deputata Pd, Pina Picierno nel cortile di Montecitorio. L’attesa dura un’ora e diciotto minuti. Poi l’opposizione è costretta a votare. Non c’è ancora la certezza che Silvio Berlusconi abbia portato in aula già 314 persone – il presidente della Camera, Gianfranco Fini, sarebbe stato automaticamente conteggiato – ma i 5 parlamentari Radicali (la sesta, la Zamparutti è in missione in Rwanda), che sono stati asserragliati per ore in riunione, irrompono nel-l’aula dall’ingresso laterale rendendo in ogni caso vana la battaglia di Fli, Udc, Pd, Idv.
“I Radicali stanno entrando” si sente gridare in Transatlantico. L’aria comincia a scaldarsi e dalla porta solitamente riservata all’opposizione esce il piddiellino Maurizio Lupi: “I numeri sono numeri, noi eravamo già 315, senza i radicali”. Sulla sua strada c’è Rosy Bindi : “I numeri saranno numeri ma gli stronzi sono stronzi – sbotta la presidente del Pd – che galleggiano anche senz’acqua”. I 5 si materializzano sotto al banco della Presidenza per votare: prima Beltrandi, poi gli altri 4. Lentamente, a testa bassa, guidati proprio dal mago delle tattiche parlamentari, Roberto Giachetti, cominciano ad entrare in Aula per partecipare alla seconda chiama tutti i deputati dell’opposizione. “Coglioni”, gli urlano dai banchi della maggioranza. L’amarezza dei democratici è palpabile. In molti hanno passato la notte in bianco per studiare le possibili tecniche ostruzionistiche, e nel loro stesso partito scoppia il caso politico. I Radicali si appollaiano sui loro banchi, in alto. Si sentono le urla: litigano con le democratiche Melandri e Calipari. Poco conta capire se i deputati del partito di Pannella hanno votato prima o dopo il raggiungimento del numero legale: in quel momento sono l’immagine plastica della sconfitta e del tradimento. Ma avrebbero votato comunque. “L’abbiamo deciso il giorno prima”, chiarisce la Bernardini. “Sono dei cialtroni”, denuncia Di Pietro.
DOPO IL VOTO, è la volta delle spiegazioni e dei processi. I “dissidenti” rivendicano la loro posizione. Bernardini: “Siamo stati in Aula per rispetto delle istituzioni”. Beltrandi: “Non c’è dubbio, l’aritmetica non è un’opinione: oggi le opposizioni, che hanno sbagliato persino i conti hanno regalato una nuova fiducia al governo Berlusconi”. Oltre al merito della questione, è l’ennesima patata bollente per i Democratici: già il 14 dicembre c’era stata incertezza su come si sarebbero comportati i radicali , e in occasione della mozione di sfiducia al Ministro Romano hanno votato contro, attirandosi gli insulti della Bindi. Il gruppo e il partito si erano palleggiati la responsabilità di prendere una decisione su una loro espulsione, per finire con un nulla di fatto. Ma al di là delle dichiarazioni (per tutte, quella di Dario Franceschini “la gravità della loro scelta politica è enorme”), non si annunciano decisioni. “Seguano la loro strategia”, dice il segretario Bersani. E Giachetti fa notare che comunque hanno votato no, come il gruppo. Magra consolazione rispetto alla difficoltà (per una volta ovviata) di fare fronte comune nell’opposizione. Commenta Casini: “Se i Radicali hanno pesato per fare ottenere al governo la fiducia mi fa solo piacere: si chiariscono tante cose”. Mentre in Parlamento riemergono i soliti sospetti (“Saranno stati comprati?”), in rete e su Facebook non mancano gli insulti: “Vergognatevi, oggi avete perso un gran numero di sostenitori ve lo posso assicurare!”. Ancora: “Sbaglio o i radicali sono un altro regalo di Veltroni? non bastava già Calearo?”. Ma Marco Pannella non si smuove: “Il Pd e la Bindi sono fuori di testa perchè fanno solo servizi a Berlusconi. Sono patologicamente masochisti. Se ci tengono a essere totalmente dipendenti dalla loro mediocrità assoluta, facciano pure”.

La Stampa 15.10.11
Fallisce il blitz e nel Pd scoppia il caso Radicali
Franceschini: una scelta grave entrare a votare ma non sono stati determinanti per il numero legale
di Carlo Bertini


Il blitz prende forma giovedì sera, quando Dario Franceschini contatta Casini per prospettargli un impianto di gioco suggestivo: far mancare il numero legale al voto sulla fiducia, disertando la prima e seconda «chiama» per vedere se la maggioranza da sola avrà 315 deputati in aula, necessari per non invalidare tutto. Blitz rischioso, che se riuscito, avrebbe costretto Berlusconi a un secondo round nei giorni successivi: nuova conta sulla fiducia dopo aver pagato pegno di una figuraccia davanti al paese e al Capo dello Stato. E visto che nel Pdl si avvertono forti scricchiolii, con segnali di smarcamento vari, anche Pierferdinando sposa di buon grado l’idea, fiutandone subito i potenziali ritorni. Che infatti, di lì a 24 ore, si materializzano per i centristi, mentre il Pd resta a bocca asciutta e con il volto ferito dallo sfregio impresso dai Radicali a tutto il progetto.
«Parliamoci chiaro - sussurrano gli uomini di Casini a giochi fatti - se loro sono rimasti senza i voti di Sardelli, Gava e Destro è merito nostro e non certo del Pd...». Frase che segnala un dato significativo, cioè una contro-campagna in atto ad opera dei centristi per far cadere il governo, anche se ufficialmente non certificata da alcun passaggio di gruppo. «Sono abbastanza soddisfatto - gongola Casini - perché oggi ci sono state prime importanti defezioni. La prossima volta gli andrà peggio. Ora basta avere pazienza, perché in politica la cosa peggiore è avere fretta».
Fatto sta che ieri mattina alle nove Franceschini, conti alla mano, chiedeva ai Radicali un esplicito sostegno all’iniziativa, dando tempo fino alle 11 per una risposta. Ma di fronte ai telefonini staccati, quando alle 11,30 non giunge alcuna certezza, anche dentro il Pd si aprono le prime crepe: come si fa ad andare avanti senza sapere come si muoveranno i Radicali? E se va male rischiamo l’effetto boomerang? Qualcuno si infila nei meandri del Palazzo per scovare i Radicali riuniti in conclave in una saletta sperduta ma torna senza certezze: e prende corpo il fantasma della disfatta. Che si trasformerà in sfoghi di rabbia repressa quando i cinque Radicali entrano in aula: il focoso Rolando Nannicini gli bercia contro spalleggiato dalla Melandri e dalla Calipari, rintuzzati per le rime. E quando il governo alla fine della seconda «chiama» ottiene 316 voti, urla e insulti si sprecano, «grazie a voi hanno pure recuperato Pisacane e la maggioranza assoluta!». Di Pietro furente, per non dire della Bindi che invoca l’espulsione fin dal giorno prima, quando i Radicali si piazzano ai loro posti mentre parla Berlusconi, vanificando l’effetto mediatico del mini-Aventino delle opposizioni.
Ma il film del blitz mancato è quello di decine di deputati del Pd assiepati in cortile a fare i conti davanti ai monitor e di un Bersani seduto su un divano sconsolato e scettico. Del batticuore con cui vengono spuntati uno ad uno i votanti; fino a quando, alle 13 e 40 arrivati al duecentonovantottesimo nome, entrano per votare Beltrandi, Bernardini, Farina Coscioni e Turco, scatenando il panico tra i Democrats che cominciano a inveire. E dopo altri 14 voti tutti della maggioranza, arrivano Mecacci e Zamparutti, seguiti dai due delle minoranze linguistiche Zeller e Brugger. Ma ben prima, quando vota uno degli indecisi della maggioranza, Milo, l’Udc Lusetti fa una smorfia che fotografa il blitz fallito: la maggioranza avrà da sola il numero legale. E infatti la prima tornata si chiude con 322 votanti, di cui 7 contro la fiducia e 315 a favore: certificando che i Radicali, ammette Franceschini, «non sono stati determinanti per garan-
Le manovre degli Udc «Se all’esecutivo sono mancati tre voti è solo grazie a noi»

La Stampa 15.10.11
Giovanna Melandri
L’amica storica dei radicali: «Ora c’è un problema politico grande come una casa: impossibile parlare con loro»
“La misura è colma Sono stati pessimi non li difendo più”
di Francesca Schianchi


Da amica storica dei Radicali alzo le mani e dico basta». Nel 2008 l’ex ministro Giovanna Melandri perorò la causa dei Radicali nelle liste del Pd, ha condiviso molte delle loro battaglie, «ho sempre cercato convergenze». Ma l’atteggiamento di ieri l’ha veramente esasperata: «Non mi pento della scelta passata di difenderli, ma ora la misura è colma».
Tanto che in aula l’abbiamo vista discutere animatamente...
«Io non sono mai stata ostile alla loro presenza nel gruppo e li ho difesi anche quando la loro lealtà al gruppo vacillava. Ma oggi (ieri, ndr) si è passata la misura: sull’altare della loro identità particolare hanno smarrito il senso di una giornata politica. Sono stati pessimi. Per dirlo in termini gentili».
La Bindi li ha apostrofati con parole meno gentili...
«In aula anch’io ho detto cose meno gentili. Non possono stare in un gruppo così. Bisogna capire se vogliono stare con noi a fare una battaglia politica per mandare a casa Berlusconi o se vogliono essere la stampella di questo governo».
Questo non può dirlo: anche loro hanno votato no alla fiducia.
«Però se c’era una possibilità di fare mancare il numero legale loro entrando l’hanno spazzata via. Il dubbio sorge».
Ma il numero legale ci sarebbe stato comunque: i sì al governo sono stati 316.
«Adesso possono dirlo. Ma quando sono entrati a votare non lo sapevano nemmeno. Potevano almeno aspettare la seconda chiama. In ogni caso, comunque, perché distinguersi? Il fatto che non siano stati determinanti li salva da un giudizio ancora più pesante, non dalla delusione. Tra l’altro, ricordo che sono stati eletti nelle liste del Pd».
Non pensa che ormai ci sia un nodo politico da risolvere tra Pd e Radicali?
«Da oggi sì. C’è un problema politico grande come una casa».
Già da qualche tempo c’è chi nel Pd invoca la loro espulsione, lei cosa ne pensa?
«Fino a oggi ho sempre detto che il valore delle loro battaglie supera il peso delle loro bizzarrie o impuntature. Oggi alzo le mani».
Loro però si sono autosospesi da oltre un anno e aspettano un incontro con Bersani...
«Anch’io con il mio segretario sono parecchi mesi che non riesco a parlarci. Ci sono però anche le sedi parlamentari. E le dico anche che stamattina (ieri, ndr), io e il collega Lele Fiano siamo andati a cercarli per parlare con loro. Non è stato possibile: erano in riunione e non ci hanno neanche aperto la porta, non sono usciti neanche un attimo. Come una testuggine dentro un gruppo parlamentare, un atteggiamento insopportabile».

La Stampa 15.10.11
Roberto Giachetti
“Nessuna espulsione Sarà la politica a risolvere i problemi”


Io separo le intenzioni dai fatti: può darsi che i radicali avrebbero voluto essere determinanti, ma nei fatti non lo sono stati». Roberto Giachetti è il segretario d’aula che spesso inventa bluff e astuzie per riuscire a beffare la maggioranza. Radicale in gioventù e oggi deputato Pd, ieri pomeriggio si aggirava a Montecitorio mostrando ai cronisti un fogliettino in cui erano segnati 17 nomi.
Cosa sono questi nomi?
«Sono quelli dei deputati della maggioranza che hanno votato dopo i radicali: dalla Ravetto alla Roccella, sono tutti parlamentari che avrebbero votato la fiducia senza ombra di dubbio. Questo per spiegare che l’entrata dei radicali non ha avuto alcuna influenza sul voto di nessuno. Dopo che aveva votato Milo, che consideravamo incerto, la partita era chiusa».
Ma loro sono entrati perché ormai erano ininfluenti?
«Conoscendoli sono sicuro che quando hanno preso la decisione di entrare a votare fossero perfettamente consapevoli di poter essere determinanti sul numero legale. Ma nella sostanza il loro voto è stato ininfluente, il quorum ci sarebbe stato comunque. Detto questo, dico pure che ritengo abbiano fatto una scelta sbagliatissima».
E infatti resta il problema politico del rapporto con il Pd.
«È un problema che si trascina da tempo. Da oltre un anno loro si sono autosospesi dal gruppo, poi, dopo il voto su Romano (i radicali non parteciparono al voto, ndr), sia loro che il gruppo hanno chiesto che ci fosse un incontro chiarificatore con Bersani. Ma per ora non li ha incontrati».
Ma quando si sta in un gruppo non ci si confronta per poi adeguarsi al volere della maggioranza?
«Ma loro ti rispondono che se ne può discutere solo dopo aver risolto i problemi politici con il gruppo. E ti fanno anche notare che, nonostante l’autosospensione, votano con noi quasi sempre: anche l’incidente di martedì scorso non sarebbe stato possibile senza di loro».
Più che un chiarimento, nel Pd molti invocano l’espulsione.
«Io sono culturalmente e strutturalmente contrario. La politica deve farsi carico delle più complesse vicissitudini: lo teorizzavo per la Binetti come per tutti. Col metodo Bindi rischiamo che se prima eravamo in dieci a cantare mapim mapom, tra un po’ sarà uno solo a cantare mapim mapom... Ricordo che anche quello che ha scritto Follini sulla scelta di parlare in Aula non è diverso dai radicali, ma la contestazione arriva pure da Renzi... Le questioni si risolvono con la politica e non con le espulsioni, che non fanno il bene del Pd».
Pensa sia possibile trovare un modus vivendi coi radicali?
«Spero di sì, l’abbiamo trovato per due anni e mezzo. Ma ora ci vuole un chiarimento politico».

il Riformista 15.10.11
La rottura con i Radicali e il dialogo del Pd coi cattolici
Strappo in Parlamento tra i pannelliani e il vertice democrat. E il Papa dice: «La Chiesa desidera costruire, insieme con gli altri soggetti isti- tuzionali, una salda piattaforma di virtù morali»
di Francesco Peloso

qui
http://www.scribd.com/doc/68862799

La Stampa TuttoLibri 15.10.11
Paranoia Una «follia» che influenza potentemente la storia dell’umanità nell’analisi di Luigi Zoja
Senza un nemico vivere è impossibile
di Augusto Romano


Luigi Zoja PARANOIA Bollati Boringhieri, pp. 468, 25

Per quanto strano possa sembrare, i rapporti sociali sono fondati sulla fiducia: attendiamo la fine del mese fidando di ricevere lo stipendio, andiamo all’ufficio postale sicuri di trovarlo aperto, ci rechiamo a un appuntamento certi di incontrare il nostro amico. Non ci sarebbe società se non ci fosse fiducia. Sennonché, non sempre le cose vanno così: le poste scioperano, e l’amico non si presenta. Sin qui, niente di male. Già Novalis scrisse che sempre «il caos deve rilucere attraverso il velo dell’ordine». Questo incontro – una ibridazione, vorrei dire – di ordine e disordine, di caos e cosmo, arieggia la vita e la fa a un tempo più imprevedibile, più drammatica ma anche più leggera e attraente. Ma allora, perché la vita è anche così difficile e il mondo così oscuro e feroce? Perché troppo spesso ci manca qualcosa. Per salvaguardare la relazione tra ordine e caos - tra misura e dismisura, tra bene e male – il nostro Io, che generalmente sta dalla parte dell’ordine, dovrebbe essere sufficientemente capace di guardare dentro di sé, nel proprio caos interiore; di vedere il proprio male, e di assumere su di sé la responsabilità e il prezzo delle proprie azioni. Un detto apocrifo di Gesù afferma: «Se sai quel che fai, sarai salvo; se non sai quel che fai, sarai dannato». Una consapevolezza temperata dall’umiltà, giacché sappiamo anche che accadono a volte cose incomprensibili, di fronte alle quali non possiamo fare altro che chinare il capo.
Dunque, per vivere decentemente, occorre essere in grado di destreggiarsi tra termini opposti, di coniugarli, e di riconoscere così che il dubbio e l’incertezza sono il nostro brodo di coltura. Vivere nell’insicurezza dovrebbe insegnarci a essere tolleranti, prudenti ma anche curiosi del nuovo, ambigui come Hermes, signore dei crocicchi.
Tutto ciò è poco meno di un’utopia. La soluzione più semplice e apparentemente più conveniente è l’opposta, e si chiama paranoia. Il paranoico è troppo fragile e spaventato per poter sopportare il male dentro di sé e dialogare con esso; perciò lo riversa fuori, e così gli «altri» diventano i cattivi, gli avversari da sconfiggere, mentre egli si tiene stretta la sua dichiarata purezza. Una soluzione lineare, che ci permette di rendere il mondo facilmente comprensibile e di sentirci sempre nel giusto, senza conflitti, forti delle nostre convinzioni e della nostra ragione, che è l’unica possibile. Attorno al paranoico si addensa una nebulosa di parole, che tutte insieme lo definiscono: autoillusione, pseudoilluminazione profetica, impermeabilità, intolleranza, sospetto, cospirazione, accerchiamento, ansia da contaminazione… Mai il paranoico rinuncerà al nemico, senza il quale egli stesso non può vivere; se non c’è, provvederà accuratamente a costruirlo. Egli tenta di esorcizzare il caos. Il risultato è un caos raggelato e travestito da ordine.
Il punto di forza di questo bel libro di Luigi Zoja sta nel mostrare in modo assolutamente persuasivo come la paranoia non sia soltanto una risposta nichilista del singolo alla per lui insopportabile incertezza del vivere, ma sia anche un fenomeno collettivo – una sorta di inflazione psichica – che influenza potentemente la storia dell’umanità. Zoja la introduce come categoria interpretativa e ne mostra il modo di agire e i risultati disumanizzanti. I rapporti degli americani con i nativi, lo sterminio degli armeni, le due guerre mondiali, le personalità catalizzatrici di Hitler e Stalin, l’impiego della bomba atomica, l’invasione dell’Iraq sono solo alcuni tra gli esempi di cui l’Autore si avvale, mostrando come essi siano intrisi della cultura paranoica. Ma il libro non è solo questo, poiché contiene anche – sempre calate nella concretezza dell’esperienza storica – sia l’illustrazione dei luoghi ideologici presidiati dalla paranoia (nazionalismo, sciovinismo, razzismo, darwinismo sociale, eugenetica), sia una accurata descrizione delle molteplici strategie di cui la paranoia si avvale.
Scritto con chiarezza e incisività, il saggio di Zoja non è solo ricco di aneddoti inquietanti, a mezza strada tra la tragedia shakespeariana e un sinistro vaudeville . Esso è retto da un forte sentimento etico, che ne detta la conclusione. Il tentativo di curare la nostra stessa paranoia sempre in agguato consisterà nello sforzarci – di fronte a ogni evento individuale o collettivo che in qualche modo ci riguardi – di riflettere sempre sulle nostre responsabilità piuttosto che su quelle altrui.
Dai rapporti degli americani con i nativi allo sterminio degli armeni, a Hitler e Stalin Aneddoti inquietanti, fra la tragedia shakespeariana e un sinistro vaudeville Con un forte senso etico

l’Unità 15.10.11
Le eroine tragiche di Artemisia
Lo stile dei caravaggeschi ritrova forza nel femminismo della Gentileschi
di Renato Barilli


Artemisia Gentileschi a cura di R. Contini e F. Solinas, Milano Palazzo Reale fino al 29 gennaio cat. 24 ore cultura

Le celebrazioni per i quattrocento anni dalla morte del Caravaggio hanno ora un’interessante appendice nelle persone di due allievi decisamente fuori dal coro dei troppi seguaci fedeli al modello. Sono del resto due coetanei, Artemisia Gentileschi (1593-1654?) e Giuseppe Ribera (1591-1652), in mostra rispettivamente a Milano e a Napoli. La prima, oltre all’eccellenza nella pittura derivata dal padre Orazio, fu anche, come è ben noto, una rara sostenitrice della causa del femminismo, in tempi assai ostili, con una schedina biografica altamente drammatica in cui spicca la causa intentata a un collega del padre, Agostino Tassi, per avere a lungo abusato di lei senza concludere col matrimonio. Ma certo Artemisia non era una fanciulla indifesa, tutt’altro; pur dovendosi rifugiare in un’unione riparatrice con un modesto coniuge, forse convinto a suon di denaro, non mancò di relazioni ad alto livello, in una carriera agitata fondata su un cabotaggio tra Roma e Firenze, ma con soggiorni in altre nobili sedi, tra cui Venezia e perfino Londra, dove era andato a stare Orazio, e un finale a Napoli, in cui dapprima furoreggia e poi scompare nel nulla.
Ma, al di là della biografia di sapore romanzesco, occupiamoci qui dello stile di questa ardente donna artista, che prese molto dal padre, a sua volta caravaggesco della prima ora, aderente alla poetica giovanile del Merisi, fatta di corpi solidi, intatti, immersi in una luminosità ben lontana dalle ombre compiaciute degli allievi minori. E soprattutto, portato a sfoltire la scena, a porvi solo pochi personaggi ben distinti. Artemisia assume dal padre questi valori, e li volge con forza drammatica al femminile. I suoi temi preferiti, ricavati dalla Bibbia, consistono in duetti dove la donna si impone con gesti sublimi ed eroici, pronta a trucidare il maschio insidiatore. Tema preferito su tutti, quello di Giuditta che tronca il capo a Oloferne, magari con l’aiuto di una complice, come accade nella versione di Napoli, Capodimonte. Giuditta ha carni sode, marmoree, che vengono dal caravaggismo paterno, fatte risaltare dal tenebrismo del Maestro, che però in lei non serve per trangugiare aneddoti troppo folti di personaggi, come succede negli allievi minori. Qui tutto è forte e nettamente scandito. Virtù che risaltano anche in altri duetti tragici, Dalila e Sansone, Giaele e Sisara, La ninfa Corisca e il satiro, sempre con una calamitazione sulla figura femminile, al fine di riscattarla da secoli di sottomissione al maschio.
Per queste sue virtù Artemisia è eccellente negli autoritratti, o in genere quando si tratta di fare il vuoto attorno a qualche rappresentante del sesso che in lei appare forte e risoluto, come succede nei casi di Danae e di Cleopatra. In fondo, il vero obiettivo sarebbe di escludere dalla scena il partner prevaricatore e dispotico. In tal senso non c’è dipinto più indicativo dell’Abbraccio tra la Giustizia e la Pace in cui le donne decidono di fare da sé, quasi in un rapporto omosessuale.

La Stampa TuttoLibri 15.10.11
Arte
Ma Rembrandt nuota nel fiume della vita
di Marco Vozza


Tzvetan Todorov L’ARTE O LA VITA. IL CASO REMBRANDT Donzelli, pp. 112, 15

Tzvetan Todorov è uno dei maggiori intellettuali francesi, autore molto prolifico dapprima nella teoria della letteratura, poi nella storia delle idee. Recentemente si è rivolto anche alle arti figurative, in particolare a quella scoperta del quotidiano, un vero e proprio elogio, che caratterizza il Seicento olandese. Ora lo storico francese di origine bulgara sembra appassionarsi al «caso Rembrandt» ( L’arte o la vita. Il caso Rembrandt ) di cui analizza con molta precisione le unità tematiche che si avvicendano nell’opera del pittore della Ronda di notte , senza peraltro prendere in considerazione la tesi di Svetlana Alpers secondo la quale Rembrandt è solo il nome di un’intera officina che produce opere d’arte. Al termine della sua ricostruzione, Todorov avanza una tesi di ordine generale sul pittore: Rembrandt sarebbe un artista-creatore dedito a quella perfezione formale che richiede di estraniarsi dal mondo, separandosi dal fiume della vita che ostacola la creazione artistica. Se la riflessione finale di Todorov fosse corretta, Rembrandt non sarebbe il grande pittore che conosciamo, l’innovatore con Caravaggio e Velázquez dell’arte classica nel cuore del Seicento europeo.
Nella sua opera arte e vita non si contrappongono affatto, anzi si compenetrano come espressione diretta, ma non episodica, dell’essenza del divenire, della temporalità che caratterizza l’esistenza. Seguendo l’insuperata lezione interpretativa di Georg Simmel, Rembrandt avrebbe espresso compiutamente una concezione della vita come continuità, unità di frammenti, di attimi non irrelati ma costitutivi di una totalità, in ossequio alla massima goethiana secondo la quale «la fonte si può pensare solo nel suo scorrere». La totalità di senso espressivo è data dalla capacità di rappresentare nel singolo istante l’intero impulso vitale, la potenzialità dell’insieme, di rivelare la storia di una determinata corrente vitale, la connotazione unitaria di un destino interiore.
Mentre l’arte classica astraeva dal movimento vitale una rappresentazione plastica e atemporale dell’essere, Rembrandt rende visibile il ritmo, la tonalità della vita individuale, la storicità della vita psichica, la temporalità della vita vissuta. In tal senso, i ritratti più affascinanti sono quelli dei vecchi, in cui si scorge un maximum di esperienza vissuta, la risonanza del tempo passato, la tonalità emotiva dell’esistenza trascorsa e la prefigurazione del tempo residuale di vita, intrisa di melanconia ma anche di generosità verso i più giovani.
In quanto filosofo della vita, Rembrandt manifesta anche una profonda comprensione della morte, abbandonando l’immagine delle Parche per cui la morte è mero decesso: fin dalla nascita, invece, la morte è dentro la vita (come hanno sempre saputo i pittori, da Bellini a Baldung Grien), determinandone il tono e la conformazione, il peculiare destino di caducità. Vita e morte sono soltanto opposti relativi, unificati dal senso onnipervasivo della vita che fonda ed eccede il loro delimitarsi e contrapporsi. Come scriverà Rilke, vita e morte definiscono un doppio regno, in cui la morte è immanente alla vita.
Tzvetan Todorov analizza il «caso» del pittore che ha saputo fondere l’arte e l’esistenza

Repubblica 15.10.11
La battaglia delle biblioteche
A Londra chiudono per i tagli e gli scrittori si ribellano


L´appello di Bennett che con Zadie Smith prova ad opporsi alla mancanza di fondi Ma proprio ieri sono stati messi i sigilli a quella che fu aperta da Mark Twain
"Per un bambino che vive in un palazzone, dove lo spazio è ridotto e la pace e il silenzio sono difficili da trovare, la sala lettura è un paradiso"
"È vergognoso che le municipalità laburiste siano indifferenti all´orgogliosa tradizione del partito in favore dell´istruzione popolare"

Sono sempre stato felice nelle biblioteche, senza tuttavia sentirmi mai veramente a mio agio. Una scena che ricorre nelle commedie che ho scritto è quella in cui un personaggio, di solito un giovane, guarda perplesso uno scaffale di libri. È sovrastato dalla quantità di cose che sono state scritte e di quanto c´è ancora da imparare. «Quanti libri. Non mi metterò mai in pari», si lamenta il giovane Joe Orton nella sceneggiatura di L´importanza di essere Joe mentre, in The Old Country, un altro giovanotto reagisce in modo ancor più drammatico scaraventando a terra metà dei libri.
La prima biblioteca in cui mi sono trovato a mio agio fu l´Armley Public Library di Leeds, dove il biglietto di ingresso nel 1940 costava due penny: non due penny alla volta o anche solo due penny all´anno, ma due penny e basta: questo era tutto quello che si doveva pagare. Era un edificio piuttosto elegante, eretto nel 1901 su progetto dell´architetto Percy Robinson e – cosa sorprendente per una città come Leeds che ha sempre avuto la mania di demolire – esiste ancora oggi ed è utilizzato come biblioteca, ma immaginare se supererà o meno le attuali difficoltà è qualcosa a cui non mi piace pensare.
La Armley Library si trovava in fondo a Wesley Road, l´ingresso era in cima ad una scala di marmo sotto un porticato e vi si accedeva attraverso porte rivestite di vetro colorato che nel 1941 iniziavano appena a rovinarsi. Più avanti c´era l´ala destinata agli adulti, con i soffitti alti, ariosa e invitante; a destra c´era la zona riservata ai ragazzi, un ambiente buio e basso, reso ancora più buio dai libri che, indipendentemente dal loro contenuto, erano stati rilegati con pesanti copertine nere, marroni o rosso scuro su cui era stato impresso il timbro delle biblioteche pubbliche di Leeds. L´atmosfera severa era scoraggiante per un ragazzino che aveva appena iniziato a leggere, ma ancora più scoraggiante era l´enorme e irascibile guardiano dai baffi spioventi, ex veterano dell´esercito britannico, che vi soggiornava in pianta stabile. Quando ero all´ultimo anno, alla Modern School, facevo i compiti alla Biblioteca Centrale di Leeds, a Headrow. All´epoca, gli edifici comunali ospitavano non soltanto la biblioteca ma anche gli uffici didattici e il dipartimento di polizia, cosa comoda, immagino, per il tribunale, in funzione ancora oggi, che si trovava proprio dall´altra parte della strada, all´interno del municipio. Tutto il complesso sembrava esprimere la fiducia della città nei valori della lettura e dell´istruzione, nonché dare un´idea di dove si poteva andare a finire se li si trascurava. La biblioteca di consultazione esprimeva la solidità della città, con le sue massicce sedie con i braccioli e i lunghi tavoli in mogano, scanalati ai bordi per appoggiare la penna e con al centro un pesante calamaio in peltro.
Metà dei tavoli erano occupati dagli studenti dell´ultimo anno, intenti a fare i compiti o a prepararsi per una borsa di studio; ma c´erano anche studenti universitari tornati a casa durante le vacanze, dato che gli studenti di Leeds preferivano risalire la strada e andare alla Brotherton Library. Poi c´erano i soliti tipi strani che popolano qualunque sala di lettura che sia riscaldata, comoda e abbia un posto in cui sedersi. Certi anziani sonnecchiavano per ore su una rivista presa in prestito, ma se venivano sorpresi ad addormentarsi, subito si avvicinava un assistente, sibilando «Non si può dormire!».
Ai miei tempi la biblioteca era un´istituzione prevalentemente maschile, dove i tavoli erano divisi su basi religiose o etniche. C´era il tavolo cattolico, frequentato dai ragazzi in giacca azzurra del St. Michael College, la principale scuola cattolica; c´era il tavolo ebraico composto dai ragazzi della Roundhay o della Grammar School che, anche se non venivano dalla stessa scuola, si conoscevano già frequentando la sinagoga o altre attività extrascolastiche. Se venivi dalla Modern School come me, non avevi speciali affinità religiose o razziali e forse non venivi considerato particolarmente sveglio, né la scuola buona quanto la Roundhay o la Grammar School. Le poche ragazze che sfidavano questa cittadella maschile ne mandavano in frantumi la suddivisione formale, la vivacizzavano, cambiandola in meglio. Si impegnavano più dei ragazzi e raramente le si incontrava fuori sul pianerottolo, dove si andava a fumare.
Ho parlato delle biblioteche in quanto luoghi e, nella lotta di questo periodo in difesa delle biblioteche pubbliche, non si pone mai abbastanza l´accento sulla natura della biblioteca come luogo di aggregazione e non solo come servizio. Per un bambino che vive in un palazzone, dove lo spazio è ridotto e la pace e il silenzio non sempre facili da trovare, una biblioteca è un paradiso. Ma, va detto, una biblioteca deve essere comoda e a portata di mano; raggiungerla non deve richiedere un viaggio. Le autorità comunali di tutti i partiti mirano alla realizzazione, già programmata, di nuove, splendide biblioteche centrali, come se questo li sciogliesse dai loro obblighi. Non è così. Un bambino ha bisogno che la biblioteca sia dietro l´angolo. Se perdiamo le biblioteche locali saranno i bambini a soffrirne. Di tutte le biblioteche, la più importante per me è stata la prima, la buia e poco attraente Armley Junior Library. Avevo appena imparato a leggere. Avevo bisogno di libri. Magari aggiungiamo i computer, ma oggi un bambino appartenente ad una famiglia povera è esattamente nella stessa situazione.
L´idea di chiudere le biblioteche non è semplice lotta politica. Le autorità locali si rifugiano dietro la richiesta del governo centrale che, a sua volta, finge che i consigli comunali abbiano scelta. È vergognoso che le municipalità laburiste, indifferenti all´orgogliosa tradizione del partito in favore dell´istruzione popolare, non prendano una posizione più netta.
(Traduzione di Antonella Cesarini)
Questo è l´estratto di un articolo apparso sulla London Review of Books – www.lrb.co.uk

La Stampa 15.10.11
La saga di Assange il corsaro del libero Web
In Italia il libro dei due giornalisti del “Guardian” sul fondatore di WikiLeaks Travolgente come un thriller, tanto che Spielberg ha acquistato i diritti per il film
di Anna Masera


«Io sono il cuore e l’anima di questa organizzazione, il fondatore, il filosofo il portavoce, il primo programmatore il finanziatore e tutto il resto» Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks che ha diffuso in tutto il mondo i segreti della diplomazia americana

Dreamworks pensa a un nuovo Redford La Dreamworks di Steven Spielberg (foto) ha preso i diritti cinematografici. Il modello è Tutti gli uomini del Presidente con Robert Redford sul Watergate.

Un eroe dell’informazione o il pirata informatico che ha fatto del giornalismo spazzatura? Un cavaliere della verità o un megalomane a caccia di protagonismo mediatico? Un monaco della notizia o uno stupratore di pasionarie? Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, è stato uno dei personaggi più controversi del 2011. Lui si definisce così: «Se hai qualche problema con me, bè, puoi fotterti. Io sono il cuore e l’anima di questa organizzazione, il fondatore, il filosofo, il portavoce, il primo programmatore, organizzatore, finanziatore e tutto il resto». L’australiano dai capelli di platino, che con WikiLeaks ha messo in ginocchio le diplomazie internazionali, ama le tinte forti e si muove come un cavaliere senza macchia. La sua storia è nel libro da oggi in libreria di David Leigh e Luke Harding, i due giornalisti del Guardian che hanno siglato con lui un accordo senza precedenti per pubblicare informazioni riservate della diplomazia americana su alcune delle più importanti testate internazionali.
WikiLeaks. La battaglia di Julian Assange contro il segreto di Stato pubblicato dall’editore Nutrimenti ha già fatto scandalo in Inghilterra rivelando la password supersegreta di Assange che è servita per crackare tutti i cablo diplomatici senza filtro. Il libro si legge come un thriller, tanto che la Dreamworks di Steven Spielberg ha acquistato i diritti cinematografici. Il modello di riferimento è Tutti gli uomini del Presidente , la pellicola-culto con Robert Redford e Dustin Hoffman sullo scandalo Watergate.
Nella storia di WikiLeaks si trovano molti particolari inediti a cominciare da come è stato raggiunto l’accordo segreto, in un hotel belga, per diffondere i segreti militari e diplomatici attraverso Guardian , New York Times eSpiegel . Ma anche aneddoti sconosciuti come quando Assange si è travestito da anziana signora con tanto di parrucca per sfuggire a giornalisti e detective. E, per chi i dispacci di WikiLeaks non li ha mai letti, nell’appendice ce n’è un’ampia scelta.
«Negli annali del giornalismo c’è poco o forse nulla di paragonabile a questa operazione. Nessuna redazione ha avuto a che fare con un database così enorme composto, secondo le stime, da trecento milioni di parole», scrive nella prefazione il direttore del Guardian , Alan Rusbridger, raccontando la trasformazione di Assange «da anonimo hacker in uno dei personaggi più controversi del mondo, insultato e vituperato ma allo stesso tempo celebrato e adorato come un idolo, poi ricercato, imprigionato e scansato come la peste». Perchè? Perchè è audace, insolente, con il culto della personalità. Ma sono armi al servizio di un obiettivo perseguito per anni con determinazione: liberare l’informazione, rendere pubbliche le notizie che i governi vogliono tacere.
Per sapere davvero tutta la verità bisognerà ascoltare la voce dell’americano Bradley Manning, il soldatino di 23 anni che è stato la prima vera gola profonda di WikiLeaks. Ma Manning è in carcere da un anno e mezzo. E per ora non può parlare. Non è l’unico mistero che circonda la storia di Assange. Anche il disvelamento della sua mitica password è tutto da capire. Il fondato di WikiLeaks l’ha rivelata a Leigh, uno dei due giornalisti del Guardian con cui era in contatto, per consentirgli di accedere ai dispacci segreti, ma con la tacita promessa che non l’avrebbe rivelata. Leigh invece l’ha pubblicata in questo libro rendendola accessibile al mondo intero e contribuendo così alla maledizione che ora pende sulla testa di Assange. Perché l’ha fatto? Davvero solo un’ingenuità o c’è dell’altro? Naturalmente il libro non può chiarirlo, ma il suo fascino sta proprio nell’essere parte della storia. Per gli appassionati diamo qui la password, di 58 caratteri: ACollectionofDiplomaticHistorySince_1966_ToThe_PresentDay#
I due giornalisti autori del libro riportano con precisione anglosassone i pro e i contro il discusso Assange. Tra i «pro», uno degli effetti positivi dell’azione di WikiLeaks è la rivoluzione dei gelsomini, cominciata con l’insurrezione del popolo tunisino contro Ben Ali, che lo costringe alla resa. Citano il giovane tunisino Sam: «WikiLeaks rivela ciò che tutti sussurrano da tempo... Ed ecco che per la prima volta vediamo la possibilità di ribellarci». Si scopre che ai tunisini piacciono i dispacci dell’ambasciatore americano a Tunisi, piace il modo con cui gli americani, al contrario dei francesi, hanno puntato il dito contro la corruzione del governo. Un risvolto non previsto da Assange. Il segretario di Stato Usa Hillary Clinton denuncia la fuga di notizie di WikiLeaks, perché «distruggerà i nostri sforzi di lavorare insieme con altre nazioni per risolvere problemi condivisi». Ma gli effetti della fuga di notizie contribuisce anche a restaurare un po’ la reputazione degli Usa nel Medio Oriente, danneggiata dalla guerra in Iraq, e a far compiere passi in avanti alla Casa Bianca nel portare democrazia e modernità. Per quanto Assange veda negli Usa un nemico, proprio lui avrebbe aiutato l’America a ritrovare influenza lì dove aveva perso credibilità.
Tra i «contro» ci sono alcuni particolari della rocambolesca vita dell’hacker più famoso della storia. Con una descrizione dettagliata del carattere di Assange, che alla fine lo ha messo nei guai con tanto di arresto a Londra per l’accusa di stupro dalla Svezia, dove si considera violenza carnale il sesso non protetto. Il deputato islandese Birgitta Jonsdottir, sua amica ma anche lei nell’elenco delle donne esasperate per i comportamenti di Assange, ha spiegato che è in qualche modo necessario tener conto dell’ambiente culturale dal quale Assange proviene. Al Daily Beast ha dichiarato: «Julian è un uomo brillante, sotto molti punti di vista, ma non è molto bravo a stabilire rapporti sociali. È un australiano classico, nel senso che non riesce a liberarsi da un atteggiamento un po’ maschilista e sciovinista». In Australia, dove per clichè gli uomini sono come Crocodile Dundee, le donne sono abituate a uomini che si rivolgono a loro come dei «bei bocconcini». Un atteggiamento che va contropelo in un Paese all’avanguardia nella considerazione dei diritti delle donne come la Svezia.
Con tutte le contraddizioni dell’uomo, Assange è riconosciuto come l’inventore di un sistema rivoluzionario accessibile a chiunque per mettere a nudo verità più o meno scomode. Tanto che adesso è copiato da diversi benvenuti cloni su Internet, da sistemi informatici analoghi che cercano di replicare gli aspetti positivi di WikiLeaks, senza ereditarne i difetti.