lunedì 17 ottobre 2011

l’Unità 15.10.11
Nel mondo dei sogni visibili e invisibili
Dai popoli primitivi all’analisi collettiva: 40 psichiatri e psicologi spiegano in un libro come curare i malati di mente con l’interpretazione dei racconti onirici. Anticipiamo stralci di un brano sulla storia del sogno nell’antichità
di Francesca Fagioli, Martina Apatnè e Ludovica Telesforo


Il sogno ha sempre avuto un ruolo rilevante nella storia dell’uomo, il quale si è costantemente interrogato sulle origini e sul significato di queste misteriose immagini. Per i popoli primitivi il sogno rappresentava una forma di comunicazione tra il mondo del divino e il mondo dell’umano: «Il mondo visibile e il mondo invisibile formano una sola cosa. La comunicazione tra ciò che noi chiamiamo realtà sensibile e le forze mistiche è costante e nei sogni avviene in modo immediato e completo. Il sogno porta così ai primitivi dei dati che, ai loro occhi, valgono altrettanto, se non più, che le percezioni acquisite durante la veglia».
Il sogno era quindi uno strumento per giungere a una conoscenza più ampia della realtà e consentiva di acquisire elementi nuovi del sapere. Concetto che viene ribadito in modo simile anche da Gerardus van der Leeuw, il quale nel suo L’uomo primitivo e la religione sottolineava come la coscienza onirica venisse considerata alla pari della coscienza diurna e che le uniche differenze fossero nelle modalità espressive, fatte di immagini e figure, nella prima, e di concetti, nella seconda.
Nei popoli primitivi si riconosceva inoltre una differenza tra sogni «veri» e validi e sogni «falsi» e ingannevoli, intendendo come «veri» quelli caratterizzati da una valenza profetica (sogni-presagio), e perciò considerati «sacri». La dimensione del presagio era comunque intima e personale, restando legata all’individuo che poteva scegliere di condividere o meno questa conoscenza con gli altri conferendogli così un valore sociale e collettivo. Il sogno sciamanico, al contrario, presentava una funzione più utilitaristica rispetto al sognopresagio, in quanto la sua interpretazione era sempre legata al verificarsi di eventi in rapporto a bisogni umani e sociali.
ASSIRO-BABILONESI
Nella vita degli Assiro-Babilonesi il sogno occupava un posto di estremo rilievo; gli interpreti dei sogni, la cui identità era essenzialmente magico-sapienzale, venivano consultati per qualsiasi decisione, dalla più comune, come un matrimonio, alla più importante, come il destino di un regno.
Anche gli Egizi discutevano di sogni: venivano considerati uno stato mentale extracosciente che permetteva l’accesso a un mondo dominato da forze primordiali eterne e non create; i sogni avevano facoltà premonitrici, divinatorie e terapeutiche (anche nei riguardi della sfera sessuale) e venivano suddivisi in sogni dei credenti, accompagnati da Horus, dio buono, e in sogni dei miscredenti, che viaggiavano con Seth, dio dell’ombra, una distinzione tra tipologie di sogni già presente nei popoli primitivi. Sappiamo inoltre, grazie al ritrovamento di un prezioso papiro, il Chester Beatty III, risalente al 2000 a.C., che gli Egizi utilizzavano diverse tecniche di interpretazione del sogno, basate su giochi di parole, sul modo in cui veniva narrato e sulla corrispondenza simbolica. In Egitto, inoltre, come racconta Erodoto, veniva praticata la tecnica dell’incubazione dei sogni, che consisteva nel «cercare», in luoghi di culto o preghiera, sogni che chiarificassero eventi futuri, generalmente riguardanti la salute del sognatore.
L’EBRAISMO
Per la cultura dell’antico Israele il sogno proveniva direttamente da Dio, che attraverso esso dettava le sue leggi, e i sogni più significativi erano considerati allegorici e profetici. Tuttavia, nell’Antico Testamento non mancano condanne contro l’oniromanzia – considerata un residuo della religiosità popolare e superstiziosa – che confermano un giudizio più che ambiguo nei riguardi del sogno. Nonostante questo, ci sono alcune regole che i maestri talmudici consideravano fondamentali per l’arte interpretativa: la simbologia e l’allegoria; la paronomasia, o bisticcio di parole, fondata sulle omofonie e omografie; il calcolo numerico delle lettere delle parole; lo scambio delle lettere alfabetiche.
L’ISLAM
L’oniromanzia veniva praticata in Arabia già nel periodo preislamico e successivamente dopo la diffusione dell’Islam fu l’unica arte divinatoria a non essere ripudiata, in quanto considerata mezzo fondamentale per conoscere la volontà del cielo e i segreti dell’avvenire. Nei testi onorimantici si legge che il Profeta Maometto era molto interessato a quest’arte e che la trasformò in una vera scienza con un assetto sistematico. Il Profeta Dinawari, massimo teorico del sogno dell’Islam, scriveva: «Il sogno è una conversazione tra l’uomo e il suo Dio», e queste parole si ritrovano anche nei versi del Corano. Non stupisce, perciò, l’importanza che veniva riconosciuta agli interpreti dei sogni, che dovevano essere uomini di cultura, credibili e dignitosi, spesso appartenenti alle file dei giudici, dei filosofi, dei medici e dei maghi. Numerose sono le testimonianze scritte sulle tecniche di interpretazione – esistevano persino dei dizionari di rapida consultazione – in cui, oltre a offrire preziosi suggerimenti, si invitava a tener presente il contesto sociale, economico e culturale del sognatore. L’importanza data al sogno è infine confermata da altri due elementi: il primo è che nel mondo islamico gli uomini venivano classificati in base a categorie che corrispondevano a ciò che sognavano e il secondo è che il custode dei sogni era chiamato Sadiqun, che in arabo vuol dire «veritiero».

Da oggi in libreria: Psicoterapia di gruppo Ecco un manuale
La medicina della mente, Daniela Colamedici Andrea Masini Gioia Roccioletti, pagine 396 , euro 30,00, L’asino d’oro
«La medicina della mente. Storia e metodo della psicoterapia di gruppo» è un manuale sulla cura della malattia mentale con l’interpretazione dei sogni.

Repubblica 9.10.11
Goce Smilevski fa una finta autobiografia tratta da una storia rimossa La protagonista è Adolfine che ripercorre la sua vicenda dal lager
Il destino segreto delle sorelle di Freud dimenticate a Vienna
di Leonetta Bentivoglio


Rosa, Marie, Adolfine e Pauline furono le sorelle immolate al nazismo da Sigmund Freud. Le condannò per ignavia, trascuratezza, egoismo o per chissà quali segreti rancori familiari. Soltanto Anna, la maggiore, evitò i lager, emigrando in America nel 1889. Le altre quattro perirono in modo tragico e umiliante, in campo di concentramento, tra il 1942 e il 1943, mentre il loro celebre fratello si era spento nella quiete della sua bella casa inglese nel 1939, un mese dopo l´inizio della guerra. Semplicemente Sigmund aveva deciso di abbandonarle alla sventura. Già molto infragilito dal cancro, lo scienziato, dopo l´Anschluss, aveva ceduto alle pressioni della sua cerchia di devoti, che lo spingevano a lasciare l´Austria. In principio aveva fatto resistenza, sentendosi troppo debole e anziano per andarsene da Vienna; poi convenne che era la cosa giusta. Per un personaggio tanto noto internazionalmente, non fu difficile trovare, in un paese come l´Inghilterra, la disposizione ad accoglierlo, e affinché i nazisti gli consentissero di partire vennero sollecitate molte prestigiose intercessioni, tra cui quella di Roosevelt. Ci fu tra l´altro il benevolo intervento di Mussolini, grande ammiratore di Freud. Quest´ultimo riuscì a salvaguardare la fetta più sostanziosa del suo patrimonio, incluse le amate collezioni di antiche statuette, che approdarono intatte a Londra, e si permise l´acquisto di Maresfeld Garden, l´abitazione oggi divenuta un museo, che in suo onore guadagnò un accessorio prezioso come l´ascensore. L´aspetto incredibile di questa storia è che, lasciando Vienna, Freud aveva avuto la possibilità di portare con sé i propri cari, e nell´elenco che stilò per l´occasione figuravano la moglie, i figli, la cognata, le due assistenti, il medico personale con famiglia al seguito e persino il cane. Ma non le quattro povere sorelle.
Pur nel continuo proliferare di omaggi ad un eroe che non passa mai di moda (l´ultimo è il film, fastidiosamente iconografico, A Dangerous Method, di David Cronenberg, dedicato al suo incontro-scontro con Jung), è mancata sempre un´indagine seria riguardo alle cause di quest´inspiegabile episodio, sul quale le biografie tendono a sorvolare. Il principale agiografo del fondatore della psicoanalisi, Ernest Jones, scrisse, a proposito dell´orrenda fine delle quattro donne: «Freud, per fortuna, non avrebbe mai saputo nulla di ciò che sarebbe accaduto loro». D´altra parte Sigmund, commentava con ipocrisia lo stesso Jones, «non aveva alcun motivo di preoccuparsi delle sorelle, visto che all´epoca del suo trasferimento a Londra la persecuzione degli ebrei era appena cominciata».
Il giovane scrittore macedone Goce Smilevski (è nato nel 1975) si è ispirato a questa strana e rimossa vicenda per un romanzo di evidente asprezza, votato all´esplorazione della sorte di Adolfine. È alla sua voce che si affida l´intero racconto, plasmato come una finta autobiografia, e oscillante tra verità documentate e liberissime invenzioni. Pubblicato nel 2007, La sorella di Freud è stato subito un successo, e nel 2010 un suo estratto è apparso nell´antologia "Best European Fiction 2010", con un´introduzione di Zadie Smith. L´hanno comprato vari paesi, tra cui Inghilterra, Francia, Spagna e Stati Uniti, e ora sta per uscire in Italia per Guanda.
Nel lager di Terezin, dov´è rinchiusa in un assoluto stato d´infelicità e rimpianti, e dove si prepara con stoicismo alla morte (che sopraggiunge, nell´ultimo capitolo, come un tuffo finalmente lieve nell´oblio), Adolfine ripercorre la sua vita. Scorrono gli anni dell´infanzia, le tensioni all´interno della famiglia e lo speciale rapporto instaurato con Sigmund, poi sfociato in un allontanamento nell´adolescenza, quando tra loro si frappose un "qualcosa" che aveva molto a che vedere con la differenza di genere sessuale. C´è l´amore disperato di Adolfine per Rajner, un ragazzo malinconico fino al torpore e con tendenze autodistruttive, e l´ansia martellante di una maternità mai realizzata. C´è la lunga amicizia con Klara Klimt, sorella del pittore Gustav, protesa in modo agguerritissimo e totalizzante, fino al martirio o al fanatismo, verso l´obiettivo di un mondo diverso per le donne, più paritario e giusto. C´è soprattutto il legame di Adolfine con sua madre, presenza angosciosa e punitiva al massimo, vera fonte del dolore esistenziale della figlia, perché in ogni vita ci sono ferite che scompaiono e altre che restano, ed è questo, forse, il tema-cardine del libro: l´idea di un danno primario, da considerare come il più autentico. Gli altri, andando avanti, ci colpiscono per suo tramite, e ogni seguente sofferenza trova la sua forza fin tanto che gli si avvicina. Il dolore di Adolfine aveva un nome, quello della madre, siglato nella sua memoria più profonda, e intimamente connesso ai tormenti successivi, come sgorgati da un´unica radice.
La sorella di Freud non è un romanzo "d´ambiente". Sprazzi della Vienna di quel periodo affiorano nelle dissertazioni sulla sessualità, sull´ebraismo e sul nascente femminismo, così come negli accenni all´opera freudiana. Ma Freud e Vienna sono soltanto un´occasione per un viaggio lungo il male oscuro di una donna schiacciata da un destino di passività. Ce lo restituisce una scrittura ruvida, insidiosa, ossessiva. E sempre consapevolmente disattenta alle ripetizioni. Un po´ come nello stile di autori quali Saramago, che sembrano voler abbattere i più gentili criteri della forma per dimostrare che è importante la sostanza.

Corriere della Sera 16.10.11
«Ho dato una vita ad Adolfine Freud»
Il mistero delle quattro sorelle di Sigmund: dimenticate a Vienna e deportate
di Ranieri Polese


FRANCOFORTE — Il 10 aprile del 1938, con un plebiscito, i cittadini austriaci approvavano l'unificazione con il Reich tedesco. Meno di due mesi dopo, il 4 giugno, per sfuggire alla persecuzione antisemita, Sigmund Freud partiva da Vienna portando con sé sedici persone (la moglie, la figlia Anna, la cognata Mina, il suo medico con la moglie, la cameriera e altri ancora), ma lasciava a Vienna quattro sorelle: Rosa, Marie, Adolfine e Pauline, tutte oltre la settantina. Sei anni dopo, tra giugno e agosto del 1942, verranno deportate e dopo poco moriranno. «Leggendo le biografie di Freud, avevo notato che i due fatti — la partenza di Freud da Vienna con sedici persone, e le quattro sorelle che invece non possono andare con lui — non vengono mai messi insieme. Ai biografi del padre della psicoanalisi non scatta mai la domanda: perché Freud le ha abbandonate alla fine certa in un campo di sterminio?».
Parla Goce Smilevski, lo scrittore macedone, autore del romanzo La sorella di Freud, uscito in Macedonia nel 2007, acquistato da editori di trenta Paesi (fra cui ci sono l'America, l'Inghilterra, la Francia, la Spagna e la Germania) che ora appare in Italia, nella prima traduzione, di Davide Fanciullo, dall'editore Guanda (pp. 334, 18).
Un successo molto festeggiato in Macedonia, una consacrazione simile a quella che toccò al regista Milcho Manchevski, Leone d'oro a Venezia nel 1994 con Prima della pioggia.
Goce Smilevski ha trentasei anni. Ha studiato letteratura a Skopje, Praga e Budapest; si è laureato con una tesi su Milan Kundera; ha pubblicato due romanzi, Il pianeta dell'inesperienza e Conversazione con Spinoza (uscirà l'anno prossimo, sempre da Guanda). Grazie a un capitolo de La sorella di Freud apparso nell'antologia Best European Fiction 2010 curata da Aleksandar Hermon e Zadie Smith, vince l'European Prize for Literature (l'anno prima, 2009, l'aveva vinto Daniele Del Giudice con Orizzonte mobile). Ora è a Francoforte per incontrare gli editori del suo fortunato La sorella di Freud.
Allora, perché Freud abbandona le sorelle? «La domanda rimane senza risposta. Nonostante le lunghe ricerche che ho fatto, non ci sono lettere o documenti in grado di darci una spiegazione. Ma da qui mi è venuto l'impulso di scrivere un romanzo, lavorando di immaginazione, prendendo come protagonista Adolfine, la penultima, l'unica che non si era sposata. Quella che il figlio di Freud, Martin, nei ricordi di famiglia definisce "poco intelligente". Di lei ci resta solo qualche lettera, in una dà notizie dei genitori al fratello che si trovava a Roma con la moglie e la cognata».
Bambina poco amata dalla madre, legata da un'ammirazione che sconfina quasi in una passione incestuosa per il fratello Sigmund, Adolfine vive una vita in ombra. Il romanzo la riempie di avvenimenti, che sono tutti frutto della fantasia di Goce Smilevski. Adolfine prende lezioni di disegno e s'innamora di Rajner, il malinconico figlio del suo insegnante; diventa amica di Klara Klimt, la sorella del pittore Gustav; aspetta un figlio da Rajner, che l'abbandona, così decide di abortire; per sua scelta si fa ricoverare nella clinica per malattie mentali Il Nido; si prenderà cura dei tanti figli illegittimi di Gustav Klimt, quando Klara non sarà più in grado di occuparsene.
«Sì, sono tutte finzioni romanzesche, tutte comunque verosimili nella Vienna del crepuscolo dell'Impero. Vienna, dove ho passato lunghi periodi, conserva ancora il ricordo di quella stagione irripetibile di grande creatività e di inarrestabile decadenza». Così la clinica somiglia a un padiglione dello Steinhof, il manicomio costruito da Otto Wagner; Klimt che dà scandalo con la sua vita sregolata ricorda le polemiche dei benpensanti contro gli artisti della Secessione; e ci sono squarci della vita quotidiana di Freud nella sua casa di Berggasse 19.
«Il non sapere niente di Adolfine mi ha dato la libertà di reinventare una vita che nessuno si è curato di documentare. È un po' la libertà che io, scrittore di un Paese che sta ai limiti dell'Europa, marginale, cui non guarda nessuno, mi posso prendere: posso scegliere quello che mi piace della tradizione dell'Europa occidentale che non mi riconosce come suo cittadino. Mi sono appropriato di Spinoza, di Kundera, di Freud. E se devo pensare a un modello, direi Hermann Broch, il grande scrittore austriaco, l'autore della Morte di Virgilio, da cui ho preso quel misto di narrativa poetica e di saggistica».
Troppo vicini per essere esotici, troppo lontani per essere dei veri europei, agli scrittori macedoni — dice Smilevski — si finisce sempre e solo per chiedere la situazione politica del loro Paese. «Che è una situazione bizzarra, nonostante la richiesta di entrare nella Comunità, l'accesso è sempre rimandato». Per la questione del nome Macedonia che la Grecia contesta? «Ma il problema non è tanto il nome, c'è il fatto che nel 1948 la Grecia espulse 300 mila macedoni e confiscò i loro beni. Se entriamo a pieno titolo in Europa, Atene ci dovrebbe risarcire molti milioni di euro».
Oltre ad Adolfine, nel romanzo incontriamo altre due sorelle, Klara Klimt appunto, e Ottla Kafka, internata a Terezin, che ricorda solo il nome, Franz, del suo grande fratello. Sembra che un destino maligno pesi su queste donne, la cui disgrazia nasce proprio dall'essere sorelle di uomini importanti.
«Sono delle esistenze dimenticate, che nessuno considera anche in vita. Per questo mi piace scriverne, perché se la storia si occupa di generali, grandi leader politici, re e imperatori, il romanzo può, deve dedicarsi a queste figure cosiddette minori».

l’Unità 17.10.11
A L’Aquila 200 tra amministratori locali e dirigenti chiedono una svolta
Sostegno a Bersani «Ma non presentiamoci 15 anni dopo con le stesse facce»
I quarantenni del Pd: «Basta subalternità al neo liberismo»
I trenta-quarantenni del Pd chiedono che sia il partito a prendere in mano la bandiera della giustizia sociale. Orlando: nuovo modello di sviluppo. Zingaretti: cambiare anche il linguaggio
di Simone Collini


Servono parole e analisi nuove, smettendola di mostrare una certa subalternità al modello liberista. E una classe dirigente che per esprimerle con credibilità deve essere anch'essa nuova. Perché altrimenti andrà in scena un film già visto, con un finale ben noto fin d'ora, brutto per tutti.
I trenta-quarantenni del Pd che a settembre si erano dati appuntamenti a Pesaro per discutere della situazione economica, sociale, politica e anche per costringere i vertici nazionali ad aprire un confronto su un diverso modo di gestire il partito sono tornati a riunirsi a L'Aquila. Non è casuale che per questo secondo appuntamento abbiano scelto la città simbolo dell'incapacità della destra, e anche peggio, «dell'utilizzo del dramma come strumento di propaganda», come dice il responsabile Giustizia Andrea Orlando aprendo i lavori.
Tra questi edifici ancora tutti puntellati, lontani ma non troppo da quelli abbandonati a loro stessi del centro storico (il giro nella zona rossa che fanno prima di cominciare il seminario lascia tutti sgomenti) si sono ritrovati in circa duecento tra amministratori locali, segretari regionali e provinciali, responsabili dipartimentali, parlamentari nazionali del Pd. Qui, per lanciare una serie di «idee per la ricostruzione», come recita il titolo della giornata. Ci saranno altri due appuntamenti e poi una grande convention
nazionale a Roma, a gennaio. Cioè alla vigilia è l'auspicio di questa platea in cui l'ipotesi governo di transizione viene vista come il rischio di un ulteriore allontanamento tra istituzioni e società di un voto con Bersani candidato premier: «E dovremo scegliere i candidati al Parlamento con le primarie», dicono Orlando, Enrico Rossi e molti altri.
CHIUDERE QUESTO VENTENNIO
Se per quel che riguarda l'Italia un po’ tutti insistono sulla necessità che il Pd prenda in mano con più determinazione la bandiera della giustizia sociale, anche sulla gestione del partito le critiche non mancano. A cominciare dalla denuncia di un «non dichiarato patto di sindacato» tra gli esponenti dell'attuale gruppo dirigente, come dice il responsabile Informazione Matteo Orfini, che «va scardinato perché oggi non è più in grado di rappresentare il Paese».
La critica che muove il responsabile Economia Stefano Fassina è anche alla mancanza di uno «spazio per approfondire l'analisi», che è ciò che oggi serve perché «se non condividiamo l'analisi è difficile metterci d'accordo sul che fare». Il che fare, per Debora Serracchiani, consiste nel «marcare le differenze rispetto al centrodestra», nel chiudere questo ventennio, come dice il governatore della Toscana Enrico Rossi, «dominato
dal liberismo con il centrosinistra che ha mostrato subalternità rispetto a questa ideologia», nell'aprire un nuovo ciclo riformista che, sostiene il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, «deve fondarsi su parole nuove e una nuova classe politica, altrimenti sarà la ripetizione di qualcosa già visto».
NUOVI MODELLI, NUOVE PAROLE
Sulla necessità che il Pd lavori su un nuovo modello di sviluppo insiste Orlando, per il quale in una società in cui si accentuano le diseguaglianze il Pd deve farsi paladino della battaglia sulla «giustizia sociale», visto che negli anni passati «la disuguaglianza come stimolo alla crescita è stata idealizzata dalla destra senza incontrare troppe resistenze».
Il responsabile Giustizia critica «una generazione che ha sognato di abbattere il capitalismo e che per ansia di legittimazione sembra aver rinunciato anche a riformarlo». Dice Orfini: «Quando qualcuno di noi ha criticato l'idea che lasciando libera l'economia si sarebbe prodotta ricchezza diffusa è stato trattato da eretico. È il tema della politica di oggi». È questione anche di linguaggio, dice Zingaretti. «Non possiamo essere subalterni anche nel lessico. Pressione fiscale introduce già un disvalore, mentre noi dovremmo parlare di giustizia fiscale. Non dobbiamo neanche dire scudo fiscale, che indica il senso della protezione per un imbroglio vergognoso. Cominciamo a chiamarlo schifo fiscale».
NÉ GIOVANILISMO NÉ LEADERISMO
Il rinnovamento concettuale, per essere credibile, va però accompagnato da un rinnovamento della classe dirigente. Lo dice Rossi, riferendosi ai passati governi di centrosinistra e pensando a eventuali futuri governi a guida Pd: «Squadra che perde si cambia». E lo dice Orfini: «Non pos-
siamo presentarci 15 anni dopo con le stesse facce che hanno contribuito, seppur in minima parte rispetto a Berlusconi, a portarci in questa situazione». Nessuno si spinge sul crinale della rottamazione, e anzi arrivano molte critiche nei confronti di Matteo Renzi e del “Big Bang” che ha organizzato per la fine del mese. «Qui si discute una proposta politica – dice Orfini – che non ha bisogno di cantanti, scrittori, di farsi show mediatico». Dice Fassina: «La nostra non è una proposta generazionale ma non abbiamo alcun problema a stare all' interno di un fiorire di iniziative, purché non servano interessi personalistici, che sfruttano l'onda dell'antipolitica, indebolendo il partito anziché rafforzarlo». E comunque Renzi non è l'unico bersaglio, se Orlando dice che questa generazione è «stretta tra sessantenni navigati che si improvvisano nuovisti e giovani trentenni spazientiti da logiche di partito che non possono comprendere».

La Stampa 17.10.11
La strategia di Bersani Sacrificare il referendum pur di votare a primavera
“Il porcellum è il sistema peggiore ma non si può arrivare al 2013”
di Carlo Bertini


IL SOSPETTO DI PARISI: «Vuole subito le urne per non cambiare la legge elettorale?»
LA CORTE A CASINI. Per vincere pronto ad allearsi anche con i centristi

Certo il porcellum è il peggio del peggio, ma non si può andare avanti così fino al 2013...». E’ la vigilia del blitz fallito alla Camera sulla fiducia e Pierluigi Bersani, inseguito da una muta di telecamere dopo il discorso di Berlusconi, risponde così a chi gli chiede se in primavera sia possibile portare gli italiani alle urne ancora con questa legge elettorale. Una posizione che conferma come da tempo il leader del Pd abbia chiaro il suo traguardo, contando sul fatto che con buona pace dei suoi oppositori interni, da Veltroni in giù, «nel Pdl ci sono troppe timidezze, Berlusconi ha voluto stoppare l’ipotesi di un governo di transizione e punta ad uno scontro ravvicinato». Insomma, pur di cambiare pagina il segretario Pd è perfino disposto a bypassare il referendum, certo dopo aver premesso che se vi fossero le condizioni bisognerebbe ridare ai cittadini la possibilità di scegliersi i candidati con un altro sistema di voto. Altrimenti, meglio andare alle urne al più presto per il bene del paese. Arturo Parisi si fa una risata amara: «In ogni caso, chi si prende la responsabilità di andare alle elezioni senza cambiare la legge, o peggio per non cambiarla, è bene si prepari a darne conto agli elettori...». L’altro promotore del referendum, Di Pietro, invece non si scandalizza, perché «il referendum verrebbe rinviato solo di un anno e comunque io dico che prima di votare bisogna cambiare ad ogni costo la legge nel senso indicato dai nostri quesiti».
In ogni caso, il partito del voto nel 2012 ormai annovera troppi contendenti di primo piano: da Casini, che col porcellum potrebbe puntare a fare l’ago della bilancia; a Bossi, che ha minacciato «le liste le faccio io» per far capire ai «maroniti» che potrebbe così regolare i suoi conti; fino allo stesso Bersani appunto. Il quale oltre a fissare una road map che passa dalla piazza del 5 novembre, ha anche fissato in questi giorni alcuni punti fermi. Primo, anche se i sondaggi danno vincente l’alleanzaPd-IdvSel, visto che Pdl e Lega viaggiano sempre alti sul 35-38%, punta a stringere un accordo con Casini: al limite da concretizzare dopo il voto, se al Senato il centrosinistra non avesse la maggioranza, facendo baluginare pure il miraggio di un’intesa sul Quirinale. Motivo per cui Bersani in campagna elettorale batterà sul tasto di «un governo di ricostruzione» il più largo possibile. Per dare gambe a questo progetto da tempo ha incaricato Letta di coordinare la stesura di un programma con venature più liberal e riformiste su punti cruciali come le ricette della Bce, mettendo in conto i mugugni degli ex diessini di area Cgil. Insomma, una medicina da concordare con Idv e Sel, che piaccia alla minoranza veltroniana e che possa rassicurare i centristi. E anche nella speranza di un’aggregazione con Casini prima del voto «nell’ultima settimana si è avvicinato molto a noi, mai dire mai», dicono ai piani alti del Pd, all’appello dei referendari a tenere subito le primarie gli uomini di Bersani hanno risposto «prima viene il programma».
E sulle primarie Bersani ha voluto chiarire ai potenziali concorrenti interni, vedi Matteo Renzi, che «il Pd avrà un solo candidato». Dicendo a Otto e Mezzo di non volersi «nascondere» dietro lo Statuto che prevede sia il segretario l’unico in corsa per la premiership. Ma che sarà il Partito, con i suoi organismi interni, a decidere chi lo rappresenterà alle primarie. Messaggio subito rimbalzato via sms tra i dirigenti Democrats e così tradotto: vuole far votare gli iscritti per vincere lui in una sorta di pre-congresso, facendo capire a Renzi che, se si vuole candidare comunque alle primarie di coalizione, può accomodarsi fuori dal Pd. E quando gli si chiede se sia giusta questa lettura, Bersani sfodera un sorriso eloquente, mentre un suo deputato azzarda: «Tanto da quello che fa e dice è evidente che Renzi non vede l’ora di esser buttato fuori dal partito...».

Repubblica 17.10.11
No del Pd alle primarie subito "Le faremo dopo il programma"
Bersani congela la proposta dei referendari
di G. C.


A L’Aquila riuniti i quarantenni pro-segretario guidati da Zingaretti
Già avviato il lavoro per progetti comuni con Idv e Sel Incontro anche con Ferrero del Prc

ROMA - Appello respinto: prima vengono il programma, le alleanze e poi le primarie. Bersani risponde così a Parisi, Di Pietro e Vendola che ieri hanno suonato la sveglia al Pd con una lettera aperta su Repubblica: «Primarie subito, il voto è vicino», insistono i tre leader promotori del referendum anti Porcellum. Chiedono che entro l´autunno, praticamente subito, sia organizzata la gara per la leadership, perché «rischiamo di essere già in ritardo». «C´è tempo», è la risposta del segretario che si muove su un´altra lunghezza d´onda. Un´accelerazione va fatta, secondo Bersani, ma sul programma. E infatti ci sono già riunioni con i dipietristi e con Sel. Il segretario ha anche incontrato il leader del Prc Paolo Ferrero, mercoledì scorso. Secondo Ferrero - se si va a votare con l´attuale legge elettorale - allora il Prc potrebbe stare in un Fronte democratico per battere Berlusconi, e intanto ha chiesto primarie tra programmi, non tra candidati.
Bersani non vuole replicare in alcun modo il modello-Unione: «Meglio avere le idee chiare prima, che scoprire i nodi dopo». Maurizio Migliavacca, il capo della segreteria democratica, invia una nota alle agenzie di stampa per chiarire che «le primarie di coalizione si faranno quando la coalizione avrà aggiunto un accordo esigibile sui punti fondamentali del programma e sui meccanismi di stabilità di governo». Ma mette soprattutto l´accento sulla necessità di un´alleanza allargata anche ai moderati. Questo è il punto politico. Il Pd punta a un patto con l´Udc di Casini e, più in generale, con il Terzo Polo. D´Alema è convinto che la "foto di Vasto" (Bersani, Di Pietro e Vendola), sia insufficiente e un´alleanza tra progressisti e moderati sia indispensabile per aggregare il 60% degli elettori.
I referendari però non intendono demordere. Vendola, Di Pietro e Parisi si sono sentiti ieri. Preparano nuove iniziative e pensano di allargate ad altre personalità l´appello per le primarie subito. «Contrapporre le primarie al programma è sbagliato», sostiene Parisi. Ignazio Marino si schiera: «Le primarie sono una via irrinunciabile». Anche Piero Fassino invoca le primarie: «Le primarie ridanno fiducia ai cittadini; il centrosinistra le ha inventate, adesso le usi. Tempi e modi vanno definiti tra tutte le forze che fanno parte della coalizione». Mario Barbi, parisiano, contrattacca: «Le primarie di coalizione aperte e libere non sono un concorso di bellezza o di recitazione per scegliere una reginetta o un primo attore che vigilano sulla esigibilità di accordi stipulati non si sa come e non si sa da chi». Nel giorno dell´anniversario delle primarie di Prodi (il 16 ottobre del 2005), Sandro Gozi rilancia: «Ora che le elezioni si avvicinano il Pd sia fedele al suo Dna e indichi le primarie di coalizione per determinare la squadra che presto sfiderà la destra alla guida del governo». Invita i "senatori" del partito, ovvero i "ragazzi del 1996", quelli della prima stagione ulivista, a essere «davvero senatori nell´accezione latina, figure autorevoli e meritevoli del rispetto per meriti passati. Al fronte questa volta ci siano le leve del 2011». La questione rinnovamento è centrale nel Pd e s´intreccia a quella delle primarie. Ieri a L´Aquila si sono riuniti i "TQ", i trenta/quarantenni filo Bersani, da Stefano Fassina a Matteo Orfini, Luca Zingaretti, Andrea Orlando, Matteo Ricci. Orfini liquida le primarie anticipate: «Non esiste, sarebbero il casting dei leader senza collegamento con il progetto che si ha per l´Italia». Fassina: nessuno ha paura delle primarie e Bersani le stravincerà.
(g.c.)

Corriere della Sera 17.10.11
«Governo istituzionale», sì da un italiano su quattro
Solo il 17% vuole che il premier resti, il 43 chiede il voto anticipato
di Renato Mannheimer


I violenti e inaccettabili scontri avvenuti sabato a Roma hanno di fatto cancellato le ragioni di una protesta, quella degli «indignados», che voleva manifestare il profondo disagio vissuto oggi da una parte rilevante della popolazione, specialmente ma non solo giovanile, del nostro e di molti altri Paesi. L'allargamento delle disuguaglianze sociali, della disoccupazione, della mancanza di prospettive turbano gli italiani. Non a caso i cittadini esprimono in maniera sempre più accentuata pessimismo e sfiducia. Questo stato d'animo ha coinvolto praticamente tutti i cittadini: metà della popolazione afferma di essere «molto» e un altro 47% si definisce «abbastanza» inquieto. Ma non si tratta solo di angoscia per le sorti economiche del Paese: l'insicurezza pare riguardare tutti, anche a livello personale — lo dichiara l'84% — per le prospettive della condizione economica propria e della propria famiglia.
Insomma, il Paese è largamente pessimista. Per la situazione presente e per l'avvenire. Non sorprende, dunque, che anche le previsioni per il futuro dell'economia siano negative: quasi il 60% ritiene, infatti, che l'anno prossimo vedrà una ulteriore evoluzione in peggio della crisi attuale. E più di tre italiani su quattro intravedono il rischio che l'Italia finisca in una crisi come quella greca. Di fronte a questo stato di cose, occorrerebbe una forte iniezione di fiducia da parte delle istituzioni, che riesca a mutare il clima di opinione negativo e diffondere maggiore ottimismo sia in termini di atteggiamenti, sia, specialmente, di comportamenti. È ciò che la gran parte della popolazione, compresa una larga porzione dei votanti per i partiti di governo, chiede all'esecutivo. Ma che, sempre secondo la maggioranza degli italiani, non trova, per ora, riscontro nei fatti.
Nelle ultime settimane, era stata riposta qualche attesa nel più volte annunciato (ma per ora mai realizzato) «decreto Sviluppo» e nei diversi provvedimenti di rilancio che avrebbe dovuto contenere. Il consenso, rilevato dai sondaggi, per le misure di cui i giornali hanno dato anticipazione è, tra gli elettori dei partiti di governo, relativamente esteso. Perfino il condono fiscale trova il favore della netta maggioranza dei votanti per il Pdl, (ma non, significativamente, di quelli della Lega e, com'era prevedibile, degli elettori dei partiti di opposizione) e sembrerebbe poter costituire un possibile fattore di rilancio della fiducia verso Berlusconi da parte del suo elettorato.
Ma, in assenza di iniziative da parte del governo, la maggioranza degli italiani continua a vedere con favore le sue dimissioni. Ormai solamente il 17% — ma molto meno, il 13%, tra i giovani fino a 24 anni — auspica la permanenza di Berlusconi alla guida dell'esecutivo. La percentuale è in diminuzione nel tempo: era il 27% a gennaio e il 19% un mese fa. Colpisce, a questo riguardo, il trend relativo agli elettori della Lega, che costituisce una componente fondamentale del governo: a metà settembre il 40% dichiarava di desiderare la continuazione del governo Berlusconi, oggi questa quota si è ridotta al 22%. Anche tra gli elettori del Pdl l'idea di una prosecuzione dell'attuale governo, pur maggioritaria, si restringe: oggi si dichiara contrario il 22%, a fronte del 20% del mese scorso. Questo atteggiamento si ripercuote anche sulle intenzioni di voto, che vedono un'ulteriore diminuzione del favore al Pdl e una crescita dei consensi per i partiti di centro (in particolare Fli di Fini) e per le forze più marcatamente di sinistra (in particolare Sel).
Si allarga invece la percentuale di chi condivide la prospettiva di un nuovo esecutivo guidato da un'alta personalità istituzionale: questa è oggi l'opinione di più di un italiano su quattro (26%, era il 17% a metà settembre). Ma, come noto, la gran parte dei cittadini vuole le elezioni anticipate: le chiede in questo momento il 43%. Si estende, cioè, l'opinione che sia meglio «sparigliare le carte» e provare a percorrere una nuova via per lo sviluppo del Paese.

l’Unità 17.10.11
Il summit a porte chiuse tra movimenti, associazioni laiche e personalità
Bagnasco apre i lavori. Un nuovo soggetto che dialoghi con la politica
Todi, per i cattolici inizia il dopo-Berlusconi «Nuova classe dirigente»
Si apre oggi nel convento di Montesanto a Todi il seminario dell’associazionismo cattolico, che punta a incidere di più nella vita politica. Ci saranno Corrado Passera, Lorenzo Ornaghi, Giuseppe De Rita
di Roberto Monteforte


Una grande sala allestita con i tavoli a ferro di cavallo. Otto i posti riservati alla presidenza. Un’ottantina per i partecipanti al seminario di Todi sulla «buona politica per il bene comune» promosso dal Forum delle Associazioni cattoliche del mondo del lavoro e allargatosi all'intero variegato mondo dei cattolici laici, che si aprirà oggi al convento francescano di Montesanto.
Un’esperienza dalla natura «fondativa» e che vuole tracciare una via nuova dell'impegno sociale e politico del laicato cattolico in Italia, un percorso che non ha ancora esiti definiti. L’appuntamento di Todi sarà l'occasione per definire il terreno concreto dell'impegno comune dei credenti al servizio della società e per il bene comune, sollecitato più volte dalle gerarchie e dallo stesso pontefice e resosi urgente visti i colpi inferti dalla crisi sociale, culturale e politica. Con l'obiettivo di ridare forza al patrimonio di valori e di proposte e delineando anche quelle figure che possano accompagnare il ricambio dell'attuale classe dirigente del paese. Per questo è interessante seguire l'elenco dei «relatori» che si avvicenderanno al seminario di Todi: dal portavoce del Forum, Natale Forlani, al rettore della università cattolica Lorenzo Ornaghi al fondatore della comunità di sant’Egidio lo storico Andrea Riccardi, sino al segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, al presidente delle Acli Andrea Olivero e poi il
banchiere Corrado Passera, l'economista e presidente dell'Agenzia del terzo settore, Stefano Zamagni, il sociologo Giuseppe De Rita, sino ai presidenti delle grandi associazioni cattoliche Sergio Marino (Coldiretti), Giorgio Guerrini (Confartigianato), Bernhard Scholz (Compagnia delle Opere). Una rete articolata e complessa di realtà che comprende anche l’associanismo cattolico e i movimenti ecclesiali, dai Focolarini ai Neocatecumenali al presidente dell'Azione cattolica, Franco Miano.
L'obiettivo sarà quello di individuare le sintesi possibili e un percorso che assicuri al mondo cattolico una maggiore e più incisiva capacità di incidere sulle decisioni della politica, dai temi istituzionali e della rappresentanza alla riforma del welfare, avendo come bussola contenuti precisi: i diritti della persona, la dimensione etica nella vita e nella dimensione sociale, la famiglia.
PACCHETTO PROGRAMMATICO
Sarà su questo che si definerà quel nuovo soggetto culturale e sociale, auspicato dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, chiamato a dialogare con la politica. Un percorso diverso, quindi, dalla fondazione di un nuovo partito dei cattolici. Questa è la sola certezza.
È sicuro che si punta ad una fase politica nuova, che vada oltre il berlusconismo. Si guarda con interesse a come potranno cambiare entrambi gli schieramenti, del centrodestra e del centrosinistra. Come già indicato nell’«agenda per il paese» scaturita dalle Settimane sociali di Reggio Calabria, il mondo cattolico punta ad una riforma della rappresentanza che ridia nuovo vigore democratico alle istituzioni.
Molte sono ancora le incertezze su cosa sarà il «nuovo soggetto». Anche per questo vi è molta attesa per le parole che pronuncerà questa mattina a Todi il presidente dei vescovi italiani, cardinale Angelo Bagnasco. Aprirà i lavori, ma subito dopo lascerà il convento di Montesanto. Una forma di rispetto verso l'autonomia del laicato cattolico. C'è però chi pare non gradire questo percorso. Monsignor Negri, vescovo di san Marino invita la Chiesa a restare fuori dalla politica, definita «una cosa sporca».
Oggi si vedrà quali proposte usciranno dal «conclave» di Todi. Ieri sera gli organizzatori hanno molto lavorato per mettere a punto i dettagli della giornata. I lavori saranno rigidamente a porte chiuse, fino alla conclusione presentata in una conferenza stampa. Alla «buona politica» non serve anche la trasparenza?

l’Unità 17.10.11
La lettera aperta
Il confronto può partire dal tema antropologico
Il Pd, partito di credenti e non credenti, pronto a discutere della crisi italiana, della tenuta dell’unità della nazione, della «sostanza etica» della democrazia
di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti, Giuseppe Vacca


La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pongono di fronte ad una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia. Germina sfide che esigono una nuova alleanza fra uomini e donne, credenti e non credenti, religioni e politica. Pertanto riteniamo degne di attenzione e meritevoli di speranza le novità che nel nostro Paese si annunciano in campo religioso e civile.
A noi pare che negli ultimi anni un periodo storico cominciato con la crisi finanziaria del 2007 e in Italia con il crepuscolo della seconda Repubblica mentre la Chiesa italiana si impegnava sempre più a rimodulare la sua funzione nazionale, un interlocutore come il Partito democratico sia venuto definendo la sua fisionomia originale di «partito di credenti e non credenti». Sono novità significative che ampliano il campo delle forze che, cooperando responsabilmente, possono concorrere a prospettare soluzioni efficaci della crisi attuale. Il terreno comune è la definizione della nuova laicità, che nelle parole del segretario del Pd muove dal riconoscimento della rilevanza pubblica delle fedi religiose e nel magistero della Chiesa da una visione positiva della modernità, fondata sull’alleanza di fede e ragione.
Nel suo libro-intervista Per una buona ragione, Pier Luigi Bersani afferma che il «confronto con la dottrina sociale della Chiesa» è un tratto distintivo della ispirazione riformistica del Pd e che la presenza in Italia «della massima autorità spirituale cattolica» può favorire il superamento del bipolarismo etico che in passaggi cruciali della vita del Paese ha condizionato negativamente la politica democratica. Ribadendo la «responsabilità autonoma della politica», Bersani esprime una opzione decisa per una sua visione «che non volendo rinunciare a profonde e impegnative convinzioni etiche e religiose, affida alla responsabilità dei laici la mediazione della scelta concreta delle decisioni politiche».
Per quanto riguarda la Chiesa cattolica vi sono due punti della relazione del cardinale Bagnasco alla riunione del Consiglio permanente dei vescovi del 26-29 settembre 2011 che meritano particolare attenzione. Il primo riguarda la critica della “cultura radicale”: essa è rivolta a quelle posizioni che, «muovendo da una concezione individualistica», rinchiudono «la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale». Il secondo è la proposta di nuove modalità dell’impegno comune dei cattolici per contrastare quella che in una precedente occasione aveva definito «la catastrofe antropologica»: «La possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica».
E non è meno significativa la sua giustificazione storica: «A dar coscienza ai cattolici oggi non è anzitutto un’appartenenza esterna, ma i valori dell’umanizzazione sempre di più richiamano anche l’interesse di chi esplicitamente cattolico non si sen-
te». In altre parole, la “possibilità” di questo nuovo soggetto origina dall’impegno sociale e culturale del laicato, nel quale i cattolici sono «più uniti di quanto taluno vorrebbe credere» grazie alla bussola che li guida: la costruzione di un umanesimo condiviso. La definizione della nuova laicità e l’assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell’Italia esigono uno sviluppo dell’iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell’interesse del Paese. A tal fine appare dirimente il confronto su due temi fondamentali del magistero di Benedetto XVI che nell’interpretazione prevalente hanno generato confusioni e distorsioni tuttora presenti nel discorso pubblico: il rifiuto del “relativismo etico” e il concetto di “valori non negoziabili”. Per chi dedichi la dovuta attenzione al pensiero di Benedetto XVI non dovrebbero sorgere equivoci in proposito.
La condanna del “relativismo etico” non travolge il pluralismo culturale, ma riguarda solo le visioni nichilistiche della modernità che, seppur praticate da minoranze intellettuali significative, non si ritrovano a fondamento dell’agire democratico in nessun tipo di comunità: locale, nazionale e sovranazionale. Il “relativismo etico” permea, invece, profondamente, i processi di secolarizzazione, nella misura in cui siano dominati dalla mercificazione. Ma non è chi non veda come la lotta contro questa deriva della modernità costituisca l’assillo fondamentale della politica democratica, comunque se ne declinino i principi, da credenti o da non credenti.
D’altro canto, non dovrebbero esserci equivoci neppure sul concetto di “valori non negoziabili” se lo si considera nella sua precisa formulazione. Un concetto che non discrimina credenti e non credenti, e richiama alla responsabilità della coerenza fra i comportamenti e i principi ideali che li ispirano. Un concetto che attiene, appunto, alla sfera dei valori, cioè dei criteri che debbono ispirare l’agire personale e collettivo, ma non nega l’autonomia della mediazione politica. Non si può quindi far risalire a quel concetto la responsabilità di decisioni in cui, per fallimenti della mediazione laica, o per non nobili ragioni di opportunismo, vengano offese la libertà e la dignità della persona umana fin dal suo concepimento. Ad ogni modo, se nell’approccio alle sfide inedite della biopolitica ci sono stati e si verificano equivoci e cadute di tal genere non solo in scelte opportunistiche del centrodestra, ma anche nel determinismo scientistico del centrosinistra, la riaffermazione del valore della mediazione laica che sembra ispirare «la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica» rischiara il terreno del confronto fra credenti e non credenti. Quindi dipenderà dall’iniziativa culturale e politica delle forze in campo se quella “possibilità” acquisterà un segno progressivo o meno nella vicenda italiana. A tal fine noi riteniamo che il Pd debba promuovere un confronto pubblico con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose operanti in Italia oltre che sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, su quelli che attengono in maniera più stringente ai rischi attuali della nazione italiana: la tenuta della sua unità, la “sostanza etica” del regime democratico. Tanto sull’uno, quanto sull’altro, la storia dell’Italia unita dimostra che la funzione nazionale assolta o mancata dal cattolicesimo politico è stata determinante e lo sarà anche in futuro.

Repubblica 17.10.11
Sul quotidiano dei vescovi "Avvenire" il documento di quattro intellettuali di formazione marxista: Barcellona, Sorbi, Tronti e Vacca
"Laicità e relativismo, Bersani ascolti il Papa"


TODI - La sinistra collabori con la Chiesa, nell´interesse dell´Italia. L´invito a farlo proviene da quattro noti intellettuali di formazione marxista, ed è partito ieri con una lettera aperta pubblicata sul quotidiano dei vescovi Avvenire. Il documento è firmato da Paolo Sorbi, Pietro Barcellona, Mario Tronti e Giuseppe Vacca. Il titolo scelto, con le foto dei quattro studiosi, è "Nuova alleanza per l´emergenza antropologica".
Sorbi, Barcellona, Tronti e Vacca esortano il Pd, e il suo segretario Pierluigi Bersani, a fare i conti con l´insegnamento di Benedetto XVI sulla insopprimibile dignità della vita umana e sul primato della persona, «cercando di andare oltre tutti gli steccati». «La definizione della nuova laicità – spiegano - e l´assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell´Italia, esigono uno sviluppo dell´iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell´interesse del Paese». Annota Sorbi sul quotidiano della Cei, alla vigilia dell´incontro di Todi, che «il rischio incombente per un centrosinistra rassegnato a seguire derive radicali è di non riuscire a elaborare una cultura di governo all´altezza delle gigantesche sfide del nostro tempo».
(m.ans.)

La Stampa 17.10.11
Omicidio Roveraro, un libro fa arrabbiare l’Opus Dei
di F. Man.


Il volume è appena apparso in libreria, ma la polemica è già accesa. Da una parte il portavoce dell’Opus Dei che accusa gli autori di «trasformare una vittima innocente in un personaggio sospetto», e attribuisce al libro l’«equivoco di fondo che fraintende il carattere secolare del comportamento dei fedeli della Prelatura dell' Opus Dei». Dall’altra gli autori stessi che replicano alla Prelatura come «la scarsa trasparenza degli assetti azionari non giova alla comprensione e alla fiducia anche da parte dei fedeli».
Cose che succedono se, partendo dalle poche pagine di cronaca di un delitto subito risolto - ma forse mai spiegato - e aggiungendo un minuzioso lavoro di indagine, torna sotto i riflettori l’omicidio di Gianmario Roveraro. Lui, finanziere-simbolo dell’Opus Dei e protagonista di grandi vicende italiane viene rapito e poi ucciso da Filippo Botteri, figura del tutto marginale di una finanza fai da te di provincia, eppure in stretti rapporti proprio con Roveraro.
Così nel libro pubblicato da Feltrinelli («Opus Dei, il segreto dei soldi»), gli autori Angelo Mincuzzi e Giuseppe Oddo spingono la loro indagine ben oltre la scena del crimine. Certo, all'origine c’è l’incomprensibile «operazione Austria», che mette in contatto Roveraro con un sottobosco di faccendieri e che spingerà poi il reo confesso Botteri a trasformarsi da socio in assassino. Ma da lì in poi la trama s’infittisce a dismisura, passando dalle fiduciarie svizzere ai misteri di Parmalat, per approdare alla complessa struttura finanziaria delle holding che – sostengono gli autori – fanno di fatto capo all’Opus Dei. La tesi del libro, supportata da testimonianze ma non da prove oggettive è proprio che Roveraro si lasci coinvolgere nell’oscura «operazione Austria» con l'obiettivo di destinarne i proventi in beneficenza, probabilmente a strutture collegate allo stesso Opus Dei. Una ricostruzione che viene smentita con forza dalla Prelatura. Bruno Mastroianni, che dirige l’Ufficio informazioni dell’Opus Dei in Italia, distingue le attività della Prelatura con quelle dei suoi aderenti: «Come è ben noto, le attività professionali delle persone della Prelatura sono identiche a quelle di un qualsiasi altro cittadino cattolico, cioè condotte con responsabilità personale».
La replica degli autori è una richiesta di andare a fondo nella questione e «non limitarsi ad affermare in modo generico che le attività di apostolato promosse dagli iscritti non appartengono all’Opera».

UNA INTERVISTA DI DUE PAGINE A NICHI VENDOLA

da Repubblica:
Gianluca di Askatasuna: "A parte la Madonnina in frantumi, nulla da recriminare"
E gli scontri? «A parte qualche eccesso come la Madonnina in frantumi, per il resto non c´è nulla da recriminare. Che si assaltino banche, agenzie interinali e uffici del ministero della Difesa è scontato. C´è in giro un malessere diffuso, dev´essere chiaro che gli scontri d´ora in poi saranno sempre più frequenti e sempre più violenti».

l’Unità 17.10.11
Dalla Cina fatta offerta segreta per salvare l’euro


La Cina ha fatto un'offerta segreta per salvare l'euro in cambio di vaste riforme nei piani di bilancio e nuovi tagli al settore pubblico da parte dei paesi dell'Eurozona. Lo ha appreso il Sunday Times all'indomani della riunione dei ministri delle finanze del G20 a Parigi. Pechino sarebbe pronta a pompare decine di miliardi nell’Eurozona comprando infrastrutture e aumentando la quota nei debiti sovrani. Un esempio dato dal Sunday Times è il ruolo del gruppo cinese Hna, in pole position per l'acquisto dell’aeroporto di Atene. Tutto questo a condizioni ferree: «La Cina vuole essere sicura che l’Europa conosce le dimensioni del buco e che questo buco non diventerà più grande prima che Pechino accetti di riempirlo», ha detto una fonte vicina al negoziato.
Il premier cinese Wen Jiabao intanto ha promesso un tasso di cambio stabile per sostenere le esportazioni. La Cina a settembre ha subito una inattesa diminuzione della sua crescita nelle esportazioni. La dichiarazione di Jabao arriva dopo che martedì il Senato Usa ha approvato sanzioni contro la Cina per la svalutazione della moneta, che ha fatto salire alle stelle le importazioni di prodotti cinesi in tutto il mondo.

l’Unità 17.10.11
Una galassia che si muove come una struttura paramilitare tra centri sociali e antagonismo
Disoccupati, ultras e anarchici che «tifano rivolta». Tollerati dalle frange estreme, isolati dagli altri
Giovani, organizzati e radicali. Ecco l’area nera del movimento
Contigui ma distanti dai no global e dai centri sociali, praticano altre forme di lotta. Senza mediazioni. Il collante? L’odio per le forze dell’ordine, ben più del liberismo. Il dialogo impossibile con il resto della piazza.
di Riccardo Valdesi


E ora si contano i danni. Tutti i danni. Quelli in strada, quelli dentro il movimento. Perché i "neri" questa volta hanno preso in ostaggio oltre centomila persone e un'intera città. Come qualcuno temeva, come in molti prevedevano. È indubbio che ci sia un'area radicale e irriducibile all'interno della galassia antagonista, un'area con cui è complicatissimo fare i conti. Un'area che ha motivazioni di lotta simili ma più estreme, un'area che guarda al conflitto e lo esaspera. Un'area a metà strada che frequenta i centri sociali più tosti (l'Acrobax di Roma, l'Ascatasuna di Torino, e poi gli spazi antago-
nisti di Padova, Bologna, Milano) da sempre contro il liberismo sfrenato e prossima ai comitati della Val Susa, del No Dal Molin, dei No Ponte. Per capire la vicinanza ideologica basta riportare indietro un solo fotogramma: corteo di sabato a Roma. Gli incappucciati, già con i caschi in testa e i bastoni in mano, arrivano in via Cavour dalle vie laterali e si posizionano tra il carro di San Precario e le bandiere dei No Tav.
Contigui ma distanti. Srotolano uno striscione arancione con un solo slogan ("Non ci interessa il futuro, vogliamo il presente"), tirano fuori le bandiere nere o nere e rosse. Si dispongono a testuggine, come un’organizzazione paramilitare. Alcuni di loro hanno una piantina di Roma in mano, altri la maggioranza Roma la conoscono benissimo. E sono giovani. Molto giovani. Sotto i 30 anni.
Anarchismo, radicalità, antagonismo senza mediazioni. In questo calderone difficile da trasformare in una mappa statica ci sono ultras
(molti avevano la sciarpa della Roma a coprire la bocca), ma anche del Livorno, qualcuno del Napoli. E di Napoli sono gli esponenti dei Disoccupati organizzati, quelli di Terzigno che hanno bloccato i camion dell'immondizia nelle notti della battaglia dei rifiuti. Il collante è la radicalità.
IL DOCUMENTO SU FACEBOOK
Su Facebook gira un documento che sembra scritto ieri ed è invece datato 16 dicembre 2010: «Siamo parte di una generazione che per un giorno ha smesso di accumulare la cirrosi epatica dovuta alla nevrosi di una vita educata alla precarietà, che ha tifato rivolta; siamo il futuro che dovreste ascoltare, siamo l'unica parte sana di un paese coperto di metastasi.
Il 14 dicembre 2010 è successo un fatto epocale, l'intera piazza del Popolo è esplosa in un boato liberatorio quando un blindato della finanza ha preso fuoco: in quel boato è racchiusa la nostra esistenza, l'esisten
za di chi non poteva credere che per una volta ce l'avevamo fatta, in tanti, in migliaia, a gridare “Tutti assieme famo paura!”. I black bloc hanno colpito ancora. Occhio, voci indiscrete raccontano che a volte li si incrocia a lezione, in biblioteca, alle macchinette del caffè, in birreria, al mare, addirittura in tram». La firma è del Collettivo Autonomo Universitario di Torino
«NOI PIANTIAMO GRANE»
Anche gli slogan e le parole d'ordine sono diverse dal resto degli Indignati: «Noi la crisi ve la creiamo», «Non piantiamo tende, piantiamo grane». Il collante è l’odio nei confronti delle forze dell’ordine. E infatti Acab, all cops are bastards (tutti gli sbirri sono bastardi) è uno dei leit-motiv della loro protesta, di un immaginario a tinte fosche. «Inutile criminalizzare i centri sociali spiega Davide, uno studente di Roma Ma di certo anche ieri al corteo si è visto un tessuto molle tra noi e loro. Un segmento che in qualche modo li tollera».
Daniele, 27 anni di Torino, non si definisce black bloc. È un precario della scuola. Non si nasconde dietro un dito. «Ero tra i casini. Ma siamo stati attaccati dalla polizia e, quando abbiamo visto quell'idrante entrare in piazza San Giovanni, abbiamo deciso di resistere, io e tanti altri come me. Abbiamo deciso di difenderci con tutti i mezzi che avevamo in piazza. È stata una rivolta di massa e in questa rivolta io ci sto perché voglio un futuro». E la violenza? «È un' accusa sterile risponde La lettera di Trichet e la manovra del Governo sono atti di violenza che colpiscono i più deboli. Resistere alle cariche della polizia per difendere una manifestazione è un atto dovuto e si dirige verso i più forti».

La Stampa 17.10.11
I protagonisti degli scontri
Quei tifosi della violenza alla ricerca dei riflettori
Giovanissimi e senza ideologie vengono dalle curve e dai centri sociali: ecco gli “sfasciatutto” entrati in azione sabato a Roma con metodi che ricordano i “cugini” delle banlieues francesi
di Guido Ruotolo


ROMA. In nero Un’immagine degli scontri di sabato, con un manifestante che lancia un oggetto. Divise nere, caschi e passamontagna sono gli elementi che accomunano l’abbigliamento dei teppisti che si sono resi protagonisti degli episodi di violenza nella capitale
Non hanno miti nel cassetto, santi protettori, ideologie da difendere. I nuovi sfasciatutto ricordano i cugini francesi delle banlieues. Qui da noi sono le terze generazioni, gli eredi del ribellismo degli anni Settanta. Come in Francia lo sono dei primi immigrati dalle colonie di un tempo che fu. Sono giovani, giovanissimi. Moltissimi i minorenni che sabato hanno aggredito le forze di polizia e gli stessi spezzoni del corteo degli indignati. Bombe carte e fumogeni le loro armi. Come le spranghe e le molotov lo erano per i nonni che parteciparono alle violenze degli anni Settanta. Non hanno tentennamenti di fronte a chi cerca di portarli alla ragione. I loro nemici sono le forze di polizia e i servizi d’ordine che provano a bloccarli. È una miscela esplosiva di curve e centri sociali, di anarchici ed antagonisti. Uniti nello sfascismo, moderne forme di luddismo anticonsumista e contro la finanza globale.
È un piccolo campione, per cercare di capire chi sono gli sfasciatutto che sabato hanno messo a ferro e fuoco Roma, hanno tarpato le ali al movimento degli indignati. Tra i venti fermati ci sono sette minorenni. Dodici gli arrestati, otto i denunciati a piede libero. Tra gli arrestati, tre con precedenti per violenza contro le forze dell’ordine. Uno di loro, arrestato con una busta di limoni, è un anarchico di Lecce che studia a Bologna e ha precedenti come ultra. Su venti fermati, cinque o sei vengono da fuori Roma.
Una prima sommaria indagine sociologica sui fermati porta inesorabilmente a individuare il ceppo, il nucleo duro degli sfasciatutto negli anarcoinsurrezionalisti. Poi ci sono gli antagonisti e i minorenni. Sarebbe un grave errore cercare i loro punti di riferimento nelle ideologie del secolo scorso. Molti degli incappucciati, delle divise nere, dei caschi a testuggine che sono entrati in azione ieri li avevamo visti già a dicembre, a Roma. Cultori della violenza a prescindere. Se di ideologia si può parlare, allora la loro è quella della violenza. Sono dei clandestini che cadono in letargo e che si risvegliano in occasione delle partite di calcio o delle manifestazioni. Amano il palcoscenico, nell’era della globalizzazione. Comunicano via Internet ma adorano i riflettori delle telecamere e i flash degli obiettivi. Talpe che escono dalle tane, che vivono in un loro mondo nella quotidianità fatta di Internet point o di Centri sociali o di scantinati delle periferie metropolitane.
Potevano essere individuati, neutralizzati, fermati? Con le leggi attuali no. Certo che potevano, e diversi lo sono stati, essere perquisiti e identificati. Ma se erano in regola, perché impedire loro di partire? Di partecipare alla manifestazione?
Provocatoriamente, per evitare quello che è accaduto sabato, si dovrebbero pensare norme di prevenzione in grado di neutralizzare le violenze ma con nuove iniziative legislative. Per esempio, un Daspo per i violenti. Una provocazione, perché - al di là dei profili anticostituzionali, ledendo il diritto sacrosanto a manifestare le proprie idee - sarebbe molto complicato costringere il violento a firmare in commissariato o alla caserma per non andare in trasferta a una manifestazione nazionale. E se la manifestazione si svolgesse nella propria città? Come dire si dovrebbe prevedere i domiciliari permanenti dei violenti.
Non volendosi rassegnare alle scene che abbiamo visto o vissuto sabato pomeriggio, quali alternative si possono immaginare? Creare uno spazio in periferia, tipo Tor Vergata, sull’anello del raccordo anulare, dove far svolgere le manifestazioni. O, ed è quella più difficile, riuscire a imporre al corteo di autoregolamentarsi. Di fronte al manifestarsi di black bloc, incappucciati e sfasciatutto, il servizio d’ordine del corteo dovrebbe intervenire per neutralizzare i violenti. Ma questo è un sogno. E il prezzo della democrazia ci riporta a sabato pomeriggio. Se i plotoni delle forze di polizia fossero intervenuti nel corteo cosa sarebbe successo?
Le forze dell’ordine avevano ben chiara la percezione che la manifestazione avrebbe portato a scenari «sconvolgenti». Di certo i protagonisti delle violenza non sono stati i collettivi studenteschi universitari, i cobas, la Fiom, gli spezzoni della sinistra radicale. Anarchici, alcuni centri sociali, e tanti, tantissimi ultras. Sono loro i tifosi della violenza.

Repubblica 17.10.11
Il black bloc: ci addestriamo in Grecia
di Carlo Bonini e Giuliano Foschini


F. è un "nero". Ha 30 anni all´anagrafe, una laurea, un lavoro precario e tutta la rabbia del mondo in corpo. Sabato le sue mani hanno devastato Roma.
Il black bloc svela i piani di guerra "Ci siamo addestrati in Grecia le armi erano nascoste in piazza"
Un Ducato come cavallo di Troia: "Così abbiamo beffato la polizia"

È da un anno che ci prepariamo. Ad Atene ci hanno insegnato che la guerriglia è un´arte e che si vince con l´organizzazione
Abbiamo agito divisi in falangi, come fanno i reparti della celere. Per noi questa è una guerra Ed è appena all´inizio
E lui, ora, ne sorride compiaciuto. «Poteva esserci il morto in piazza? Perché, quanti morti fa ogni giorno questo Sistema? Chi sono gli assassini delle operaie di Barletta?».
Non i poliziotti o i carabinieri a 1.300 euro al mese su cui vi siete avventati, magari. Non quelli che pagano a rate le macchine che avete bruciato. Non il Movimento in cui vi siete nascosti.
«Noi non ci siamo nascosti. Il Movimento finge di non conoscerci. Ma sa benissimo chi siamo. E sapeva quello che intendevamo fare. Come lo sapevano gli sbirri. Lo abbiamo annunciato pubblicamente cosa sarebbe stato il nostro 15 ottobre. Ora i "capetti" del Movimento fanno le anime belle. Ma è una favola. Mettiamola così: forse ora saranno costretti finalmente a dire da che parte stanno. Ripeto: tutti sapevano cosa volevamo fare. E sapevano che lo sappiamo fare. Perché ci prepariamo da un anno».
Vi preparate?
F. sorride di nuovo. «Abbiamo fatto il "master" in Grecia».
Quale "master"?
«Per un anno, una volta al mese, siamo partiti in traghetto da Brindisi con biglietti di posto ponte, perché non si sa mai che a qualcuno viene voglia di controllare. E i compagni ateniesi ci hanno fatto capire che la guerriglia urbana è un´arte in cui vince l´organizzazione. Un anno fa, avevamo solo una gran voglia di sfasciare tutto. Ora sappiamo come sfasciare. A Roma, abbiamo vinto perché avevamo un piano, un´organizzazione».
Quale organizzazione avevate?
«Eravamo divisi in due "falangi". I primi 500 si sono armati a inizio manifestazione e avevano il compito di devastare via Cavour. Altri 300 li proteggevano alle spalle, per evitare che il corteo potesse isolarli. L´ordine che avevano i 300 era di non tirare fuori né caschi, né maschere antigas, né biglie, né molotov, né mazzette fino a quando il corteo non avesse girato largo Corrado Ricci. Non volevamo scoprire con gli sbirri i nostri veri numeri. E volevamo convincerli che ci saremmo accontentati di sfasciare via Cavour. Ci sono cascati. Hanno fatto quello che prevedevamo. Ci hanno lasciato sfilare in via Labicana e quando ci hanno attaccato lì, anche la seconda falange dei 300 ha cominciato a combattere. E così hanno scoperto quanti eravamo davvero. A quel punto, avevamo vinto la battaglia. Anche se loro, gli sbirri, per capirlo hanno dovuto aspettare di arrivare in piazza San Giovanni, dove abbiamo giocato l´ultima sorpresa».
Quale?
«La sera di venerdì avevamo lasciato un ducato bianco all´altezza degli archi che portano in via Sannio. Dentro quel Ducato avevamo armi per vincere non una battaglia, ma la guerra. Il resto delle mazze e dei sassi lo abbiamo recuperato nel cantiere della metropolitana in via Emanuele Filiberto».
Sarebbe andata diversamente se avessero caricato subito il corteo in largo Corrado Ricci e vi avessero isolati.
«Non lo hanno fatto perché, come ci hanno insegnato a fare i compagni greci, sono stati confusi dal modo in cui funzionano le nostre "falangi"».
Come funzionano?
«Siamo divisi in batterie da 12, 15. E ogni batteria è divisa in tre gruppi di specialisti. C´è chi arma, recuperando in strada sassi, bastoni, spranghe, fioriere. C´è chi lancia o usa le armi che quel gruppo ha recuperato. E infine ci sono gli specialisti delle bombe carta. Organizzati in questo modo, siamo in grado di assicurare un volume di fuoco continuo. E soprattutto siamo molto snelli. Ci muoviamo con grande rapidità e sembriamo meno di quanti in realtà siamo».
È la stessa organizzazione con cui funzionano i reparti celere.
«Esatto. Peccato che se lo siano dimenticato. Dal G8 di Genova in poi si muovono sempre più lentamente. Quei loro blindati sono bersagli straordinari. Soprattutto quando devono arretrare dopo una carica di alleggerimento. Prenderli ai fianchi è uno scherzo. Squarci due ruote, infili un fumogeno o una bomba carta vicino al serbatoio ed è fatta».
Parli come un militare.
«Parlo come uno che è in guerra».
Ma di quale guerra parli?
«Non l´ho dichiarata io. L´hanno dichiarata loro».
Loro chi?
«Non discuto di politica con due giornalisti».
E con chi ne discuti, ammesso che tu faccia politica?
«Ne discuto volentieri con i compagni della Val di Susa».
Sei stato in val di Susa?
«Ero lì a luglio».
A fare la guerra.
«Si. E vi do una notizia. Non è finita».

il Fatto on line 16.10.11
Mai più senza servizio d’ordine
di Fabio Marcelli

qui

La Stampa 17.10.11
Intervista
“Il nostro servizio d’ordine era davvero impeccabile Ma ora è tutto più difficile”
Passoni (ex Cgil): negli Anni 70 li isolavamo noi
di Roberto Giovannini


Achille Passoni oggi è senatore del Partito Democratico, ma nella sua «vita precedente» di sindacalista, prima a Milano nei caldi anni ‘70 e ‘80, poi a Roma nella Cgil nazionale, è stato a lungo l’uomo dell’organizzazione delle manifestazioni e dei cortei. Il 23 marzo del 2002, in un clima di tensione provocato dall’assassinio di Marco Biagi, fece sfilare tre milioni di persone fino al Circo Massimo senza il minimo incidente. Insomma, è un esperto di sicurezza dei cortei.
Ovviamente un conto è se un corteo lo gestisce un sindacato o un partito, un altro se come sabato c’è una galassia di comitati. Ma in generale, quali sono i problemi da affrontare dal punto di vista della sicurezza?
«La forza del sindacato è che la gente che arriva da fuori Roma è organizzata. Sui treni e i pullman che vengono da fuori si sa chi ci sale, non ci sono sconosciuti. Secondo, in ogni gruppo c’è un coordinamento, chi tiene insieme le persone, chi aiuta a formare gli spezzoni del corteo. Infine, c’è il servizio d’ordine, che come si vede in tutte le nostre manifestazioni è visibile e organizza il corteo. Dà sicurezza alle persone che partecipano, e garantisce che non ci siano presenze non gradite o peggio provocatorie».
Nella sua esperienza è capitato che arrivassero gruppi incontrollati desiderosi di infilarsi nel corteo?
«Le manifestazioni degli anni ‘70 dovevano essere protette da gruppi che praticavano un certo livello di violenza. Ricordo la manifestazione del 1992 a San Giovanni del pubblico impiego: c’era molta tensione in giro, e studiammo alcune contromisure. Ad esempio, creare un vasto spazio per impedire che qualcuno si avvicinasse per tirare oggetti sul palco. Anche quelli erano tempi molto difficili ».
Ma l’unica strategia possibile è tenere lontani dal corteo gli infiltrati.
«Il corteo va difeso. Va protetto. Per questo bisogna avere un rapporto positivo con le forze dell’ordine, che non solo non sono nemici, ma ti possono aiutare contro chi viene solo perché vuole rovinare una pacifica e imponente manifestazione. Com’era quella di ieri».
Non che quelli degli anni ‘70 fossero mammolette, ma “cattivi” come quelli di sabato ce n’erano allora?
«A questi ci deve pensare la polizia. Non li può affrontare il corteo o il servizio d’ordine. Se è efficiente, il servizio d’ordine può solo individuarli e chiedere alla polizia di allontanarli».
Perché certamente i normali manifestanti non possono far nulla...
«Ovvio. Tu sei a mani nude, così come il servizio d’ordine».
Una volta si favoleggiava della durezza degli edili di Roma, degli operai dell’Alfa e dei portuali genovesi. Leggenda o realtà?
«Posso assicurare che quando c’era il servizio d’ordine della Cgil di Milano, la voglia di fare provocazioni e violenze scemava e di molto. Ma era un’altra epoca, alla peggio volava qualche ceffone. Questi black bloc sono un’altra cosa. Solo la polizia li può affrontare».


Le leggi di polizia negli altri Paesi d'Europa, da La Stampa di oggi: qui


La Stampa 17.10.11
Lo snodo tra politica e antipolitica
di Gian Enrico Rusconi


Perché succede solo qui?», «Perché anche oggi ci tocca vergognarci?», si chiedeva ieri il direttore di questo giornale commentando le violenze di Roma confrontandole con le manifestazioni pacifiche degli «indignati» del mondo intero. Manca «un pensiero costruttivo» - continuava -, riferendosi non solo all'evidente impotenza delle classi dirigenti, ma anche all’incapacità del discorso pubblico e giornalistico di offrire accanto alle diagnosi critiche (spesso catastrofistiche) prospettive positive. Prospettive che non ricalchino le inconsistenti assicurazioni governative.
C'è insomma incapacità di trasmettere - ai giovani innanzitutto - se non ottimismo, quantomeno una sobria certezza che il nostro Paese ha risorse e strumenti per farcela. Non sfasciando le banche, ad esempio, ma riportandole al loro ruolo economico corretto.
Ma per fare questo ci vuole una politica intelligente, forte e coraggiosa.
Una politica che può contare sul consenso di chi pur sentendosi tartassato o addirittura «privato del futuro», è disposto ad affrontare una fase dura di passaggio, perché ha fiducia nel progetto di chi lo dirige. Questo significa «partecipare» in una democrazia rappresentativa.
Democrazia rappresentativa? Fiducia nella classe dirigente? Consenso? Politica? Sono parole diventate incomprensibili, impronunciabili per un'intera generazione. Eppure questa generazione, rimobilitandosi, azzerando il consenso politico convenzionale, incomincia a suo modo a fare politica da capo senza nessuna delle ideologie tradizionali (avendo inconsciamente forse soltanto quella di «democrazia diretta»).
Come si è arrivati a questa estraneazione tra il linguaggio dei giovani in piazza e quello della politica convenzionale che risuona, stonata, sulla bocca di qualche politico che sta dalla loro parte? C'è un qualche nesso tra l'estraneazione dei linguaggi pubblici e la violenza distruttiva comparsa nei momenti più intensi della mobilitazione? Proprio nei momenti della polemica reinvenzione della partecipazione politica? Come spiegare questa violenza, oltre che condannarla senza esitazione?
Si obietterà che la violenza urbana si è manifestata in modo clamoroso in molte altre parti d'Europa ancora recentemente. A Londra alcuni mesi fa, nelle banlieues di Parigi anni orsono o ancora in modo meno esteso in alcuni Paesi nordici. Ieri da noi il pensiero è corso subito a quanto è accaduto Genova in occasione del G8 di qualche anno fa. Un episodio che non a caso è rimasto profondamente impresso nella memoria collettiva.
Ma la situazione che si è creata recentemente con i cosiddetti «indignati» presenta alcune novità. Innanzitutto come forma di mobilitazione non nasce in Italia quasi all'improvviso, come in altre parti del mondo. Nei mesi scorsi ci sono state le imponenti manifestazioni delle donne, dei sindacati, di altri gruppi di mobilitazione civile. Lo si riconosca o no, c'è una continuità oggettiva, un allargamento della mobilitazione a partire da parole d'ordine specifiche che alla fine convergono nella contestazione della politica dei governi in generale e del governo italiano in particolare. In alcuni casi questa contestazione è esplicita e puntuale, in altri assume tratti più generali. Ma non si può negare che la manifestazione romana avesse in sé oggettivamente un potenziale politico più netto e mirato che non quella a New York o altrove.
Qui si inserisce la violenza organizzata dei black bloc. Che avessero o no programmato i loro atti vandalici, essi sapevano che a Roma potevano agire come a Genova. Potevano introdurre nella manifestazione una componente che le avrebbe fatto cambiare natura. Venivano «dal di fuori» (non necessariamente da fuori Italia), ma certamente da «fuori dal movimento», eppure erano in grado di condizionarlo. Non c'è bisogno di ipotizzare complotti. Si sono comportati d'istinto come criminali politici che giocano sulla fragilità della fase di incertezza che sta attraversando il Paese e quindi sui potenziali ambivalenti di rinnovamento e di regressione che portano in sé i nuovi movimenti. E' sin troppo facile denunciare i black bloc come corpi estranei ed ostili alla società civile. Ma alla loro maniera delinquente segnalano uno snodo cruciale che il nostro Paese sta attraversando tra politica, antipolitica e prepolitica.
Davanti ad una classe politica estenuata e logorata, come antidoto molti guardano alle risorse alternative che potrebbero provenire dalla «prepolitica» - un concetto che si sta diffondendo quasi a surrogare l'abusata espressione di «società civile». In questo contesto per singolare coincidenza oggi a Todi c'è un importante incontro di responsabili di associazioni cattoliche che programmaticamente si collocano tra politica e prepolitica. In questi anni abbiamo visto un mondo cattolico diviso. Una sua parte significativa è stata sedotta, ricattata, resa complice (tramite i suoi rappresentanti tuttora ben istallati nel sistema berlusconiano) dalla politica che oggi boccheggia. Adesso qualcosa si muove. Le attese sono molte, forse esagerate. Ma sullo sfondo di una Roma vandalizzata va mobilitata ogni risorsa.



Repubblica 17.10.11
Editoriale shock sul Manifesto. "L´esasperazione va capita. Agenti provocatori pagati da Berlusconi? Lui ha tanti soldi..."
Parlato: "Paese disperato, scontri inevitabili"
di Alberto D’Argenio


 ROMA - Valentino Parlato, già direttore e tra i fondatori del Manifesto, sul suo giornale scrive: gli scontri durante la manifestazione degli indignati «era meglio che non ci fossero, ma erano inevitabili. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell´urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile».
Direttore, sembra giustificare i black bloc. Se ne assume la responsabilità?
«Volevo dire che era più importante il messaggio della manifestazione pacifica, non l´azione dei violenti che ha monopolizzato i media».
Non sembrerebbe da quanto ha scritto.
«Se siamo arrivati a questa esasperazione cerchiamo di capire. Sono bande professionali o giovani un po´ matti rappresentativi della nostra gioventù?».
Lo dica lei.
«Credo che siano un male ma comunque rappresentativo della tensione e della disperazione sociale del Paese».
Non risulta che i 200mila della marcia si siano sentiti rappresentati dagli incappucciati.
«Anche loro, pur con una rabbia dannosa, sono un segno di disperazione».
Tra loro c´era di tutto, anche ultras che di solito mettono a ferro e fuoco gli stadi senza alcuna ideologia.
«Anche la voglia di spaccare tutto, la pazzia e il delirio hanno una causa. Cerchiamo di capirla».
Lo direbbe ai manifestanti che sono rimasti feriti negli scontri?
«Dico solo che se esistono qualche cosa esprimono, che metterli in galera non basta, bisogna capire. Di fronte alla criminalità si può dire la stessa cosa: è sbagliato delinquere ma per quale disagio sociale lo fai?».
Direbbe questo a chi si è ritrovato l´auto bruciata o ai poliziotti feriti?
«Sì, e gli chiederei se la responsabilità è del piccolo delinquente o di chi governa».
Per i più del delinquente.
«Non ce la caviamo dicendo che i cattivi sono loro. Loro sono disperati perché non hanno un futuro».
Anche gli altri lo erano, ma non hanno sfasciato niente.
«C´è un´esasperazione che viene razionalizzata e ci sono soggetti deboli che arrivano a delinquere. Al di fuori di questa ipotesi c´è n´è un´altra: che siano agenti provocatori pagati da qualcuno».
Da chi?
«Da Berlusconi?».
Sembra difficile.
«Beh, di soldi ne ha tanti, anche se è un´ipotesi estrema, dell´irrealtà».

La Stampa 17.10.11
Indignati, il futuro del movimento
“Ci difenderemo smascherando questi violenti”
Video alla polizia per isolare i black bloc Organizzatori al contrattacco: “Sono fascisti”
di Flavia Amabile


ROMA Il video girato da Flavia Amabile della Stampa riprende un giovane incappucciato mentre irrompe nella chiesa
Pacifici Il corteo non violento che ha attraversato le vie di Roma prima degli incidenti provocati da alcune frange violente

Forse non li chiameremo più Indignati. Perché gli Indignati veri sono un po’ stufi di vedere il loro nome usato da tutti. «Sindacalisti, politici: tutti sono indignati, ora. Non vogliamo confusioni», avverte Chiara Franceschini, 35 anni, nel movimento dall’inizio.
Già, perché forse sono indignati non solo sindacalisti e politici ma anche i black bloc che hanno portato l’inferno a Roma sabato pomeriggio. «I giornali di destra hanno equiparato indignati a violenti», denuncia Eracle Galfo, 40 anni, anche lui tra i fondatori del movimento. In realtà è difficile immaginare giovani più diversi fra loro. Lo si è visto proprio sabato a piazza San Giovanni quando per la prima volta sono entrati in contatto.
Erano da poco passate le quattro, il sole ancora alto, il piazzale davanti alla basilica pieno di palloncini colorati. Gli Indignati, quelli veri, erano lì. Erano in cinquecento, stavano preparando tutto per l’assemblea collettiva. Con loro c’erano famiglie, passeggini, bambini, disabili. Aspettavano il corteo, i trecentomila partiti da piazza della Repubblica alle due con le bandiere, gli slogan e le musiche. È arrivata un’onda nera, centinaia di incappucciati carichi di spranghe, fionde, pietre, bombe carta.
«Ci aspettavamo qualcosa del genere ma non di questa portata», racconta Galfo. E allora è successo qualcosa che va raccontato. Gli Indignati erano radunati sotto la statua di San Francesco, di fronte alla Basilica di San Giovanni. «Ci siamo presi per mano e le abbiamo sollevate tutti insieme per creare un cordone pacifico gridando “non-violenza”».
Hanno resistito finché è stato possibile, ma il fumo dei lacrimogeni e delle bombe aveva reso irrespirabile l’aria e c’erano bambini e disabili da difendere. «Ci siamo spostati di alcune decine di metri davanti a un’altra chiesa, Santa Croce in Gerusalemme. Il parroco ci ha aperto la porta, ci ha dato ospitalità. Ripartiamo da qui. Di sicuro non ci fermeremo», spiega Chiara Franceschini.
Forse non avranno più lo stesso nome, quindi, ma gli Indignati italiani hanno scelto di non farsi fermare dalla violenza. Hanno montato le loro tende nel sagrato di Santa Croce, creato lì l’accampata, in tutto simile a quelle spagnole, il loro modello. Tutto continua come prima, insomma. Anche di più. Due assemblee ieri, una al mattino e un’altra nel pomeriggio andata avanti fino a sera tardi. Tende montate e persone che hanno dormito all’aperto anche stanotte. «Fra qualche giorno torneremo a piazza San Giovanni e poi nei quartieri di Roma», spiega Chiara.
È lì che si ritrovano infatti da quattro mesi, assemblea due volte a settimana. Si danno appuntamento via Facebook oppure attraverso il loro blog e discutono di nuovi modi di fare politica e di gestire il potere. E sono modi nuovi davvero. Prima regola: il rifiuto di ogni forma di discriminazione e aggressione verbale e fisica. Seconda regola: il comportamento non violento e attivo in tutte le sue espressioni. Terza regola: l’assenza di leader, ognuno ha un ruolo nell’organizzazione ma nessuno ha poteri sugli altri o gradi in più. Quarta regola: no a canne e alcol in piazza, no ad armi o oggetti contundenti o caschi, e anche a ogni simbolo di appartenenza politica.
Il contrario di quello che è accaduto sabato pomeriggio. Che ha rovinato la piazza non solo agli Indignati ma anche alle altre decine di associazioni che manifestavano e portato alla Capitale il triste record di essere stata l’unica violenta su un migliaio di cortei che si tenevano il 15 ottobre in tutto il mondo. Ieri sul web la rabbia di tutti loro era doppia. «Ci è stato impedito di manifestare pacificamente e gioiosamente come avremmo voluto. Siamo doppiamente indignati perché eravamo in piazza per costruire non per distruggere», spiega Tilt, rete generazionale della sinistra diffusa e componente del comitato organizzatore «15 ottobre».
Anche il grosso del mondo antagonista prende le distanze sul web dai black bloc. «Sono come i fascisti», si dice in molti messaggi postati sul sito Indymedia. «Dobbiamo costruire un servizio d’ordine nazionale che segua tutte le manifestazioni future dei movimenti e li renda impermeabili alle infiltrazioni dei fasci anarcoteppisti, che sono delle infiltrazioni ostili al corteo», è l’auspicio di un anonimo. «La teppaglia facinorosa di questi cinquanta ultras che scambiano i cortei per la domenica allo stadio - aggiunge - deve essere bastonata dal movimento stesso, come ben si faceva negli anni Settanta, quando il servizio d’ordine menava più duro dei poliziotti manganellatori. I fasci teppisti devono essere bastonati e possibilmente consegnati alla polizia». «Il problema fa eco un altro messaggio su Indymedia - è che ci hanno impedito di manifestare, black block e sbirri insieme. Il problema è che 400.000 persone sono fuggite davanti ad un paio di cassonetti bruciati. In 400 mila avremmo potuto fermare gli scontri, difendere i compagni abbandonati in piazza San Giovanni e continuare con il nostro comizio. Ma siamo fuggiti. Così il governo sa ancora una volta di più come con i contratti collettivi nazionali, che ci schiaccia quando vuole. Che se vuole vincere vince, e ieri ha vinto». «Cari Supereroi in black - ironizza un post - visto che avete tante energie da sfogare e tanto cervello da sviluppare e tanto coraggio da mostrare, perché non vi convocate manifestazioni per conto vostro e ve le fate come vi pare con chi vi pare, invece di parassitare quelle degli altri?»
La rabbia è talmente tanta che sul web sta girando un’idea: segnalare, smascherare e cercare di far perseguire quelli che vengono definiti «violenti di sinistra protagonisti di violenze inaudite a Roma». Si chiama «Operazione Smascheriamo i violenti». E si invita tutti quelli che hanno partecipato alla manifestazione a mandare le immagini dove si vedano black bloc a volto scoperto a ilfaziosoblog@gmail.com. Ce ne sono già un bel po’ in cui si vedono molti di questi violenti mentre lanciano oggetti o attaccano la polizia.
Il video completo sul sito www.lastampa.it

Corriere della Sera 17.10.11
Hessel: io cattivo maestro? I teppisti non sono Indignati
di Stefano Montefiori


PARIGI — Stéphane Hessel risponde al telefono della casa di Montparnasse, appena tornato da uno dei suoi continui viaggi. Dopo Gaza, il Cile e gli Stati Uniti, ha passato il fine settimana in Austria: prima un intervento al Parlamento di Vienna, poi la giornata del 15 ottobre in piazza, tra gli «Indignati» di Graz. Signor Hessel, ha visto quel che è successo a Roma? «Mi hanno detto degli scontri e ho visto qualche immagine in televisione. Quelli che hanno spaccato le vetrine e attaccato la polizia non erano indignati, erano teppisti. Niente a che vedere con le mie idee».
Partigiano, scampato ai lager nazisti, ambasciatore di Francia, redattore della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo: Stéphane Hessel, 94 anni giovedì prossimo, si è trovato protagonista di una protesta planetaria grazie a un esile libretto di neanche 30 pagine. «Indignez-vous!» è uscito in Francia con una prima tiratura di 8000 copie (Indigène éditions) il 21 ottobre 2010. Un anno e molte edizioni dopo, «Indignatevi!» ha raggiunto i tre milioni di copie nel mondo, mentre continuano le traduzioni, dal cinese al finlandese. Nel maggio scorso, è in omaggio al libro di Hessel che gli «Indignados spagnoli» hanno dato il nome al loro movimento, poi allargatosi a tutto il Pianeta come si è visto sabato.
In Italia, la manifestazione di Roma ha fatto notizia per gli incidenti. Che cosa risponderà, signor Hessel, a chi la accuserà di essere un cattivo maestro? «Nessuno potrebbe farlo se non in malafede. Le 30 pagine del mio libro sono una continua esortazione a ribellarsi alle ingiustizie, ma attraverso i metodi della non violenza. Io credo che ad avere determinato il successo di "Indignatevi!" in tutto il mondo sia stata proprio la sicura scelta a favore della non violenza. È anche per questo che tante persone perbene hanno apprezzato quelle pagine. Tanto bisogna ribellarsi ad alta voce contro le storture di questa epoca, quanto è giusto farlo con sistemi pacifici. Per tutta la vita mi sono battuto contro la guerra e a favore della pace. Un'alternativa tra silenzio o violenza non esiste».
Che cosa dice ai ragazzi con le bombe carta di Roma? «Che non hanno capito niente del mio libro. Ma, in realtà, sono certo che non lo hanno neppure letto. Io sto con le migliaia di persone che anche a Roma, e in tutto il mondo, sono scese pacificamente in piazza per protestare contro gli insopportabili mali del nostro tempo».
Poco prima che a Roma i black bloc conquistassero la scena, a Graz Stéphane Hessel diceva alla folla radunata in strada che «il mondo è minacciato da due pericoli fondamentali, la distruzione ambientale e lo spaventoso e crescente divario tra ricchi e poveri. Ma è così bello vedere tante persone che riescono a unirsi pacificamente in tutto il mondo».

Corriere della Sera 21.10.11
Hollande sfiderà Sarkozy «Sarò presidente della Repubblica»

Arriva il candidato in scooter campione della «gauche molle»
di Stefano Montefiori


PARIGI — Nel maggio '68 François Hollande aveva 14 anni, portava i capelli lunghi e pantaloni a zampa di elefante, come tutti. Ma quando l'eroe della Resistenza Joseph Audren, papà di un suo compagno di classe, gli chiese che cosa volesse fare da grande, François serenamente rispose «Sarò presidente della Repubblica».
L'amato fratello Philippe, di due anni più grande, in odio all'autorità paterna amava il rock di Doors e Kinks e finirà nella curiosa band Urban Sax, composta solo di sassofonisti; François aveva invece un solo eroe: non Mao o Che Guevara ma l'austero François Mitterrand, l'uomo che sarebbe diventato l'unico (finora) presidente socialista della V Repubblica. «O nel 2012 ripetiamo quell'exploit, o il Ps rischia di sparire», ha detto Hollande al Corriere qualche settimana fa. Da ieri sera, il sogno di emulare il padre elettivo è un po' più vicino. Il ballottaggio con Martine Aubry si è giocato più che sui programmi — indistinguibili —, sul temperamento e le personalità dei due pretendenti. Come ha fatto allora a vincere l'«uomo normale», il candidato in scooter e il campione della «sinistra molle»?
Con quella gentilezza che in Francia è considerata più un difetto che una qualità, e un fisico lontano dall'imponenza di un Giscard o Chirac («Sì, ho il sedere basso», non ha esitato ad ammettere una volta ridendo di sé), Hollande è uomo di rara tenacia. Quando da ragazzo giocava a calcio, in attacco, non prendeva rigori perché non cadeva mai. E a tennis vinceva, magari al quinto set, ma vinceva. François Hollande ha fatto — sempre sorridendo — tanta strada, e in salita.
Discendente di una famiglia di calvinisti olandesi rifugiati in Francia per scappare dall'Inquisizione, prima di diventare il primo candidato presidenziale al mondo con il cognome di un Paese straniero, Hollande ha dovuto apprendere l'arte della sopravvivenza in casa, a Rouen, con il padre Georges: un medico con il pallino degli affari immobiliari, ossessionato dalla disciplina e affascinato dall'estrema destra.
Nel 1965, quando François aveva 11 anni, il padre attaccava i manifesti per la «lista nera» locale, e militava per Jean-Louis Tixier-Vignancour, il candidato anti-sistema che si presentò alle presidenziali contro Mitterrand e de Gaulle; «Il direttore di campagna di Tixier-Vignancour, allora, era un certo Jean-Marie Le Pen», si legge nel libro di Serge Raffy «Itinéraire secret». François imparò a districarsi tra il padre severissimo che difendeva i collaborazionisti di Vichy e la madre Nicole, assistente sociale, affettuosa, di simpatie socialiste. Il fratello maggiore Philippe si ribellò alle durezze paterne e finì in collegio, scegliendo poi una vita da artista; François sviluppò la capacità di piegarsi sorridendo. Ma senza mai spezzarsi.
Trasferita tutta la famiglia a Parigi per un colpo di testa del padre, il giovane Hollande esercitò le sue doti di comunicatore prima nei dibattiti da cineclub — film preferito «C'eravamo tanti amati» di Ettore Scola —, poi nel partito socialista, dove nel 1981 ebbe l'ardire di contendere il seggio parlamentare a Jacques Chirac: «Il nome del mio avversario socialista? È meno conosciuto del labrador di Mitterrand (Baltique, ndr)», disse l'allora sindaco di Parigi. Trent'anni dopo, i modi di Hollande hanno finito per conquistare anche lui: quest'estate Chirac ha dato uno schiaffo al compagno di partito Nicolas Sarkozy annunciando che alle presidenziali voterà Hollande. Padre dei quattro figli di Ségolène Royal, nel 2007 Hollande non ha esitato a lasciarla, quando si è innamorato della giornalista Valérie Trierweiler. Eppure, in questi giorni a lui è andato il sostegno dell'ex compagna, duramente sconfitta al primo turno.
In tempi di crisi finanziaria, il gentile e determinato Hollande si è preparato all'Eliseo studiando l'economia e in particolare la riforma fiscale, che sarà uno dei suoi primi atti da presidente se eletto. «Il lavoro, è la libertà», c'è scritto sulla medaglia con l'effigie di Jean Jaurès lasciatagli in eredità da sua nonna materna. L'inseparabile talismano di un testardo dal sorriso di bambino.

l’Unità 17.10.11
Intervista a Souhayr Benhassen
«No, la nuova Tunisia non rischia una deriva islamica»
L’attivista «Ci sono gli estremisti salafiti che incendiano l’emittente che trasmetteva “Persepolis” Ma sono ottimista: oramai siamo un Paese libero...»
di Anna Tito


Souhayr Benhassen è una giornalista da sempre impegnata nella difesa dei diritti umani e la prima donna eletta nel 2007 alla presidenza della Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH), con sede a Parigi. Negli anni ’80 e ’90 ha lavorato come corrispondente dalla Tunisia del settimanale Jeune Afrique e dell’agenzia di stampa Reuters. Nel 1993, rea di aver denunciato il «silenzio colpevole» del governo tunisino sulla situazione delle donne algerine, fu espulsa per 5 anni dal suo Paese. «Sgombriamo il campo dagli equivoci – dice all’Unità l’attivista e distinguiamo i salafiti dagli islamici, ovvero dal partito di Ennhada; che alcuni militanti salafiti abbiano tentato l’altro giorno di incendiare la sede della televisione privata Nessma, rea di aver trasmesso il film franco-iraniano Persepolis, manifesto dell’Iran democratico e riformista, non significa che la neonata democrazia tunisina corra dei rischi d’islamizzazione».
Eppure non si tratta di un episodio isolato: il giorno prima alcuni esponenti del gruppo avevano fatto irruzione nell’università di Sousse perché una studentessa col niqab si era vista rifiutare l’iscrizione. E in luglio la proiezione del documentario «Nè Allah né padrone» per la laicità della regista Nadia El-Fani è stato violentemente boicottata, sempre dai salafiti.
«E questo cosa vuol dire? Così come esiste un pugno di fanatici – sempre gli stessi, un paio di centinaia, non di più che combatte la laicità, abbiamo anche un direttore del cinema Africart, a Tunisi, che ha deciso che il film di Nadia El-Fani andava visto; ha corso dei rischi, ma non ha ceduto. Quanto alla rete Nessma, ha trasmesso Persepolis,
e ben venga! (Proprio ieri a migliaia sono scesi in piazza a Tunisi per chiedere il rispetto della libertà di espressione e per denunciare le proteste dei salafisti dopo la proiezione del film iraniano, ndr). Queste persone sono andate controcorrente, nell’intento di riaffermare un’identità non islamica, e ciò mi sembra formidabile. Pertanto, al momento, non ho motivo di preoccuparmi. A questo punto occorrerebbe soltanto che gli islamici accettassero quest’altra realtà della Tunisia».
«Non poco. Ettahrir, il partito dei salafiti, illegale proprio perché vorrebbe fare della Tunisia in un Paese islamico, agisce per cambiare la società: non combatte un partito, ma la cultura, ovvero contro tutto ciò che è a suo avviso in grado di influenzare le mentalità, come l’istruzione. Ma non me ne stupisco, e sia gli islamici, sia i partiti estremisti, quando entrano a far parte di un governo – e accadrà anche con Ennhada esigeranno i posti nel governo determinanti per la cultura e l’istruzione. Ritengono che vada trasformata la società prima di prendere il potere. E così i salafiti, determinati, disposti ad agire fino alla morte, armati, fanno parte di “commandi” che agiscono su bersagli molto precisi, generalmente culturali».
I salafiti differiscono quindi dagli islamici? Ennhada, che ha per leader Rached el Ghannouchi e che secondo i sondaggi otterrà il 22,8% circa dei voti, in cosa differisce dai salafiti? «Definirei i salafiti “criminali disposti a tutto”, di estrema destra, come ne esiste una ovunque, anche in Norvegia: quando nell’estate scorsa è stato perpetuato il massacro, nessuno ha temuto che gli integralisti avrebbero preso il potere. Ennhada è si tratta di un partito riconosciuto, che ha preso parte alla rivoluzione e accettato le regole istituzionali. Del successo che otterrà il 23 ottobre ringrazieremo il regime di Ben Ali, a cui ha pagato per vent’anni e più un prezzo altissimo, ovvero oppressione, assasinii, esilio, costretto a chiudere tutte le bocche. In quanto maggiormente represse, le loro reti – sociali e politiche, molto ben organizzate funzionavano molto meglio e di più. E mi sembra pertanto normale che oggi Ennhada aspiri al potere, con l’aureola del martire. E non a caso lo ‘corteggiano’ i partiti del centro, quali il Partito democratico popolare e il Forum democratico per il lavoro e le libertà».
Si dichiara quindi ottimista sulle elezioni, anche se si prevede un successo non trascurabile di Ennhada? «Certo, anche perché l’istanza che ha svolto le funzioni del Parlamento ha in soli nove mesi votato leggi sui media, sul finanziamento dei partiti, sul codice elettorale, sulla parità. Io stessa all’inizio ero scettica, dinanzi ai 140 partiti e alle migliaia di liste e candidati, ma la scommessa mi appare vinta: credo che le elezioni si svolgeranno nella legalità, con tutte le possibili contestazioni, certo, ma anche con le condizioni per registrarle, accettarle, pubblicarle. E non è poco per un Paese in cui non si è mai votato liberamente – io ho 68 anni e ho votato soltanto due, tre volte. Non può immaginare la sensazione che provoca l’andare a votare per davvero, inserendo nell’urna una scheda che avrà un qualche peso. Sono libera, non ho più a che fare con un regime poliziesco, e posso parlare contro il presidente del parlamento, sbattere la porta e si chiamare la televisione affinché riprenda la scena. E le nostre donne, seppure portano il niqab, prendono la pillola e mai partoriranno dieci figli».

Corriere della Sera 17.10.11
Lo scrittore algerino Boulaem Sansal premiato a Francoforte
«Lotto per la libertà La primavera araba non è ancora finita»
di Ranieri Polese


FRANCOFORTE — «Dopo la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia, ora lo sentiamo davvero: il mondo sta cambiando. Quello che nel vecchio e sclerotico mondo arabo sembrava impossibile, è successo: la gente è scesa per strada a combattere per la democrazia, per un futuro umano. Non c'è solo la cacciata dei dittatori, questo è l'inizio di una rivoluzione copernicana, la nascita di una nuova coscienza. Una svolta, proprio come quella che voi tedeschi avete vissuto — da voi si dice die Wende — quando il Muro di Berlino venne giù». Frequentemente interrotto da applausi, Boualem Sansal ha tenuto il suo appassionato discorso nella cerimonia in cui gli veniva consegnato il Friedenspreis 2011, il Premio della pace che ogni anno l'Associazione editori e librai tedeschi assegna nell'ultimo giorno della Fiera. In platea, fra autorità politiche (il presidente del Bundestag Lammert, l'ex Presidente della Repubblica von Weizsäcker), editori (Antoine Gallimard e Katharina Meyer di Merlin Verlag che pubblica Sansal in Germania), scrittori e intellettuali come Umberto Eco e il teologo Friedrich Schorlemmer, c'era una poltrona vuota, quello dell'ambasciatore algerino. «Peccato — ha detto Sansal nel suo discorso — perché attraverso la mia persona oggi è il popolo algerino a essere onorato. Quella poltrona rimasta vuota non è un buon segno per me, vuol dire che la mia situazione in Algeria non migliorerà nonostante questo premio. Eppure voglio dire ai miei compatrioti, se mi ascoltano, che non siamo soli, che in questa sala affollata ci sono uomini e donne che credono in noi, ci sostengono, ci daranno il coraggio».
Scrittore di un Paese che ha conosciuto solo guerre («e ora ricevo il Premio della pace, è una felice contraddizione»), Sansal ha ripercorso la storia recente dell'Algeria. Per mettere in guardia i giovani movimenti democratici del Nordafrica che troppo spesso credono che la cacciata dei tiranni basta a cambiare tutto. L'Algeria, ha detto, ha conosciuto molte delusioni. A cominciare dal 1962, quando la dichiarazione di indipendenza dopo una guerra di otto anni si trasformò nella presa del potere di un regime militarizzato, poliziesco, burocratico. «La Libération n'etait pas la liberté». Poi, nel 1988, ha ricordato, un movimento democratico si diffuse nel Paese, ma non riuscì ad affermarsi. Nel '91, con le elezioni vinte dal Fronte islamico — erano truccate, fu un risultato raggiunto con brogli e manipolazioni — la reazione dei militari porta all'annullamento del voto. Inizia qui il Decennio nero, la guerra civile, estremisti islamici che compiono massacri, militari che rispondono con altri massacri. E quando Bouteflika diventa presidente, metterà d'accordo «turbanti» e «berretti», concedendo come in «un accordo mafioso» a entrambi la spartizione delle ricchezze. I Paesi occidentali, purtroppo dice Sansal, hanno dato grande fiducia a Bouteflika. Ma oggi che il vento è cambiato, che per i dittatori sembra non tirare più una buona aria, anche l'Europa ha un dovere: vigilare perché il processo democratico non sia schiacciato. Che non ci siano ancora vecchi trucchi, vecchi imbrogli.
Non parla, Sansal, dei suoi libri. Già altri oratori prima di lui hanno ricordato Il villaggio del tedesco, Fermo posta: Algeri e il nuovo, Rue Darwin. Ricorda che non è facile vivere in un Paese dove chi ha il potere ti ritiene suo nemico, ti fa perdere il lavoro, ti controlla. Ringrazia la moglie Naziha, che lo accompagna, per aver diviso con lui gli anni duri. E per non aver mai smesso di resistere. «Undici anni fa, questo premio fu dato ad Assja Djébar, una scrittrice algerina che ha dedicato il suo lavoro e i suoi libri alle donne del nostro Paese, per ricordare una cosa che qui forse sembra normale: che la donna è un essere libero, e che quando anche una sola libertà le viene tolta, il Paese in cui vive non può considerarsi un Paese civile. Sono state le donne, anche negli anni della guerra civile, a resistere. E continuano a farlo».
Diviso tra speranza e amarezza, pronto a sostenere i fermenti di rinnovamento (per questo ripete che non lascerà l'Algeria) ma attento a ricordare che la pace e la democrazia non si realizzano da un giorno all'altro, Sansal conclude con un appello accorato. Nel clima di questo risveglio di libertà, di rivolta contro antiche oppressioni, «sempre più numerosi fra noi sono quelli che non vogliono più accettare il fatto che il conflitto israelo-palestinese continui a devastare l'esistenza e la coscienza dei nostri figli, dei nostri nipoti. Noi vogliamo che questi due popoli vivano liberi, e felici, in fratellanza. Vogliamo che israeliani e palestinesi sentano di non tollerare più questa situazione, che anche per il Medio Oriente ci sia una Wende, che anche là i muri possano crollare». Bene ha fatto il presidente a rivolgere alle Nazioni Unite la richiesta di uno Stato palestinese sovrano. Può essere l'avvio di un nuovo corso, dove non si crederà più ai miti del passato, guerre sante, crociate, giuramenti. «Ma è stato triste vedere che un uomo come Obama non abbia capito l'importanza del gesto di Abbas e non abbia saputo cogliere l'opportunità che pure lui aveva detto di cercare nel famoso discorso del Cairo».

Corriere della Sera 17.10.11
Mongolia, uno scrigno di tesori nella tenaglia di russi e cinesi
Oggi il presidente in Italia alla ricerca di una «sponda» europea
di Marco Del Corona


ULAANBAATAR (Mongolia) — Nero. Nero carbone. Myagmar porta a spasso la nipotina ma non sorride: lascerà la casetta di mattoni e legno, resterà sulla collina tornando però in una ger, una tenda circolare da nomade, lui che nomade non è più da vent'anni. «In un inverno mi vanno via 900 dollari di carbone, nella ger ne serve meno e si vive meglio». Futuro nero. Tsetsgee da dieci anni vende il necessario agli abitanti di questa favela già sottozero all'inizio dell'autunno. Spaghetti cinesi, biscotti russi, zuppe coreane: un campionario di vicini ingombranti e amici possibili. Ha visto affollarsi di tende e casupole i pendii che scendono a Ulaanbaatar, «continuano ad arrivare», dice asciutta, ed è così che la capitale raccoglie ormai quasi la metà dei neanche 3 milioni di cittadini mongoli.
Il carbone è una tonalità del futuro. Quando ne parlano i politici nel labirintico palazzo del parlamento promette ricchezza. Una ricchezza che solletica le voglie dei Paesi intorno e di nazioni lontane, attratte da una Mongolia spopolata, democrazia giovane e imperfetta adagiata su forzieri di materie prime. Il giacimento carbonifero di Tavan Tolgoi, nel sud, è il secondo al mondo per ampiezza e, sfruttato a pieno regime (la proiezione è di 240 milioni di tonnellate l'anno nel 2040 dai 16 milioni di oggi), potrebbe garantire per anni una crescita del Pil a due cifre. Tuttavia il processo che avrebbe dovuto dare una scossa allo sviluppo della Mongolia si è arenato nel Gobi. Mostrando il micidiale intrico di fragili equilibri geopolitici, diffidenze storiche, caotiche dinamiche interne e un montante populismo nazionalista.
Satellite sovietico per quasi settant'anni, la Mongolia ha avviato dai primi anni Novanta un tormentato percorso che l'ha resa una democrazia bipartitica. Su ogni scelta, tuttavia, pesano l'arretratezza del suo sistema economico e le ipoteche di Mosca e Pechino. La Russia garantisce alla Mongolia oltre il 90% degli idrocarburi che, di fatto, ne permettono la sopravvivenza tout court, mentre finisce in Cina l'80-90% delle esportazioni. Se la Repubblica Popolare rallentasse i suoi acquisti, le conseguenze per la Mongolia sarebbero prevedibilmente gravi. Consapevole della propria vulnerabilità, Ulaanbaatar cerca di spezzare l'assedio. «Abbiamo bisogno di un "terzo vicino". L'America, il Giappone. L'Europa», dice al Corriere in un inglese perfetto R. Amarjargal, già primo ministro e ora deputato democratico. «La nostra transizione è ancora in corso. Dobbiamo imparare. E non avere fretta». In agosto era stato a Ulaanbaatar il vicepresidente americano Joe Biden, la scorsa settimana è arrivata Angela Merkel. L'Italia, dove la Mongolia aprirà un'ambasciata, prova a ritagliarsi uno spazio: oggi il presidente Ts. Elbegdorj arriva a Roma (e sarà il primo leader del Paese a incontrare il Papa) e sarà poi a Milano; in settembre Paolo Romani era stato il primo ministro italiano a visitare il Paese.
Quando l'ex premier Amarjargal parla della fretta che non serve, allude all'affare Tavan Tolgoi. Prima dell'estate il quadro dello sfruttamento del giacimento sembrava compiuto. Metà della concessione all'azienda statale Erdenes Mgl, l'altra metà destinata a investitori stranieri. L'intesa vedeva coinvolti i cinesi di Shenhua Energy (40%), un consorzio russo-mongolo (36%) e gli americani di Peabody (24%). Accordo fatto. Ma alle rimostranze di sudcoreani e giapponesi, il governo ha fermato tutto. Indiscrezioni pubblicate nei giorni scorsi dalla stampa locale tratteggiano un nuovo assetto in cui tre fette uguali sono spartite fra cinesi, consorzio russo-mongolo e un nuovo cartello con giapponesi e sudcoreani a guida Peabody. A fine settembre il copione si era ripetuto con un altro importante giacimento, quello di Oyu Tolgoi — rame e oro — il cui sfruttamento era stato acquisito dalla canadese Ivanhoe (partecipata dal colosso australiano Rio Tinto): anche qui l'esecutivo voleva portare la quota mongola dal 34% pattuito al 50%, e il tira e molla si è chiuso con la riaffermazione del contratto originale.
Tanti tentennamenti derivano dalle elezioni del giugno prossimo. I due partiti maggiori (popolari eredi del partito unico e democratici) corteggiano un elettorato sensibile a promesse populiste, che siano azioni distribuite a pioggia o richiami nazionalisti. Ammette Ch. Tsogtbaatar, vicedirettore del settore minerario del nevralgico ministero dell'Energia: «La gente teme che siano gli stranieri a trarre profitti maggiori. Tanto più che ci sono vaste aree ancora da esplorare, sulle terre rare siamo indietro, ad esempio», dice al Corriere. E poiché carbone e rame devono camminare, sono da risolvere i problemi dei trasporti su rotaia, ma anche lo scartamento ferroviario (russo o cinese?) diventa una faccenda politica.
Investitori stranieri, operai importati dalla Cina, capitali d'oltreconfine, le fiammate emotive degli incidenti nella Mongolia Interna cinese intossicano il clima. I resoconti sui neonazisti di Ulaanbaatar hanno fatto il giro del mondo, la comunità straniera riferisce di pestaggi. Il tutto contrasta con la strenua attenzione esibita dai governi mongoli all'Occidente, anche spedendo uomini in Iraq e Afghanistan. «La nostra cultura è europea», ripete B. Sergelen, la direttrice del teatro dell'opera nazionale. Intorno a lei i poster della Scala, in repertorio Verdi e Rossini, Zandonai e Puccini, ma anche Ciaikovskj, Orff, Mozart. Nelle sale prova cantanti con anni di studi in Italia. «Abbiamo bisogno di preservare la musica che è la nostra anima. Ed è musica europea». Invece il carbone, che un'anima non ce l'ha, aspetta di sapere chi saranno i suoi padroni.

Repubblica 17.10.11
Uno studio inglese rivela: i cittadini con genitori di due nazionalità diverse raddoppieranno entro il 2020 Ed è una tendenza europea
di Enrico Franceschini


Parlano due lingue, hanno genitori di diversa nazionalità, vanno bene a scuola. Nel Regno Unito i meticci sono due milioni e rappresentano ormai la più grande minoranza del Paese. Una generazione nomade alla conquista del continente Questa crescente integrazione etnica produrrà una società più armonica e creativa A Londra ovunque s´incontrano coppie italo-libanesi, anglo-francesi o ispano-germaniche I white anglo-saxon protestants, cioè i bianchi inglesi, saranno sempre di meno

LONDRA. LA PIÙ grande minoranza della Gran Bretagna non ha un´etnia, una lingua o un colore: ne ha due. Un nuovo metodo di contare le persone di "mixed race", di razza mista, come le definisce il censimento nazionale, ha prodotto un risultato sorprendente: due milioni di cittadini, pari al 3 per cento della popolazione britannica, hanno genitori di nazionalità diverse. E poiché le coppie miste sono ancora più numerose tra i giovani, in particolare nella cosiddetta "Ryan Air generation", la generazione dei nuovi nomadi, espatriati a Londra per studio e per lavoro, si prevede che il numero dei residenti con doppio passaporto raddoppierà entro il 2020, per poi continuare a espandersi sempre più rapidamente. Se il Regno Unito, come spesso accade, anticipa tendenze destinate a coinvolgere tutta l´Europa, significa che il fenomeno si manifesterà e crescerà anche nel resto del continente. Senza quasi accorgercene, mentre politici ancorati al passato fanno battaglie obsolete contro l´immigrazione e per la difesa della propria identità culturale, stiamo diventando tutti meticci.
La parola era, e per qualcuno rimane, offensiva, o perlomeno sgradevole, il connotato di una condizione considerata sfavorevole, degradata, se non addirittura inferiore. «Per questo, quando sul censimento trovano la casella "razza mista", molti britannici non sa la sentono di metterci una crocetta sopra», spiega la professoressa Alita Nandi, analista dell´Institute for Social and Economic Research, che ha condotto le nuove ricerche in questo campo per conto della Bbc.
Fino a ora, l´etnia di una persona, nelle statistiche ufficiali di questo paese, era determinata da una scelta di opzioni limitate, come "bianco", "nero caraibico", "nero africano". Ma adesso una scuola di pensiero accademica ritiene che, nell´era della globalizzazione, sia più giusto richiedere alla gente di indicare la "nazionalità" dei genitori, per poter stabilire l´appartenenza a un gruppo etnico.
È quello che hanno fatto gli esperti del rapporto commissionato dalla Bbc, analizzando dati forniti dall´Household Longitudinal Study, raccolti tra 100 mila persone in 40 mila famiglie. Il risultato è stato che, mentre solo lo 0,88 per cento dei residenti in Gran Bretagna si definivano di "razza mista" nel censimento del 2001, quasi il 2 per cento degli adulti indicano di avere una "discendenza mista" nell´ampio campione esaminato dalla Bbc. La differenza rispetto al censimento è ancora più marcata tra i bambini e ragazzi al di sotto dei 16 anni, il 9 per cento dei quali affermano di avere genitori di etnie differenti. Messe insieme, queste cifre suggeriscono che oggi ci sono più di due milioni di persone nel Regno Unito con un padre e una madre dal passaporto diverso, pari a circa il 3 per cento della popolazione.
«Usando questa più ampia definizione di etnicità», commenta la professoressa Nandi, «apprendiamo che gli individui di origine mista sono più numerosi di ogni altra minoranza etnica presente nel nostro paese»: più dei britannici di origine indiana, la seconda minoranza più numerosa con 1 milione e 800 mila persone; più dei neri caraibici, 1 milione e 500 mila; più dei neri africani, dei pachistani, degli arabi, di ogni altro gruppo etnico.
Scoprire che i meticci sono la prima minoranza, e il gruppo etnico in procinto di moltiplicarsi più di ogni altro nel prossimo decennio, spinge i ricercatori a chiedersi se ciò può avere effetti socialmente positivi o negativi. E il loro primo riscontro contribuisce a smentire lo stereotipo del meticcio come specie disagiata. Il rapporto rivela infatti che il 79 per cento dei figli di persone con genitori di diversa nazionalità raggiungono gli standard di eccellenza scolastici stabiliti dal ministero dell´istruzione per i bambini di 10 anni: la stessa percentuale dei figli di britannici di origine indiana, mentre i figli di bianchi che ottengono lo stesso livello accademico sono il 77 per cento, quelli di pachistani e bengalesi il 67, quelli dei neri il 65. Nulla lascia pensare che le nuove generazioni di "meticci" non avranno successo nella vita, conclude la Bbc, prevedendo al contrario che una crescente integrazione etnica produrrà una società più armonica, creativa e piena di risorse.
Per chi vive a Londra, naturalmente, questa è un po´ come la scoperta dell´acqua calda: la capitale britannica ha stabilito il suo primato di "New York d´Europa" proprio attraverso il prodigioso afflusso di immigrati, o espatriati come è più corretto definire quelli che non ci sono venuti con l´idea di restarci permanentemente, negli ultimi due decenni. Gli stranieri a Londra sono ufficialmente il 31 per cento, 2 milioni e 300 mila su una popolazione di quasi 8 milioni, ma sono in realtà assai di più, probabilmente un abitante su due, il 50 per cento, contando tutti quelli che non appaiono nelle statistiche ufficiali, venuti qui per studiare l´inglese, fare un corso, lavorare in un ristorante o in un negozio, trascorrere un gap year o un sabbatico, senza abbandonare la residenza nel Paese di provenienza. Ci sono 71 diverse nazionalità tra i dipendenti della Paribas, una banca della City. Ce ne sono più di cento in molte scuole dei quartieri periferici. E in tutta la metropoli si parlano un totale di 300 lingue e dialetti.
Ma non è solo questione di Londra: i trend demografici pronosticano che fra dieci anni, in città e cittadine come Birmingham, Luton, Leeds, i "wasp", white anglo-saxon protestants, insomma i bianchi inglesi, saranno diventati una minoranza.
Mettere così tanti stranieri di nazionalità differenti tutti insieme in una capitale come Londra o in una nazione come l´Inghilterra ha una conseguenza facilmente immaginabile: capita sempre più di frequente che due persone con passaporto diverso si innamorino e facciano dei figli. Le barriere religiose e i pregiudizi razziali contano ancora, specialmente nelle comunità più tradizionaliste, ma basta guardarsi intorno, a Londra, per incontrare giovani coppie italo-libanesi, anglo-francesi, ispano- germaniche, franco-caraibiche, e così via. Nelle università, nei luoghi di lavoro, nei caffè della metropoli sul Tamigi, questa generazione di espatriati tra i venti e i trent´anni, che va e viene per l´Europa con i voli a basso costo della Ryan Air, preferisce avere un iPad che l´automobile e vive il nomadismo come un´espressione di libertà anziché come un limite, sta costruendo la società del futuro: «È un mutamento sismico rispetto al passato anche solo recente», dice Mark Boyle, esperto di migrazione della National University in Irlanda, «sono i nuovi nomadi del ventunesimo secolo, tecnologicizzati, irrequieti, senza bagaglio, aperti a ogni esperienza». E, si potrebbe aggiungere, in buona parte meticci.
Due etnie, due nazionalità, due lingue, al posto di una sola: è dunque questo il nostro domani, avverte il rapporto della Bbc. Bisognerà solo trovare un nome per definire il concetto, un nome migliore di "razza mista": dove in effetti il termine spiacevole non è tanto "mista", bensì "razza". Come ci insegnò Albert Einstein, nel noto aneddoto sul suo primo ingresso da immigrato negli Stati Uniti, quando alla domanda dell´agente addetto alla dogana, a quale razza appartiene?, pare che l´inventore della teoria della relatività rispose lapidario: «Alla razza umana».

Repubblica 17.10.11
Il fenomeno in aumento anche da noi: perlopiù sono i maschi a sposare le donne straniere
La carica delle coppie miste in Italia 30 mila nati l´anno
Oltre un bambino su tre nasce fuori dal matrimonio. Il 20 per cento vive in Lombardia, seguita dal Lazio. Tra le città, il primato spetta a Roma con 1.529 nati nel 2008
di Vladimiro Polchi


ROMA Anche da noi potrebbero presto diventare la maggiore minoranza del Paese. Non sono un ossimoro: sono i "meticci d´Italia". Padre italiano, madre straniera o viceversa, i figli di coppie miste non arrestano la loro corsa: 23.970 nel 2008, 25mila nel 2009, oltre 29mila nel 2010.
Gli ultimi dati Istat parlano chiaro: il calo delle nascite in corso nel nostro Paese è da attribuirsi alla diminuzione dei nati da genitori entrambi italiani (25mila in meno in due anni). I nati da almeno un genitore straniero continuano invece ad aumentare, seppure a un ritmo più contenuto: in media 5mila in più nel 2009 e nel 2010, un incremento dimezzato rispetto a quanto osservato nel 2008. Più nel dettaglio: i nati da genitori entrambi stranieri sono stati oltre 77mila nel 2009 e 78mila nel 2010, poco meno del 14 per cento del totale dei nati. Se a questi si sommano i nati da coppie miste si arriva a quota 102mila nati da almeno un genitore straniero nel 2009 e 107mila nel 2010.
Leggendo con attenzione i numeri dell´Istat, balza agli occhi il primato conquistato dai "meticci" come minoranza. Un esempio? Nel 2009 i nati da coppie italiane sono stati 466mila, mentre i figli con almeno un genitore straniero hanno superato quota 102mila. Di questi, i primi per numero (25mila) sono proprio i nati da coppie miste, in cui cioè uno dei genitori è italiano, seguiti a distanza dai figli di genitori marocchini (13.389), romeni (12.868), albanesi (9mila) e cinesi (5mila). Scendendo ancor più nel dettaglio si vede come i figli di coppie miste abbiano per lo più padre italiano e madre straniera: nel 18 per cento dei casi la mamma è romena, nel 9 per cento polacca, nel 6 per cento brasiliana e nel 5,7 per cento ucraina. Più raro il caso inverso: in tal caso i padri stranieri vengono in maggioranza da Marocco (11,5 per cento), Albania (11 per cento) e Tunisia (7 per cento). Non è tutto.
Molte sono le coppie di fatto: tra i figli di coppie miste, oltre un bambino su tre nasce fuori dal matrimonio (circa il 35 per cento). Dove vivono i meticci d´Italia? Nel 20 per cento dei casi in Lombardia, poco meno nel Lazio. Tra le città, il primato indiscusso spetta a Roma con 1.529 nati da coppie miste nel 2008.
«Il trend di crescita dei figli di coppie miste si confermerà sempre più in futuro – sostiene Mara Tognetti, che insegna Politiche dell´immigrazione alla Bicocca di Milano – e se a queste sommiamo le coppie miste-miste, in cui cioè i genitori sono entrambi stranieri ma di diversa nazionalità, il risultato sarà una società sempre più plurale».
I figli di coppie miste acquistano la cittadinanza italiana grazie a uno dei due genitori, «ma non sono per nulla al riparo – si legge nell´ultimo dossier Caritas/Migrantes – delle difficoltà di inserimento e d´integrazione scolastica. A differenza di quanto dimostrato in altri Paesi europei, il percorso di crescita all´interno di un ambiente familiare misto non conduce a fenomeni di metissage e d´identità ibride apprezzate. Al contrario sembra prevalere la stigmatizzazione, insieme a sentimenti di spaesamento».
Attenzione però alle generalizzazioni: «I figli di coppie miste – avverte la Tognetti – non sono un corpo omogeneo, ma al loro interno hanno diverse specificità a seconda della nazionalità del genitore straniero, della connotazione etnica, della religione, del continente di provenienza». Una cosa è però certa: «Questi ragazzi hanno grandi potenzialità, sono i nuovi italiani, ma la loro è un´esperienza non ancora consolidata, va dunque sostenuta e accompagnata con attenzione».

l’Unità 17.10.11
Assange: quel patto tra rete e carta
L’anticipazione Bruxelles, 21 giugno 2010: ecco come andò l’accordo con il «Guardian» per la diffusione dei file segreti di WikiLeaks. Le password scritte su tovaglioli di carta e il messaggio in codice: «Le ragazze sono arrivate»
di David Leigh e Luke Harding


Hotel Leopold, place Luxembourg, Bruxelles 21 giugno 2010, ore 21.30
Tre uomini, seduti al bar del cortile interno di un albergo belga, ordinano un caffé dopo l’altro. Hanno passato ore a discutere in quel pomeriggio d’estate concedendosi solo una piccola pausa per mangiare un po’ di pasta, e ora sta calando la sera. A un tratto, il più alto dei tre distende un tovagliolo giallo sul tavolino del bar e comincia a scribacchiare. Uno di loro è Ian Traynor, corrispondente per gli affari europei del Guardian.
Ricorda Traynor: «Julian estrasse il suo computerino portatile, lo aprì e picchiò su qualche tasto. Poi prese un tovagliolo e disse: “Ok, ecco qui, ce l’avete”. E noi: “Ce l’abbiamo cosa?”. E lui: “Avete l’intero file. La password è su questo tovagliolo”».
Continua Traynor: «Ero stupefatto. Ci aspettavamo lunghi negoziati, condizioni e chissà cos’altro. E invece si era tutto risolto in un istante. Era un atto di fede». Con noncuranza, Assange aveva cerchiato diverse parole e il logo dell’albergo sul tovagliolo dell’hotel Leopold, aggiungendo la frase «niente spazi». Quella era la password. In un angolo aggiunge tre semplici lettere: «Pgp». È un riferimento al sistema di cifratura che usa per un sito web temporaneo. Il tovagliolo è un tocco d’artista, degno di un romanzo di John le Carré. I due giornalisti del Guardian sono sbalorditi. Nick Davies infila il tovagliolo nella valigetta insieme con la biancheria sporca. Tornato in Inghilterra, deposita solennemente il tovagliolo sulla scrivania del suo studio, tra una pila di taccuini e un mucchio di libri. «Penso che lo metterò in cornice», dice oggi Davies.
Le speranze di raggiungere un accordo rischiano però di deragliare fin dall’inizio. Assange, in un’altra occasione, aveva già scelto di schierarsi ideologicamente contro Nick Davies. L’australiano aveva infatti criticato la campagna lanciata da Davies contro il tabloid di Rupert Murdoch, News of the World, accusato di spionaggio telefonico ai danni di alcuni vip, denunciandola come uno spregevole tentativo «da parte di una bigotta élite sociale e politica» di rivendicare il diritto alla privacy. Assange aveva accusato Davies di mancanza di solidarietà giornalistica per aver criticato il News of the World e di aver colto soltanto un’occasione per attaccare un giornale rivale. Assange non riesce a mascherare un lieve disprezzo nei confronti dei media tradizionali in generale. Ciononostante Davies è colpito nel trovarsi davanti un tipo «molto giovane, con un modo di fare un po’ fanciullesco, piuttosto timido e disponibile. Un tipo con cui era facile trattare».
Mentre Assange beve succo d’arancia, Davies comincia cautamente a mettere sul tavolo le sue carte descrivendo le opzioni possibili. Dice a Assange che ritiene improbabile l’ipotesi di un attacco sul piano fisico perché una simile eventualità si trasformerebbe in una figuraccia mondiale per gli Stati Uniti. Piuttosto, questa è la previsione di Davies, gli Stati Uniti lanceranno una campagna di denigrazione senza esclusione di colpi, accusandolo di aiutare i terroristi e di mettere in pericolo vite innocenti. La risposta di WikiLeaks sarà che il mondo ha il diritto di sapere la verità sulle oscure guerre condotte dagli americani in Afghanistan e in Iraq. «Ti metteremo così in alto sul piano dei valori morali che avrai bisogno di portarti dietro una maschera per l’ossigeno. Sarai al livello di Nelson Mandela e Madre Teresa di Calcutta», dice Davies a Assange. «Non saranno in grado di arrestarti. Né potranno abbattere il tuo sito».
Assange ascolta le parole di Davies. Non è la prima volta che WikiLeaks si trova a lavorare con i media tradizionali e Assange ha deciso che in questa occasione è una buona idea farlo di nuovo. A questo punto l’australiano rivela le dimensioni del suo tesoro. Confida che WikiLeaks ha ottenuto materiale di documentazione su ogni singolo incidente dell’esercito americano nella guerra in Afghanistan. «Per la miseria!», esclama Davies. Non solo, aggiunge Assange: WikiLeaks possiede materiale dello stesso tipo anche sulla guerra in Iraq a partire dal 2003. «Cazzo!», sbotta Davies.
Ma non è tutto. WikiLeaks è in possesso dei rapporti segreti inviati al Dipartimento di Stato americano dalle sedi diplomatiche sparse in tutto il mondo. Infine, quarto punto, ha anche fascicoli relativi al lavoro dei tribunali militari di Guantánamo, il famoso centro di detenzione americano a Cuba. In tutto, dato decisamente stupefacente, c’è da scavare in un mare di oltre un milione di documenti.
È materiale esplosivo. Davies chiede che il Guardian sia autorizzato a visionare il materiale allo scopo di costruire una cornice, un contesto dentro il quale inserirlo perché diversamente tutto rischierebbe di finire in un’enorme massa indistinta di documentazione incomprensibile.
Assange replica che WikiLeaks è pronto già da due settimane a pubblicare tutto il malloppo, ma lui esita perché è preoccupato delle conseguenze legali che la pubblicazione avrebbe su Manning, anche se non ammetterà mai e in nessun caso di aver ricevuto il materiale proprio da lui. L’esercito ancora non l’ha incriminato; Manning è addestrato per resistere a un interrogatorio, pensa Assange, e le supposizioni di Lamo non sono credibili. Ma Assange teme che la pubblicazione dei file segreti dia ulteriori prove d’accusa agli investigatori del Pentagono.
Davies e Assange discutono la possibilità di aggregare alla comitiva anche il New York Times. In nessun caso, sostiene Davies, l’amministrazione Obama attaccherà il più potente giornale degli Stati Uniti, per di più d’ispirazione democratica. Ogni storia di WikiLeaks pubblicata sul New York Times godrà della protezione del primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti sulla libertà di espressione. Inoltre esiste il precedente della storica battaglia ingaggiata dal New York Times per garantirsi il diritto di pubblicare sul giornale i famosi Pentagon Papers. Lo status di giornale nazionale del New York Times renderà inoltre più difficile alle autorità contestare a Manning accuse di spionaggio, cosa che sarebbe più agevole in caso di pubblicazione dei materiali segreti solo da parte della stampa straniera.
Assange è d’accordo. Ian Traynor ricorda: «Assange conosceva delle persone al New York Times. Si preoccupava che il materiale venisse pubblicato negli Stati Uniti e non soltanto all’estero. Capiva che tutta l’operazione sarebbe stata più vulnerabile se si fosse svolta esclusivamente fuori dagli Stati Uniti».
Inoltre Assange insiste affinché, in ogni caso, il New York Times sia messo in condizione di diffondere i file cinque minuti prima del Guardian. Questo accorgimento, a suo giudizio, diminuirà per Manning il rischio di essere incriminato per violazione dell’Espionage Act. Traynor suggerisce la possibilità di imbarcare nell’operazione anche Der Spiegel di Berlino. Fa notare che il settimanale d’informazione tedesco dispone di solide risorse finanziarie e che tra l’altro anche la Germania è coinvolta con le sue forze armate in Afghanistan.
Assange aggiunge invece che se tutta questa faccenda andrà avanti, lui pretenderà il controllo dei tempi di pubblicazione del Guardian. Non vuole uscire allo scoperto troppo presto se questo potrebbe in qualche modo danneggiare Manning. Ma è anche preparato a pubblicare ogni cosa all’istante se ci sarà qualche attacco a WikiLeaks.
Assange riapre il suo computerino e copia alcune parole sul tovagliolo dell’hotel Leopold, dopodiché le cerchia con una penna. È la password per decrittare i file che sarà possibile scaricare dal sito provvisorio. Il materiale sarà cifrato con il programma Pgp (Pretty Good Privacy). Senza conoscere la password, il sito rimarrà virtualmente inaccessibile, a meno che un intruso non riesca ad azzeccare i due grandi numeri primi necessari per avviare la decrittazione. Armati della password, gli uomini del Guardian saranno presto in grado di accedere ai file afgani. Gli altri tre pacchetti di informazioni promessi arriveranno in un secondo momento.
Assange e Davies si trovano d’accordo anche nell’adozione di qualche ulteriore cautela. Davies spedirà a Assange un’email dicendo che non se ne fa niente e che non è possibile raggiungere un accordo. (L’email, scritta il 23 giugno, dice: «Sono tornato alla base sano e salvo. Grazie per il tempo che mi hai dedicato. Non devi scusarti se non sei stato in grado di darmi ciò che sto cercando. Non importa»). L’idea è quella di gettare un po’ di polvere negli occhi degli americani. Alla fine i due si separano.
Così quella sera stessa il Guardian entra in possesso dei file afgani. Un’incredibile fotografia, ora per ora, della vera guerra che si combatteva sulle montagne e nelle strade polverose dell’Hindu Kush. Ma lì per lì non sembra così. Per i primi cinque o sei giorni, il materiale afgano pare impossibile da leggere. «Era un cavolo di affare complicatissimo da cui estrarre informazioni, lentamente e con grande difficoltà», racconta Davies. Ciononostante, Davies spedisce un’email trionfante a Assange: «Le ragazze sono arrivate e sono in buone mani».

l’Unità 17.10.11
La magia di Rosa che disse di no
Un libro narra di quella piccola donna nera che rifiutò di cedere il posto sull’autobus a un bianco e che riscattò così la sua gente dalla segregazione
di Chiara Valerio


Successe nel 1955 Favola vera sui diritti con Amnesty International
«L’autobus di Rosa» di Fabrizio Silei è illustrato da Maurizio A. C. Quarello (pagine 40, euro 15,00) Pubblicato in Italia da Orecchio Acerbo, all’interno di una coedizione internazionale che ha coinvolto anche Francia, Germania, Spagna, Grecia, Brasile e Portogallo con il sostegno di Amnesty International.
Rosa Parks (1913-2005), da Montgomery, Alabama, ha svegliato gli indifferenti d’America. Rischiando di essere picchiata o uccisa («omicidio giustificabile», perché «i neri non hanno diritti»). Trasformò la sua paura in fede, che si rafforzò quando capì che era nel giusto, sperando che altri l’avrebbero seguita nella sua decisione di essere liberi.

Hanno arrestato una nostra donna, su un autobus, perché non ha voluto cedere il posto. Noi allora, per protesta, non prendiamo l’autobus. Intesi?». Nelle favole non sempre ci sono folletti, fate, animali parlanti e spade nella roccia, in certe favole c’è solo una donna, gracile e con gli occhiali, che senza alzare, non dico un dito, ma nemmeno un sopracciglio, riesce a fare avverare il desiderio che tutti abbiano almeno per un attimo le medesime possibilità e che poi vedano che farci.
Nelle favole non sempre qualcuno fa qualcosa, può succedere pure che qualcuno non faccia qualcosa e che la magia si compia comunque. Così succede ne L’autobus di Rosa (orecchio acerbo, 2011) di Fabrizio Silei e A. C. Querello che racconta la storia di Rosa, una donna nera, minuta e con gli occhiali che, nell’Alabama del 1955, mentre la segregazione razziale arriva fino alle seggiole degli autobus, si rifiuta di cedere il posto a un bianco e viene incarcerata. Ma Rosa è quieta, Rosa sorride, Rosa non sa che, dal giorno dopo, nessun nero prenderà piú un autobus per protesta, mettendo così in crisi l’economia dei trasporti pubblici dell’Alabama e costringendo la Corte Suprema ad accelerare una decisione.
«Signora! È ancora in tempo, si alzi! Le disse, quasi supplicandola. Lei, quieta, lo guardò, gli sorrise e scosse la testa. Poi l’autista tornò con due poliziotti, la presero di forza e l’alzarono di peso dal sedile. Lei rimase immobile e si lasciò trasportare fino all’auto come una regina sul suo baldacchino. Le misero le manette come a una delinquente e io non feci nulla, niente di niente».
La storia viene raccontata da un uomo che il primo dicembre 1955 è sull’autobus con Rosa ma che non muove un muscolo, né per difenderla né per dissuaderla e al quale l’unica cosa che è rimasta da fare per correggere l’errore di paura è raccontare perché non succeda ancora. L’uomo è un nonno che porta il nipote in gita in un museo. Così comincia. Una giornata qualsiasi. Invece vuole raccontare al nipote che non bisogna mai abbassare lo sguardo di fronte ai soprusi, che non bisogna avere paura, che, anche quando sembra impossibile, l’unione è la forza, e che trattare il prossimo come sé stesso è la magia che ha fatto Rosa quella sera sull’autobus. Ha trattato un bianco come un nero, un nero come un bianco, e ha dimostrato, con l’aiuto di tutti, che una persona come una persona senza aggettivazioni sul colore della pelle, e che sull’autobus le uniche regole che valgono sono quelle della cavalleria, della gentilezza, dell’educazione.
«Nel 1955 avevo 26 anni, e vivevo a Montgomery, in Alabama. Non avevo studiato granché, ma sapevo leggere e scrivere. Allora non c’erano classi di bambini di tutti i colori come la tua. I neri avevano la loro scuola, i loro locali, i loro bagni pubblici, la loro vita. (...) Sulla porta di molti locali era appeso un cartello con sopra scritto WHITES ONLY, solo per i bianchi, vietato ai neri insomma».
Ma nelle pagine curate, colorate e bellissime de L’autobus di rosa, non c’è solo il piccolo gesto di una donna che diventa una grande rivoluzione per una intera popolazione, c’è tutta la storia dei neri d’America negli anni Cinquanta, le violenze del Ku Klux Klan, i primi passi del reverendo Martin Luther King, e che prosegue, fino a noi, con l’elezione di Obama. Tutto anche per Rosa e il suo No sull’autobus.
Con i disegni che ricordano Hopper ma che sono più assolati e, per le tavole degli anni Cinquanta anche più spavaldi e dolenti, con Rosa che a un certo punto, in una immagine, ha gli occhi intensi, sereni e intelligenti di Simone Weil, Fabrizio Silei e A. C. Querello ci raccontano la storia della possibilità che viene data a tutti di scegliere, come tutti, e alla quale bisogna essere preparati, perché nessuno sa sotto quale forma si presenterà il futuro. L’autobus di Rosa ci dice che il futuro è sempre intatto e spesso ci si arriva con i mezzi pubblici, insieme agli altri. «quello dove sei seduto tu è il posto che occupava Rosa quel giorno. Questo dove sono seduto io era il mio. Il posto che cedetti per paura, per non saper dire No». Perché una storia abbia un lieto fine non ci vogliono fate, folletti, armi magiche ma solo qualcuno che abbia coraggio per tutti. Almeno uno.

La Stampa 17.10.11
Edvard Munch
L’occhio dell’inquietudine
Un’imponente mostra al Centre Pompidou di Parigi ripercorre la produzione novecentesca dell’autore dell’Urlo. E si scopre che fu anche fotografo
di Francesco Poli


Naturalmente, quando si va a visitare una mostra importante di Edvard Munch, ci si aspetta di vedere L’urlo , l’icona quintessenziale della solitudine e dell’angoscia dell’uomo moderno, ma questo capolavoro del 1893 è clamorosamente assente al Centre Pompidou. È vero che il quadro, dopo il furto del 2004 e il suo tribolato ritrovamento, è ormai bloccato nel suo museo di Oslo, ma non sono esposte neanche le altre versioni disegnate o in litografia. E credo che si tratti di una scelta voluta dai curatori per non fissare ancora una volta, in modo prevalente e troppo emblematico, l’attenzione sul periodo più celebrato della ricerca dell’artista norvegese, quello degli Anni 90 incentrato su Il fregio della vita , ciclo simbolico dedicato ai temi dell’amore, dell’angoscia e della morte. E in effetti l’intenzione di questa esposizione che presenta circa centoquaranta opere (tra dipinti, disegni, acquerelli, fotografie e anche una scultura e un breve filmato) è quella di sottolineare soprattutto la modernità di Munch, la sua appartenenza a pieno titolo anche alla ricerca più vitale del XX secolo. Il che vuol dire che Munch non deve essere solo considerato come un artista che (relativamente influenzato all’inizio da Van Gogh e Gauguin) si afferma come precursore e maestro dell’espressionismo con connotazioni simboliste specificamente nordiche.
È vero che i caratteri fondamentali della originalissima e drammatica espressività esistenziale della sua pittura si definiscono molto presto, ma è anche vero che, sia pure senza sostanziali soluzioni di continuità stilistica e senza rotture formali d’avanguardia, il suo linguaggio si evolve per decenni in presa diretta con lo spirito del tempo in termini di intensità e di profonda autenticità estetica, fino agli straordinari esiti della sua fase finale. In questo senso, diventa più significativo dell’anno di nascita (1863) quello della sua morte nel 1944, lo stesso della scomparsa di due altri grandi innovatori come Kandinskij e Mondrian. E allora si può comprendere il fascino tragicamente esistenziale (in cui risuona sempre l’eco lontana e ossessiva dell’ Urlo ) degli ultimi autoritratti, tra cui in particolare Tra il letto e l’orologio a pendolo , dove si vede in una stanza, in mezzo a questi due oggetti, la figura quasi fantasmatica del vecchio artista in piedi. E un dipinto di assoluta evidenza allo stesso tempo realistica e simbolica.
Per evidenziare la dimensione moderna della personalità dell’artista e della sua opera, i curatori Angela Lampe e Clément Chéroux, hanno articolato il percorso espositivo non in ordine cronologico ma per sezioni tematiche piuttosto variate. Le prime due sale mettono in scena un interessante confronto fra le versioni originali di celebri dipinti degli Anni 80/90 (tra cui La fanciulla malata , Pubertà , Le ragazze sul ponte , Il bacio , Vampiro ) e alcune delle rielaborazioni successive. Qui si può da un lato vedere l’evoluzione della pittura in termini sempre più fluidamente sintetici e cromaticamente accesi, e dall’altro riflettere sul senso di queste operazioni di reiterazione degli stessi temi sicuramente legate alla necessità di riattualizzare la scintilla delle emozioni creative più profonde, ma anche all’esigenza di soddisfare le richieste di mercato (secondo alcuni non benevoli critici).
In ogni caso la ripresa quasi ossessiva di composizioni precedenti era sicuramente un aspetto peculiare del processo operativo del pittore come dimostra la sala in cui è esposta una mirabile sequenza di variazioni della Donna che piange , del 1907/8. E a questo riguardo possiamo vedere anche una foto di una modella nuda in piedi, scattata dall’artista stesso. Ma questa è la sola foto usata come libero riferimento per un lavoro pittorico. Tutte le altre foto che Munch ha fatto in due distinti periodi della sua vita (dal 1902 al 1910, e dal 1926 al 1932) sono soprattutto autoritratti in primo piano o in mezzo ai suoi quadri, foto dello studio e qualche veduta esterna. Queste immagini, che sono esposte in due salette, sono uno degli aspetti interessanti della mostra. È chiaro che Munch non aveva ambizioni da fotografo, ma era fortemente attratto dalla possibilità di usare la macchina fotografica come un mezzo per conoscere meglio se stesso «dall’esterno», e per fissare la stretta connessione fra sè e la sua opera. Lo stesso vale per l’uso di una piccola cinepresa, di cui rimane un breve e curioso film in cui l’artista riprende se stesso che osserva incuriosito l’obiettivo. Tutto questo ha a che fare con la sua ansia di introspezione che, oltre alla serie notevole di autoritratti, si sviluppa anche in tarda età attraverso affascinanti e inquietanti lavori in cui ormai semi-cieco, cerca di rappresentare la sua stessa visione perturbata, con effetti addirittura astratti.

La donna in lacrime A sinistra il confronto tra Femme en pleurs , un olio su tela del 1907 e la fotografia della modella Rosa Meissner realizzata dallo stesso Munch

Corriere della Sera 17.10.11
Non fu un suicidio ma morte accidentale
Van Gogh, un nuovo giallo

qui

Repubblica 17.10.11
La favola delle monete
La storia del denaro, da Aristotele a Wall Street
In "Testa e croce" Giorgio Ruffolo percorre vicende secolari. E si interroga su crisi economiche come quella attuale
di Nello Ajello


La tempesta finanziaria odierna è prodotta dal senso attribuito ai soldi. Che non sono più mezzo, ma fine
Fu la mancanza dello Stato a impedire che l´Italia assumesse nel Rinascimento la leadership mondiale

VENEZIA - Sono almeno 500 le firme raccolte dall´appello lanciato dalla Nuova Venezia a favore della Biennale di Paolo Baratta e del modello creato in questi anni di rapporto con la città. Tra i firmatari, il regista Marco Tullio Giordana, lo storico dell´arte Cesare De Seta, i giornalisti Vittorio Emiliani e Corrado Stajano, gli urbanisti Vezio De Lucia ed Edoardo Salzano. Si aggiungono al poeta Andrea Zanzotto, alla coreografa Carolyn Carlson, allo storico dell´architettura e rettore dell´Iuav Amerigo Restucci, al presidente dell´Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti Gian Antonio Danieli e quello dell´Ateneo Veneto Michele Gottardi. L´appello è indirizzato al ministro Giancarlo Galan che nei giorni scorsi ha designato quale presidente della Biennale il manager pubblicitario Giulio Malgara. Per sottoscrivere l´appello, basta collegarsi al sito www.nuovavenezia.it.

A chi lo conosce non da oggi, Giorgio Ruffolo può apparire un mito o un proverbio. È un economista dall´aria ironica, avverso allo specialismo. Mai categorico, dà l´impressione di accogliere le critiche alle sue idee con una sagacia che non sempre anima chi si ritiene coerente a se stesso per influsso divino.
Devo parlare d´un suo libro, che è appena uscito. È «una breve storia della moneta», e ha un titolo in linea con la piacevolezza di tante sue pagine, Testa e croce (Einaudi, pagg. 180, euro 17). Si tratta, a prima vista, d´una favola ad uso degli adulti. L´autore si aggira fra divinità, sovrani e cortigiani, guerre e razzie leggendarie, bibliche immigrazioni dalle coste della Lidia dominate dall´opulentissimo re Creso – il primo creatore di monete che si conosca - a quelle greche e poi romane, fino agli scrigni del Rinascimento e ai forzieri, solo immaginari, dei potentati monetari di oggi. I primi passi per inventare e consolidare la moneta, e quelli via via successivi, rientrano in episodi che riguardano i despoti e i poveracci (più i secondi, benché spesso ignari, che i primi). Nei brani che Ruffolo trascrive da un suo canovaccio mentale risuonano firme celebri che commentano quell´ingombrante feticcio, la moneta, da Aristotele ad Erodoto, da Aristofane a Terenzio, da Tacito a Petronio, da Virgilio a Tito Livio, fino ai "moderni" Machiavelli o Erasmo. Per poi approdare ai nostri contemporanei o quasi: Lenin o Bucharin fra i politici, poi Keynes, Dahrendorf o Hobsbwam, Le Goff o Braudel, quei colleghi in economia o storia che l´eleganza di Ruffolo gli vieta di trattare da pari a pari quasi usassero darsi del tu. Non si ha mai l´impressione, scorrendo le pagine, di vedersi esibita davanti agli occhi una qualsiasi bibliografia, sembra invece di partecipare a uno scenario di volta a volta gaio o malinconico in cui i quattrini lambiscono il pennino degli annalisti o dei poeti, sgorgano dalle tasche dei gregari, scivolano sul triclinio dei potenti.
A volte un richiamo etimologico facilita il compito di capire: apprendi, o ricordi, che la «pecunia» dei romani deriva da «pecus» (bestiame) primo strumento del baratto alle soglie della moneta; scopri che il fatidico termine «capitale» ha più o meno la stessa origine evocando il capo («caput») d´un branco; che il «soldo» discende dal «solidus» aureo di Costantino e che il fiorino - questo «dollaro del Medioevo» - prenderà il nome dal «flos», il giglio, simbolo urbano di Firenze; o che il sostantivo «banca» può legarsi al fatto che i clienti affidavano i loro risparmi ai cambiavalute riscuotendo un interesse sotto banco. E così non susciterà meraviglia la notizia che «moneta» è il derivato con l´iniziale minuscola di Giunone Moneta, venerata a Roma come una super-dea ammonitrice e salvifica. E così, fu sempre Roma a sottrarre alle immagini incise sul retto o sul rovescio degli spiccioli i simboli astratti – le teste di leone al tempo di Creso, o la civetta delle monete ateniesi – sostituendoli con precise scene mitologiche, la lupa accanto ai gemelli Romolo e Remo, o con eventi realistici: le navi vittoriose ad Anzio, gli elefanti di Pirro.
Via via che le sue storie s´avvicinano a noi, il libro si discosta dalla leggenda o dall´epica. Approda alla vita. Scendono in campo, nel palcoscenico monetario, le città-Stato italiane, Amalfi, Venezia, Genova, Pisa, con un dinamismo che farà epoca. Dominano nel commercio fiorito tra le due sponde del Mediterraneo, gli impongono i loro caratteri etnici. «Il mercante italiano non si presenta come uno speculatore sedentario. È invece un viaggiatore inquieto, un esploratore di lungo corso», riferisce Ruffolo catturando nella memoria i «viaggi arditissimi» che i naviganti italici compivano intorno al globo sulle orme di Marco Polo. La storia del denaro s´imbeve d´effluvi marittimi. Tra acqua e terra, gli italiani inventano «tutte le "diavolerie" della finanza moderna»: la lettera di cambio, lo scoperto di conto corrente, l´assegno, la partita doppia. Il piglio dinamico della moneta impregna la storia, «A differenza degli economisti, il capitalismo non si riposa mai», scrive l´autore con il suo humour garbato.
Che cosa impedì, allora, che il nostro paese assumesse la leadership mondiale dell´economia? Risposta secca: fu la mancanza dello Stato. Quella temporanea condizione di predominio, «insieme con la libertà e l´indipendenza dell´Italia, naufragò nella sua impotenza politica». È una situazione ricorrente: si direbbe che quella condanna, con le cento varianti imposte dai tempi, ci insegua ancora.
Il Cinquecento segna, di fatto, il declino della supremazia italiana. Avendo conquistato il nuovo Mondo, l´intera Europa sarà al centro della rivoluzione commerciale. Moneta e potenza militare sono più che mai sinonimi. Con il termine «secolo lungo» vengono designati nel libro i cicli percorsi dall´egemonia delle varie nazioni: quella «ispano genovese» nel Cinque e nel Seicento, quella olandese (Sei-Settecento), quella britannica (Otto-Novecento). Infine quella americana dal secolo scorso ad oggi, e forse ancora avanti.
Forse: è questa la riserva che domina nel finale. Ci si domanda che cosa subentrerà al regno del dollaro che sembra scosso dalla crisi in cui viviamo. Essa viene chiaramente indicata nel senso negativo attribuito alla moneta: non più un mezzo ma un fine, il che, in termini più tecnici significa «un´esplosione dell´indebitamento e della liquidità». Si preannunzia, per caso, un nuovo primato nazionale: quello della Cina? Ruffolo lo ritiene improbabile, non fosse altro, scrive, per «esplicita indisponibilità della Cina stessa». E allora? Ciò che forse ci aspetta è «una condizione di ansia cronica punteggiata da crisi più o meno gravi», o la «precipitazione verso crisi economiche e conflitti politici devastanti». L´autore si risparmia ogni stupore. «Non è che non sia mai accaduto», avverte. E così un libro intessuto di storie e parabole piacevoli «desinit in piscem», come si diceva al tempo delle monete coniate in casa o in cortile. Conosce, cioè, un mesto epilogo. Scommetto che Giorgio Ruffolo è il primo a soffrirne.