mercoledì 19 ottobre 2011

La Repubblica 14.10.11
Bersani, il liceale ribelle che ora ammira Ratzinger

L´attività politica di Pier Luigi Bersani comincia con due scioperi. Da chierichetto organizza la protesta dei compagni per ottenere la distribuzione diretta delle mance. A scuola vuole impedire gli interventi dei professori nelle assemblee. E un giorno incrocia le braccia da solo contestando l´insegnante di latino e greco.
Non proprio l´esordio più promettente per il profilo riformista che il segretario del Pd si è costruito negli anni successivi. Peccati di gioventù. C´è anche questo nel libro intervista a cura dello storico Miguel Gotor e del giornalista Claudio Sardo che oggi Laterza manda in libreria. Per una buona ragione, il titolo.
Un po´ autobiografia, ma soprattutto il manifesto politico e civile di Bersani. Che non entra nei dettagli della polemica quotidiana, non si sofferma sulla questione della leadership, sui contrasti interni del Partito democratico. Poche pagine sono riservate al tema annoso delle alleanze.
Per dire con chiarezza qual è il suo pensiero: «Se il centrosinistra dovesse vincere le prossime elezioni con la coalizione naturale Pd-Idv-Sel, il giorno dopo io proporrei al Terzo polo un governo da fare insieme. Per ricostruire le basi istituzionali del Paese».
Gran parte del volume è dedicato alle riflessioni del segretario su un nuovo umanesimo, sul rapporto tra sé e la religione, tra il Pd e la Chiesa.
A sorpresa e a dispetto di tante voci nel suo stesso partito, Bersani considera Benedetto XVI un Papa moderno. «Ratzinger ha validi strumenti per mettersi in contatto con la modernità in modo amichevole e al tempo stesso sfidante - scrive -. Invoca una ragione che non si autoriduca a ciò che è sperimentabile e un diritto naturale che non accetti il perimetro definito da scienziati e biologi».
Con questa impostazione, dice Bersani, «non si fatica a interloquire».
Il segretario del Pd, laureato in Filosofia con una tesi su San Gregorio Magno, vuole a sua volta interloquire con il mondo cattolico, con i credenti del Pd, con chi gli rimprovera di voler dare un segno di sinistra al Pd lasciando ad altri il compito di rappresentare cattolici e moderati.
Ma la Bibbia del segretario, malgrado le attenzioni e la preparazione sulla materia, resta «la Costituzione repubblicana». L´intervista vuole anche demolire l´immagine di uomo pragmatico che spesso è stata piegata nella considerazione generale al "pragmatico e basta". «Valori e ideali» sono invece la vera base del politico Bersani e del partito che guida.
Realista, però, sì. Come quando pronostica un´apertura al Terzo polo a prescindere dalla loro collocazione al momento del voto. E realista sul futuro leader. Si parte anche da lui, ma si sceglie quello giusto per vincere. Realista, e non da oggi, quando contro il suo stesso Dna territoriale e politico distrugge il modello emiliano, per anni vanto del Pci.
«Mai usata quella formula. Serviva a dimostrare agli italiani la nostra distanza dall´Est per ingraziarsi la borghesia. Ma finì per alimentare un istinto di conservazione». Rivela che nel 1994 «fra Veltroni e D´Alema» scelse il secondo ma avrebbe di gran lunga «preferito una terza persona».
Non ci sono polemiche nel libro, non ci sono sassolini da togliersi. I nomi di dirigenti vecchi e nuovi sono quasi tutti nelle domande degli autori. Nelle risposte poco o nulla. A Matteo Renzi, destinato a un ruolo di protagonista nel futuro, riserva solo un´osservazione: «È più faticoso rottamare la destra che rompere la cristalleria in casa propria».

Repubblica 19.10.11
Cinese, la nuova lingua globale
Do you speak mandarino?
di Giampaolo Visetti


Mandarino contro inglese. Oriente e Occidente non si fronteggiano solo sui mercati finanziari e nella corsa al riarmo. La Cina acquista i debiti di Europa e Stati Uniti, domina il commercio, si prepara a sostituire euro e dollaro con lo yuan, prossima valuta mondiale di riserva, ma prima di tutto punta a conquistare la comunicazione del secolo.
Dieci anni fa nessuno avrebbe immaginato che il putonghua avrebbe superato la Grande Muraglia. Nel 2011, senza che nessuno se ne accorgesse, l´ennesimo primato è battuto: dall´inizio di ottobre il cosiddetto cinese è la lingua che il maggior numero di stranieri ha iniziato a studiare. Un boom senza precedenti, per quantità e rapidità. Nel 2000 erano poco più di due milioni i non cinesi che tentavano di imparare gli ideogrammi del mandarino. Oggi sono 50 milioni e la domanda è talmente forte che scuole e università si scoprono spiazzate. La Cina diventa la seconda potenza economica del pianeta e il "cinese" è già la prima potenza linguistica.

È la madrelingua di 850 milioni di individui e altri 190 milioni lo parlano perfettamente come secondo idioma, pari al 70% dei cinesi. L´inglese, che ha dominato l´ultimo secolo, è compreso oggi da 340 milioni di madrelingua, oltre che da 510 milioni di non anglofoni.
Per governi e multinazionali il problema non è però il confronto assoluto dei numeri. Conta la tendenza e negli ultimi cinque anni tutto lascia presagire che entro il 2015 il mandarino, più ancora dello spagnolo, ultimerà la rincorsa all´egemonia culturale nell´economia e nella politica. «Il risultato - dice il professor Li Quan dell´università Renmin di Pechino - è storicamente scontato. Chi domina la ricchezza, da sempre impone il linguaggio. Ormai è chiaro che la Cina avrà il potere commerciale nel lungo periodo e l´Occidente si rende conto della necessità di conoscerla e di capire come funziona. L´ascesa del mandarino e il tramonto dell´inglese sono lo specchio popolare della realtà».
Non che la Cina si sia affidata alla curiosità delle persone e alla necessità dei mercati. Nessun governo ha investito tanto per imporre la propria lingua agli altri. Il primo Istituto Confucio all´estero ha aperto nel 2005. In cinque anni ne sono seguiti 315 in 94 Paesi e quest´anno gli stranieri iscritti ai corsi di mandarino hanno sfondato quota 230 mila. Un´esibizione impressionante del nuovo soft power di Pechino: 5 mila insegnanti inviati e mantenuti in ogni angolo della terra, con l´ambizione di aprire mille scuole Confucio entro il 2015. Negli Stati Uniti si parla già di "febbre cinese", la destra conservatrice lancia l´allarme sul «rischio di sconnessione dal Vecchio Continente», ma la stessa Europa guarda sempre più verso Oriente. Un rapporto della Bce ha certificato che il mandarino è già la «lingua più ambita dalle imprese», che un neolaureato in grado di parlarlo accorcia di un terzo l´attesa per il primo impiego e che le multinazionali germaniche iniziano a inserire la conoscenza del cinese come pre-requisito per un colloquio di lavoro.
Sarebbe però un grosso errore limitare lo sguardo all´Ovest. E´ in Asia e nei Paesi in via di sviluppo che la lingua degli antichi funzionari imperiali (mandarino deriva da mantrin, ossia "ministro" delle dinastie prerivoluzionarie) si sta affermando quale lingua franca alternativa all´inglese. Il Pakistan da quest´anno l´ha resa obbligatoria nelle scuole. Il presidente russo Medvedev ha proclamato il 2010 anno della lingua cinese in Russia. In Corea del Sud e Giappone gli iscritti ai corsi di mandarino crescono del 400% all´anno, mentre gli ex satelliti sovietici dell´Asia centrale stanno sostituendo il cinese al russo.
Kazakhstan, Turkmenistan e Azerbaigian, serbatoi energetici di Pechino, dal 2012 offriranno agli studenti lezioni ed esami universitari sia nella lingua nazionale che in mandarino, mentre nessuna capitale dell´Africa è più sprovvista di un Istituto Confucio. Il simbolo dell´imminente passaggio di consegne linguistico è però la Gran Bretagna, culla dell´idioma mondiale successivo alle guerre mondiali del Novecento. Fino a due anni fa, 300 mila cinesi emigravano tra Oxford e Cambridge per laurearsi in inglese. Oggi sono oltre mezzo milione, possono concludere gli studi nella propria lingua madre, mentre tutti gli atenei più prestigiosi si contendono docenti di mandarino a colpi d´ingaggio. «Siamo davanti ad un´epocale rivoluzione del linguaggio umano - dice Zheng Wei, docente della facoltà di lingue di Pechino - ma le difficoltà restano: il mandarino è complicato e non è affatto scontato che chi afferma di studiarlo, riesca a impararlo».
Gli stessi cinesi hanno atteso fino al 1956 per arrendersi. Prima dell´ordine di Mao Zedong, teso a rafforzare l´identità nazionale, nel Dragone si contendevano il potere linguistico il cantonese, lo shanghaiese, il mandarino, il tibetano e altre decine di dialetti regionali. Il partito comunista optò infine per il linguaggio da sempre proprio del potere e nell´ultimo mezzo secolo il mandarino s´è imposto anche a Taiwan, a Singapore (dove è parlato da un quarto della popolazione) e alle Nazioni Unite, adottato tra le sei lingue ufficiali. Resta lo scoglio della difficoltà. Priva di alfabeto, organizzata per ideogrammi, la lingua comune dei cinesi obbliga a memorizzare migliaia di termini e di segni, ognuno dotato di quattro significati differenti a seconda dell´intonazione con cui viene pronunciato. Arte e creazione, per i calligrafi, abituati a misurare intelligenza e tasso culturale di un individuo in base alla grazia dei segni.
«L´industria della comunicazione - dice Wang Ying, dirigente del colosso Lenovo - ne sta prendendo atto. I cinesi scrivono sempre meno a mano e gli stranieri stentano a impugnare i pennelli. Entro dieci anni ogni modello di computer e di telefono avrà tastiere doppie mandarino-cinese. Ma può non essere azzardato prevedere che entro il secolo sarà l´umanità stessa a semplificare il proprio modo di comunicare, riducendo a due gli idiomi correntemente utilizzati».
Mandarino contro inglese, dunque, e non è solo una contesa culturale. Da quest´anno il primo ha conquistato il record di incremento in Giappone, Corea del Sud, Usa, Ue, Africa e Brasile. L´inglese perde terreno anche a favore dello spagnolo, in Europa si assiste al ritorno del tedesco, mentre le imprese editoriali lamentano l´insufficienza di libri, insegnanti e risorse per l´apprendimento del "cinese". L´Unesco stima un fabbisogno globale di docenti prossimo ai 20 mila all´anno e Pechino la scorsa settimana ha chiesto ai propri emigrati di prestarsi a tenere corsi serali in istituti superiori e atenei stranieri. Un anno senza pratica e senza esercizio, l´assenza di soggiorni in Cina, e i risultati sfumano. «Il problema - dice il professor Li Quan - è che non c´è gara tra la passione dei cinesi che studiano inglese e quella di questi che si applicano al mandarino. Il risultato è che la Cina comprende l´Occidente, ma non viceversa. E´ tempo per certificare i livelli progressivi di conoscenza del mandarino con attestati riconosciuti e da rinnovare, come avviene per l´inglese».
Non sapere il mandarino è il nuovo incubo di uomini d´affari e professionisti e per la Cina è un successo senza precedenti. Perfino i contratti iniziano ad adottare gli ideogrammi e nelle trattative politiche e commerciali le delegazioni di Pechino pretendono di esprimersi nella lingua madre. E´ lo scenario per il 2050: due miliardi di parlanti mandarino, opposti a 500 mila di anglofoni. Quattro a uno, come il peso economico, il valore della valuta e le proprietà detenute all´estero. Pochi oggi sanno dire grazie ad un cinese, ma nessuno ignora cosa vuol dire «thank you». Non sarà più così. Lezione numero uno: «Xie Xie». Meglio procurarsi un manuale made in China, Pontida compresa, se si ambisce ad un posto di lavoro. Altrimenti si ingrosseranno le file degli analfabeti sopravvissuti alle crisi dei debiti sovrani: e anche ordinare un espresso al bar cinese sotto casa, potrebbe diventare un´impresa.

Repubblica 19.10.11
Corsi universitari e viaggi-studio
l’Italia scopre gli ideogrammi
di Irene Maria Scalise


Paolo ha appena 10 anni ma già da quattro frequenta un corso di cinese. Marco è un imprenditore che, da mesi, vive sospeso tra Italia e Cina. Luisa è un´insegnante di latino con il desiderio d´imparare una lingua nuova. Sono solo alcuni tra gli allievi che, da qualche anno, affollano le aule dei più dei cento istituti specializzati nell´insegnamento del cinese in Italia. Una lingua antica che, in tempi di crisi, diventa modernissima. Masticarla con disinvoltura, per molti, rappresenta la possibilità di un futuro migliore. Ecco allora spiegarsi il fiorire di nuove scuole, il boom di corsi universitari, l´aumento di prenotazioni per i viaggi studio nei mesi estivi. Siamo tutti cinesi, insomma. Attenzione però, avvertono gli esperti, bisogna studiare seriamente. Frequentando un corso di tre o quattro ore settimanali per tre anni, e svolgendo regolarmente i "compiti a casa", si raggiunge un livello discreto. E sono in molti ad affrontare con entusiasmo l´avventura.
«L´aumento di corsi di cinese è esponenziale ovunque», racconta Federico Masini, ex preside della Facoltà di Studi Orientali della Sapienza, «in molti licei è diventato la terza lingua e al Convitto Nazionale di Roma si studia più ore dell´italiano. Crescono anche gli istituti Confucio che, in Italia, negli ultimi dieci anni sono diventati undici. Un boom sostenuto economicamente dal ministero dell´Istruzione cinese che, ogni anno, investe dai cinque ai sei milioni di euro per portare in Italia i suoi insegnanti». E proprio dall´istituto Confucio di Roma, la professoressa Tiziana Lioi snocciola dati confortanti: «Nel 2006 il nostro primo ciclo di lezioni raggiungeva 180 studenti, nel 2008 sono diventati 200 e lo scorso anno saliti a 300. Gli iscritti sono decisamente trasversali, con un´età dai 14 ai 70 anni, si avvicinano a noi per necessità lavorative ma anche per semplice curiosità».
Tra gli allievi del Confucio, già da tempo, ci sono bambini tra i 6 e i 12 anni. «Ogni sabato i più piccoli frequentano un corso con disegni, canzoni e conversazione», precisa la Lioi, «iscrivere i bambini ad una scuola di cinese, per mamme e papà, è un modo per assicurare ai figli un´opportunità nel futuro professionale. Spesso i genitori sono nostri studenti ma talvolta gli adulti, incuriositi, seguono l´esempio dei figli». E a Milano, dalla prossima settimana, la scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina inaugurerà una classe dedicata ai piccoli dai 4 ai 6 anni. Il responsabile della scuola, Francesco Boggio Ferraris, spiega: «In 11 anni ho visto dei grandi cambiamenti, oltre ai bimbi abbiamo architetti, designer, chi lavora nella moda o nelle nuove tecnologie. La sensazione, confortata dall´aumento di richieste per il Chinese for business comunication, è che per molti sia un´opportunità di business. Due anni fa avevamo 30 corsi per 160 studenti mentre lo scorso anno sono saliti a 47 corsi per 325 studenti». Le richieste più frequenti? «Quella delle aziende per consulenze personalizzate aumentate, nell´ultimo anno, quasi del 90%».
Impennata d´iscrizioni anche per il Centro Linguistico Cinese di Milano. «Nel 2010 i nostri allievi sono aumentati del 20%», spiega la professoressa Zhu Xueling, «anche noi abbiamo corsi per bambini, tra i 7 e i 14 anni, perché sono sempre di più i genitori che pensano che il mercato della Cina non si può ignorare». Ma, dicono in coro gli insegnanti, oltre alla conoscenza della grammatica è importante uno studio del cinese globale, che comprenda la cultura e lo stile di vita così lontano da quello italiano.

Repubblica 19.10.11
Addio brevetti sugli embrioni
Per la Ue sono “vita umana”
di Elena Dusi


ROMA - Se l´embrione umano non è brevettabile, non lo sono neanche le cellule staminali che da quell´embrione sono state prelevate. Con questo sillogismo la Corte di giustizia europea ha annullato ieri la richiesta di brevetto dello scienziato tedesco Oliver Brüstle, che nel 1997 riteneva di aver trovato un trattamento per il Parkinson grazie alla ricerca sulle staminali ricavate da embrioni umani.
La sentenza dei giudici di Lussemburgo però non si limita ad archiviare una diatriba del passato. Chiude anche la porta del futuro a una ricerca - quella sulle staminali embrionali - che dopo aver lavorato per circa 20 anni nei laboratori sta provando oggi a entrare nelle stanze dei malati. E che ritiene di non riuscire a compiere il salto senza l´aiuto delle case farmaceutiche. Quindi dei brevetti.
Come ogni decisione che riguarda le staminali embrionali - cellule che vengono estratte da esseri umani in fieri e ne comportano la distruzione - la sentenza della Corte di giustizia ha spaccato il mondo di ricercatori, medici e bioeticisti in due posizioni inconciliabili. La prima vuole vietare la distruzione di embrioni umani, prodotti in passato con tecniche di fecondazione assistita, non usati per gravidanze e lasciati nei congelatori in attesa di un destino incerto. La seconda posizione sostiene che la ricerca sulle staminali ha l´obiettivo di curare di malattie molto gravi.
Sul primo fronte, la Commissione degli episcopati della Comunità Europea ieri ha accolto «con favore la sentenza sulla non brevettabilità della ricerca che usa embrioni umani», auspicando che «la politica di finanziamento della ricerca nell´Ue» si adegui. Che, cioè, ai laboratori che si occupano di queste cellule siano decurtati i fondi.
«È una scelta che rimpiangeremo» commenta invece Ian Wilmut, lo scienziato dell´università di Edimburgo "padre" di Dolly, la prima pecora clonata. «Anni di ricerca buttati via» e «un disastro per l´Europa» è stata la reazione di Brüstle. Elena Cattaneo, la ricercatrice dell´università di Milano che studiando le staminali tenta di trovare una cura a varie malattie degenerative del sistema nervoso, spiega il perché: «In laboratorio facciamo ricerca. Scopriamo un meccanismo. Mettiamo a punto una possibile terapia. A quel punto nessuno di noi è in grado di portare la terapia ai pazienti. Abbiamo bisogno dell´industria farmaceutica. Ma da oggi la sentenza chiude ogni sbocco pratico al nostro lavoro e nega ai malati una possibile cura».
Brüstle, direttore dell´Istituto di neurobiologia ricostruttiva all´università di Bonn, riuscì a trasformare le staminali in neuroni. I neuroni - dopo ulteriori sperimentazioni - avrebbero potuto essere impiantati nei pazienti per alleviare il Parkinson. Alla richiesta di brevetto, presentata il 19 dicembre 1997, si oppose Greenpeace nel 2004, sostenendo che "la vita non può essere oggetto di copyright". Dopo vari gradi di giudizio in Germania, la vicenda è approdata alla Corte europea, che ieri ha sentenziato: «Un processo che implica l´estrazione di una cellula staminale da un embrione umano alla fase di blastocisti, e che quindi comporta la distruzione dell´embrione, non può essere brevettato». La decisione è inappellabile e valida per i 27 paesi dell´Ue.
Ad attendere la decisione della Corte europea c´erano circa 150 richieste di brevetto su trattamenti con le staminali umane (soprattutto per cecità e diabete), che ora potranno essere presentate in Asia o America. I brevetti concessi in passato cadranno invece al primo appello. Ma secondo Bruno Dallapiccola, genetista e direttore scientifico dell´ospedale Bambino Gesù di Roma, il danno per l´Europa non è rilevante: «Molti successi arrivano dalle cellule staminali non embrionali ma riprogrammate, oppure da quelle adulte». Per il ministro della Salute Ferruccio Fazio si tratta di «una scelta saggia». Ma la decisione, replica Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata radicale e presidente onoraria dell´Associazione Luca Coscioni, «cancellerà i risultati delle ricerche compiute finora insieme ai possibili benefici per i malati».

martedì 18 ottobre 2011

«COME PREVISTO», SECONDA FASE. ECCO A COSA SERVONO I BLACK BLOC:
Asse Di Pietro-Maroni. Di Pietro chiede misure eccezionali
La ricetta di Maroni. Divieto per i cortei e leggi speciali
Il Viminale studia anche una norma ad hoc contro i centri sociali
Pronto il reato, “associazione di carattere militare con scopi politici”
Una nuova fattispecie di reato: gli «atti preparatori» a un delitto
Maroni pensa a una lunghissima «flagranza differita», di 5 o perfino 7 giorni
Alemanno vieta il corteo Fiom a Roma
Pd contrario, la maggioranza si spacca
Vietti (Csm): "No a provvedimenti sull'onda dell'emotività"

«Governo degli incappucciati. Oltre a distruggere la manifestazione degli Indignati e a devastare Roma, le bande organizzate servono su un piatto d’argento a Maroni nuove leggi di polizia e il blocco del corteo Fiom Naturalmente dei giovani senza lavoro né futuro e dei ricchi che tolgono ai poveri nessuno parla più» su il Fatto 18.10.11

Corriere della Sera 18.10.11
Quelle voci su un patto per i seggi con Vendola dietro gli incidenti
di Giovanni Bianconi


ROMA — C'è anche la storia di un accordo segreto — vero o presunto, rinfacciato o negato — dietro gli scontri che col fumo dei blindati in fiamme hanno oscurato la manifestazione di sabato. Un accordo siglato da una parte dei leader del movimento antagonista per ottenere qualche seggio parlamentare alle prossime elezioni nelle liste di Sinistra ecologia e libertà, il partito di Vendola, che li avrebbe portati a dire troppi «sì» alle imposizioni istituzionali; ultima quella di un percorso del corteo del 15 ottobre lontano dalle sedi della politica, dal Parlamento a Palazzo Chigi, alla residenza di Berlusconi.
Per questo i «dialoganti» responsabili della manifestazioni ispirate alle proteste spagnole sono finiti nel mirino dei «duri», più affascinati dai fuochi delle rivolte greche. Niente infiltrati, ma due fronti che si conoscono bene, giovani e meno giovani che in queste ore e nei prossimi giorni discutono e discuteranno, accusandosi a vicenda.
«Io più che con chi ha fatto gli scontri ce l'ho con chi li copre — diceva subito dopo i tumulti Andrea Alzetta detto "Tarzan", uno dei capi del collettivo romano Action — senza nemmeno avere il coraggio di partecipare agli assalti. Gente che per mascherare la pochezza di un insurrezionalismo senza prospettive alimenta la rabbia incontrollata che non porta da nessuna parte». Tarzan, rappresentante dell'opposizione più radicale al consiglio comunale di Roma, è additato come uno degli artefici del presunto patto con Sel, ipotesi che lui smentisce con fermezza: «Non c'è nessun patto, né abbiamo intenzione di candidarci a livello nazionale», assicura.
L'accusa è arrivata nella stessa serata di sabato sul sito Askatasuna.org: «Gli organizzatori dei comizi finali in piazza San Giovanni avevano desistito da tempo dallo sfilare verso i palazzi del potere romano, l'unica cosa incisiva in una giornata del genere». Subito dopo ecco il riferimento al patto segreto: «Oggi poteva solo succedere qualcosa in più dei piani prestabiliti, spiace che ci sia chi non ha voluto vedere e si è voluto coccolare il suo orticello fatto di qualche poltroncina con Sel alle prossime elezioni».
I nomi più ricorrenti dei possibili deputati nelle file vendoliane per i «disobbedienti» oggi «indignati» sono quelli del padovano Luca Casarini e del romano Francesco Raparelli. I quali, pur rivendicando il diritto di interloquire con chiunque ritengano opportuno, smentiscono. Ma sul sito Globalproject.info, prima ancora della «reazione scomposta e violentissima della polizia in piazza San Giovanni», criticano quei «pochi» che «hanno messo in pericolo chi voleva manifestare e diviso il movimento, con pratiche di conflitto irresponsabili oltre che inutili (bruciare auto o cassonetti in via Labicana: altro che assedio ai palazzi del potere!)».
A questo punto, che il patto negato dagli interessati sia reale oppure una velenosa insinuazione conta poco. Conta che se ne parli, come avviene sui social network che hanno sostituto le assemblee di un tempo. In un messaggio su Facebook si sostiene che l'accordo è stato raggiunto dopo una serie di incontri culminati nel raduno abruzzese di fine agosto chiamato «Tilt camp», e per conto di Sel i garanti sarebbero Gennaro Migliore e Nicola Fratoianni: «Tutto ciò non è andato giù agli esclusi: i torinesi, parte dei milanesi e dei romani e molta parte di un mondo che non è conosciuto quasi da nessuno ma che Casarini, Raparelli e Alzetta conoscono benissimo. Nelle liti nelle birrerie di via dei Volsci (sì, sempre lì, da oltre trent'anni), e per le strade romane e sulla Rete, sono nati gli scontri di sabato».
A farla breve, l'accusa nei confronti dei «dialoganti» è di aver piegato la manifestazione alle pretese della questura e della prefettura, accontentandosi di una protesta poco più che folcloristica. E allora, contro chi vende un corteo per un seggio in Parlamento, fiamme e sampietrini a volontà.
Così si spiegherebbe almeno una parte degli scontri, secondo un piano rivendicato da chi alimenta il dibattito attraverso la Rete: «Chi ha organizzato il 15 ottobre voleva una sfilata pacifica fino a una piazza lontana dai palazzi del potere con i soliti comizi finali. Un compromesso di comodo per alcuni. Non serviva essere particolarmente intelligenti per capire che non sarebbe andata così».
Per buttare all'aria il tavolo del presunto accordo segreto, i violenti hanno potuto contare sulla complicità di spezzoni di corteo che li hanno accolti, facendogli conquistare le prime posizioni a dispetto delle intese. Raccontano gli organizzatori che le frange «più vivaci» dovevano restare in coda, invece qualcuno ha consentito che si presentassero in testa o quasi, sorprendendo anche le forze dell'ordine rimaste immobili per ore. Il risultato è stato un crescendo di devastazioni fino agli assalti di San Giovanni. Sui quali qualcuno, all'interno del movimento, auspica una resa dei conti che però non passerà per le denunce dei violenti alla polizia. «Piuttosto che fingere che non sia successo niente è meglio rompere definitivamente», dice uno dei promotori della manifestazione che evoca i servizi d'ordine di una volta, mentre Raparelli e Casarini avvertono: «Non è più possibile rinviare un ragionamento pubblico sulle forme di autoregolamentazione dei cortei».

Repubblica 18.10.11
Perché solo in Italia è esplosa la guerriglia urbana?
L’anomalia della violenza
di Miguel Gotor


Perché solo in Italia è esplosa la guerriglia urbana? La domanda non va elusa, anzi la condanna della violenza dovrebbe accompagnarsi a uno sforzo analitico per evitare di trasformarla in un rito autoassolutorio.
La furia di sabato è il risultato di un insieme di fattori culturali, politici, ideologici, economici e istituzionali che si sono progressivamente incistati nel corpo italiano: alcuni sono specifici e di lungo periodo, altri congiunturali e comuni ad altri Paesi, ma è la loro miscela ad avere innescato la miccia della sovversione.
Sul piano culturale scontiamo una responsabilità antica, quella di non essere stati capaci di fare i conti con la violenza degli anni Settanta: la demonizzazione delle Brigate rosse è stata funzionale a relativizzare, sino a occultarle, le responsabilità dell´area di contiguità, l´acqua dove a lungo hanno nuotato quei pesci. Abbiamo esecrato la lotta armata, ma prima blandito e poi rimosso la violenza extraparlamentare, preferendo scegliere la strada dell´interessato cabotaggio politico. Gli effetti revisionistici sono sotto gli occhi di tutti: ieri nel Corriere della Sera ancora si raccontava la favola che «Nel 1977, gli studenti romani cacciarono Luciano Lama dalla Sapienza. Erano poche centinaia, ma interpretavano un disagio diffuso che Cgil e Pci non rappresentavano più». Nessuno, in realtà, ama ricordare che quell´assalto fu organizzato da Autonomia operaia ed era guidato, fra gli altri, dal brigatista Bruno Seghetti, spalleggiato da Emilia Libera e Antonio Savasta, che tutti sapevano essere tali e che partecipavano regolarmente alle assemblee del movimento del ´77 in rappresentanza delle Br, fino a pochi giorni prima del rapimento di Aldo Moro: assemblee pubbliche, non congregazioni di clandestini. Su questa ambiguità costitutiva è germogliata un´operazione "nostalgia", alimentata da mitizzazioni, arzigogolii classificatòri e reducismi, che quanti oggi frequentano le aule universitarie vedono sopravvivere con il loro corollario di citazioni, simboli e parole d´ordine, che legano una generazione all´altra, come anelli arrugginiti di una sola lunga catena.
Si è poi in presenza di una crisi del sistema politico, la cui rappresentanza parlamentare non è mai stata così debole sul piano dell´autorevolezza e tanto spostata a destra. Nel 2008, tra gli sciagurati effetti della cosiddetta vocazione maggioritaria, nel forzoso tentativo di rendere l´Italia non solo bipolare, ma anche bipartitica, è scattato il meccanismo del voto utile che ha cancellato la sinistra radicale dal Parlamento. Essa, anche negli anni più bui del terrorismo, ha sempre rappresentato un punto di riferimento per l´antagonismo extraparlamentare, un´area di compensazione, di mediazione e di dialogo venuta meno all´improvviso, prosciugando lo spazio tra istituzioni e società, Palazzo e movimenti.
C´è anche una crisi ideologica strettamente connessa a quella politica. Siamo intossicati da anni di propaganda che, a destra come a sinistra, ha inculcato negli italiani l´idea che fare politica sia una cosa sporca per definizione e che tutti sono ladri. Si sarebbe dovuto distinguere la polemica giustificata contro i costi della politica, che appartiene per tradizione a un pensiero dell´austerità di derivazione progressista, da quella contro la casta che in tutte le sue varianti (elitista-liberale, qualunquista, fascista, gauchista) ha sempre aperto la strada alla reazione. Ma si è rinunciato a farlo: per pigrizia, per furbizia, per interesse, per demagogia, o per continuare a puntellare il governo di Berlusconi spostando il fuoco dell´attenzione dalle responsabilità dell´esecutivo verso una generica e generale dequalificazione della politica e del Parlamento nel loro insieme, che, nel condannare tutti indistintamente, finisce per assolverli. Ora, però, si inizia a pagarne le conseguenze. In questo vuoto pre e post politico si inseriscono con maggiore facilità proposte demagogiche speculari come l´annuncio di nuove misure restrittive da parte del ministro degli Interni Maroni o la richiesta di leggi speciali come quella avanzata da Di Pietro. Sarebbe più utile e serio impegnarsi ad applicare le norme già esistenti e soprattutto non continuare a umiliare le forze di polizia, costringendole a fare la colletta per pagarsi la benzina come denunciato in queste ore dai sindacati di categoria.
Esiste poi un problema economico legato alla cosiddetta «generazione 1000 euro», precaria e senza futuro. Manca il lavoro e quello che c´è è sporco, ma una persona senza lavoro è priva della sua dignità, della possibilità di avere una speranza. È out, escluso dall´universo dei consumi e dei sogni e, in tempi di crisi economica, ciò provoca uno scatto nevrotico, da cui possono scaturire il gesto violento, privo di ragione, poiché è il prodotto di una sragionevolezza quotidianamente vissuta che non si sa più gestire sul piano psicologico. Disperata. Tali meccanismi non sono tipicamente italiani: sono gli stessi che hanno indotto in Francia e in Inghilterra i figli degli immigrati di prima generazione a distruggere le periferie di Parigi e di Londra, o i giovani di Atene a tentare di assaltare il Parlamento. L´originalità nostrana è che il problema riguarda ancora giovani italiani, che non chiedono democrazia perché sanno che la democrazia li ha traditi non riuscendo a mantenere le sue promesse. Sono una grande questione sociale che dovrà trovare delle risposte politiche riformiste all´altezza perché altrimenti la fuga sarà a destra, secondo il solito circuito repressione/consenso alimentato dal populismo. L´altra specificità italiana è che il processo di americanizzazione (il tuo valore si misura in base al guadagno, la competizione è un dovere morale) è avvenuta in assenza di una società aperta, fondata sulla responsabilità individuale come negli Usa. Da noi si è venduto un sogno consumistico senza che nessuno potesse viverlo in base alle proprie capacità, ma solo se garantito da una famiglia alle spalle (che offre casa, lavoro, assistenza) o da una corporazione. Tutto ciò si trasforma nell´abuso sempre più intollerabile di un mondo chiuso, in cui la libertà diventa privilegio e l´escluso è indotto a scegliere tra le strade della depressione, dello sballo, del nichilismo, della corruzione o della violenza: verso se stesso, o verso gli altri.
C´è infine il fattore Berlusconi, il problema istituzionale di un governo senza autorevolezza. Negli ultimi mesi questa è la seconda volta che Roma viene messa a ferro e fuoco. Sarà un caso, ma ciò è avvenuto sempre quando si votava la fiducia al suo pencolante esecutivo. L´impressione è che ci sia la convenienza nel provocare, in ore di attesa e di instabilità politica, il ribellismo sociale così da diffondere l´idea che un cambio di fase farebbe precipitare il Paese nel caos. Non c´è bisogno di infiltrare o di eterodirigere, è sufficiente lasciar fare, allargare i cordoni della prevenzione e del contenimento, gestire "politicamente" l´ordine pubblico, un´attitudine al "sovversivismo dall´alto" in cui le classi dirigenti italiane hanno una lunga ed efficace tradizione. La violenza di sabato era ampiamente attesa, monitorata e monitorabile, ma serve per spegnere la vitalità di un movimento in gran parte pacifico, per annichilire l´etica del bene comune che lo alimenta, per bruciare l´idea di un cambiamento possibile che contribuisca a un risveglio italiano.

il Riformista 18.10.11
Molti sapevano. E i Servizi?
di Tommaso Labate

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il Fatto 18.10.11
Una disorganizzazione perfettamente sospetta
di Furio Colombo


Sabato 15 ottobre è una data da ricordare. Quel giorno è finita la manifestazione spontanea del dissenso contro un governo che pure molti (in Italia e nel mondo) giudicano indegno di governare e comunque dedito ad attività inutili, illegali o sconce. È accaduto che una violentissima e bene organizzata sequenza di azioni distruttive, da parte di squadre di giovani mascherati, detti “Black bloc”, abbia cancellato il senso e la testimonianza di una manifestazione pacifica, organizzata assieme ad altre centinaia di eventi del genere (tutti pacifici e indisturbati) nel resto del mondo. Dovunque tali eventi volevano dire dissenso profondo e distacco assoluto da governi e misure detti di “austerità” che impongono ai cittadini, incluse le masse senza lavoro, i fallimenti di un’epoca di incontrollate attività di finanza a beneficio di pochi. Un solo governo, quello ormai illegale di Berlusconi (dopo la bocciatura alla Camera della legge sulla contabilità dello Stato, bocciatura che non è sanabile) non ha tollerato la grande manifestazione di dissenso dei cittadini. La manifestazione è stata colpita con inaudita violenza e una modesta e disorientata protezione della polizia. C’è un rapporto diretto fra un pessimo governo (che non tollera alcun tipo di critica e controlla tutta l’informazione) e la distruzione del dissenso tramite violenza organizzata? Non sono in grado di dimostrarlo ora, ma lo dico perché la coincidenza fra protesta, distruzione violenta della protesta, e stroncatura, d’ora in poi, di ogni altro tentativo di protesta pubblica contro il governo, è troppo clamorosa per confinarla nei limiti di poche centinaia di persone cattive, che rompono persino le statue della Madonna. La buona organizzazione che è mancata alla polizia, era ferrea fra gli uomini in nero. Forse è un caso. Forse.

il Fatto 18.10.11
Il pesce puzza dalla testa
di Caterina Soffici


Raccontare cosa non è successo a Londra spiega in parte ciò che è successo a Roma. Ossia le ragioni dell’eccezione italiana. Ora che tutti i soloni italiani hanno aperto le proprie bare e hanno riesumato insipidi minestroni sul ritorno dei cattivi maestri, gli anni Settanta, Lama, il servizio d’ordine dei bei temi andati e tutto il repertorio di chi per questioni anagrafiche è portato nostalgica-mente a rileggere sempre e comunque la storia con gli occhi delle propria giovinezza, cerchiamo invece di guardare gli avvenimenti italiani attraverso quello che è accaduto all’estero. Perché a Roma tanta violenza e nel resto del pianeta il movimento degli Indignati ha potuto protestare pacificamente?
SABATO a Londra c’erano qualche migliaio di protestanti nella zona della City. La polizia ha bloccato duemila persone che cercavano di forzare il blocco e ha impedito loro di entrare nella zona del London Stock Exchange, la Borsa, simbolo del capitalismo. A Londra stamani gli impiegati della City passavano tranquillamente a piedi con i loro vestiti blu e le ventiquattrore in mano davanti alle tende dove un centinaio di protestanti si sono accampati e dove dichiarano di restare fino a Natale. Sono sul terreno dell’Abbazia di St Paul’s, quindi la polizia non li può sloggiare. Dalla cattedrale hanno chiesto di usare rispetto, niente di più. C’e gente che porta cibo, ci sono i generatori per la corrente, i fornelli da campo. Alcuni lavoratori della City che passavano di lì hanno dichiarato di condividere i motivi della protesta e di simpatizzare con gli “Occupy Wall Street”, che protrebbe sembrare un controsenso, ma che dimostra quanto questo movimento sia nuovo e che non si possa giudicarlo e misurarlo con i vecchi parametri.
Perché Roma sembra così lontana? La polizia britannica ha seguito regole ben chiare. Sabato il cordone delle forze dell’ordine ha controllato la protesta. Memore di quanto è successo con i riots di agosto , i fermi preventivi sono stati molti. Alcuni sono stati rilasciati subito dopo poche ore. Altri verranno processati (con regole certe e condanne forse troppo dure, ma certamente esemplari). La polizia metropolitana non usa armi (sono muniti di manganello, fischetto e manette), solo i corpi speciali di Scotland Yard sono armati e in caso di manifestazioni l’uso di lacrimogeni e idranti non è la norma . Paradossalmente le forze dell’ordine inglesi sono più garantiste perché hanno poteri più ampi.
UN AGENTE in pattuglia (senza armi) può fermare, perquisire e portare alla stazione di polizia per accertamenti qualunque persona lui ritenga con “ragionevole sospetto” che stia per commettere un reato e sia in possesso di un’arma impropria. E in più la magistratura può chiedere provvedimenti restrittivi della libertà personale (tipo obbligo di firma o interdizione da certi luoghi) in occasione di certi avvenimenti per certi soggetti. Tipico è il caso delle tifoserie violente, ma questa facoltà è stata usata ampiamente anche prima del Royal Wedding, quando sono state effettuate vere e proprie “retate” in ambienti che si reputavano a rischio. La polizia inglese opera secondo il principio della “policing by consent”, il che non vuol dire che ti arresta solo se sei d’accordo. Significa mettere a disposizione della cittadinanza un servizio di polizia che opera con l’approvazione della cittadinanza stessa. L’esistenza stessa delle forze di polizia è dettata da un patto sociale con il popolo per cui a certe persone è demandato il compito di far rispettare le regole e la legge. Il poliziotto è al servizio del cittadino prima che della legge. E questo già spiega molte cose.
L’eccezione italiana ha anche anche un risvolto culturale che noi italiani tendiamo sempre a sottovalutare. Non si può pensare che il clima di Montecitorio non valichi quelle mura? Quando un ministro La Russa manda affanculo Fini, quando il ministro Angelino Alfano lancia la sua tessera contro i banchi dell’Idv, quando si sfiora la rissa ogni volta che c’è una votazione, quando la bagarre è perpetua e trasborda (scortata dalle auto blu con lampeggiante) direttamtente dalle sedi istituzionali ai salotti televisivi, prosecuzione catodica della rissa, non viene in mente a nessuno che il pesce puzza sempre dalla testa?

il Riformista 18.10.11
Se si sfila con caschi e bastoni
di Emanuele Macaluso

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il Fatto 18.10.11
Pagheremo un prezzo troppo alto
di Paolo Flores d’Arcais


La rivolta è sacrosanta, il teppismo no, neppure per disperazione. Gli incappucciati che hanno bruciato macchine o devastato un negozio di “delikatessen” o mandato in frantumi la filiale di una banca, non hanno inferto nessun colpo “al cuore” (o al dito mignolo) dell’establishment, hanno invece impedito a duecentomila “indignati” di manifestare. Hanno impedito la rivolta, hanno calpestato la democrazia: col loro squadrismo. Il ministro dell’Interno ha responsabilità decisive, c’è l’analisi lucida di un poliziotto che le spiega perfettamente ( http://temi.repubblica.it/   micromega-online/15-ottobre  riflessioni-di-un-poliziotto  ). Ma il regime si servirà delle proprie colpe per qualche repressione a casaccio o per nuove “leggi Reale” (Di Pietro è impazzito?). Ora gli indignati vogliono riprendere la loro rivolta sacrosanta, individuando e denunciando teppisti e squadristi, perché non ci riprovino più. Pagheranno comunque un prezzo, altissimo. Che avrebbero potuto evitare, se non avessero lasciato spazio all’ambiguità. C’erano gruppi e sigle che esigevano l’assalto ai palazzi del potere: ovvio che fossero incompatibili con la strategia degli indignati. Perché non sono stati esclusi subito? Perché questa soggezione, questa paura di rompere con chi vuole comunque la manifestazione/assalto? Aver legittimato la loro partecipazione parassitaria e inconciliabile è l’errore imperdonabile. Ora, speriamo che il movimento rinasca. Perché c’è più che mai bisogno di indignazione e di rivolta. Democratica.

il Fatto 18.10.11
La responsabilità di difendere un diritto è dello Stato
di Maurizio Viroli


Se i violenti riescono ad arrivare nella città dove si svolge la manifestazione, è molto difficile per le forze dell’ordine proteggere sia il corteo sia la città. Ne è prova quanto è avvenuto in altre città europee e americane, dove forze dell’ordine bene equipaggiate e bene addestrate hanno incontrato serie difficoltà. Ma impedire l’arrivo dei provocatori non dovrebbe essere impossibile, soprattutto con le moderne tecniche d’individuazione e d’intelligence, se c’è ferma volontà politica di farlo. Manifestare pacificamente è una fondamentale libertà civile. Il governo, e in particolare il ministro dell’Interno, hanno il dovere di difenderla con la massima determinazione e competenza. Un ministro dell’Interno che si rivela incapace di farlo dovrebbe dimettersi, se fosse una persona seria. Di fronte ai violenti organizzati, i cittadini pacifici disorganizzati possono fare ben poco. A Roma, i ragazzi e le ragazze che si sono mobilitati per esprimere il loro giusto sdegno nei confronti della corruzione politica che sta distruggendo il loro presente e il loro futuro, si sono comportati con saggezza e coraggio. Se vogliono difendere il movimento che hanno costruito da soli devono mantenere i nervi saldi e intensificare gli sforzi per isolare i provocatori. Il servizio d’ordine delle manifestazioni sindacali e del vecchio Pci riusciva quasi sempre a impedire ai violenti di infiltrarsi nel corteo, e non permetteva a nessuno di indossare un casco, o coprirsi il volto o brandire spranghe. I giovani del movimento potrebbero fare altrettanto. Ma deve essere chiaro che la responsabilità principale di difendere la libertà di manifestare è sempre e solo dello Stato.

Corriere della Sera 18.10.11
Quella piazza che sorprende la sinistra
di Paolo Franchi


Di sicuro il popolo degli indignati, compresi quelli più allergici alla violenza organizzata, non prova alcuna simpatia (basta vedere quel che è capitato a Marco Pannella) per Silvio Berlusconi. Anzi, lo detesta. Ma, anche se pochi ci hanno fatto caso, alla manifestazione di sabato Berlusconi, inteso come il nemico principale, non c'era. O, se c'era, se ne stava in una posizione molto defilata. Al centro della scena, prima che ad occuparlo provvedessero gli incappucciati, il grosso dei manifestanti aveva collocato altri e più poderosi avversari. Il capitalismo, le banche, una democrazia «truccata» che terrebbe loro bordone. La violenza organizzata che ha svuotato la piazza e spostato tutto o quasi sul piano dell'ordine pubblico non basta a cancellare una novità come questa, che, negli anni scorsi, nemmeno il marxista più ortodosso avrebbe osato anche solo immaginare.
Può darsi che i professionisti e i semiprofessionisti della guerriglia urbana riescano a ridurre all'afasia un movimento assai più ampio, più trasversale e, soprattutto, più legato alle condizioni materiali di esistenza di quanto si creda: in parte ci sono già riusciti. Ma, se questo movimento riuscirà nonostante tutto a ritrovare la parola, la sua agenda, sotto i colpi di una crisi che forse è ancora soltanto agli inizi, proverà a dettarsela da solo. E molto difficilmente sarà quella di una politica «ufficiale», chiamiamola così, che da vent'anni o giù di lì ruota pressoché solo attorno al dilemma: Berlusconi sì, Berlusconi no, impermeabile a tutto quello che le capita attorno. Non c'è da esserne soddisfatti, ma molto preoccupati. A destra, perché il risentimento per promesse mille volte ripetute e mai mantenute lambisce pericolosamente una parte consistente dell'elettorato del Pdl e della Lega. E soprattutto a sinistra, perché almeno a prima vista gli striscioni, i cori, le parole d'ordine attorno alle quali si riempiono le piazze hanno molto da spartire con un passato neanche troppo lontano, e rischiano di mettere alle corde un riformismo gracile e stentato. Ignorarli non si può, farli propri nemmeno, di corteggiarli promettendo che un voto parlamentare prima o poi defenestrerà Berlusconi non se ne parla.
Nella realtà, è vero, le cose sono più complicate. Del senso comune «anticapitalistico» degli indignati colpisce soprattutto il primitivismo. Il rifiuto totale e ostentato della politica «ufficiale» sembra una caricatura della cuoca di Lenin, quella che avrebbe dovuto governare, seppure a rotazione, in prima persona, ma ha parecchio da spartire con l'antipolitica diffusa a piene mani, più da destra che da sinistra, in questi anni. E, quanto alla finanza rappresentata come un odioso vampiro, si potrebbe ricordare che rappresentazioni non troppo dissimili sono state un ingrediente fondamentale dell'antisemitismo. Tutto vero: probabilmente le stesse categorie di destra e di sinistra, per lo meno per come ci sono state consegnate, non ci aiutano troppo a comprendere il senso comune di questo movimento.
Ma se questo senso comune esiste (e, chiunque lo sa, esiste) è difficile pensare di cavarsela alzando il ditino e facendogli le bucce. Magari, per cominciare, sarebbe il caso, sempre che non sia troppo tardi, e si disponga degli strumenti politici e culturali necessari, di alzare per un attimo lo sguardo. Per cercare di capire come sia cambiata l'Italia, chi sono i suoi giovani, come vivono, che cosa pensano di se stessi e del loro futuro che non c'è, sì, ma pure della società che li circonda e, perché no, di noi. E per chiederci che cosa di sensato, litanie a parte, abbiamo da dire e da offrire loro. Una destra rispettabile lo farebbe, una sinistra rispettabile pure: forse ne nascerebbe un confronto vero sulla crisi e sulle possibili vie per superarla, persino quel poco che resta del nostro bipolarismo si rianimerebbe un po'. Con ogni probabilità non lo faranno né la prima né, quel che è peggio, la seconda. E saranno guai seri.

Corriere della Sera 18.10.11
La lezione di Capitini ai tempi dei black bloc
di Paolo Di Stefano


Mentre si discute di manifestazioni violente, di black bloc e della presenza dei cattolici in politica, sarebbe utile tornare a leggere Aldo Capitini, il maggior pensatore italiano della nonviolenza, poeta, filosofo, educatore, libero religioso, idealista pratico alla Gandhi, che non si vergognava di associare la politica all'etica: a proposito di Pannella e di Bandinelli diceva di essere «alquanto critico perché sono "politici" e forse senza gli scrupoli che per me contano». Morto nel 1968 e (troppo) poco ricordato anche in questo cinquantesimo anniversario della Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli da lui creata nel 1961, Capitini credeva in una visione religioso-sociale non da mistico ma da razionalista.
La sua «disobbedienza civile» e la sua «non collaborazione» erano tutto il contrario del «solo violenza aiuta / dove violenza regna» di brechtiana memoria. Lo si può leggere, Capitini, nel sito a lui dedicato, dove si capisce bene che valore abbiano i suoi concetti di «tramutazione» e di «omnicrazia». Gianfranco Contini, che lo conobbe a Perugia già negli anni Trenta, lo definiva «uno di quei temperamenti risorgimentali più atti a elaborare la resistenza alla tirannia che ad amministrare il grigio quotidiano», una natura «più fatta per la penombra carbonara che per la luce elettrica della politica attiva». Il filologo gli attribuì, tra l'altro, il merito di aver fatto della Normale di Pisa il centro della resistenza intellettuale e di aver spogliato Francesco d'Assisi dell'«estetismo imbecille» voluto da «bigotti e dilettanti» sin dal Trecento: «San Francesco — scrive Capitini —, mentre i cattolici facevano le crociate e scannavano i saraceni tanto che il sangue arrivava alle ginocchia, andava a parlare di nonviolenza ai saraceni».
Sono frasi tratte da un libretto appena uscito per le Edizioni dell'Asino, dove vengono raccolte molte lettere che Capitini mandò ai suoi amici dal '47 in poi. Tra i suoi amici ci sono Guido Calogero, Goffredo Fofi, Walter Binni, Danilo Dolci, Norberto Bobbio. Capitini era fautore di una discussione e di una educazione civica dal basso, una specie di democrazia diretta che riuscisse a integrare la democrazia parlamentare. Il suo motto era «spendere la propria vita giorno per giorno», preparando la pace (e una società più giusta) durante la pace, cosa che il suo amico Carlo Levi trovava prosaica. L'obiettivo era «creare figli, costituire una grande cassa di risonanza, di solidarietà e di azione, anche per utilizzare atti generosi di pochi». Non per questo si faceva grandi illusioni. Al punto che avvertiva realisticamente che «questa cassa di risonanza, o unione di animi» non c'era, anche perché molti suoi amici pensavano alle loro carriere e «a mettersi nelle cricche protettive». Il visionario aveva capito benissimo come vanno le cose del mondo: Capitini sarebbe un maestro ideale degli attuali indignati pacifici privi di leader. Probabilmente oggi sarebbe schierato con loro. E contro molti dei suoi amici di un tempo.

Corriere della Sera 18.10.11
Le norme del '75 che non fermarono la violenza diffusa
di Pierluigi Battista


Partorita nel ’75 per governare con più efficacia l’ordine pubblico sconvolto, la legge Reale non riuscì tuttavia a scongiurare l’annus horribilis dell’ordine pubblico in Italia: il 1977. Un disastro. Un paradosso

Uno dei mille paradossi di cui è intessuta la storia di quei provvedimenti che dovevano dare alla polizia gli strumenti necessari ad arginare i devastatori delle piazze, i violenti, i professionisti della guerriglia urbana. È anche un paradosso che a richiederne oggi una versione ancora più agguerrita sia non la destra «law and order», ma un esponente della sinistra come Di Pietro (come pure è un paradosso che Di Pietro stia a sinistra, del resto).
È un paradosso che quella legge fosse intestata a un uomo mite come Oronzo Reale, ministro di Grazia e giustizia del '75 nel governo Rumor, repubblicano, già militante dello scomparso Partito d'Azione. La legge prevedeva una facoltà più ampia da parte della polizia nell'uso delle armi negli scontri di piazza, l'arresto non in flagranza di reato, l'impossibilità di scendere in piazza mascherati e coperti con caschi e sciarpe. Prevedeva soprattutto un periodo lunghissimo, 48 ore, entro il quale un cittadino italiano poteva essere tenuto in stato di fermo dalla polizia senza che ne fosse avvisata l'autorità giudiziaria, più altre 48 in cui l'autorità giudiziaria poteva convalidare il provvedimento di fermo. Una norma decisamente non garantista, foriera di abusi, preavviso di uno Stato di polizia, fonte potenziale di soprusi inimmaginabili. Nel '75, nel nome della «lotta alla repressione», il Pci, dall'opposizione, votò contro la legge. Ecco un altro paradosso: proprio il partito che aveva votato contro la legge, ne diventerà negli anni successivi il paladino più intransigente. Non era solo un cambio d'opinione. Era l'Italia che stava vivendo un periodo sconvolgente di violenza e di terrore. E quando il Pci decise di farsi Stato, decise anche che quello Stato doveva essere inflessibile, senza tregua con l'estremismo politico, all'occorrenza spietato, come avvenne nei giorni del rapimento Moro, quando il partito di Berlinguer scomunicò chiunque si fosse avvicinato alla sola idea di una trattativa con i terroristi.
Era cambiato anche il Psi. Quello pre-craxiano aveva votato a favore della legge. Quello nuovo di Craxi non portò il dissenso fino alla rottura, ma neanche difese a spada tratta la «legge Reale» che trovava nuovo alimento politico e culturale nell'atmosfera del compromesso storico. Craxi era il politico più vicino ai Radicali, che della legge Reale furono i nemici più accaniti. Era il più lontano dalla tenaglia del compromesso storico. Le geometrie politiche si stavano stravolgendo, in quegli anni bagnati dal sangue delle vittime del terrorismo, dei poliziotti e dei manifestanti uccisi durante gli scontri di piazza.
Quando il Pci votò contro, nel '75, il suo sguardo era rivolto all'indietro, all'epoca dell'Italia repubblicana in cui i reparti della Celere manganellavano i braccianti, gli operai della Cgil, gli studenti di sinistra non ancora militarizzati. Quando il Pci divenne invece l'alfiere culturale del clima di intransigenza incarnato nella legge intestata a Oronzo Reale, nel '77 gli «Autonomi» a Roma travolgevano il servizio d'ordine sindacale disposto a difesa del palco di Lama nell'Università di Roma: una disfatta da non dimenticare, anche per chi oggi rimpiange i bei tempi dei servizi d'ordine in grado di isolare i violenti e tenere e bada le frange casiniste nei cortei. Sempre nel '77 erano comparse nuove armi ancora più micidiali e devastanti delle Molotov e della spranghe: le P38. Sempre nel '77 a Bologna gli estremisti di tutta Italia invasero la città guidata da Renato Zangheri come simbolo della «repressione», appoggiati da un manifesto di intellettuali francesi che descriveva l'Italia del compromesso storico come una propaggine del Gulag. Erano gli anni in cui i nomi di Francesco Cossiga e Ugo Pecchioli (il ministro dell'Interno del Pci) venivano storpiati col K. Kossiga e Pekkioli.
Tutto questo avveniva con la legge Reale in vigore. Ma la sua difesa divenne un feticcio quando, nel '78, Dc e Pci si impegnarono allo spasimo contro il referendum radicale che di quella legge (assieme a quella sul finanziamento dei partiti) voleva l'abrogazione. Il fronte abrogazionista fallì, sebbene per il Sì avesse votato un elettorato più ampio dell'esile schieramento capeggiato dai Radicali che voleva l'abolizione di quella legge «liberticida». Restano nella memoria collettiva le invettive infuocate che i massimi dirigenti comunisti rivolgevano ai Radicali. Senza la legge Reale, disse Paolo Bufalini, «sarebbero in libertà Vallanzasca e Concutelli». Secondo Luigi Longo i referendum radicali non andavano «contro la manovra eversiva in atto». I Radicali fecero partire le querele. Sul Tg2 il notista politico Emmanuele Rocco, un grande del giornalismo televisivo molto legato alla linea comunista, esordì con queste parole nel suo servizio nel giorno del referendum: «Oggi sperano in una vittoria del Sì fascisti, brigatisti e mafiosi». Oggi si chiede una legge Reale bis. Il bis sul linguaggio forsennato della politica è stato già raggiunto.


dall’articolo di Gian Guido Vecchi sul Corsera: tra (cosiddetti) progressisti e (cosiddetti) conservatori si tratta di fare «rete» per «coniugare etica sociale e etica della vita». La dottrina sociale della Chiesa è «il patrimonio di dottrina e di sapienza che costituisce la terra solida e la bussola per il cammino». Fermo restando, ripete Bagnasco, che «esiste un ordine e una gerarchia costitutiva» e il primato è dei «valori non negoziabili» che sono «le sorgenti stesse dell'uomo», elenca il presidente della Cei: «L'inizio e la fine della vita umana, il suo grembo naturale che è l'uomo e la donna nel matrimonio, la libertà religiosa ed educativa». Senza questi «valori primi», dice il cardinale, «è illusorio pensare a un'etica sociale che vorrebbe promuovere l'uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità»
l’Unità 18.10.11
Bagnasco: cristiani non omologati alla cultura dominante
Il presidente della Cei: «La partecipazione alla sfera sociale è un obbligo. L’assenteismo è un peccato di omissione
I temi eticamente sensibili restano la nostra priorità»
di Ro. Mo.


I cattolici hanno il dovere di far sentire la loro voce. Sarebbe un peccato di omissione non farlo». Arriva forte ed esigente il richiamo del presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, alla variegata galassia del laicato cattolico che si è data appuntamento ieri, al convento Montesanto di Todi, per partecipare al seminario «sulla buona politica» organizzato dal Forum delle associazioni cattoliche del mondo del lavoro.
«I cattolici protagonisti della politica italiana» è l’obiettivo ambizioso dell’incontro, tenutosi rigorosamente a porte chiuse. Il tempo della diaspora parrebbe essere alle spalle. Si cerca l’unità per recuperare rilevanza e offrire al paese riferimenti e valori certi, indispensabili per affrontare la crisi morale oltre che economica e politica che attraversa il paese.
«I cristiani sono diventati nella società civile massa critica osserva Bagnasco capace di visione e di reti virtuose, per contribuire al bene comune. Qualora si sbiadisse questo primato, i cristiani sarebbero omologati alla cultura dominante e a interessi particolari». Per questo, insiste, «non sono l’organizzazione efficiente o il coagulo di interessi materiali o ideologici che reggono gli urti della storia e degli egoismi di singoli o di parti, ma la consonanza delle anime e dei cuori, la verità e la forza degli ideali».
Ai cristiani Bagnasco dice che la verità deve essere annunciata «senza paura di essere emarginati». Lo chiarisce, non è all’orizzonte un nuovo partito cattolico. La via da seguire è un’altra. «La comunità cristiana, con i valori di cui è portatrice scandisce deve animare i settori prepolitici nei quali maturano mentalità e si affinano competenze, dove si fa cultura sociale e politica». Indica così un percorso non breve. Che ha come obiettivo il passaggio a una fase nuova, costituente della politica, e come presupposto implicito lasciarsi alle spalle l’era di Berlusconi con tutto ciò che ha significato anche per il mondo cattolico.
Sono parole soppesate sino all’ultimo quelle usate da Bagnasco nella sua attesa prolusione. Il presidente della Cei si è presentato a Todi come un “ospite” e ha lasciato i lavori subito dopo il suo intervento. Ma il suo messaggio è stato chiarissimo e impegnativo. Nelle sei cartelle e mezzo del suo intervento ha indicato quali debbano essere gli assi fondamentali su cui ricostruire una presenza significativa dei cattolici nella società italiana. Al centro pone un recupero della dimensione spirituale e l’affermazione dei valori non negoziabili, a partire dalla difesa della vita, della famiglia, del matrimonio e dell’educazione.
Il rispetto della laicità, aggiunge, non può rinchiudere la Chiesa nella mera sfera individuale e mettere in discussione il suo diritto-dovere di richiamare la difesa del diritto naturale. Sarebbe un male per la società. Invita i credenti a non essere timidi o «neutrali», ma a testimoniare con convinzione i propri valori.
Negare o non riconoscere la dimensione pubblica della Chiesa, significa «creare una società violenta, chiusa e squilibrata a tutti i livelli, personale, interpersonale, civile. Una società incapace di pensare e tanto più di attuare il bene comune, scopo della società giusta». I fedeli laici, continua Bagnasco, sanno che è loro dovere «lavorare per il giusto ordine sociale». Questo è il motivo per cui non possono tacere e «devono portare il loro contributo specifico, chiaro, e deciso, senza complessi di sorta e senza diluizioni ingiustificabili». Conferma quanto già detto: che la religione «non è un problema per la società moderna» e che la Chiesa «non cerca privilegi». Il punto su cui insiste in modo puntiglioso è il dovere di affermare i valori non negoziabili che non possono essere separati da quelli dell’etica sociale, del diritto al lavoro, alla giustizia e alla pace. «Il bene è possibile solo nella verità e nella verità intera. Per questa ragione non sono oggetto di negoziazione». La Chiesa ai laici chiede coerenza con il suo magistero. Pone quasi come discriminante l’affermazione dei valori etici. Non tutte le condizioni di vita «sono equivalenti» e per questo motivo, insiste, va respinto il tentativo di avvolgere i valori in un «cono d’ombra» e di «silenzio», di «relegarli nello sfondo privato», come se fossero «argomento scomodo e quindi socialmente e politicamente scorretto».
Se su molte questioni sono possibili «mediazioni e buoni compromessi», ci sono «valori che difficilmente sopportano mediazioni per quanto volonterose», perché in tale caso verrebbero «di fatto negati». Su questo punto la destra applaude. Piovono i commenti entusiastici di Sacconi e Quagliariello. La voglia di mettere un capello sul discorso del cardinale è grande.

Repubblica 18.10.11
Il vero obbiettivo: un patto con Casini
di Goffredo De Marchis


La rivolta non si ferma a Todi a dicembre torna il family day per dare l´ultima spallata a Silvio
Ma la nuova Dc divide il fronte. L´irritazione di Bertone
Bonanni è contrario a un nuovo soggetto ma si apre una battaglia sulle spoglie del Pdl
Casini, puntando ad un grande Terzo polo, spalleggia una parte di chi vuole un partito

TODI. Le associazioni cattoliche tutte insieme, con una manifestazione imponente da convocare tra la fine di novembre e l´inizio di dicembre. «Un grande segnale pubblico è inevitabile». Come il Family day.
L´annuncio del segretario cislino viene dal seminario a porte chiuse di Todi dove tutte le sigle dei movimenti laici legate alla Chiesa si sono ritrovate per indicare una via d´uscita alla crisi italiana. E che la "rivolta" non si fermerà qui lo ha capito bene Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa SanPaolo, unico oratore del mondo dell´economia presente in Umbria. «Non si fermeranno a Todi, ci saranno altri appuntamenti. Da questo mondo verrà un contributo di idee per la politica. Non so in quali forme, ma verrà».
Le forme sono e saranno il terreno di battaglia. Ma un fatto è assodato: «I cattolici vogliono tornare protagonisti. Non delegare più, ma farsi sentire, uscire dal silenzio», dice Andrea Olivero, il giovane presidente delle Acli. Nella sala del convento di Montesanto, sulle colline verdi di Todi, la spinta a fare un partito cattolico, a cedere alle suggestioni di una nuova Dc, è davvero forte. Dario Antiseri, filosofo cattolico liberale, punta il dito contro chi ha pensato di viaggiare a braccetto di Berlusconi in questi anni. Bonanni compreso, certo. «Speravate che mettessero la famiglia al centro della loro azione e cosa avete ottenuto? Un bel niente. La diaspora e le forzature ci hanno reso insignificanti. Solo un partito sul modello sturziano può riscattare i nostri valori». Esercizi di filosofia? Sentite cosa dice Luigi Marino, pugnace presidente della Confcooperative, uno che sta sul mercato ogni giorno: «Occorre che i cattolici scendano in campo, dobbiamo imboccare la strada della politica, non possiamo fermarci a oggi. Un partito deve nascere anche se si vota il prossimo anno». Correre, sbrigarsi. Il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi non si nasconde affermando «l´indispensabilità del tradizionale strumento del partito». Pronunciando anche parole che sono musica per le orecchie di chi si è già messo al centro degli schieramenti: «Passerà attraverso il prevedibile processo di scompaginamento-ricomposizione delle forze politiche».
I filo-partito sono una componente forte di questo movimento. Una parte di loro è spalleggiata con discrezione da Pier Ferdinando Casini che coltiva il progetto di grande Terzo polo, pronto a raccogliere un ventaglio di cattolici che va da Formigoni a Fioroni. «Il pressing su noi cattolici nel Pd comincia ora - spiega l´ex ministro dell´Istruzione - e sarà asfissiante».
Un´altra parte crede invece nella novità assoluta: nuova classe dirigente, nuovo leader, nuovi programmi e sarebbe un boomerang per i sogni di gloria dell´Udc. Ma a Todi il confronto, nemmeno tanto felpato, prevede, per il post Berlusconi, altre strade, altre linee. Divisioni da cui Berlusconi potrebbe trarre un po´ di ossigeno. E nelle quali il rassemblement di associazioni cattoliche potrebbe perdersi appena imboccata la strada. Per questo Olivero sottolinea l´unità intorno al ritrovato protagonismo dei credenti tralasciando gli elementi di rottura.
Ma le distanze sono evidenti persino nella conferenza stampa finale tutt´altro che rituale, con botta e risposta pubblici. Bonanni cerca di tenere il filo, ma non riesce a nascondere il suo orizzonte. Sul partito cattolico il suo è un no. Sulla fine di Berlusconi invece non può tirarsi indietro. Anche se da Roma è arrivata, non solo a lui, la voce di un Tarcisio Bertone molto irritato per l´esito del seminario, per la spallata al governo. Su questo punto però la retromarcia è impossibile. Possibile, per il segretario della Cisl, è al contrario salvare il centrodestra.
«Non abbiamo nulla a che fare con un partito», frena Bonanni. Meglio puntare su un nuovo governo che eviti le elezioni anticipate (serve tempo per superare il quindicennio), su una legge elettorale con le preferenze (e si conosce la forza numerica della Cisl), sulle forze che sono già in campo con più di un occhio di riguardo verso il centrodestra. «Spartizione delle spoglie» la chiama qualcuno. Intravedendo l´avvio di una specie di battaglia precongressuale democristiana per nuovi equilibri e nuove leadership nel Pdl de-berlusconizzato. Non a caso Bonanni spinge per la svolta senza però usare la parola dimissioni. Come ai vecchi tempi. Nella Balena bianca l´uscita di scena non si invocava. Si conquistava sul campo.

Repubblica 18.10.11
Inizierà nell´ottobre 2012

L´Occidente - Italia in testa - sempre più colpito da un processo di secolarizzazione
Il Papa annuncia l’Anno della fede "Troppi la danno per scontata"


CITTA´ DEL VATICANO - É tempo di "riscoprire" e "rilanciare" la fede cristiana e i primi a farlo devono essere i cristiani. Ecco il "manifesto" di Benedetto XVI per rievangelizzare l´Occidente - Italia in testa - sempre più colpito da un processo di secolarizzazione. Lo ha lanciato ieri lo stesso Ratzinger, annunciando di aver indetto l´Anno della Fede che dall´11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013 celebrerà il cinquantesimo anniversario dell´apertura del Concilio Vaticano II. Un appuntamento indetto solennemente con la pubblicazione di un motu proprio dal titolo "La porta delle fede". «Non è raro - scrive il Papa - che i cristiani pensino alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune», anche se «questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato». «Bisogna ritrovare il gusto di nutrirci della parola di Dio» è l´esortazione di Benedetto XVI. (o.l.r.)

Repubblica 18.10.11
Letta: il dialogo con il Pd è aperto, non vedo il rischio di una nuova Dc
"La rottura con il berlusconismo è sancita in modo unitario e c´è la spinta al governo-ponte"
di Giovanna Casadio


Ora i dirigenti del Pdl non possono pensare di dire sì all´appello e poi difendere l´esecutivo: è incompatibile

ROMA - Il Forum dei cattolici a Todi è una sveglia suonata ai partiti, sia al Pdl che al Pd, onorevole Enrico Letta?
«È una sveglia suonata alla politica italiana e all´intero paese, e quindi ai due principali partiti. Ma è soprattutto un giorno di svolta per l´Italia. Innanzitutto perché c´è un´indicazione unitaria di chiusura con il berlusconismo, talmente nitida da essere inaspettata per gli stessi esponenti del centrodestra. Il punto ora è: i dirigenti del Pdl vogliono continuare a fare i pretoriani oppure comprendono che sta cambiando tutto? Non possono pensare di rispondere sì all´appello e però mantenere in vita questo governo: è incompatibile».
Ma le associazioni cattoliche non si sono svegliate tardi?
«La cosa più importante avvenuta a Todi è l´unità della richiesta. Molti di quei soggetti hanno maturato queste posizioni nel tempo. Il tempo è stato necessario per costruire il lavoro unitario che è una cosa essenziale, altrimenti le singole voci si sarebbero perse nella cacofonia generale. Si sono messi tutti insieme e il messaggio "buca", è efficace».
Il Pd teme che possa nascere un nuova Dc?
«Lo escludono gli stessi protagonisti e io mi fido delle loro parole. D´altra parte la forza del messaggio sta proprio nel fatto che è sociale, pre-politico, e questo lo rende tellurico e credibile».
A Todi si è parlato di fine dell´attuale bipolarismo. Così finisce anche la ragione sociale del Pd?
«Condivido quanto detto. Non siamo dentro il bipolarismo che avevamo sognato e per il quale è nato il Pd. Abbiamo una legge elettorale disastrosa e questo sistema è condizionato dalla persona fisica di Berlusconi. Dobbiamo costruire la politica del futuro che dovrà prescindere finalmente da Berlusconi. Le aggregazioni dovranno avvenire su base di contenuti. Perciò l´appello al superamento di questo bipolarismo non è incompatibile con il Dna democratico».
Ci saranno scomposizioni e nuove ricomposizioni? E il rischio di una diaspora cattolica anche nel Pd?
«Il Pd le ragioni della sua forza ce l´ha tutte al suo interno e nella capacità di essere il partito che fa uscire il paese dalla crisi. L´appello di Todi smentisce chi scommetteva su uno schema in base al quale il mondo cattolico italiano non ne può più di Berlusconi però vorrebbe semplicemente un centrodestra senza Berlusconi. Non è così. Il mondo cattolico vuole dialogare con tutti gli schieramenti. Al Pd non basta comunque esultare per gli effetti di questo appello sul governo. Dobbiamo interrogarci su noi stessi e sulle risposte che anche noi dovremo dare».
Lei sostiene che il Pd deve allearsi con l´Udc di Casini. Todi rafforza questa linea?
«Todi spinge verso un passaggio preciso: nel prossimo mese, come abbiamo già fatto, dobbiamo provare a fare cadere Berlusconi e fare nascere un governo di responsabilità nazionale».

Repubblica 18.10.11
Roccella: il governo ha sempre agito a favore dei principi non negoziabili
"Devono a noi del centrodestra battaglie come quella su Eluana la Cei ha sbagliato bersaglio"
di Giovanna Casadio


Berlusconi ha avuto un grande coraggio con il decreto Englaro. Poi ci sono i suoi fatti privati che riguardano solo lui

ROMA - «Mi hanno delusa, da Todi sono arrivate conclusioni molto strumentalizzabili sui sistemi elettorali e il governo tecnico». Eugenia Roccella, sottosegretario alla Salute, dice di non essere affatto imbarazzata dall´avviso di sfratto che il Forum cattolico ha inviato al governo. «Il governo finché ha i voti in Parlamento va avanti».
Sottosegretario Roccella, il Forum dei cattolici a Todi è una sveglia suonata ai partiti, sia al Pdl che al Pd?
«Mah, direi che è una sveglia a se stessi perché fino a ora i cattolici dei movimenti e delle associazioni, il laicato cattolico, sono stati piuttosto irrilevanti».
In che senso?
«Sui valori non negoziabili, ma anche sul resto, il traino l´ha dato la politica del centrodestra. Faccio un esempio per tutti: il caso di Eluana Englaro, la giovane da diciassette anni in stato vegetativo a cui il padre volle staccare la spina. Io non li ho visti fare una battaglia. Non c´è stata certo una "mainstream" sui valori non negoziabili. Quindi la sveglia che la Cei e il cardinale Bagnasco hanno sollecitato, le associazioni la devono dare a se stesse».
Lei sarà perlomeno in imbarazzo per lo sfratto al governo?
«Non sono assolutamente imbarazzata. Il centrodestra è stato votato da tantissimi cattolici e il governo finché ha i voti in Parlamento governa. Mi aspettavo piuttosto che da Todi venissero delle proposte. Mi chiedo se il laicato cattolico abbia la forza di adeguarsi al momento critico che stiamo vivendo: questa è l´era del debito pubblico, siamo dentro un´epoca diversa. Mi hanno deluso. Bagnasco ha fatto un discorso molto chiaro sulle responsabilità, i principi non negoziabili. Anche il Papa nell´enciclica "Caritas in veritate" insegna che la questione sociale è ormai integralmente antropologica... e loro cosa fanno? Dicono cose strumentalizzabili».
Non crede che proprio l´insistenza del cardinale Bagnasco sull´impegno dei cattolici nello spazio pubblico e la testimonianza di quei valori, metta fuorigioco Berlusconi che non è davvero un modello di etica?
«Il nostro governo ha sempre testimoniato e agito per affermare i valori cattolici. Questo non vuol dire che è un governo dei cattolici».
Può spiegare meglio?
«Berlusconi ha avuto un grandissimo coraggio con il decreto Englaro, aprendo anche scenari istituzionali critici. Poi ci sono i fatti privati di Berlusconi e la sua fede, che è cosa che riguarda lui. Ma la questione sono le scelte che si fanno. Ci deve essere un´alleanza laici-cattolici sulla legge sul fine vita, come già è avvenuto tra il laico Fabrizio Cicchitto, il capogruppo del Pdl alla Camera, e il cattolico Pier Ferdinando Casini, leader dell´Udc. Le associazioni cattoliche si misurino su questo».
Il Pdl teme la rinascita della Dc?
«Siamo in un´era post democristiana, non è più possibile una nuova Democrazia cristiana e l´unità dei cattolici può essere sui contenuti».

Corriere della Sera 18.10.11
La contromossa di Bersani: via i «vecchi»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Le elezioni non ci sono — e non si sa nemmeno quando ci saranno —, le primarie non sono state ancora indette, anche se Vendola assicura che Bersani gli ha promesso che si terranno a febbraio del 2012, ma il centrosinistra vuole portarsi avanti con il lavoro — e con le liti — ragion per cui già fioccano le candidature per la premiership.
Di Pietro fa sapere che scenderà in campo. Vendola non ha bisogno di ripeterlo perché lo ha detto tante volte: è pronto a buttarsi in pista. Bersani si dice disponibile (ed è più che disposto). Rosy Bindi non si pronuncia, però scalda i motori. Matteo Renzi adesso si nega e dice di non voler «partecipare alla fiera delle vanità». Ma molti pensano che la sua sia solo tattica e molti temono che si candidi. Mentre altri ci sperano (i veltroniani, per esempio) e alcuni, come Enrico Letta, respingono comunque l'irruenza con cui certi dirigenti del Pd (un cognome per tutti, Bindi) vorrebbero sbarrare il passo a Renzi: «La cosa peggiore che un partito come il nostro può fare rispetto alle risorse più fresche e più giovani che hanno voglia di mettersi in pista, è dire: voi non ci potete stare». Il candidato vincente, quello che sicuramente sbaraglierebbe gli avversari politici, però, non può scendere in lizza: si chiama Tex Willer, di mestiere fa l'eroe ed è sponsorizzato da Cofferati. Secondo l'ex leader della Cgil «al Pd ci vorrebbe uno come lui».
Candidature e auto-candidature fioccano proprio adesso perché una parte del centrosinistra (Vendola e Di Pietro) vorrebbe accelerare i tempi delle primarie. In quel modo, infatti, l'Udc sarebbe costretta ad andare da sola o ad aggregarsi in un secondo tempo, senza poter avanzare troppe condizioni e mettere troppi paletti. Ma Vendola e Di Pietro fanno i conti senza D'Alema. Il presidente del Copasir ha un altro piano in mente e lo ha illustrato ad alcuni dirigenti del Pd. La sua idea è quella di creare una grande alleanza costituente che vada da Sel al terzo polo, guidata da un personaggio autorevole come Mario Monti, l'unico, secondo l'ex premier, che potrebbe tenere insieme una coalizione di questo genere. È ovvio che in uno schema così costruito le primarie non sono previste.
Insomma, il centrosinistra è in piena ebollizione. E nel frattempo Bersani che fa? Il segretario vede fiorire una candidatura dietro l'altra e prepara le sue contromosse. La sua idea è quella di spiazzare tutti. Come? Basta ascoltare Enrico Rossi per capire quello che il leader ha in mente. «Chi ha svolto ruoli di direzione politica nazionale, a partire dagli anni 90 in poi, ha esaurito il proprio ciclo e deve lasciare gli impegni di prima linea e ritagliarsi un ruolo di padre nobile», dice il governatore della Toscana. E ancora: «Se vinciamo non ci possiamo certo presentare con gli stessi ministri degli ultimi governi di centrosinistra». Sono parole, quelle di Rossi, che Bersani è pronto a sottoscrivere. Il segretario sogna di fare una piccola rivoluzione dentro il partito, anche per togliere argomenti a Renzi; la domanda è: glielo consentiranno i D'Alema, i Veltroni e le Bindi?

Repubblica 18.10.11
C’è posta per Emma
di Alessandra Longo


Emma Bonino era a Deauville, al Women´s Forum, mentre i radicali si «distinguevano» dall’opposizione in Parlamento. Ma piovono critiche sulla sua pagina Facebook. Malumori per il comportamento dei radicali rimasti in aula nel giorno della possibile sfiducia a Berlusconi e per lo show di Pannella alla manifestazione degli «indignati». Che c´entra Emma? C´entra perché i suoi fedelissimi si sfogano solo con lei, a prescindere: «Emma, delusione totale! Forse sei meno autonoma di quanto abbia creduto». La solita accusa: non aver stoppato Pannella e la sua linea: «Chi gli vuole bene dovrebbe fermarlo e prendersi delle responsabilità politiche». Tranchant: «Cara Emma, lo dico con dispiacere, avete davvero cannato le ultime mosse, resta la mia stima nei tuoi confronti, ma Pannella potrebbe andare in pensione».

Corriere della Sera 18.10.11
Il Parlamento? Solo 14 Leggi
di Sergio Rizzo


Le norme promosse dalle Camere: dal nome del Parco del Cilento all'insalata in busta
Volendo proprio mettere i puntini sulle i, in «una complessiva superficie di 178.172 ettari, gli Alburni offrono il 65% delle aree naturali, il Vallo di Diano offre la Certosa di Padula e alcuni monti, il Cilento la maggior parte delle aree costiere». E se l'ha addirittura scritto su una proposta di legge l'onorevole Mario Pepe, rieletto nel 2008 nelle liste del Pdl per scoprirsi tre anni dopo «Responsabile», dobbiamo crederci. Lui è di Bellosguardo, un paese che sta alle pendici dei monti Alburni. Chi dunque meglio di lui avrebbe potuto impegnarsi per sanare una clamorosa ingiustizia? La verità storica è stata ristabilita a febbraio, grazie appunto alla legge da lui proposta. Un provvedimento con il quale il Parlamento nel febbraio scorso ha cambiato il nome del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano in quello «più corrispondente alla realtà» di Parco nazionale degli Alburni, del Cilento e Vallo di Diano. Alleluia.
Vi chiederete: e ci voleva una legge? Ci voleva. Ma è legittimo domandarsi se davvero non ci fosse niente di più urgente e importante. Tanto più considerando che questa è una delle sole quattordici leggi di iniziativa parlamentare approvate da gennaio a oggi. Quattordici, a incorniciare un'apatia senza precedenti. Già nel 2010 l'attività del Parlamento aveva toccato i minimi storici, con 58 provvedimenti varati nell'arco dei primi dieci mesi. Adesso siamo scesi addirittura a 50. Se poi dal totale si tolgono le ratifiche di trattati internazionali, atti dovuti che non comportano alcun impegno, si cala ancora a 31, contro 36 dell'anno scorso. E poi va detto che la maggior parte di queste leggi, diciassette, non sono altro che conversioni di decreti o frutto di altre proposte governative.
Profetiche, le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini, pronunciate a maggio del 2010: «A meno che il governo non presenti un decreto, c'è il rischio di una sostanziale paralisi dell'attività legislativa della Camera». Perché il rischio si fa sempre più concreto. In un Parlamento di nominati dai boss di partito, per il quale il premier Silvio Berlusconi era arrivato perfino a ipotizzare di dare il potere di voto esclusivamente ai capigruppo per evitare il fastidio dei lunghi dibattiti in assemblea, l'iniziativa è ridotta al lumicino. Non bastasse poi la quantità ridottissima delle leggi proposte dagli onorevoli che vengono sfornate da Camera e Senato, c'è anche il problema della qualità. Con tutto il rispetto, sia chiaro, per il Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano. Pardon: Parco nazionale degli Alburni, del Cileno e Vallo di Diano.
Allora guardiamole, le leggi che in questi dieci mesi ha fatto il Parlamento senza che in nessuna di loro il governo ci abbia messo il suo zampino.
Ce n'è una che riguarda le assunzioni obbligatorie dei disabili nella pubblica amministrazione: giustissima. Una seconda che fissa il principio secondo il quale le madri di bambini piccoli non possono essere detenute: sacrosanta. Una terza che stabilisce come i consigli di amministrazione delle società quotate debbano essere composti per il 30% da donne: finalmente, argomenteranno in molti. Una quarta grazie a cui verranno indennizzati i familiari delle vittime del disastro ferroviario del 2010 in Val Venosta: assolutamente doverosa.
Certamente più di quella che contiene surreali «Disposizioni concernenti la preparazione, il confezionamento e la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli di quarta gamma». Di che cosa parliamo? Dell'insalata lavata e imbustata, per esempio. Legge frutto della fusione di due diverse proposte. Primi firmatari: il deputato Sandro Brandolini del Pd, titolare fino a un annetto fa del 30% di una società alimentare (Gustitalia) recentemente entrata nell'orbita del gruppo Saclà, e l'onorevole leghista Fabio Rainieri, esponente di spicco dei Cobas del latte.
Per non parlare della legge che aumenta di 1,7 milioni l'anno i contributi alla Biblioteca italiana per ciechi Regina Margherita di Monza, voluta dal leghista Paolo Grimoldi e da tre suoi colleghi di partito. O della impegnativa norma che riconosce alle associazioni «maggiormente rappresentative» dei mutilati e invalidi del lavoro una poltroncina nei comitati provinciali dell'Inail. Oppure del provvedimento che abroga una norma, approvata sei anni fa dallo stesso governo, che equiparava la laurea in scienze motorie a quella in fisioterapia: legge promossa dall'onorevole dipietrista Giuseppe Caforio, titolare di un piccolo impero nel campo delle protesi sanitarie. Se ne sentiva il bisogno.
Ancora, nello scarno elenco troviamo una leggina che istituisce la «Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali», il quale dice più o meno questo: il 9 ottobre di ogni anno si possono fare delle manifestazioni per sollevare l'attenzione su questo tema, però senza spendere un euro di fondi pubblici e senza andare in vacanza. Ce n'è quindi un'altra che esclude dal diritto di percepire la pensione di reversibilità il familiare che ha assassinato il pensionato. Una che decreta lo sconto massimo che gli editori possono applicare al prezzo di copertina dei libri...
Niente da dire, se però altre leggi, forse un tantino più decisive di queste, non arrancassero nelle Commissioni con il rischio di non riuscire a vedere l'approdo prima della fine della legislatura. Il disegno di legge anticorruzione, se lo ricorda qualcuno? Annunciato in pompa magna dal Consiglio dei ministri ormai 20 mesi fa, è stato approvato dal Senato ed è adesso nelle curve della Camera, dove sarà quasi certamente modificato per poi tornare a Palazzo Madama: se mai ne avrà il tempo. Il calderoliano codice delle autonomie che dovrebbe ridisegnare la nostra architettura istituzionale, quando sarà pronto? Il famoso disegno di legge sulla concorrenza, che fine ha fatto? E la riduzione del numero dei parlamentari, la vedremo mai?

Corriere della Sera 18.10.11
Obama in campagna Elettorale strizza l'occhio ai Ragazzi di Zuccotti Park
di Massimo Gaggi


«Forse l'argomento è troppo grosso per loro, non lo capiscono. Allora glielo dividiamo a pezzettini. Le dimensioni di un boccone: così è più facile». Sembra un Obama andato a scuola di eloquenza popolare dal Pierluigi Bersani celebre per battute come il «ma tu vuoi un tortello a misura di bocca» rivolto a un avversario troppo cavilloso. Non c'era, però, bonomia emiliana ma solo l'ira dell'uomo di governo con le mani legate e un calcolo politico-elettorale nella voce del presidente che ieri, iniziando il suo tour attraverso North Carolina e Virginia, ha attaccato i repubblicani che al Congresso hanno bloccato il suo piano per il lavoro da 447 miliardi di dollari.
La Casa Bianca dice che il giro sull'autobus nero blindato da un milione e 100 mila dollari è un atto presidenziale concepito per far avanzare l'agenda del governo. La scelta dell'itinerario (due Stati-chiave conquistati nel 2008 da Obama con un margine molto limitato) e l'attivismo dei suoi strateghi elettorali raccontano, però, un'altra storia: il presidente voleva fare campagna elettorale solo agli ultimi mesi prima del voto, ma la sua perdita di popolarità e il pessimo andamento dell'economia (andrà male anche nel 2012) lo obbligano ad anticipare i tempi.
Il voto di mid term del 2010 ha dimostrato che presentarsi come chi ha evitato il peggio non porta voti, ma il presidente non ha nulla da promettere e allora confeziona in modo diverso il suo messaggio «negativo»: solidarizza (da lontano) con la protesta anti-banchieri e sfrutta l'inaugurazione del monumento a Martin Luther King per dire che anche il padre dei diritti civili oggi si batterebbe, come i ragazzi di Zuccotti Park, contro gli eccessi di Wall Street. Poi va nel Sud a dividere in pezzi un piano per il lavoro che, comunque, non avrebbe riassorbito i disoccupati, ma senza il quale sarà strage di dipendenti pubblici: la sola scuola licenzierebbe 280 mila insegnanti.
Messaggio certo non entusiasmante, ma in tempi di vacche magre Obama cerca di evitare il peggio con misure «Band Aid» e, soprattutto, tenta di dimostrare che, quando si scende ai singoli casi locali, anche la destra radicale dei Tea Party cerca di salvare i posti nel pubblico impiego e diventa meno rigida sul taglio della spesa.

l’Unità 18.10.11
Pechino «costretta» a fare shopping
di Ugo Papi


La Cina sembra interessata a salvare l’Europa. Il Sunday Times ha rivelato che Pechino nel G20 dello scorso week end, avrebbe proposto un piano per ora segreto, che prevede forti investimenti in titoli di Stato e molti soldi per infrastrutture. In cambio il gigante asiatico vorrebbe garanzie sulle riforme di bilancio e su ulteriori tagli alle spese pubbliche dei paesi dell’euro zona. Se fosse vero, l’interessamento di Pechino dovrebbe finalmente svegliare l’Europa. Il rischio di un fallimento dell’euro agita i sonni del resto del mondo perché il nostro continente rappresenta una delle più grandi aree economico commerciali del pianeta, ma l’assenza o la debolezza di una guida politica ha reso concreto un possibile fallimento del progetto europeo. Uno scenario simile avrebbe conseguenze catastrofiche per tutti. Per l’America ancora alle prese con la sua crisi, ma anche per quella parte del mondo che ancora cresce, ma vede già segni di rallentamento delle proprie economie, soprattutto nel settore delle esportazioni. Oggi il gigante asiatico corre ai ripari e cerca rapidamente di riconvertire la sua economia: non più solo esportazioni, ma più consumi interni e più investimenti all’estero. Ma ci vuole tempo e così Pechino continua a comprare titoli di Stato. In questo modo vuole ottenere due risultati: salvare i suoi investimenti, ma anche aiutare i paesi dell’occidente in crisi, prima che questi contagino la Cina stessa. Il gigante asiatico dispone di una grande potenza finanziaria, la State Administration of Foreign Exenge (SAFE), l’ente di Stato che amministra l’enorme quantità di riserve valutarie accumulate in questi anni di crescita. Nonostante la crisi, la Safe ha continuato a comprare titoli di Stato Usa, considerati comunque più sicuri di altri investimenti. La Cina ha inoltre attuato una rapida diversificazione che è arrivata anche in Europa, persino con i titoli di Italia e Spagna. Ma nell’Europa del sud le cifre restano modeste. Pechino è disposta a fare un salto di qualità laddove gli investimenti siano comunque solidi. Ad interessare gli asiatici sono infatti per ora soprattutto i Bund tedeschi. Ma la proposta del piano di salvataggio, se si rivelasse vera, prevede anche investimenti in infrastrutture. In questo settore la Cina dispone di un secondo colosso finanziario, la China Investment Corporation, che interviene direttamente nell’economia mondiale, finanziando le nuove multinazionali dagli occhi a mandorla che si avventurano fuori dal loro paese. A fare gola ai cinesi sono soprattutto porti e aeroporti europei, come si è visto nel caso del Pireo. Il gruppo cinese Hna, rivela sempre il Sunday Times, sarebbe ora interessato all’acquisizione dell’aeroporto di Atene. Dal 2008 la Volvo è già nelle mani del gigante asiatico. In Europa, gli imprenditori dell’ ”impero di mezzo”, possiedono aziende nel settore meccanico, tessile e dell’abbigliamento, ma anche nei comparti tecnologici dell’elettronica e delle comunicazioni. Le multinazionali asiatiche vengono nel vecchio continente per imparare: la Haier produce nel nord est dell’Italia i frigoriferi migliori della Cina, cosi’come le Benelli-Nanjing fabbricate a Pesaro, sono le moto di gamma alta del mercato asiatico. Apprendere significa quindi per gli asiatici acquisire nuove tecnologie, know how e conoscenze in settori nuovi e promettenti per il futuro. In questa attività di penetrazione internazionale, i cinesi agiscono in una logica di mercato e per gli europei l’interesse degli investitori stranieri non rappresenta affatto un segnale negativo. Ma nel caso cinese, dietro i privati c’è lo Stato, che puo’ avere un interesse politico strategico. Soprattutto se i nuovi investimenti dovessero indirizzarsi verso l’energetico. L’Europa deve rendersi conto della posta in gioco. Non si tratta più solo di salvare la piccola Grecia, ma di dare finalmente una testa politica ad un continente ormai troppo grande per affidarsi alle logiche dei mercati senza regole. L’egoismo nazionale è un riflesso miope che rischia di trascinarci rapidamente al disastro o peggio, a forme di subordinazione politica dalle conseguenze imprevedibili.

Corriere della Sera 18.10.11
Il giovane Gramsci contro la democrazia
«È la nostra peggior nemica», scrisse sull'«Avanti!» Preferiva il liberalismo proprio perché borghese
di Paolo Mieli


La formazione del leader sardo
Esce in libreria dopodomani, giovedì 20 ottobre, il libro di Leonardo Rapone Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (Carocci, pagine 421, 28) nel quale l'autore ripercorre la parabola intellettuale del leader sardo, nato nel 1891, durante gli anni della formazione giovanile  a Torino. Osservazioni interessanti sul percorso intellettuale di Gramsci in quel periodo si trovano nel libro di Luciano Cafagna C'era una volta... Riflessioni sul comunismo italiano (Marsilio, 1991) e nel lavoro di Massimo L. Salvadori Gramsci e il problema storico della democrazia (Einaudi, 1970). Da segnalare, inoltre, il libro di Luciano Canfora Su Gramsci (Datanews, 2007). Di recente Laterza ha ristampato la classica biografia del leader comunista scritta da Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci. Sempre Laterza ha pubblicato il libro di Aurelio Lepre Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci.

Alla fine di giugno del 1911, Antonio Gramsci prende la licenza liceale a Cagliari. A ottobre si trasferisce a Torino, dove si iscrive all'università. I suoi studi (aveva dato meno della metà degli esami previsti) si interromperanno nella primavera del 1915, al momento in cui decide di dedicarsi a tempo pieno alla politica. Ma la decisione di iscriversi al Partito socialista italiano l'aveva maturata già alla fine del 1913. Il suo più grande amico all'epoca è Angelo Tasca, a fianco del quale vivrà l'intera stagione iniziale della sua vita, dall'esperienza socialista a quella comunista. La sua prima uscita pubblica, sul settimanale «Il Grido del popolo», è però di critica a Tasca per aver, quest'ultimo, condannato con toni eccessivamente radicali la svolta interventista di Benito Mussolini (ottobre 1914). A suo avviso Mussolini non ha torto, dal momento che la politica di preparazione rivoluzionaria del proletariato può trarre vantaggio dall'intervento italiano nella guerra contro gli Imperi centrali. Successivamente sarà tentato di collaborare al «Popolo d'Italia», il nuovo giornale di Mussolini, ciò che gli verrà rinfacciato — dal sindacalista Mario Guarnieri — nel 1921, al momento della fondazione del Partito comunista.
Un curioso debutto, su cui si sofferma Leonardo Rapone nel capitolo iniziale di Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919), un grande studio sulla formazione del leader comunista che Carocci manderà a giorni in libreria. Rapone sostiene che considerare quella presa di posizione filomussoliniana di Gramsci come un «mero incidente di percorso» o «un'acerba esercitazione giovanile» è un modo di far torto alla sua già complessa personalità degli inizi.
Quel Gramsci ai primordi è un ragazzo colto, che interviene in tutti i dibattiti dell'epoca. Condanna come «intorbidante» l'anticlericalismo dell'«Asino» di Guido Podrecca, saluta con entusiasmo la beatificazione di Giuseppe Benedetto Cottolengo. Combatte alcune sue piccole e grandi battaglie contro i gesuiti, contro la massoneria (ma nel '24, con l'unico discorso che tenne a Montecitorio da deputato comunista, si pronuncerà contro il decreto mussoliniano di messa fuori legge della stessa), contro la bestemmia, contro il commercio al minuto («medievalismo economico»). Si pronuncia contro l'adozione dell'esperanto come lingua unica che, secondo i suoi compagni di partito, dovrebbe giovare alla comprensione tra i popoli. Si schiera contro il gioco del lotto. A favore del calcio («Un modello della società individualistica, vi si esercita l'iniziativa ma essa è definita dalla legge»). A favore dello scoutismo «officina del carattere», ma solo nella versione inglese di sir Robert Baden-Powell. Più in generale è affascinato da tutto ciò che riguarda l'Inghilterra. Nello stesso tempo disprezza la borghesia italiana «arruffona, senza una cultura, senza una idealità» così come da una celebre lettera di Engels a Turati del 1894.
Ha in grande antipatia i socialisti riformisti: Claudio Treves, Filippo Turati. È, invece, un grande ammiratore di Gaetano Salvemini, lettore della sua rivista «L'Unità», e fa parte del gruppo di giovani socialisti che nel '14 gli propongono di candidarsi come indipendente nel Psi, partito che aveva lasciato polemicamente qualche anno prima. Lo è ancor più di Giovanni Amendola, del quale apprezza i toni di deprecazione («L'Italia come oggi è, non ci piace», aveva scritto Amendola su «La Voce» nel dicembre del 1910). Stima Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Ma apprezza anche Giovanni Gentile, al quale, quando l'Università di Torino nel 1914 gli negherà la cattedra di Storia della filosofia, lui e Tasca faranno giungere, tramite il pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, un'affettuosa lettera di solidarietà. E, in modi ancor più espliciti, mostra interesse nei confronti di Benedetto Croce. Approva Francesco De Sanctis per aver denunciato alcuni aspetti negativi del carattere italiano: «l'insincerità», «il fare e non fare, il permettere e non permettere», «l'ipocrisia nei rapporti tra singolo e collettività... tra singolo e singolo», «quello stare in sull'ambiguo e tenersi nel mezzo e lasciarsi dietro l'uscita». Sulla scia di Bertrando Spaventa, si dichiara antipatizzante di Giuseppe Mazzini, al quale imputa l'astrattismo delle idee democratiche.
Un segno particolare della subalternità di Gramsci alla cultura del suo tempo — messa in evidenza per primo da Eugenio Garin — è riscontrabile nell'adesione del giovane socialista sardo alla campagna (di Salvemini, Prezzolini, Papini, Amendola e del «Corriere della Sera») contro Giovanni Giolitti. Il rigetto di Gramsci nei confronti della politica di Giolitti, fa notare Rapone, «non è semplicemente il frutto della critica del decennio giolittiano da parte di un socialista profondamente calato, come è Gramsci, nel nuovo spirito intransigente del socialismo italiano affermatosi al congresso di Reggio Emilia del 1912, in rotta con il riformismo filogiolittiano del periodo precedente». Per lui Giolitti è il simbolo di tutto ciò che testimonia della corruzione dell'organismo nazionale e che fa diversa l'Italia da un vero Stato liberale. «Il giolittismo», afferma, «è la marca politica del decimo sommerso italiano: l'insincerità, l'affarismo, il liberalismo clericale, il liberalismo protezionistico, il liberalismo burocratico e regionalista».
Le modalità della sua invettiva contro Giolitti diventeranno uno schema che si ripresenterà più volte, anche dopo la sua morte e quando di Giolitti si sarà quasi persa memoria, per tutto il Novecento: ottimo era il «liberalismo autentico» di Cavour; pessimo quello dei «tempi in cui viviamo», in un'Italia nella quale i liberali «hanno preferito mandare Cavour in soffitta» e «i partiti politici non perseguono programmi di politica generale, ma seguono singoli individui, i "cacicchi", come li chiamano in Ispagna». Anche lui, sulla scia del direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini, prenderà l'abitudine di qualificare il metodo di governo di Giolitti come una «dittatura». E ancora nel 1917, quando tra i socialisti si fa largo la tentazione di accogliere le avances di Giolitti per dar vita ad un governo «migliore» che prepari «le condizioni più favorevoli di vita e di sviluppo della classe operaia», Gramsci indica quello statista come «il pericolo maggiore da combattere per i socialisti» e lo definisce «un avversario, forse, in questo momento, il più temibile degli avversari». Nell'urto assai forte con il giolittismo, fa notare Rapone, «resta, malgrado le analogie verbali, una fondamentale diversità di ispirazione, e non solo per l'ovvia ragione che si trattava di antigiolittismi che muovevano da fronti politici opposti, ma per il diverso rapporto che dalle due parti si istituiva tra Giolitti e il liberalismo: se per la frizzante intellettualità borghese Giolitti era il simbolo dello scivolamento del liberalismo verso la democrazia, qui stava l'origine della sua funzione corruttrice e da qui veniva ammonimento a stringere piuttosto che ad allargare le maglie della concezione liberale, per Gramsci Giolitti, semplicemente, nulla aveva a che vedere con il vero liberalismo e ne faceva rimpiangere l'assenza in Italia». «I liberali in Italia sono soltanto uno scherzo di cattivo genere. Essi non si distinguono in nulla dalle altre correnti sociali; politicamente valgono zero», scrive. Quanto a Giolitti, «in concreto ha sempre voluto dire: protezione doganale, accentramento statale con la tirannia burocratica, corruzione del Parlamento, favori al clero e alle caste privilegiate, schioppettate sulle strade contro gli scioperanti, mazzieri elettorali». Nessuna indulgenza per le aperture di Giolitti al riformismo socialista. Anzi: il suo è «un programma di trasformismo, di confusionismo delle forze politiche italiane». L'uomo di Dronero «ha dato sempre all'Italia i peggiori dei governi, i più truffaldini dei governi». Ma il vero bersaglio polemico di Gramsci è la democrazia contrapposta al liberalismo, in particolare quello dell'esperienza storica inglese.
Pagine molto interessanti sono quelle dedicate dal libro di Rapone all'atteggiamento assai critico di Gramsci nei confronti della democrazia. Pagine che echeggiano quelle molto lucide scritte all'inizio degli anni Novanta da Luciano Cafagna in C'era una volta... Riflessioni sul comunismo italiano (Marsilio). E, in parte, anche quelle di Massimo Salvadori in Gramsci e il problema storico della democrazia (Einaudi). «La democrazia è la nostra peggiore nemica, è quella con la quale dobbiamo sempre essere pronti a fare a pugni, perché intorbida il limpido distacco delle classi, e vorrebbe quasi diventare le molle della carrozza che servono a far pesar meno sulle ruote il carico dei passeggeri e ad evitare gli scossoni che possono far ribaltare», sentenzia Gramsci sull'«Avanti!» nel febbraio del 1916.
È un Gramsci che appare in sintonia con Georges Sorel, il quale nella democrazia aveva visto «all'opera lo spirito corruttore della pacificazione sociale» e l'aveva condannata per la sua «pretesa di attenuare la contrapposizione tra le classi e di temperare il conflitto con sdolcinatezze umanitarie e logiche di compromesso». Meglio, molto meglio il liberalismo. La diversità di trattamento riservata da Gramsci al liberalismo e alla democrazia riflette, secondo Rapone, la convinzione che mentre il liberalismo è dottrina francamente borghese e capitalistica, e come tale ben saldamente collocata sulla direttrice dello sviluppo storico, la democrazia, con la sua pretesa di porre la sovranità del popolo a fondamento dello Stato, è una maschera, un travisamento della realtà, perché i «fini essenziali» dello Stato sono «determinati dalla struttura economica della società»; la democrazia è perciò un'illusione e una fonte di illusioni, una capitolazione dell'intelligenza e dell'analisi storica davanti al sentimentalismo irriflessivo e passionale.
La democrazia, scriverà ancora Gramsci su «Il Grido del popolo» nell'ottobre del 1918, «esplica una funzione morbosa di confusionismo, di scrocco, di predicazione dell'incoerenza. È impaludamento, più che effettivo progresso». Parole che rimandano a Sorel, il quale per primo aveva usato l'espressione «pantano democratico». Ma richiami, diretti o indiretti, coinvolgono anche Benedetto Croce. L'imputazione alla democrazia del vizio dell'astrattismo politico, ad esempio, rimanda alla polemica crociana contro l'«assai sommaria cultura» dei democratici francesi e italiani. Rilievi che — sia per Croce che per Gramsci — vanno estesi alla massoneria. E al giacobinismo. Gramsci si mostra più che infastidito dai richiami ai «sacri principi dell'89», dal «feticismo sentimentale per il "popolo"», per le «gonfiezze» e le «prediche sociali» di Victor Hugo, per la raffigurazione della Grande rivoluzione nell'opera di Michelet. È sprezzante verso i politici repubblicani «ideologhi astratti, senza concretezza di pensiero politico». E, guardandosi indietro, giudica una tappa fondamentale dello sviluppo del socialismo in Italia l'emancipazione da quei blocchi «demo-massonici» nei quali, «durante l'età giolittiana, in occasione di elezioni amministrative, i socialisti si erano mescolati con gruppi e personalità della democrazia radicale e repubblicana, il più delle volte sotto l'egida di un accentuato anticlericalismo (altra manifestazione, quest'ultima, del confusionismo ideologico imperante tra i democratici)».
Per Gramsci la pienezza dello sviluppo borghese e capitalistico richiede una borghesia pienamente consapevole della sua funzione storica e determinata ad assolverla senza esitazioni; ma ha in più un contrassegno politico ideologico inequivocabile: «Quello di un compiuto e integrale liberalismo che, come mostra l'esempio del mondo anglosassone, crea l'ambiente più favorevole allo sviluppo della produzione e soprattutto lascia libero spazio al gioco delle classi».
Nell'individuazione del giacobinismo come sorgente inquinata del pensiero democratico si deve sottolineare, secondo Rapone, la sua insistenza sulle inclinazioni autoritarie connaturate a una concezione della storia e della politica come lotta per l'affermazione di valori assoluti e trascendenti. Sono temi su cui si è soffermato Vittore Collina nel saggio Giacobinismo e antigiacobinismo, pubblicato nel monumentale Gramsci. I Quaderni del carcere. Una riflessione politica incompiuta (Utet), a cura di Salvo Mastellone. «Giacobinismo?», si domanda Gramsci nel momento per lui più drammatico, quello in cui con un colpo di mano Lenin fa sciogliere l'Assemblea Costituente (gennaio 1918). E così risponde: «Il giacobinismo è un fenomeno tutto borghese di minoranze tali anche potenzialmente. Una minoranza che è sicura di diventare maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini, non può essere giacobina, non può avere come programma la dittatura perpetua. Essa esercita provvisoriamente la dittatura per permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità e di instaurare il suo ordine all'infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità». Dunque «lo scioglimento della Costituente è per noi un episodio di libertà nonostante le forme esteriori che fatalmente ha dovuto assumere». Tesi azzardata, ma che, per Gramsci, serviva a tenere in piedi l'impianto ideologico ostile al giacobinismo.
Ai giacobini e ai democratici, a detta del fondatore dell'«Ordine Nuovo», manca il senso della storicità del reale: «Di qui la tendenza ad agire di autorità per superare le resistenze che incontrano i loro propositi politici, nel tentativo di piegare con la forza la materialità delle condizioni storico-sociali». Se gli avvenimenti non si svolgono secondo lo schema prestabilito, scrive Gramsci, «si grida al tradimento, alla defezione, si suppone che perverse volontà ne abbiano attraversato il "naturale" decorso… E il giacobinismo trae dal suo spirito messianico, dalla sua fede nella verità rivelata, la pretesa politica di sopprimere violentemente ogni opposizione, ogni volontà che rifiuti di aderire al contratto sociale; e si cade nelle contraddizioni, così comuni nei regimi democratici, tra le professioni di fede inneggianti alla libertà più sconfinata e la pratica di tirannia e di intolleranza brutale». Sostiene che giacobinismo e intolleranza vanno di pari passo, «perché l'habitus giacobino non ha cognizione del fondamento storico delle opinioni in contrasto e non sa farsi una ragione dell'esistenza di avversari»; invece, i socialisti, in virtù dell'ispirazione storicistica della loro dottrina, sanno «che nella storia che gli altri attuano vi è un elemento di necessità».
Scrive su «Il Grido del popolo» nel giugno del 1918: «Il "pensiero libero" dei socialisti porta con sé una grande tolleranza nelle discussioni e nelle polemiche, mentre il "libero pensiero" dei massoni e dei libertari è intollerante e giacobino. I socialisti, in quanto pensano liberamente, storicisticamente, comprendono la possibilità della contraddizione, e perciò più facilmente la vincono, e allargano così la sfera ideale e umana delle proprie idee. I libertari, in quanto sono dogmatici intolleranti, schiavi delle particolari loro opinioni, si insteriliscono in vane diatribe, rimpiccioliscono tutto. Non potendo immaginare che gli altri la pensino diversamente da loro (e questa mancanza di fantasia logica e storica è appunto la schiavitù del loro pensiero), nella contraddizione, nella critica non sanno vedere che motivi volgari, bassamente interessati». Di qui la necessità del «riconoscimento dell'avversario»: «Primo canone di realismo è riconoscere la realtà degli altri». E ancora: «Non rimproveriamo agli avversari del socialismo di essere avversari del socialismo; avendo una coscienza esatta della nostra personalità, del compito che ci siamo proposti, del metodo attraverso il quale cerchiamo di raggiungere i nostri fini, comprendiamo perfettamente che possano e anzi debbano esistere i nostri avversari».
Nel corso della Prima guerra mondiale, allorché — in seguito ai moti torinesi dell'agosto 1917 — fu varato il «decreto Sacchi» che introduceva limiti alla libertà di espressione e di stampa, Gramsci accentuò questo genere di polemica. Ettore Sacchi, ministro della Giustizia, era un esponente del Partito radicale che in passato aveva cercato collegamenti con i socialisti: adesso, nel nome della lotta al disfattismo, proprio lui introduceva per decreto un limite alla libertà di pensiero. Ciò che per Gramsci suonava conferma della vocazione autoritaria del giacobinismo democratico: «La tradizione giuridica italiana», denunciò su «Il Grido del popolo», «è stata sovvertita da un ministro democratico che… ci fa tornare ai tempi barbarici». Ma, ripetiamo, la critica gramsciana della democrazia è molto diversa da quella degli intellettuali antidemocratici che nell'Italia del primo Novecento si erano distinti per il loro crescente antiparlamentarismo e antiegualitarismo.
Sulla scia di queste concezioni politiche è abbastanza sorprendente quel che Gramsci scrive al cospetto della rivoluzione russa dell'ottobre 1917. Merito della rivoluzione sarebbe stato quello di aver «ignorato il giacobinismo». Secondo Gramsci, la rivoluzione leninista «non tende all'instaurazione di un potere che abbia bisogno di sostenersi con la violenza e il dispotismo; il movimento non è sospinto da una fazione, ma esprime i bisogni della maggioranza della popolazione, e questa maggioranza, appena sarà messa in condizione di pronunciarsi, dimostrerà di volersi riconoscere nell'opera della rivoluzione».
Nulla di tutto ciò si verificherà. Ma è interessante sottolineare quanto colui che nel 1921 avrà un ruolo importante nella fondazione del Partito comunista d'Italia respinga in più occasioni il parallelo tra la rivoluzione francese e quella russa. A proposito della Francia di Robespierre, scrive che «la borghesia, quando ha fatto la rivoluzione non aveva un programma universale: essa serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe, e li serviva con la mentalità chiusa e gretta di tutti quelli che tendono a dei fini particolaristici… La rivoluzione russa, invece, ha distrutto l'autoritarismo e gli ha sostituito il suffragio universale, estendendolo anche alle donne… i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno cioè sostituito alla dittatura di uno solo la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far funzionare il suo programma … perché essi perseguono un ideale che non può essere solo di pochi, perché essi sono sicuri che quando tutto il proletariato russo sarà da loro interrogato, la risposta non può essere dubbia».
E a riprova del fatto che questa volontà sia già allora più che evidente, Gramsci cita un episodio che lo ha molto colpito: alcuni detenuti per reati comuni che, all'annuncio della libertà loro concessa dal governo rivoluzionario, in un caso «risposero di non sentirsi in diritto di accettare la libertà perché dovevano espiare le loro colpe», in un altro «si radunarono nel cortile della prigione e volontariamente giurarono di diventare onesti e di far proposito di vivere del loro lavoro». «Questa notizia», afferma Gramsci, «ha importanza ai fini della rivoluzione socialista, quanto e più di quella della cacciata dello zar e dei granduchi». Dal momento che i detenuti erano diventati, con la rivoluzione, «così liberi da essere in grado di poter preferire la segregazione alla libertà, da imporsi essi, volontariamente, una espiazione». Il comune malfattore «è diventato, nella rivoluzione russa, l'uomo quale Emanuele Kant, il teorizzatore della morale assoluta, aveva predicato... l'uomo che dice: l'immensità del cielo fuori di me, l'imperativo della mia coscienza dentro di me». Poi verrà, come si è detto, l'amara sorpresa dello scioglimento della Costituente. Alla quale ne seguiranno di peggiori. E, drammaticamente, Gramsci dovrà rivedere molte delle idee che avevano caratterizzato, tra il 1914 e il 1919, la sua formazione. Quasi tutte.

Repubblica 18.10.11
Una nazione di burattini
In che modo i burattini costituiscono un´allegoria dello spirito italiano
C’è un’idea del carattere nazionale e delle nostre teorie sul rapporto tra corpo, volontà e ragione
Così la metafora di Pinocchio spiega l’Italia
di Roberto Esposito


L´autrice mette in relazione la crisi del soggetto liberale con "l´effetto marionetta"
Questa icona è presente nei trattati politici, in quelli di Lombroso e persino nella pedagogia della Montessori
Il saggio di una studiosa americana sull´importanza del personaggio di Collodi dal 1861 al 1922

Se si fosse compreso Pinocchio, si sarebbe compresa l´Italia – dichiarava Prezzolini nel 1923. Mentre il secondo obiettivo è lontano dall´essere stato raggiunto – mai come oggi gli osservatori stranieri guardano al nostro Paese come a un curioso paradosso – neanche il primo è stato del tutto centrato. Benché quello di Collodi sia il libro italiano di gran lunga più tradotto nel mondo – in circa duecento lingue –, oggetto di produzioni filmiche, traino di un´inesauribile industria di giocattoli, per non parlare della valanga di interpretazioni cui ha dato luogo, il segreto del suo successo resta ancora racchiuso in quel corpo di legno. Cosa vuol dire quel burattino che si muove da solo, senza fili cui appendersi? Come vanno intese le bugie che gli fanno crescere il naso – come follie all´interno di una società sana o come implicite denunce di una società folle? E il suo diventare bambino è una forma di normalizzazione disciplinare o l´effetto di autoeducazione? Un processo di soggettivazione o una pratica di assoggettamento?
Una serie di risposte a queste domande arrivano adesso da un´ampia ricerca di Suzanne Stewart-Steinberg, docente di Italian Studies all´Università di Brown in America, pubblicata da Elliot con il titolo L´effetto Pinocchio. Italia 1861-1922. La costruzione di una complessa modernità. Diversamente da coloro che hanno puntato su una sola carta interpretativa, l´autrice mette in campo una complessa strategia ermeneutica che sovrappone sguardi diversi, di carattere storico, antropologico, psicoanalitico. Pinocchio è un doppio costituito all´incrocio di elementi opposti. Egli è insieme burattino e ragazzo, oggetto e soggetto, macchina e corpo. E ancora, fabbricato per obbedire ma inguaribilmente indisciplinato, bugiardo ma capace di testimoniare un´esperienza collettiva, plasmabile ma insofferente di ogni vincolo. La sua caratteristica fondamentale è la "scioltezza", una sorta di elasticità del corpo e della mente che gli impedisce di stare fermo, condannandolo ad una perenne agitazione. Per non parlare della sua capacità di metamorfosi, che lo situa a metà tra un personaggio di Kafka e un materiale estetico di Duchamp.
Ma cosa ha a che fare, tutto ciò, con il carattere degli italiani? In che modo i burattini costituiscono un´allegoria dello spirito italiano, come sosteneva Yorick nella sua Storia del burattini del 1884? Assimilabili nel Rinascimento ad icone religiose – come le mariettes, statuine della Madonna – essi si mischiano nel Settecento alle maschere della commedia dell´arte, per poi acquisire una forma di dipendenza, non più da Dio, ma dalla precisione tecnologica delle macchine. In questo senso essi riproducono il mutamento che, dopo l´unificazione, investe gli italiani a partire dallo statuto del corpo e dalla sua connessione con la volontà e la ragione. Quando, nel 1882, Pasquale Turiello pubblica la sua indagine storico-antropologica dal titolo Governo e governati in Italia, perviene, certo con altro linguaggio, ai medesimi risultati: gli Italiani sono caratterizzati da una singolare miscela di creatività e di inerzia, non sanno sottomettersi a norme collettive, tendono sempre a subordinarle al proprio interesse personale o familiare, mancano del senso del limite, come del resto aveva diagnosticato Francesco De Sanctis. Non è difficile scorgere in questo deposito di umori, l´esito di una storia difficile, l´annuncio di quanto ancor oggi affligge un Paese succube a burattinai di dubbia propensione al bene comune.
E tuttavia tutto ciò non va interpretato soltanto come una forma di immaturità che trattiene la cultura italiana al di qua della soglia della modernità, ma anche come una diversione, o una mossa di cavallo, che le consente di oltrepassarla. Quando l´autrice parla di crisi del soggetto liberale, allude a questa singolare attitudine, da parte di autori o testi italiani del periodo, di sintonizzarsi precocemente con quella svolta che in anni successivi sarebbe stata definita biopolitica. E cioè si riferisce al passaggio da una concezione classica del soggetto, padrone di se stesso e capace di decidere del proprio destino politico, ad un soggetto attraversato da una serie di impulsi psichici e fisici che egli non è in grado di dominare. A tale svolta rimandano, ad esempio, gli studi dello psichiatra Enrico Morselli sugli stati ipnotici, che anticipano le intuizioni di Freud sulla psicologia di massa, sempre esposta alla forza di suggestione di leaders carismatici. Cos´altro è il soggetto succube del potere autoritario o del disciplinamento di massa, se non una sorta di burattino senza fili che crede di muoversi autonomamente? E non ha a che fare, quella scienza della ginnastica, cui si dedicano, insieme all´igiene, i pediatri italiani, con la "rigida scioltezza" di Pinocchio? Ciò che questi autori colgono, a volte oscuramente, è la centralità del corpo – dei suoi umori, dei suoi traumi, dei suoi desideri – che va ben oltre la volontà razionale del soggetto per affondare nella falda naturale della vita biologica. In questo senso Effetto Pinocchio, aldilà dei suoi riferimenti storici e letterari, ci parla di noi – della nostra condizione contemporanea, spesso preda di forze cui non sappiamo resistere, che influenzano la nostra vita senza che neanche ce ne accorgiamo.
Nel racconto Amore e ginnastica di Edmondo De Amicis, sconosciuto al grande pubblico a vantaggio dell´esangue moralismo di Cuore, vi è in primo piano il corpo erotico ed erotizzato, colto nel dolore, e nel piacere, masochista di sperimentare la propria impotenza. Forse per capire cosa spinge oggi donne o uomini a farsi legare, sospesi nel vuoto, ad un gancio di ferro che ne irrigidisce le membra, bisogna andare a leggere anche in testi come questi. Negli stessi anni, in ambito diverso, Cesare Lombroso apre il grande teatro dei corpi parlanti attraverso i segni criminali, che modifica in senso somatico il paradigma giuridico di Beccaria, ancora fondato sul presupposto illuministico del libero arbitrio individuale. Ma è forse il saggio Sull´infanticidio di Scipio Sighele – con al centro la figura ambivalente della madre dolorosa, vinta da una irresistibile potenza omicida che ne attenua la colpa individuale – a restituire meglio il tratto, insieme pre e postmoderno, che attraversa la cultura italiana del periodo. I corpi dei bambini, liberamente disciplinati dal metodo di Maria Montessori, sottomessi ma anche provocati dal silenzio della maestra, costituiscono il vertice di questa piramide biopedagogica. Fin quando la tradizione interpretativa resterà bloccata all´immagine di maniera dell´arretratezza italiana, senza porsi ulteriori domande, un intero regime di senso resterà ancora sommerso. O chiuso nel corpo di legno dei nostri molteplici pinocchi.

Repubblica 18.10.11
Oliver Sacks "Vi racconto la mia malattia"
"Io, da dottore a paziente così racconto la mia malattia"
di Angelo Aquaro


"Mi sento sempre più un medico, ho spesso sacrificato la scrittura per la professione"
"Vivo in un mondo a due dimensioni e sono circondato dalle lenti di ingrandimento"
L´autore di "Risvegli" spiega come è cambiata la sua vita: a causa di una patologia rara non riconosce più i volti
Affronta il tema anche nel nuovo libro, "L´occhio della mente", che esce adesso in Italia

New York. «Ormai vivo in un mondo piatto. E so benissimo che non sarà più come prima. Mi adatto: ci provo. Ma a volte faccio errori bizzarri. Tendo la mano e manco la presa. Oppure cerco qualcosa e sbaglio bersaglio: così». Il dottor Oliver Sacks allunga la mano verso il registratore e il traffico del West Village copre l´accento inguaribilmente inglese dopo cinquant´anni d´America. Sulla parete un vecchio poster illustra le sezioni del cervello. Il divanetto è invaso da coperte e cuscini. Dal soffitto pende un ventilatore. Il condizionatore incastonato nella finestra fa un casino del diavolo: «Non posso prendere caldo».
Il neurologo più famoso del mondo vive da single nel cuore della New York che era degli artisti: pesa? «A volte mi piace così, a volte mi sento un po´ solo. Diciamo che dopo 70 anni ci si abitua». Porta un gilet di lanetta sulla camicia oxford rosa, i pantaloni kaki di Banana Republic e le sneakers ai piedi. Si sistema il cuscino sotto la sedia. Alla fine dell´intervista confesserà che "L´uomo che scambiò sua moglie per un cappello" – titolo del libro che lo impose anche in Italia – in fondo è anche un po´ lui che per anni ha sofferto di uno strano disturbo… Ma per adesso sposta ancora una volta più in là il registratore.
Le dà fastidio?
«Ma no. Però sono felice che prenda anche appunti. L´ultima volta è arrivato un tizio che aveva dimenticato di accenderlo. Alla fine mi ha guardato implorante: me la dà un´altra oretta?».
Nell´Occhio della mente ci apre un diario da incubo: la scoperta di una malattia che a 78 anni le ha fatto quasi perdere la vista dall´occhio destro. Lei ha reagito appunto con l´"occhio della mente": quello che integra la visione perduta con le esperienze elaborate dal cervello. Scrive: «Il tempo dirà se riuscirò ad adattarmi a questa sfida». Come va?
«Ho appena passato un weekend in campagna: lunghe passeggiate. Ma lì è più facile. Vivo in un mondo a due dimensioni e in città è tutto più complicato. I bordi dei marciapiedi che non riesci a intravedere. E poi questo traffico. Mi adatto: anche se non così bene come pretendo dai miei pazienti. Vivo circondato da lenti di ingrandimento. Leggo libri che hanno i caratteri più grandi. Potrebbe andare meglio se mi operassi di cataratta: ma se andasse storto mi ritroverei completamente cieco».
Da dottore a paziente: che cosa è cambiato?
«Ascolto con più attenzione. Ho sempre cercato di immaginare quello che provava l´altro: cercando di mettermi dalla sua parte. Paradossalmente adesso cerco di fare più attenzione a quello che dico io. Quello che dici è importante: e come lo dici. Ripenso al momento in cui il mio medico mi accennò alla possibilità di un tumore all´occhio. Non finii neppure di ascoltarlo e nella mia testa risuonavano solo due parole: cancro, cancro. Non dico che ci sono volte in cui il medico non debba dire la verità. Ma la delicatezza prima di tutto».
Che non è però di tutti.
«Il medico che m´ha curato – David Abramson, il libro è dedicato a lui – è stato eccezionale. Ma vede il mio polso? Beh, un dolore terribile: capita soprattutto agli scrittori. Chiamo e arriva quest´altro dottore. Non dice neppure "Salve". Non fa una domanda. Prende il polso. Solleva il braccio. Fa quello che deve fare con la sua macchinetta e stop. Gli dico ironico: "Oh, piacere di conoscerla!". Per carità: mi ha guarito. Ma non puoi demandare tutto alla macchinetta e via. La tecnologia è importante. Ma diceva Martin Buber: il problema non è la tecnologia, il problema è come umanizzarla».
Non è un tecnomane.
«Ecco: questa è la mia stilografica. E questa è la mia macchina per scrivere. Sono i miei attrezzi tecnologici. Però lo so: sono fortunato. Poi è la mia assistente Karen a riversare tutto su computer».
L´esperienza della malattia ha cambiato anche lo scrittore? E adesso si sente più medico o scrittore?
«Direi più medico. Meglio: il medico non è mai stato sacrificato allo scrittore. Mentre lo scrittore sì. Prendete la storia che apre il libro: la pianista che non sapeva più leggere la musica. Un caso bellissimo: ma ho dovuto aspettare tre anni prima di poterne scrivere. C´è una linea da rispettare tra la professione medica e la scrittura».
La prima volta che ha messo piede nell´ospedale che ispirerà Risvegli – dove ha incominciato a trattare i malati di encefalite letargica – erano gli anni Sessanta e quella clinica, la "Beth Abraham", si chiamava ancora "Casa degli incurabili". La dizione è stata abbandonata da un pezzo. Ma che senso hanno oggi le parole "curabile" e "incurabile"?
«Qual è il medico che la gente stima di più? Il chirurgo. Perché è quello che tecnicamente dà più soddisfazione. Il chirurgo opera: cioè taglia e rimette a posto. Ripara. La domanda è: cosa fare quando il mio problema non è "operabile"?».
Che cosa fare?
«La medicina è l´arte del possibile. Il mio mondo è diventato visivamente piatto: e io mi ci adatto. Ora mi accompagno con un bastone. Prima utilizzavo un passeggino. Ecco: la medicina è l´arte di adattarsi. Certo se fossi più giovane riuscirei ad adattarmi meglio».
Giovane e magari molto ricco: avere i mezzi aiuta. Malgrado la riforma sanitaria di Barack Obama.
«Che problema qui in America: se non paghi ti sbattono fuori dall´ospedale. Ma, se la cura è soprattutto "adattamento", allora proprio la riabilitazione dovrebbe essere la parte più importante. Io sono stato fortunato perché la mia assicurazione pagava bene: in ospedale c´era un tizio che il giorno dopo l´operazione al femore era già per strada».
Fa bene a indignarsi. Eppure lei non ha fama da intellettuale "impegnato".
«Mi piace quell´espressione che usano gli antropologi: osservatore permanente».
Prendiamo adesso: con i ragazzi di tutto il mondo che sognano di occupare Wall Street.
«Mai partecipato a una marcia. Cioè: una volta sola. Washington. Anche lì osservatore: quanto tempo sarà passato? Ero andato a raccontare la "rivoluzione dei non udenti": questo grande raduno di piazza per i loro diritti. Ma non fa per me: anche se riconosco che poi qualcuno lo debba fare».
A proposito di sguardo antropologico. Lei ha descritto lo "stato vegetativo cronico" come una condizione da zombie. Dai romanzi al cinema passando per la tv gli zombie sono tornati di moda: malgrado le proteste e i movimenti sarà una metafora della società?
«Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento epocale. Torniamo alla tecnologia. Fino a poco tempo fa un tizio sorpreso a parlare da solo per strada sarebbe stato considerato uno schizofrenico: oggi sta conversando al telefonino. Non dico che non sia strepitoso questo restare continuamente in contatto: ma consideriamo anche il prezzo di questa interconnessione. Sembra un paradosso: più aumenta la comunicazione e più si pensa meno».
C´è un vecchio gioco che nella A di America riassume il suo carattere: Adultery, Alcol, Addiction e Advertisement – cioè adulterio, alcol, dipendenza e pubblicità.
«Diceva lo psicologo William James: la miglior cura per la dipendenza è la religione. E la parabola di George W. Bush lo dimostra bene».
Ma l´America sa anche cambiare. Oggi la New York Public Library ha speso un milione di dollari per l´archivio di Timothy Leary, lo scienziato che finì in galera per gli studi sull´Lsd. Anche lei ha confessato di avere sperimentato con le droghe nei Sessanta.
«Purtroppo Leary fece tutta questa pubblicità col suo messaggio seducente e dannoso. Le anfetamine sono il peggio: fisicamente e psicologicamente. Ma lui si trasformò in una specie di profeta. Com´era il suo slogan? Tune in, drop out, lasciatevi andare. Non lo ricordo più. Ma un conto è lasciarsi andare per un weekend: troppa gente s´è lasciata andare per sempre».
Ma il suo rapporto con quegli esperimenti?
«Sto ultimando un libro proprio sulle allucinazioni e lì c´è tutto un capitolo dedicato alle droghe. Dico solo questo: ci abbiamo messo milioni di anni per arrivare a essere quello che siamo – e non esiste scorciatoia artificiale che prima o poi non faccia danni».
Non smette mai di cercare spiegazioni. Anche su di sé: è vero che fa psicoanalisi da 40 anni?
«Anche stamani. Come ogni lunedì e mercoledì: alle 6 del mattino. Psicoanalisi e neurologia? Genericamente parlando il mestiere dello psicoanalista è ascoltare: e anche il mio. Del resto Sigmund Freud era neurologo prima di diventare psichiatra. E poi la psicoanalisi serve a liberarci dalle paure profonde: a permetterci di essere più liberi a livello conscio. Per tornare al discorso di prima: a farci diventare meno zombie».
Nel libro rivela anche di soffrire di una malattia dal nome difficile: la prosopagnosi.
«Basta dire: la difficoltà a riconoscere i volti».
Il racconto è straordinario: come quando rivela che durante i ricevimenti la sua assistente faceva indossare agli ospiti delle targhette col nome. Domanda: ma se riconoscere un viso può essere così difficile – cioè se il riconoscimento sta soltanto nel nostro cervello – allora anche bellezza o bruttezza, per esempio, sono attributi relativi? Anche qui a scattare è l´"occhio della mente"?
«Non sempre. L´affermazione è sicuramente vera per le persone che noi amiamo: e che magari solo noi "vediamo" belle. Ma non può valere per un divo del cinema. La bellezza estetica esiste: comunque la vogliamo chiamare. Marilyn Monroe non poteva certo definirsi una bellezza intellettuale o morale: ma qualcosa aveva! E del resto: provate a scendere a passeggio per strada. Sono sicuro che vedrete un sacco di gente bella anche se non sarete in grado di "riconoscere" nessuno. Anzi: in questo siamo tutti prosopagnosici».

il Riformista 18.10.11
Eugenio Borgna è autore con Aldo Bonomi di Elogio della depressione (Einaudi, pp. 140),
Male oscuro: tra sofferenza e malinconia
di Flavia Piccinni

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il Riformista 18.10.11
Mettere a nudo il nostro ignoto
Lo stile “furioso” di Patrick White
Pubblicato per la prima volta nell’anno in cui ricevette il Nobel, “L’occhio dell’uragano” è forse il libro più riuscito dell’autore australiano. Un’opera che costringe il lettore ad esplorare - e a fare i conti - con quella regione popolata di fantasmi e spettri che risiede nel cuore di ognuno di noi. Tra psicologia junghiana, flusso di coscienza e misticismo giudaico-cristiano.
di Mario Fortunato

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La Stampa 18.10.11
Tragica ricorrenza. Il 16 ottobre 1943 1024 ebrei romani furono catturati dalle SS
La paura è quella di una nuova escalation dell’odio razziale
Cori antisemiti dalla Curva Nord Impunito il razzismo da derby
Gridati prima dell’inizio di Lazio-Roma: nemmeno una multa. La Comunità: “Ora basta”
di Guglielmo Buccheri


44% Gli italiani che esprimono pareri antisemiti. È il risultato di un’indagine della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati
51% Quelli che non vorrebbero un’ebrea per nuora
Più di un italiano su due risponde al sondaggio di non volere una donna ebrea come sposa del figlio
25% Non considerano gli ebrei «veri» italiani
Altri dati: il 38% non vorrebbe un collega ebreo e il 33% nutre per gli ebrei «poca simpatia»
La notte della vergogna Il 29 novembre del 1998 (nella foto) Lazio e Roma finirono a processo (sportivo) dopo l’esposizione di striscioni con la scritta «Auschwitz la vostra patria, i forni la vostra casa...» nella curva laziale e altri, sempre antisemiti in quella romanista

Roma. I primi, due, cori («...giallorosso ebreo...») partono dalla curva Nord quando al fischio d’inizio del derby capitolino mancano ancora due ore. Il terzo (stesso copione) prende in ostaggio l’Olimpico mentre Lazio e Roma scaldano i muscoli.
A macchiare una sfida cittadina intensa e nervosa, ma senza incidenti, è la deriva antisemita di una minoranza non silenziosa. La Comunità ebraica della Capitale insorge e, stavolta, non intende frenare: allo studio ci sono già una serie di azioni o riflessioni da mettere in campo perché, dicono, «il limite è superato e non da domenica sera...». Il timore di una nuova escalation della follia da stadio è forte nelle ore in cui un’indagine parlamentare mette in evidenza una propensione antisemita negli atteggiamenti di una parte significativa degli italiani. I dati: uno su tre nutre un sentimento di poca simpatia nei confronti degli ebrei, uno su quattro non li sente italiani, il 38 per cento non vorrebbe mai incontrare sulla propria strada professionale un capo ebreo, il 31 per cento pensa che siano loro a muovere la finanza mondiale e, fra gli altri elementi dell’indagine, il 51 per cento non vorrebbe che la propria figlia ne sposasse uno. Tradotto: il 44 per cento degli italiani ha espresso posizioni antisemite come emerge dal Comitato d’indagine conoscitiva composto da ventisei deputati di tutte le forze politiche.
L’Olimpico di Roma torna prepotentemente sotto i riflettori e il campo non c’entra. Non c’entra nemmeno la Lazio perché, fanno sapere dalla Comunità ebraica, il suo presidente è sempre in prima fila nel denunciare episodi di intolleranza.
E non può nemmeno entrarci in questo caso la giustizia sportiva che, ieri, ha multato la squadra laziale di 20 mila euro perché «i suoi tifosi usavano ripetutamente un fascio di luce laser sugli occhi di alcuni giocatori avversari» perché i cori non hanno attraversato lo stadio durante la partita, ma prima. Le norme della Figc parlano chiaro e devono essere in linea con quelle emanate in materia dal Viminale che affida al solo responsabile dell’ordine pubblico l’eventuale opzione di sospendere la partita davanti a fatti discriminatori.
Roma e il suo stadio tornano a far discutere. L’impatto dei cori nel giorno della commemorazione della deportazione degli ebrei romani (16 ottobre del ‘43) è forte e scuote le coscienze. Il 29 novembre di tredici anni fa a scuotere l’Italia intera fu uno spettacolo a dir poco folle offerto dalle due curve prima del derby. Lazio e Roma finirono a processo (sportivo) e la politica si mise in moto contro l’allarme razzismo dopo l’esposizione di striscioni con la scritta testuale «Auschwitz la vostra patria, i forni la vostra casa...» nella curva laziale e altri, sempre antisemiti, in quella romanista.
Il rapporto fra il calcio capitolino e tutto ciò che con il mondo del pallone non ha niente a che vedere è sempre stato al limite del punto di non ritorno. I cori di domenica sera hanno portato alla sollevazione una Comunità ebraica che non vuole più tapparsi gli occhi per evitare che i segnali di risveglio di certi atteggiamenti possano provocare una situazione sempre più avvitata su se stessa. L’anniversario del 16 ottobre del ‘43 è stato violato nel momento della riflessione di una città intera. E, a far riflettere, è il lavoro parlamentare reso noto ieri dalla Commissioni Affari Costituzionali e da quella Affari Esteri e Comunitari: il documento sottolinea con cifre e dati il pensiero degli italiani. Se «il 44 per cento manifesta, in qualche modo, atteggiamenti ed opinioni ostili agli ebrei, nel 12 per cento dei casi tale ostilità si configura come antisemitismo vero e proprio...», si legge nel testo che fotografa la situazione italiana.

Corriere della Sera 18.10.11
Cezanne. Gli occhi del Midi
Nella sua Provenza trovò l'ispirazione originaria Dipinse i grandi capolavori tra boschi e atelier
di Francesca Montorfano


Pare ancora di vederlo, Cézanne, il cavalletto sulle spalle, il bastone in mano, vagabondare per le campagne e le colline dell'amata Provenza, la possente montagna Sainte Victoire con i suoi versanti scoscesi e i crinali, le rive ombrose dei fiumi, i tetti rossi dei villaggi sul blu cobalto del mare. «Il paesaggio è splendido. Vedo delle cose magnifiche. Non voglio allontanarmi neanche di un passo dalla natura», scrive nel 1866 all'amico Zola, non stancandosi mai di arrivare a una comprensione viva di quanto lo circonda, di trasformare il profumo della terra, il calore delle rocce, il soffio del mistral, in armonie nuove di forme e colori. Dipingere en plein air, sur le motif, diventa per Cézanne lo scopo stesso dell'esistenza. Un imperativo che lo accompagnerà fino ai suoi ultimi giorni, all'ottobre del 1906, quando un violento temporale lo sorprenderà mentre ancora una volta sta lavorando all'aperto, causandogli quell'affezione polmonare che in poco tempo lo condurrà alla morte.
Sicuramente Cézanne è legato a Parigi, dove studia Vélazquez e Caravaggio, Courbet e Delacroix, dove frequenta gli impressionisti e ne condivide il dissenso con la cultura artistica ufficiale, dove conosce estimatori come il dottor Gachet o Ambroise Vollard, il giovane gallerista che nel 1895 gli organizza una personale, salutandolo per la prima volta come maestro. Ma è l'aspro e solitario Pays d'Aix delle sue origini la fonte della sua ispirazione, lo scenario per eccellenza delle sue esperienze creative. Così come lo sono i tanti atelier del Midi dove l'artista rielabora e trasferisce sulla tela quanto i suoi occhi hanno colto dal vero, creando capolavori assoluti, immagini vibranti di intensità e di luce.
Luoghi ricchi di suggestione e memorie che la grande mostra di Palazzo Reale curata da Rudy Chiappini consente oggi di conoscere più da vicino, ripercorrendo la vicenda biografica ed artistica del pittore, approfondendo i temi a lui cari da un'ottica nuova, particolare, il suo rapporto con la Provenza. «È la grande casa di famiglia del Jas de Bouffan il laboratorio delle sue ricerche giovanili, dove Cézanne dipinge anche sui muri di gesso per affermare il sogno di diventare pittore e vincere l'ostracismo del padre, il severo banchiere Louis-Auguste che non approva le scelte del figlio. Atelier privilegiati si riveleranno in seguito anche la soffitta dell'appartamento di Rue Boulegon, il capanno di Bibémus, i locali affittati a Château Noir, la piccola casa con giardino a l'Estaque», sottolinea Rudy Chiappini.
Qui nascono le sue prime, grandi prove, le opere dove si misura con gli antichi maestri, i lavori contraddistinti da una febbrile forza drammatica e colori cupi, dagli impasti corposi. Qui, a contatto con la pittura luminosa di Pissarro, la sua tavolozza si farà più chiara, più leggera la stesura data a piccoli colpi di pennello, mentre ai tanti paesaggi, ai ritratti di amici e famigliari, ai fumatori si alternano le bagnanti e le nature morte.
«Ma ecco che a partire dalla fine degli anni Settanta la sua visione della realtà si allontana da quella dei compagni di strada e Cézanne rifiuta la fugacità dell'impressione, il dissolvimento della forma nelle vibrazioni della luce, trasformando figure, oggetti e paesaggi in un gioco di linee e volumi, "secondo il cilindro, la sfera e il cono", come scrive all'allievo e amico Émile Bernard», continua Rudy Chiappini. «Traghettando così la pittura della tradizione verso nuovi orizzonti, aprendo la strada ai cubisti, a Picasso e alle sperimentazioni tutte delle avanguardie». Ma un altro spazio ancora, un altro luogo della mente e del cuore attende Cézanne agli inizi del Novecento per offrirgli nuovi punti di vista, l'atelier che l'ormai anziano pittore vorrà farsi costruire sulla collina brulla dei Lauves. Ed è nelle stupende nature morte, nelle ultime vedute della montagna Sainte Victoire, sua musa preferita, che ritrarrà per ben quaranta volte, nei delicati acquarelli di questi anni che la sua pittura decanterà in una dimensione di assoluta purezza, arrivando all'essenza delle cose, creando immagini universali, senza tempo.

Corriere della Sera 18.10.11
Paul e i suoi antenati stregati dalla solitudine
di Francesca Bonazzoli


Il 15 ottobre 1906 Cézanne viene trovato morto sul ciglio di un sentiero della campagna di Aix. È un contadino a soccorrerlo e a riportarlo nella casa dove vive da solo, nonostante sia molto malato. La moglie Hortense e il figlio Paul, a Parigi, vengono avvisati della grave situazione in cui versa l'anziano pittore ma non fanno in tempo a rivederlo vivo.
Dopo aver rinunciato sia a fare gruppo con gli Impressionisti che a esporre al Salon, conquistato finalmente il consenso di critici e collezionisti, a sessant'anni Cézanne aveva fatto dell'isolamento la bandiera della sua vecchiaia. Comprò una piccola proprietà di campagna ai Lauves, non lontano da Aix-en-Provence, sua città natale e lì condusse una vita molto appartata, concentrato sul solo lavoro, con l'unico desiderio di «morire col pennello in mano». In una lettera al figlio confida: «Ieri quel pretaccio di Gustave Roux ha preso una carrozza ed è venuto a importunarmi da Jourdan: com'è appiccicaticcio. Mi sono impegnato ad andare a trovarlo al Collegio cattolico. Non ci andrò».
Cézanne non era un isolato: era stato molto amico di Zola prima della clamorosa rottura; conosceva l'editore Georges Charpentier, Georges Clemenceau, Ambroise Vollard, Mary Cassatt, alcuni giornalisti con lui benevoli ma non traeva alcun piacere da queste rare frequentazioni: «Disprezzo tutti i pittori viventi salvo Monet e Renoir e voglio riuscire nel mio lavoro», confessava al critico Joachim Gasquet. Lavoro, lavoro, solo lavoro. E per lavorare aveva bisogno della solitudine, come molti altri pittori prima e dopo di lui. Anzi, si può dire che gli artisti si dividano in due specie: quelli che nutrono la loro arte con la mondanità e le frequentazioni, come Raffaello, gentiluomo a suo agio con papi, cardinali e grandi banchieri, o come Toulouse-Lautrec, sempre circondato da ballerine, bel mondo nobiliare e demi-mondaine, come farà Andy Warhol. Per costoro l'ispirazione viene proprio dal mondo che frequentano: non ne potrebbero fare a meno.
Sul versante opposto ci sono gli scorbutici, quelli per cui «gli altri», praticamente tutti e specialmente i committenti, sono un fastidio. Sono gli artisti saturnini, quelli che litigano alla prima occasione e soffrono di forme più o meno gravi di paranoia. La solitudine è l'unica condizione in cui possono lavorare. La loro dimensione mentale è quella monastica dell'hortus conclusus. Per loro dipingere è fatica; è il tempo lungo della durata non quello fulmineo dell'illuminazione; è sedimentazione non improvvisazione. Fra i campioni di questa folta pattuglia va annoverato Michelangelo che non solo litigava sempre (via lettera) con i parenti fiorentini ma non sopportava vicino a sé nemmeno gli allievi e, infatti, fece a meno degli aiuti persino per le imprese ciclopiche come la Sistina.
Lorenzo Lotto preferì la quiete delle Marche e la solitudine del convento di Loreto, dove entrò come oblato, alle mondanità di Venezia, città dove era nato. Anche al Pontormo era molto piaciuto il romitaggio della Certosa del Galluzzo, dove era stato chiamato a lavorare, che gli consentiva «lo star lontano dal comerzio degl'uomini». E per isolarsi nella sua casa di Firenze, dove peraltro viveva da solo, aveva costruito una stanza soppalcata, dove dormire e lavorare, cui si accedeva attraverso una scala «la quale entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò niuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa».
L'isolamento era necessario anche a Tintoretto che aveva moglie, famiglia numerosa e aiutanti ma «stava per lo più del tempo, che tralasciava il dipingere, ritirato nello studio suo, riposto nella più rimota parte della casa... né colà introdusse, che di rado, alcuno».
Fra i solitari non possiamo dimenticare Degas, astioso e misantropo o Morandi, la cui ossessione di ridurre l'orizzonte del mondo alle quattro mura dello studio è ben nota. Per tali artisti la mondanità è un grande fastidio. Basta guardare l'autoritratto di Carlo Dolci: in veste da gentiluomo ha l'aria triste e vacua mentre nel foglio che tiene in mano, dove si ritrae in veste da pittore, con occhiali e pennello, l'espressione è vivace e assorta. Un messaggio molto chiaro.
Gli esempi sono innumerevoli, trasversali per nazione ed epoca e una cosa ci dicono: quello dell'artista è più spesso un amaro romitaggio; più una condanna alla solitudine che un privilegio.

Corriere della Sera 18.10.11
«Non voleva ritrarre la natura, ma farne parte»
di Roberta Scorranese


«Era un "contadino" della pittura. Un bracciante, nel senso più nobile del termine: perché era infaticabile, capace di camminare venti chilometri al giorno per andare a cercare quel punto preciso della Provenza dove la luce si fa architettura».
Così Philippe Cézanne, settantenne critico d'arte e bisnipote del maestro di Aix-en-Provence, descrive il grande artista. Lui vive a Megève, tra le alture della Savoia, ma trascorre molto tempo nel Midi, tra quelle armonie di rossi, verdi e azzurri che il suo bisnonno tradusse in colori e forme. Co-curatore della mostra milanese, monsieur Philippe si rivolge all'illustre parente chiamandolo rispettosamente "Cézanne", tralasciando appellativi familiari. Un po' per pudore vetero-sabaudo, un po' per un riguardo prima di tutto estetico. «Lo dico da esperto d'arte — continua —: Cézanne ha inciso nella storia per la sua capacità straordinaria di andare oltre il colore. Cercava una concretezza speciale, vivida. E cercava l'anima delle cose, andava a fondo». A costo di dimenticarsi di avere una vita comune, trascurando i bisogni elementari.
Della sua ostinata ricerca della solitudine molto si è detto, ma il discendente osserva: «Non era tanto una questione di cattivo carattere, sebbene sia passato alla storia come un burbero. Era una questione di rigore professionale. Per osservare bene un punto preciso del paesaggio doveva stare solo con l'idea di quel luogo. Era come entrare in comunione con la natura. Sennò come avrebbe fatto a lasciarci certi capolavori?» Farsi paesaggio, in breve, come scrisse Musil ne «L'uomo senza qualità». Quel mezzogiorno francese, che quando cala il maestrale lascia sbiadire i verdi nella luce plumbea e si trincera dietro i profumi. Lavanda, rosmarino, violetta. «Cézanne era appassionato di geologia — dice il bisnipote — e studiava a lungo la conformazione del terreno, la sua intima natura. Mi hanno raccontato che annotava le caratteristiche delle pietre, delle zolle». La "sua" montagna della Sainte Victoire, per esempio, un tabernacolo da proteggere, qualcosa da immortalare per restituirla intatta al futuro. Quando, quasi a fine Ottocento, gli prefigurarono la prospettiva di una ferrovia si infuriò. L'idea che un treno potesse attraversare le sue alture e deturpare quelle linee così faticosamente assimilate non gli andava giù. Così come ha fatto il più giovane Philippe qualche anno fa, in piena polemica per la realizzazione della linea ad alta velocità da Parigi al Midi.
«Non voglio essere scambiato per un oltranzista — precisa subito — però ho fatto presente che si potevano trovare altre soluzioni. Quella zona non era esclusiva prerogativa del mio bisnonno, ma vi hanno trovato ispirazione centinaia di artisti da tutto il mondo, che venivano nel Midi a dipingere perché incantati da quel paesaggio integro, quasi virginale». Van Gogh, tanto per fare un nome, che qui visse e dipinse prima di essere rinchiuso nella casa per malati di mente. O Picasso, naturalmente. Eppure, quando esplose la protesta contro la linea ad alta velocità, nel 2009, i cartelli dei "no Tav" si appellavano all'artista di Aix-en-Provence, con scritte del tipo «Cézanne aiuto, sono diventati tutti pazzi».
Chissà lui come avrebbe reagito. «Mio padre mi raccontava che dietro quella facciata molto fredda e distaccata c'era una notevole capacità di empatia con gli altri — conclude Philippe Cézanne —. Basti pensare che lui si divise sempre tra Parigi e altri luoghi per essere vicino alla famiglia. Eppure per tutta la vita si considerò sempre alla prova. Era come se non fosse mai soddisfatto, mai sazio». Ambiva ad assorbire la sua Provenza, voleva una comunione totale. Picasso intuì questo legame così forte e forse fu anche per questo che acquistò un castello vicino alla montagna di Sainte Victoire. Ma non la dipinse mai.

La Stampa 18.10.11
Medicina on line
Quando il dialogo in rete non basta
Per la psicoterapia solo consigli serve l’incontro di persona


Con i suoi oltre dieci anni di esperienza nel settore della medicina online, Medicitalia è una tra le iniziative più longeve del web italiano. Sul sito sono rappresentate tutte le specialità mediche più la psicologia, cosicché l’utente può sempre indirizzare i propri dubbi allo specialista di competenza. «Molti utenti ci rivolgono domande e questioni di ogni tipo, con tono a volte più leggero, a volte più urgente» spiega Giuseppe Santonocito, psicologo e psicoterapeuta a Firenze, referente scientifico di Medicitalia. «Ma i medici e gli psicologi che rispondono su Medicitalia sono sempre professionisti reali, che prestano servizio in ospedali, cliniche o studi privati. Pertanto è vera la seguente equazione: medici e psicologi che rispondono a Medicitalia uguale medici e psicologi reali». Una uguaglianza che induce molti utenti nell’errore di considerare altrettanto vera anche un’altra: il consulto online su Medicitalia è uguale al consulto di persona. «Purtroppo però non è così - continua Santonocito -. Potrà anche sembrare banale, ma molte delle risposte fornite, specialmente in psicologia, contengono un concetto piuttosto deludente per l’utente/paziente: “Il suo problema non può essere risolto online, deve fare colloqui e visite di persona”. Sono frequenti gli utenti che espongono il problema concludendo con la formula: “Aiutatemi per favore!” e aspettandosi di ricevere il consiglio risolutore, un deus ex machina che risolverà ogni problema. Va detto come chi soffre di una qualche forma di disagio psicologico si senta intrappolato in una situazione dalla quale non vede via d’uscita. In tali condizioni è semplice lasciarsi sedurre da qualsiasi soluzione in grado di porre fine al problema in modo immediato, anche se poco o per nulla razionale. Per tale ragione, molte delle domande che gli utenti rivolgono a Medicitalia contengono aspettative troppo elevate per essere soddisfatte. Per lo meno a distanza. Vi sono anche casi diversi, che alla base hanno paura o riluttanza a recarsi dallo psicologo. Può trattarsi di vergogna, di bisogno eccessivo di far da sé, difficoltà economiche o un misto di queste e altre ragioni. Non si tratta di cattiva volontà da parte dello specialista, ma del fatto che la psicoterapia per email non può funzionare (né tantomeno la medicina). Tranne alcuni tentativi isolati, la ricerca è ben lontana dall’aver dimostrato che una conversazione per email, in particolar modo una conversazione speciale come quella fra terapeuta e paziente, sia equivalente a una faccia a faccia. Inoltre, l’autoregolamentazione del sito proibisce d’intervenire, chiarendo che un consulto online non è equivalente a uno reale e che l’utente deve sempre riferirsi a visite e consulti di persona. Medicitalia rappresenta, quindi, esclusivamente una seconda opinione rispetto a quella del medico curante. Il fenomeno della richiesta pretenziosa è comune a molte aree specialistiche rappresentate su Medicitalia, ma in modo particolare in psicologia. Si sa che lo psicoterapeuta lavora con la parola, perciò è forte la tentazione di considerare vera anche una terza equazione: conversazione terapeutica online = conversazione terapeutica faccia a faccia. In fondo non si tratta sempre di parole? Perché lo psicologo è efficace di persona, ma non a distanza? Che cos’ha in più la conversazione de visu rispetto a quella mediata? A volte gli utenti ce lo chiedono senza giri di parole, delusi dalla risposta ricevuta, magari dopo un notevole sforzo di introspezione. E dal loro punto di vista è comprensibile. La differenza fra una comunicazione online e una di persona è che nella prima mancano del tutto le informazioni non verbali, preziosissime sia per lo psicologo sia per il medico. Il tono di voce, l’aspetto, il modo di muoversi, la postura, l’enfasi, sono tutte indicazioni che aiutano a differenziare un problema che, nella descrizione verbale fornita da due differenti individui puo sembrare il medesimo ma che, nella sostanza può essere molto differente. Giudicando dalla sola descrizione verbale, si potrebbero fornire gli stessi suggerimenti a entrambi. La nostra avarizia di “consigli” è tutta nel migliore interesse dell’utente».

Repubblica Salute 18.10.11
Neurologia
Un corpo virtuale perché l’anoressica accetti il proprio
Esperienze extracorporee allo studio: "Nessun fenomeno soprannaturale", piuttosto possibili future applicazioni terapeutiche
di Christine Amrhein


Vi sono pazienti epilettici che, preparandosi a un intervento di neurochirurgia e venendo stimolati elettricamente in determinate aree cerebrali, hanno allucinazioni visive, non riescono a esprimersi adeguatamente, scoppiano in un riso sfrenato. Una di queste riferiva: «Mi vedo distesa sul letto. Io sto in alto, sul soffitto, e da lassù guardo il mio corpo. Vedo dall´alto anche il tavolo e la finestra e tre persone che sono anche loro nella stanza». Si tratta di esperienze extracorporee che si riscontrano anche in certe malattie neurologiche, come lesioni e tumori cerebrali o gravi forme di emicrania. Ma perfino in soggetti sani possono comparire spontaneamente sensazioni così inquietanti: nel 5% degli adulti circa.
Per avere l´illusione di trovarsi fuori del proprio corpo o addirittura in un corpo altrui è necessario alterare la coordinazione fra impressioni sensoriali diverse che di norma sono strettamente connesse fra loro. È quello che hanno fatto alcuni neuroscienziati di Stoccolma e Losanna. In un esperimento condotto nel laboratorio di Henrik Ehrsson al Karolinska-Institut di Stoccolma, un paziente indossava al posto degli occhiali un visore sul quale erano proiettate le immagini riprese da due telecamere parallele montate sulla testa di un manichino. Le telecamere erano puntate in basso, cioè sul corpo del manichino stesso, cosicché il soggetto attraverso il visore invece del proprio corpo vedeva quello del manichino. Se lo sperimentatore toccava con due bastoncini di ovatta contemporaneamente il ventre del soggetto e quello del manichino, l´effetto era sconcertante: il soggetto aveva la netta impressione di stare dentro il corpo del manichino. Se invece i due contatti erano sfasati la sensazione non si produceva. Se puntava un coltello al ventre del manichino, il soggetto reagiva con un´intensa sudorazione, segno di eccitazione e paura. I risultati dimostrano che i segnali provenienti dai vari organi di senso e dalle varie parti del corpo sono sempre analizzati e interpretati insieme. (A conclusioni simili è arrivata anche l´équipe di Olaf Blanke (Laboratorio di neuroscienze cognitive a Losanna).
Per tali fenomeni, una regione del cervello sembra rivestire maggiore importanza: la cosiddetta giunzione temporo-parietale al confine fra i lobi temporale e parietale: interviene nell´elaborazione delle sensazioni di equilibrio, ma vi converge anche tutta una serie di altri stimoli sensoriali.
Secondo gli studiosi la possibilità di "trasferirsi" in un altro corpo potrebbe essere impiegata nella terapia delle pazienti anoressiche: «La nostra idea è che la paziente "si infili" in corpi di taglie diverse e impari così ad apprezzare meglio il proprio». O nel trattamento del dolore: «Si può immaginare che il paziente proietti in maniera controllata i suoi dolori su un corpo virtuale».
* da Psicologia contemporanea novembre/dicembre 2011

La Stampa 18.10.11
Oggi il via a Torino
Il Museo Egizio mette in Rete le mummie
di Maurizio Assalto


Anche le mummie vanno online. Con tutti gli oggetti da cui erano circondate quando ancora non erano tali e ovviamente con il loro corredo funerario. C’è tutto ma proprio tutto nel database del Museo Egizio di Torino.
Il Museo Egizio di Torino mette online la sua collezione, compresi i magazzini E intanto festeggia il suo 180˚anno eguagliando il record storico di visitatori

E così anche le mummie vanno online. Con tutti gli oggetti da cui erano circondate quando ancora non erano tali, con le statue colossali che contrassegnavano il loro panorama quotidiano, le steli, i papiri, i vasi, gli abiti, i gioielli, il mobilio, i giocattoli, e ovviamente con il loro corredo funerario. C’è tutto ma proprio tutto nel database del Museo Egizio di Torino che viene presentato questa mattina (ore 11,30 presso la Biblioteca Nazionale, con il presidente della Fondazione Museo delle Antichità Egizie Alain Elkann e la direttrice Eleni Vassilika): i 6500 reperti esposti nel secentesco palazzo di Guarino Guarini, sede dal 1831 di una delle più importanti collezioni egittologiche al mondo, oltre ai 4400 conservati nei magazzini già conferiti dal ministero dei Beni Culturali dopo che il museo, sette anni fa, è diventato una Fondazione che unisce nella gestione pubblico e privato. Presto toccherà ai 1200 pezzi del lapidario, e poi agli altri 19 mila ancora da inventariare nei depositi.
Si realizza in questo modo uno dei punti qualificanti del programma della direttrice Eleni Vassilika, che fin dal suo insediamento, nel 2005, ha puntato sulla piena accessibilità, fisica e intellettuale, alle collezioni. Entro il 2015 il volto dell’antico museo sarà radicalmente trasformato e alla fine la superficie espositiva risulterà quasi raddoppiata, con l’acquisizione (dal luglio dell’anno prossimo) dei locali ora occupati dalla Galleria Sabauda. Mentre i lavori avanzano, l’Egizio festeggia il suo 180˚ compleanno avviandosi a confermare il record storico di 576 mila visitatori registrato l’anno scorso, in coincidenza con l’ostensione della Sindone, nonostante la minore capacità di accoglienza dovuta ai lavori in corso («Ma abbiamo sempre tenuto tutto esposto», sottolinea la direttrice). Intanto, però, mette a disposizione di tutti, in forma virtuale, il proprio straordinario patrimonio. Per ora soltanto in italiano, ma presto si rimedierà.
Si accede al database dal sito del museo (www.museoegizio.it), cliccando sul link «Le collezioni» e quindi ancora su «Collezione». Comparirà un schermata che consente le ricerche generiche, oppure per categoria (da «abbigliamento e ornamenti» a «ushabti» - piccole statue funerarie -, passando attraverso una trentina di voci), per materiale (legno, granito, tessuto ecc.), per provenienza (da «Abido» a «Valle delle Regine», 199 voci) e perfino per numero di inventario e collocazione museale. «In questo modo», spiega la Vassilika, «se un visitatore vuole sapere di più di un oggetto che ha visto nella Sala 3, ma di cui non si ricorda bene, potrà ritrovarlo ugualmente». Un esempio pratico: nella ricerca generica scriviamo «Nefertari» (la «bella tra le belle», grande sposa reale di Ramesse II). Avremo una lista 65 oggetti attinenti (amuleti, cassette, statue ecc.). Se clicchiamo su uno di questi, per esempio «Statuetta di Ahmose Nefertari», otterremo una scheda con le dimensioni, la datazione (Nuovo Regno, XVIII-XX dinastia), il materiale (legno policromo), la provenienza (Deir el-Medina), la categoria e la collocazione, oltre ovviamente alle foto. Segue una breve descrizione e una bibliografia, con tutti i libri presenti nella biblioteca dell’Egizio, e quelli delle altre principali raccolte specializzate, in cui l’oggetto in questione viene trattato. Insomma, davvero, i segreti dell’Egizio non sono mai stati così accessibili.
«Ci siano messi nei panni di un ragazzo delle scuole medie», commenta la direttrice, «per questo non ci siamo dilungati troppo nelle descrizioni, lasciando a chi volesse la possibilità di approfondire. Abbiamo voluto offrire una ricerca friendly ». Il software utilizzato Museum Plus, messo a punto da una società svizzera - consente di gestire un gran numero di informazioni, comprese quelle che non sono state messe in rete, come il valore assicurativo dei singoli pezzi. Piuttosto contenuti i costi, circa 50 mila euro, grazie anche alla collaborazione di tutti quelli che sono impegnati al riallestimento del museo, lavorando soprattutto il lunedì, giorno di chiusura. «Molte fotografie le abbiamo fatte noi», aggiunge la Vassilika, «in qualche caso più d’una per ogni reperto, in modo da offrirne tutti i dettagli e le prospettive. In altri casi, quando erano di buona qualità, abbiamo utilizzato le vecchie foto in bianco e nero».
È invece sulle schede che si è intervenuti a fondo. Ce n’erano alcune che si portavano dietro errori grossolani di origine ottocentesca. La direttrice fa un esempio: «Prima nella descrizione di un djed , un amuleto in forma di geroglifico che rappresenta la stabilità, si trovava: “legno dorato, smaltato”. Un’assurdità, perché un oggetto di legno finirebbe bruciato dalle alte temperature necessarie per lo smalto. Adesso abbiamo corretto: “legno dorato, con incastri di pasta di vetro”».
L’occasione del database è servita per riprendere in mano tutti i reperti uno per uno, aggiornare e correggere dove necessario. Un lavoro che pone l’Egizio all’avanguardia tra gli altri musei consimili. «Il Metropolitan di New York», dice la Vassilika, «ha scansionato e messo online le vecchie schede, senza controllarle. Il British Museum non ha messo tutti i pezzi, e poi non propone categorie organizzate, così è uno strumento utilizzabile solo da chi sa cosa cercare. Il Louvre sta cominciando ora, l’Altes Museum di Berlino ha online soltanto l’archeologia classica. Al Cairo, invece, è avviato un progetto “Eternal Egypt” per un grande database che ospita anche 250 nostri oggetti, ma è indipendente dal museo».
Anche a Torino, chiarisce la direttrice, il work è in progress : «Siamo aperti ai contributi, in particolare invitiamo gli studiosi di tutto il mondo a arricchire la nostra bibliografia». L’auspicio è quello di dare vita a una comunità virtuale senza confini, dove possano entrare, e trovare quel che serve loro, gli egittologi come i semplici appassionati, e soprattutto gli studenti. Per gli Egizi, già consegnati alla durata eterna dal lavoro degli antichi mummuficatori, si spalancano le porte dell’eternità digitale.

Corriere della Sera 18.10.11
Da uno scontro cosmico sta nascendo la supergalassia
La fusione si completerà fra 400 milioni di anni
di Giovanni Caprara


Che cosa sta succedendo nel disastro cosmico più impressionante del quale siamo testimoni in diretta nella costellazione del Corvo? Aprendo gli occhi per la prima volta, la rete di radiotelescopi Alma ha mostrato un mondo incredibile in rapida trasformazione a 45 milioni di anni luce dalla Terra. Qui due galassie a spirale (NGC 4038 e NGC 4039) 1,2 miliardi di anni fa brillavano tranquillamente. Ma viaggiando nel cosmo le loro direzioni si sarebbero incrociate pericolosamente. Infatti 900 milioni di anni fa la vicinanza divenne così ridotta che le loro stelle cominciarono ad interagire. Finché, 600 milioni di anni fa, iniziò lo scontro che diventò sempre più straordinario. E lo scontro è ancora in corso. Gli astronomi calcolano che occorreranno ancora 400 milioni di anni perché i rispettivi nuclei delle due isole stellari si uniscano del tutto insieme dando origine ad una sola, imponente supergalassia. Da tempo i migliori osservatori di terra e in orbita puntano i loro occhi su questa catastrofe spaziale per coglierne i segreti ma, mai prima d'ora, si era riusciti a far penetrare lo sguardo tanto in profondità tra gli astri in collisione. Lo si è potuto ottenere grazie alle capacità di una nuova batteria di radiotelescopi che sta sorgendo in uno dei luoghi più favorevoli per l'astronomia come quello delle vette montagnose a 5 mila metri di quota nel deserto di Atacama in Cile, uno dei luoghi più aridi del nostro pianeta.
Questa qualità permette ad Alma di «vedere» nella lunghezza d'onda del millimetro, e anche al di sotto, scrutando le zone più fredde dell'Universo dove si nascondono polveri e nubi di gas da cui si formano le stelle. «Pur con un numero limitato di sole 16 parabole attive — commenta Massimo Tarenghi, direttore del programma — il risultato è spettacolare e al di sopra di ogni altro telescopio perché contemporaneamente abbiamo raccolto un'immagine dettagliata, una sorta di zoomata, e i dati spettroscopici che raccontano la natura dell'oggetto. Quando avremo tutte le 66 antenne completate nel 2013 scopriremo cose inimmaginabili. Alma apre una finestra sull'alba dell'Universo finora mai esplorata».
L'impresa è il frutto di un progetto condiviso tra Stati Uniti, Europa e Giappone che costruiscono 25 antenne, i primi due, e 16 Tokyo. Tarenghi fa parte dell'Eso (European Southern Observatory). Per la parte europea la tecnologia è soprattutto italiana essendo coinvolte European Industrial Engineering (Eie Group), Thales Alenia Space Italia a cui si aggiunge MT-Mechatronics tedesca.
«Abbiamo iniziato a lavorare al progetto ancora nel 1986 con il professor Franco Pacini dell'Osservatorio di Arcetri — racconta Gianpietro Marchiori presidente di Eie Group — avevamo appena completato il lavoro con i quattro grandi telescopi Vlt sempre in Cile e bisogna realizzare un'opera le cui prestazioni erano sino allora ritenute irrealizzabili. Ma ci siamo riusciti: ora le nostre antenne dimostrano di essere superiori nelle prestazioni a quelle americane e giapponesi».
«Fabbricare le parabole di 12 metri di diametro in fibra di carbonio è stata una sfida — nota Luigi Pasquali alla guida di Thales Alenia Space — tenendo conto che devono garantire per decenni un puntamento perfetto con temperature che vanno da meno 20 gradi a più 40 gradi. Il risultato deriva soprattutto dall'applicazione di tecnologie da noi sviluppate per lo spazio».
Quando Alma aprirà completamente gli occhi «le sue antenne — conclude Tarenghi — potranno anche avvistare il pianeta gemello della Terra attorno a un' altra stella».

The Lancet Neurology 10, 11 novembre 2011
Altered mind: creation of an artist


Emma Hill  Shadows Bright as Glass
Nutt Amy Ellis
Piatkus Books, 2011
Pp 288. £13·99. ISBN-978-0-7499-5623-3

What would you do if you had a symptom so severe that you thought of ending your own life? If one operation could cure you or leave you with devastating disability? That was the conundrum faced by Jon Sarkin, a chiropractor from the USA who developed a tortuous noise in his ears, tinnitus, which he described as being “like a thousand screaming baboons…”. Yet just hours after brain surgery, which he hoped would relieve it, he suffered a massive bleed inside his skull, and lost the man he knew to be himself.
He emerged, after months and years of rehabilitation, as a prolific artist. His continual creation of work, he realises as time passes, is his own search for who he is.
This is the debut solo non-fiction work by Amy Ellis Nutt, a journalist and writer from New Jersey, USA. The book was born from a series of articles about Sarkin in the Star-Ledger newspaper, which won her the accolade of the Pulitzer Prize in 2009. It surely involved an immense amount of time and effort, not least from Sarkin and his family, as they relived what must have been the hardest years of their lives. Nutt manages to maintain a lively narrative of the unfolding of the new Jon Sarkin, from healthy young man to stroke survivor, while also using clear, succinct explanations of neuroscience along the way to help describe what was going on; and she does it in a way that can be understood by any reader drawn to the text, scientist or not.
I would recommend this book to anyone who has an interest in people, with or without any knowledge of the brain. My only criticism (perhaps partly because of the nature of his injury and the ways in which he changed) was that afterwards I was still wondering who Jon Sarkin is now. Throughout the book there is no photograph of the man and no illustration of his art, and I found myself looking to the internet to see him, hear his voice, and watch him at work. Nutt's journalistic style is absorbing and the book makes very compulsive reading, but I would have loved some illustration to accompany her descriptive text.
As a writer though, Nutt has not just put together a medical narrative of how brain damage can affect a person, and there are plenty of texts out there if you simply want the science, but she has written about a family, a father, a husband, and a man who eventually learns more about his own brain, and his own self, than any of us may dare to in our entire lives.

Corriere della Sera 18.10.11
La nostra anima «svelata» dal paesaggio
Lo psicologo Fuligni: «Ad ambienti fisici armonici corrispondono positive attivazioni della mente»
di Marco Gasperetti


LUCCA – Attenti a dove abitate, guardatevi attorno: dietro a un paesaggio metropolitano si potrebbe nascondere la vostra anima. Già, perché una piazza, una chiesa, giardini all’italiana, tecnologie urbanistiche innovative, ma anche degrado, sporcizia e cementificazione selvaggia, possono cambiare il carattere e la psiche di una persona. È il rapporto che intercorre tra quella che gli psicologi chiamano «self identity» e «place identity», identità individuale e identità del luogo, e che sarà uno dei temi dibattuti a Lubec 2011, la rassegna internazionale sui Beni culturali e le tecnologie che si apre, sotto l’altro patronato della presidenza della Repubblica, giovedì 20 ottobre a Lucca.
L'AMBIENTE CHE (CI) CAMBIA - Paolo Fuligni, psicologo, docente universitario ed esperto di ecologia urbana, (uno dei tanti relatori della rassegna lucchese) presenterà alcuni dati su come il paesaggio (in tutte le sue accezioni, compresa le tecnologie urbane) possa modificare radicalmente il carattere di un soggetto. «Vivere nelle campagne del Chianti, nelle periferie nordoccidentali di Parigi, o negli immensi viali di Los Angeles, non è la stessa cosa – spiega Fuligni -. La morfologia del luogo, i suoi spazi, così come i suoi suoni e i sui colori o magari i non colori, hanno un peso significativo sull'identità delle persone che lo abitano, sul loro comportamento e sul loro benessere psico-fisico». La tecnologia sembra avere un ruolo importante per dimostrare il rapporto tra psiche-paesaggio. A Lubec saranno discusse alcune ricerche realizzate con l’aiuto della risonanza magnetica. «A paesaggi e ambienti fisici armonici ed esteticamente gradevoli – spiega Fuligni - corrispondono positive e benefiche attivazioni di aree encefaliche importanti.
MAPPA DEI CARATTERI - In risposta a tali stimoli si genera infatti un'organizzazione sincrona e un aumento di connessione tra diverse aree dell'encefalo, potenzialmente capaci di generare un aumento della socialità. Per contro, a stimoli ambientali stressanti (traffico, affollamento, alte densità) o ipostimolanti (monotonia, grigiore), corrispondono indesiderabili attivazioni di aree connesse all'allarme, alla chiusura e, virtualmente, alla risposta aggressiva». Fuligni e suoi collaboratori stanno cercando di creare una mappa dei caratteri delle città e delle campagne italiane. Un lavoro sul campo, difficile e complicato, che è appena iniziato in Toscana e che poi si allargherà al resto d’Italia. «Uno studio che potrebbe essere fondamentale per dimostrare come il paesaggio e i beni culturali non siano solo estetica e cultura – dice Francesca Velani, direttore di Lubec – ma sostanza stessa della psiche umana». Come dire, l’evoluzione mentale dell’uomo passa anche attraverso un palazzo esteticamente da censurare o una strada piena di traffico. Non è un caso che siano in aumento nevrosi e psicosi provocate dal paesaggio urbano.
LE TECNOLOGIE PER LA CULTURA - Ma a Lubec 2011 si parlerà anche delle tecnologie capaci di aiutare a salvare i Beni culturali e dunque anche il paesaggio e forse la psiche umana. E saranno presentati progetti in anteprima come «Visito» un sistema elaborato dal Cnr che, via smartphone e un sistema wi-fi ad altissima velocità, riesce a ricostruire nella memoria dei dispositivi mobili in tempo reale un monumento (o una piazza) com’era nel passato e dare tutte le informazioni, anche quelle invisibili. Un esempio? Basta inquadrare con la fotocamera del telefonino Palazzo Vecchio a Firenze per avere un cicerone virtuale a disposizione e vederlo anche come era ai tempi dei Medici. «Archimede» è invece un laboratorio mobile attrezzato con lo stato dell’arte dell’hi-tech per soccorrere luoghi storici e monumenti a rischio «impatto umano». Realizzato dalla società romana SarTech in collaborazione con università e centri di ricerca, Archimede riesce a fare una diagnosi in pochi secondi. Chissà, se ci fosse stato lui, il crollo di Pompei avrebbe potuto essere evitato.