venerdì 21 ottobre 2011

il Fatto 21.10.11
Il Partito democratico pellegrino in Vaticano
Dopo il convegno dei cattolici a Todi che ha decretato finito Berlusconi, Bersani dialoga con Fisichella
di Marco Politi


Tre giorni dopo il convegno cattolico di Todi Luigi Bersani mette piede in territorio vaticano e difende l’autonomia della politica, rilancia il dialogo tra cattolici e non credenti, esorta a trovare “soluzioni condivise” per far ripartire l’Italia.
Sarà perché da piccolo ha organizzato uno sciopero di chierichetti, ma nel confronto con il vescovo Rino Fisichella – fresco dell’incarico ricevuto da Benedetto XVI di promuovere la “nuova evangelizzazione” – il segretario del Pd non mostra complessi di inferiorità né cede a tentazioni compromissorie.
Nel faccia a faccia, organizzato da Piero Schiavazzi per “Eventi Elea” in un palazzo della Santa Sede con tanto di gendarmi vaticani di guardia, si avverte a differenza di altre occasioni l’atmosfera pesante di una situazione del Paese contrassegnata da un drammatico decadimento. Nel parlare di rapporti tra Stato e Chiesa, come si è visto anche dai recenti interventi del presidente della Cei Bagnasco, nessuno può dimenticarlo.
Forse con qualche nostalgia di troppo per la stagione dello scontro-incontro tra Dc e Pci, mons. Fisichella batte il tasto della frammentazione odierna dell’Italia. “La debolezza della politica – dice – è frutto della debolezza di una società disorientata, paurosa e priva di idealità”. La cura, spiega, non può venire solo dalla politica ma dalla “sinergia” di quanti comprendono la drammaticità del momento. E qui entra in campo l’apporto dell’insegnamento della Chiesa e il richiamo al “diritto radicato nella stessa legge di natura” a cui una “laicità creativa” – neologismo inventato dal monsignore – deve sapersi ancorare per creare uno stato giusto e pacifico che non sia, sant’Agostino docet, una “banda di briganti”.
Discorso pacato, che si richiama all’intervento di Benedetto XVI al parlamento di Berlino, che però in coda riafferma nettamente i famosi “principi non negoziabili” con un avvertimento duro nonostante la confezione morbida: “Questi principi sono a fondamento di ogni altro impegno a favore dell’uomo nel suo vivere sociale; ogni tentativo di volerli limitare o modificarne l’ordine gerarchico non sarebbe privo di conseguenze per il corretto impegno dei cattolici in politica”.
UOMO AVVISATO! Il Vaticano avverte il Pd e la Sinistra che continuerà a brandire l’argomento come una clava nei rapporti politici del dopo-Berlusconi.
Bersani notoriamente non è uomo che buca lo schermo con la sua oratoria, ma qui (memore, chissà, della sua tesi di laurea in filosofia medievale sul “Rapporto tra grazia e autonomia dell’uomo in Gregorio Magno”) trova le parole giuste per farsi capire dall’uditorio. “Non tocca alla politica – argomenta – far negozio né della fede né dei valori né della gerarchia dei valori”. Missione della politica, invece, è “negoziare soluzioni condivise per la convivenza”, per costruire una società in cui l’uomo possa diventare più umano. Nessun accenno a quanto accadde al governo Prodi appena tentò di trovare soluzioni per le coppie di fatto, ma il segnale è chiaro. Non hanno senso atteggiamenti “paralizzanti”. Le mediazioni vanno negoziate per risolvere situazioni concrete ed evitare che in nome dei principi si laceri ancora di più l’Italia. Parla – Bersani – come se si fosse riuniti attorno al tavolo di una cascina di Ermanno Olmi. Senza foga ma con franchezza. Punta il dito contro l’attuale legge sul fine vita, in cui non intravvede lo spirito che anima tante famiglie in situazioni tragiche. “Troviamo soluzioni umane”, scandisce. Si dice disposto ad ogni discussione sulla condizione dell’uomo odierno, che rischia di essere schiacciato dalla tecnica, ma rivendica l’orgoglio laico di tanti non credenti, i quali hanno dato la vita per difendere la dignità dell’uomo e la sua libertà. Anche lui, in coda, lancia il suo messaggio: serve il contributo della cultura istituzionale dei cattolici per rimettere in sesto la democrazia in Italia. Serve il dialogo tra credenti e non credenti per evitare la lacerazione sociale del Paese.

Repubblica 21.10.11
Ieri dibattito con Fisichella, tra un mese forum con Bagnasco
Bersani sul fronte cattolici "Dialogo da laico adulto"
Il segretario pd critica il "negozio dei valori" "Invece si negozia la convivenza"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Bersani prende in mano la questione cattolica. Lo fa in prima persona, non delega nessuno. Né i cattolici del Pd, né il potenziale alleato centrista dell´Udc. Lo fa da «laico adulto», una formula che parafrasa e rovescia la famosa battuta di Romano Prodi in risposta all´appello di Ruini a disertare i referendum sulla fecondazione assistita. «Laicità adulta»: per il segretario del Pd vuol dire che un non credente evita di affidarsi solo alle leggi di natura. Semmai si iscrive nel solco di una storia secolare di rapporti tra la laicità e la Chiesa. Mettendo al centro l´uomo. Questo dirà anche il 18 novembre in un´altra sede, alla presenza del presidente della Cei, Angelo Bagnasco, invitato da Scienza e Vita, la più attiva delle associazioni cattoliche sul fronte dei valori non negoziabili.
L´appuntamento di ieri è dunque solo un primo passo. Bersani discute di Vangelo e laicità con monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, in un dibattito promosso dalla Congregazione dei figli immacolata concezione e da Elea. Siamo in Vaticano, in una sala di Via della Conciliazione, di fronte a una platea di preti, suore, autorità ecclesiali. In prima fila siede il direttore dell´Osservatore Romano Gian Maria Vian. C´è da rimontare un gap che ormai appare evidente e ancora di più dopo il seminario di Todi. Dove il Forum delle associazioni ha bocciato Berlusconi, ma tra le alternative non ha individuato con certezza un rapporto proficuo con il Pd.
È Fisichella a confermare come per la Chiesa i valori non negoziabili restano tali. «Nessuno li può sovvertire - dice - e ogni tentativo di volerli limitare non sarebbe privo di conseguenze per il corretto impegno dei cattolici in politica». Fisichella del resto è stato uno stretto collaboratore di Camillo Ruini nei lunghi anni al timone della Cei, cioè strenuo difensore del bipolarismo, del pluralismo dei cattolici negli schieramenti, ma allo stesso tempo inflessibile su diritti e bioetica. Con un sorriso Fisichella definisce "pelagiano" Bersani, eretico che cerca la verità «ma deve ricordarsi che non tutto è lecito perché non tutto edifica». Il segretario del Pd affida la sua risposta a citazioni evangeliche senza usare le sue metafore. Poi entra nel vivo, ossia i valori non negoziabili. «La politica non negozia valori», è la premessa. Ma negozia, si confronta e media sulla «convivenza e sul bene comune». Per Bersani il ruolo della cristianità nella costruzione dell´Europa è innegabile. Ci crede, non fa propaganda. E accetta che la Chiesa intervenga, che metta la sua verità davanti a tutto. «Anche la verità però è un fiume carsico. Quando l´hai trovata non devi smettere di cercarla». Il Pd è un partito, spiega, di credenti e non credenti. Con questo approccio: «Una laicità adulta e orgogliosa non accetta di essere descritta come inconsapevole della dignità dell´uomo». Fisichella parla di un "secondo round" prossimo venturo. E il 18 con Bersani davanti a Bagnasco ci saranno anche Maroni, Alfano, Casini. Una specie di test per il dopo Berlusconi.

La Stampa 21.10.11
“Un gene alterato scatena la pedofilia”
Team italiano: scoperta una sostanza che può condurre anche alla demenza senile
Basi biologiche. Una nuova ipotesi sui comportamenti devianti e criminali"
Possibile svolta. Ricadute non solo mediche, ma anche etiche e sociali»"
Il 90% dei casi di pedofilia riguarda persone incensurate: già nel 2004 nel nostro Paese c’erano oltre 500 siti pedofili
5 miliardi è il giro d’affari prodotto dall’ingresso di nuovi bambini nel bilancio della vendita di materiale pedo-pornografico
di Marco Accossato


TORINO. C’ è una mutazione genetica all’origine della pedofilia. La causa dell’attrazione deviata di un adulto verso i bambini è il risultato del difetto di un fattore di crescita (la progranulina) coinvolto in numerosi processi fisiologici, ma anche patologici.
A rivelarlo per la prima volta al mondo è uno studio italiano compiuto dal dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino presso l’ospedale Molinette, in collaborazione con quello di Scienze neurologiche dell’Università di Milano. Uno studio pubblicato sulla rivista internazionale «Biological Psychiatry» che sarà presentato e discusso in anteprima durante il congresso della Società italiana di Neurologia che si inaugura domani al Lingotto di Torino.
Di fronte a oltre 2500 specialisti di calibro internazionale verrà illustrato dal professor Lorenzo Pinessi, coordinatore dello studio, il caso di un uomo che dall’età di 50 anni ha iniziato ad avere comportamenti pedofili nei confronti della figlia di 9. Analisi a livello neurologico, oltre che psicologico, hanno permesso di scoprire nell’osservazione dei geni la mutazione della progranulina, sostanza fondamentale anche nel processo di differenziazione sessuale del cervello fin dal periodo intrauterino. Mutazione che produce un ridotto controllo degli impulsi e porta inoltre alla demenza frontale, malattia simile all’Alzheimer che l’uomo colpevole delle «attenzioni particolari» verso la figlia pre-adolescente ha poi sviluppato.
Un annuncio clamoroso: dimostra che lo studio di pazienti con malattie neurodegenerative anche rare permette di individuare possibili basi biologiche di alterazioni di comportamenti socialmente inaccettabili. La scoperta che verrà presentata a Torino apre nuove prospettive di ricerca, ma pone forse per la prima volta non solo la Medicina di fronte a un differente approccio alla malattia. Evidenti i potenziali risvolti etici e giuridici di una scoperta del genere.
«Aver dimostrato che la pedofilia è in larga misura legata a basi biologiche - sottolinea il professor Pinessi, che ha condotto lo studio con il collega Innocenzo Rainero, e in collaborazione con il professor Elio Scarpini dell’Università di Milano - significa dire molto non solo dal punto di vista medico, ma anche sociale». La pedofilia, che è un disturbo dell'eccitazione sessuale in cui si manifesta interessa per bambini in età prepuberale, può manifestarsi con esibizionismo, fino a sfociare nel sadismo o nel feticismo.
La ricerca torinese è il punto di partenza. Richiederà nuovi studi per estendere i risultati. Tutti i pedofili presentano la medesima mutazione genetica? «E’ possibile, ma dovrà necessariamente essere l’oggetto di ulteriori approfondimenti e altre dimostrazioni scientifiche», risponde Pinessi. Aver individuato che alla base della pedofilia c’è una causa neurobiologica significa però poter sostenere da subito che «esiste una possibilità di cura», come dimostra lo stesso caso di Torino: «Dopo alcune settimane di trattamento con farmaci neurolettici atipici antipsicotici accanto ad antidepressivi inibitori selettivi della serotonina il paziente ha cessato i suoi comportamenti pedofili», garantiscono gli studiosi del gruppo torinese.
Guarda l’intervista su www.lastampa.it

La Stampa 21.10.11
“Ma il Dna non cancella il peccato”
Intervista a Gianni Gennari, teologo nonché commentatore del quotidiano dei vescovi «Avvenire»
di Giacomo Galeazzi


Il teologo: «Le cause genetiche non escludono la libertà dell’azione»
La Chiesa: «La durissima parola di Gesù resta valida»

CITTÀ DEL VATICANO. Gianni Gennari, lei è teologo e commentatore del quotidiano dei vescovi «Avvenire»: ora viene dimostrato scientificamente che la pedofilia ha cause genetiche. Cosa cambia dal punto di vista morale?
«Sia chiaro che la risposta vale se, e solo se, questa dimostrazione scientifica è davvero tale, cosa di cui mi permetto di dubitare. Cause genetiche? Forse anche il nostro temperamento ha cause genetiche, ma questo non vuol dire che non siamo liberi nell’agire, perché in genere queste cause non tolgono la libertà. Dunque: se le cause genetiche sono tali da determinare necessariamente i comportamenti di pedofilia, allora dal punto di vista morale nello specifico suo comportamento il soggetto è incapace di intendere e di volere, come un pazzo, ma il comportamento come tale resta immorale e violento, indegno e da reprimere. Le responsabilità etiche del pedofilo diminuiscono, certo, ma la pedofilia resta peccato, in morale, e un delitto, in legge civile».
Benedetto XVI ha inasprito le sanzioni per gli abusi del clero sui minori: questa scoperta muterà la prospettiva anche per la Chiesa?
«Non vedo il nesso. La Chiesa continuerà a considerare la pedofilìa una cosa gravissima, aggravata dall’abuso di potere del pedofilo sacerdote, che come tale impone la sua violenza al minore».
Nel Vangelo non c’è misericordia per i pedofili. Anche se sono geneticamente determinati?
«La durissima parola di Gesù resta valida, ovviamente se il soggetto non è libero, in quanto incapace di intendere e di volere nell’ambito del suo comportamento il giudizio divino è adeguato alla sua realtà, ma resta e deve restare fortissima la repulsione sociale e morale, in termini di legge e di religione, nei confronti della pedofilia come tale...».
La pedofilia per l'ordinamento civile è un reato, per la Chiesa è un peccato?
«Certamente, come l’assassinio di un innocente, come ogni violazione gravissima della dignità personale. Nessun dubbio di principio, e tutta la forza di prevenzione e repressione di fatto, sempre e comunque. A me pare che le norme punitive dettate, da anni ormai, siano adeguate. Occorre adeguare la formazione del clero e dei fedeli a reagire, prevenire, sempre e comunque, e a punire adeguatamente. Il giudizio finale, poi, resta quello di Dio, ovviamente».

il Fatto Saturno 21.10.11
La generazione dei “teo-senza”
Tre ricerche mettono a nudo la frattura tra Chiesa e giovani
di Marco Politi


CRISI DELLA FEDE è un’espressione in fondo ottimistica. Pare la crisi delle banche. Qualcosa che con opportune ricapitalizzazioni si possa rimettere in sesto. Ma il fenomeno in corso nel Vecchio Continente, casa e colonna del cattolicesimo, va molto più in là. L’Europa è entrata in un’era di de-cristianizzazione. Il primo decennio del 2000 vede l’affermarsi di una generazione che nel suo complesso ha perso la memoria viva, il legame reale con il patrimonio cristiano. Armando Matteo, assistente ecclesiastico degli universitari cattolici (Fuci), parla di “prima generazione incredula” e non ha timore di affermare che il cristianesimo sta diventando estraneo agli uomini e le donne del nostro tempo.
Non devono ingannare le folle dei grandi raduni o le dichiarazione di “appartenenza” al cristianesimo, che si verificano nei sondaggi. È un’appartenenza senza credenza. Meramente sociologica. Ma se il divario tra identità formale e fede sostanziale è tipico anche di altre epoche, spesso caratterizzato da fluttuazioni nel corso dell’esistenza, il segno dell’attuale generazione incredula si rivela (per la gran massa, senza fermarsi alle piccole minoranze motivate) attraverso una «generale sordità quando si parla di Dio, di fede, di preghiera, di comunità». Un atteggiamento che supera di molto la scarsa frequentazione della messa e dei sacramenti. È una perdita sistemica dei fondamenti culturali del cristianesimo, degli insegnamenti, dei simboli derivati dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Il fenomeno si manifesta già nell’infanzia dal momento che la famiglia non esercita più luogo di trasmissione primaria della fede.
Sono scalzati dalle loro radici concetti potenti come eternità, creazione, provvidenza, destino escatologico. Paradiso e inferno non sono più rappresentabili. Darwin ha rovesciato l’immagine del Dio Creatore. Auschwitz ha reso impossibile l’idea che il male, per quanto grande, possa avere una sua funzione a fin di bene. Lo stesso Benedetto XVI nel suo libro-intervista Luce del mondo (Libreria editrice vaticana) riconosce ad esempio che oggi l’idea del sangue di Cristo come “riscatto” dai peccati dell’uomo rischia di non arrivare più ai contemporanei. D’altronde, dalla sua predicazione contro il relativismo emerge la difficoltà a proporre il concetto di verità assoluta. Tramontati gli scontri ideologici del Novecento quando si contrapponevano ancora visioni del mondo forti, la novità radicale non consiste nell’aumento dell’ateismo. Sostiene giustamente Matteo che la nuova generazione non si pone contro Dio e la Chiesa, ma «sta imparando a vivere senza Dio e senza la Chiesa». Riferirsi ai “vicini” o ai “lontani” rispetto alla religione, come si faceva ancora qualche anno fa, ha sempre meno senso. La maggioranza dei giovani si sente in cammino – anzi nomade – privilegiando il primato dell’esperienza personale. La presenza di Dio non è più un assioma individuale e sociale. Credere in Dio è una “possibilità”. Alessandro Castegnaro, che dirige l’Osservatorio socio-religioso del Triveneto, non a caso intitola una sua recente ricerca sul mondo giovanile C’è campo?. Il punto interrogativo esprime l’intermittenza con cui vengono captati i temi della spiritualità, della religione, della Chiesa.
Le nuove leve rispettano singoli esponenti ecclesiali e apprezzano la Chiesa, quando indica orizzonti di valori. Ma il distacco dall’istituzione è enorme e l’individualizzazione delle scelte è massima. Regole e credenze vengono sottoposte a un meccanismo di selezione e riduzione su cui la Chiesa non ha alcun potere. Dogmi fondamentali – come la persona di Dio, la figliolanza divina di Cristo, la resurrezione, l’aldilà – hanno assunto una fisionomia indeterminata. Gran parte dei concetti teologici vengono avvertiti come immagini vecchie. La Chiesa nel suo complesso viene percepita come arretrata. «Non fate i conti con ciò che viviamo. Vi raccontate una storia che non c’è», riassume Castegnaro sintetizzando le confessioni emerse nei focus groups. In massima parte il revival religioso o spirituale non equivale a un ritorno in seno all’istituzione ecclesiastica. E c’è un dato interessante: adesso le ragazze si allontanano dall’istituzione esattamente come i ragazzi. Non vale più lo schema del passato, in cui esisteva un maggiore attaccamento femminile alla Chiesa. Né la vitalità delle associazioni o dei movimenti è garanzia di una “riconquista”. La preziosa ricerca di Alberto Cartocci per il Mulino rivela che le regioni italiane, dove si realizzano maggiori iniziative di testimonianza e attivismo, sono anche quelle in cui la secolarizzazione avanza inesorabilmente. Si tratta delle regioni centro-settentrionali. Al Sud, invece, il minore sviluppo economico e sociale si accompagna alla tenuta di un cattolicesimo tradizionale.
Armando Matteo, La prima generazione incredula, Rubbettino, pagg. 110, • 10,00;
AA.VV., C’è Campo?, Marcianum Press, pagg. 626, • 39,00;

il Fatto Saturno 21.10.11
Croce e potere
E i cristiani si armarono
di Lucia Ceci


DISTRUGGERE PIETRE, si sa, vuol significare spesso affrancarsi da un intero sistema. Stanno a dimostrarlo immagini che condensano passaggi epocali: l’abbattimento della statua di Stalin a Budapest nell’ottobre 1956, la demolizione di centinaia di immagini di Saddam Hussein in Iraq, il fuoco talebano sui Buddha di Bamiyan.
A sancire uno spartiacque decisivo nella storia del cristianesimo fu la distruzione, nel 391, del Serapeo di Alessandria d’Egitto, il tempio dedicato al dio regolatore delle acque del Nilo, garante della salute dei vivi e del destino dei morti. Ne fece le spese soprattutto la smisurata statua di Se-rapide, fatta in legno laminato d’oro e d’argento, che i cristiani decapitarono, spaccarono a colpi d’ascia e diedero alle fiamme al cospetto di cittadini increduli. Dal Serapeo la furia devastatrice si estese agli altri templi di Alessandria e di lì a tutte le città dell’Egitto. Una volta profanati, gli spazi sacri vennero decontaminati e convertiti in basiliche. Dietro la distruzione e la riconversione dei luoghi di culto si celava una battaglia decisiva per ridefinire i confini del sacro e la gestione del particolare potere che esso veicolava. Ma non era una rivoluzione dal basso: a un anno dalla strage di Tessalonica e dalla successiva penitenza cui il vescovo Ambrogio aveva costretto l’imperatore, Teodosio aveva emanato un editto che autorizzava la distruzione dei templi pagani. La croce, simbolo di sofferenza e martirio, si era trasformata in simbolo di potere. Come era stato possibile? Giovanni Filoramo lo indaga nel denso volume La croce e la spada, che ha per oggetto il «secolo breve»: quel periodo che va dalla conversione di Costantino (312) alla morte di Teodosio (395), in cui si assiste alla trasformazione di un gruppo religioso minoritario in Chiesa di Stato, pronta, dopo essere stata perseguitata, a perseguitare a sua volta nemici interni ed esterni. Il libro ripercorre le tappe di questo itinerario e il contributo dei suoi principali protagonisti: gli imperatori romani da Costantino a Teodosio e i vescovi cristiani da Eusebio ad Agostino. La svolta decisiva, che riguarda la ricerca di un’ortodossia unitaria e il modo in cui il cristianesimo si rapporta al potere politico, ha luogo sotto Teodosio: col Concilio di Costantinopoli si fissa il dogma trinitario e si impone, grazie all’intervento dell’imperatore, la verità dottrinale uscita vincente dall’assise valida come legge di Stato. La dissidenza religiosa, di conseguenza, si trasforma in crimen publicum. L’avvio della criminalizzazione dell’eretico apre un capitolo nuovo e funesto nella storia del cristianesimo, quello in cui si può uccidere «in nome di Dio», illuminato nel libro attraverso l’illustrazione dei primi pericolosi segnali di cambiamento: la condanna a morte dell’eretico Priscilliano e l’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia. Non si trattò solo, per dirla con Edward Gibson, di «intolerant zeal». Né, come hanno sostenuto gli apologeti, di una mera conseguenza della svolta costantiniana. Nella Chiesa del IV secolo la fede fondata sulla rivelazione di Dio mediante il Figlio mise in moto una duplice, contraddittoria spinta: inclusiva in quanto mirava ad accogliere l’intera umanità, ma anche esclusiva perché la preservazione della «purezza» della comunità portò ad eliminare, oltre all’errore, l’errante.
Giovanni Filoramo, La croce e il potere, La-terza, pagg. 443, • 24,00

il Fatto Saturno 21.10.11
Rivelazioni. Mali vaticani
di G. F. Svidercoschi


IN OGNI frammento di storia, grande o piccolo che fosse, la Chiesa ha dato, non solo un “supplemento d’anima”, ma un contributo propriamente etico e, insieme, anche sociale, culturale. Così, con il tempo, ha acquisito una indiscussa autorità mondiale. E ha trovato sempre più alleati – oltre che, inevitabilmente, dei nemici – nelle sue battaglie in difesa dei valori umani, a cominciare dalla vita. Ma adesso? Adesso, trascorsi quasi cinquant’anni da quell’11 ottobre [1962, Concilio Vaticano II], dall’apertura di quella straordinaria stagione ecclesiale, ecco scoppiare la bufera. Ecco, nel giro di pochi mesi, spuntare uno dopo l’altro gli scandali. I preti pedofili. I maneggi finanziari. Le crisi con l’Islam e l’Ebraismo. I contrasti tra cardinali alla luce del sole. Decisioni che arrivano dall’alto senza essere spiegate, senza essere state preparate , come per la Messa in latino o la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani. E, questo soprattutto, alcuni evidenti sintomi di una debolezza della fede, di un calo della tensione spirituale e morale, insomma, una sensazione generale di incertezza, di smarrimento, che attraversa l’intera comunità cattolica. «Ma verso dove sta andando la Chiesa, la nostra Chiesa?» È la domanda che mi sono sentito rivolgere non ricordo più quante volte, negli ultimi tempi, girando l’Italia per delle conferenze. Una domanda piena di preoccupazione, e in cui c’era dentro una fortissima carica di sofferenza, di disagio, e talora perfino di dileggio rabbioso, di fronte ai ripetuti episodi vergognosi che hanno deturpato il volto della Chiesa. Ma anche, va detto, una domanda che era segno di grande vivacità ecclesiale.
Tratto dal volume Mal di Chiesa, Cooper, pagg. 168, • 11,00; in libreria da oggi

il Fatto 21.10.11
La violenza della disperazione
di Paolo Flores d’Arcais


Sulla violenza “incappucciata” che ha impedito a duecentomila “indignati” di manifestare come volevano si è scatenata la prevedibile orgia di ipocrisia. Pochi hanno infatti le credenziali per affrontare il problema, e nessuno tra i soloni e le cheerleader di un regime che teorizza l’eversione costituzionale e quotidianamente la pratica. Tra la violenza di “er Pelliccia” – che tale è – e la violenza di Berlusconi che programma l’assedio al quotidiano La Repubblica e l’assalto al Palazzo di giustizia di Milano, c’è un abisso, una sproporzione ciclopica: quella che intercorre tra la violenza di una puntura di zanzara e la violenza delle fauci di un caimano. Chi non ha condannato e non condanna la seconda (infinitamente più grave) non può impalcarsi a censore della prima. Questo giornale è perciò tra le poche voci ad avere le carte in regola, moralmente e politicamente, per discutere sulla violenza. Che va analizzata, oltre che condannata, altrimenti si contribuisce per omissione al suo replicarsi. Capire non è giustificare (è perfino assurdo doverlo ricordare), ma condannare senza cercare di capire può essere perfino peggio che giustificare .
PERCIÒ, RIGOROSAMENTE: la disperazione produce violenza. Una più grande disperazione non può che accrescere la violenza. Solo chi opera concretamente per diminuire la disperazione sociale e aprire di nuovo alla speranza è legittimato a condannare la violenza: gli altri di fatto l’alimentano e incentivano. Ma la disperazione di oggi è il prodotto diretto di una smisurata diseguaglianza (lo scrive perfino il Corriere della Sera, per la penna di Massimo Mucchetti) che ogni giorno cresce mostruosa e spudorata, grazie a un establishment che ha per unica bussola un’avidità senza freni, spacciata addirittura per “libertà”. E un disprezzo per la legalità che non ha precedenti.
Perciò, se vogliamo porre un argine alla violenza prossima ventura dobbiamo colpire subito la metastasi della diseguaglianza impazzita. Ogni altro atteggiamento è connivente con la violenza, anche se contro di essa invoca leggi eccezionali. Questa è l’emergenza: la diseguaglianza impazzita. Non affrontarla significa mettere a repentaglio la convivenza civile nelle sue basi più elementari. È dunque improrogabile dare vita ad una “alleanza per la speranza”, che abbia come obiettivo IMMEDIATO una grande redistribuzione della ricchezza. Nell’antico Israele era previsto ogni sette anni l’anno sabbatico: i debiti venivano cancellati. Un freno, una difesa immunitaria, una compensazione contro la dismisura di Mammona che mette a repentaglio la convivenza di un popolo. Di questo abbiamo bisogno ora: una re-distribuzione che tolga SUBITO a chi in questi anni si è arricchito oltre ogni decenza (e quasi sempre contro ogni legalità) per dare a chi è stato espropriato del futuro, del lavoro, della dignità. Una redistribuzione immediata di almeno cento miliardi di euro, dai troppo ricchi ai nuovi poveri. Cento miliardi di redistribuzione riaprirebbero effettivamente alla speranza, contrasterebbero l’emergenza di una spirale diseguaglianza/disperazione/violenza/repressione/più diseguaglianza/più violenza che altrimenti trascinerà nel baratro l’Italia, già stremata da un regime che dell’illegalità e della menzogna ha fatto il suo lucro quotidiano. Come realizzare questa redistribuzione d’emergenza? I mezzi tecnici per l’operazione speranza non mancano certo. Basta volerli usare. E prelevare (in modo progressivo, non in modo proporzionale) sulle ricchezze reali accumulate (portandole TUTTE alla luce, non solo quelle immobiliari: quelle espatriate in primis). Ai finti liberali che comincerebbero a starnazzare di “esproprio proletario ” andrebbe risposto che si tratterebbe semmai di una (parzialissima) restituzione civica, visto che l’unico esproprio avvenuto nei decenni trascorsi lo hanno operato cricche, caste e grandi evasori, contro i cittadini che non hanno evaso, falsificato bilanci, truccato appalti. Contro i lavoratori dipendenti, i disoccupati, i precari, i pensionati, insomma. Sul “come” realizzare tale restituzione potrebbe esercitarsi utilmente l’immaginazione sociologica ed economica, i talenti non mancano. Purché la restituzione sia tangibile, in detassazione immediata dei salari, in servizi di welfare direttamente fruibili, in potenziamento di beni comuni (le uniche “grandi opere” urgenti: il wi-fi per tutti e dappertutto, ad esempio). Un volano virtuoso di consumi/investimenti/consumi, oltretutto.Quali sono le forze che dovrebbero appoggiare questa misura d’emergenza? Tutte quelle che sono estranee all’iceberg del privilegio impazzito (e sempre più spesso illegale), che sta provocando l’inabissamento dell’Italia. Tutte le forze che dicono di voler salvare l’Italia, senza distinzione tra partiti, movimenti, sindacati. Non dovrebbe essere difficile, per questa “emergenza speranza”, trovare un afflato di responsabilità e di elementare equità che accomuni da Bersani a Landini, da Camusso a Raparelli (passando per qualche “ricco” cui ancora residui qualche carato di sensibilità civica).
OGNI DISTINZIONE deve venir meno, di fronte all’emergenza civile che stiamo vivendo, e alla necessità stringente della “grande redistribuzione”. In fondo, cento miliardi sono meno di quanto viene evaso ogni anno: la ricchezza c’è, è solo la smisurata avidità di alcuni che produce la crescente disperazione di molti. A parole tutti riconoscono la barbarie morale e anche l’assurdità economica del baratro di diseguaglianza che sta lacerando il paese. Mettiamo perciò tutti di fronte alla responsabilità di far seguire alle parole i fatti. O di confessarsi mallevadori della catastrofe incombente.

Repubblica 21.10.11
Quelli che occupano Wall Street
di Paul Krugman


C´è qualcosa nell´aria. Cosa sia ancora non è chiaro, ma non è da escludere la nascita di un movimento popolare che, diversamente dal Tea Party, si indigna contro chi lo merita. Tre mesi fa, agli esordi di Occupiamo Wall Street, gli organi di informazione guardavano per lo più alla protesta con divertita sufficienza, nei casi in cui si degnavano di darne notizia. A nove giorni dall´inizio delle manifestazioni ad esempio la National Public Radio non ne aveva ancora parlato.
Va quindi dato merito alla passione dei manifestanti se le proteste non solo sono continuate, ma sono cresciute, diventando infine un fenomeno troppo consistente per essere ignorato. Ora che i sindacati e un numero sempre crescente di parlamentari democratici esprimono quantomeno un limitato sostegno all´iniziativa, Occupiamo Wall Street sta assumendo l´aspetto di un evento importante, dalla potenziale valenza di punto di svolta.
Che dire sulla protesta? Innanzitutto che i manifestanti hanno perfettamente ragione a imputare a Wall Street un potere distruttivo sotto il profilo economico e politico.
Gran parte del dibattito politico oggi negli Usa è dominato da uno stanco cinismo, dalla convinzione che non sarà mai fatta giustizia e devo confessare che anch´io talvolta vi ho ceduto. Col passare del tempo è stato facile dimenticare quanto sia scandalosa la genesi dei nostri problemi economici. Vi ricordo che si tratta di un dramma in tre atti.
Nel primo atto i banchieri hanno sfruttato i vantaggi della liberalizzazione del settore per scatenarsi (riservandosi compensi principeschi) e creare enormi bolle grazie a prestiti irresponsabili. Nel secondo atto le bolle sono scoppiate, ma i banchieri sono stati salvati dai contribuenti, pressoché senza condizioni, anche se chi lavora ha continuato a patire le conseguenze delle loro malefatte. Nel terzo atto i banchieri per tutta risposta si sono rivoltati contro i loro salvatori e hanno devoluto il sostegno - e i beni che ancora posseggono grazie ai salvataggi - a politici che hanno promesso di tener bassa la loro aliquota di imposta e di eliminare le blande regole imposte subito dopo la crisi.
Come si fa a non applaudire i manifestanti?
È innegabile che alcuni abbiano un abbigliamento poco ortodosso e scandiscano slogan ridicoli, ma è inevitabile dato che si tratta di eventi a partecipazione libera. I giovani sbrindellati che protestano contro il consumismo danno fastidio? Personalmente mi disturbano di più i plutocrati in abito sartoriale che devono la stabilità della loro posizione economica alle garanzie offerte dal governo e si lamentano anche perché il presidente Obama li tratta male. Non va scordato poi che gli uomini in giacca e cravatta non solo non hanno il monopolio della saggezza, ma ne hanno davvero poca. Quando gli opinionisti della Cnbc, per citare una rete televisiva, accusano i manifestanti di scarsa serietà, è bene ricordare che molti personaggi serissimi ci hanno garantito che la bolla immobiliare non esisteva e che Alan Greenspan era l´oracolo.
Se proprio c´è una critica da fare ai manifestanti è l´assenza di precise istanze politiche. Sarebbe bene se i dimostranti trovassero una convergenza almeno su qualche importante riforma politica da intraprendere. Ma non va dato troppo peso alla mancanza di obiettivi specifici. Quello che vogliono gli aderenti al movimento Occupiamo Wall Street è a grandi linee chiaro e spetta in realtà agli intellettuali della politica e ai politici scendere in dettaglio. Rich Yeselson, veterano nel campo dei movimenti sociali come organizzatore e storico, ha proposto come rivendicazione di base la cancellazione del debito per i lavoratori americani. Mi associo, perché un provvedimento del genere oltre a soddisfare criteri di giustizia economica potrebbe essere funzionale alla ripresa. Suggerirei di chiedere anche investimenti nelle infrastrutture - non ulteriori sgravi fiscali - per creare posti di lavoro. Nessuna di queste proposte diventerà legge nel clima politico attuale, ma è proprio questo clima che i manifestanti vogliono cambiare. E qui si aprono reali opportunità politiche. Non certo per i repubblicani di oggi, che istintivamente si schierano con i "malfattori dalla grande ricchezza", come li chiamava Roosevelt. Mitt Romney, ad esempio - che, detto per inciso, probabilmente paga meno tasse di molti americani della classe media - si è affrettato a condannare la protesta come "guerra di classe".
Ma ai democratici viene offerta una seconda occasione. L´amministrazione Obama ha sprecato molta potenziale buona volontà adottando politiche favorevoli alle banche nell´intento, fallito, di stimolare la ripresa economica anche se i banchieri si sono sdebitati rivoltandosi contro il presidente. Oggi però il partito di Obama ha l´opportunità di rifarsi. Basta che prenda le proteste sul serio, come meritano.
E se le dimostrazioni faranno da pungolo a qualche politico portandolo ad agire come avrebbe dovuto fare da sempre, vorrà dire che Occupiamo Wall Street avrà colpito nel segno.
Traduzione di Emilia Benghi © 2011 New York Times News Service

Repubblica 21.10.11
Galassia Black Bloc
I padroni violenti delle piazze
Sotto i vestiti neri si nascondono 2000 violenti. Vengono dai centri sociali, dal neofascismo, dagli stadi. Ecco la mappa regione per regione
di Paolo Griseri e Francesco Viviano


Centri sociali, neofascisti, ultras In un documento inedito dei Servizi la mappa dall´Alto Adige alla Sicilia dei duemila black bloc che hanno messo a ferro e a fuoco Roma e che domenica potrebbero riversarsi in Val di Susa. Non teppisti casuali ma una formazione pronta a colpire
Il nocciolo duro del movimento è composto da gente che pianifica i propri blitz
Si aggiunge un ristretto gruppo di attivisti provenienti in particolare dalla Francia
Non hanno un´identità definita, nascono dalla rabbia e dai tam tam del Web

Sono poco meno di 2000. Il fondo della bottiglia. Hanno un nome e un cognome. Tutti nello stesso elenco, divisi tra destra e sinistra come se davvero in quella violenza si potesse fare una distinzione così netta. In fondo alla lista il totale dice 1.891, distribuiti in tutta la penisola, dal Trentino Alto Adige alla Sicilia. Vivono nei centri sociali o nelle curve degli ultras. Occasionalmente in tutte e due. Possono essere insospettabili: sotto la felpa si sono scoperti anche funzionari di prefetture e impiegati modello. Calano il casco sul volto come il passamontagna degli anni Settanta. Nell´elenco può capitare di trovare qualche ex della lotta armata, finito sulle barricate per nostalgia. L´intelligence li segue da anni. Sabato scorso hanno trasformato piazza San Giovanni in un campo di battaglia, la loro battaglia. Quanti di loro arriveranno domenica nei boschi della Val di Susa?
La mappa dell´Italia violenta, gli insediamenti di quelli che per comodità vengono ormai definiti black bloc, riflettono la storia del Novecento italiano. Non è strano osservare che le regioni dell´estremismo nero sono quelle dove l´eredità del fascismo è ancora forte: il Lazio, in testa, ma anche la Campania e l´Abruzzo.
E poi la Calabria dei «boia chi molla» e l´Alto Adige degli attentati irredentisti degli anni Sessanta. Sul versante opposto la Toscana con la tradizione centenaria del movimento anarchico di Livorno. «Nel fondo della bottiglia - racconta chi indaga - ci si può entrare anche occasionalmente. Black bloc per un giorno, gente che, arrestata, dice "passavo, ho visto che c´era casino e mi sono aggregato". Spesso ultras che hanno fatto allenamento nelle curve degli stadi».
Ma il nocciolo duro non è fatto di violenti per caso. Piuttosto di gente che pianifica scientificamente le azioni, usa i movimenti come scudo. Il fondo della bottiglia ha bisogno del suo brodo di coltura, ha bisogno di collegamenti internazionali, in alcuni casi di campi di addestramento, come ha documentato Repubblica nei giorni scorsi. In occasione degli scontri in Val di Susa del 3 luglio scorso - una giornata di battaglia con centinaia di feriti, lanci di molotov e assalti a colpi di bottiglie piene di ammoniaca - le relazioni dell´intelligence raccontano che una buona rappresentanza della black list è salita fin nei boschi di Chiomonte. «Provenivano - è scritto nelle relazioni - da Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Campania». A questi si aggiunge «un ristretto gruppo di attivisti provenienti dall´estero, in particolare dalla Francia». Una conferma dei collegamenti e degli scambi a livello internazionale. «Ma state attenti - dicono gli investigatori - a non cercarli troppo lontano da casa. Molti black bloc sono l´altra faccia del movimento». Doctor Jekyll e mister Hide, persone che a metà di un corteo lasciano le bandiere e impugnano gli estintori. La faccia inconfessabile di movimenti che «non hanno una identità definita, nati dalla rabbia e dai tam tam del Web. Movimenti contenitore nei quali si finisce per accettare chiunque perché nessuno è titolato a selezionare chi partecipa sulla base di un programma, di una ideologia. Chiunque - dice l´investigatore - ha un buon motivo per indignarsi per qualcosa». Eccolo il brodo che serve al fondo di bottiglia. Perché l´assalto alla banca, l´incendio del blindato dei carabinieri, sono la prosecuzione del corteo con altri mezzi. Era già successo a Torino, nella primavera del 2009, alla manifestazione contro il G8 dell´università: un corteo pacifico di studenti che attraversa le vie del centro e che improvvisamente si trasforma in un esercito di black bloc pronto ad assaltare la polizia. «Non di rado - dice l´investigatore - tra coloro che il giorno dopo deploravano la violenza abbiamo individuato alcuni di quelli che il giorno prima ci assaltavano tirandoci le molotov». Perché tra i nuovi cattivi e i vecchi movimenti può scattare anche un patto di mutuo soccorso. Si legge in una recente relazione dell´intelligence: «Tra i manifestanti della val di Susa, pur contrari alla violenza, è infatti sempre più diffusa la consapevolezza che la disponibilità all´azione mostrata dalle componenti dell´antagonismo più estremo, possa rivelarsi funzionale agli scopi della protesta contribuendo a dare spessore e visibilità alle istanze del movimento».
Che la lotta contro il supertreno sia un´occasione ghiotta per gli uomini della black list è dimostrato da un grave episodio avvenuto nel 2007 quando la magistratura arrestò alla periferia di Torino Vincenzo Sisi, un sindacalista vicino ai Carc, i Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo. Nel giardino di Sisi venne trovato un kalashnikov e in casa sua volantini e documenti sulla battaglia No Tav. Un tentativo abbastanza maldestro per provare a mettere il cappello su una lotta che all´epoca non praticava la violenza. Allo stesso modo movimenti poco strutturati come quelli che scendono in piazza in questi mesi possono diventare interessanti per qualche reduce del partito armato: «Seguendo e intercettando quella parte dei black bloc che ha partecipato agli scontri di Roma il 15 ottobre - dice l´investigatore - abbiamo incrociato anche personaggi legati alla galassia delle ultime Br, in particolare ai Nuclei comunisti combattenti».
Ora gli occhi sono puntati su quanto potrà accadere dopodomani in Val di Susa. Fino a che punto l´ala dura dei black bloc deciderà di alzare il livello dello scontro? «Vogliono sfidarci - dice l´osservatore dell´intelligence - ed è possibile che domenica provino a dimostrare la loro capacità militare». In realtà sarebbe un ulteriore salto di qualità. Perché di norma dopo una manifestazione violenta la reazione indignata del resto del movimento e dell´opinione pubblica spinge ad andare in piazza in modo pacifico. Era accaduto così nel novembre del 2002 a Firenze, al primo grande corteo dei «no global» dopo Genova. Una giornata trascorsa senza incidenti dopo settimane di allarmi e timori. Sono passati nove anni e non è detto che lo schema regga. L´ala dura del movimento No Tav è divisa. «Tra le diverse anime - si legge in uno recente resoconto di intelligence - si evidenziano tuttavia perplessità e divergenze in merito alle strategie da adottare... La componente maggioritaria, che fa capo al coordinamento dei Comitati valsusini e ad agli autonomi torinesi del centro sociale Askatasuna, ha espresso dure critiche nei confronti delle avanguardie anarchiche protagoniste delle azioni più radicali e violente durante l´estate». Secondo questa versione l´area autonoma teme che radicalizzando lo scontro si «possa avere una ricaduta negativa allontanando le componenti più moderate». Ma anche tra gli anarchici «sono emerse posizioni contrastanti» tra un´ala dura e una più moderata.
Se domenica, nonostante l´indignazione nazionale di questi giorni, vincerà l´ala che cerca lo scontro, vorrà dire che il partito dei violenti avrà gettato la maschera, avrà meno bisogno di nascondersi nel brodo di coltura dei movimenti. Potrà, insomma, rivendicare alla luce del sole il suo ruolo di guida violenta della protesta. E allora la black list dei 1.891 potrebbe allungarsi di molto.

Repubblica 21.10.11
Le motivazioni del gip sugli undici arrestati nella capitale. Landini: nessuna maschera in piazza
"A Roma disordini concertati" e la Fiom blinda la manifestazione
di Maria Elena Vincenzi e Corrado Zunino


Dalla piazza San Giovanni di sabato scorso a piazza del Popolo, questa mattina. In mezzo una settimana di dibattito sulla devastazione di Roma che ha cambiato il modo di manifestare in questo paese e sta cambiando il movimento. La Fiom (Cgil) porterà oggi al sit-in del Popolo, s´inizia alle 9,30, i lavoratori della Fiat e del suo indotto, quelli di Fincantieri. "Contro chiusure e licenziamenti".
Sarà una piazza piena, visti i cento pullman attesi da tutta Italia e le adesioni diffuse: l´arco dei partiti del centro-sinistra, compresi Pd e Federazione della Sinistra (oggi fuori dal Parlamento). L´arco del movimento studentesco. Il coordinamento precari, l´Arci, il sindacato di polizia Silp. Dice il segretario Fiom, Maurizio Landini: «Piazza del Popolo è aperta a tutti i soggetti che sostengono le nostre lotte, che hanno condannato e condannano gli atti di violenza, è aperta a chiunque vorrà venire senza casco, mostrando il volto». La polizia presidierà Piazza del Popolo, alcune sedi istituzionali e gli scali ferroviari. La Fiom ha già attivato il suo servizio d´ordine. Il comizio sarà chiuso dallo stesso Landini e dal segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. Alla Fiat di Torino, in contemporanea, ci sarà uno sciopero dei sindacati di base.
Ieri mattina, intanto, il Gip Elvira Tamburelli ha trattenuto in carcere a Regina Coeli nove dei dodici manifestanti arrestati sabato a Roma nel corso degli scontri. Due donne sono andate agli arresti domiciliari, un ragazzo, Leonardo S., è tornato libero e su Facebook ha subito fatto sapere: «Sono stati i cinque giorni più lunghi della mia vita». Il giudice ha scritto nell´ordinanza: «Gli indagati hanno realizzato un´azione concertata che ha strumentalmente utilizzato una pacifica manifestazione per attentare a beni e ostacolare la pubblica difesa con concreto ed elevato pericolo per l´incolumità delle persone». Sei degli arrestati sono stati valutati in un unico contesto: «Non paiono affatto espressione di azioni improvvisate e slegate tra loro, ma piuttosto frutto di un´azione concertata fra i violenti». Vicino alle posizioni degli indignati spagnoli «e venuto appositamente in Italia da Barcellona per esprimere una solidarietà», è il ventenne Giovanni Caputi, vive in Spagna dal 2006. Ad alcuni è stato sequestrato «materiale di particolare significazione»: una maschera antigas, un casco da motociclista, volantini inneggianti alla rivoluzione (Giuseppe Ciurleo); il manico di un piccone lungo 80 centimetri (Giovanni Venuto). Chi ha compiuto azioni violente durante il corteo, secondo il Gip, «ha partecipato alla manifestazione con questo unico proposito delittuoso». Così il rumeno Robert Scarlet e così Stefano Conigliaro, «tra i soggetti più violenti del gruppo, con il volto travisato da uno scaldacollo nero in pile». Al Gianicolo, sopra le carceri, cinquanta attivisti richiamati da Indymedia Roma ieri pomeriggio hanno organizzato un presidio: "Liberi tutti". Erano vestiti di nero. E alla "Zanzara" di Radio 24 il consigliere comunale di Action, Andrea Alzetta, ha confermato che si candiderà con Sel, «ma solo a livello locale».
Il capo della polizia, Antonio Manganelli, ha detto al Copasir (Comitato per la sicurezza presieduto da Massimo D´Alema) come la novità del 15 ottobre fosse rappresentata «dalla presenza tra i violenti di molti minorenni». E all´università La Sapienza di Pisa cinquanta antagonisti dei collettivi, dell´area comunista e del movimento No Tav hanno contestato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Su un loro volantino si leggeva: «Non sei il nostro presidente, guerra e sacrifici falli tu».

Repubblica 21.10.11
D´Elia, niente Ambrogino d´oro. Pannella furioso con Pisapia


ROMA - Giuliano Pisapia pone il veto alla consegna dell´Ambrogino d´oro al radicale Sergio D´Elia, segretario di "Nessuno tocchi Caino", associazione che si batte contro la pena di morte, e Marco Pannella lo accusa di essere diventato «letteralmente e dolorosamente indecente». Mercoledì scorso, a una domanda su D´Elia, ex terrorista di Prima linea condannato per concorso in omicidio, aveva risposto che «Milano può stare tranquilla, le mie decisioni saranno un segnale importante qualora ci fosse una decisione tesa a dare l´Ambrogino a chi non se lo merita». Ieri Pisapia ha replicato così al leader radicale: «Pannella si commenta da solo».


Corriere della Sera 21.10.11
Approdi «La morte e la terra» conclude un percorso teoretico. Ne pubblichiamo un brano
L’uomo è più alto di Dio, l’eternità secondo Severino
Al di là di fede e mito: una filosofia sulle «cose ultime»
di Emanuele Severino


Questo libro sviluppa un tratto centrale del percorso compiuto nei tre libri ai quali esso è più direttamente legato: Destino della necessità (1980), La Gloria (2001), Oltrepassare (2007). Qui di seguito si mostra in modo sommario il senso di questa centralità.
Nella Prefazione di Oltrepassare si dice: « Atteso dalla terra che salva e dalla Gloria, l'uomo, nella sua verità, cioè in quanto cerchio eterno dell'apparire della verità del destino di ogni essente, attende gli eterni della terra che salva e della Gloria. L'attesa è la necessità del sopraggiungere dell'atteso» (p. 19). Che l'uomo sia atteso dall'Immenso, in cui la terra che salva e la Gloria consistono, può essere indicato facendo parlare – ma essenzialmente al di là dei suoi intenti – il frammento 27 di Eraclito, riportato all'inizio dell'esergo della Gloria.
Anthrópous ménei apothanóntas hássa ouk élpontai oudè dokéousin. «Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né suppongono ».
Nemmeno Eraclito, d'altronde, nemmeno le grandi religioni della salvezza possono sapere che ciò da cui gli uomini sono attesi è la terra che salva e la Gloria, nel loro senso autentico, essenzialmente diverso da quello che a tali espressioni viene attribuito dalle sapienze degli uomini. Per quanto grandi siano le speranze e le supposizioni umane – alle quali appartiene lo stesso insperato di Eraclito e di ogni sapienza che si rivolga all'insperato – esse si accontentano di poco, rispetto a ciò da cui l'uomo è atteso dopo la morte e a cui è necessario che egli pervenga. Del percorso qui sopra indicato questo libro sviluppa un tratto centrale. Infatti, se le diverse forme della terra sopraggiungono nel cerchio eterno del destino (nella costellazione infinita dei cerchi), tale cerchio è l'inizio di quel percorso; e la terra che salva e la Gloria ne sono il punto d'arrivo – che peraltro è l'apparire della necessità del dispiegamento infinito della terra, dove ogni punto di arrivo è oltrepassato (e insieme conservato).
La terra che dapprima sopraggiunge appare nel suo esser isolata dalla verità del destino: è il luogo in cui appare ogni agire e ogni sapienza dell'uomo, rivolti alla Terra e al Cielo e anche all'assolutamente Altro da essi: la terra isolata è «questa nostra vita», che, includendo Terra, Cielo e Altro, si considera come l'orizzonte ultimo e inoltrepassabile dell'esser uomo. Su «questa nostra vita» – si potrebbe dire – incombe la morte, e continuamente vi irrompe. Ma, propriamente, è l'isolamento della terra a manifestare «questa nostra vita» e la morte che la circonda e la attraversa. In quanto lo sperato (e l'insperato) che gli uomini si attendono dopo la morte si fonda sulla terra isolata, essi ripongono le loro speranze di salvarsi dalla morte nel cuore stesso della morte.
Tuttavia la terra isolata dal destino è oltrepassata dalla terra che salva e dalla Gloria. Salvano dall'isolamento della terra; e quindi, in duplice senso, dalla morte: salvano dall'isolamento, che come radice della morte ne è la forma originaria (Oltrepassare, X, VI), e salvano dalla morte come è intesa nel frammento 27 di Eraclito e come per lo più è intesa all'interno della terra isolata, cioè come il decomporsi dell'esser uomo. La terra isolata e la morte, intesa in questo secondo senso, formano il tratto centrale del percorso il cui inizio e il cui punto di arrivo sono stati qui sopra indicati. È soprattutto a questo secondo senso della morte – il più «comune» – che si rivolge La morte e la terra. Ma risolvendo un problema decisivo, lasciato ancora aperto in Oltrepassare.
Qui lo si può indicare soltanto in modo inadeguato. Così: l'isolamento della terra permane, dopo la morte (intesa in questo secondo senso), e permane fino all'avvento della terra che salva, oppure con la morte (così intesa) anche l'isolamento tramonta e il cerchio eterno dell'apparire del destino, in cui l'essenza autentica dell'uomo consiste, accoglie la terra che salva? O anche: l'attesa della terra che salva continua anche dopo la morte (e che cosa appare in questo prolungarsi dell'attesa? sonno, sogni. Incubi?), oppure con la morte ha compimento anche l'attesa?
In modo altrettanto inadeguato, qui si può dire che La terra e la morte mostra la necessità che il problema sia risolto nel secondo di questi due modi. Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi all'Immenso della terra che salva e della Gioia.

Corriere della Sera 21.10.11
La riflessione dello studioso
Né un'altra vita né il nulla ma una grande gioia
di Armando Torno


Spesso si crede che il sapere scientifico abbia rigore ma non risponda ai problemi di fondo dell'uomo; e che invece la coscienza religiosa parli di ciò che all'uomo interessa — precisa Emanuele Severino — «ma lo faccia in modo non rigoroso, essendo soltanto fede e mito». Non si pensa in tal modo a quell'altra forma essenziale di sapere «decisiva» che, ad un tempo, intende realizzare il rigore estremo, più radicale di quello scientifico, in grado nel contempo di rispondere a quei problemi di fondo, ossia a ciò che più interessa l'uomo. Questo terzo genere di sapere è stato chiamato filosofia. Proprio per tal motivo, sottolinea Severino, «parlare di filosofia senza indicare il fondamento di ciò che si dice, altera il senso del filosofare: essa appare a sua volta come un mito religioso». E questo pericolo sussiste soprattutto quando, come ne La morte e la terra (Adelphi), ci si rivolge ai grandi temi che anche nell'Apocalisse di Giovanni costituiscono l'èschaton, le «cose ultime»: morte, aldilà, resurrezione, immortalità, reincarnazione, vita eterna. Si tratta invece di un libro in cui ogni affermazione è ricondotta al proprio fondamento. Infatti quei temi nella nuova opera di Severino assumono un senso essenzialmente diverso da quello comune, incominciando dallo stesso significato dell'essere uomo che appare come qualcosa di infinitamente più alto di Dio.
In La morte e la terra, per esempio, viene portata alle estreme conseguenze l'impossibilità di «entrare nella vita eterna»: nell'eterno «non si entra», perché l'uomo — ma anche ogni cosa — è già da sempre eterno. D'altra parte, proprio per questo, è eterno anche il dolore. Per farsi capire Severino allude al rapporto esistente tra il dolore e il Dio cristiano. Dio, incarnandosi, esperisce il dolore dell'uomo, tuttavia nella sua gloria non solo non può dimenticarlo ma non può nemmeno averne un'idea astratta, un'astratta memoria: deve continuare a sperimentarlo nella sua totale angosciante concretezza. Però questo Dio è anche l'infinito superamento del dolore; ma se l'uomo è, nel pensiero di Severino, infinitamente più alto di Dio, allora l'eternità del dolore è, nell'uomo, superata in un modo anch'esso infinitamente più alto.
Ci ha confidato Severino alla fine della stesura della nuova opera: «Avevo già considerato la morte come lo stato in cui l'uomo separa il mondo da quello che è il destino della verità, ora la considero nel significato più vicino al suo senso comune: il disfacimento del corpo». E aggiunge: «Nel libro si arriva anche a questo risultato rilevante: che l'uomo non è atteso né dal nulla né dalle vicissitudini espresse dai concetti di immortalità dell'anima, resurrezione, reincarnazione, cioè dagli incubi che l'aldilà può suscitare. Il disfacimento del corpo è immediatamente seguito dalla Gioia suprema in cui, innanzitutto, l'uomo prende coscienza della propria altezza». Si tenga presente che Severino dice tutto questo avendo dato una mano consistente alle concezioni antimetafisiche del pensiero contemporaneo: non nel senso che vi abbia aderito, ma perché ha saputo mostrare l'inevitabilità del nichilismo una volta che si compia l'errore fatale (cominciato con la filosofia più antica) di concepire l'uomo e gli altri enti come povere cose che escano, effimere, dal nulla e in esso ritornano.

Repubblica 21.10.11
Bonino: "Niente da celebrare con lui sepolti troppi segreti"
di Rosalba Castelletti


«Questa morte fa comodo a molti. Con Gheddafi verranno sepolti segreti che vedevano implicate le potenze occidentali, come il suo ruolo nel boicottare il mancato esilio di Saddam». Emma Bonino, vice presidente del Senato e fondatrice di "Non c´è pace senza giustizia" si dissocia dal «coro di euforia collettiva per l´esecuzione di Gheddafi».
Onorevole Bonino, parla di esecuzione, mentre i ribelli sostengono che il Colonnello sia stato ferito accidentalmente e morto durante il viaggio verso l´ospedale.
«Sulla morte di Gheddafi bisognerà fare chiarezza. In ogni caso ritengo che le esecuzioni e la giustizia sommaria non siano mai da festeggiare neppure quando riguardano dittatori o tiranni. Dal processo farsa a Saddam Hussein alla morte di Bin Laden, non sono mai state un buon inizio».
Cosa avrebbe auspicato?
«Un processo equo e non vendicativo di fronte alla Corte penale internazionale, come quello intentato a Milosevic. Sarebbe stato non solo uno strumento di conoscenza, ma anche un passo importante verso la costruzione della "nuova Libia". Ma di certo sarebbe stato un processo scomodo...»
Scomodo per chi?
«Per tutti i Paesi implicati nei "segreti di Gheddafi": dal mostro di Lockerbie al boicottaggio dell´esilio di Saddam Hussein che avrebbe evitato lo scoppio della Guerra in Iraq».

Repubblica 21.10.11
Un big bang tira l’altro
Ecco perché può nascere un nuovo universo
di Roger Penrose


Il celebre scienziato Penrose illustra la sua teoria cosmologica, secondo cui le stelle e i pianeti non faranno affatto una fine "noiosa"
"La mia idea è un po´ folle e si basa sul fatto che per un´entità come il fotone non esiste il trascorrere del tempo"
"In questa ipotesi si mescolano ingredienti molto diversi: filosofia, geometria, fisica e forse religione"

Vorrei spiegare un´idea un po´ folle (che potrebbe non essere poi così folle, dopotutto!) che ho avuto poco tempo fa riflettendo sulla cosmologia e la natura del Big Bang e del tempo. In parole povere, questa idea fornisce una prospettiva completamente nuova rispetto alla domanda, abbastanza frequente: "Cosa c´era prima del Big Bang?". La risposta che propongo contiene un modo curioso ma pienamente razionale di considerare quello che ci aspettiamo sia il destino del nostro universo in espansione accelerata, e mostra come tutto questo possa essere reinterpretato come il "Big Bang" di un universo completamente nuovo! (...)
A parte la "folle idea" – e le idee a essa collegate – tutti gli argomenti di cui parlerò sono assolutamente normali e per nulla "folli". Descriverò, per necessità, qualche nozione di fisica delle particelle, di cosmologia e relatività generale, specialmente gli aspetti in relazione con il Big Bang, i buchi neri e il loro legame fondamentale con la seconda legge della termodinamica. E´ necessario, allo stesso tempo, che io colleghi la mia "folle idea" ad alcuni altri tentativi di ottenere qualcosa di vagamente simile e che spieghi una certa inadeguatezza geometrica di cui soffrono questi tentativi precedenti.
Più esattamente, collegherò le mie idee a quanto suggerito da Lee Smolin nel 1997 con La vita del cosmo. Altri fisici, tra cui J.A.Wheeler, hanno già suggerito cose simili. Secondo la proposta di Smolin, ogni volta in cui un buco nero collassa, la singolarità dello spaziotempo che ne risulta non rappresenta "la fine del tempo" per il materiale che collassa, bensì fornisce i "semi" per un universo nuovo, dove la singolarità finale del collasso in qualche modo è "rivoltata" e costituisce la singolarità iniziale (ossia il Big Bang) di un universo completamente nuovo! Seguendo l´idea originale di Wheeler, che non si riferiva ai buchi neri ma al Big Crunch di un universo chiuso in fase di collasso, Smolin spiega che nelle condizioni incredibilmente estreme di questa singolarità spaziotemporale (che collassa e poi si espande) si verificherebbero minuscoli cambiamenti nelle costanti fondamentali della natura (...).
In tutti questi modelli si propone che ci sia qualche effetto di gravità quantistica che trasforma la singolarità derivante dal collasso in una singolarità che causa un´espansione (un "Big Bang") di un universo nuovo. Anche se un´idea di questo tipo è altamente speculativa, si tratta di una proposta avanzata molte volte, a partire dalla soluzione cosmologica di Friedmann per un universo chiuso, del 1922, in cui ci sono cicli infiniti di espansione e collasso, con il "Big Crunch" di un ciclo che diventa il "Big Bang" di quello successivo tramite un qualche effetto (sconosciuto) di gravità quantistica.
L´effetto che suggerisco è completamente speculativo, ma io stesso da molto tempo ho un´altra obiezione a questo tipo di proposte che deriva dalla seconda legge della termodinamica e gli argomenti a essa correlati della geometria di un "Crunch" e di un "Bang" che ci dicono che i due non "si incastrano" l´uno con l´altro nemmeno con i migliori sforzi dell´immaginazione. Per queste ragioni, infatti, per lungo tempo ho avuto la tendenza a considerare questa intera classe di idee come troppo "folli" per essere prese sul serio!
Oggi tuttavia è stato introdotto un fattore nuovo, che emerge da una recente osservazione cosmologica (1998): l´espansione dell´universo sta accelerando e di conseguenza, probabilmente, la costante cosmologica di Einstein (da lui introdotta con riluttanza nel 1917) è diversa da zero e ha valore positivo, per quanto piccolo; spesso ci si riferisce a essa come alla "energia oscura". Questa espansione accelerata porta a un´immagine piuttosto "noiosa" delle ultime fasi del destino dell´universo. Non ci sarà nessun Big Crunch, e l´universo diventerà (esponenzialmente) sempre più vuoto. Alla fine, la materia dotata di massa e i buchi neri (secondo un´idea contemporanea abbastanza plausibile) decadranno o evaporeranno (i buchi neri, dopo un periodo incredibilmente lungo, scompaiono emettendo potenza sotto forma di radiazione di Hawking) e non resterà altro se non radiazione priva di massa. Una vera noia! Nel 1979, Freeman Dyson descrisse una rappresentazione di questo tipo in un articolo dal titolo Tempo senza fine: fisica e biologia in un universo aperto, sostenendo con grande abilità – e forse con ottimismo ancora maggiore – che un universo del genere non dovrebbe essere poi così noioso, dopo tutto; ma questo era prima che si sapesse dell´espansione accelerata!
Ed ecco che entra in gioco la mia "folle idea": gli elementi sopravvissuti in questo (noioso) universo nella sua fase finale come vedrebbero la propria esistenza? In modo molto diverso dal quadro tracciato poco sopra, perché per un´entità priva di massa come un fotone non esiste il trascorrere del tempo (effetto ben noto della relatività speciale di Einstein). Per un fotone libero o un´altra particella priva di massa, la "fine del tempo" è già qui! I fotoni conoscono soltanto il cono di luce (la superficie che descrive l´evoluzione temporale di un raggio luminoso in un formalismo matematico usato in relatività speciale, n.d.t.), e non il "ticchettio dell´orologio" che conferisce allo spaziotempo la struttura metrica di Einstein. I coni di luce non conferiscono una metrica, ma soltanto quello che chiamiamo una struttura conforme. L´eternità senza fine di questo universo sempre in espansione, dal punto di vista conforme, non è per nulla senza fine, ma è equivalente a un universo in collasso che lascia spazio a un "Big Crunch" oppure, conseguentemente, a un universo nuovo che si espande a partire da un "nuovo" Big Bang. Non c´è un "Big Crunch" vero e proprio, ma qualcosa che si comporta esattamente come lui dal punto di vista delle entità senza massa che, adesso, sono gli unici costituenti materiali dell´intero universo! E´ questo stato delle cose che fa sì che nasca il "nuovo universo" con il suo nuovo Big Bang.
Perché questa idea funzioni, il nuovo Big Bang deve necessariamente avere i vincoli straordinariamente speciali che sembra ci siano nel nostro universo, e che ci danno la seconda legge della termodinamica così come la conosciamo, per consistenza con le osservazioni cosmologiche. Ora scopriamo che questo "Crunch" (conforme) e questo "Bang" si incastrano bene geometricamente (nel senso preciso che si dà al termine in geometria conforme), ma ciò accade soltanto se questa straordinaria peculiarità ha davvero luogo – così da spiegare il secondo, in un certo senso – e le diverse caratteristiche geometriche e osservative sembrano essere in armonia l´una con l´altra. In aggiunta, si spera che le caratteristiche osservative del nostro universo possano essere messe in relazione con le previsioni dello schema che propongo.
Chiaramente, queste idee coinvolgono numerosi ingredienti di tipo anche molto diverso tra loro: troviamo motivazioni filosofiche (religiose, addirittura?), geometria cosmologica; geometria conforme, fisica conforme, costanti (variabili?) della Natura e principio antropico, fisica delle particelle, fisica statistica e cosmologia. C´è anche una mistura di buona vecchia fisica e matematica e di alcune idee altamente speculative. E come sempre è essenziale rendere molto chiaro dove finiscono le une e iniziano le altre.
(traduzione di Eva Filoramo)

giovedì 20 ottobre 2011

Repubblica 20.10.11
Il boom degli obiettori "Tra cinque anni in Italia non si potrà più abortire"
Allarme dei medici per la 194: "Siamo rimasti in 150"
"Costretti a fare solo interruzioni di gravidanza, la legge deve essere cambiata"
di Maria Novella De Luca


ROMA - Ha fatto dimezzare gli aborti e reso le coppie più consapevoli verso la maternità. Ha spezzato la clandestinità e spinto fuori dal silenzio il dramma secolare di milioni di donne. Adesso però la legge 194 rischia di scomparire. Nell´arco di cinque anni o poco di più. Travolta da un esercito di obiettori (il 70,7% dei ginecologi) che hanno desertificato i reparti di interruzione volontaria di gravidanza, mentre per i pochi medici non obiettori la vita è diventata una trincea: emarginati, vessati, costretti a fare soltanto aborti e a turni massacranti, penalizzati nella carriera. «Ho smesso perché non ce la facevo più - racconta M. G. ginecologa - lavoro in un ospedale pubblico delle Marche, dove la direzione sanitaria ha fatto dell´obiezione di coscienza la sua bandiera. Otto anni senza ferie, senza potermi occupare di né di parti né altri interventi, solo e soltanto aborti. Nel gelo e nel disprezzo degli altri colleghi, come fossi una ladra. Ho avuto un esaurimento. Ho detto basta. Adesso il servizio Ivg è chiuso». Infatti. I non obiettori sono ormai uno sparuto drappello il cui numero si assottiglia sempre di più. E se in Italia diventerà difficilissimo assicurare le interruzioni di gravidanza entro il terzo mese, sarà quasi impossibile effettuare gli aborti terapeutici. Ossia quelli più difficili e dolorosi, che seguono alla diagnosi di una malformazione del feto.
È l´allarme che arriva dai ginecologi della «Laiga», (Libera associazione italiana ginecologi per l´applicazione della 194) che domani si riuniranno nel primo convegno nazionale a Roma. «Nei prossimi cinque anni - spiega Silvana Agatone presidente della Laiga - molti di noi, medici non obiettori, andranno in pensione. Già adesso non siamo più di 150, ci sono interi ospedali del Sud privi di reparti di interruzione di gravidanza, perché la totalità di ginecologi, anestesisti, paramedici ha scelto l´obiezione di coscienza». E se per effettuare gli aborti nelle prime 12 settimane gli ospedali ricorrono a personale esterno, questo non è possibile quando si tratta di aborti oltre la ventesima settimana, per i quali servono medici "strutturati", ossia in organico all´ospedale stesso. «Ma quasi tutti i nuovi assunti - aggiunge Agatone - subito dopo aver ottenuto il posto fanno obiezione di coscienza, alcuni per scelta ma molti per la carriera e per non finire in un "confino" dove si fanno soltanto aborti. Così i servizi si svuotano, le donne emigrano o approdano di nuovo alle cliniche clandestine».
Con il paradosso che mentre cresce sia la ricerca che il business della medicina prenatale, in grado di diagnosticare le anomalie del feto, aggiunge Anna Pompili, ginecologa e docente all´università «La Sapienza», «le donne dopo aver saputo che il loro bimbo sarà affetto da gravi patologie, restano sole, non sanno dove andare». Spesso infatti gli stessi medici che hanno fatto l´indagine sono obiettori e dunque se ne disinteressano…. Non solo. «Nelle scuole di specializzazione - sottolineano i medici della Laiga - non si insegna più come fare una interruzione di gravidanza, quasi non se ne dovesse parlare, così i ginecologi imparano uno dall´altro, in modo empirico, e questo crea seri pericoli per le donne».
E i rischi per le donne sono testimoniati dai dati: mentre gli aborti entro le 12 settimane diminuiscono di anno in anno, (52,3% in meno dal 1982), il numero degli aborti terapeutici cresce, passando dal 2,7% del 2007, al 3% del 2009, ma, dice ancora Anna Pompili, «la percentuale potrebbe essere addirittura doppia, visto il numero delle donne che abortiscono all´estero». E a 30 anni dal referendum che nel 1981 confermò la legge 194, oggi in Italia la situazione è assai peggiore di allora. Basta ascoltare le denunce delle donne. «Sono stata lasciata sola e in travaglio perché il medico non obiettore aveva finito il suo turno, e gli obiettori non mi hanno assistita» (Napoli). «Schernita e aggredita da un´infermiera del Movimento per la Vita». (Roma). «Senza antidolorifico perché il medico di guardia era obiettore» (Milano). «Costretta a vedere il mio bambino» (Ascoli Piceno). Ma anche testimonianze positive: «Ho abortito alle ventiduesima settimana, l´ostetrica mi teneva la mano, l´infermiera mi abbracciava, non le ringrazierò mai abbastanza» (Napoli). Storie e voci che non si dimenticano. Di una legge ormai però quasi inapplicabile. Spiega infatti Marilisa D´Amico, docente di Diritto Costituzionale. «Domani annunceremo un ricorso contro l´interpretazione troppo rigida della norma sull´obiezione di coscienza, che oggi viola diversi punti della Costituzione. Dall´articolo 3 sulla ragionevolezza della norma, all´articolo 32 sulla salute della donna, fino alla dignità della persona».

Repubblica 20.10.11
L'intervista
"La libertà di coscienza va tutelata non potete obbligarci a uccidere"


ROMA - Giuseppe Noia, presidente dell´Associazione Ginecologi Cattolici. In Italia oltre il 70% dei medici si dichiara obiettore di coscienza. Scelte etiche o strumentali...
«L´obiezione di coscienza attiene alla libertà dell´uomo e deve essere tutelata. Ma anche io credo che non tutte le "obiezioni" derivino da un convincimento etico».
Da cattolico lei ritiene comunque legittima la legge 194?
«Credo nel dialogo e non nel fondamentalismo. Ma ci sono troppi "silenzi" scientifici intorno alla legge 194. Le gravi depressioni delle donne, il lutto che le accompagna dopo un aborto, soprattutto se terapeutico".
Circa il 3% di tutti gli aborti.
"Sì, ma fino a qualche anno fa erano lo 0,5%. E si tratta di aborti eugenetici".
Questi bimbi avrebbero però sindromi gravissime...
"Questo non ci autorizza ad ucciderli. Al Gemelli abbiamo un centro unico, l´hospice perinatale. Qui i genitori che scelgono di far nascere bimbi di cui conoscono le gravi condizioni, possono serenamente accompagnarli alla morte. Vivono il loro dolore, ma sono pronti a ricominciare. E spesso dopo pochi mesi scoprono di attendere un nuovo bambino".
(m. n. d. l)

il Fatto 20.10.11
Maurizio Landini, segretario della Fiom
“Al primo incontro con Marchionne ho capito che tipo è”
Esce oggi “Cambiare la fabbrica per cambiare il mondo”, un libro-intervista del segretario della Fiom Maurizio Landini con Giancarlo Feliziani. Ne anticipiamo alcuni passaggi.
di Giancarlo Feliziani


Maurizio Landini, quando ha incontrato per la prima volta l’amministratore delegato della Fiat?
Era il luglio dello scorso anno, quando la Fiat a Mirafiori annunciò lo spostamento delle produzioni in Serbia. In quell’occasione ho incontrato il dottor Marchionne. Si trattava di un incontro convocato presso la Regione Piemonte. C’erano il presidente Cota, il ministro Sacconi, il sindaco di Torino, Chiamparino, e poi era stato convocato il sindacato con la Cgil, la Cisl e la Uil. Io ero seduto tra Epifani e Bonanni. E ricordo che Marchionne è arrivato, si è seduto, ha letto un testo dove in pratica ripeteva le cose già sentite altre volte, dove non diceva più solo ai sindacati, ma anche alle istituzioni e al governo: “Dovete dirmi di sì o di no. Io il piano industriale non lo discuto con nessuno”. E la cosa che mi ha colpito è che  lui ha letto il suo documento e subito dopo tutti si sono detti d’accordo. Tutti, tranne la Fiom e la Cgil. Non si è discusso su nulla. Gli unici a intervenire per dire che c’erano delle cose che non andavano siamo stati noi. E poi c’è stato un episodio per certi versi brutale, quando il presidente della Regione, Cota, ha preso la parola per chiudere l’incontro e rivolgendosi a Marchionne ha detto: ‘Allora, possiamo dire che la Fiat mantiene gli investimenti...’. E lì Marchionne è intervenuto: ‘No, guardi, sia chiaro: lei non può dire che la Fiat sta cambiando idea’. Fine dell’incontro. Come siamo entrati, siamo usciti. E nessuno ha reagito di fronte a quello che a me è sembrato un atteggiamento un poco arrogante. E poi soprattutto non era stato compiuto nessun passo in avanti. Marchionne confermava di voler andare in Serbia e noi non sapevamo ancora quali prodotti avrebbe deciso di fare a Mirafiori. Aveva solo ribadito che non avrebbe discusso niente con nessuno.
Con Marchionne neppure una stretta di mano?
Sì, certo. Ci siamo salutati, ci siamo dati la mano, mi ha fatto anche una battuta: ‘Vedo che lei parla molto di me’, ha detto. ‘Più che parlare cerco di documentarmi, ho letto qualche libro che la riguarda’ ho risposto io. E l’incontro è finito lì.
Cosa gli è andato a dire?
Gli ho detto così: ‘Vede, dottore, ci sono dei momenti in cui tutti sostengono che le cose stiano andando bene. E quelli sono momenti pericolosi. Perché a volte avere vicino qualcuno che dice di no, che mette in guardia, che dice con sincerità, guarda che così secondo me non funziona, può essere utile’.
E lui?
Non ha risposto. Lui non risponde. Ha ascoltato, quello sì. Ma non ha risposto. E se sto a tutto quello che è accaduto dopo, direi che non ha nemmeno tenuto in grande considerazione quelle parole. Io però penso che le occasioni per dire le cose con chiarezza vadano sfruttate tutte quante.
Nella vicenda Fiat c’è stato un problema di informazione? Come siete stati trattati dalla stampa e dalle televisioni?
Sì, io credo che esista un problema di maggiore trasparenza, di uso, diciamo così, più obiettivo dei mezzi di comunicazione. Perché in molti casi si è cercato di rappresentare posizioni precostituite e di dare poco spazio al merito, al contenuto delle questioni. Paradossalmente è stata proprio la radicalità, la brutalità con cui la Fiat ha cercato di realizzare i suoi obiettivi a darci visibilità. Loro hanno esagerato e noi ne abbiamo tratto giovamento mediatico. Ma subito dopo la nostra forza è stata quella di evitare discussioni ideologiche entrando invece nel merito della vicenda. E come per incanto tutti hanno dovuto ricordare che nelle fabbriche c’è un problema di fatica, di sfruttamento.
E la Fiat? Secondo lei ha ricevuto un trattamento privilegiato da giornali e televisioni?
Bè, certamente la Fiat ha una forza che noi non abbiamo. È proprietaria e controlla giornali, ha una potenza mediatica che noi ci scordiamo. Così quando ho letto l’intervista del dottor Marchionne in cui si parlava della Fiom come di una grande manipolatrice dell’informazione, sinceramente mi ha fatto un po’ sorridere, perché basta guardare alla sproporzione di mezzi. Noi ci siamo limitati a trovare le parole d’ordine giuste. Perché quando abbiamo detto che il lavoro o ha dei diritti o non è un lavoro, queste parole hanno parlato a tutto il paese. Noi abbiamo avuto lo scatto di dignità, il gesto di coraggio dei lavoratori, penso a quelli di Pomigliano, Melfi, Mirafiori e Bertone. Senza quel coraggio non saremmo andati da nessuna parte. [...]
A proposito di Chrysler e a proposito degli Stati Uniti: quando ha sentito il presidente americano Barack Obama dire “grazie, Sergio” cosa ha pensato?
A parte il fatto che la Chrysler era in bancarotta e il salvataggio è avvenuto a fronte di una situazione d’emergenza. Ma poi guardi che anche in Italia per alcuni anni l’atteggiamento di Marchionne con i sindacati è stato estremamente positivo. Allora per quel periodo anche voi vi sentite di dire ‘grazie, Sergio?’. No, noi diciamo grazie ai lavoratori. Però in quella fase c’è stata un’intesa. In quel periodo Marchionne non ha puntato alla cancellazione del sindacato e alla chiusura degli stabilimenti. Per salvare la Fiat ha scelto e accettato un confronto con noi.
Possiamo allora dire che Sergio Marchionne sia il miglior nemico possibile?
A lui riconosciamo indubbie capacità manageriali. Un uomo che ha dimostrato coraggio e capacità di gestione della finanza. Insisto: dal 2004 al 2008 per salvare la Fiat ha scelto un rapporto positivo coi sindacati e coi lavoratori. Poi con le proposte per Pomigliano e Mirafiori le cose sono andate in un’altra direzione, quel sistema di regole condivise si è spezzato e la Fiat ha introdotto unilateralmente un metodo di gestione della fabbrica piuttosto autoritario. Non c’è dubbio che se la Fiat è uscita da una crisi pesantissima nel primi anni Duemila è grazie anche alle capacità di Marchionne. Ma anche alla disponibilità dei lavoratori e dei sindacati. E questo sarebbe bene non dimenticarlo.

La Stampa 20.10.11
Il centrosinistra dopo il voto in Molise
4,08% Il candidato grillino Davide Bono risultò fondamentale per la sconfitta di Mercedes Bresso in Piemonte nel 2010 in Piemonte
7 % È il miglior risultato del Movimento 5 Stelle: lo raggiunse Giovanni Favia, alle regionali in Emilia Romagna In Emilia
5,6 % Determinanti in Molise i «grillini» per la vittoria del centrodestra (46,94%) sul centrosinistra (46,15%) in Molise
Grillo: «Il Pd? A perdere ci pensa da solo»"
Da marginali a decisivi adesso i grillini fanno paura a sinistra
Così il movimento modifica l’equilibrio tra i poli
di Fabio Martini


ROMA. Per una volta Beppe Grillo si concede un’ironia leggera, senza additivi e senza insulti: «In Molise abbiamo fatto perdere il Pdmeno-elle? Loro, a perdere, ci riescono da soli, non hanno bisogno di appoggi esterni...». Da due giorni, non appena si è scoperto che il centrosinistra avrebbe vinto le elezioni in Molise se avesse intercettato i voti andati invece ai grillini, è partito un refrain recriminatorio: Grillo, hai regalato la vittoria a Berlusconi. Ma il comicoguru non sembra scomporsi: «Prima delle elezioni per i media il Movimento Cinque Stelle non esisteva e adesso i voti sono diventati di proprietà privata» del Pd e non una «libera scelta dei cittadini». Una cosa è certa: i grillini, che non si sono mai coalizzati con nessuno, hanno ottenuto nel periferico Molise un risultato per certi versi sbalorditivo. In un’area che non è la Silicon Valley e neppure l’Emilia Romagna ed è disseminata di piccoli centri con pochi abitanti; in una regione dove da anni c’è la massima concentrazione di voto di preferenza-clientelare, il candidato-presidente del «Cinque Stelle» ha ottenuto il 5,6%, circa la metà della percentuale ottenuta dalla lista del Pd.
E così il Molise ha finito per diventare il catalizzatore di un’ascesa sempre più plateale. Dopo una miriade di carotaggi iniziati nel 2008 e approdati al 3,7% delle Regionali piemontesi, il Movimento ha fatto boom alle amministrative della scorsa primavera: i grillini - facce «pulite» di giovani mediamente meno «incazzati» del loro guru e mai comparsi in tv - avevano ottenuto percentuali importanti in città come Bologna (9,5%), Ravenna (9,8%), Savona (9%), Trieste (6%), Arezzo (5,9%), riuscendo ad eleggere un consigliere comunale a Milano, strappando risultati a due cifre in cittadine come San Mauro Torinese (10,6%), Rimini (11,3%), Nardò (10,4%) e percentuali importanti in tante altre realtà. Preso sottogamba dai partiti concorrenti ma anche dai mass-media, il Movimento Cinque Stelle è stato generalmente etichettato come espressione dell’antipolitica. Ma è davvero così? E ancora: vista l’idiosincrasia a coalizzarsi, non è che alle prossime Politiche la percentuale al «Cinque Stelle» potrebbe far mancare al centrosinistra i voti decisivi? Così come fece nel 2000 l’indipendente Ralph Nader, ai «danni» del democratico Al Gore?
La prima sorpresa si scopre, attraversando i loro siti. Nati e cresciuti sulla Rete, unici capaci a trasformare il web in un modello politico-organizzativo efficace, qualche mese fa tutti i grillini in politica hanno fatto sapere ai propri elettori di essersi drasticamente autoridotti le indennità, tenendo per sé l’equivalente di un buono stipendio impiegatizio e devolvendo il resto per opere pubbliche o a favore del Movimento. Con reazioni, da parte di chi leggeva, di compiacimento, ma anche con l’invito a non esagerare. Uno ha scritto a Mattia Calise, consigliere comunale a Milano: «Dai, Mattia, trattieni qualcosa in più per te!». Spiega Mario Adinolfi, da anni animatore di uno dei blog più cliccati della Rete: «Questo rifiuto del privilegio del politico è stato dirompente per l’ulteriore ascesa di un movimento che basa il suo successo su tre fattori: far politica utilizzando al meglio il Web, farla con giovani che rendono conto in modo trasparente del loro operato e farla con una forte connotazione anticasta. E finora non hanno calato l’asso-Grillo, sono quasi senza soldi perché il loro guru è un po’ tirchio e sono stati osteggiati da tutti i commentatori».
Le proposte programmatiche e gli austeri stili di vita dei grillini? Importanti ma meno decisivi della loro grinta. Racconta l’assessore al Bilancio di Milano Bruno Tabacci: «In Consiglio Calise ha molta grinta, ma anche molto garbo». E il Pd? Anziché chiedersi se sia riproducibile un modello alternativo per un certo tipo di elettorato, per ora ha preferito indicare i grillini come capro espiatorio. Continuando così, non c’è il rischio di un effetto-Nader? «Il rischio c’è - dice Pippo Civati, l’unico nel Pd a prenderli sul serio da tempo - anche perché come fa il Pd a dire certe cose? Il Cinque Stelle non è un alleato che se ne è andato e prende voti anche da chi non vota più Pd. Le elezioni si perdono sempre per colpa propria».

Corriere della Sera 20.10.11
Democratici stretti tra Grillo in crescita e la «corte» a Casini
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Il movimento di Beppe Grillo contiene elementi di cui vogliamo tenere conto. Io intendo confrontarmi con tutti»: nel Pd Pier Luigi Bersani è il primo — e di certo non è l'unico — a guardare con attenzione quello che sta accadendo nel panorama elettorale, dove i grillini sono ormai una costante in quasi ogni elezione.
Quasi tutti sondaggi li danno intorno al 5 per cento a livello nazionale. Nel giro dell'ultimo mese, poi, sono aumentati di mezzo punto. E un loro eventuale candidato in proprio potrebbe prendere il 6 per cento da solo. Sono dati che preoccupano non poco i dirigenti del Partito democratico. «Finora — ragiona Enrico Letta — il movimento 5 Stelle sfondava solo nelle grandi città. Ora si sta espandendo dappertutto». Il vice segretario confida i suoi timori a Pier Luigi Castagnetti, che concorda con lui. Poco più in là, nel cortile della Camera, un altro deputato del Pd, Giovanni Lolli, dà voce a riflessioni analoghe: «Vedrete che quelli cresceranno e diventeranno un problema perché dovremo decidere come gestire il rapporto con il movimento cinque stelle».
Già, senza i grillini il centrosinistra potrebbe non vincere le elezioni, con loro potrebbe non riuscire a governare. Ed è su questo secondo aspetto che si sofferma Bersani: «Bisognerà siglare un patto di governabilità tra le forze del centrosinistra prima di andare alle elezioni insieme perché non possiamo fare il bis dell'Unione. Dobbiamo decidere il programma e attenerci a quello quando saremo alla guida del Paese». Il segretario del Partito democratico è convinto che non si possa fare altrimenti, pena il rischio di ripetere gli errori del passato: «E comunque — sottolinea Bersani — io non voglio fare la fine di Prodi». Ma riuscire a mettere insieme Grillo e Casini è una missione impossibile. E comunque non interessa al movimento 5 stelle. I grillini tengono a marcare le distanze con i partiti dell'opposizione. Potrebbero invece allearsi con il movimento che Luigi de Magistris sembra intenzionato a mettere in piedi, operando lo strappo definitivo con Di Pietro. È un'eventualità che al Partito democratico temono e che non escludono.
Bersani, perciò, si trova stretto in una tenaglia. Da una parte deve lasciare uno spiraglio aperto all'Udc, anche perché gli ex ppi insistono su questo punto. Dice Beppe Fioroni: «Pier Luigi si ricordi che non è il segretario del Ds ma del Pd, non lo deve dimenticare sennò la ragione sociale del nuovo partito viene a mancare». Dall'altra, non può lasciare certi temi solo al movimento 5 stelle. Quindi la presenza dei grillini nel panorama elettorale condizionerà inevitabilmente la linea del Pd. C'è chi ritiene — è il caso del governatore della Toscana Enrico Rossi — che non si possano scegliere candidati troppo moderati anche per questo motivo: lo prova il fatto che a Milano con Pisapia e a Napoli con de Magistris il movimento 5 stelle non ha inciso come ha invece inciso nelle elezioni Regionali del Piemonte e del Molise.
E la presenza dei grillini nello scenario politico rende inevitabile l'appuntamento con le primarie, che a questo punto diventano uno strumento per coinvolgere maggiormente gli elettori: «Io non ho paura di farle, chi lo dice racconta balle», assicura Bersani.

La Stampa 20.10.11
Roma, gli interrogatori
Scontri, la lunga notte degli arrestati
Attesa per la sorte dei 12 giovani finiti in carcere per le violenze durante la manifestazione di sabato
di Francesco Semprini


ROMA L’attesa dura per tutta la notte. I legali dei dodici ragazzi arrestati nel corso della manifestazione di sabato scorso aspettano davanti al grande portone di Regina Coeli prima di conoscere la decisione del giudice per le indagini preliminari, Elvira Tamburelli. Il reato contestato dalla procura della Repubblica è resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale, oltre a altri capi di imputazioni valutati caso per caso. Il gip deve stabilire se sussistano gli estremi per la convalida degli arresti e per l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare. Gli avvocati stringono tra le mani i cellulari in attesa della chiamata che aspettano da ore assieme ad alcuni familiari dei giovani manifestanti, e un nutrito gruppo di reporter. Un pony express porta le pizze per ingannare l’attesa, ma l’agonia è tale che alcuni non riescono a mangiarne nemmeno una fetta. Tra poco si saprà quale futuro attende i presunti facinorosi di sabato pomeriggio. Gli interrogatori sono terminati alle 18, tra gli ultimi ad essere sentiti anche le due coppie di fidanzati fermati dopo gli episodi di violenza di piazza San Giovanni. «Abbiamo depositato video e filmati che dimostrano la estraneità dei nostri assistiti a quanto contestato dalle forze dell’ordine nel verbale di fermo», dicono gli avvocati Simonetta Crisci e Maria D’Addabbo. Tra i video c’è anche quello che già da alcuni giorni gira su internet e che mostra i quattro mentre vengono bloccati dalla polizia. Nel video si sente anche la voce di una donna che dalla finestra di casa urla agli agenti: «Lasciateli andare loro non c’entrano nulla con le violenze».
Per alcuni però il destino appare già segnato come per Robert Scarlat, 21 enne di origine romena e che vive da oltre dieci anni a Varese con la madre. Per lui il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha firmato il decreto di allontanamento, «proprio perchè la legge lo prevede». «È una cosa assurda rischia di snaturare il procedimento ed è anche ingiusto nei confronti del giovane», spiega il legale di Scarlat. Il ragazzo romeno, con il volto parzialmente travisato, è stato visto in via Emanuele Filiberto angolo Piazza San Giovanni mentre, assieme ad altri giovani, mentre raccoglieva da terra alcuni sanpietrini per poi scagliarli verso le forze dell’ordine. Al momento dell’arresto ha opposto resistenza e avrebbe ferito a un piede un poliziotto. Inoltre nello zaino gli è stato trovato un lacrimogeno già esploso. All’attivo ha precedenti per spaccio e detenzione di stupefacenti, ma sembra ben lontano dall’essere un black bloc o dall’avere connotazioni politiche estremistiche. «Ha una vita un pò complicata ma è italiano al 100%, lo si sente dal suo accento del varesotto prosegue il legale - Ha fatto lavoretti di diverso genere come volantinaggio, ma era la prima volta che partecipava a una manifestazione. A Roma ci voleva venire soprattutto per vedere la città». I procedimenti intanto vanno avanti anche per Fabrizio Filippi, 24 anni, detto «Er Pelliccia», immortalato con un estintore in mano durante gli scontri. La procura ha chiesto la convalida dell’arresto e già oggi ci sarà l’interrogatorio di garanzia. Le indagini proseguono per identificare altri responsabili dei disordini. In particolare, gli accertamenti si starebbero concentrando anche su alcuni esponenti dei gruppi ultras di Lazio e Roma che potrebbero essere tra coloro che hanno dato l’assalto al blindato dei carabinieri. È caccia anche ai protagonisti degli atti vandalici nella chiesa di San Marcellino, dove è stata anche distrutta una statua della Madonna. Anche in questo caso sono state isolate le foto dei colpevoli.
"Per uno di loro di origine romena Maroni ha firmato il foglio di via"

Corriere della Sera 20.10.11
Parlato: temo una coda degli ultimi scontri
di Paolo Conti


ROMA — Cosa prevede, Valentino Parlato, per domenica in Val di Susa? Si rivedranno i black bloc?
«Io temo fortemente che ci sarà una coda di quanto è avvenuto sabato scorso a Roma».
Il suo fondo di domenica scorsa sul «Manifesto», dopo le devastazioni di Roma, ha provocato un mare di polemiche...
«Lo so. Ma ho scritto molto chiaramente come la penso. Cioè che bisogna capire come e perché accadono certe cose. L'ho ripetuto nella replica alle lettere ricevute: "Se ci sono i black bloc, vuol dire che viviamo in una situazione di estrema e drammatica tensione". La mia è un'analisi».
Ma per essere molto chiari, se si ripetessero incidenti sarebbe un male o no?
«Sicuramente un male. Mai detto il contrario. E mai scritto. Però resto della mia opinione. Cioè che certi fenomeni vanno analizzati e capiti».
Il ministro Maroni propone che gli organizzatori dei cortei siano obbligati a una fideiussione per coprire eventuali danni. Su questo punto cosa dice e cosa pensa?
«Penso che sia semplicemente assurdo. Mi sembra a dir poco una stravaganza. Se non hai i soldi necessari non puoi manifestare? Ma per favore... Non vorrei che, per scendere in piazza, la Finanza procedesse a un accertamento preventivo dei redditi... mi viene da sorridere».
Un'altra proposta di Maroni e mediata da ciò che avviene nello sport: vietare l'ingresso nei cortei a chi ha precedenti di violenza.
«Ecco, qui siamo nell'ambito della ragionevolezza. Se hai già commesso atti di violenza, se sei un delinquente, non scendi più in piazza. Ragionevole, appunto. Ma è oggettivamente di difficile applicazione. E proprio per questo vaga».
Sembra che il «Manifesto», per uscire dalla crisi, guardi all'area degli Indignati...
«Indubbiamente è così. Gli Indignati possono costituire un nuovo pubblico. Certo, parliamo di giovani che usano molto Internet e poco la carta. Ma con un buon lavoro editoriale forse possiamo ottenere un risultato».
Un possibile paragone col 1969, anno della vostra nascita?
«Allora c'era l'autunno caldo... Oggi ci sono gli Indignati».
A proposito della crisi, parliamo di cifre e numeri.
«Il deficit di esercizio è prossimo al milione e mezzo. Le copie vendute sono meno di 15 mila. Nel 1994, quando con la manifestazione del 25 aprile demmo un colpo mortale a Berlusconi, erano 50 mila. Se il governo taglia i contributi, siamo fatti fuori».
Cosa vi rimproverate?
«Rimproverare non saprei... So che noi proponiamo un prodotto in cui l'analisi degli avvenimenti è preponderante. E forse, oggi, nell'era del bunga-bunga e delle escort, diventati l'unico argomento politico, il pubblico, anche quello che era di nostro riferimento, mostra meno attenzione».
«Il Fatto» vi ha sottratto quote di mercato? Lo dicono in molti.
«Probabilmente sì. Ma personalmente non condivido una linea basata unicamente sull'immediata denuncia e sullo scandalismo. In qualche modo, si cade nella trappola del berlusconismo, insistendo ossessivamente sulla sua figura».
C'è una crisi della direzione, Norma Rangeri ha lasciato. Come risolverete?
«Penso che ci ritroveremo in un gruppo dirigenziale, più che in un singolo direttore. Forse anche per interpretare le varie anime che si registrano in redazione».
Pensa che ce la farete?
«Io sono ottimista. Abbiamo una bella e lunga storia alle spalle. Un peso storico. Anche un prestigio. È come un capitale messo in banca. Bisogna riuscire a farlo fruttare. Nonostante le divisioni, le liti. Che fanno parte del gioco e della nostra stessa storia».

Repubblica 20.10.11
Lo storico leader dei Disobbedienti: "Da idioti le violenze di Roma, ognuno decida con chi stare"
Casarini: basta ambiguità i black bloc sono nostri nemici
Quello che ho visto sabato è stato ripugnante. Dire che parlo così perché Sel mi ha promesso un posto alla Camera è solo piccola diffamazione
di Carlo Bonini


ROMA - Era il leader dei Disobbedienti al G8 di Genova. Sabato scorso, a Roma, era sul camion di "Uniti per l´Alternativa". In mezzo, Luca Casarini, 44 anni, veneto di Marghera, ci ha messo due figli piccoli, una partita Iva da lavoratore autonomo, 2 anni e 6 mesi di carcere definitivi e "indultati" per reati di piazza, nessuno dei quali per violenza sulle persone. Dice: «Quello che ho visto a Roma è stato ripugnante. Una minoranza organizzata militarmente ha violentato, messo in pericolo, umiliato una straordinaria moltitudine che chiede il cambiamento e con lei uno spazio pubblico di nuova democrazia che ha preso vita in tutto il pianeta. Con quale risultato? Un´immediata richiesta di repressione generalizzata del dissenso. Un gran bel lavoro sporco a esclusivo vantaggio di un potere corrotto e delegittimato».
Luca Casarini crede al complotto?
«No. Dico che i "neri" di sabato sono i migliori alleati del Sistema che sostengono di voler abbattere. Perché sono funzionali e reciproci di quel Sistema. E ne traggo delle conseguenze. Dico che è venuto il momento delle scelte».
Quali scelte?
«Ognuno dovrà decidere con chi stare. Quale è la sua gente. Per me il Movimento non è un méta-luogo, ma uno spazio democratico. Io, per dirne una, venerdì sarò di nuovo a Roma con la Fiom per difendere il diritto a manifestare».
I "neri" rivendicano un diritto alla rabbia che mutua argomenti del Movimento.
«È un´operazione da falsari. La rabbia è una malattia. La rabbia è anche nei neo-nazisti, nei razzisti, in chi attua i progrom dei Rom in Bulgaria, nei martiri di Al Qaeda. Noi, al contrario, dobbiamo impedire che la rabbia annulli il progetto di cambiamento di una nuova società. A maggior ragione se la rabbia viene declinata cinicamente in gesto narcisista e autosufficiente. Roba da D´Annunzio più che da Che Guevara. Meglio, da "Mortal Combat", il videogame. Insomma, basta con le ambiguità. Non esiste nessun progetto di cambiamento politico positivo costruito sul rancore. Sappiamo cosa ne è stato e ne è delle comunità rancorose. Dove c´è guerra non c´è spazio per il conflitto. Quello spazio c´è solo dove esiste democrazia».
Cosa significa "basta con le ambiguità"?
«Significa che è venuto il momento che il Movimento recuperi il senso di realtà. Significa rinunciare a certa sociologia d´accatto, a certo radicalismo chic dei salotti di sinistra che non hanno perso il vizio di fare gli apprendisti stregoni con le vite degli altri. Significa chiudere per sempre con la maledizione degli anni ´70, che sono finiti. Fi-ni-ti. E anche male».
A proposito di ambiguità, come la mettiamo con la questione violenza, non-violenza?
«La mettiamo così: molti nel mondo ci hanno insegnato che reagire a una ingiustizia, a un sopruso, non è violenza. Bruciare e picchiare per il gusto di farlo è un atto di idiozia inaccettabile».
Insisto sull´ambiguità. In Val di Susa esiste un movimento No-tav, ma in quella valle c´è chi periodicamente si dà appuntamento per un "mortal combat" nei boschi. Non è il caso, anche lì, di sciogliere il nodo?
«Accostare il Movimento No-Tav ai fatti di Roma serve solo a criminalizzare una esperienza straordinaria di lotta di massa che decide le sue pratiche. Così deve essere. Così doveva essere anche il 15 ottobre. Ognuno deve poter scegliere come costruire il proprio modo di lottare».
Dicono che lei parli da leaderino. Che Sel le abbia promesso un seggio in Parlamento. Pensa al Palazzo?
«Dietro le mie parole c´è la discussione di una comunità politica. Il resto è pettegolezzo e diffamazione piccola piccola. A me interessa voltare pagina, ritrovarmi con chi vuole il cambiamento».

Repubblica 20.10.11
Sbocco per la rabbia
Il sindaco di Napoli: "È tempo di cambiare, voglio contribuire a unire il movimento"
De Magistris: serve un partito che dia voce agli indignati
Se nel paese non c´è uno sbocco politico alla protesta, quei cinquecento violenti che a Roma hanno rovinato tutto possono aumentare
di Corrado Zunino


ROMA - Sindaco De Magistris, è riuscito a partecipare al corteo di sabato?
«Ci sono stato tre ore. Ero insieme alla Fiom, poi ho iniziato a muovermi. Volevo capire. A metà pomeriggio ho intuito che c´erano incidenti, vedevo fumogeni lontani. Dovevo rientrare a Napoli, solo al ritorno ho compreso la gravità della situazione».
Lei cosa ha visto?
«Una grande manifestazione e un grande orgoglio politico. Persone allegre, ragionamenti di economia e di società. "Siamo qui per dignità e non per odio". C´erano tutti quelli che hanno contestato in piazza per un anno: gli studenti, il Popolo viola, le donne, gli operai, i precari. Ecco, il movimento. Negli ultimi minuti ho visto venti incappucciati e ho sentito la bordata di fischi: "Fuori, fuori"».
Si rischia un nuovo terrorismo?
«Se nel paese non c´è uno sbocco politico, se passa l´idea dell´antipolitica più deleteria, quei cinquecento violenti possono aumentare».
Ha detto che la polizia non aveva un quadro di quello che poteva accadere.
«Con i tagli del governo è difficile investigare. Ho perplessità sulla gestione preventiva dell´evento, il sentore degli incidenti era crescente in molti ambienti, i black bloc erano individuabili alla partenza e nel corteo. Alla fine i violenti hanno cancellato il contenuto politico fortemente alternativo di quella piazza e realizzato la saldatura di fatto tra la loro violenza e le fasce più retrive del paese. Tra violenti e governo Berlusconi ci sono convergenze parallele».
Dica meglio.
«Settori economici, pezzi di maggioranza, magistrati infedeli, servizi, faccendieri e forze che della trama hanno fatto la storia del paese, le P2, le P3, le P4, hanno in orrore l´energia che sta arrivando dai movimenti. Temo episodi torbidi che mutino gli equilibri politici del paese».
Gli indignati dicono molte cose: acqua pubblica, Tobin Tax. Ma anche diritto all´insolvenza. Che cosa può diventare programma politico?
«È venuto il momento di un manifesto, una rivoluzione culturale. Dal devastante modello berlusconiano dell´avere e dell´apparire, universalmente fallito, bisogna passare al modello dell´essere, dei diritti delle persone: diventa quel che sei e non quello che gli altri vogliono che tu sia. Partiamo dai beni comuni: la natura, il paesaggio, la cultura, il sapere, internet non sono delle multinazionali né dello Stato».
Crede nella democrazia diretta.
«L´abbiamo sperimentata nella nostra campagna elettorale: la piazza è stata determinante. Oggi a Napoli abbiamo creato le assisi del popolo. A Roma ci sono laboratori di democrazia come il Teatro Valle e il Cinema Palazzo. Questo movimento, se disposto a perdere un po´ di autonomia per proporsi come alternativa, potrebbe entrare nelle amministrazioni, i municipi, le Regioni. E, perché no?, un giorno in un nuovo Parlamento».
De Magistris, si candida a fondare il partito del movimento?
«Non cerco opzioni personali, dico che insieme ad altri vorrei esserci, contribuire a unire il movimento, diventare un riferimento. E non parlerei di un partito, oggi l´energia politica è quasi tutti fuori dai partiti».
La infastidisce la definizione di sindaco antagonista?
«Per nulla. Sono antagonista a questo modello ingiusto, uno che va in direzione ostinata e contraria. Ma sono un uomo delle istituzioni».
E un politico che sta per uscire dall´Idv.
«L´Italia dei valori è un partito importante, ha forte vivacità e istanze di cambiamento, ma nei prossimi mesi bisognerà andare molto oltre».

Repubblica 20.10.11
Solo se la politica democratica sa affrontare le ingiustizie e se cioè dà spazio reale alla critica e alla proposta, allora la violenza non ha giustificazione. Si crea così un vero e proprio spartiacque tra civiltà e barbarie
La crisi dei governi tra abusi di potere e sopraffazioni
L’autunno caldo della democrazia
di Carlo Galli


La storia del pensiero politico è un lungo confronto con la violenza: con omicidi e brigantaggi, sommosse e guerre civili, usurpazioni e sopraffazioni, nemici esterni e criminali interni. Non solo: la politica deve fare i conti con la propria interna violenza. Infatti, la politica si struttura attraverso le differenze di potere fra persone e gruppi sociali. E la violenza sta all´origine del potere. Il potere è violenza che ha trovato una interna misura – esterna o interna –, una forma di consenso: è violenza controllata e legittimata, istituzionalizzata e finalizzata a obiettivi durevoli.
La violenza è una presenza immanente alla società (la violenza dei Molti, che si propaga per imitazione e si estende a tutto il corpo sociale, portandolo alla crisi, secondo la tesi di Girard); è un pericolo che può essere sventato solo se la violenza viene fatta convergere sull´Uno (il Sovrano, che nell´età moderna è la risposta hobbesiana alla violenza, ma che è anche il Capro espiatorio), che l´assorbe in sé, che vi si espone e al tempo stesso la monopolizza, e la somministra in dosi e in modalità prevedibili e razionali. Il marxismo intendeva introdurre in questo meccanismo un´altra violenza: quella di una Parte (il proletariato) che salva il mondo dalla violenza, esercitandola secondo Giustizia (tesi particolarmente chiara in Benjamin).
È quindi inesatto, benché frequentissimo (lo fanno tanto i liberali quanto Hannah Arendt), contrapporre, in linea di principio, la politica, il potere, la legge, alla violenza. La contrapposizione, evidentemente, c´è, ma solo perché noi vogliamo che ci sia, e solo se operiamo perché ci sia. E vogliamo distinguere fra legge e violenza, fra potere legittimo e violenza, proprio perché sappiamo che la violenza è dentro la politica – nei Molti (nelle folle, nelle masse – come volevano Sighele e Canetti –), nell´Uno (nel potere costituito), nelle Parti (classi, gruppi, bande, camorre) –, e la vogliamo neutralizzare, o ritualizzare, o, al limite, bandire e eliminare. Vogliamo, insomma, contrapporre la politica della civiltà alla politica della barbarie.
È questo l´obiettivo fondamentale dell´età moderna; la violenza, infatti, strumentalizza chi ne è oggetto (lo piega, lo opprime, lo spezza), e nega così quel valore infinito della persona che la nostra civiltà pone a proprio emblema. Ma perché questa finalità umanistica non sia vuota declamazione, bisogna sapere individuare la violenza in tutte le forme che assume – alcune delle quali interne alla stessa civiltà che la vorrebbe bandire –; c´è violenza tanto dall´alto quanto dal basso, tanto nei soprusi del potere quanto nelle rivoluzioni che li spazzano via, tanto nelle istituzioni deviate o corrotte quanto nella plebaglia incanaglita dal degrado culturale e civile, tanto nelle ingiustizie che attanagliano il mondo quanto nella criminalità più o meno organizzata, tanto nella sottomissione delle donne al potere maschile quanto nelle disuguaglianze e nelle persecuzioni religiose o razziali, tanto nel terrorismo quanto nella guerra (giusta o ingiusta che sia). Bisogna, insomma, essere consapevoli del rischio che la coppia politica/violenza – che cerchiamo di separare – si torni a formare; e che la violenza si ripresenti dentro la civiltà – come aggressione, dominio, minaccia –, e non lasci altra risorsa che opporsi a essa con altra violenza.
Solo se la politica democratica sa affrontare le ingiustizie, le sopraffazioni, gli abusi dei poteri, se cioè dà spazio reale alla critica, alla protesta e alla proposta –, la violenza non ha giustificazione. Oggi più che mai è quindi la democrazia – presa sul serio – lo spartiacque fra la politica e la violenza, fra la civiltà e la barbarie.

Repubblica 20.10.11
Se la furia nichilista e impotente distrugge le utopie dei movimenti
di Benedetta Tobagi


Dopo gli scontri alla manifestazione degli indignati del 15 ottobre, ci si interroga sulla nuova rabbia cresciuta tra malessere sociale e vuoto politico
Il senso di impotenza davanti a uno scenario bloccato e all´assenza di prospettive ha innescato le contestazioni
Distruzione, contrario di produzione e costruzione, gesto impaziente che non vuole cambiare ma abolire e lascia cenere

«La vita sociale, con il suo ronfare tranquillo, vela la tenebra – scrive il criminologo Alfredo Verde – ma ogni tanto il velo si squarcia»: la violenza irrompe, antica e sempre nuova, svelando miserie e paure, contraddizioni e ambivalenze che agitano il ventre della società. È accaduto anche lo scorso 15 ottobre: per quanto temuti e preannunciati da molti, i disordini che hanno funestato la manifestazione romana degli "indignati" hanno lasciato il paese in stato di choc e, oltre la cronaca, offrono una messe di spunti per una riflessione più ampia sulla violenza.
Secondo una robusta linea di pensiero realista e pessimista, dal Callicle del Gorgia platonico a Hobbes a Freud, la violenza alligna nei recessi più profondi della natura umana, è destino, legge e fattore evolutivo della nostra specie: indimenticabile l´osso usato come arma e poi scagliato in cielo che diventa astronave nella sequenza iniziale di 2001 Odissea nello spazio. Persino Gandhi nel 1940 ribadiva che «la stessa vita è impossibile senza un certo grado di violenza». Per questo, la non-violenza, o ahimsa, espressione negativa che indica «lo sforzo diretto a eliminare la violenza che è inevitabile», dev´essere una scelta e non mera espressione di debolezza. Il mahatma torna ripetutamente sul nesso fondamentale violenza-impotenza. In psicologia e criminologia abbondano le interpretazioni che riconducono molte forme di agire violento alla paura connaturata all´umana vulnerabilità, a impotenza e frustrazione (si veda l´ottimo Cosmologie violente di A. Ceretti e L. Natali). Il senso di impotenza di fronte a uno scenario politico bloccato e all´assenza di prospettive per il futuro dei giovani greci e italiani è stato un fattore determinante nell´innescare nei due paesi – diversamente che altrove – contestazioni dai tratti violenti. «No future, no peace» (distorsione punk-nichilista dello storico «no justice, no peace») leggiamo in un blog di "ribelli", «non vogliamo avere ragione perché siamo fuori dalla storia. Siamo quelli che continuano a vivere la propria storia senza alcuna speranza. Oltre la sfera del bene e del male, furia cieca e rabbia nera». Crollate le ideologie, la violenza non è più «levatrice della storia», mezzo accettabile in vista di un fine superiore, che, come un vampiro, ha bisogno di sangue e macerie per realizzarsi e rifulgere con maggior splendore. La violenza che esplode a singhiozzo nelle metropoli occidentali esprime la rabbia senza progetto di chi non ha niente da perdere né da sperare, sfogo di frustrazioni profonde alimentate dalla sperequazione sociale.
Meno sorprendente, alla luce delle loro stesse parole, che in piazza si siano trovati insieme i duri "politicizzati" dell´area antagonista e gli ultras, i tifosi, per cui la violenza di branco è semplice mezzo di espressione e affermazione di sé, fuga dalla noia e dal vuoto, ricerca della scarica di adrenalina per sentirsi vivi. La nuova rabbia sociale nichilista mostra punti di contatto con quelle esplosioni di aggressività gratuita e irrazionale che popolano da decenni i nostri incubi, dall´ultraviolenza del "drugo" di Arancia Meccanica ai Natural Born Killers, agli adolescenti stragisti della scuola di Columbine.
La violenza di black bloc e ultras si è rivolta innanzitutto contro le cose: bancomat e vetrine, feticci del sistema economico, ma non solo. «Nella distruzione gli uomini sono liberi da qualsiasi preoccupazione, c´è sollievo, entusiasmo», scrive il sociologo Wolfgang Sofsky nel Saggio sulla violenza. Distruzione come contrario di produzione e costruzione, attività fallibili che richiedono cura e pianificazione, gesto impaziente che non vuole cambiare, ma abolire, e «lascia ceneri e macerie come proprio monumento». L´altro obiettivo: le forze dell´ordine, il volto dello Stato che detiene il monopolio dell´uso legittimo della violenza. Illuminante ricordare che in tedesco la parola Gewalt corrisponde sia a violenza che ad autorità e potere. Le pagine di Walter Benjamin restano il riferimento imprescindibile per la riflessione sul "paradosso demoniaco" del potere e della giustizia, che nella violenza hanno il loro fondamento. Paradosso esasperato in Italia, terra segnata da reiterati abusi di violenza da parte potere, dalle cannonate di Bava Beccaris, alle stragi, alle violenze del G8 di Genova. Una storia che innesca un riflesso condizionato di diffidenza nei confronti dell´agire della forza pubblica ed esaspera l´emotività che accompagna il dibattito su come prevenire e sanzionare le violenze.
Una cosa è certa, e i fatti di Roma lo confermano: la violenza conquista sempre le prime pagine. La violenza ci attira morbosamente, ma sentiamo al contempo il bisogno di proiettarla fuori, lontano da noi, come qualcosa che rischia di "contaminarci". L´antropologia ha indagato l´origine degli autoinganni elaborati dall´uomo per metabolizzare le pulsioni violente (fondamentale René Girard, La violenza e il sacro), ma i meccanismi proiettivi innescati dalla violenza possiamo vederli all´opera nella vita di ogni giorno. Il 15 ottobre, ad esempio, si è attivato immediatamente un frame collaudatissimo, secondo cui i violenti sono "corpi estranei" infiltrati dallo Stato. Nel dibattito successivo, sono riaffiorate le resistenze a uscire da una contrapposizione schematica – pochi "uomini neri" cattivi contro una maggioranza buona e pacifica – negando i legami e i nessi che invece esistono tra le squadracce violente e alcune anime del movimento di protesta (dall´ala dura dei No Tav ai Carc a centri sociali come l´Askatasuna). Inchieste e interviste stanno mostrando invece che questi nessi esistono: la realtà, anche se spiacevole, va affrontata. Cercare di comprendere chi sono, cosa vogliono e da dove vengono i protagonisti delle violenze romane, senza giustificarli, né demonizzarli, è uno dei pochi strumenti che abbiamo per disinnescare un conflitto sociale potenzialmente esplosivo.

Repubblica 20.10.11
Queste dimostrazioni mettono in luce la disperazione di una classe sociale che vorrebbe mettere le mani su beni che non si può permettere e non sa neppure immaginare come possa configurarsi una società diversa
Il precedente della capitale inglese "assediata" in estate
Quando Londra fu devastata
di John Lloyd


Le strade di Londra sono tornate a essere sicure. I telegiornali e i quotidiani non parlano più di giovani incappucciati che spaccano le vetrine per razziare televisori, scarpe da ginnastica o articoli per il trucco oppure, peggio ancora, derubano quanti sono rimasti bloccati dai tumulti estivi, o ancora danno fuoco agli edifici che hanno saccheggiato. Invece di reati, oggi si parla di sentenze. Due giovani che utilizzarono Facebook per istigare altri a saccheggiare e appiccare le fiamme alcuni giorni fa hanno presentato ricorso in appello contro una condanna a quattro anni di reclusione. In altri tempi la sentenza sarebbe stata più breve, ma lo shock di quei giorni e soprattutto il desiderio di qualificarli senza esitazione come giorni di azioni esecrabili che meritano una pena dura restano molto forti.
Adesso, come a Roma, Atene e New York, le strade di Londra tornano a riempirsi di gente che sfila e protesta. Nella capitale britannica la gente si è data appuntamento fuori dalla cattedrale di St. Paul alle porte della City, il quartiere della finanza sorvegliato dalla polizia perché le manifestazioni fuori dalla Borsa o dalla Banca d´Inghilterra sono state proibite. Il diacono di St. Paul ha comunicato di essere contento di quella folla lì riunita e ha detto che avrebbe preparato un sermone sul male dell´avidità. Queste dimostrazioni non hanno niente in comune con la violenza degli eventi di Atene e Roma. Anzi, sono quel genere di cose che gli inglesi amano pensare di saper fare meglio di chiunque altro, come esprimere le proprie opinioni in pubblico, razionalmente, pacificamente, con umorismo. Sono un modo per prendere le distanze da un´Inghilterra diversa, quella nella quale le gang scorrazzano per strada, si ammazzano civili, e una donna per mettersi in salvo si deve lanciare dalla finestra della casa in fiamme. Anche questa era l´Inghilterra.
Qualcosa tuttavia unisce le dimostrazioni di oggi con i tumulti di ieri ed è il fatto che sembra che non ci siano obiettivi ideologici da perseguire. Queste dimostrazioni mettono in luce la disperazione di una classe sociale inferiore che vorrebbe mettere le mani su beni che non si può permettere. Ma anche la mancanza di una direzione precisa di una protesta che non riesce a immaginare – o non si è data la briga di approfondire – come possa configurarsi una società diversa. Mentre le manifestazioni si susseguono, la sinistra resta all´opposizione ovunque in Europa. Nessun personaggio di spicco della sinistra è apparso all´orizzonte in Germania, in Francia, in Italia, in Spagna e nel Regno Unito. Nessuno pare in grado di attirare l´entusiasmo di popoli preoccupati per il loro futuro e sempre più angosciati da quello che i governi della sinistra farebbero rispetto a quello che i governi della destra stanno facendo.
Viviamo in un´epoca che fa davvero paura. Senza un principio catalizzatore e organizzatore, senza leader che abbiano una visione alternativa, le proteste e la paura sembrano prospettare altre violenze. Questa recessione travolge la classe operaia e la piccola-media borghesia nello stesso modo, mettendo a rischio standard di vita un tempo sicuri, accelerando la delocalizzazione dei posti di lavoro e delle industrie fuori dai ricchi paesi europei e verso le economie emergenti e in forte espansione, come Cina, Brasile e India. Soltanto i ricchi, quelli molto ricchi e che continuano ad arricchirsi, sono al sicuro. Talvolta sembra quasi che si stia dissolvendo la solidità delle democrazie nate dal dopoguerra. Potremo dirci fortunati se il livello di violenza delle manifestazioni riuscirà a essere contenuto al livello attuale.
(Traduzione di Anna Bissanti)

Corriere della Sera 20.10.11
Gli indignados non sono untori
La politica riparta dall’uguaglianza
di Massimo Mucchetti

qui

La Stampa 20.10.11
Intervista
Assange: “Gli indignati? Sono figli di Wikileaks”
“Il mio sito non ha finito la sua missione, presto arriveranno altre rivelazioni”
di Paolo Mastrolilli


L’ACCUSA A WASHINGTON «Il sistema bancario Usa ha provato a soffocarci su pressioni del governo»
I NUOVI DOCUMENTI «Vivi grazie alle donazioni Ho accordi con 50 giornali pronti a pubblicare tutto»

Lima. Julian Assange mette il cappello sul movimento globale di protesta «Occupy Wall Street» e minaccia: «Non siamo finiti, ci sono migliaia di nuove rivelazioni in arrivo». Il fondatore di Wikileaks interviene via video all’assemblea della Sociedad Interamericana de Prensa, dal suo rifugio britannico, dove aspetta le decisioni dei giudici sulle accuse di stupro. Prima di rispondere alle domande dei giornalisti, avverte: «Oggi qualunque media che faccia un lavoro serio è sottoposto allo spionaggio, o da parte dei governi, o da parte di gruppi privati. L’unica maniera per difenderci è adottare tecniche da controspionaggio, e comportarci come i servizi di intelligence. Il nostro primo obbligo è capire e rivelare i complessi meccanismi delle transazioni finanziarie internazionali, perché sono il principale strumento utilizzato per fare pressioni nel mondo».
Può fare qualche esempio?
«Il sistema bancario off shore che priva gli stati, e quindi i cittadini, di risorse fiscali fondamentali».
Parla da giornalista o da attivista?
«Sono in ballo da troppo tempo per darvi una risposta secca ad una domanda del genere. Mi considero un giornalista, ma se parliamo di difendere la libertà di espressione, allora sono un attivista».
Se si considera un giornalista, perché ha rivelato le sue fonti?
«Non l’ho fatto io, ma un giornalista del “Guardian”. Pubblicando le chiavi per accedere ai nostri dispacci senza filtro ha violato una precisa clausola contrattuale. A quel punto siamo stati costretti a rivelare i contenuti anche noi, per evitareche venissero manipolati e presi fuori contesto, come stava già accadendo».
Cosa l’ha delusa di più in questi mesi?
«L’autocensura dei media occidentali, anche quelli progressisti come il “Guardian”, nel pubblicare i nostri documenti. I media dei paesi in via di sviluppo sono più onesti e coraggiosi».
È vero che negli ultimi tempi una dozzina di persone hanno lasciato Wikileaks o sono state allontanate?
«No, abbiamo sospeso solo una persona in Germania. Queste voci le mette in giro chi vuole screditarci, fanno parte del piano».
Le accuse di stupro contro di lei rientrano nello screditamento?
«Di questo rispondo in tribunale».
Cos’altro c’è, nel piano contro Wikileaks?
«L’embargo imposto da Visa, Mastercard, Paypal, Western Union, e il sistema bancario americano, che hanno deciso di soffocarci sulla base di pressioni ricevute dal governo Usa».
Rischiate di chiudere?
«Per fortuna no. Negli ultimi undici mesi siamo sopravvissuti con il contante ricevuto dalle donazioni, ma abbiamo contratti con circa cinquanta media in tutto il mondo per pubblicare migliaia di altri documenti, che sono in arrivo. Poi contiamo di vincere le cause legali contro il sistema che cerca di strozzarci, ma se non andasse così, il livello di sostegno ricevuto dalla comunità internazionale ci garantisce che resteremo in vita».
Quale agenda avete?
«Pubblichiamo informazioni e documenti, su qualunque stato o chiunque abbia cose interessanti. Il livello di appoggio per noi nella società civile non era mai stato così alto. Il movimento globale di protesta “Occupy Wall Street” si ispira almeno in parte al nostro lavoro, perché abbiamo contribuito a creare questo clima in cui i cittadini esigono trasparenza, vogliono sapere cosa fanno i politici e metterli davanti alle loro responsabilità. Avere il sostegno di tanti accademici, studiosi, funzionari governativi scontenti, non ci serve solo per sentirci bene, ma soprattutto per allargare l’orizzonte delle fonti da cui stiamo ricevendo informazioni sempre più importanti e interessanti».
Non ha paura di pubblicarle?
«Io ho paura, come tutti gli esseri umani, però cerco di avere una strategia per aggirare i rischi. E poi guardate: si vive una volta sola, per un periodo piuttosto breve. Tanto vale essere coraggiosi, nel frattempo».

La Stampa 20.10.11
Se il capitalismo impazzisce “lasciate fare” allo Stato
Dopo la denuncia della carità che uccide l’Africa, adesso Dambisa Moyo guarda al modello dirigistico cinese
di Lucia Annunziata


«LA FOLLIA DELL’OCCIDENTE» Così cinquant’anni di decisioni sbagliate hanno distrutto la nostra economia
DI FRONTE ALLA CRISI Solo un organismo collettivo e di lunga vita può avere la previdenza che è necessaria

Milton Friedman, premio Nobel per l’Economia, sosteneva: «La grande virtù del libero mercato è che il sistema non si cura minimamente del colore della pelle degli individui; non si interessa affatto di che religione professino; l’unica cosa che conta è la capacità di produrre le merci che altri sono interessati ad acquistare». Sotto questa bandiera dell’internazionalismo capitalistico torna Dambisa Moyo con un nuovo libro che suona le campane a morto dell’Occidente e celebra, appunto, il fatto che il capitalismo, nel suo supremo menefreghismo di ogni dettame etico e sociale, ha raggiunto e rafforzato i punti una volta più lontani (e forse più sottovalutati e disprezzati) da quello stesso Occidente: i Paesi emergenti, la Cina in particolare.
La Moyo, nata in Zambia, con dottorato in Economia a Oxford e master a Harvard, carriera lunga dieci anni con Goldman Sachs, cioè il cuore dell’ investment banking mondiale, è diventata giustamente famosa per un libro, La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo (Rizzoli, 2010), nel quale ha avuto il coraggio, in un’epoca in cui dominavano i concerti live aid per incitare l’Occidente a donare all’Africa, di dire che la carità, cioè l’assistenzialismo, ha distrutto il continente perché crea dipendenza psicologica e materiale («sessant’anni, un miliardo di dollari di aiuti all’Africa e non molti risultati positivi da mostrare»), a differenza della «paritarietà» con cui opera il mercato. Idea coraggiosa, che portava alla luce un dibattito che già si era aperto in Occidente, ma che nessuno, se non una economista di origine africana, poteva spiattellare senza essere accusato di cinismo.
Meno di rottura questo secondo saggio, La follia dell’Occidente. Come cinquant’anni di decisioni sbagliate hanno distrutto la nostra economia (Rizzoli), meno provocatorio del primo, fin dal suo titolo. Vi si racconta la crisi economica e di egemonia dell’Occidente - in realtà parla soprattutto degli Usa - e compara impietosamente i successi delle economie emergenti con il nostro declino. Fin qui nulla di nuovo. Interessante è invece la conclusione, quasi rovesciata rispetto all’approccio tradizionale, a favore della libertà di mercato, «di destra» o «conservatore» direbbe qualcuno, che ispirava il primo libro. In questo secondo testo Moyo approda a una enorme e non nascosta ammirazione (economica) per la Cina.
Dopo aver distinto almeno tre forme di capitalismo - quello del laissezfaire americano, quello europeo di mercato corretto dalla presenza dello Stato e quello dei Paesi emergenti in cui lo Stato «guida» totalmente il mercato - l’economista africana tesse l’elogio di quest’ultimo modello. Della Cina in particolare. Una nazione che investe in Africa, che tratta sul petrolio evitando l’Occidente, che compra il debito americano e che si prepara alla scarsità futura di risorse naturali, dalle materie prime a quelle alimentari. L’idea, nemmeno tanto sottintesa, è che solo uno Stato, cioè un organismo collettivo pubblico e di lunga vita (si suppone) può avere tale previdenza.
Anche in questo caso Dambisa Moyo dà voce a molte idee che già circolano nel mondo degli studiosi: la più importante è la rottura della totale coincidenza tra forma politica (la democrazia) e vitalità del mercato, un binomio considerato ferreo dalle nostre teorie fino a pochi anni fa. In questo senso, dunque, di nuovo l’autrice si pone nei punti più interessanti del dibattito. Questa volta però non ci sorprende perché la crisi la conosciamo in prima persona. Ci piacerebbe sapere di più sul futuro, su dove stiamo andando. Ma su questo l’economista tiene prudentemente aperti tutti gli scenari: compreso, un po’ pilatescamente, il fallimento della Cina.

il Riformista 20.10.11
Il conclave cinese prepara l’ascesa dei principini rossi
PCC. Si lotta in silenzio sul partito che verrà nell’ultimo Plenum dell’e- ra Hu Jintao. Il duello tra il liberale WangYangeilneo-maoista BoXilai

di Andrea Pira
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Corriere della Sera 20.10.11
Giuseppe De Rita e Antonio Galdo riflettono sull’anomalia italiana
Quindici anni dopo il testo che raccontò l’esplosione del ceto medio
La borghesia è arrivata al capolinea
Occupazione del potere, evasione fiscale, egoismi: così abbiamo perso il senso dello Stato
di Giuseppe Sarcina

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Repubblica 20.10.11
La fine della borghesia
“Requiem per una classe uccisa dal ceto medio
di Simonetta Fiori


De Rita e l´eclissi italiana di un gruppo sociale Lo racconta nel suo ultimo saggio scritto con Galdo
"Prevale il primato del benessere e della sicurezza E si perdono di vista gli interessi collettivi"
"Lo Stato è diventato un gigantesco erogatore E con i suoi soldi abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità"

Che fine ha fatto la borghesia? E perché è scomparsa? A Giuseppe De Rita, presidente del Censis e sismologo della società italiana, viene in mente quella pagina di Napoli milionaria in cui il protagonista torna dalla guerra e trova una famiglia a pezzi. «Che cosa è successo? Ma perché siamo diventati così?», si interrogano i diversi personaggi in un crescendo drammatico. La stessa cosa - aggiunge De Rita - dovrebbero fare i borghesi italiani, razza ormai estinta. Se già quindici anni fa nell´Intervista sulla borghesia in Italia la diagnosi non inclinava a ottimismo, nel nuovo saggio scritto insieme ad Antonio Galdo - L´eclissi della borghesia - la sentenza volge al requiem (Laterza, pagg. 92, euro 14). La borghesia è sepolta, o forse non è mai nata.
Una certificazione di morte.
«Direi meglio, la fine di una speranza. S´è esaurita l´idea di una classe dirigente capace di farsi carico degli interessi collettivi. Sin dall´origine dello Stato nazionale, ci siamo illusi che da segmento relativamente piccolo - spazio intermedio tra cultura popolare e cultura d´élite - questo gruppo sociale sarebbe cresciuto fino a governare le sorti del paese. Questo non è accaduto. O è accaduto fino a un certo punto».
La borghesia svolse un ruolo centrale nel processo risorgimentale e nell´Italia liberale.
«Sì, ma le cose si complicano già sotto il fascismo, che comunque mantiene lo spazio per un´élite borghese, ossia gli uomini formati da Alberto Beneduce. E nel dopoguerra non mancò certo una classe dirigente che seppe ricostruire un paese distrutto e screditato sul piano internazionale».
Quando comincia il declino?
«Negli anni del boom economico, con la grande avventura dell´italiano medio. È stata la cetomedizzazione della società italiana - mi piace chiamarla così - a causare la definitiva eclissi della borghesia».
Come è accaduto?
«Fino agli anni Cinquanta la società era divisa in tre fasce. La classe esigua dei padroni. La classe numerosa di braccianti e operai. E un ristretto ceto medio, tra amministratori di latifondo e impiegati dello Stato. Tutto cambia quando scatta la molla del benessere. Allora si mette in moto un processo di imborghesimento collettivo. Una vera esplosione che risucchia dall´alto e dal basso tutti i settori della società».
Nasce l´imprenditoria di massa.
«La corsa al benessere accentua le nostre caratteristiche di popolo individualista. Proliferano comunità di piccoli imprenditori, piccoli commercianti, piccoli professionisti. In un solo decennio, tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, lo stock delle aziende è raddoppiato, passando da 490.000 a un milione. Diventiamo un paese di ex poveri, con l´illusione di essere tutti borghesi».
Che significa?
«Adottiamo gli stessi stili di vita. L´automobile. La casa di proprietà. Il figlio all´università. Magari la botteghina per la moglie. Anche gli arredi si uniformano: alle credenze di legno scuro subentrano i mobili bianchi. Scopriamo la vita agiata e la confondiamo con una vita borghese».
Qual è la differenza?
«Si perde di vista l´interesse collettivo. Prevale il primato del benessere e della sicurezza, nell´indifferenza verso gli altri. In altre parole, lo spazio intermedio precedentemente occupato dalla borghesia viene invaso da questo nuovo ceto, che è preoccupato solo di mantenere lo status raggiunto e non riesce a esprimere una classe dirigente dallo sguardo lungo».
Ma perché accade in Italia e non altrove? Il boom economico non fu una nostra peculiarità.
«La nostra peculiarità fu una Democrazia Cristiana che costruì il suo consenso sui cosiddetti "collaterali": i coltivatori diretti, gli artigiani, i sindacati scolastici, le cooperative bianche. Se ci fa caso, ancora ieri a Todi all´incontro sul partito cattolico hanno partecipato Confartigianato, Confcooperative, Coldiretti. Non si chiamano più collaterali, ma sono sempre loro».
Lei sta dicendo che per cinquant´anni abbiamo favorito le corporazioni, le categorie, le piccole tribù?
«Sì, l´abbiamo fatto usando il carburante della spesa pubblica. Lo Stato è diventato un gigantesco erogatore. E con i suoi soldi il ceto medio italiano ha visto garantiti benessere e stili di vita superiori alle proprie possibilità».
Ci siamo illusi di non essere più poveri, ma in realtà abbiamo continuato a esserlo.
«L´economista Vittorio Parsi sostiene che in tutti i processi storici c´è un soggetto che garantisce il sistema e poi ci sono i free riders che fanno i loro affari. Per esempio, nessuno può dire che il primato americano sia finito perché è il primato americano che consente a cinesi, indiani e brasiliani di fare i free riders».
Che c´entra l´Italia?
«Per vari decenni lo Stato italiano ha avuto il ruolo di Grande America, ossia ha garantito il contesto entro cui i free riders hanno potuto fare le loro scorrerie: gli imprenditori sommersi, gli artigiani senza fattura, anche i supplenti della scuola che chiedevano di entrare in ruolo. Tutto ciò ha rosicchiato le finanze pubbliche ma ha eroso anche il contesto. Oggi i free riders non possono correre più perché manca la cornice».
Non c´è più lo Stato italiano?
«Non c´è più la spesa pubblica. Ma la crisi della finanza pubblica è anche la crisi della credibilità sociale dello Stato. E guardi: tutti abbiamo ucciso lo Stato, anche chi non si fa consegnare la fattura dall´idraulico o dal giardiniere. L´Italia è stata un gioioso paese di free riders, inconsapevoli del fatto che prima o poi sarebbero rimasti senza intelaiatura».
Per la prima volta nella storia nazionale italiana ai figli non è garantito il benessere raggiunto dai padri.
«Da qui nascono paura e spaesamento. Il mutamento profondo che abbiamo descritto è stato guidato da cetomedisti e piccoli imprenditori preoccupati solo di arrivare al pianerottolo più alto. Quando bisogna scendere di un piano, scoppia il casino. I nostri indignados, pur mescolandosi nel movimento fattori molteplici, vengono prevalentemente da qui».
Non c´è il rischio di essere riduttivi?
«Il sistema s´è inceppato e sicuramente la nostra generazione non è stata capace di garantire a questi giovani un futuro. Ma è anche vero che la fatica che abbiamo fatto noi i nostri figli non la vogliono fare. Quando tra il ´67 e il ´68 arrivai a Prato, rimasi sconvolto dai ritmi infernali delle famiglie che lavoravano nel sommerso. Ora i figli di quegli eroi si lamentano per la concorrenza dei cinesi. Ma loro che fanno? Se fanno i finanzieri è pure troppo».
Non è nata una nuova classe dirigente.
«Se guardiamo come è cresciuta la classe dirigente confindustriale, vediamo che è un modo tutto interno alla corporazione. Da Abete alla Marcegaglia, sono tutti ex giovani imprenditori - ossia figli di imprenditori - che hanno fatto carriera all´interno di un processo semiburocratico. Analogo appare il meccanismo di promozione nel pubblico impiego. Una volta i direttori generali dei ministeri erano figure di profilo altissimo. Oggi, se escludiamo il Ragioniere Generale dello Stato e pochi altri, per la massima parte sono figure inconsistenti, magari brave ma non classe dirigente».
Dottor De Rita, lei come si definirebbe?
«Un vero cetomedista. Una madre maestra elementare e un padre direttore di banca. I miei genitori, figli di persone più povere, erano orgogliosissimi di dire "noi, ceto medio". La tragedia scoppiò quando decisi di lasciare il Comune di Roma. Rinunciavo al posto fisso. Mi fecero chiamare dal direttore generale: "Ma lei è matto? Ha vinto il primo concorso del dopoguerra, a 50 anni potrebbe conquistare il posto di vice Capo Ripartizione...". La sola idea mi indusse alla fuga. Mia madre pianse per una settimana. Temeva che ridiscendessi quelle scale che lei aveva salito con tanta fatica».
Vuol dire che per diventare classe dirigente è necessario rischiare?
«Non bisogna rimanere abbarbicati al proprio pianerottolo. Questa paura è molto diffusa anche tra i miei amici, e i figli dei miei amici. Per uscire dalla palude c´è bisogno di coraggio».

Repubblica 20.10.11
Bompiani pubblica l´inedito di Stefano, affresco sui misteri di famiglia
L’officina pirandello svelata dal figlio
di Paolo Mauri


Luigi è spesso all´estero e lui scrive materialmente articoli al posto del padre, si presta a intervistarlo sotto pseudonimo, talvolta smussa tormenti e depressioni paterne

Il 15 gennaio 1942 Stefano Landi scriveva all´editore Valentino Bompiani: «Io a mio Padre ho dato esattamente quarantadue anni della vita mia. E sono al punto, essendo perdio vivo io anche, e in dovere d´esser vivo per me, da dovermi difendere questo resto di vita in mio nome. Io - e talvolta gli altri mi fanno pensare che sono stato uno sciocco - ho voluto servire mio Padre, finché ebbe un alito di vita. E mai mi sono servito di Lui. Mai: gli ho dato, rinnovando continuamente la Sua vita, non solo tutto il mio amore e tutto il mio tempo… ma anche il mio ingegno, ma addirittura la mia collaborazione creativa».
Stefano Landi si chiamava in realtà Stefano Pirandello: il "nom de plume" era d´obbligo per chi, nella sua situazione di figlio di papà, aveva tentato, con qualche merito e qualche successo, la strada del teatro e della narrativa. Il suo teatro è stato riproposto qualche anno fa da Bompiani ed ora è la volta di un suo romanzo, inedito, Timor sacro che sempre Bompiani pubblica a cura di Sarah Zappulla Muscarà, la stessa studiosa che, con Enzo Zappulla, aveva anche curato il carteggio, cospicuo, tra Luigi e Stefano. Un vero e proprio libro di famiglia, la trama segreta e fittissima dell´officina Pirandello con tutte le angustie e i dettagli dei problemi economici, talvolta notevoli nonostante i guadagni dello scrittore fossero spesso ingenti, della malattia della madre, del rapporto tra Luigi e Marta Abba.
Luigi è spesso all´estero e Stefano appare pronto ad adoperarsi in tutte le circostanze, molte delle quali amministrative, talvolta scrivendo materialmente lui, su indicazione del padre, articoli o soggetti cinematografici o prestandosi ad intervistarlo con qualche pseudonimo. Spesso accade che i ruoli siano invertiti e tocchi a Stefano fare da padre sollecito che interviene per smussare le depressioni e i tormenti dell´altro. Arrivò, Stefano, a scrivere a Mussolini (siamo nel ´32) perché sollecitasse il padre a lavorare, certo che una pressione tanto autorevole gli avrebbe giovato.
Intanto, di suo, Stefano aveva scritto anche un romanzo Il muro di casa, nel 1935, che aveva vinto il Premio Viareggio, sia pure ex aequo con Mario Massa. Era la storia della sua lunga prigionia all´epoca della Grande Guerra. Timor sacro è un romanzo complesso, nelle intenzioni quasi una sfida: doveva essere il "punto" su una generazione di intellettuali maturati col fascismo. Intanto vi compare uno scrittore, Simone Gei, alter ego dell´autore, intento a scrivere un romanzo. Gli verrà suggerito, ad un certo punto, di dedicarsi alla storia di un albanese, Selikdàr Vrioni, un geniale inventore di cannoni a tiro rapido che seguendo l´esercito italiano viene in Italia e diventa commendatore. In breve, come si dirà nel romanzo, la storia di un barbaro che a contatto con la civiltà del regime fascista diventa civile anche lui. Ma Timor sacro, più che un romanzo è la storia di un romanzo da scrivere, nella quale Stefano Pirandello convoca, travestendoli, i suoi famigliari, a cominciare dal padre, e i suoi amici. C´è il giornalista influente M. (che secondo la curatrice è Missiroli) e il romanziere amico e concorrente Mastroleo (Corrado Alvaro).
Nato nel ´95 e morto nel 1972, Stefano Pirandello portò avanti il progetto di Timor sacro per molti anni. Nella storia si parte dal ´36, dall´Italia che conquista l´Abissinia (è anche l´anno della morte del padre) ma vi sono riferimenti a piazzale Loreto, alla Resistenza, quando l´albanese Vrioni si nasconde sotto falso nome fingendosi custode della Galleria Borghese, e alle elezioni del ´48. Non sappiamo se Stefano Pirandello avesse deciso di pubblicare o meno questo suo inedito. E´ probabile che fino all´ultimo lo considerasse un´opera imperfetta: e tale secondo noi rimane. C´è un passaggio in cui il protagonista Simone Gei si sente dire, o quasi implorare, dal figlio malato Jacopuccio di completare il suo libro. Ma poteva essere completato quel libro, cioè questo romanzo? Paradossalmente no: lo dice l´autore stesso nelle prime righe: «L´eterno a cui guarda l´opera qui in pratica era passato al fare di Simone: lui faceva come se avesse il potere di rilavorarsela in eterno. La storia sua e di Selidkàr, due vite a specchio…».
Ma Stefano aveva già vissuto una vita a specchio, quella di "prigioniero" della vicenda del padre Luigi, che persino negli ultimi istanti gli sussurra il finale dei Giganti della montagna, che restò incompiuto. Del padre, nonostante le sollecitazioni, non riuscì a scrivere la biografia. Troppo l´aveva vissuta. Questo romanzo resta un ulteriore documento dei suoi tormenti e della sua difficile condizione.

Repubblica 20.10.11
Il cervello. Al top dopo i 55 anni è la rivincita dei saggi
I giovani possono apparire più svegli ma amministrano peggio le loro risorse mentali
di Enrico Franceschini


I ricercatori dell´università di Montreal hanno scoperto che la materia grigia non perde colpi, tutt´altro Gli anziani compensano la minor velocità con reazioni più ponderate. E l´efficienza risulta equivalente

Buone notizie per chi ha 55 anni o più: chi va piano, va sano e va lontano. O meglio, poiché i 55enni odierni sono tutt´altro che lenti, non necessariamente chi corre più veloce vince la gara. Affermazioni del genere possono far venire in mente la celebre favola di Esopo sulla tartaruga e la lepre.
Ma adesso trovano una conferma scientifica: il cervello degli "over 55" funziona in modo più efficiente di quello dei giovani. Non è in discussione l´intelligenza, bensì l´uso che facciamo della nostra materia grigia: e il verdetto sembra riflettere il luogo comune secondo cui, invecchiando, si acquista maggiore esperienza e si diventa più saggi.
A sostenerlo è una ricerca dell´Institute of Geriatrics dell´università di Montreal, in Canada. Gli studiosi hanno messo a confronto attraverso una serie di test due gruppi di volontari, uno composto da persone tra i 55 e i 75 anni, l´altro da uomini e donne molto più giovani. Analizzando le reazioni cerebrali con uno scanner, gli scienziati canadesi hanno scoperto che l´attività del cervello reagisce in modo radicalmente differente a seconda dell´età: davanti ad un errore, i più giovani attivano immediatamente certe parti del cervello per decidere come aggiustare la loro strategia e cosa fare alla mossa successiva; mentre i più vecchi prendono tempo, attivando quelle parti del cervello solo dopo averci ragionato sopra un po´. In altre parole, senza spaventarsi per uno sbaglio, conservando energia e valutando bene tutti i fattori, prima di procedere.
Benché entrambi i gruppi abbiano concluso l´esperimento praticamente con lo stesso risultato, ovvero con lo stesso numero di errori, e nonostante il gruppo più anziano abbia impiegato più tempo a completarlo, gli autori della ricerca ritengono che ciò dimostri un migliore utilizzo delle risorse intellettuali di cui disponiamo. I più giovani possono dare l´impressione di essere più svegli, perché rispondono a una domanda o a un problema più rapidamente (la lepre di Esopo). Ma questo può essere un segno di inesperienza più che di saggezza, e la reazione dei più anziani indica maggiore maturità e riflessione (la tartaruga). La vittoria, insomma, dell´esperienza sulla giovinezza.
«Il cervello più vecchio sa che non si ottiene niente agendo d´impulso», osserva il professor Oury Monchi, che ha guidato la ricerca. «E ora abbiamo una prova neurobiologica che l´esperienza cresce con il passare degli anni, che più il cervello invecchia, più impara a meglio amministrare le sue risorse. Essere capaci di correre più in fretta non sempre aiuta a vincere la corsa, per vincere devi soprattutto sapere come usare al meglio le tue capacità. La favola della tartaruga e della lepre - conclude lo studioso - evoca le caratteristiche positive dell´invecchiamento, ricordandoci che un cervello più vecchio ha maggiore fiducia in se stesso ed è meno spaventato dalle critiche». Prima che i 55enni festeggino, tuttavia, conviene ricordare che Esopo scrisse anche la favola della volpe e dell´uva: quando non riesci a prendere qualcosa - l´eterna giovinezza, per esempio - fingi che non sia poi così importante.

Repubblica 20.10.11
La musica pilastro d´europa
di Claudio Abbado

Inaugurare le Giornate della Cultura della Banca Centrale Europea rappresenta non solo un significativo riconoscimento per l´Orchestra Mozart ma anche un evidente segnale di quanto, nel cuore dell´Europa, la cultura italiana sia tenuta in alta considerazione. Quella cultura che, invece, proprio in Italia vive un momento di grave difficoltà. Con i concerti dell´Orchestra Mozart, in Italia e all´estero, cerchiamo di contrastare la desolante mentalità che nel nostro paese riduce la cultura alla stregua di una spesa superflua. La cultura, assieme all´istruzione e alla ricerca, è invece la base su cui costruire ogni società e su cui ogni governo dovrebbe investire adeguatamente. Alla grossolana mistificazione della frase "con la cultura non si mangia" preferisco l´illuminato pensiero di Nietzsche: "Senza musica la vita sarebbe un errore".
L´occasione di questa inaugurazione è tanto più gradita perché concomitante con l´avvicendamento alla presidenza della Bce, che vedrà la nomina di Mario Draghi. So che ha appoggiato l´idea di aprire il Festival con l´Orchestra Mozart, e di questo lo ringrazio.