lunedì 24 ottobre 2011

l’Unità 24.10.11
«Una scena impietosa Italia ridicolizzata per colpa del governo»
L’europarlamentare Pd: «ll nostro Paese avrebbe
le possibilità per farcela. Questo governo ci costringe a combattere con le mani legate, senza idee credibili»
di Andrea Carugati


Quella di Merkel e Sarkozy è una risata molto amara per il nostro Paese. L’Italia viene messa alla berlina dall’Europa,
ma non merita tutto questo. Nessuno può offendere l’Italia in questo modo», dice David Sassoli, capodelegazione Pd al parlamento europeo. I due leader hanno sorriso in risposta a una domanda sulle rassicurazioni offerte da Berlusconi sulla crisi...
«Quella risata è una fotografia impietosa, e la cosa che fa più rabbia è che il nostro Paese avrebbe tutte le possibilità per farcela, mentre questo governo ci costringe a combattere con le mani legate, senza un’idea, una proposta. Spero che gli italiani esprimano la giusta dose di rabbia per tutto questo...».
C’è un ultimatum all’Italia.
«La situazione è drammatica e la riunione del Consiglio europeo lo ha consacrato. Siamo in una guerra, davanti ad un’Europa, quella di Merkel e Sarkozy, che presenta anche un volto egoista. L’Italia avrebbe tante buone ragioni da spendere, anche di fronte a Francia e Germania e alle istituzioni europee. Una grande occasione per sostenere che da questa crisi non si esce con “meno Europa”, ma solo dando vita agli Stati Uniti d’Europa. Del resto la California non sta molto meglio della Grecia. Eppure nessuno stato americano si sognerebbe di abbandonarla».
Come giudica nel merito le ricette europee, a partire da un nuovo intervento sulle pensioni?
«Credo che il sistema italiano sia in grado di affrontare alcuni di questi
capitoli. Le pensioni? Mettiamo le parti sociali intorno a un tavolo. Si può ragionare. Ma si scordino di uscire da questa situazione spaccando il Paese: quel tipo di riforme non si fanno contro i sindacati. Il problema vero è la debolezza politica di questo governo, che è arrivato al capolinea. È il sistema paese che deve reagire nel suo complesso. È in grado questo governo di guidare questo percorso? Mi pare evidente di no».
La Spagna è stata considerata fuori pericolo. Mentre l’Italia finisce all’angolo, insieme la Grecia.
«In Spagna c’è stato un effetto tranquillizzante quando sono state indette le elezioni anticipate. Anche Tremonti, in un momento di sincerità, lo ha ammesso. Le opposizioni hanno il dovere di invitare il governo a farsi da parte».
Sono mesi che le opposizioni insistono su questo...
«E invece assistiamo a una maggioranza attaccata alla sedia e legata da vincoli spregiudicati. Che ignora del tutto le esigenze del Paese».
Come faranno a presentare delle proposte all’Europa entro mercoledì? «Colpisce che un uomo pacato come
Van Rompuy, presentite del Consiglio europeo, faccia l’elenco degli impegni che deve assumere l’Italia. E colpisce quanto siano elevate le aspettative. Possiamo aspettarci che il governo in tre giorni sia così lungimirante da affrontare le grandi questioni che sono state poste? Io voglio bene all’Italia, mi auguro che si inventino qualcosa per sostenere la crescita. Ma ricordo che fino ad oggi non c’è stato nulla. E la lettera della Bce è arrivata dopo tre manovre sbagliate».
Prima lei parlava di egoismo di Merkel e Sarkozy...
«Esprimono un’idea di Europa che non è all’altezza di questa crisi. L’idea cioè che i paesi un poco più forti possano cavarsela da soli. Anche le conclusioni del Consiglio europeo sono deludenti. Non c’è stato nessun riferimento ai Project bonds, che pure erano stati sollecitati dal Parlamento e dalla Commissione europea. E c’è stato solo un timido accenno alla proposta di tassazione delle transizioni finanziarie che il presidente Barroso aveva indicato come necessaria per destinare denaro alla crescita».

Repubblica Affari e finanza 24.10.11
Berlusconi, il  suicidio più lungo della storia
di Alberto Statera


Sono quattro i tipi di suicidio secondo la classificazione che ne fece lo scienziato francese dell’inizio del novecento Emile Durkkheim.
Oltre al suicidio "fatalistico" e a quello "altruistico", il sociologo e antropologo indagò un secolo fa il suicidio "egoistico" e quello "anomico", dovuto alla mancanza di norme sociali e morali.
Di quale suicidio muoiono Silvio Berlusconi e il suo governo, che da mesi vivono in coma farmacologico, attaccati a una macchina rappezzata con il fil di ferro della corruzione di pezzi di parlamento comprati a caro prezzo?
Su questo investiga non un saggio di neuropsichiatria, ma un libro politico di Edmondo Rho, in uscita per "Melampo", intitolato, per l'appunto, "Il suicidioIl declino del berlusconismo, cronache e retroscena".
Prefato, non a caso, da Giuliano Pisapia, che è stato eletto sindaco nella capitale berlusconiana anche in seguito all'ennesimo atto autolesionistico del premier, che nel maggio scorso aveva lanciato nella campagna elettorale a Milano un fallimentare referendum su sé stesso, il libro sembra decisamente escludere il fatalismo.
Quanto all'altruismo, visti i danni che subisce il paese per il ritardo nel compiere definitivamente "l'atto sconsiderato", si tratta di concetto ignoto alla psiche del premier.
Ecco allora che Rho documenta l'interminabile dipanarsi di un suicidio anomico egoistico, con l'autodistruzione sistematica di una leadership carismatica che per più di tre lustri ha incredibilmente stregato metà del paese, di un grande partito nato dal nulla e di un governo sulla carta così forte che avrebbe potuto riformare veramente l'Italia tenendola al riparo dalla crisi economica e dal dileggio internazionale.
Al netto dell'armata di lenoni, pregiudicati, puttane, spacciatori, affaristi e truffatori accolti amorevolmente nel "cerchio magico" del premier e dell'imperversare delle cricche sotto l'ala di palazzo Chigi con l'efficiente coordinamento di Gianni Letta, "Il suicidio" ripercorre tappa per tappa il crescendo di autolesionismo.
Un farsi del male cosciente, come dimostrò già il comizio del 7 maggio scorso quando il premier disse parlando di sé stesso in terza persona: "Se per caso questo presidente del consiglio viene fuori a Milano con meno di 53 mila preferenze tutta la sinistra sinistrata d'Italia mi fa il funerale". Ne prese poco più della metà.
Non andò meglio a Napoli con la candidatura fortemente voluta di Gianni Lettieri, amico di quel Nicola Cosentino accusato di camorra, che conscio dell'imminente sconfitta lo scongiurò di non scendere a far comizi. Poi vennero i siparietti davanti al palazzo di giustizia di Milano, con sparuti gruppetti di sostenitori da avanspettacolo all'insegna del "pericolo comunista" e del "complotto nediatico giudiziario".
Ciarpame, come direbbe l'ex moglie Veronica, cui non crede più neanche l'ultima delle comparse prezzolate. Infine l'ordalia mediatica del 20 maggio, sei interviste nell'arco di due ore alle sue cinque televisioni Mediaset e Rai, trascurando completamente il popolo del web, e l'autogol col tentativo di sabotaggio del referendum di giugno sul nucleare.
Il resto è cronaca di questi giorni, nei quali assistiamo all'epilogo del suicidio di massa più lungo della storia e del funerale più rimandato. Con lo sfondo dei "morituri di Montecitorio", dal titolo di un pamphlet di tanti anni fa.

Carmilla on line 24.10.11
Dollhouse Parliament
di Alessandra Daniele

qui

Repubblica 24.10.11
Commissariati da “Merkozy"
di Tito Boeri


Doveva essere il week-end del salvataggio dell´euro e dell´intera costruzione europea. Lo ricorderemo invece per i sorrisi sarcastici di Sarkozy alla conferenza stampa in chiusura del vertice europeo, quando gli è stato chiesto un giudizio sugli impegni presi dal nostro presidente del Consiglio. Lo ricorderemo per gli ammiccamenti fra il presidente francese e Angela Merkel.
Lo ricorderemo per il lungo silenzio di quest´ultima di fronte ai dubbi espressi in modo così evidente sulla credibilità di chi rappresenta il nostro Paese. Questo teatrino non solo è umiliante, ma anche ha dei costi per tutti noi: è difficile per chi guarda all´Italia dall´estero scindere le opinioni sul nostro presidente del Consiglio da quelle sulle nostre istituzioni.
Ieri il "duunvirato Merkozy" ha operato un netto distinguo tra, da una parte, Grecia e Italia e, dall´altra, gli altri paesi coinvolti nella crisi del debito. Si sono rivolti a Berlusconi e a Papandreou come se fossero loro il problema, come se avessero "la stessa faccia", e le nostre istituzioni fossero della "stessa razza" di quelle che in Grecia hanno per lungo tempo occultato le vere dimensioni del deficit pubblico. Spiace ritrovarsi accomunati a chi ha scatenato la crisi del debito, ed è per noi ingeneroso ogni parallelo fra le istituzioni che monitorano e certificano i conti pubblici nei due paesi. Ma è innegabile che portiamo grandi responsabilità se non nella genesi, quanto meno nell´escalation della crisi, per i pesanti ritardi con cui il nostro governo è intervenuto in questi mesi. Ed è del tutto comprensibile che i contribuenti tedeschi e francesi che dovranno impegnarsi di più per tenere l´Euro in piedi si vogliano oggi tutelare contro il rischio che chi beneficia degli aiuti ne approfitti per rinviare ulteriormente scelte difficili quanto inevitabili. A ben vedere il problema è tutto lì: non usciremo dalla crisi fin quando non solo i leader, ma anche l´opinione pubblica francese e dei paesi dell´ex area del marco si saranno convinte che gli strumenti di salvataggio che si vanno faticosamente approntando a livello europeo non sono un pozzo senza fondo. Hanno non poche ragioni per temere atteggiamenti opportunistici. Se la Banca Centrale Europea non fosse intervenuta massicciamente a sostegno dei nostri titoli di stato negli ultimi tre mesi, non avremmo un governo che continua a procrastinare le misure per la crescita, dopo aver per lungo tempo cercato di rinviare ai posteri anche l´aggiustamento fiscale. Eppure non usciremo dalla crisi senza un prestatore di ultima istanza di dimensioni sufficienti, come potrebbe esserlo la Bce. È questo in fin dei conti il problema affrontato in queste interminabili riunioni d´emergenza dei leader europei: come trovare consenso per interventi della dimensione richiesta dall´aggravarsi della crisi, rassicurando gli elettori del "cuore dell´Euro" sulla qualità del risanamento in atto nei paesi ad alto debito.
Vertice dopo vertice, gli interventi sulla carta messi a disposizione per sostenere i paesi in crisi del debito sono sempre più consistenti, per qualche giorno magari convincono anche i mercati, ma poi si rilevano ogni volta insufficienti per bloccare il contagio, la diffusione a macchia d´olio della crisi. Si potrebbe ironizzare sui tantissimi complicati schemi ideati in questi mesi per cercare di aumentare le risorse messe effettivamente in campo dai vari governi. Sono riuscite a riportare in auge gli strumenti di finanza creativa ritenuti responsabili della crisi del 2008! Come nel caso dei vituperati CDOs, si impacchettano i "titoli tossici" dei paesi periferici con quelli di paesi che godono ancora della tripla A. Ma i mercati hanno imparato la lezione: non è un caso che lo spread fra i bund tedeschi e i titoli emessi dal fondo di salvataggio europeo si siano pericolosamente allargati negli ultimi giorni.
Il fatto è che finché si interverrà reagendo alla diffusione della crisi, anziché cercando di anticiparne gli sviluppi futuri, si sarà sempre in ritardo. Bisognerebbe invece sorprendere i mercati mettendo in campo un credibile prestatore di ultima istanza, in grado di intervenire ben oltre i limiti oggi imposti al fondo salva stati, impedendo il fallimento di altri stati dopo la Grecia. La Banca centrale europea ha tutte le caratteristiche per ricoprire questa funzione, peraltro svolta dalla Fed sull´altra sponda dell´Atlantico. Ma giustamente la Bce non intende cimentarsi in questo compito fin quando non avrà ricevuto un chiaro mandato politico e legale dai governi della zona dell´Euro. Si è già spinta molto al di là dei compiti tradizionali di una banca centrale negli ultimi anni, diventando una specie di hedge fund, e non può diventare prestatore di ultima istanza dei governi, oltre che delle banche della zona euro, senza un preciso mandato. Altrimenti, oltre ad agire illegalmente, non sarebbe credibile perché i governi potrebbero un domani smettere di ricapitalizzarla, non dotandola di quelle risorse che le permettono effettivamente di fare prestiti ai paesi (e alle banche) in difficoltà.
La Bce non verrà mai messa in condizione di operare come la Fed, oppure di finanziare un fondo di salvataggio europeo, finché gli elettori ai due lati del Reno non si convinceranno del fatto che non c´è comportamento opportunistico nei paesi del Sud Europa. Per questo la Merkel e Sarkozy hanno ieri parlato come veri e propri commissari straordinari del nostro paese, sostenendo che d´ora in poi vigileranno passo dopo passo su ciò che farà Berlusconi, e si sono spinti fino a imporre un ultimatum di tre giorni e a dettare un´agenda di misure a un grande paese fondatore dell´Unione. Si rivolgevano soprattutto agli elettori tedeschi e francesi. Il nostro Presidente del Consiglio ha reagito annunciando una riunione d´emergenza del Consiglio dei Ministri e misure su pensioni e vendita di immobili pubblici. Avremmo evitato tutto questo se il nostro governo avesse agito per tempo senza dover subire alcun ultimatum dall´Europa. Non è solo una questione di orgoglio nazionale. Abbiamo bisogno di riforme che affrontino i nodi strutturali, specifici del nostro paese. Bene, dunque, che le riforme per la crescita siano decise da noi, invece che essere imposte dall´esterno.


Repubblica Affari e Finanza 24.10.11
Gli "Arrabbiati" dopo la protesta ora preparano le prossime mosse
di Laura Kiss


Parola d'ordine: global change. E' quello che vogliono ottenere gli Indignados italiani, i Draghi ribelli, accampati dal 12 ottobre in molte piazze italiane e sfilati fragorosamente per le vie di Roma sabato scorso. Ora preparano le prossime mosse. Sono pensionati, disoccupati, liberi professionisti. I più sono giovani, preparati, spiritosi e hanno ritrovato lo spirito combattivo che scaturisce dalla consapevolezza che il futuro è nelle loro mani. "Non vogliamo guardare solo alla politica italiana", dice Sergio, laureato in ingegneria con 110 e lode e disoccupato. Non vuole lasciare l'Italia perché "io sono nato qui, l'Italia potrebbe essere il posto più bello del mondo dove vivere se le cose andassero in modo diverso. Io sono cresciuto sotto Berlusconi e praticamente non ho un termine di paragone con gli altri governi che lo hanno preceduto. Ma la cosa importante da capire è che noi siamo un movimento globale e vogliamo cambiare il modo in cui l'economia è stata gestita finora, non solo questo governo. Dai risultati che abbiamo davanti questo è un fallimento generale visto che tre quarti del mondo è affamato, il sistema di capitalismo occidentale è crollato e nessuno ha una soluzione. Basta con il predominio di banche e istituti finanziari, dobbiamo dialogare tra noi e rafforzare un movimento di economia etica ovunque nel mondo, costringendo i governi ad ascoltarci non solo in Italia. Il futuro è nostro: questo è l'unico dato certo". Gli fa eco Sara, terzo anno di biologia alla Sapienza: "E' tutto il modello culturale che va cambiato, globalmente. Bisogna trovare una forma di vera democrazia in cui vengano rispettati i diritti di tutti. Non è più sostenibile vivere su un pianeta in agonia dove vige l'egemonia di pochi. Il bello di questo movimento è proprio la grande differenza culturale che ci contraddistingue". All'interno del Comitato del 15 ottobre sono confluiti oltre 50 tra movimenti studenteschi, centri sociali, associazioni politiche e sindacali.

Repubblica 24.10.11
La sfiducia diffusa che inghiotte tutto
Il Paese sospeso tra indignazione e sfiducia
di Ilvo Diamanti


Per il sondaggio di Demos, nel Paese c´è una "indignazione" diffusa: tutti sono indignati contro le istituzioni pubbliche e contro la casta

Questa legislatura resiste. Malgrado che, da mesi, tutti ne evochino la fine. Invocata dall´opposizione, esorcizzata dalla maggioranza. Malgrado che gran parte degli elettori (oltre il 70%) ritenga la parabola di Berlusconi ormai conclusa. Non credono alla risalita del Cavaliere neppure gli elettori del Pdl (45%), tantomeno i leghisti (20%). Tuttavia, si prosegue. O meglio, si staziona. Mentre la sfiducia dei cittadini cresce, insieme all´incertezza nel futuro. I dati dell´Atlante Politico di Demos, raccolti attraverso un sondaggio condotto durante la scorsa settimana, descrivono, infatti, uno scenario statico e pressoché stagnante, sul piano elettorale.
I due principali partiti confermano il loro debole primato nella coalizione. Il Pd, in lieve calo, si attesta intorno al 28%. Il Pdl, in lieve crescita, raggiunge il 26%.
Insieme superano di poco il 54%. Alle politiche del 2008 erano oltre il 70%. Una conferma di più che la prospettiva bipartitica è ormai illusoria. Ma, soprattutto, un segno di crisi del bipolarismo così come l´abbiamo conosciuto. D´altronde, gli alleati dei due partiti maggiori IdV e SEL, a centrosinistra, la Lega, a centrodestra occupano uno spazio rilevante. Ma non possono svolgere un ruolo aggregante. Non ne hanno la vocazione e tanto meno il peso. La Lega, peraltro, appare in calo sensibile.
Gli scenari elettorali tracciati in base alle possibili coalizioni confermano le tendenze dell´ultimo anno. Il Centrosinistra – impostato sull´alleanza fra PD, IdV e SEL – sembra in grado di prevalere comunque. Da solo, in una competizione a tre, contro il Centrodestra e il Centro. A maggior ragione, se alleato con il Centro. Ma anche messo di fronte al Centrodestra allargato al Centro. Il quale conferma la sua difficoltà coalizionale. Perché i suoi elettori soffrono ogni spostamento; verso sinistra, ma anche verso destra. Mentre da solo il Terzo Polo allargherebbe i consensi molto al di là della somma del voto attribuito ai partiti che ne fanno parte – UdC, API, FLI. Le stime di voto si riflettono nelle previsioni degli elettori. Quasi il 50% di essi pensa che se si votasse oggi vincerebbe il Centrosinistra, il 37% il Centrodestra, per il quale significa 10 punti in più rispetto a un mese fa. La ripresa del Centrodestra, nella percezione degli elettori è favorita, forse, dal successo alle Regionali in Molise, per quanto stentato. Ma è, soprattutto, un segno che si respira aria di elezioni anticipate. Non a caso si è ridotta la quota di coloro che, al proposito, non esprimono un´opinione. D´altronde, è diminuita sensibilmente anche la "zona grigia" dell´incertezza e dell´astensione elettorale. Oggi non supera il 25%: circa 10 punti percentuali meno di un mese fa.
Eppure, l´orizzonte resta pervaso dall´incertezza. Di fronte alla crisi politica attuale, infatti, gli elettori si dividono in modo eguale fra le tre soluzioni proposte: un governo di emergenza, guidato da una figura autorevole (l´ipotesi preferita, anche se di poco: 34%); nuove elezioni nei prossimi mesi; oppure tirare avanti, con questo governo, fino al 2013. Insomma, come si è detto, questa legislatura sfinita non si decide a finire. Anche se la stanchezza del governo è evidente e riflette, anzitutto, la stanchezza della leadership.
La fiducia nei confronti di Silvio Berlusconi, infatti, è ai minimi (22%, quasi come il mese scorso). Più basso di lui, solo Bossi, il fedele alleato. I due appaiono saldamente legati, nella buona e nella cattiva sorte.
Tuttavia, questa palude di sfiducia rischia di inghiottire tutto e tutti. Non solo i partiti e gli uomini della maggioranza.
Basta guardare gli indici di fiducia nei confronti dei leader politici. Tutti in calo. In testa è tornato Tremonti, con il 37% di consensi. Ma solo perché, nell´ultimo mese, ha perso meno degli altri. Un anno fa, tuttavia, il credito verso il ministro dell´Economia era superiore di 10 punti percentuali. Il leader del PD, Bersani, ottiene la fiducia del 34% degli elettori: 7 punti meno di un anno fa. L´indice di fiducia verso Vendola, rispetto al novembre 2010, è sceso addirittura di 15 punti. Ora è al 33%. Perfino Beppe Grillo che, sulla sfiducia verso "tutti" i partiti, ha fondato la propria fortuna nell´ultimo anno un anno ha perso 8 punti di consenso. Di Pietro, restando fermo al 35% come un anno fa, è quasi in testa alle preferenze. Il fatto è che la fiducia si è rarefatta. Basti pensare che nella graduatoria costruita in base agli indici di fiducia personale, nel novembre del 2010, il leader posizionato al 5° posto, cioè a metà, otteneva il consenso del 39% degli intervistati. Oggi la fiducia verso il leader che occupa la medesima posizione è scesa al 30%.
La sindrome della sfiducia affligge tutti gli attori politici. I partiti per primi: "stimati" (si fa per dire) da meno del 5% dei cittadini. Ma anche le istituzioni. Lo Stato (il cui l´indice di fiducia si è ridotto al 20%), la stessa magistratura (42%: 7 punti meno di un mese fa). L´onda grigia lambisce perfino il presidente della Repubblica, che dispone di un consenso cosmico, rispetto a tutti gli altri. Il 70% dei cittadini esprimono "molta/moltissima" fiducia nei suoi confronti. Il che significa, però, 4 punti in meno di un mese fa.
D´altronde, la sfiducia nel futuro (62%) non è mai stata così alta, negli ultimi dieci anni.
Anche per questo motivo non sorprende che la maggioranza degli italiani esprima sostegno gli "indignati" che hanno manifestato il 15 ottobre a Roma. Nonostante le violenze che ne hanno funestato lo svolgimento – le cui responsabilità, tuttavia, sono attribuite prevalentemente ad altri soggetti. Non è solo perché è difficile disconoscere le buone ragioni degli "indignati". La frustrazione dei giovani, privati del futuro, costretti a un eterno presente, naturalmente precario. Il fatto è che l´indignazione è, ormai, un esercizio collettivo. Tutti si sentono e sono indignati. Contro le istituzioni pubbliche, contro lo Stato, gli statali, i partiti, i politici. Contro la Casta. Perfino i politici e la Casta si sentono indignati. Reciprocamente e contro chi si indigna con loro.
Da ciò il rischio. Che l´indignazione smetta presto di essere una virtù rivoluzionaria. E diventi un riflesso condizionato. Una parola alla moda. L´ultima beffa verso coloro che hanno tutti i motivi per dirsi "Indignati". Non gli hanno rubato solo il Futuro e il presente. Ma perfino l´Indignazione.

Repubblica 24.10.11
Atlante politico
Il governo perde 10 punti in un anno ma il centrosinistra non amplia il vantaggio
Pdl stabile, Lega in caduta. Terzo polo al 19% se corre da solo
Berlusconi e Bossi ultimi tra i leader Lieve arretramento per Pd (28,1%) e Idv (8,2%), compensato però dalla risalita di Vendola (6,8%)
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon


Un calo di dieci punti in un solo anno: l´Atlante Politico di Demos conferma la forte caduta di consenso verso il governo e verso il premier. Nelle intenzioni di voto, il vantaggio a favore del centrosinistra rimane consistente, anche se leggermente ridimensionato rispetto a settembre (da +9 a +8 nei confronti del centrodestra).
Il clima di opinione appare sempre più dominato dalle preoccupazioni per la crisi economica e per i sacrifici richiesti ai cittadini per affrontarla. Maggioranza e opposizione esitano ad impegnarsi sulle misure proposte dalla Bce, che risultano largamente impopolari: pochi intervistati approvano gli interventi sulle pensioni (6%) e la riduzione della spesa pubblica per i servizi sociali (5%). Le ipotesi di condono incontrano il favore di una componente molto ridotta (8%), mentre appaiono preferibili, in tutti gli schieramenti, le proposte di aumento delle tasse sui patrimoni e le rendite (32%), in proporzione al reddito (25%), oppure la vendita di parte del patrimonio pubblico (17%). E´ aumentata, in questo contesto, la disaffezione e la sfiducia verso la classe politica, che colpisce oggi anche l´opposizione e tutti i principali leader.
Sembra avere esaurito i propri effetti la spinta, favorevole al centro-sinistra, prodotta dai travagli estivi del governo e, ancor prima, dalla primavera elettorale. Pd (28.1%) e IdV (8.2%) registrano un relativo arretramento rispetto a settembre, compensato però dalla risalita di Sel (6.8%). Nel campo del centrodestra, il PdL, superato l´ennesimo voto di fiducia, sembra avere stabilizzato anche le intenzioni di voto (26.1%). Per la Lega, attraversata da molteplici tensioni, prosegue invece il trend negativo registrato un mese fa (8.8%).
D´altra parte, il gradimento dei cittadini per l´esecutivo fa segnare, ad ottobre, il nuovo minimo storico: 21%. Mentre Berlusconi (23%), assieme a Bossi (22%) e Alfano (25%), figura in coda alla graduatoria dei leader. Una classifica sempre più "corta" e schiacciata verso il basso: Tremonti torna ad occupare il gradino più alto, ma con appena il 37%. Lo seguono da vicino i leader delle tre formazioni di centrosinistra: Di Pietro (35%), Bersani (34%) e Vendola (33%). I due leader centristi Fini e Casini precedono, intorno al 30%, Grillo (28%).
Le attese per una vittoria del centrosinistra (49%) superano di dieci punti quelle per il centrodestra, le cui quotazioni, nelle previsioni degli elettori, sono in parte risalite nell´ultimo mese (dal 27 al 37%).
Gli equilibri elettorali cambiano, in parte, se consideriamo le intenzioni di voto per coalizione: l´indagine ha testato tre diverse configurazioni, per quanto riguarda la geometria delle alleanze. In una ipotetica corsa a tre, il "nuovo Ulivo" otterrebbe oggi il 44%, con uno scarto di oltre sette punti rispetto al centrodestra. Il Terzo polo, in questo scenario, sale fino al 19%: sei punti in più rispetto alla somma dei partiti che lo compongono (Udc, Fli e Api). Il centrosinistra risulta vincente anche nel caso di una competizione fra due grandi schieramenti: più agevolmente se alleato con le formazioni di centro (55%); con maggiore difficoltà (52%) qualora l´Udc tornasse al patto con il centrodestra. E´ interessante notare come, in entrambe le ipotesi di tipo bipolare, gli elettori dei partiti del Terzo polo tenderebbero a dividersi in misura significativa.

Repubblica 24.10.11
Bersani, appello a progressisti e moderati "Patto vincolante per la governabilità"
Casini: alleanze sui contenuti. Fini: si voterà nel 2012
Intervista del segretario pd al Pais: lavoriamo per un meccanismo che assicuri stabilità


ROMA Futuro e libertà annuncia che metterà il nome di Fini nel simbolo. E Pier Luigi Bersani fa sapere qual è la prossima mossa del Partito democratico: stringere un «patto» di ferro con il Terzo polo. Sembra che nel campo delle opposizioni sia già pronta la campagna elettorale.
Il segretario del Partito democratico rilascia un´intervista al Pais e chiarisce qual è la vera alleanza cui punta il suo partito. «Visto che la parola d´ordine è ricostruzione, la proposta politica deve essere ampia. Ossia un incontro tra forze progressiste e moderate sottolinea Bersani . Ma queste forze devono dare garanzia di governabilità. Stiamo lavorando per arrivare a un patto vincolante nei punti critici e per un meccanismo che stabilisca e garantisca la stabilità. In sintesi va detto che la battaglia sarà dura e lunga. Che tutti dovranno fare uno sforzo, ma chi ha di più dovrà dare di più».
Il leader democratico quindi indica anche alcuni punti sui quali l´intesa con i centristi è possibile. Dalle sue parole sembra di capire che la trattativa è in corso, magari già in uno stadio avanzato. «Bisogna mettere mano al mercato del lavoro affinchè il lavoro stabile costi un pò meno e il lavoro precario un pò di più spiega . Fare liberalizzazioni in alcuni settori. Riequilibrare lo stato di benessere per indirizzare risorse ai giovani. E´ necessario per recuperare il nostro ruolo e prestigio in Europa».
Proprio sui temi Pier Ferdinando Casini "sfida" il Partito democratico. Frenando rispetto all´ipotesi di una coalizione tra progressisti e moderati. «Stimo Pier Luigi Bersani, ma nel suo ruolo non lo invidio dice il leader dell´Udc . Dovrebbe proporre delle alleanze sui contenuti, sulle cose concrete, non sui nominalismi». C´è da lavorare insomma. «E´ evidente osserva che se non si fanno accordi politici sui programmi concreti, poi non si riesce a governare». Gianfranco Fini è convinto che le elezioni siano vicine, a un passo: nel 2012. Ma l´immobilismo del governo può essere una lunga agonia. «Il governo è fermo e quindi non rischia di inciampare», dice il presidente della Camera a Che tempo che fa. Ma, aggiunge, «sono sicuro che si voterà nella primavera del 2012». Perché è il premier a volerlo. «Ho detto agli amici del Pdl che è ormai suonato il campanello dell´ultimo giro. Berlusconi tira a campare ancora per qualche settimana per poi andare al voto in primavera. E anche se lui ha detto di essere sicuro di arrivare al 2013 proprio perchè l´ha detto significa che si voterà nel 2012». Il problema è che «si andrà a votare con questa legge elettorale». A meno che nelle prossime settimane prenda corpo un nuovo governo. «E´ chiaro che chi ha la maggioranza debba governare e io non penso a un ribaltone e quindi il Pdl ha tutto il diritto di governare ma con un nuovo presidente del Consiglio che si presenti poi in Parlamento per fare tre cose utili per rilanciare il paese e la prima di queste è proprio la riforma della legge elettorale». Allungamento dell´età pensionabile e patrimoniale sono le misure che un nuovo esecutivo dovrebbe prendere. «Ma la patrimoniale non piace a Berlusconi perché colpisce soprattutto lui», attacca Fini. Che subisce il contrattacco dell´intero Pdl per la sua scelta di mettere il nome nel simbolo: la richiesta corale è sempre quella delle dimissioni.
(g.dm.)

Repubblica 24.10.11
L'iniziativa di Civati e Serracchiani. Franceschini: "Una boccata d´ossigeno"
Pd, la sfida dei "ricostruttori" "Al potere la nuova generazione"
di Marco Marozzi


BOLOGNA Prodi e Bersani non si sono visti. Ma loro, i "ricostruttori" del Pd, non si sono offesi e li hanno trattati come nipotini affettuosi e un poco monelli. «Bersani manda un saluto», ha annunciato Debora Serracchiani. Poi, mentre la platea rideva, «un saluto vero, è malato, ha la febbre, altrimenti sarebbe venuto». E Prodi? «Dicono che girava qui attorno e che è appena diventato nonno per la sesta volta» raccontano i ragazzi in platea, poco presi dai carismi storici e piuttosto molto addolorati per un altro annuncio, la morte del loro coetaneo Marco Simoncelli.
«Grazie a questa città, forse ci faremo la festa annuale del partito futuro» annuncia Pippo Civati nel tendone dipiazza maggiore. Sono diversi dai "rottamatori" del fiorentino Matteo Renzi, non rompono con i vertici del partito, ma fanno dimostrazione garbata di considerarli ormai superati. «Siamo pronti, quando sarà il momento, chiude Civati la due giorni bolognese a portare alla guida del Pd quello che stiamo facendo e proponendo da anni. Sia che Bersani faccia il candidato premier sia che lo faccia un altro. Ma se qualcuno crede che il ruolo di segretario e di premier sono separati lo si dica subito e si affronti la questione dentro il partito: in quel caso noi abbiamo le nostre idee. Il candidato premier non potrà certo essere in contrasto con il segretario».
In platea un migliaio di ragazzi di poco più di vent´anni, ai margini del Pd bolognese ma comunque contenti di due giorni di pienone. In prima fila Dario Franceschini capisce il clima: «Sono venuto solo per ascoltare. C´è chi ne aveva parlato come di un´iniziativa chiusa, invece ho sentito molte idee, molte spinte al cambiamento: questo è ossigeno per il Pd». «Non siamo qui per fondare la diciassettesima corrente – promette Debora Serracchiani –. Non pensiamo che non serva un capo, ma una partecipazione collettiva di liberi e forti». E Civati: «L´obiettivo non è fondare una corrente, ma portare questa generazione al governo del paese». I due si alternano ai microfoni.
Applaude ed è applaudito anche Enrico Rossi, il governatore della Toscana. E da lontano il gran consigliere di Prodi, Arturo Parisi, annunciato il 28 ottobre alla riunione convocata da Renzi a Firenze, lancia un segnale di attenzione: «Grazie a Civati e Serracchiani oggi sappiamo sicuramente di più sulla loro personale posizione. Confidiamo che anche le iniziative come quella di Renzi ci aiutino ad andare avanti nell´approfondimento e nel confronto con eguale chiarezza».

«La fotografia trasmessa dal Corriere purtroppo è vera — afferma Giorgio Merlo —: 16 correnti, di cui 4 o 5 di natura generazionale...»
Corriere della Sera 24.10.11
Bersani ha la febbre, non va da Civati Lui: troppe correnti...
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Lavorano di buona lena, i «ricostruttori» Pippo Civati e Debora Serracchiani: sfornano proposte, ci mettono passione, fanno capire di voler essere della partita quando il gioco si farà duro (dalle primarie a tutto il resto) e per due giorni riescono a tenere incollate alle poltrone quasi 5 mila persone sotto il tendone bianco in piazza Maggiore. Eppure alla fine qualcosa manca nel cantiere in costruzione di quello che qualcuno ambiziosamente chiama «l'altro Pd», come se l'attuale fosse già in scadenza. Dov'è il capomastro Pier Luigi Bersani? Perché, «atteso messianicamente per due giorni», come dice, non senza ironia, Pippo Civati, non si è fatto vedere? «Il segretario? Per lui, minestrina e copertina calda, altro che kermesse bolognese: ha la febbre a 38...», rivela a fine mattina Ivan Scalfarotto, che da vicepresidente del Pd ha tenuto i contatti con il leader, sperando di portarlo sotto le Due Torri. Febbre diplomatica per non rischiare di essere messo dietro alla lavagna dai «ricostruttori»? Scalfarotto sgrana gli occhi: «Ma no, ma no, è davvero indisposto, sentisse che voce aveva stamattina...». Niente Bersani. Pippo e Debora, che pure sul leader dicono di voler continuare a scommettere, incassano il colpo con ostentata noncuranza. Lei annuncia: «Il segretario ci saluta, ma ha il raffreddore, altrimenti sarebbe venuto». Lui chiosa: «E che non vi passi per la testa di dar la colpa alle correnti... Vorrà dire che le nostre proposte gliele porteremo a domicilio». In platea nessuno si straccia le vesti, ma qualche mugugno affiora. D'altra parte, da uno dei tanti sondaggi effettuati durante la due giorni con il metodo dell'instant poll (tramite cellulari), emerge che per il 65% della platea Bersani avrebbe fatto bene a venire «per ascoltare», mentre solo il 33% lo avrebbe voluto lì «per sentirlo parlare». Ma oltre all'assenza del leader, a turbare il lavoro dei «ricostruttori» ha contribuito anche la fastidiosa sensazione di essere etichettati come l'ennesima corrente in formazione (la sedicesima, o giù di lì). Si è ribellato, volando alto, Civati: «Niente del genere, il nostro obiettivo è portare questa generazione al governo». L'ha ripetuto, più aspra, la Serracchiani: «Le correnti si fanno nel sottobosco, non con un'iniziativa in piazza: vogliamo un Pd coraggioso che punti sul merito, non sui mediocri». Non tutti la pensano così: «La fotografia trasmessa dal Corriere purtroppo è vera — afferma Giorgio Merlo —: 16 correnti, di cui 4 o 5 di natura generazionale, denotano che la scommessa politica deve essere ancora vinta». I «ricostruttori» intanto mettono mattoni. Civati ha rilanciato le primarie anche per i parlamentari, ha bocciato «una politica intesa come mestiere a vita», andando poi a toccare uno dei nervi sensibili del Pd: «Se sarà Bersani candidato alle primarie, a noi va bene. Ma se qualcuno è contrario, siamo pronti a discutere della divisione tra il ruolo di leader e quello di aspirante premier». Finisce tra i sorrisi, con l'incoraggiamento del capogruppo Dario Franceschini («Questo è ossigeno per il partito») e pure di Arturo Parisi («Un contributo alla chiarezza e al confronto»).

l’Unità 24.10.11
I cattolici e la politica
risponde Luigi Cancrini


Nella trasmissione Ballarò del 18 ottobre Maurizio Sacconi a Vito Mancuso, che dice di vergognarsi dei comportamenti del presidente del Consiglio, replica, anche se c’entra come i cavoli a merenda: «Mi aspettavo che un teologo si vergognasse di come è morta Eluana Englaro». Il ministro Sacconi, per chi non lo ricordasse, è quello che raccontò la barzelletta sulle suore violentate.

Cattolici sono (lo scrive Michele Serra nella sua Amaca) Giovanardi e Don Gallo, estrema destra ed estrema sinistra degli schieramenti politici. I cattolici sono anche al centro, del resto, e fra i credenti del centrosinistra e del centrodestra. Il che vuol dire che essere o dichiararsi “cattolici” non è sufficiente a definire una identità o una appartenenza politica. Anche a livello della Chiesa, del resto, le sensibilità sono assai diverse, da Luigi Bettazzi a Bagnasco, da Martini a Bertone. Oggi come ieri perché assai poco piacevano a Roma i discorsi di fra’ Girolamo Savonarola o del poverello di Assisi. Prenderne atto sarebbe utile, forse, per uscire da questa inutile sfida su chi è più cattolico, il ministro che vorrebbe mettere le mani sulla vita di Eluana o il sacerdote che rimprovera a Berlusconi le sue “perversioni”. Io, per mio conto, non mi sento mai cattolico (Cattolica è la Chiesa del Concilio di Trento, quella che condannò Lutero riabilitato oggi dal Papa) ma ho l’abitudine (e il piacere) di frequentare il Vangelo e di riflettere sulle parole di Gesù. L’uomo che ha dato inizio alla più grande rivoluzione di tutti i tempi.

Repubblica 24.10.11
Psicofarmaci
Dal 1998 al 2008 il consumo è cresciuto del 400% negli Usa e del 76% in Italia
Uno studio rivela che l´11% degli americani fa uso di psicofarmaci. Addirittura il 25% delle donne fra i 40 e i 60 anni Eppure l´Oms ha avvertito: "Il 60% di chi li assume potrebbe farne a meno". Un convegno per spiegarne i rischi
Nell’America malata, pubblicità tam tam e sconti, è il momento dell’antidepressione
di Elena Dusi


Guardandosi intorno per strada negli Usa si incontrerà più di una persona su dieci (l´11%) sottoposta a cura con antidepressivi. La proporzione sale a quasi una su 4 fra le donne tra 40 e 60 anni. E se di fronte abbiamo un adulto tra i 18 e i 44 anni, sapremo che le pillole più presenti nel suo armadietto sono proprio gli psicofarmaci per il tono dell´umore. Eppure raccontano gli ultimi dati del National Center for Health Statistics i due terzi degli individui veramente colpiti dal male di vivere se ne restano rintanati nella caverna, rifuggendo da ogni cura.
Medicine ingoiate in quantità da chi non ne ha bisogno e veri malati che restano orfani: gli antidepressivi negli Stati Uniti sembrano più utili a curare la depressione economica delle case farmaceutiche che non quella mentale. Dal 1998 al 2008 il consumo di questi medicinali è cresciuto del 400% in America e del 76% in Italia, dove la media di circa tre pillole al giorno ogni cento abitanti resta ancora ben lontana dal record Usa.
Che la moda degli psicofarmaci poco appropriati raggiunga anche il nostro Paese è però la preoccupazione dell´Istituto farmacologico Mario Negri, che oggi organizza un convegno per i suoi 50 anni il cui sottotitolo non lascia adito a dubbi di interpretazione: "Le prescrizioni di psicofarmaci rappresentano uno dei più grandi successi di marketing industriale degli ultimi anni, nonostante la consapevolezza dell´efficacia solo parziale degli stessi".
Due anni fa l´Organizzazione mondiale della sanità scrisse che solo 6 pazienti su 10 fra quelli che assumono regolarmente antidepressivi ne traggono beneficio. E che in un caso su due il miglioramento era dovuto all´effetto placebo. «Sono praticamente trent´anni che usiamo più o meno gli stessi principi attivi» spiega Gianluigi Forloni, direttore del dipartimento di neuroscienze del Mario Negri. «L´efficacia non è migliorata di molto, ma in compenso si sono ridotti gli effetti collaterali. Ecco perché molto spesso le prescrizioni arrivano dai medici di famiglia».
Negli Usa una pasticca su tre è ingoiata da un sedicente depresso che negli ultimi 12 mesi non si è rivolto a uno specialista. Mandar giù una "pillola della felicità" ha iniziato a diventare pratica comune dopo l´arrivo, nel 1987 negli Usa, di una nuova classe di farmaci, detti "Ssri" o "inibitori della ricaptazione della serotonina", considerati più benigni dal punto di vista degli effetti collaterali. Per quanto riguarda la durata della cura, 14 consumatori su 100 hanno iniziato a usare antidepressivi oltre 10 fa anni, contrariamente a ogni regola della psichiatria. «In caso di recidiva, arriviamo a 18 mesi» spiega Barbara D´Avanzo, ricercatrice del Mario Negri. «Sospendere questi farmaci è un´operazione delicata. Bisogna scalarne le dosi restando sotto agli occhi del medico».
Il marketing cui fa riferimento il convegno milanese agisce sui pazienti attraverso pubblicità (negli Usa, non in Italia), sconti e tam tam. E sui camici bianchi attraverso gli informatori sanitari. «Per un medico non specialista conferma Forloni ci sono stati d´animo che possono essere confusi con la depressione. E non a caso sono proprio i pazienti non gravi ad alimentare il boom del mercato». Secondo i dati Usa solo una persona su tre, fra chi assume antidepressivi, ha una diagnosi di malattia severa, e l´uso di questi farmaci è quasi esclusivamente riservato ai bianchi non ispanici (i neri non arrivano al 4% e gli ispanici al 3). Eppure la malattia ha sempre dimostrato di non fare preferenze fra le etnie. E a volte le medicine vengono usate anche per disturbi che con la depressione hanno poco a che fare (8 casi su 100), come dolore cronico, anoressia o bulimia, insonnia, disturbi d´ansia e nei tentativi di smettere di fumare (in questi ultimi due casi non si sono dimostrati nemmeno del tutto inefficaci). Di quel 40% di persone che secondo l´Oms non traggono benefici dalle pillole, la maggior parte sono proprio i malati più lievi. «È come se depressione lieve e depressione grave fossero due malattie diverse. Nel primo caso abbiamo un´efficacia limitata e un grosso effetto placebo. Nel secondo invece non si può assolutamente negare l´importanza di questi medicinali».



Corriere della Sera 24.10.11
Le radici dell’anima secondo Pauli e Jung
di Edoardo Boncinelli


«Dal momento che la concezione determinista è stata abbandonata in fisica, non ci sono neanche ragioni per mantenere ancora una concezione vitalista, secondo cui l'anima potrebbe e dovrebbe "violare" le leggi fisiche. Mi sembra piuttosto che una parte essenziale dell'"armonia universale" consista nel far sì che le leggi fisiche lascino proprio un margine per un altro modo di osservare e di considerare le cose (la biologia e la psicologia) in modo che l'anima possa raggiungere tutti i suoi "obiettivi" senza violare le leggi fisiche».
Questa dichiarazione di Wolfgang Pauli è posta come una sorta di conclusione delle conclusioni alla fine del libro Pauli e Jung di Silvano Tagliagambe e Angelo Malinconico (Raffaello Cortina Editore, pagine 320, 27). Il fisico teorico Pauli e il fondatore della Psicologia Analitica, Carl Gustav Jung, discussero a lungo su come si potesse giungere a questo «altro modo» di pensare al mondo, nell'ipotesi, ovviamente, che un altro modo esista, che esista in definitiva un «mondo intermedio» fra materia e psiche che possa fondere le due istanze, cercando inoltre di evitare tanto le secche del determinismo e della causalità quanto quelle della casualità.
Fin dall'inizio la scienza occidentale ha proceduto espellendo il soggetto dall'universo delle cose da studiare e da comprendere. Qualcuno si accontenta, ma molti soffrono di tale esclusione e perseguono il disegno di una conciliazione fra lo studio rigoroso della realtà materiale e la comprensione del mondo della psiche individuale e di ciò che si definisce comunemente spiritualità.
Fra quelli che non si sono accontentati figurano certamente Pauli, fortemente critico nei confronti dell'orientamento che aveva preso la fisica atomica dei suoi tempi, e lo psicologo zurighese Jung, infaticabile esploratore della psiche profonda e del suo rapporto con la nostra percezione della realtà. Questi due personaggi molto diversi ne discussero a lungo, fino a produrre insieme anche un libro sull'argomento. Il confronto fra i loro percorsi intellettuali rappresenta un capitolo affascinante della tormentata problematica del Novecento e adesso i nostri autori hanno dedicato un libro non piccolo e molto informato alla disamina degli aspetti più riposti di tale confronto. Tagliagambe da parte sua va avanti con questo suo libro sul progetto di esplorare una originalissima «epistemologia del confine».
Che cosa nacque dal fortunato incontro di queste due fertili menti?
Jung si confermò nella sua visione dell'inconscio come «luogo psichico che custodisce in forma primaria e autonoma i contenuti e le immagini individuali e universali, potremmo dire le verità sul singolo individuo, sui gruppi sociali di appartenenza, sull'intera umanità che contiene l'individuo stesso». Fondamentale nella sua concezione è il ruolo degli archetipi, quali «forme senza contenuto, atte a rappresentare solo la possibilità di un certo tipo di percezione e azione. Quando si presenta una situazione che corrisponde a un dato archetipo, allora l'archetipo viene attivato».
Pauli, per parte sua, andava riflettendo su una possibile conciliazione fra cause e significati. Dalla loro relazione scaturì, a quello che ne sappiamo, soprattutto l'idea di sincronicità come nuova forma di significatività e di senso degli eventi della vita. «Il principio di sincronicità afferma che un certo evento psichico trova un parallelo in qualche evento esterno, non psichico e che tra i due non esiste alcun nesso causale. È un parallelismo di significato».
Abbiamo aperto con Pauli; chiudiamo con Jung: «Passerà ancora molto tempo prima che la fisiologia e la patologia del cervello da un lato e la psicologia dell'inconscio dall'altro possano darsi la mano. Anche se alla nostra conoscenza attuale non è concesso di trovare quei ponti che uniscono le due sponde ... esiste tuttavia la sicura certezza della loro presenza. Questa certezza dovrà trattenere i ricercatori dal trascurare precipitosamente e impazientemente l'una in favore dell'altra o, peggio ancora, dal voler sostituire l'una con l'altra. La natura non esisterebbe senza sostanza, ma non esisterebbe neppure se non fosse riflessa nella psiche».
La discussione continua.

Carmilla on line 23.10.11
Saluti junghiani da David Cronenberg
di Mauro Baldrati

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Carmilla on line 23.10.11
A Dangerous Method. Una delusione cocente
di Letizia Mirabile

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Corriere della Sera 24.10.11
Il pozzo nero della Repubblica
Trame, bombe, depistaggi all'ombra del «Noto servizio»
di Corrado Stajano


Un vero romanzone, un pozzo nero della Repubblica. Si potrebbe definire così il libro di Aldo Giannuli, Il Noto servizio. Giulio Andreotti e il caso Moro (Marco Tropea editore, pagine 445, 18). Una catena di nequizie conosciute e ignote, dalla guerra mondiale al sequestro Moro, fa da guida alla ricerca costata al suo autore quindici anni di lavoro. Giannuli sostiene di aver voluto scrivere solo un libro di storia, non una spy story. Solo che le vicende narrate, i nomi dei personaggi, l'equivoco mondo dei servizi segreti, i misteriosi burattinai fanno del libro, bulimico, sovrabbondante, un'opera che prende il lettore come un giallo. Ecco qui gli scheletri nascosti negli armadi, si potrebbe dire.
Aldo Giannuli insegna Storia del mondo contemporaneo all'Università Statale di Milano, conosce nel profondo gli intrighi sanguinosi delle trame eversive e delle stragi — è stato consulente di quella commissione parlamentare — ed è noto per lo scoop dell'«archivio della via Appia», del 1996; quando scoprì un gran numero di documenti abbandonati dell'Ufficio affari riservati del Ministero dell'Interno.
Ora ha dato dignità scientifica a un'altra scoperta, quella di un'organizzazione spionistica fuorilegge che ha operato in Italia dalla Seconda guerra mondiale agli anni Ottanta: il Noto servizio, conosciuto anche come Anello.
Il libro parte da lontano. Addirittura dal generale Mario Roatta, a capo del Sim, il Servizio segreto militare, dal 1934 al 1939, a capo dei legionari fascisti in Spagna, indiziato per l'assassinio dei fratelli Rosselli, comandante, in Croazia, nel 1942, della Seconda Armata, che si macchiò di ignobili e delittuose repressioni. Restò sempre a galla, Roatta, e fu lui, nel dopoguerra, a dar vita all'organizzazione clandestina del Noto servizio. La sede principale era nel centro di Milano, in un palazzone liberty, tra via Statuto e via Lovanio. Fu un ufficiale polacco, Solomom Hotimsky, dell'armata del generale Anders, a guidare in un primo tempo il servizio. Agganciato ai carabinieri della divisione di via Moscova, gli stessi che decenni dopo saranno tra i protagonisti di azioni poco commendevoli della P2, il Noto servizio era legato ai servizi militari italiani e americani e alla Confindustria. Il suo compito era di spionaggio e provocazione nei confronti del Pci, delle organizzazioni di sinistra e del sindacato; il golpe militar-fascista era il miraggio non raggiunto, anche se messo in cantiere. Gli strumenti adoperati con spregiudicatezza andarono dai sequestri di persona ai traffici di droga e di armi ai delitti mascherati da falsi incidenti. I rapporti con i poteri criminali, la mafia, soprattutto, furono costanti. Fecero parte del Noto servizio non pochi naufraghi della repubblica di Salò.
Aldo Giannuli ha consultato tutti i possibili archivi, ha studiato migliaia di documenti, ha scovato note riservate, appunti confidenziali, verbali, rapporti, memoriali, ha scritto una cinquantina di relazioni per la magistratura. Il libro — manca un indispensabile indice dei nomi — è prezioso per capire quel che accadde nella politica e nella società italiana nel secondo Novecento. Un ritratto della mala Italia. Una miniera, anche se la carne al fuoco è sinceramente troppa.
Perché Andreotti è protagonista persino nel titolo del libro? «Il Noto servizio — scrive Giannuli — fu uno degli strumenti della sua azione politica». Grande tattico, poco sensibile ai disegni strategici, Andreotti suggerisce al professore l'immagine centrale del cavallo nel gioco degli scacchi. (La sentenza che lo condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso, di cui è stato ritenuto responsabile fino al 1980, anche se prescritta, convalidata dalla Cassazione, dovrebbe essere più che sufficiente, in un paese normale, per bollare un uomo politico che è stato sette volte presidente del Consiglio).
Il Noto sevizio ebbe rapporti con Pace e libertà di Edgardo Sogno, con Luigi Cavallo, «il provocatore» al servizio della Fiat, con Ordine Nuovo, il Mar di Carlo Fumagalli, persino con Liggio. Tra i suoi adepti, ben pagati, ebbe giornalisti, avventurieri, doppiogiochisti, estremisti, Giorgio Pisanò, esponente del neofascismo più esagitato, padre Zucca, il francescano fascista che nel 1946 nascose nel suo convento la salma di Mussolini trafugata a Musocco.
Furono caldi gli anni dopo la strage di piazza Fontana del 1969. Nel dicembre del 1970 il principe Borghese tentò un golpe, bloccato all'ultimo momento. Di Gladio si saprà soltanto nel 1990, quando Andreotti ne rivelerà l'esistenza. L'assassinio del commissario Calabresi fu un'altra tragedia, come l'attentato sanguinoso alla Questura di Milano, destinato a uccidere Rumor, e qui Giannuli è debole nel rappresentare la figura dell'attentatore, il finto anarchico Bertoli. E poi la Lockheed e la catena di stragi.
Dopo le elezioni del 1976 nasce, tra Dc e Pci, il governo di solidarietà nazionale. Il Noto servizio è più che mai sul chi vive. Le Br sono all'offensiva. I servizi segreti ufficiali lasciano fare, scrive Giannuli. Moretti, scrive anche, era un personaggio discutibile, Senzani il più impresentabile.
Sul sequestro Moro, minuziosamente ricostruito, Giannuli dà grande importanza al ruolo di Steve Pieczenik, l'esperto del Dipartimento di Stato americano inviato in Italia per collaborare con l'unità di crisi del Viminale. Vent'anni dopo, Pieczenik dichiara in un libro-intervista che la sua missione era stata coronata dal pieno successo: la morte di Moro, secondo lui (e chissà chi), aveva infatti scongiurato il crollo del sistema politico italiano.
A Giannuli, che accenna appena al ruolo di Cossiga e trascura la singolarità che appartenessero alla P2 tutti o quasi i consulenti del comitato di crisi, sono rimasti sul gozzo soprattutto due interrogativi: «Perché furono distrutti dalle Br i manoscritti originali di Moro?». E poi: perché nulla di quanto disse Moro fu «reso noto al popolo», come avevano più volte promesso i comunicati delle Br?

Corriere Economia 24.10.11
Cina Può sgonfiarsi? La paura di Ue e Usa
Il rallentamento è in corso. Potrebbe essere soft e guidato. Ma potrebbe anche diventare un crash La mina sono gli immobili: a Hong Kong 250 mila case sfitte. L'incognita del credito non controllato
di Danilo Taino


I politici europei hanno pasticciato non poco, durante tutta la crisi del debito. E continuano a farlo. Quelli americani non sono stati da meno, a cominciare dalla disputa estiva sull'innalzamento del deficit che ha opposto il Congresso al presidente Barack Obama. Almeno, però, i leader dell'Occidente sono trasparenti, se fanno sciocchezze le fanno in pubblico.
Verso l'atterraggio
Ma in Cina? Cosa stia succedendo davvero nell'economia e nella politica dell'Impero di mezzo è sempre meno chiaro. Tanto che l'ansia degli investitori si sta trasferendo a passi da gigante verso Pechino. Per molti versi, anzi, c'è un'ansia cinese da un po' di tempo: l'indice elaborato dalla Deutsche Bank riferito alle aziende internazionali molto esposte alla Cina nell'ultimo anno è sceso di oltre il 40%. È iniziato un crollo di certezze rispetto alla storia straordinaria della crescita cinese. Fatto che apre scenari in teoria preoccupanti.
Che l'economia del gigante asiatico debba rallentare è un dato di fatto. Nel 2008, le autorità hanno lanciato un piano di stimolo per contrastare la contrazione delle esportazioni durante la recessione in America e in Europa: non poteva essere mantenuto indefinitamente e quindi la banca centrale Pbc ha più volte alzato i tassi d'interesse (l'inflazione resta sopra al 6%). Come risultato, nel terzo trimestre la crescita del Pil è scesa al 9,1% (era stata del 9,5% il trimestre precedente). Potrebbe essere un dato perfettamente in linea con l'intenzione del partito e del primo ministro Wen Jiabao di condurre un soft landing, un rallentamento controllato ma sempre con una crescita annua non inferiore all'8%. Ma potrebbe essere anche il segno di qualcosa di più serio, di un rallentamento massiccio.
Tutti sanno che la seconda economia del mondo negli ultimi anni si è sviluppata creando distorsioni non da poco. Lo stesso partito comunista ammette che la crescita, spinta da un'enorme massa di investimenti (pari alla metà del Pil), ha sicuramente creato bolle e allocato risorse in settori che non avranno mai un senso economico (non solo i campi da golf). Prima o poi questo nodo verrà al pettine, come ogni bolla anche questa si sgonfierà: si tratterebbe di avere un'idea, grazie a qualche statistica più attendibile di quelle ufficiali e manipolate, di quanta aria calda ci sia nelle bolle per prevedere tempi e portata della correzione.
Il governo centrale sta cercando, per esempio, di tenere sotto controllo il prezzo delle case. A livello locale, però, alcune amministrazioni, ad esempio quella della città meridionale di Foshan nelle settimane scorse, avrebbero iniziato a sfidare le direttive centrali per evitare proprio che la bolla edilizia scoppi. Quali siano la portata del problema e il rischio è difficile da stimare.
Uno studio recente di MarketWatch può però dare un'idea: dice che a Hong Kong «il mercato immobiliare sembra essere guidato da investitori che sono ricchi al punto di non curarsi nemmeno di affittare i loro appartamenti». Una situazione del genere non potrà andare avanti per sempre, soprattutto se si tiene conto che nella città, sette milioni di abitanti, ci sarebbero — dati ufficiali — 250 mila appartamenti sfitti. Le ansie, però, non si fermano qui.
Il credito parallelo
Il sistema del credito cinese è un animale molto strano. Fondamentalmente, è governato dalle grandi banche di Stato che prestano sulla base delle indicazioni dei mandarini di partito. Ma in parallelo si è sviluppato un sistema bancario sotterraneo nel quale individui ricchi di cash prestano denaro a tassi elevati ad aziende private che non hanno accesso ai fondi indirizzati dallo Stato. In un sistema controllato, il credito rischia così di essere fuori controllo. Il problema è così serio che il Quotidiano del Popolo l'ha definito «una crisi subprime in stile cinese».
Non è dunque strano che gli investitori si domandino se quello cinese sarà un soft landing o un hard landing nel quale il mondo intero si farà parecchio male. E ancora meno strano è che arrivino alle conclusioni più diverse.
Un grande conoscitore della Cina, l'economista di Morgan Stanley Stephen Roach, prevede un rallentamento dell'economia del Paese, ma nessuna catastrofe. L'economista star Nouriel Roubini la settimana scorsa ha invece sostenuto che, come ogni iper investimento, anche questo finirà in modo doloroso. Non prima del 2013 o del 2014 — ha però aggiunto — perché Wen e il presidente Hu Jintao «faranno tutto il possibile» per tenere la crescita sopra l'8% mentre la nuova generazione di leader salirà al potere, come previsto, nel 2012. Jim Chanos, fondatore dell'hedge fund americano Kynkos, è infine convinto che il grande crash dell'economia cinese sia non solo inevitabile vista la situazione del mercato immobiliare, ma sia addirittura già iniziato.
Insomma, è arrivato il momento di guardare il fenomenale boom cinese in una prospettiva meno eccitata. Pechino promette di aiutare l'Europa, ma non è probabilmente il caso di trattenere il fiato: dovrà aiutare prima se stessa.

Corriere della Sera 24.10.11
Addio al «Romeo di Auschwitz»: si finse SS per liberare la fidanzata
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — «Sì, l'ho amata molto», diceva: «Moltissimo. Per tutti questi anni, non è mai stata con me. Ma un po' lo è stata. L'ho sognata migliaia di notti. Mi svegliavo piangendo. Lavoravo piangendo. Camminavo piangendo. Io e lei avevamo deciso il nostro destino. E il destino alla fine ha deciso per noi...». Dopo più di 66 anni, l'amore prima impossibile e poi impossibilitato del deportato numero 243 per la deportata 29558 s'è spento a Nowy Targ, una piccola città della Piccola Polonia dov'era sempre sopravvissuto, un'ottantina di chilometri dal peggiore dei lager. Jerzy Belecki, professione meccanico, se n'è andato novantenne. «In pace con se stesso e con la famiglia», ha spiegato una delle due figlie, Alicija, eppure col rimpianto mai nascosto di non avere potuto sposare Cyla, la ragazza che aveva salvato e perduto. Jerzy è stato ricordato ieri con una candela a Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto di Gerusalemme, di cui era uno dei Giusti. Sarà per sempre il Romeo di Auschwitz, come lo ribattezzò un cronista sbrigativo: «The Most Excellent and Lamentable Tragedy» di Jerzy e Cyla.
Le foto d'allora ci raccontano l'happy end che comunque fu. Le pagine dell'autobiografia, scritta nel 1990, la storia «così aspra e tiranna».
Lui, lo spavaldo Jerzy detto Juracku, il cappello sulle ventitré, soldato polacco catturato al confine ungherese e finito diritto in un campo di concentramento: uno dei primi a conoscere l'orrore di Auschwitz, scampato al camino solo per il suo fluente tedesco e l'utilità d'averlo al servizio trasporto cadaveri.
Lei, la giovanissima Cyla Cybulska, i capelli neri e lunghi, ebrea deportata dal ghetto di Lomza, unica sopravvissuta ai genitori, a due fratelli e a una sorella. Si vedono, «amore corre contro amore». Là dentro. «Ero un anziano del lager — ha raccontato mille volte Jerzy — e, stando all'officina, avevo un po' di libertà di movimento. Preparai il piano con cura. Un giorno l'avvicinai e le dissi: "Della tua famiglia, sei rimasta solo tu. Forse riesco a salvarti. Verrà a prenderti un ufficiale tedesco...". All'inizio non voleva, poi la convinsi». Qualche giorno dopo, l'ufficiale tedesco arriva sul serio: è Jerzy, con una divisa rubata dalla lavanderia e il pass d'un Rottenführer scovato in una tasca, tale Helmut Stehler, corretto a matita in Steiner «perché avevo paura d'imbattermi in qualche guardia che conoscesse Stehler». L'uomo è sicuro di sé, l'ordine ai piantoni perentorio: «Devo portare questa donna al comando per un interrogatorio urgente!». I nazisti ci cascano, la fuga riesce: «Mentre ci allontanavamo, aspettavo i colpi alle spalle. Mi facevano male le ossa dal terrore». Dieci notti a marciare nei campi, stremati, fino a un rifugio sicuro. E l'addio: lei che si nasconde in una fattoria, lui che raggiunge la Resistenza; lei che dopo un po' lo crede morto e scappa in Svezia e poi a New York, lui che non la ritrova più e, finita la guerra, torna alla sua Nowy Targ.
«Chi non ha mai avuto una ferita — dice il Poeta — ride di chi ne porta i segni». Jerzy e Cyla vivono paralleli e lontani. Due famiglie ignare, due mondi, una cortina di ferro in mezzo. È il destino che decide di nuovo, una mattina di primavera del 1983, quando l'anziana Cyla, ormai vedova, chiacchiera con una colf polacca e le narra di come si salvò. «Ma una sera ho visto alla tv un uomo che raccontava la stessa storia!», è la folgorante rivelazione della domestica. Una telefonata: «Ho sentito — raccontava Jerzy — una donna che rideva, o forse piangeva: Juracku, sono io, la tua piccola Cyla...». L'appuntamento all'aeroporto di Cracovia. Lui che si presenta con 39 rose rosse, «quanti gli anni della nostra lontananza». Gli occhi che non sono stanchi di cercarsi. Quelli di lei, almeno. Si vedranno quella volta, e mai più. «Cyla mi chiese di lasciare tutto e d'andare a New York. Da giovani avevamo fatto progetti di sposarci, di vivere insieme. Ma scoppiò a piangere, quando le dissi: guardami, sono vecchio, ho una moglie, dei figli, dei nipoti, come faccio?». I numeri tatuati sul braccio erano ormai sbiaditi. Jerzy ieri è stato sepolto con una messa: era polacco, era cattolico.

La Stampa 24.10.11
Finora solo parole, parole, parole. In attesa dei prossimi crolli
Italia commissariata dopo i crolli L’Unesco pronta a salvare Pompei
Troppi ritardi, l’Organizzazione si occuperà del sito: caso unico al mondo
di Giuseppe Salvaggiulo


Promesse Un anno dopo l’allarme, non sono arrivati né soldi né tecnici Negli scavi c’è un solo archeologo I mecenati francesi Pronti a mettere 200 milioni, ma con garanzie che finora il ministero non è riuscito a dare
Patrimonio dell’umanità Turisti in visita a Pompei. In alto il commissario Ue Johannes Hahn, atteso per mercoledì in visita
Asalvare Pompei ci penserà l’Unesco. Tra un mese sarà siglato un inedito accordo con il ministero dei Beni Culturali con cui il massimo organismo internazionale in materia scende in campo per salvare il sito archeologico. Le formule ufficiali sono «collaborazione istituzionale e assistenza tecnica», ma la sostanza è che caso unico al mondo l’Unesco si occuperà in prima persona di un «patrimonio dell’umanità», svolgendo un ruolo che generalmente gli Stati sono in grado di esercitare da soli. «Niente scandalo né gelosie, in tanti campi l’Italia ricorre al “podestà straniero” spiega il sottosegretario Riccardo Villari -. Non ci sarà ingerenza nelle nostre prerogative, solo un rapporto più stretto».
Se non si tratta di «commissariamento» (come anche nel ministero si temeva), poco manca. Anche perché non è stata l’Italia a chiedere aiuto. L’idea è emersa nel corso dei colloqui che Unesco e ministero hanno avviato dopo i crolli di un anno fa. Il prestigioso organismo con sede a Parigi si è mosso subito dopo il cedimento della Scuola dei gladiatori, manifestando «profonda preoccupazione» e inviando una «missione di esperti» per valutare «lo stato di conservazione» di Pompei. Gli archeologi hanno redatto un duro rapporto, esprimendo «profondo rammarico» per la gestione del ministero e inviando a Roma una lista di raccomandazioni stringenti per evitare il declassamento dalla lista dei World Heritage Sites, in cui è stato inserito nel 1997. Infine, l’Unesco è intervenuta su richiesta degli imprenditori francesi disposti a donare fino a 200 milioni di euro per salvare Pompei, mettendoli in contatto con lo Stato italiano.
Il nuovo accordo, che secondo Villari «impedisce che il cartellino giallo dell’Unesco diventi rosso», va incontro alle richieste degli industriali francesi di precise garanzie su destinazione e procedure di utilizzo dei fondi che sono intenzionati a mettere a disposizione. Sin dai primi abboccamenti, la cordata transalpina ha chiarito: niente soldi a fondo perduto, niente cambiali in bianco, vogliamo un piano di intervento dettagliato altrimenti non mettiamo un euro. Ma il piano non c’era e i tempi si sono allungati. La presenza dell’Unesco garantisce che il ministero si adegui alle prescrizioni di tutela del dossier dell’organizzazione, con inevitabile sollievo francese.
L’intervento del «podestà straniero» (mutuando la definizione di Mario Monti) anche nel campo dei Beni culturali giunge dopo il nuovo e annunciato crollo di venerdì. Evento in sé di relativa gravità (i muri di Pompei si sgretolano come in ogni altra città), ma scoraggiante se contestualizzato. Tutti Unesco, soprintendenza, archeologi, ministero sapevano che alle prime piogge autunnali sarebbe accaduto. Il dramma, come sottolinea l’Associazione nazionale archeologi, è essere arrivati a fine ottobre senza aver combinato nulla.
Un anno dopo il crollo della Schola Armaturarum definito dal capo dello Stato Giorgio Napolitano «una vergogna per l’Italia», nessun piano straordinario di tutela è stato avviato. Al di là degli annunci e dell’attesa messianica su 100 milioni di fondi europei ancora da sbloccare, non un solo euro è stato stanziato e in compenso a Pompei sono stati sottratti 5 milioni (20% del bilancio) per ripianare i debiti del Museo di Capodimonte di Napoli. Nemmeno un tecnico dei 26 necessari (e 170 sbandierati) è stato assunto per lavorare su 65 ettari di scavi in cui opera un solo archeologo e l’ultimo mosaicista, mai sostituito, è andato in pensione dieci anni fa.

Repubblica 24.10.11
L’amico argentino
Saramago: “Vi svelo come ho scoperto Ernesto Sabato”
di José Saramago


"Se c´è uno scrittore al mondo la cui opera serva a turbare, allora eccolo: ci mette di fronte alla realtà con i romanzi"
"Ero in un caffè di Lisbona negli anni ´50 e un tipo strano parlava di lui e della sua letteratura Iniziò così l´avventura"
L´anticipazione/ Un inedito del Nobel portoghese accompagna l´autobiografia dell´autore sudamericano

Conosco l´opera di Sabato dagli anni Cinquanta; del XX secolo, chiaro. A quel tempo io avevo forse trentadue, trentatré anni, una cosa del genere. Durante una conversazione letteraria a Lisbona, in un caffè molto frequentato, un giorno in cui si parlava soprattutto di Parigi, degli artisti di Parigi, c´era un uomo, un tipo strano che parlava solo dell´Argentina e di Ernesto Sabato. Lì iniziò per me un´avventura intellettuale e al tempo stesso umana, la grande avventura che è stata entrare a poco a poco nell´universo, non solo letterario, ma psicologico, assiologico, di Sabato. Poi l´avventura è proseguita.
A quell´epoca io dedicavo parecchio tempo alla lettura di Montaigne e mi resi conto che fra Sabato e Montaigne, al di là della distanza temporale, culturale e geografica, c´era una somiglianza. Malgrado tutte le differenze, c´era qualcosa che avvicinava Sabato e Montaigne. Forse in quel momento non lo capii chiaramente: Montaigne era Montaigne e Sabato un autore che stavo appena scoprendo. Pertanto Montaigne aveva dalla sua il prestigio del genio e del tempo trascorso. Ma la differenza che scoprii fra i due, confermata poi nel corso del tempo, è che mentre Montaigne pratica un genere di scetticismo sereno – Montaigne infatti è uno scettico – Sabato, pur essendo scettico e pessimista, non è affatto sereno.
Sabato ha vissuto un parto, una tempesta di speranze che concerne la sua personale relazione con il mondo ma, soprattutto, con quello che significa per lui tale relazione; vale a dire, il mondo come qualcosa che lui si è dovuto sforzare di capire, di comprendere. Come tutti, anche lui si è trovato di fronte un mondo opaco. Ma al contrario di quasi tutti, Sabato si è rifiutato di accettare questa opacità. E ciò si manifesta nella sua opera.
È un aspetto a cui non si è prestata forse sufficiente attenzione; seppur costante, non è stata però sufficiente. È un lavoro per quelli che verranno.
Da Il tunnel a L´angelo dell´abisso, passando per quel capolavoro sotto ogni aspetto che è Sopra eroi e tombe, Sabato ha capito che il romanzo poteva essere quella sorta di luogo dove tutto confluisce, dove tutto deve confluire perché il mondo possa essere compreso. Dato che il romanzo è il luogo per eccellenza dei conflitti umani, tutto deve confluirvi perché il mondo possa essere capito. Allo stesso tempo però voglio segnalare l´impegno di Sabato nella saggistica, con opere fondamentali come Lo scrittore e i suoi fantasmi, Hombres y engranajes, Apologías y rechazos. I saggi di Sabato sono di una lucidità, di una chiarezza e di una giustezza veramente impeccabili. Per esempio, io raccomanderei la lettura dei due saggi sull´istruzione a chi ha la responsabilità di educare i giovani.
Con Sabato è accaduto il contrario di ciò che sfortunatamente succede di solito. Lui non è uno di quegli scrittori convinti di essere qualcuno che deve essere ascoltato. Sì, ha scritto per essere ascoltato, per essere compreso, ma non per questo il suo modello di lavoro ha smesso di essere silenzioso, tormentato, fedele a ciò che pensa; è come se avvenisse all´interno di un´arnia nella quale, da tutta l´amarezza del mondo, si estrae il miele della comprensione, dell´avvicinamento: il senso di umanità e l´umanesimo.
Il suo atteggiamento nei confronti dell´esistenza non è quello dei curiosi o degli intellettuali; nella sua vita Sabato ha vissuto tutto quello che si può vivere: attraverso l´amore, la politica, l´arte e la scienza, perché non dobbiamo dimenticare che iniziò la sua carriera nel campo della fisica. Ma a quanto pare tutto quello che visse non fece altro che spingerlo verso la creazione letteraria, poiché alla fine giunse il momento in cui capì che aveva bisogno di esprimersi, di tentare di offrire agli altri quello che aveva vissuto. La scienza, evidentemente, è del tutto estranea a queste cose. La scienza è una sorta di spazio la cui atmosfera deve essere purificata e dove tutto si riduce a formule, tutto consiste nello scoprire, riconoscere o inventare le interazioni fra una cosa e l´altra, lasciando fuori tutta l´umanità, l´umanità sofferente. L´uomo che non sa dove sta andando, Sabato stesso, l´uomo che non sa nemmeno da dove è venuto; che ignora persino quello che stanno facendo di lui, anche se in quel momento lui stesso e la sua vita sono per questo universali.
L´opera di Sabato però non è stata scritta per tranquillizzare nessuno. Che nessuno vi si accosti dunque per soddisfare il proprio bisogno di tranquillità. No, se c´è qualcuno, se c´è uno scrittore al mondo, oggi, la cui opera serva a turbare, a dire «non fidarti di quello che stai pensando, perché forse non è altro che un miraggio che tu alimenti da solo, per te stesso, per rinchiuderti all´interno di una morale che ti protegge», quello è Sabato. Lui butta giù il muro e ci mette di fronte la realtà, quella terribile realtà che da un lato è l´uomo e dall´altro la società umana. È questo, a mio modo di vedere, il significato difficile, il significato profondo dell´opera di Sabato. E questo è bene. Perché abbiamo bisogno che ci venga tolta quella copertura. Circondati come siamo da complicazioni, se qualcosa non ci coinvolge personalmente diciamo che non ha niente a che vedere con noi, che non ci appartiene. Ma in tutto quello che succede abbiamo una parte di responsabilità. E questo è un aspetto di profonda provocazione presente nell´opera di Sabato, che in fondo consiste nel dire al lettore: tu sei responsabile. E se si domandasse a Sabato: «Ma perché mai sarei responsabile? Cos´è che ho fatto?», la sua stessa opera potrebbe risponderci: «Niente, non hai fatto niente, ma anche se non hai fatto niente hai una parte di responsabilità. Tu non hai colpa; non bisogna confondere il senso di colpa che hai dentro, che puoi avere o non avere, con la responsabilità».
Perché la responsabilità ce l´abbiamo tutti, non possiamo dimenticarla; e non possiamo dire che è di un altro, che è lui ad avercela.
© Eredi , 2011 / José Saramago, 2004 © SUR, 2011 Tutti i diritti riservati (Traduzione di Raul Schenardi)

Prima della fine. Racconto di un secolo di Ernesto Sabato Gli struzzi Einaudi pp. 163  € 9,81

domenica 23 ottobre 2011

l’Unità 23.10.11
Legge 194, la minaccia delle troppe obiezioni
di Silvia Ballestra


Un diritto conquistato, acquisito e in via di estinzione: il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza sancito dalla legge 194. L’allarme arriva dai ginecologi della «Laiga», (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’ Applicazione della 194) ed è chiaro e semplice: i medici che praticano l’aborto nelle strutture pubbliche italiane non sono più di 150, mentre la percentuale di obiettori supera il 70 per cento. A farla breve, tra cinque anni in Italia sarà impossibile abortire legalmente in strutture pubbliche, cioè si cancellerà un diritto e si affosserà una legge che ha dato eccellenti risultati (aborti entro la dodicesima settimana più che dimezzati dal 1982).
Perché accade questo? Possibile che tutte le obiezioni di coscienza abbiano solide radici morali o religiose. Certo che no. Con i non obiettori costretti a rispondere da soli alla domanda di interventi, infatti, accade che chi obietta abbia più possibilità di carriera, promozioni più facili, agevolazioni, promozioni più veloci, complici le gerarchie sanitarie.
Naturalmente intervenire sarebbe semplice e basterebbe qualche minimo ritocco alla legge. Per esempio continuare a garantire ai
medici (e anestesisti, paramedici, ecc.) il diritto all’obiezione di coscienza, vincolandolo però ad alcune condizioni (scatti meno frequenti, minor retribuzione, limitate possibilità di carriera). Potremmo in questo modo salvaguardare un diritto che ha salvato la vita a molte donne e al tempo stesso non è un dettaglio verificare la sincerità di tante scelte «morali» che nascondono dietro le sbandierare convinzioni pro-vita le loro egoistiche aspirazioni pro-carriera.

l’Unità 23.10.11
Tagli drastici. Minacciato il ridimensionamento del Fondo: per il finziamento diretto -84%
Giornali politici La Fieg vuole colpirli, la Fnsi per protesta abbandona la trattativa
Editoria, la scure del governo: pluralismo a rischio
di Roberto Monteforte


Pesanti tagli al Fondo per l’editoria annunciati dal governo. Il finanziamento diretto ridotto dell’84%. Linea condivisa dalla Fieg. La protesta della Fnsi: sono a rischio giornali e posti di lavoro.

Più che una riforma dell’editoria pare essere la mattanza del pluralismo informativo quella a cui sta lavorando il governo. I tagli preannunciati sono talmente pesanti da far protestare anche il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, preoccupato per il destino di decine di periodici diocesani. «La drastica e sistematica riduzione del fondo per l’editoria non solo mette a rischio di sopravvivenza decine e decine di testate, e quindi centinaia di posti di lavoro – ha affermato al convegno nazionale della Federazione Italiana dei settimanali cattolici – ma determina un impoverimento del pluralismo informativo, del dibattito pubblico, del patrimonio culturale e informativo del Paese».
VOCI AUTONOME
Non è solo la crisi economica da fronteggiare. Siamo di fronte al tentativo di usare la crisi e di strumentalizzare l’«effetto Lavitola», il “faccendiere” direttore de l’Avanti, per tentare di cancellare quella parte dell’editoria “debole”che non è quotata in Borsa, non è di proprietà dei grandi gruppi industriali e bancari. Che rappresenta una voce originale e autonoma, spesso libera e scomoda, legata ai territori e alla società, alle idee e alle diverse culture presenti nel nostro Paese, che ne arricchisce il pluralismo. Testate storiche come Il Manifesto, Il Salvagente, Avvenire e la stessa Unità, penalizzate dal mercato pubblicitario, sono realmente a rischio.
La minaccia ha preso forma nella audizione di Paolo Bonaiuti, lo scorso 19 ottobre, alla commissione Cultura della Camera. Il sottosegretario alla presidenza ha annunciato che per il 2012 il Fondo per l’Editoria, già ridotto a 194 milioni di euro, sarà drasticamente tagliato (dal 30 sino al 50 per cento). Confermando che su quel fondo continueranno a pesare, per oltre 40 milioni di euro, la convenzione Stato-Rai e il rateo con le Poste italiane, pari ad un’altra cinquantina di milioni. L’effetto sarebbe devastante. I conti li fa Mediacoop, l’associazione delle cooperative editoriali: tolti i 75 milioni dei tagli annunciati e gli altri 95 già “impegnati”, al finanziamento “diretto” resteranno circa 26 milioni di euro. Un 16% di quanto avuto l‘anno precedente per ciascun soggetto. Praticamente briciole.
Ma questo è solo un aspetto, anche se drammatico, del problema. Perché appare sempre più evidente l’obiettivo perseguito da editori (la Fieg) e governo: utilizzare la crisi per cancellare tutto il comparto dell’editoria no profit, di idee e cooperativa, compresa quella “politica”. Un progetto anticipato lo scorso 28 ottobre dal presidente della Fieg, Carlo Malinconico, all’assemblea generale del settore, promosso dal comitato per la difesa del pluralismo e la libertà d’informazione, Mediacoop e Fnsi. Proprio in quella occasione il sottosegretario Bonaiuti aveva annunciato la sua «rivoluzione» dell’editoria. Si era dato quarantacinque giorni per ridisegnare le regole del settore in un confronto serrato con tutti i soggetti coinvolti. Aveva indicato come obiettivo strategico l’innovazione e l’occupazione. Il presidente della Fieg aveva chiaramente indicato quali sarebbero stati i “desiderata” degli editori: basta con l’anomalia dell’editoria assistita e con la “concorrenza sleale”, le risorse disponibili sarebbero dovute andare, senza discriminazioni, a sostegno dell’innovazione e dell’occupazione. Nella sostanza si voleva cancellare l’obiettivo politico della tutela del pluralismo e quindi del sostegno all’editoria “debole”. Sono seguiti gli incontri tra tutti i soggetti al tavolo apertosi presso la Presidenza del consiglio in un confronto segnato dall’incertezza sulle risorse disponibili. Si è arrivati, così, alle dichiarazioni di Bonaiuti alla commissione Cultura del 19 ottobre e all’incontro tecnico di Palazzo Chigi del giorno dopo, il 20 ottobre. Quel giorno il Sole 24 ore ospitava una significativa intervista a Malinconico che ribadiva, punto per punto le richieste degli editori. Con un’aggiunta: il settore va “depurato” dai giornali politici. Siano i partiti a farsene carico. I “veri editori non hanno nulla a che fare con l’immagine opaca, gli sprechi e i privilegi di testate per cui si negozia con il potere politico, indebitamente, l’erogazione dei finanziamenti”. La Fieg cavalca l’antipolitica e cerca di mettere le mani sulle poche risorse disponibili. Una richiesta accolta da Palazzo Chigi. Comporterebbe l‘eliminazione immediata, da gennaio, di 100 testate. Indisponibile Mediacoop. Si è ritirato dal tavolo il segretario Fnsi, Franco Siddi non disponibile a farsi complice dell’”eutanasia dei giornali”. Il confronto ora passa al Parlamento. Martedì prossimo 25 ottobre inizia la discussione al Senato sulla legge di stabilità. E sempre a Palazzo Madama giovedì 27 ottobre si terrà l’assemblea del comitato per la difesa del pluralismo e la libertà d’informazione.

La Stampa 23.10.11
E sul Daspo per i violenti e la flagranza differita il ministro Maroni incassa il “sì” delle opposizioni
Ma dal pacchetto sicurezza esce la fidejussione obbligatoria
di Francesco Grignetti


Sono andati molto bene i discreti colloqui del ministro Roberto Maroni con le opposizioni sul Pacchetto Sicurezza in preparazione contro le manifestazioni violente. Talmente bene che il ministro sta pensando di tagliare corto sui tempi parlamentari e di portare a un prossimo consiglio dei ministri un decreto legge immediatamente esecutivo. Il titolare dell’Interno e il sottosegretario Alfredo Mantovano hanno contattato nei giorni scorsi i loro interlocutori nel Pd e nel Terzo Polo. Hanno incassato diversi «sì» e un paio di «no». Le opposizioni sono contrarie alla proposta di permettere le manifestazioni solo in presenza di una fidejussione e sono altrettanto contrarie a istituire nuovi reati, considerando più che sufficiente quel che c’è. Si sono detti sostanzialmente d’accordo, con leggere sfumature tra Pd e Terzo Polo, sul resto delle proposte di Maroni: su una copertura assicurativa a spese dello Stato per gli agenti di polizia che faccia fronte a eventuali spese legali, sul «Daspo» per i manifestanti violenti, sulla flagranza differita per eseguire gli arresti, e perfino sul fermo di polizia in caso di inequivocabili preparativi alla guerriglia urbana.
Con buona pace dell’associazione «Giuristi democratici», infatti, che ha diramato un comunicato allarmatissimo («Misure che ci farebbero ritornare all’epoca fascista»), Emanuele Fiano a nome del Pd ha dato luce verde a diverse proposte di Maroni, sia pure con grandissima cautela. «Sul fermo - dice - se ne può parlare, ma va circostanziato meglio. Se si tratta di fermare un ragazzo perché ha nello zaino una maschera antigas, non va bene. Non è il segno che voglia abbandonarsi a violenze, piuttosto che teme i lacrimogeni e può essere un perfetto non-violento. Diverso se si incontra un furgone che porta cinquecento biglie, mazze di picconi e fionde. Quel camion che è stato intercettato al mattino del 15 ottobre sarebbe stato meglio fermarlo».
Secondo il Pd, va approfondito meglio anche il «Daspo» per manifestanti, ma l’idea va bene. «Un conto è impedire di partecipare a un divertimento come la partita. Altro all’esercizio di un diritto costituzionale». Il Pd resta fermo contro la fidejussione per chi manifesta e non accetta nemmeno di reintrodurre l’autorizzazione della procura generale di Cassazione per poter processare un poliziotto. «Ne va dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge».
Anche l’Udc è più che disponibile ad appoggiare le proposte di Maroni. Al partito di Casini è piaciuta la manifestazione statica della Fiom in piazza del Popolo. «Si può insistere così in tutta Italia». No all’obbligo di fidejussioni pure da loro. «Ma siamo disponibili alla copertura assicurativa per gli agenti a spese dello Stato», anticipa Roberto Rao. E magari anche alla tutela legale sotto forma di autorizzazione del Pg di Cassazione. L’Idv, da parte sua, ha perfino presentato un ddl che ha il fermo preventivo, ma con la sostanziale differenza che non è una misura di polizia quanto del magistrato.
Un successo quasi pieno, per Maroni. Che di fatto insiste solo per il filtro ai processi, annunciando di voler garantire meglio i tutori dell’ordine pubblico «in modo che non ci sia un pm che li mandi in galera».

Corriere della Sera 23.10.11
Pd, diciassette correnti in un partito solo
Tra Quarantenni, Dem e Modem ci si divide sul leader del futuro: Renzi o Zingaretti?
di Maria Teresa Meli


L'incontro più importante per il Partito democratico sarà anche il meno pubblicizzato: si terrà domani, a Firenze. In quest'orgia di iniziative che le varie correnti del Pd stanno mettendo in piedi, potrebbe passare inosservato: nel capoluogo toscano si vedranno Renzi e Zingaretti, ossia i due futuribili e possibili leader del dopo-Bersani.
Il primo non nasconde le sue aspirazioni politiche. Il secondo lascia intendere di pensare solo al Campidoglio, ma nel suo partito sono sempre di più quelli che lo spingono a rompere gli indugi: lo dimostrano i tre minuti di ovazioni che ha ricevuto a Bologna, ospite dell'iniziativa organizzata dal tandem Civati-Serracchiani.
Attorno a loro — o contro di loro — si muovono le molte correnti del Pd. Già, molte, anzi moltissime: se ne possono contare ben diciassette, roba da far impallidire la Dc del tempo che fu. Il moltiplicarsi delle componenti (con una buona dose di ipocrisia preferiscono chiamarle così al Partito democratico) non deve però sorprendere più di tanto: c'è il rischio che si voti nel 2012 e la corrente è un comodo paracadute per chi spera di essere candidato in Parlamento. I giovani (per tali, in Italia, si intendono i quarantenni e i trentenni) sono quelli più in movimento. Si possono dividere in due grosse categorie, i semi-rinnovatori e i rinnovatori. I primi preferiscono non mettere in discussione il segretario, anche se ovviamente pensano al dopo. Tra di loro, particolarmente battaglieri i cosiddetti giovani turchi, o anche i Quarantenni. Sono dalemiani e bersaniani come Stefano Fassina, Andrea Orlando e Matteo Orfini.
Il 15 ottobre hanno indetto un convegno all'Aquila e rappresentano l'ala sinistra del partito. Sono gli anti-Renzi per eccellenza. Lo temono e contrastano la sua linea di politica economica, simpatizzano per Zingaretti, che hanno invitato al loro incontro. Il sindaco di Firenze, invece, è il rinnovatore a tutto tondo, quello che sogna il Pd a vocazione maggioritaria. E infatti confida agli amici: «Se mi candidassi prenderei da solo molti più voti moderati di quelli che Casini potrebbe trascinare a sinistra». Renzi non ha paura di dire che le pensioni vanno riformate e che l'articolo 18 non è un tabù. Anche per questa ragione piace a molti Modem, ossia alla principale corrente di minoranza del Pd. A lui guardano con interesse Gentiloni e Realacci, che come lui provengono dalla Margherita. Su Renzi potrebbe fare un pensierino persino Rutelli.
E sempre sul sindaco di Firenze, con grande discrezione, ha appuntato il suo interesse Veltroni. Non a caso alcuni esponenti che fanno parte dell'area dell'ex segretario simpatizzano con Renzi. Dice, per esempio, Pietro Ichino: «È un errore fare i cordoni sanitari attorno a lui». Sulla politica economica, infatti, c'è feeling tra il sindaco e i veltroniani. È ovvio che lo segua con attenzione uno come Giorgio Tonini, secondo cui «non è rassicurante che le interviste dei responsabili economici del Pd coincidano con quelle di Vendola e Ferrero» (e ogni riferimento a Fassina è puramente voluto). Ma anche Enrico Letta (il quale, secondo i maligni, vorrebbe Bersani a Palazzo Chigi per poter guidare il partito), e i suoi sostenitori apprezzano alcune prese di posizione di Renzi, lontane anni luce da quelle della Cgil. E a ben vedere il manifesto dei T-party (i trentenni guidati da Gianluca Lioni, responsabile innovazione del partito), che ricalca le linee di politica economica di Giavazzi e Alesina, ha molti punti di contatto con il Renzi-pensiero.
I T-party, giovani franceschiniani e lettiani, rappresentano l'ultima nata tra le correnti del Pd e sono ancora in bilico tra i rinnovatori e i semi-rinnovatori. A questa seconda categoria appartengono Serracchiani e Civati: loro non contestano Bersani e invece ce l'hanno a morte con Renzi. Che è anche la bestia nera di Rosy Bindi: la presidente gioca una partita in proprio e sogna Palazzo Chigi. Ancora incerta l'area Marino: ogni tanto sta con Bersani, ogni tanto prende le distanze. Goffredo Bettini, invece, con il suo movimento «Oltre i partiti», pensa a un nuovo soggetto politico, ma resta legato a Zingaretti. Il quale Zingaretti sarebbe il candidato ideale anche di Dario Ginefra, che con una quarantina di giovani deputati, tra cui il lettiano Boccia, sta conducendo una battaglia per imporre il limite di tre mandati parlamentari.
In questo quadro, Bersani gioca su due tavoli. Da una parte con un drappello di fedelissimi, il cui leader è Vasco Errani, dall'altra con il più eterodosso Enrico Rossi, propugnatore dell'alleanza di sinistra con Sel e Di Pietro. D'Alema e i suoi per ora stanno con il segretario. Parisi sta per conto proprio, però sarà a Firenze, da Renzi. Franceschini e Fassino, leader dell'area Dem, non hanno preso posizione sul futuro candidato premier, ma si sono riavvicinati ai veltroniani. Un discorso a parte meritano poi gli ex ppi di Fioroni: loro sperano nella deflagrazione dei due poli e nella nascita di un nuovo soggetto politico, in cui entrerebbero a fare parte, con la benedizione di Bonanni, insieme ai leghisti alla Tosi e ai moderati del Pdl, come Pisanu, Scajola, ma anche Sacconi.
In questa confusione si muovono Renzi e Zingaretti, bene attenti a non farsi risucchiare dai giochini di partito e dalle correnti, e intenzionati a non incrociare le spade tra di loro. Non ora, almeno, perché in futuro potrebbero essere costretti a farlo.

Corriere della Sera 23.10.11
«Io e Renzi non saremo D'Alema e Veltroni»
di Francesco Alberti


BOLOGNA — A Matteo Renzi, suo ex socio in rottamazioni e ombra lunga in questo Pd segnato da fibrillazioni e riposizionamenti, manda a dire che lui non si presterà al giochino degli eterni duellanti: «Io e Renzi non saremo i D'Alema e i Veltroni del futuro, ci sono stati anche troppi Coppi e Bartali nella storia del centrosinistra...». Eppure Pippo Civati, ex rottamatore e ora aspirante rinnovatore di quello che dovrebbe essere «l'altro Pd», sa bene che parte del successo di questa kermesse bolognese, che da ieri mattina ha portato più di un migliaio persone sotto il mega tendone di piazza Maggiore, deriva anche dall'inevitabile contrapposizione con il «Big bang» che l'ex amico Renzi ha annunciato per il prossimo weekend a Firenze. «Matteo ha deciso di fare da solo — confessa Civati — e così io e Debora Serracchiani siamo andati avanti, ormai siamo una coppia di fatto del centrosinistra...».
Bye, bye, Renzi. A vederli sul palco, tra una citazione di Saviano e uno Scilipoti in video degno del miglior Totò, Pippo e Debora, sorridenti e affiatati, potrebbero avere un futuro a Sanremo: «Qui non si sfascia niente, la gente ci chiede di costruire». Il segretario Bersani, invitato e atteso (si saprà solo oggi), non è l'avversario da abbattere. Civati si dice pronto a sostenere la sua candidatura a Palazzo Chigi, «se ci sarà lui», tenendosi però uno spiraglio nel caso di primarie aperte: «Potremmo presentare un nostro nome...». Certo, non gratis. Perché in questo Pd premiato dai sondaggi più per demeriti altrui che meriti propri, c'è molto da fare: conflitto d'interesse, riforma elettorale, ricambio della politica. «Temi sui quali il partito si è mosso lentamente...». Così sul referendum elettorale, dove «avremmo voluto più coraggio da Bersani», fino alle future alleanze: «Non c'è solo la cartolina da Vasto, ci sono anche quelle da Napoli e Milano: il nuovo Ulivo deve essere un Ulivo nuovo», affonda Civati. Non sarà una passeggiata. Rosy Bindi, ad esempio, non è d'accordo con la proposta della Serracchiani di un limite al numero dei mandati: «Fosse stato così, non avremmo avuto Moro, Berlinguer, la Anselmi o Nilde Iotti...». E il governatore emiliano Errani ci aggiunge il pepe: «Innovazione non è solo un dato generazionale...».

Repubblica 23.10.11
Alla convention applausi per De Magistris, ovazione per Zingaretti
Né Renzi né D'Alema, né Veltroni nel Pd arrivano "i ricostruttori"
Bologna, pienone per Serracchiani e Civati
di Marco Marozzi


BOLOGNA - Non rottamatori: ricostruttori. Non sopportano D´Alema e Veltroni, non reggono nemmeno il «personalismo» di Matteo Renzi. Pippo Civati e Debora Serracchiani, nouvelle vague Pd, hanno scelto per la loro convention Bologna, «una città laboratorio». Contestano ma non rompono, sperano che oggi arrivi Pierluigi Bersani e proclamano «un culto della personalità» per Romano Prodi. Entusiasmo diplomatico: non ci saranno né il segretario del Pd, né il fondatore dell´Ulivo, i cui sodali principi, Arturo Parisi e Giulio Santagata, sono annunciati alla convention assai più hard il 28 ottobre nella Firenze del rottamatore Renzi. «Io e lui non saremo i D´Alema e Veltroni del futuro. Anche perché non sapremmo chi scegliere, chi fa D´Alema e chi Veltroni» dice il consigliere regionale lombardo Civati, che ha preso le distanze dal sindaco di Firenze dopo un pezzo di strada insieme.
I ricostruttori si sono riuniti a Bologna, per ragionare su «Il nostro tempo» e il loro futuro, in un tendone strapieno fino a tarda sera e che riapre oggi, in piazza Maggiore. Cinquecento persone nei momenti di stanca, 1.200 per molte ore. «A me la parola rottamatori non è mai piaciuta- ha esordito Debora Serracchiani - In questo momento ci chiedono di ricostruire l´Italia, non di affossarla». Nel gioco di equilibrismi, Civati lancia anche un avvertimento sulla scelta del candidato premier: «Se c´è Bersani, il Pd vota per Bersani. Invece, se ci saranno primarie alla francese, vedremo come dare il nostro contributo». Ovvero, se non ci si accorda bene, alle elezioni primarie ci sarà un rappresentante dei quarantenni contestatori. Rottamatori o ricostruttori. Il presidente del consiglio della Regione Emilia-Romagna Matteo Richetti, che ieri era a Bologna e il 28 sarà a Firenze, amico di Renzi e ponte verso i ricostruttori, attacca: «Le primarie non possono che essere aperte. Se non lo sono, allora i partiti si assumono le responsabilità di selezionare la classe politica, ma in questo caso si impedisce agli elettori di potersi esprimere».
«Prossima Fermata Italia» si chiama il rassemblement di Civati e di Debora Serrachiani, eurodeputato con mare di preferenze dopo l´attacco ai vecchi capi del Pd, segretaria del Friuli. Ieri sono stati salutati dal presidente della Regione, Vasco Errani, e dal segretario del Pd, Stefano Bonaccini, che hanno onorato chi li ha invitati e insieme definito Bersani il portatore del «progetto giusto», e dal sindaco Virgilio Merola, meno legato alle tradizioni bersanian-prodiane.
Grande star il napoletano Luigi De Magistris. Ovazioni per il romano Nicola Zingaretti, vissuto come il successore di Bersani. «Evviva a Civati e Serracchiani, - ha scaldato la platea - perché hanno dimostrato che è possibile discutere, ma anche unire e innovare. Un grande elemento per un movimento che si è troppo lacerato negli ultimi tempi». Una presenza coraggiosa quella di Rosy Bindi. Oggi tocca a Dario Franceschini e al toscano Enrico Rossi. Civati ha insistito sulla necessità di mandare a casa tutti i parlamentari dopo al massimo tre mandati, il renziano Richetti li ha abbassati a due. La presidente del Pd Bindi ha innalzato la storia: «Nessun partito seleziona la propria classe dirigente con una applicazione formale della regola e senza riservarsi uno spazio di discrezionalità politica», altrimenti non avremmo avuto Enrico Berlinguer e Aldo Moro. «E Napolitano non sarebbe dov´è se fosse stato consegnato all´oblio dopo tre mandati. Serve rinnovamento, ma anche meriti e competenza».
Né Civati né Richetti hanno mostrato di ascoltarla, uno ha citato Ciampi, per pochissimo in Parlamento, l´altro ha sparato: «Non prendiamo più in giro gli elettori molto sensibili su questi temi».
La platea era stile Michele Santoro, movimentista e mobile, diversissima e molto più giovane di quella che due giorni fa a due passi dal tendone aveva ascoltato Massimo D´Alema ricordare Pci e Dc. Civati e Debora Serracchiani hanno imitato Fabio e Saviano. «Vado via se cominciamo a litigare il giorno dopo le elezioni», «Resto se combattiamo il benedetto conflitto di interessi».

il Riformista 23.10.11
Dove vanno e con chi i radicali ?
di Emanuele Macaluso

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il Riformista 23.10.11
«Nessuna trattativa aperta mica siamo Responsabili»
Radicali. Intervista a Cappato: «Non andiamo con il Cavaliere. Ma ormai gli interlocutori per i democrat sono l’Udc e Scienza e Vita».
di Laura Landolfi

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il Riformista 23.10.11
La mediazione laica non è il metodo, è la soluzione
di Mario Tronti

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l’Unità Dossier 23.10.11
Piazza e democrazia/ 1
Dall’Agorà al conflitto partiti-movimenti
La lunga e tormentata storia del luogo originario della politica. Destra e sinistra lo hanno attraversato Le autonomie sociali sono la sfida della modernità
di Giuseppe Vacca

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l’Unità Dossier 23.10.11
Piazza e democrazia/ 2
Da Atene a New York
Una sola mobilitazione figlia della crisi
La scintilla può venire dall’indebitamento privato o dal debito pubblico ma il nodo è sempre lo stesso: la precarizzazione, la svalutazione del lavoro il mercato globale che si affranca dai vincoli della democrazia
di Michele Prospero

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l’Unità Dossier 23.10.11
Piazza e democrazia/ 3
Black Bloc, quella galassia che chiama alla ribellione contro Stato e capitalismo
Anarchici, centri sociali, precari e studenti Dietro i passamontagna
di chi ha messo a ferro e fuoco Roma un misto di disagio sociale e attivismo violento. Dal Wto di Seattle a piazza San Giovanni, passando per la Val Susa
di Massimo Solani

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l’Unità Dossier 23.10.11
Piazza e democrazia/ 3
Quando la sinistra italiana inventò la piazza politica
di Bruno Gravagnuolo

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l’Unità Dossier 23.10.11
Piazza e democrazia/ 3
Ma nell’agorà virtuale il nostro sguardo è orientato in anticipo
Il termine «piazza», dal latino «platea», significa spazio grande e sgombro dove l’occhio può muoversi liberamente. In Rete non è così: il portale ci dà consigli mirati, il motore di ricerca completa le parole prima che le digitiamo
di Massimo Adinolfi

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Repubblica 23.10.11
Se torna lo Stato
di Bernard Guetta


È in atto un cambiamento radicale di portata mondiale, l´inizio di un´altra epoca. Tornano ai comandi i pubblici poteri e la politica, dopo trent´anni di liberismo trionfante nel segno del dogma «Lo Stato non è la soluzione ma il problema», che affidava il benessere generale alla saggezza dei mercati. Questo cambiamento, lo abbiamo constatato ora in Francia con la stupefacente affluenza alle primarie della sinistra. Certo, questo successo dei socialisti va ascritto in buona parte all´ostilità nei confronti di Sarkozy, a livello nazionale e persino all´interno del suo schieramento, nata precisamente dalla sua fascinazione per il liberismo. Ma il vento della fronda non soffia solo in Francia. Da un´elezione regionale all´altra, la destra tedesca continua a perdere terreno. La Danimarca è tornata recentemente alla sinistra. La destra italiana si sta sfaldando, incancrenita dalla mitizzazione del successo finanziario incarnato da Berlusconi. Ora è la volta degli Stati Uniti.
Sciamato in Europa e rimbalzato in Israele, quest´inizio di rivolta morale che ha preso il nome di movimento degli «indignati» si sta espandendo dall´una all´altra costa dell´America, e coinvolge i sindacati. La sua risonanza nell´opinione pubblica è tale da aver indotto Obama a legittimarla, dichiarandola espressione di «una diffidenza largamente condivisa verso il funzionamento del sistema finanziario».
Non poteva dir meglio. Nulla è più evidente, e cosa ancor più significativa, Obama non ha aspettato questo movimento per focalizzare la sua campagna del 2012 sulla redistribuzione della ricchezza attraverso le imposte, proponendo una maggior tassazione dei più ricchi e delle grandi imprese a favore del finanziamento di investimenti collettivi. Dai tempi di Roosevelt, dagli anni 30, è la prima volta che un dirigente americano sceglie di puntare tutto sulla difesa dei meno abbienti e sulla denuncia del denaro re. L´esigenza di protezione e di equità sociale si afferma persino in Cina, dove i conflitti sociali si moltiplicano proprio quando il liberismo fa conseguire progressi spettacolari. Anche nel mondo arabo, sono state le politiche di liberalizzazione economica a far precipitare le rivolte popolari. Ovunque si volta pagina. I cittadini aspirano ovunque al ritorno a uno Stato arbitro, protettore e garante a lungo termine; e il motivo è chiaro.
Se nel trentennio del dopoguerra il New Deal occidentale aveva finito per frenare l´innovazione con l´eccesso di regolamentazioni sociali, i successivi tre decenni di liberismo, con l´imperativo supremo del profitto immediato, hanno innescato una crisi mondiale e mandato in frantumi il consenso sociale, indebolendo le economie occidentali a forza di scioperi e delocalizzazioni industriali. In Europa e in America, il costante sviluppo dei sistemi di protezione sociale imposto, alla fine della guerra, dalla paura del comunismo e dalle esigenze della ricostruzione, aveva favorito lo statu quo a discapito della modernizzazione, privilegiando un´industria pesante sempre più obsoleta al ridispiegamento di capitali in nuove tecnologie. Di fatto, il crescendo di protezione sociale e regolamentazione del lavoro minacciavano di sclerosi le economie occidentali. D´altra parte, lasciando le mani libere al capitale il liberismo gli ha consentito di spostare le fabbriche verso i Paesi a più bassi salari, di rendere il lavoro sempre più precario, di licenziare in nome delle borse, di far ridurre le tasse sui redditi più elevati, e affrancarsi da ogni regola conducendo un attacco frontale contro la tutela sociale. E ha destabilizzato l´economia occidentale, anteponendo i giochi finanziari alla produzione industriale.
Siamo arrivati così al crac del 2008, e quindi alla crisi dei debiti sovrani. E quindi alla massiccia contestazione di un´ideologia e dei suoi dogmi, secondo i quali più i ricchi si arricchiscono e meglio vanno le cose per tutti, con la mano invisibile del mercato che provvede a regolamentare l´economia mentre – così si diceva – le regole dEllo Stato non facevano altro che ostacolarne lo sviluppo. Ma queste cose, oggi non le dice più neppure l´Fmi o la Banca Mondiale, non le dicono gli stessi Nicolas Sarkozy e Angela Merkel. Il bisogno di Stato è ormai talmente profondo che gli stessi mercati aspirano a uno Stato europeo, e le sinistra del compromesso sociale riprendono quota, sull´onda di questo cambiamento epocale.
Traduzione di Elisabetta Horvat

La Stampa 23.10.11
Pompei
Crolla un muro, scavi senza pace
Nuovo cedimento nel sito archeologico più famoso al mondo: è il sesto in due anni
di Antonio Salvati


Non doveva succedere più, eppure è successo ancora. Dopo la drammatica stagione dei crolli dello scorso anno, venerdì notte la Pompei antica ha perso un altro pezzo. A venire giù la parte superiore di una porzione del muro di cinta che si dispiega dopo la Porta di Nola. «Il cedimento - spiegano dalla Soprintendenza - consiste nel distacco di un piccolo tratto di circa quattro metri del paramento esterno della parte superiore del muro di cinta in opera incerta». L’« opus incertum», la tecnica edilizia romana molto diffusa a Pompei anche grazie alla qualità della pozzolana di origine vulcanica presente nel sottosuolo. La zona di Porta di Nola e della sua cinta muraria è tra le meno battute dai classici tour turistici e si trova nell’area nord degli Scavi. Dal varco si entra nell’area funeraria, con tre tombe tra cui quella di Obellio Firmo la cui casa, nel 2007, fu danneggiata in un misterioso raid vandalico.
I tre metri cubi di macerie sono stati posti sotto sequestro, così come tutta l’area, dai carabinieri su ordine della procura di Torre Annunziata. Negli uffici giudiziari della città oplontina sono ormai diversi i fascicoli di inchiesta sui crolli e sulla gestione degli ultimi anni degli Scavi di Pompei. «Appena l’ufficio rientrerà nella disponibilità dell’area - ha assicurato la Soprintendenza - saranno attivati i lavori di messa in sicurezza della struttura archeologica per verificare l’entità del danno che ha comunque una portata limitata e contenuta». Le cause del crollo sono da addebitare alla pioggia torrenziale caduta nelle ultime ore. E il fatto che la Soprintendenza stessa, dopo il nubifragio, avesse avviato diversi sopralluoghi di verifica sull’intera area archeologica, la dice lunga sul rischio che corre la Pompei antica ogni volta che la stagione delle piogge fa capolino. «Ho più volte espresso tutta la mia preoccupazione per gli effetti che avrebbero potuto provocare le prime violenti piogge su Pompei. - ha spiegato il ministro per i Beni e le attività culturali, Giancarlo Galan - Proprio per questo abbiamo lavorato per presentare al commissario europeo Johannes Hahn un piano efficace per il recupero e la messa in sicurezza del sito ed abbiamo disposto un affiancamento, già operativo, alla Soprintendenza perché si inizi da subito a provvedere con le azioni di messa in sicurezza più urgenti. C’è la più assoluta attenzione da parte del ministero verso Pompei, è la nostra priorità». Anche perché mercoledì sarà proprio Galan, insieme al ministro per gli affari Regionali Raffaele Fitto, ad accompagnare a Pompei il commissario europeo Hahn. L’obiettivo è quello di sbloccare il finanziamento europeo di 105 milioni di euro da destinare proprio alla manutenzione del sito archeologico. Soldi necessari per far decollare quel piano straordinario redatto in seguito ai crolli che si sono susseguiti durante gli ultimi mesi dello scorso anno. Quattro anni di lavori, articolati su cinque livelli di intervento, per un costo stimato di 104,8 milioni di euro. La fine lavori era prevista per il 2015, di fatto però, in attesa che arrivino i fondi europei, il progetto non è ancora partito.
La Pompei antica sorge su un’area di circa 66 ettari: 44 sono stati riportati alla luce, 22 no. Nove «macroregioni» divise in isolati che contano in totale 1500 ambienti, spesso solo un perimetro delimitato da mura. Il tutto sotto la «disperata» sorveglianza di pochi architetti e di addetti alla manutenzione. Tanto che le uniche segnalazioni sullo stato di conservazione - e spesso sugli avvenuti crolli - vengono effettuate dai custodi che durante i loro giri di ronda annotano lo stato del bene archeologico. E proprio da questi registri si viene a sapere che un’altra area a ridosso della necropoli di Porta di Nola (un muro di contenimento borbonico) era stato interessato da un cedimento. «I custodi di Pompei - sottolineano dalla Uil - fanno il loro dovere ma la Soprintendenza di Pompei è carente di quasi 500 unità».
Nel solo 2010 si sono registrati cinque crolli di un certo rilievo, tutti localizzati nella zona norddegliScavi.Dallafranadel terrapieno (a gennaio) alle spalle della Casa dei casti amanti che provocò il crollo di parte del muro antico fino al cedimento di un’opera muraria che fungeva anche da contenimento del terrapieno posto sul lato nord del peristilio della «Casa del Moralista» (alla fine di novembre). Qualche giorno prima, il 6 novembre, a crollare fu l’edificio pubblico sede della Scuola d’armi della gioventù aristocratica Pompeiana, quella Schola Armaturarum esempio unico, e ormai perso, mai ritrovato in scavi archeologici nel Mediterraneo.

La Stampa 23.10.11
Agrigento
La città che inghiotte se stessa
Viaggio nella capitale della Valle dei Templi, tra macerie, sfollati e indifferenza
di Laura Anello


Le macerie? Hanno cominciato a rimuoverle, ma si sono accorti che andando avanti sarebbe caduto il palazzo qui a fianco, poi quello a destra, quindi l’altro a sinistra…». Davanti alle rovine della dimora barocca Lo Jacono-Maraventano ridotta in polvere, il parroco della cattedrale, Mario Russotto - anche lui sfrattato dal tempio pericolante -, indica a perdita d’occhio pareti inclinate, balconi sbrecciati, stanze a cielo aperto, case storte. Una città di cartapesta.
Il centro storico di Agrigento è come il gioco dello shanghai, quello dei bastoncini cinesi: basta che se ne muova uno e viene giù tutto. Nel silenzio, nell’indifferenza, nella distratta rassegnazione degli abitanti che poco più in là, davanti al municipio, si «vasano» cuffarianamente sulle due guance mangiando dolci di ricotta, la città dei Templi sta inghiottendo se stessa. Un Titanic, già quasi del tutto affondato. «Che ci posso fare io? Sto a San Leone, sul mare, mi affaccio sulla terrazza e mi ‘nni futtu», taglia corto un passante.
Di fronte, irreale, fungo gigante di cemento e serrande, c’è Palazzo Vita, il mostro dei mostri, cinquantatré metri di altezza che svettano sulle casupole antiche, costruito negli anni Sessanta: qualche comitato civico, di tanto in tanto, propone di abbatterlo, o almeno di tagliarne metà. Li chiamano «tolli», qui, questi alieni che svettano in cielo, parola che in dialetto vuol dire cosa inutile, ingombrante e fuori posto. «Il piano di fabbricazione dell’epoca spiega l’architetto Simona Sanzo, autrice di un volume sul sacco edilizio - imponeva un massimo di altezza di 25 metri, ma con la possibilità di deroghe». Sorride: «Questo palazzo non è abusivo». Bisogna venire qui e guardare il panorama per capire la «corda pazza» agrigentina, il rovesciamento della realtà, lo spirito di una terra che ha partorito Pirandello. La terra che ha l’acqua più cara d’Italia, nonostante arrivi a singhiozzo. La provincia che ha il record di evasione fiscale (41,9 per cento) e il massimo della disoccupazione.
Già, mentre Agrigento cresceva inghiottendo ogni metro cubo d’aria, mentre si lasciava alle spalle la memoria della frana del 1966 con cinquemila sfollati, mentre costruiva per loro quartieri satellite temporanei che sarebbero diventati definitivi, mentre piazzava uno dopo l’altro propri politici sulle più importanti poltrone romane e palermitane (Mannino, Cuffaro, Alfano, per citare solo gli ultimi), il centro storico restava solo e abbandonato. Adesso si sta sbriciolando tutto. Sotto i colpi di due diverse scuri: la minaccia idrogeologica, perché parte della città sorge su una collina che scivola verso valle, e la fragilità degli edifici.
A febbraio la cattedrale seicentesca, reinaugurata solennemente nel 2007 dopo decenni di chiusura, ha dato segni di cedimento insieme con tutto il costone su cui sorgono gli edifici religiosi di via Duomo. Sfrattato dalle sue stanze pure il vescovo, Francesco Montenegro, il primo a dare l’allarme, memore della tragedia di Giampilieri che aveva vissuto. Il primo a invocare un piano di sgombero, perché da questo quartiere non c’è una via di fuga. «È quasi pronto», dice Attilio Sciara, il responsabile della Protezione civile del Comune, uno che se piove non dorme dall’ansia.
A marzo è imploso Palazzo Schifano, danneggiando anche la vicina Casa della Carità delle suore di San Vincenzo de’ Paoli. Il 25 aprile, mentre gli agrigentini mangiavano e bevevano fuori porta, si è polverizzato il gigante nobiliare, Palazzo Lo JaconoMaraventano, dove l’impresa incaricata dal Comune aveva appena concluso gli interventi di messa in sicurezza.
Pochi giorni dopo, inseguito da urla e contestazioni, il sindaco Marco Zambuto, 38 anni una parabola politica che ha attraversato quasi l’intero arco parlamentare -, ha fatto le valigie e ha trasferito il municipio nella palazzina di fronte. Come dire, l’istituzione è qui. Peccato che qualche giorno dopo abbia dovuto firmare un’ordinanza di auto-sgombero perché stava per crollare anche quella. Ora è tutto macerie, a due passi dalla solida villa del regista Michele Guardì, uno dei pochissimi che hanno voluto investire in un centro storico che per gran parte degli agrigentini è morto.
Un caro estinto che i più avrebbero già seppellito sotto un sudario di cemento come le rovine di Gibellina terremotata, e che invece - fantasma inquieto - si ostina a far sentire la sua voce, tra boati e crolli. «Più pericoloso vivere qui che in cima all’Etna», diceva negli anni Novanta l’allora capo della Protezione civile, Franco Barberi. Cinquantanove le famiglie sgomberate, e il numero si ingrossa a ogni pioggia. Quando arrivano i vigili con l’ordinanza in mano, qualcuno piange, qualcuno impreca, qualcuno in silenzio prende in braccio i figli e si rassegna all’ospitalità del Comune - finché dura nell’albergo «Bella Napoli».
«Abbiamo speso 400 mila euro del nostro bilancio e 700 mila della Protezione civile regionale per tamponare le situazioni di massima urgenza - dice il sindaco Zambuto -, adesso non abbiamo più un soldo neanche per questo. L’unica cosa che possiamo fare è portare via le famiglie e pregare che non ci scappi prima il morto». Ristrutturazioni? «Quando sono arrivato - allarga le braccia - il Comune aveva un buco di 50 milioni di euro, adesso è risalito a meno quindici, l'unica speranza è nelle risorse esterne». Mostra una mappa della città, un lungo elenco di opere già finanziate: c'era anche il restauro di Palazzo Lo Jacono-Maraventano, per 2 milioni e 800 mila euro. Ma è già crollato.

Corriere della Sera 23.10.11
E il Lazio ignora i Beni culturali
di Andrea Carandini


L a legge regionale del Lazio del 13 agosto 2011 sul «piano casa» ha scompaginato la disciplina dell'assetto del territorio per le aree vincolate, ma in base alla Costituzione e al Codice dei beni paesaggistici essa spetta allo Stato e la pianificazione paesaggistica prevede l'accordo fra Stato e Regioni. Al contrario, ad esempio, il piano casa approvato dalla regione Veneto nel 2009 non si applicava ai beni culturali, non ammetteva cambi di destinazione d'uso e imponeva il rispetto degli standard urbanistici.
Ministero e Regione Lazio erano giunti a un accordo sul piano paesaggistico, quando, senza alcuna consultazione, all'insaputa del Ministero, è stata approvata questa legge, che contraddice il Codice e vanifica il lavoro di copianificazione fin qui svolto. La nuova legge, infatti, rinvia a generiche intese con il Ministero, ma su singoli interventi, che è altra cosa rispetto all'elaborazione congiunta di un piano organico di interventi, che solo consente quella visione d'insieme, necessaria per progettare il territorio secondo linee di sviluppo compatibili con la tutela paesaggistica.
La legge prevede poi che l'individuazione e la riqualificazione delle aree vincolate, compromesse e degradate, siano affidate alla pianificazione comunale, mentre sono materia di accordo tra Stato e Regione secondo il Codice. Così è stato violato il principio per cui il piano paesaggistico è gerarchicamente superiore ai piani urbanistici comunali.
Secondo una norma spetta ai Comuni costieri ridefinire le fasce di rispetto del territorio costiero marittimo (vincolo art. 142 del Codice) e stabilire la delocalizzazione degli edifici esistenti, con incrementi di volumetria fino al 150 per cento. Secondo un'altra norma le disposizioni del piano paesaggistico regionale del 2007 sono sospese e i Comuni hanno facoltà di rivedere quelle ritenute «incongrue» rispetto ai propri piani regolatori anteriori. Anche in questo caso i piani regolatori comunali prevalgono indebitamente sul piano paesaggistico, sempre prescindendo dal Ministero.
Altre norme ammettono interventi in aree vincolate eludendo i divieti del piano paesaggistico e sostituendo a tale copianificazione le anomale intese con il Ministero su singoli progetti. Si consentono così in aree vincolate piste da sci e altri interventi in montagna, ampliamenti e completamenti di edifici pubblici (ospedali e strutture turistico-ricettive), interventi di edilizia popolare e il recupero di nuclei abusivi.
Per pianificare razionalmente le infrastrutture portuali compatibili con la salvaguardia delle coste — 60 richieste presentate a tutt'oggi per 362 km di costa laziale — la Regione aveva istituito, con apposita delibera, una cabina di regia composta dalle autonomie territoriali e dal Ministero, i cui lavori avrebbero dovuti confluire nella pianificazione congiunta. La nuova legge ha stravolto questa procedura, affidando tali decisioni alla sola Regione Lazio, ancorché d'intesa col Ministero. Si va nella stessa direzione per stadi e annessi palazzi e negozi.
La nuova legge stabilisce anche cosa siano le zone di interesse archeologico, potere che spetta invece allo Stato, e amplia l'ambito applicativo del condono edilizio del 2003.
Questa legge regionale, che il Ministero contesta, è sintomo di un male diffuso: la sostanziale non accettazione della copianificazione con il Ministero da parte di alcune Regioni. Non sono mancati nel recente passato tentativi di diminuire il potere dei Soprintendenti in tema paesaggistico, che sono stati finora rintuzzati. Ma il pericolo incombe e qualora il partito del cemento dovesse averla vinta la tutela paesaggistica sarebbe finita in Italia.
Presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali

Corriere della Sera 23.10.11
Faust
Dietro la sua maschera il male oscuro d’oggi
dialogo di Claudio Magris e Paolo Mereghetti

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Corriere della Sera 23.10.11
Antonio Cassese, la fede nella legge contro la belva che è in noi
di Michele Ainis

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Corriere della Sera 23.10.11
Se la Bestemmia in tv non offende le nuove regole che dividono
di Armando Torno


La bestemmia (etimologicamente «parola lesiva»), stando al nuovo testo unico sui servizi dei media, non sarà più colpita da sanzioni. Ieri l'Avvenire sottolineava il paradosso delle rinnovate regole. Chi ne proferisce una in un luogo pubblico, in posta o al bar, viene punito con una multa; al contrario, chi ne dice una in tv o alla radio non rischia sanzioni. Va da sé che la pubblicità, soprattutto quella che alimenta se stessa con le polemiche, non si lascerà sfuggire l'occasione. Siamo dunque destinati a un clima che ricorda quello del III canto dell'Inferno di Dante? Forse no, ma ricordiamoci la scena delle anime imprecanti, riunite da Caronte: «Bestemmiavano Dio e lor parenti,/ l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme/ di lor semenza e di lor nascimenti» (103-5).
La Rai, stando alle prime mosse, rischia di essere superata da Canale 5, giacché la nuova edizione del Grande fratello che comincerà domani prevede multe anti-volgarità. O meglio chi bestemmia verrà, come già previsto, eliminato; ma ora il montepremi finale si abbasserà. Insomma, non è conveniente farlo, anche se questo genere di trasmissioni alimenta il turpiloquio più di un quiz o dei programmi di cucina. La Rai si doterà di un codice? Preghiamo di aggiungere pene anche per le bugie: sono insulti rivolti ai cittadini normali.
In molti ricordano la prima bestemmia in diretta, quella di Leopoldo Mastelloni il 22 gennaio 1984 nella trasmissione «Blitz»: non ebbe particolari effetti se non l'allontanamento per un certo periodo dell'attore e cantante dalla tv, poi assolto (perché «il fatto non costituisce reato»). D'altra parte, quello che i teologi chiamavano vitium linguae fu sempre, soprattutto in certe regioni, un intercalare discorsivo. Non tutte le imprecazioni contro il cielo volevano essere offensive. Forse per questo in Italia la bestemmia fu reato sino al Codice penale del 1890; poi si cercò di limitarla facendo leva sull'educazione e sulle multe. Ben diversa sorte si legge nel libro biblico del Levitico: «Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare» (24,16).

Repubblica 23.10.11
I territori della psiche
L’abisso che si apre improvviso e il tempo della verità così Alice Munro riannoda i fili di esistenze sconnesse
Legami e atrocità quando i racconti colpiscono al cuore
di Franco Marcoaldi


Tra i tanti personaggi che popolano quest´ultima raccolta di racconti di Alice Munro (nella vibrante traduzione di Susanna Basso), compaiono anche due narratrici. Della prima, l´esordiente Christie O´Dell, la scrittrice canadese si fa volutamente beffa. Quasi volesse utilizzare quel personaggio per parlare in filigrana di se stessa, per ironizzare su chi riesce "soltanto" a scrivere racconti. E non un romanzo vero e proprio. «Il che è già di per sé una delusione. Sembra sminuire l´autorevolezza del libro e far apparire l´autore come qualcuno che sta solo appeso ai cancelli della letteratura con la L maiuscola, anziché averli saldamente varcati».
I numerosissimi fan della Munro sanno bene che le cose non stanno così. Al contrario, nessuno come lei, in questi ultimi decenni, ha saputo restituire alla forma-racconto tutta la sua trascinante potenza letteraria, mostrando come proprio quella forma - contratta, enigmatica, sospesa - per certi versi si attagli al nostro tempo meglio di un romanzo, il cui impianto originario ottocentesco rimanda a un´esperienza lenta, distesa, gerarchica, compiuta. Che si va disgregando nelle nostre convulse esistenze.
Eppure il cruccio della Munro, rimane. Come si evince leggendo un´interessante dialogo con Jeanne McCulloch, comparso nel secondo volume di interviste della Paris Review, e pubblicato l´anno passato in Italia da Fandango. «E´ molto difficile non abbandonarsi alla sensazione di aver lasciato dei frammenti se quello che lasci sono solo racconti sparsi». Dopodiché, aggiunge: «La mia vita è piena di realtà sconnesse e le vedo nella vita degli altri. E´ stato uno dei problemi - del perché non sono riuscita a scrivere romanzi, non sono mai riuscita ad avere una visione complessiva delle cose nel loro insieme».
Eccolo il punto chiave: la sconnessione, la faglia, la frattura, l´abisso che si apre improvvisamente nella vita di tutti e di ciascuno. Di questo parlano anche i nuovi, mirabili racconti della scrittrice canadese, che mai come in questa occasione si affida a una fantasia lasciata a briglia sciolta. E in grado di imbastire storie improntate, nella maggior parte dei casi, al timbro della più assurda atrocità, grazie a svolte repentine che impongono ai diversi personaggi di rispondere a una specie di chiamata, per quanto malvagia e folle essa sia.
Un padre uscito di senno uccide i tre figlioletti per evitare loro la pena del presunto abbandono della madre, di cui si è convinto senza alcun motivo. Due bambine annegano una terza - Verna, un povero mostriciattolo con la testolina da serpe - che vorrebbe interferire nel loro amore simbiotico, "gemellare". Un´altra ragazzina si sfregia il volto con la lametta da barba per identificarsi con "Prugnasecca", l´amico del cuore che ha la metà del viso coperta da una gigantesca voglia.
Tra questi tremendi avvenimenti e la successiva agnizione passano sovente lunghi anni, addirittura vite intere, in un andirivieni temporale dagli effetti allucinatori. Eppure è proprio questo tempo discontinuo, altalenante, circolare, a creare legami indissolubili. E sovente del tutto impensabili, inattesi. Accadrà tra Prugnasecca e l´amica con il volto deturpato, ritrovata in un fantasmatico ospedale. Accadrà alle due "gemelle" di gioventù, che giusto in limine vitae, vedono riaffiorare dal passato quel segreto inconfessabile e agghiacciante di una disgraziata affogata dalle loro mani. Accadrà addirittura alla madre di cui sono stati uccisi i figlioletti, costretta a riconoscere suo malgrado il vincolo terribile che la lega al marito pazzo e criminale: «quel che è successo non ha forse tagliato fuori dal mondo me quanto lui? Chiunque fosse al corrente dei fatti non mi vorrebbe attorno. Io riesco solo a ricordare agli altri qualcosa su cui nessuno può soffermare il pensiero».
Queste diverse esistenze, vien da pensare, saranno sì sconnesse, ma ci sono dei fili invisibili che le stringono tra loro. E la Munro è lì per tessere la tela nascosta e sotterranea. Le sue pagine, pertanto, non sono affatto sparse e frammentarie. Al contrario, superando d´un balzo la logica del romanzo, alludono a un ben più ambizioso disegno: mostrare una realtà definitivamente fuori asse, ma che tutti ci accomuna.
La scrittrice canadese ce lo mostra perfettamente nello struggente finale del racconto che dà il titolo alla raccolta, Troppa felicità, dove troviamo Sof´ja - grande matematica e romanziera - che sta combattendo contro la polmonite che la porterà alla morte, in uno stato di febbrile eccitazione. Gli inciampi, gli accidenti, i dolori dell´esistenza, si stanno trasformando per lei in pure visioni. «Idee e fatti assumono una forma nuova, appaiono attraverso lamine di limpida intelligenza, come un vetro trasfigurante». Familiari e amici si stringono al suo capezzale. Sof´ja vuole che la figlioletta Fufu si metta il costume da zingara e danzi attorno al letto. La donna, è evidente, sragiona. Si confonde e ride di continuo. Ma trabocca di nuove idee, di nuove fantasie. E´ arrivato il momento, dice, di scrivere una storia capace finalmente di svelare il principio su cui si regge il mondo: «il ritmo cardiaco della vita».
Poco prima di morire, qualcuno la sentirà pronunciare le sue ultime, ellittiche parole: «troppa felicità». Troppa felicità per aver intravisto il segreto delle cose, nell´esatto istante in cui il cuore non pompa più e la vita si sta dissolvendo come un sogno.
Troppa felicità, di Alice Munro, Einaudi, trad. di Susanna Basso, pagg. 332, euro 20

La Stampa 23.10.11
Tra Seneca e Heidegger il maghetto Harry Potter
di Massimiliano Panarari


Tutto è politica, si diceva un tempo. Ma, da sempre e ancor più correttamente, potremmo dire che tutto, ma proprio tutto, è filosofia. Nasce di qui la pop filosofia, una delle mode culturali più recenti (e tipicamente postmoderne), la quale sottopone a indagine gnoseologica i fenomeni della cultura di massa e ha portato al proliferare di saggi impegnati a scandagliare serie tv, film, fumetti, musica rap e rock, e chi più ne ha più ne metta. L’ultimo esercizio di decostruzione in materia esce ora e mette sotto il riflettore teoretico uno dei maggiori trionfi letterari e cinematografici dei nostri tempi, la saga del maghetto britannico partorita dalla fantasia di J. K. Rowling.
Filosofando con Harry Potter (Mimesis, pp. 140, 14) di Laura Anna Macor (docente all’Università di Padova) ci racconta, come recita il sottotitolo, che il segreto del suo successo sta in quel «corpo a corpo con la Morte» che lo ha reso, presso il pubblico giovanile, un’icona davvero globale. In una società che tenta, in tutti i modi, di esorcizzare il trapasso, tra pruderies politicamente corrette di fronte alla vecchiaia, boom della chirurgia plastica e l’imperativo di essere Forever Young (come cantavano gli Alphaville), Harry Potter parla ai ragazzi, senza girarci intorno, dell’inevitabile caducità della vita. Dalla scomparsa dei genitori sino al duello finale con Lord Voldemort, la Morte rappresenta la vera primattrice del ciclo potteriano. Il mondo dark di Harry è, dunque, certamente un condensato di leggende e mitologie celtiche, ma si rivela anche una riflessione sulla finitezza umana che se la batte, in maniera pop, con le massime senechiane e le suggestioni heideggeriane. E mette al centro un protagonista che, dopo avere mostrato ai suoi giovani fan sparsi ai quattro angoli della terra il fascino dei superpoteri magici e dell’immortalità, ne disvela l’inganno.
Così, mentre siamo invasi di sequel eprequel che tirano per le lunghe qualunque trama, questa saga finisce per davvero, al punto di sacrificare il business sull’altare dell’ideologia che la anima. Memento mori , insomma, senza risparmiare neppure l’eterna legge del fatturato.

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