martedì 25 ottobre 2011

Corriere della Sera 25.10.11
Comanda la Paura
di Massimo Franco


Iniziare il Consiglio dei ministri straordinario con oltre un'ora di ritardo vuole dire ufficializzare lo scontro tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi sulla riforma delle pensioni, chiesta dagli alleati europei. Ma significa anche mediare tra posizioni agli antipodi. In apparenza, l'esito di questo contrasto è inevitabile. Logica vorrebbe che si aprisse una crisi di governo: sarebbe la «discontinuità» che le opposizioni chiedono come condizione per appoggiare i provvedimenti invocati da Bruxelles; e che il caos nel centrodestra giustificherebbe da tempo.
Il corollario sarebbe un voto anticipato affrontato dalla Lega come se fosse una variante della secessione. Ma per quanto tentato da una rottura che potrebbe sfruttare in campagna elettorale, il Carroccio sembra diviso fra voglia di voltare pagina e paura dello strappo: due pulsioni parallele che sta vivendo da mesi. Per questo si tratta e si rinvia a oggi, affidando a Berlusconi il compito di parlare all'Europa. D'altronde, la polemica con gli alleati dell'Unione è un elemento che accomuna Bossi e Palazzo Chigi, seppure con toni diversi. Il comunicato col quale ieri il premier rifiuta «lezioni» e polemizza con le nazioni che «si autonominano commissari», è tardivo ma chiaro.
Si tratta di una risposta allo sgarbo plateale di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel domenica a Bruxelles. Tende a sottolineare soprattutto l'arroganza del capo di Stato francese, perché la Germania ha corretto la brutta impressione data in conferenza stampa con i sorrisi complici e irridenti per Berlusconi. L'Italia rifiuta, giustamente, di essere il capro espiatorio delle magagne europee. Ma non può neppure usare quanto è successo come alibi per nascondere le sue mancanze. Il catastrofismo che il centrodestra condanna è il sottoprodotto naturale delle pecche del governo.
Senza l'improvvisazione e le esitazioni di cui Berlusconi ha dato prova, l'Italia non si ritroverebbe in questa posizione sacrificale; e Sarkozy avrebbe qualche problema a fare la voce grossa. Quanto è avvenuto replica su un altro piano il «lapsus» col quale alcune settimane fa il presidente Usa, Barack Obama, non citò il governo di Roma fra i Paesi in prima linea per sconfiggere Gheddafi. Gaffe anche quella, ma soprattutto il segno di un isolamento e di un'irrilevanza crescenti dell'Italia: a dispetto delle lodi convinte che Berlusconi fa a se stesso.
È il costo di una strategia della sopravvivenza che il premier sta perseguendo con disperata ostinazione. Il prezzo è alto per l'Italia, ma anche per lui. La scommessa di riuscire a resistere il più a lungo possibile confida in una forza parlamentare numerica, ormai in bilico. E sottovaluta l'ostilità dei mercati finanziari. In una situazione del genere, durare diventa il contrario di governare. E crea le premesse non per un normale cambio di schieramento e di premier ma per una cacciata senza appello: una débâcle per Berlusconi e un'ipoteca sul futuro del centrodestra.

Corriere della Sera 25.10.11
La Camera ci ripensa: i tagli? Scherzavamo
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


«Cavallo magro corre più forte». Parola di Roberto Calderoli, che a settembre annunciava trionfante un «disegno di legge di riforma costituzionale per dimezzare il numero dei parlamentari». Ma come può dimagrire, quel cavallo, se hanno già deciso di dargli da mangiare come prima? Così è: la Camera vuole — fino al 2014 — gli stessi soldi di oggi. Una delle due: o i tagli sono una frottola o pensano che i parlamentari dimezzati costeranno il doppio. In ogni caso pensano che i cittadini siano così grulli da non vedere la truffa.
Eppure, a sentire la grancassa di promesse di questi mesi, pareva tutto già deciso. Lo stesso Cavaliere («dobbiamo abolire il numero enorme di parlamentari dalle prossime elezioni») aveva insistito: l'iter doveva essere «urgente». Il centrosinistra, ovvio, era d'accordo e per bocca di Dario Franceschini s'impegnò: «Dimezzare i parlamentari sarà la priorità del Pd». Gianfranco Fini, del resto, era della stessa idea: «E' arrivato il momento di dimezzare i parlamentari».
Che vogliano tagliare davvero, però, è un'altra faccenda. E prendere sul serio le promesse fatte per placare l'ira dei cittadini chiamati a fare sacrifici e andare in pensione sempre più tardi, stavolta, è ancora più difficile del solito. La prova? A dispetto della crisi, degli ultimatum europei, delle fatiche di Sisifo sulle pensioni, dei sorrisetti di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel proprio sulla nostra affidabilità, la Camera ha avvertito il Tesoro che avrà bisogno della stessa dose di biada del 2012 e 2013 anche per il 2014. Quando, a dar retta a Calderoli, il cavallo troppo grasso dovrebbe aver perso già metà del suo peso.
La lettera è arrivata sul tavolo di Giulio Tremonti qualche giorno fa, mentre si diffondevano le voci che la doppia manovra economica non basterà e alla vigilia di un nuovo pressing di Bruxelles. «Signor ministro, per incarico del Presidente della Camera dei deputati, Le comunico che l'Ufficio di presidenza ha deliberato di mantenere l'importo della dotazione per l'anno finanziario 2014 nella medesima misura già prevista per gli anni 2012 e 2013. L'importo della dotazione richiesta per ciascun anno del triennio 2012-2014 è quindi pari a euro 992.000.000». Firmato: il segretario generale Ugo Zampetti. Una richiesta sfacciata. Tanto più dopo tutte le chiacchiere della maggioranza sui «tagli epocali» e dopo quanto è accaduto in questo primo tratto del secolo, definito dalla Banca d'Italia «decennio orribile». Durante il quale il prodotto interno lordo procapite è crollato del 5% mentre le spese di Montecitorio crescevano fino a sfondare il 41%.
Lo sanno che cosa si prepara, gli autori di quella lettera che batte cassa, per il 2014? La pressione fiscale schizzerà al record storico del 44,8%. Il debito pubblico salito ormai al 120,6% del Pil non riuscirà a calare, nonostante la manovra da 145 miliardi, sotto il 112,6%. E secondo il Fondo monetario internazionale si consoliderà il sorpasso dell'India, che nel 1993 aveva meno di un terzo del nostro Pil ma ha già messo la freccia per superarci, come già hanno fatto il Brasile e ormai dieci anni fa la Cina. E la nostra Camera ci farà il regalo di chiedere ai contribuenti gli stessi soldi che chiede oggi? Quale eroismo! Grazie…
Semplicemente avvilente il raffronto con una istituzione paragonabile, come la britannica House of Commons, che di deputati ne ha 650, venti più dei nostri, ma nonostante questo ha un livello di spese correnti (meno di 500 milioni di euro) pari a neanche metà di quelle di Montecitorio. Differenziale assolutamente in linea con l'abisso che separa i livelli retributivi delle due istituzioni. Basti dire che Jack Malcolm, il capo dell'amministrazione del parlamento del Regno Unito, ha una retribuzione di 235 mila euro: metà di quanto guadagna il nostro «pari grado». Ma non basta. Entro l'anno fiscale 31 marzo 2014-31 marzo 2015 la Camera bassa britannica vuole ridurre i propri costi di un altro 17%. Un taglio netto. Raddoppiato rispetto alla sforbiciata del 9% per il 2013 già decisa l'anno scorso. Una scelta seria, «in linea con il resto del settore pubblico». I tempi sono così bui da obbligare a tagliare la scuola o la sanità? I tagli alla «Casta» britannica devono essere uguali. Così che nessuno possa parlare di privilegi e privilegiati.
Domanda: perché lassù, dove morde la stessa crisi, il trattamento delle Camere è allineato a quello di tutta l'amministrazione e da noi no? Cosa c'entrano i «costi della democrazia»? I numeri dell'ultima legge di stabilità parlano chiarissimo. Depurata dal costo del debito pubblico, la spesa statale italiana nel 2014 sarà inferiore del 4,5% a quella prevista per il 2012. Circa 20,3 miliardi in meno. Lo stanziamento per gli «organi costituzionali, a rilevanza costituzionale e presidenza del consiglio», cioè Camera, Senato, Quirinale, Consulta, Csm, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Cnel e palazzo Chigi resterà invece intatto: 2 miliardi e 981 milioni di euro. Lo stesso di oggi.
Ma non avevano detto di aver tagliato? Avevamo capito male? Riprendiamo quanto dichiarò a verbale il 2 agosto il questore della Camera Francesco Colucci: «Nel triennio 2011-2013 il bilancio dello Stato potrà beneficiare di una minor richiesta di dotazione da parte della Camera pari a 75 milioni di euro». Commenti degli osservatori «ingenui»: però! E via coi calcoli: se quest'anno per mantenere Montecitorio paghiamo 992,8 milioni fra due anni vorrà dire che si ridurranno a 917,8. No: resteranno sempre 992,8. E quei 75 milioni? Semplice: sono gli aumenti cui la Camera ha deciso di rinunciare. Quindici milioni per il 2012, più 30 per il 2013 e ancora 30 ai quali l'amministrazione aveva già rinunciato più di due anni prima, nell'aprile del 2009. Per capirci: come le baionette di Mussolini. Contate e ricontate, scusate il bisticcio, per mascherare i conti.
La verità è che mentre le borse crollavano e il governo si apprestava a raddoppiare la già dolorosa manovra di luglio, la Camera tagliava le spese correnti del 2011 di un misero 0,71% e il Senato di un ancor più impalpabile 0,34%. Ed è inutile ricordare, come già i lettori sanno, che Montecitorio potrebbe alleggerire assai la richiesta di denaro alle casse dello Stato: le basterebbe rompere il «salvadanaio» e usare i 369 milioni di avanzi di cassa accumulati nel corso degli anni e custoditi nei conti correnti bancari. O anche, perché no, mettere a disposizione almeno parte del ricco «Fondo di solidarietà» dei deputati: un tesoretto creato negli anni grazie pure ai generosi contributi della Camera e che ha una liquidità di ben 180 milioni eccedente le necessità per cui è stato costituito, pagare le liquidazioni dei deputati.
Non bastasse, ieri pomeriggio è arrivata la ciliegina sulla torta. Un'agenzia LaPresse: «Per gli assenteisti in commissione decurtazione della diaria, mentre per i “sempre presenti” un incentivo. Saranno queste le misure in discussione domani durante la riunione dell'ufficio di presidenza della Camera». Traduzione: i parlamentari pagati per stare in Parlamento se staranno sul serio in Parlamento verranno pagati di più. Un capolavoro. Possiamo sommessamente ricordare che un ritocco così piacerebbe anche ai maestri (più soldi se vanno a scuola), agli autisti d'autobus (più soldi se si mettono al volante), ai centralinisti (più soldi se rispondono al centralino) e così via? Diranno: ma non ci sono soldi! Appunto…

Repubblica 25.10.11
La pensione di Capezzone
di Alessandra Longo


In una giornata così politicamente densa, non poteva mancare la voce del portavoce. Daniele Capezzone ha come al solito rafforzato la svolta obbligata e disperata del Capo sul fronte pensioni. «Un ceto lungimirante», così lo definisce l´esponente Pdl (e il pensiero va a Scilipoti e la Minetti) non può lasciare a chi verrà un´eredità pesante. Si chiede retoricamente Capezzone: «È buona politica dimenticarsi di chi verrà domani, difendendo con le unghie e con i denti quelle pensioni di anzianità che ovunque, nel resto del mondo, si stanno giustamente archiviando? Pensiamo davvero di poterle conservare a spese e sulle spalle di chi verrà domani?» Capezzone ha appena compiuto 39 anni. Vuole forse dire che rimarrà portavoce del Pdl per i prossimi 28 anni?

il Fatto 25.1.11
Ecco a cosa serve il decreto: a sistemare l’eredità di B.
Figli non più uguali nell’eredità
Il premier di un governo già morto vuole una legge ad personam sulle successioni per fregare Veronica
Nella bozza una norma che garantirebbe il controllo di Fininvest a Marina e Piersilvio
di Marco Palombi


Tutto è avvolto nel semi-buio in questo eterno tramonto di Silvio Berlusconi, persino il Decreto Sviluppo. Il nuovo busillis, come si sa, è quello della riforma delle pensioni su cui non c’è accordo tra Silvio Berlusconi, che la vorrebbe in ossequio alle direttive europee, e la Lega che non ci pensa nemmeno. Il Consiglio dei ministri di ieri
 sera si è concluso con un nulla di fatto, ma le trattative continuano: forse il governo si riunirà anche oggi, forse no, la confusione regna sovrana. La base d’asta, per così dire, corre su due direttrici: velocizzare l’adeguamento dell’età di uscita dal lavoro per le donne del settore privato (che arriverà a 65 anni solo nel 2026) e rallentare la corsa alle pensioni di anzianità. A questo proposito è stato rispolverato, finora senza successo, anche una sorta di “scalone Maroni” (una legge abolita dal governo Prodi) per portare l’età minima – tra soglia anagrafica e finestre di uscita – a 62 anni per tutti, anche per chi ha 40 anni di contributi. Al netto della questione pensioni, che già è un romanzo di suo, restano però indefinite pure le misure per la crescita. Ieri, ad esempio, è circolata l’ennesima bozza del testo fantasma, uscita dal ministero del Tesoro per essere smentita poi da quello dello Sviluppo economico (e informalmente, in serata, pure dallo stesso Tesoro). Il contenuto, d’altronde, era decisamente imbarazzante. Tra le altre cose, c’erano la bellezza di 12 condoni/sanatorie, praticamente – escludendo il condono tombale bocciato dalla Ue – tutto il menu già messo in campo dallo stesso Berlusconi nel 2002-2003: dal concordato alla definizione agevolata del contenzioso con lo Stato, da una sanatoria sui tributi locali (una novità) a proroghe di due anni per chi non avesse dichiarato l’Iva o evaso le imposte su successioni e/o donazioni, dal perdono dietro modesto obolo per le dichiarazioni incomplete a quello per i ritardati od omessi pagamenti al fisco. Non mancavano nemmeno due grandi classici: il condono per il canone Rai (50 euro per ogni anno evaso) e quello per le affissioni abusive dei partiti.
 QUANTO al resto, in questa bozza di Decreto Sviluppo, di sviluppo ce n’è pochino, però vi si leggono un sacco di cose strane. Almeno due, per dire, hanno fatto pensar male molti: una modifica delle leggi in tema di eredità per i figli e un’altra riguardante il cosiddetto “patto di famiglia”. Non che si voglia affermare che trovino la loro giustificazione in certe beghe familiari del Cavaliere-Veronica, i tre figli di Veronica che vorrebbero avere in futuro lo stesso peso “azionario” dei due fratelli di primo letto, problemi ereditari sparsi – come fa quel malpensante del dipietrista Borghesi, però certo un sospettuccio viene. Cosa prevedono, infatti, le due norme? La prima cambia le regole della cosiddetta eredità “legittima” a favore dei figli: a oggi i 2/3 della cifra passa dal de cuius ai pargoli in parti uguali, mentre la bozza del decreto sviluppo prevede che quei 2/3 siano divisi in parti uguali solo per metà, il resto potrà essere attribuito dal genitore a uno o più figli come crede meglio. Se uno, per fare un esempio, avendo cinque figli, volesse premiarne due, potrebbe farlo senza problemi.
 QUESTO non è, peraltro, l’unico cambiamento in materia ereditaria presente nella bozza: una novità c’è pure per il cosiddetto “patto di famiglia”, lo strumento con cui un imprenditore può trasferire, in tutto o in parte, la propria azienda o le partecipazioni azionarie ad uno o più discendenti. Il testo del decreto diffuso ieri, infatti, si preoccupa del caso che il proprietario muoia senza aver assolto alla bisogna: ebbene un terzo, nominato dal trapassato, potrà indicare il beneficiario tra una lista di persone già pronta (magari i cinque figli, se si vuole restare all’esempio precedente). Non di sola eredità, però, vivono i decreti sviluppo: il governo infatti – oltre a incentivare il lavoro giovanile, femminile e i contratti di apprendistato, ad agevolare la costruzione di opere pubbliche e la vendita del patrimonio immobiliare pubblico e mille altre cosette – ha pensato bene pure di dichiarare i cantieri della Tav “aree di interesse strategico nazionale”. Tradotto vuol dire che chi blocca i lavori o si introduce nel cantiere rischia l’arresto da tre mesi ad un anno o un’ammenda fino a 309 euro per “ingresso arbitrario in luoghi ove l’accesso è vietato nel-l’interesse militare dello Stato”. Militare?

il Fatto 25.10.11
Sul mercato dei voti glissare è meglio
In tv i politici aggirano le domande sui casi a Montecitorio: il silenzio di Casini e Pannella
di Chiara Paolini


Deputati in vendita? Non se ne parla. Nel senso che i politici italiani non vogliono trattare neanche di striscio un argomento fondante per ogni sistema democratico, ma evidentemente fuori moda nella morente Seconda Repubblica: la fedeltà al mandato elettorale.
La vicenda, ormai, è nota: nei giorni scorsi tre deputati di Futuro e Libertà (Di Biagio, Conte e Proietti Cosimi) hanno raccontato di esser stati avvicinati un anno fa da Denis Verdini, storico animatore delle truppe berlusconiane, per sentirsi ammaliare da una proposta lussuosa: esprimi cinque desideri e ti saranno concessi (dicasteri inclusi). Unico fardello per ottenere il pentafavore, votarsi alla maggioranza in mesi burrascosi per il governo, dall’ottobre 2010 allo scorso aprile.
Scandalo? Indagini? Condanna dai vari leader di partito? Eccezion fatta per Antonio Di Pietro, che già a fine 2010 avanzò un esposto alla procura romana invitando i magistrati a indagare sul possibile reato di tentata corruzione, silenzio di tomba. E resistenza gengivale anche quando qualcun altro, dopo le interviste di Sandra Amurri per il Fatto Quotidiano, tenta di approfondire il tema.
 A estrapolare qualche parola ci ha provato Maria Latella nella sua domenicale Intervista. Negli studi Sky uno stra-sorridente Pier Ferdinando Casini: i guai europei di Berlusconi continuano a far lievitare le quotazioni Udc in vista di nuove elezioni, e il centrista più andreottiano del teatro politico nazionale lo sa benissimo. Per questo quando Latella ha osato lanciare l’argomento poltrone vendute, il Pier ha glissato con tenacia ed eleganza: “Certo io non ho i mezzi di Berlusconi per convincere i parlamentari – ha occhieggiato Casini –, e non per nulla c’è gente che dalla mattina alla sera è diventata ministro. Ma tutto questo è politica, e non possiamo aspettare sia la magistratura dall’esterno a sistemare le cose”. Insomma, non esattamente uno stracciarsi le vesti in diretta tivù: “Sai com’è – risponde il giorno dopo Maria Latella – ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio, e quindi è meglio tenere le ante ben chiuse prima di trovarci delle sorprese dentro. Però forse il tema più profondo è un altro, cioè la fatica di cominciare a fare le cose sul serio. La politica oggi capisce che i vecchi metodi, le scorciatoie furbe, non sono più la prospettiva possibile, e si vergogna a parlarne. Tutti, dai giovani precari ai potenti più attempati, sanno di dover mollare un modello superato, perché è ora di rimboccarsi le maniche. Ma ci vuole tanto impegno. E intanto, finché si può, si tira avanti così, si fa finta di niente” .
 Anche il giovane attempato Marco Pannella, ospite di In mezz’ora su Rai3, ha dimostrato scarso entusiasmo verso l’argomento del mercante in aula. Sollecitato più volte da Lucia Annunziata sulla coerenza dei partiti, e degli uomini che li rappresentano, Pannella s’è imbufalito per ben altri argomenti: “Lucia, tu sei stata presidente di questo schifo, della Rai di regime!”. L’Annunziata ha fatto notare che, valutazioni sulla sua gestione a parte, anche la compravendita della politica sulle bancarelle parlamentari incide sulla qualità del servizio pubblico. “Tesoro – le ha risposto Pannella agitando la coda di cavallo –, i partitocrati sono fatti così, la nostra moralità è diversa e gliel’ho detto lì a cena da Berlusconi. Comunque, noi non siamo delle merde”. Niente da fare, il politico medio – facendo media anche col valore ormai imperscrutabile dei Radicali – non vuole proprio dare un giudizio sulla mutevolezza dello schierarsi. Non si schiera, insomma. (Ch. Pa.)

l’Unità 25.10.11
L’allarme delle opposizioni: subito un segnale di cambiamento politico
Enrico Letta al Quirinale: i democratici chiedono un atto di discontinuità
Asse Bersani-Casini Via il governo, con loro tutto inutile
Incontro a Bologna tra Bersani e Casini per valutare la «preoccupante» situazione politica. I due d’accordo sulla necessità di un nuovo governo. Letta al Quirinale: «Serve discontinuità politica».
di Simone Collini


Quando iniziano a circolare le voci di una crisi di governo, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini si danno appuntamento per pranzo, a Bologna, dove il leader dell’Udc va a trascorrere i fine settimana e dove quello del Pd deve passare per rientrare a Roma dalla sua Piacenza. Dal colloquio tra i due emerge non solo la forte preoccupazione per la situazione italiana, anche in seguito all’accelerazione impressa dopo il Consiglio dell’Unione europea, ma anche la consonanza sul fatto che le riforme strutturali necessarie per far uscire il Paese dalla crisi le possa fare soltanto un nuovo governo. «Oggi serve un governo forte, che assuma degli impegni in Europa, li mantenga e difenda la dignità nazionale, perché non possiamo essere svillaneggiati da certi sorrisi, che non possono che essere rispediti al mittente», è la convinzione di Casini. Anche per Bersani «tutto ciò che l’Italia e gli italiani possono fare rischia di avere un effetto davvero limitato se resta questo quadro politico» perché «con un governo così niente basterà mai». Per il leader del Pd «è necessario dare un segnale di cambiamento politico chiaro per mettere il Paese in condizione di riprendere il suo cammino e anche per recuperare a livello internazionale il rispetto e la fiducia che gli italiani meritano», dice giudicando «inaccettabili» le risatine di scherno di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy («e le scuse servono a poco, perché gli italiani non sono Berlusconi, e li si rispetta»).
AL COLLE A CHIEDERE DISCONTINUITÀ
Ed è questo che negli stessi minuti va a dire al Quirinale a nome del Pd Enrico Letta. Il vicesegretario dei Democratici sale al Quirinale per spiegare che il suo partito è disponibile ad assumersi le proprie responsabilità per evitare all’Italia il rischio default, partendo dalle proprie proposte in materia fiscale, economica ed industriale e mostrandosi pronto anche ad un confronto per una riforma del welfare che tocchi anche le pensioni. Ma perché si possa produrre un credibile passo in avanti, dice Enrico Letta, è necessaria una «discontinuità politica». L’opposizione è unita nel chiedere le dimissioni del governo. Dopodiché rimangono delle differenze di valutazioni su ciò che sia auspicabile una volta che Berlusconi abbia compiuto il necessario passo indietro.
TRANSIZIONE O URNE ANTICIPATE
Bersani sa bene che «siamo a un punto cruciale» e chiede «un soprassalto di consapevolezza» perché finalmente il governo passi la mano. «E poi si vede», dice non volendo disegnare scenari che sono tutti in capo al Quirinale. Spetta al Colle dice infatti il leader Pd il «compito» di valutare se ci debbano essere le elezioni anticipate o se ci siano i margini per un altro esecutivo. Che comunque deve essere «autorevole», precisa, e segnare una netta discontinuità con quello attuale. Il che vorrebbe dire che difficilmente il Pd potrebbe sostenere, in caso di crisi, un esecutivo guidato dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta. Idem per uno guidato dal presidente del Senato Renato Schifani, per quanto si tratti di una figura istituzionale.
Ma Fli e Udc farebbero lo stesso? Tra i finiani c’è chi non esclude che se Letta si presentasse con un programma di due o tre punti contro la crisi potrebbe esserci il loro consenso, ma molto dipenderà dal modo in cui si dovesse andare a un’eventuale crisi di governo e dalla posizione assunta in quel caso da Berlusconi. Non sarebbe poi indifferente se alla rottura si andasse poi proprio sul nodo delle pensioni. Una riforma in questo settore viene vista di buon occhio dal Terzo polo. «Ineluttabile» la definisce Gianfranco Fini. E nello stesso Pd se c’è chi chiude a ogni ipotesi (il capogruppo in commissione Lavoro Cesare Damiano e non solo) c’è anche chi è pronto a prendersi «ogni responsabilità» (Letta), pensioni comprese. Bersani vuole evitare voci discordanti in un momento delicato come questo e se da un lato ricorda che con le riforme già approvate «noi arriveremo a 67 anni prima della Germania e abbiamo una età di pensionamento superiore a quella della Francia», dice anche che «qualcosa si può fare». Cosa? Dice Bersani incontrando a sera i giornalisti nella sede del Pd: «È immaginabile alzare l'età effettiva con incentivi e disincentivi e un meccanismo di uscita flessibile tra i 62 e i 70 anni». Ma le soluzioni per uscire dalla crisi e per dare un impulso alla crescita, precisa, sono altre. E descrive le proposte del Pd, tutte già tradotte in progetti di legge depositati in Parlamento.

Corriere della Sera 25.10.11
Bersani chiede il passo indietro Ma non c'è asse con Casini
di Alessandro Trocino


ROMA — «Serve una discontinuità o l'Italia non esce dai suoi problemi». Questo il contenuto del colloquio che ha visto ieri salire al Quirinale Enrico Letta, vicesegretario del Pd, nell'ambito di «un giro di opinioni» con il capo dello Stato. La traduzione la fa Pier Luigi Bersani: «Questo governo non è più credibile, qualunque cosa faccia: deve passare la mano». Più cauto Pier Ferdinando Casini, che non ha intenzione di sostituirsi alla Lega, votando le pensioni, ma che non vuole neanche affondare il colpo contro l'esecutivo. Intanto Gianfranco Fini definisce «ineludibile» l'innalzamento dell'età pensionabile e il Fli si dice pronto a «votare una riforma europea delle pensioni». Pare difficile, dunque, che si realizzino le condizioni perché, come vorrebbe l'Idv, «l'opposizione unita metta a punto un documento comune, un manifesto per salvare l'Italia dal disastro Berlusconi». In mattinata Bersani e Casini hanno avuto un colloquio a quattr'occhi, a Bologna. Dal quale hanno fatto trapelare la «preoccupazione comune» per la situazione del Paese. Bersani spiega che con Casini «siamo abbastanza consonanti». Ma a differenza di altre volte, dall'incontro non è uscito un comunicato congiunto. Segnale evidente di posizioni non sovrapponibili. La divergenza è più che altro tattica, perché Casini, spiegano da ambienti a lui vicini, «non vuole giocare allo sfascio, in un momento in cui si rischia di essere commissariati da fuori, e chiede al governo di andare avanti da solo: se avrà i numeri e la serietà necessaria bene, altrimenti si porrà il problema del dopo Berlusconi». Per Bersani, invece, siamo ormai al punto di non ritorno. Rappresentato plasticamente dal ghigno irridente di Nicholas Sarkozy. Scenetta che non è piaciuta a Romano Prodi: «Mi sono sentito irritato e anche umiliato ingiustamente». Né a Massimo D'Alema: «Atteggiamento arrogante e inaccettabile». Bersani aggiunge che «noi italiani dobbiamo farci rispettare». Cosa impossibile, però, «fin quando resterà in campo» Berlusconi. Per questo «serve un gesto», ovvero le dimissioni. Bersani propone un nuovo assetto fiscale, interventi sui patrimoni immobiliari, un pacchetto di liberalizzazioni. Quanto alle pensioni, nel partito ci sono idee diverse. Enrico Letta è «pronto ad alzare l'età pensionabile» mentre per Cesare Damiano «è inaccettabile intervenire ancora». La linea di Bersani è la cautela: «Qualcosa da fare c'è, ma noi arriveremo ai 67 anni prima della Germania e abbiamo un'età effettiva di entrata in pensione superiore a quella della Francia».

l’Unità 25.10.11
Pensioni e governo di transizione. Opposizioni divise
Sel contraria, Udc favorevole, nel Pd posizioni diverse Damiano: sulla previdenza hanno già messo le mani Follini: se la proposta è seria non possiamo tirarci indietro
di Maria Zegarelli


No, la giornata più a rischio per il premier Silvio Berlusconi non si gioca nell’Aula del Parlamento alla conta dei voti di fiducia. Si gioca sul decreto sviluppo, sulla riforma delle pensioni e sul braccio di ferro con Umberto Bossi.
Quella del governo è una partita ad altissimo pathos anche per l’opposizione in un lunedì intenso di incontri (Bersani -Casini), con la salita al Colle di Enrico Letta e telefonate frenetiche tra i pontieri incaricati di sondare il campo con il Pdl. Il tema su cui tutto ruota è ufficialmente il contenuto delle misure economiche che il governo alla fine dovrà varare, ma è un altro lo snodo su cui lavorano gli sherpa dell’opposizione. «Il governo deve passare la mano», la posizione ufficiale del Pd e di tutta l’opposizione. Le divergenze riguardano lo sbocco che dovrebbe avere la crisi. Da una parte chi lavora al voto anticipato (Sel, Idv, un pezzo di Pd) e dall’altra chi punta all’esecutivo a tempo, (un altro pezzo di Pd e una parte dello stesso Pdl). L’Udc, come Fli, concordano sull’archiviazione dell’attuale esecutivo ma si tengono le mani libere «dopo».
Nel Pd il quadro è più articolato. Fioroni, Gentiloni, ma anche lo stesso Letta, (critici con la foto di Vasto) vedono nel governo di transizione, con una guida di alto profilo tutti pensano a Mario Monti la strada obbligata per uscire dallo stallo e mettere mano alle riforme impopolari ma necessarie. Veltroni guarda al governo di transizione come alla possibilità di ridisegnare il quadro politicoistituzionale. Poi, c’è chi ritiene che non ci siano più margini e che l’unica soluzione sia il ritorno alle urne. Tra questi molti dei dirigenti vicini al segretario, il quale, consapevole della fluidità della situazione politica, pur ritenendo le elezioni la strada maestra, rimette ogni decisione al Capo dello Stato.
È in questo complicato gioco di «equilibri» che le dichiarazioni e le prese di posizione sulla riforma delle pensioni (ma anche delle misure complessive contenute nella lettera Bce) assumono un contorno preciso alla luce di un cambio del vertice a Palazzo Chigi. Apre Enrico Letta e apre anche Marco Follini secondo il quale se «il governo porta in Parlamento una seria riforma» tutta l’opposizione «Pd in testa» dovrebbe votarla, «senza condizioni». Chiude, ma non da ora, Stefano Fassina, della segreteria nazionale che sulla lettera Bce ha posizioni distanti dal vicesegretario. E chiude anche l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano perché, «nonostante le apparenti barricate della Lega, il governo di cui Bossi fa parte ha già abbondantemente messo le mani sulla previdenza per far quadrare i conti».
Antonello Soro, non parla di pensioni, ma auspica un «nuovo esecutivo capace di fare tutte le scelte indispensabili, senza timori elettorali e senza rigurgiti ideologici» e invita il suo partito a «offrire una generosa disponibilità mettendo da parte quanti in ore pensano solo a se stessi e alle loro carriere». Rosy Bindi dice, certo, la «via migliore è sempre il ricorso al più presto a nuove elezioni», ma il Pd è pronto ad «assumersi le proprie responsabilità» per un governo «guidato da una personalità scelta da Presidente della Repubblica». L’Udc e Fli, ufficialmente sono disponibili a votare «una riforma seria della previdenza», ma è Berlusconi per primo a temere che l’agguato sia proprio dietro l’angolo. Il fatto è che sarebbe una questione non secondaria anche nello scenario di un governo di transizione con il Pd, come sia Fli che Udc ci hanno tenuto a far sapere.

il Fatto 25.10.11
Dai Rottamatori ai Ricostruttori
Una poltrona per tanti (giovani) democratici
di Wanda Marra


Alla prima riunione dei T/q (i “Trenta quarantenni”) del Pd organizzata dal presidente della Provincia di Pesaro e Urbino, Matteo Ricci, durante la Festa nazionale democratica, c’era anche lui, giovane dirigente di area franceschiniana, responsabile Innovazione e qualità del sistema radiotelevisivo del partito, 30 anni, sassarese di nascita. Una partecipazione breve e silente: il tempo di annusare l’aria e Gianluca Lioni decise di rinunciare al suo intervento. Non sono passati neanche due mesi, e la sua foto spicca tra le altre nella pagina dedicata domenica dal Corriere della sera alle 17 correnti del partito. “Giovane curdo” viene chiamato. Una definizione che a lui non dispiace, in opposizione ai “giovani turchi”, tra i quali, ci sono, appunto, molti dei T/q che da poco si sono riuniti nuovamente a L’Aquila (e tra i quali spiccano dirigenti democratici come Matteo Orfini, Stefano Fassina, Andrea Orlando, Nicola Zingaretti) : sì, perché lui, in queste settimane ha fatto in tempo non solo a distaccarsi da quel gruppo che qualcuno definisce lapidariamente “Comunisti immaginari” (visto che comunisti non sono mai stati), ma pure a stendere un documento, con le firme di decine di rigorosamente giovani amministratori locali. Presentato all’americana come “Manifesto dei T-party” (la “ t” orfana della “q” sta per trentenni). Lui spiega: “Siamo per un nuovo modello di partito, diverso dai vecchi modi di fare politica”. Una dichiarazione in realtà inflazionata tra i Democratici negli ultimi mesi. E che molti accompagnano con proposte in tema di economia. È la crisi, bellezza. Sul manifesto, infatti, si legge: “Va ripensato profondamente il sistema di welfare che ha bisogno di una maggiore equità generazionale e di genere”. Il suddetto manifesto viene pubblicato dal Foglio il 21 ottobre, giusto il giorno prima dell’iniziativa di Pippo Civati e De-bora Serracchiani a Bologna, “Il nostro tempo”. Freddo cane, ore e ore di interventi liberi.
ANCHE CIVATI che non risparmia battutine all’indirizzo di nessuno (I T-party? “Una cosa è fare un manifesto, una un incontro come il nostro”. I T/q a L’Aquila? “Quelli sono dirigenti del partito”) parla di economia: “Noi proponiamo un sostegno al reddito, un aumento della patrimoniale e l’innalzamento dell’età pensionabile per chi non ha potuto pagarsi i contributi”. E a Bologna ci sono andati pure Dario Franceschini e Nicola Zingaretti. Mentre Pier Luigi Bersani alla fine ha dato forfait: aveva la febbre. “Gli dev’essere passata, visto che ha potuto parlare con Casini e non solo”, commentava ieri lo stesso Civati. Beghe di partito a parte, a Bologna gli exploit al solito sono stati quelli dei meno conosciuti. Come quello di Youssef Salmi, assessore del Comune di Novellara, che ha esordito dicendo “Sono arrivato in Italia da clandestino” per continuare “ho sognato il Pd” e arrivare ad ammonire i colleghi italiani: “Cambiare è un percorso faticoso, faticosissimo”. O quello di Ilda Curti, assessore del Comune di Torino, che curiosamente si è guadagnata l’entusiasmo collettivo esordendo con l’ammissione di una sconfitta generazionale da parte di chi ormai va per i 50: “La mia generazione è quella degli arrivati tardi”, quella che “la legge Reale ha ignorato perché nel frattempo non si era ridotta solo la democrazia ma si era dissolta la partecipazione”. E ancora, “noi abbiamo assistito al liquefarsi delle classe dirigenti senza avere il coraggio di battere il pugno sul tavolo e dire che era ora di finirla”. Sarà forse anche per una presa d’atto come questa che gli ex Rottamatori (d’altra parte la Serracchiani di anni ne ha 40 e Ci-vati già 36) in due giorni si sono conquistati la definizione di “Ricostruttori” . Forse in polemica col Rottamatore per eccellenza, quel Matteo Renzi che con la sua iniziativa sarà alla Stazione Leopolda di Firenze da venerdì a domenica e da bravo ultimo catalizza le aspettative e scomoda addirittura il “Big bang” (così si chiama). “Perché Renzi a Firenze e Civati e Serracchiani a Bologna?” è la domanda che campeggia sulla pagina Face-book del Big Bang. “Perché c'è una poltrona da conquistare e su quella poltrona ce ne sta solo uno... quindi più che ‘io ballo da solo’ direi ‘io corro da solo’, è la risposta che appare sullo stesso sito. Lui Renzi, che ieri ha incontrato Nicola Zingaretti (cortesie tra futuri leader?) il quale l’ha informato che non andrà alla Leopolda, fa il magnanimo: “Gli incontri di questi giorni da quello a L'Aquila fino a Bologna, sono stati positivi.

Corriere della Sera 25.10.11
«Pd frantumato. E Bersani nel bunker»
Sircana: mi preoccupa lo stallo, il principio è «ognuno per conto suo»
di Francesco Alberti


MILANO — Tra rottamatori, ricostruttori e innovatori a vario titolo, soffia sul Pd un vento gonfio di richieste e aspettative: lei, Silvio Sircana, che ha vissuto in prima persona la stagione prodiana (portavoce del secondo governo del Professore), come vive da senatore pd questa fermentazione?
«Ben vengano queste ventate, se ne sente il bisogno. A patto però che il vento sia davvero quello del cambiamento e non l'ennesima corrente che al massimo ti fa venire il raffreddore. Per dirne una, sono rimasto molto stupito che Matteo Renzi e Pippo Civati si siano già divisi, mi pareva ci fosse tra loro una buona sintonia...».
Anche loro contagiati da quel virus della divisione che è da sempre nel Dna del centrosinistra?
«Io sono molto preoccupato per lo stallo provocato nel Pd da un'eccessiva frantumazione. Ricordo che una delle parole chiave con le quali Prodi vinse la prima campagna elettorale nel '96 fu "insieme". Ora quel termine è stato sostituito da quattro parole: "Ognuno per conto suo". Qualche anno fa, per lanciare le feste di settembre, ci ispirammo allo slogan del Martini di James Bond: "Mescolati, non agitati". Nel Pd sta accadendo il contrario: "Agitati, non mescolati". E mi preoccupa pure questa attitudine all'assalto al segretario, chiunque esso sia...».
C'è chi giudica troppo freddo l'atteggiamento di Bersani nei confronti delle istanze generazionali che stanno prendendo piede: è d'accordo?
«L'atteggiamento dei vertici del Pd, non solo di questo, ma anche dei precedenti, è caratterizzato dalla sindrome del bunker. Una volta arrivati in segreteria, ci si sente talmente poco supportati da frange anche consistenti del partito che spesso si cade nell'errore di chiudersi nel recinto con i fedelissimi senza aprirsi all'esterno».
Sircana in quale corrente sta?
«Beh, se devo stare alla rappresentazione del Corriere, posso dire che non appartengo a nessuna di quelle 17 correnti: e quindi, in questa logica, formo da solo la diciottesima...».
Perché il Pd parla tante lingue?
«Due ipotesi. O siamo in presenza di letture della realtà così fortemente divergenti da mettere in discussione una delle ragioni costitutive del Pd, la mescolanza, e allora forse è meglio che ognuno vada per la propria strada. Oppure sono schermaglie tra persone che, pur avendo approcci diversi, puntano a soluzioni simili, e allora sarebbe il caso di smettere di litigare».
Anche Bersani deve sottoporsi alle primarie per Palazzo Chigi?
«Se lo chiede la coalizione, mi parrebbe opportuno. Il Pd però non deve avere esitazioni nel candidare il suo segretario».

l’Unità 25.10.11
Vaticano: «Troppo liberismo, serve un’autorità mondiale»
A pochi giorni dal cruciale vertice G20 di Cannes, sul tema della finanza da riformare interviene il Vaticano. Un documento in cui si denuncia il dilagare di «un’ideologia utilitaristica» e si chiede «profonda innovazione».
di Marco Tedeschi


La fila degli osservatori che ritiene sempre più carente, se non fallimentare, il ruolo della finanza a livello globale si ingrossa comprensibilmente giorno dopo giorno di fronte ad inequivocabili fatti di cronaca. Ciò non toglie che fra le tante esternazioni contro il sistema finanziario ce ne sono alcune che catturano l’attenzione più di altre. Come quella arrivata ieri dal Vaticano, non a caso a pochi giorni di distanza dal cruciale vertice del G20 di Cannes. Una presa di posizione con cui la Santa Sede ricorda che il mondo globalizzato e il suo sistema finanziario e monetario non possono essere in mano ad un gruppo di amici, per quanto ampio e benintenzionato sia. Per questo il Vaticano auspica non una semplice governance della finanza bensì uno «shared government»; ciò significa che non basta un semplice coordinamento ma servono misure autenticamente super-partes prese da «un’autorità pubblica a competenza universale». Dove quest’ultima deve essere «fondata su diritto, regole condivise e rappresentatività al servizio del bene comune».
OLTRE BRETTON WOODS
Le considerazioni del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace sono contenute in un documento che vuole fare della attuale crisi mondiale una «opportunità» di riprogettare le regole dopo il declino del mondo disegnato dagli accordi di Bretton Woods, le bolle speculative, i deliri della finanza onnipotente, il fallimento delle banche, la crisi dei bilanci statali, l’aumento nel mondo delle schiere di poveri. Un’analisi che parte dalla constatazione di un mondo in cui sono aumentate a dismisura le diseguaglianze e che denuncia «un’ideologia utilitarista illusa che il vantaggio personale conduca al bene della comunità».
«Apprezziamo il lavoro svolto dal G20 ha spiegato il segretario del dicastero, monsignor Mario Toso -, ma non basta. Occorre innovare». Ed in quest’ambito non c’è difficoltà ad ammettere che le idee proposte possono coincidere con le motivazioni dei cosiddetti “indignados”: «Si dà il caso ha dichiarato monsignor Toso che anche gli indignados siano in linea con le prospettive del magistero dei Papi, ma ciò non significa che quest’ultime non abbiano una loro razionalità e che non vadano sostenute...». Del resto l’idea di una autorità mondiale, da Giovanni XXIII in poi, è parte integrante nella visione della Chiesa, rilanciata con forza dalla “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI, dove viene espressa la richiesta di «un’autorità pubblica a competenza universale su finanza e monete». Con alcune importanti specificazioni: ristabilire il «primato della politica sull’economia e la finanza»; realizzare un «multilateralismo» non solo per la «diplomazia, ma per lo sviluppo sostenibile e la pace»; scongiurare una generazione di tecnocrati, colmando il «divario tra formazione etica e preparazione tecnica»; da ultimo, ma non di minore importanza, «illuminare l’opinione pubblica, per aiutarla ad affrontare questo mondo nuovo non più nell’angoscia ma nella speranza e nella solidarietà».
VISIONE FUTURA
Per quanto riguarda il diritto, «logica vorrebbe che questa autorità mondiale si sviluppasse avendo come punto di riferimento l’Organizzazione delle Nazioni Unite». Ma, ha precisato Turkson, «non chiediamo una semplice riforma dell’Onu, proponiamo invece un governo di “consensus” che non verrà imposto su nessuna nazione». Il vaticano affronta poi il probema dei problemi, ovvero che cosa fare per economia e finanza dopo che il mondo di Bretton Woods si è volatilizzato e non si assicura più quel «bene pubblico universale che è la stabilità del sistema». Qui ci sono alcune proposte, con la premessa che serve gradualità e pazienza: «Occorrono misure di tassazione delle transazioni finanziarie, forme di ricapitalizzazione delle banche, anche con fondi pubblici, condizionando il sostegno a comportamenti virtuosi e finalizzati a sviluppare l’economia reale». Più a lungo termine, poi, la Chiesa individua come punto d’arrivo la creazione di una Banca centrale mondiale.

l’Unità 25.10.11
Scoppola e la democrazia dei cristiani
Le riflessioni del grande “cattolico intellettuale” scomparso quattro anni fa rappresentano ancora oggi la sfida politica lanciata dal progetto del Pd: impegno civile e un nuovo partito europeo
di Giuseppe Vacca


A quattro anni dalla scomparsa di Pietro Scoppola, la rivista online Nuovitaliani ha raccolto una serie di contributi per ricordare lo storico che fu uno dei padri del Partito democratico. Riportiamo di seguito l’articolo di Giuseppe Vacca.
C attolico intellettuale», non «intellettuale cattolico»: l’acuta distinzione di Don Giuseppe De Luca appare la più appropriata per caratterizzare la figura di Pietro Scoppola. «Cattolico a modo suo», lo definì Paolo VI e «storico a modo suo», oserei aggiungere, per sottolineare il peculiare intreccio fra la motivazione religiosa che ispirava la sua scelta di dedicarsi allo studio della storia, e l’impegno civile che lo portò a considerare la ricerca storica il complemento indispensabile dell’agire politico. Mi pare quindi persuasivo il suggerimento di Agostino Giovagnoli, che individua nel rapporto tra Chiesa e democrazia il tema dominante dell’itinerario storiografico e dell’esperienza religiosa e civile del suo maestro (A. Giovagnoli, Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 2011)
Credo sia stata questa la ragione per cui, fin dagli anni Settanta, insieme a Mario Rosa, Franco De Felice e i più giovani Franco Cassano, Gigi Masella e Ennio Corvaglia maturammo un crescente interesse per l’opera storiografica e il “lavoro culturale” che Scoppola andava sviluppando con intensità. Per il nostro itinerario politico e di ricerca il libro più importante di Scoppola è stato La proposta politica di De Gasperi. Quando il libro uscì (1977), alcuni di noi erano impegnati in una nuova interpretazione del pensiero di Gramsci e nella ricerca di criteri più affinati di quelli fornitici dalla cultura politica di riferimento (militavamo nel Pci) per analizzare la “crisi” dell’economia mondiale e la storia dell’Italia repubblicana che facevano da sfondo tanto alla proposta politica di Aldo Moro (la “terza fase”), quanto a quella di Enrico Berlinguer (il “nuovo compromesso storico”). Le loro proposte esigevano, in particolare, una percezione della Dc molto diversa dalle raffigurazioni sedimentate nella retorica politica e culturale della sinistra: una messa a fuoco del ruolo svolto dalla Dc nel trentennio precedente, e dunque dei fondamenti della sua egemonia.
Eravamo consapevoli del ruolo fondamentale della Chiesa e del cattolicesimo politico nella storia dell’Italia unita, ma fu il libro di Scoppola a metterci sulla strada giusta per capire la novità dei capisaldi su cui De Gasperi, dopo la caduta del fascismo, ne aveva reimpostato la funzione. Questo ci aiutò a liberarci dallo schematismo sociologizzante nella lettura della Dc e ad elaborare un approccio alla storia dei grandi partiti popolari in chiave di funzione nazionale di ciascuno e interdipendenza reciproca. Per la nostra parte, questo significava risalire alla lezione sorgiva di Gramsci e di Togliatti; nei rapporti con Scoppola e alcuni suoi allievi furono gettate allora le basi di una possibile collaborazione. Ma erano già gli anni della crisi della Repubblica e nell’affrontarla i nostri sentieri si divaricarono.
Nella prospettiva di Scoppola la crisi della democrazia originava dalla “secolarizzazione di basso profilo” che caratterizzava gli sviluppi della società dei consumi in Italia, colpendo il “progetto storico” della Dc degasperiana. Non posso fare più di un cenno agli scritti che Scoppola vi dedicò fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, limitandomi a ricordare La nuova cristianità perduta del 1985, che considero il suo libro più suggestivo sull’argomento. Quella chiave di lettura dei processi culturali, politici e sociali aveva un’impronta più sociologica che storico-politica e generò la grande sintesi del 1991, La repubblica dei partiti: un’opera che si collocava a metà strada tra storiografia e politologia. Il suo carattere duplice scaturiva dall’assillo di dare un fondamento storico alla battaglia politica che Scoppola veniva conducendo dagli anni successivi all’assassinio di Moro, sintetizzabile nella formula di una “democrazia dei cittadini”.
La divaricazione delle nostre prospettive di ricerca si incentrava su due punti fondamentali. Il primo era di carattere metodologico e riguardava la contrapposizione che Scoppola prospettava fra “democrazia dei partiti” e “democrazia dei cittadini”. Essa presupponeva la separazione di società politica e società civile che, secondo la lezione di Gramsci, sono invece distinguibili solo metodologicamente, al fine di analizzare l’insieme delle relazione fra politica, economia e cultura che scandiscono i processi storici reali. Il coté sociologico della ricerca di Scoppola ci appariva quindi infelicemente condizionato dal paradigma liberal-liberista che in quegli anni stava guadagnando una incontrastata egemonia.
Ma ancora più sensibile era la nostra differenza nella individuazione delle origini della crisi dei partiti. Se Scoppola poneva l’accento sull’“individualismo di massa” originato dalla società dei consumi, la nostra attenzione si volgeva invece alle trasformazioni internazionali che colpivano la forma tradizionale della sovranità territoriale, comprimevano la relativa autonomia della regolazione politica nazionale e rimodulavano la funzione degli Stati. In questo scenario la crisi dei grandi partiti popolari trovava spiegazioni diverse da quella prospettata da Scoppola (...).
I due approcci non erano condannati ad una sterile alternatività e quando, con la fine della “repubblica dei partiti”, il condizionamento delle culture politiche di riferimento si affievolì, quando, con la fine della Guerra Fredda, cominciò a essere più chiaro che la storia dei partiti non poteva più essere pensata in modo autoreferenziale, quando divenne più evidente che le loro vicende non solo erano state interdipendenti, ma avevano anche innervato i legami fra la storia d’Italia e la storia mondiale, si aprì una stagione nuova, ricca di imprese comuni sul piano della ricerca e dell’impegno civile. Fra le prime vorrei ricordare la ricerca su L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta: ideata alla metà degli anni Novanta, essa generò un’opera collettanea in quattro volumi (Rubettino 2003) che a mio avviso costituisce tuttora l’opera più significativa sulla storia nazionale e internazionale della Repubblica nel passaggio più denso di mutamenti del periodo storico compreso fra la seconda guerra mondiale e la fine del sistema bipolare. Quanto all’impegno civile, vorrei ricordare la ricerca sui nuovi fondamenti della democrazia europea: dopo quel passaggio si trattava di ridefinire il fondamento etico della democrazia, oltrepassando i confini della sua riduzione a mera procedura o della sua coniugazione con il socialismo come principale garanzia della sua apertura al futuro. Qui si inserì la proposta della “democrazia dei cristiani”, con la quale Scoppola ha contribuito forse più di ogni altro studioso militante a delineare, sotto il profilo intellettuale e morale, il progetto del Pd: una sfida inedita, per la quale continuiamo a domandarci se e quanto sia colmabile il vuoto che ha lasciato.

Corriere della Sera 25.10.11
«I cattolici diano un contributo. Basta con le deleghe in bianco»
Boffo: dobbiamo stare nella società, il Paese ha bisogno di noi
di Paolo Conti


ROMA — «Nella società italiana le aggregazioni si frantumano spesso. Nel caso di Todi è avvenuto il contrario. Dopo un lungo cammino durato più di vent'anni, l'associazionismo cattolico, nelle sue diverse declinazioni, mette da parte le divisioni formali e decide di confrontarsi e dialogare. Parlerei di un esempio di unità e non di divisione, o di frammentazione, che viene offerto in un momento così complesso».
Dino Boffo, da un paio d'anni, si espone raramente. Da un anno dirige Tv2000, di proprietà della Conferenza episcopale italiana, il doloroso capitolo della fine della sua direzione dell'Avvenire sembra ormai alle spalle. Ma la pagina di Todi lo spinge ad alcune riflessioni sulla situazione italiana e sul ruolo dei cattolici.
Cosa c'è alla radice di questa capacità di dialogo?
«Sicuramente l'accelerazione del processo politico italiano che stana tutti, soprattutto i cattolici che sembravano in letargo. E poi c'è, dicevo, il cammino ventennale interno all'associazionismo cattolico. Come si è visto, dialogano con spirito costruttivo realtà diverse: Acli e Mcl, Cisl e Cooperative, Neocatecumenali e Rinnovamento nello spirito, Azione cattolica e uomini di Comunione e liberazione».
Di chi è il merito, a suo avviso?
«Sicuramente alla radice c'è il frutto della cura che i Papi hanno riversato sui Movimenti. Giovanni Paolo II si è rivolto negli incontri ai diversi interlocutori come se ciascuno fosse l'unico e ha indicato i temi e i terreni grazie ai quali incontrarsi e colloquiare con gli altri. E lo stesso ha fatto Benedetto XVI che da cardinale fu il relatore ai convegni dei Movimenti alla vigilia di Pentecoste. Qualcuno pensava che tutto fosse finalizzato a interloquire con i politici esautorando i laici. Invece la strategia della Chiesa era opposta: proprio la creazione di una nuova leva laicale. Lo dimostra l'azione della consulta dell'Apostolato dei laici, di Scienza e vita, di Retinopera, di Copercom che si occupa del mondo della comunicazione. Todi è un incontro di "terzo tipo". Prima le associazioni si sono incontrare tra loro nelle rispettive basi, poi il dialogo dei vertici, infine l'incontro conclusivo con l'arricchimento dei due passaggi».
Il cardinale Bagnasco ha ricordato che il silenzio dei cattolici, in un frangente come l'attuale, «è peccato». Perché, a suo avviso, si è arrivati a questa definizione?
«È il condensato culturale del processo che ho descritto. In questa stagione il silenzio è peccato, la delega non è più tollerabile per intero, il Paese ha bisogno di noi, ciascuno è chiamato a offrire il contributo che può e sa dare. Come disse felicemente Giorgio Rumi, siamo tra i soci fondatori del nostro Paese e non possiamo tirarci indietro. Osservando l'azione della Cei non si può non notare una forte continuità, rappresentata dal cardinale Bagnasco che incarna il punto di sintesi più alto del lungo percorso di cui ho parlato. Nella Chiesa c'è una libertà di parola inimmaginabile, ed è di un soggetto molto composito. Poi c'è la sintesi. Non per niente il cardinal Bagnasco si è presentato al convegno di Todi, ha ricordato le convinzioni morali necessarie e poi ha detto al laicato: ora tocca a voi operare. Siamo di fronte a una continua opera di pedagogia da parte della Chiesa».
Lei vede dunque una continuità tra l'azione del cardinal Ruini e quella del suo successore Bagnasco al vertice della Cei?
«Come in natura non ci sono salti, così nella Chiesa si va avanti passo dopo passo. Ripeto: con continuità».
Il Cardinal Ruini, a sua volta, giorni fa ha ricordato che l'esperienza della Dc non è ripetibile. Perché lo ha fatto?
«Rispondeva a precise domande in un convegno. Ma nel corpo episcopale è largamente diffusa la consapevolezza dell'irripetibilità di quella esperienza. Oggi il posto di questo congregarsi dei cattolici è all'interno della società civile, con la bussola della dottrina sociale della Chiesa».
Sempre Bagnasco, alla fine di settembre, ha parlato di «atti licenziosi» e della necessità di «purificare l'aria». E tutti hanno pensato al governo Berlusconi e alla crisi anche morale.
«La Chiesa vive nei tempi, si documenta, cerca di capire e poi, seguendo un calendario per esempio dei consigli permanenti delle Conferenze episcopali, dice ciò che deve dire. Ma, come è stato chiarito, la Chiesa non incarica né disfa governi. Il suo compito è evangelizzare, formare le persone. E in quel formare c'è anche l'indicazione di ciò che è giusto e non è giusto fare e dire. Ma non apre le consultazioni....».
Lei è ottimista sullo sviluppo successivo di questo fermento? Crede che dopo Todi si passerà davvero a un'azione concreta?
«Sicuramente sì. Però osservo che il carico mediatico e di attesa non ha giovato alla riflessione di Todi. Si è sovrapposta la conclusione di un itinerario alla comunicazione esterna. Si rischia così di bruciare energie intellettuali e di distogliere l'attenzione dai problemi concreti creando una inutile, eccessiva fibrillazione mediatica».
Vede all'orizzonte nuove personalità cattoliche veramente in grado di dare un contributo alla società italiana?
«Le personalità già non mancano, difficile dire che il rettore Lorenzo Ornaghi, o Andrea Riccardi, o Paola Bignardi non siano attrezzati allo scopo... E i travasi dalle associazioni alla politica sono stati numerosi e fertili. Ora occorre guardare alle nuove generazioni, ai trentacinque-quarantenni. Forse ci vorrà un big bang nelle associazioni, o tanti big bang. Ma con grande senso del limite, dell'umiltà. Non siamo proprio all'Anno Zero...».

La Stampa 25.10.11
Parigi, gli ultrà cristiani all’assalto di Castellucci
Contestato per blasfemia “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” L’autore provoca: “Li perdono, non sanno quello che fanno”
di Alberto Mattioli


La produzione della Societas Raffaello Sanzio s’intitola Sul concetto di volto nel figlio di Dio

Ci voleva uno spettacolo in italiano di un italiano per scatenare l’ira dei cattolici francesi più integralisti. E per riportare a teatro polemiche, scontri, scandali, lanci di uova, interventi della polizia, denunce e comunicati infuocati. Tutto molto parigino, con ghiotti aneddoti da raccontare ai nipoti («Io c’ero!») tipo «la bataille d’ Hernani » o la «prima» del Sacre du printemps .
L’italiano è Romeo Castellucci, la produzione della Societas Raffaello Sanzio s’intitola Sul concetto di volto nel figlio di Dio e il campo di battaglia è il Théâtre de la Ville. Lo spettacolo è già stato visto in Germania, Belgio, Norvegia, Gran Bretagna, Spagna, Russia, Olanda, Grecia, Svizzera, Italia, Polonia e, in Francia, al festival d’Avignone. Ma, una volta approdato a Parigi, ha scatenato il putiferio. Al debutto, giovedì, i contestatori hanno distribuito volantini, poi sono passati al lancio di gas lacrimogeni e bombolette puzzolenti e infine hanno tentato di incatenare le porte del teatro. Poi nove cristiani muscolari hanno fatto irruzione in scena bloccando lo spettacolo finché non sono stati portati via di peso da poliziotti più muscolosi di loro, molto applauditi dagli spettatori. Venerdì, il bollettino segnala lanci di liquami e di uova (come Capanna! Destra o sinistra, è sempre stessa frittata), oltre a slogan contro la «cristianofobia» e la République. Sabato, nuova invasione di palcoscenico, nuovamente respinta. Domenica, altro assalto alla scena, stavolta non riuscito. Ieri, pausa (il teatro era chiuso), si ricomincia domani. Intanto il ministro della Cultura, Frédéric Mitterrand, condanna, la polizia arresta, il Comune di Parigi e il teatro querelano per «atti di degrado del patrimonio pubblico» e «violazione» della libertà di espressione e di creazione artistica» e la direzione annuncia che the show must go on fino al 30, in nome dei sacrosanti principi di libertà, eccetera.
Chi protesta sono dei cattolici scandalizzati dal carattere giudicato blasfemo dello spettacolo, un padre e un figlio che affrontano insieme la decadenza fisica del primo davanti a un grande Cristo di Antonello da Messina che occupa tutta la scena. Apriti cielo. I blitz sono organizzati dall’Institut Civitas, già protagonista, il 17 aprile, dell’assalto a una galleria d’arte di Avignone dove fu presa a martellate l’ Immersion Piss Christ , la fotografia di Andres Serrano di un Crocifisso immerso nell’urina. Il segretario generale dell’Institut, Alain Escada, martella anche verbalmente: «Ci felicitiamo di constatare che, dalla prima rappresentazione di questi spettacoli osceni e blasfemi a Parigi, l’indignazione dei cristiani si sia manifestata con dignità e fermezza» (spettacoli al plurale perché i neocrociati promettono sfracelli anche per un Golgota picnic prossimo venturo). Ma ci sono anche i monarchici dell’Action française e i nazional-controrivoluzionari del Renouveau français, vicini ai lefebvriani, che rivendicano l’incursione «davanti ai 400 bobos (i detestati bourgeois-bohème, come dire i fighetti di sinistra, ndr ) venuti a dilettarsi con una pseudoarte scatologica».
Dall’altra parte della scena e della barricata, Castellucci getta olio sul fuoco paragonandosi a Cristo: «Li perdono perché non sanno quello che fanno. Non hanno mai visto lo spettacolo; non sanno che è spirituale e cristico, vale a dire latore dell’immagine di Cristo». Però poi Castellucci spiega che «è completamente falso che durante lo spettacolo si sporchi il volto di Cristo con degli escrementi. Chi ha assistito alla rappresentazione ha potuto vedere la colata finale di un velo d’inchiostro nero, che scende sul quadro come un sudario notturno».
In effetti viene il forte sospetto che tutto sia un grande equivoco e che si faccia, come diceva qualcuno del settore, molto rumore per nulla. La scena choc vista ad Avignone, un gruppo di bambini che lanciava giocattoli sul Cristo di Antonello, a Parigi molto semplicemente non c’è e non è nemmeno mai stata prevista, per la semplice ragione che non è facile gestire un pattuglione di bambini ad anno scolastico iniziato. Ma, accusa il Figaro , «il teatro non ha assolutamente fatto nulla per farlo sapere». Altrimenti, quando mai tutta Parigi ne avrebbe parlato?

il Riformista 25.10.11
Gli Indignados cattolici a teatro
Sabotaggio sul «figlio di Dio»
di Laura Landolfi

qui

il Fatto 25.10.11
Burqa e niqab, spaccate maggioranza e opposizione


Il burqa e il niqab non mettono d’accordo nessuno. Ieri maggioranza e opposizione si sono spaccate alla Camera sulla proposta di legge che ne vieta l’utilizzo. “Una necessità urgentissima – ha sottolineato la relatrice Pdl Souad Sbai – per arginare la volontà di controllo che alcune lobby estremiste vorrebbero esercitare sulla sfera immigrata di religione musulmana. Non ci possiamo nascondere il fatto che dietro la richiesta normativa di vietare burqa e niqab ci sia un universo di diritti negati alle donne”. “Per noi – ha aggiunto la leghista Maria Piera Pastore – l’uso del burqa e del niqab da parte delle donne che si trovano nel nostro Paese rappresenta una forma di violenza”. Ma, ha obiettato Flavia Perina, di Fli, “se stiamo parlando di diritti e di libertà civili e, in qualche modo, abbiamo definito le donne come vittime di questa situazione, è davvero bizzarro immaginare di sanzionare una vittima per una responsabilità che non è sua”. “La proposta della maggioranza è pasticciata, contraddittoria e presenta più di un profilo di incostituzionalità”, secondo Roberto Zaccaria del Pd.

Repubblica 25.10.11
Se la religione diventa l’unica fonte del diritto
di Renzo Guolo


Fanno discutere le affermazioni del Mustafa Abdel Jalil sulla sharia. Il leader del Consiglio nazionale di transizione libico ha affermato che la legge di derivazione religiosa sarà alla base della legislazione. Parole, sia pure poi mitigate, che hanno sollevato varie reazioni. Non solo tra gli orfani dello scontro di civiltà ma anche tra quanti si chiedono se vale la pena aiutare ad abbattere dittatori "laici" per favorire l´ascesa al potere di gruppi che, facendosi scudo della libertà conquistata, potrebbero negare diritti e pluralismo.
Di per sé, le affermazioni del leader libico non fanno che registrare la realtà. In buona parte degli ordinamenti giuridici del mondo islamico il riferimento alla sharia è palese. Persino in Egitto, dove Sadat pagò, negli anni Settanta, questo prezzo agli islamisti sdoganati in funzione antinasseriana. È la storica debolezza delle élite laiche a far sì che esse non potessero, con poche eccezioni, prescindere dal riferimento all´Islam. Troppo debole la loro legittimazione politica perché potessero permettersi forzature sul piano religioso. Così, anche i regimi che pure reprimeranno con forza l´Islam politico non riusciranno mai a prescindere del tutto dal riferimento alla religione come codice di legittimazione.
Il problema nel mondo della Mezzaluna non è, dunque, la presenza nella gerarchia delle fonti della sharia; quanto se essa è o meno fonte esclusiva della legge. E ciò dipende dai rapporti di forza e dalla natura del sistema politico. Se in una certa realtà prevalgono gli islamisti e se essi si fanno regime, il riferimento alla sharia come esclusiva fonte della legge sarà inevitabile. Se invece il sistema sarà pluralista e la selezione del ceto politico sarà affidata alle urne, il grado di applicazione sarà meno rigido e la legge religiosa conviverà con norme positive. Come già accade in molte realtà. Le diverse parti del corpus sharaitico - che toccano questioni assai differenti, dal diritto di famiglia alle regole sugli interessi bancari, dalle pene ai costumi - potranno così essere applicate in alcuni campi e non in altri. Del resto il mondo della Mezzaluna si presenta già oggi con volti diversi: la Turchia e l´Indonesia non sono l´Arabia Saudita e l´Iran. E la Tunisia di domani potrebbe essere diversa dalla Libia che verrà.
Il rischio, semmai, è che in questi paesi si vada a una selezione più aperta del ceto politico ma restino aperte questioni rilevanti attinenti i diritti; che si vada verso la nascita di mere democrazie elettorali. Un rischio, quello delle potenziali "democrazie senza democratici", che per essere evitato esige mutamenti di natura economica e sociale, capaci di limitare la povertà e aumentare l´istruzione, ridurre la diseguaglianza, non solo quella di genere e favorire la nascita di una società civile degna di tal nome. Solo così la democrazia attecchisce davvero.

Corriere della Sera 25.10.11
Quegli alunni stranieri nati e cresciuti in Italia
di Alessandra Coppola


Nell'ultimo anno scolastico il 42,1% degli studenti che non ha la cittadinanza italiana è nato qui. In Lombardia il dato sale al 48%. Lo dicono i dati del ministero dell'Istruzione. Un salto, rispetto a tre anni fa, quando erano il 34,7%.

MILANO — Alla Casa del Sole, elementari e medie nel parco Trotter che a Milano è il ritrovo di molte nazionalità, lo sanno dai registri di classe: sono sempre di più gli alunni stranieri nati in Italia. «Un elemento decisivo — sottolinea lo storico, battagliero, preside Francesco Cappelli (appena andato in pensione) —: se i bambini parlano bene l'italiano e crescono in situazioni di stabilità familiare, crollano tutte le differenze che potevano creare difficoltà».
Lo dicono adesso con il timbro dell'ufficialità anche i dati elaborati dalla Fondazione Ismu per il ministero dell'Istruzione: nell'ultimo anno scolastico il 42,1 per cento degli studenti che non ha la cittadinanza italiana è nato qui. Un bel salto rispetto a tre anni fa, quando erano il 34,7. Nelle scuole dell'infanzia, poi, il numero quasi raddoppia: 78,3. «Diventa sempre più difficile usare la parola "stranieri" — osserva Vinicio Ongini, della Direzione generale dello studente al ministero, uno dei responsabili del rapporto —: in Lombardia il dato sale addirittura al 48 per cento». Sorridono i ragazzi della Rete G2-Seconde generazioni: un argomento in più a sostegno della campagna in corso per una legge sulla cittadinanza che riconosca come italiano chi è nato nei nostri confini, introducendo lo ius soli.
Non si parla di boom di alunni stranieri, però, avverte Ongini. Al contrario, l'aumento complessivo frena, in modo anche più visibile di quanto si era già registrato per gli adulti. Gli studenti non italiani sono 711.064 (il 7,9 per cento del totale), dieci volte di più rispetto a 15 anni fa. Ma se fino al 2008 si sono moltiplicati al ritmo di 60-70 mila all'anno, nell'ultima tornata i nuovi ingressi sono stati «solo» 38 mila. Significa meno arrivi e più partenze: «Da una parte è effetto della crisi — continua il ricercatore — dall'altra alcuni nuclei familiari tornano ai Paesi d'origine, per esempio in Romania o in Albania, dove c'è una leggera ripresa».
Romeni e albanesi restano comunque i più numerosi in classe, seguiti da marocchini e cinesi. A sorpresa, però, subito dopo arrivano i bambini moldavi, effetto dei ricongiungimenti chiesti da colf e badanti. Li tallonano al sesto posto gli indiani, che alle superiori vengono scavalcati dai ragazzini ucraini ed ecuadoriani (anche loro spesso hanno raggiunto le mamme al lavoro nelle case italiane).
Gli ultimi iscritti, quelli che arrivano in Italia in fasi delicate come l'adolescenza, inseriti spesso in classi inferiori all'età anagrafica, sono il segmento più fragile — avvertono i ricercatori — quello che avrebbe bisogno di maggiore attenzione: ma sono solo il 5 per cento. Un dato assorbito nel conto degli alunni stranieri con ritardo scolastico: il 70 per cento alle superiori contro il 20 degli italiani. «Fenomeno spesso legato al percorso migratorio più che a una cattiva riuscita» spiega Mariagrazia Santagati, curatrice del rapporto per l'Ismu. Certo, il divario con i figli di italiani è significativo, anche nelle promozioni: «I bocciati stranieri sono il doppio, il 30 per cento».
La professoressa Santagati s'è dedicata soprattutto ai dati che riguardano la scuola secondaria di secondo grado, traendone due considerazioni essenziali. La prima: i figli dei migranti stanno crescendo, in un anno 10 mila si sono iscritti alle superiori, anche se sono ancora solo il 5,8 per cento del totale (restano quindi concentrati tra elementari e medie). La seconda: la grande maggioranza frequenta un istituto tecnico o professionale, solo il 18,7 per cento (soprattutto ragazze) va al liceo (contro il 43,9 degli italiani). Spesso su consiglio dei docenti, in molti casi nella speranza di un più rapido accesso al mondo del lavoro.
Infine, qualche sorpresa dalla distribuzione geografica. Se il record nei numeri è della Lombardia (il 24,3 per cento degli studenti non ha la cittadinanza italiana), guardando alle province le incidenze maggiori (cioè le percentuali più alte sul totale) si registrano a Piacenza, Prato, Mantova, Asti e Reggio Emilia. «Cè una tendenza a parlare dei quartiere delle grandi città — riflette Ongini —: questo rapporto sposta l'attenzione su un'altra Italia, fatta di paesi anche piccoli. E aiuta a dare un quadro più equilibrato».

Corriere della Sera 25.10.11
Nati nel nostro Paese, restano stranieri
L’ingiustizia della cittadinanza negata
di Giampiero Della Zuanna

qui

Corriere della Sera 25.10.11
I ragazzi di Caserta che aiutano i migranti
di Dacia Maraini


Di Castel Volturno si raccontano cose inquietanti: sul degrado territoriale, sulla massiccia presenza dei clandestini, sulla soggezione della città alla Camorra. Nessuno racconta la parte sana, reattiva e combattiva della città. Nessuno racconta di quei cittadini che da anni fanno un lavoro di resistenza alla camorra, di aiuto agli immigrati, di difesa del territorio. E invece vale davvero la pena di conoscerli questi ragazzi (ma ci sono dentro uomini e donne di tutte le età) del Centro sociale Ex Canapificio di Caserta.
Essi non si limitano alla mera protesta. Prima viene l'analisi della situazione, precisa e razionale, per niente ideologica e poi le proposte concrete. La Bossi-Fini, dicono, è risultata fallimentare. Scopo della legge era il rimpatrio dei clandestini. Per questo la legge stabilisce che chi non dispone di un contratto di lavoro non può rimanere in Italia. Ma non hanno fatto i conti con la prassi del lavoro nero. Risultato: niente contratto, niente permesso, e niente permesso niente contratto. «Manovali, braccianti agricoli od operai, lavorano in media 10/12 ore al giorno e percepiscono una paga quotidiana non superiore ai 25/30 euro». Non disponendo di un permesso di soggiorno non possono nemmeno affittare regolarmente una casa. Di ciò approfittano gli usurai per fare pagare da 400 a 600 euro al mese una stanza in periferia. Per saldare la cifra assurda i clandestini sono costretti a pigiarsi in dieci, venti dentro quella misera stanza, in condizioni igieniche disastrose.
Ma la legge è inefficace anche per un'altra ragione: il diritto internazionale vieta il rimpatrio se l'Ambasciata del Paese di origine non collabora con l'Italia per l'identificazione del cittadino. «Pertanto, esclusi gli sporadici permessi concessi alle colf e alle badanti, si è creato un limbo giuridico per migliaia di immigrati che non possono essere rimpatriati e che al tempo stesso nel nostro Paese lavorano, anche se in condizioni durissime, supportando la nostra sempre più debole economia», come scrivono con logica saggezza i cittadini del Centro sociale. Essendo in nero, fra l'altro, i migranti non pagano tasse. «Eppure solo nel 2009, per la sanatoria di colf e badanti sono state presentate 300 mila domande (fonte ministero dell'Interno) e ciascuno ha pagato 500 euro. Pensiamo a quanti fondi potrebbe ricavare lo Stato da una sanatoria generalizzata, senza contare il successivo versamento di contributi! La regolarizzazione potrebbe costituire un "tesoretto" non indifferente».
Questa l'analisi. Seguono le proposte che per ragioni di spazio sono costretta a sintetizzare: 1) introduzione di canali di ingresso regolari per ricerca di lavoro. 2) Visto di ingresso valido un anno con cauzione. 3) Regolarizzazione graduale ad personam, e decrescita fino alla scomparsa dell'immigrazione irregolare. 4) Garanzia di giusto diritto di asilo e di accoglienza. 5) Riforma del diritto di cittadinanza. 6) Rafforzamento di politiche attente ai ricongiungimenti familiari e alla possibilità che i bambini nati in Italia ottengano la cittadinanza.

La Stampa 25.10.11
“Torture sui detenuti” Asti, 5 agenti a processo
L’accusa: due carcerati nudi in cella e picchiati più volte al giorno Gli avvocati: è stata nascosta una piccola Abu Ghraib italiana
di Raphaël Zanotti


Dietro l’opulenta Asti dalle cento torri, dietro la ricca provincia del vino, dei tartufi e della poesia si nasconde quella che l’avvocato Angelo Ginisi chiama «la piccola Abu Ghraib italiana».
Strada Quarto Inferiore 266, casa circondariale. Cinque chilometri dal centro eppure lontana mille miglia dal selciato pittoresco della piccola cittadina di provincia. Forse lontana mille miglia anche dall’Italia di Cesare Beccaria e dal carcere inteso come luogo di rieducazione e reinserimento.
È in questa struttura di cemento e grate, nell’impenetrabile braccio dell’isolamento, che si è forse consumata una delle vergogne d’Italia: due detenuti umiliati e pestati per settimane, vessati e torturati da una squadretta punitiva formata da agenti della polizia penitenziaria.
Una storia che, a sentire le testimonianze, sembra far parte di un’altra epoca, di un altro luogo. Nudi. Lasciati per giorni in una cella senza vetri alle finestre in pieno inverno. Senz’acqua corrente, senza un bagno agibile. Una rete metallica priva di materasso, lenzuola o coperte come giaciglio. Tenuti per giorni a pane e acqua. E ripetutamente pestati, fino a tre volte al giorno, fino allo sfinimento.
«Non mi facevano dormire racconta oggi Andrea Cirino, 33 anni, una delle due presunte vittime dei pestaggi - Faceva così freddo che ero costretto a stare tutta la notte per terra, attaccato a un piccolo termosifone. Non appena mi addormentavo, alzano lo spioncino e gridavano: “Stai sveglio, bastardo!”. Poi arrivavano i passi con gli anfibi e allora capivo: mi rannicchiavo. Loro entravano in sette od otto nella stanza e partivano calci, pugni, schiaffi. Speravo solo che la raffica finisse, ma non finiva mai».
La stessa sorte subiva, secondo il racconto, anche Claudio Renne, 37 anni di Novara. A lui, addirittura, un agente avrebbe staccato a mani nude il codino che portava. Violenze e umiliazioni ripetute perché i due, qualche giorno prima, avevano aggredito un agente della penitenziaria.
Questo racconta l’indagine di due sostituti procuratori, Francesco Giannone e Chiara Blanc, che hanno chiesto e ottenuto il processo per cinque agenti della polizia penitenziaria (altri sette erano stati prosciolti a luglio scorso).
Dopodomani ad Asti comincerà il processo ma forse non vedrà mai la fine visto che i fatti risalgono al 2004 e hanno sonnecchiato per sette anni, incagliati in chissà quale anfratto degli uffici giudiziari, prima di tornare fuori, alla luce del sole, a pochi mesi dalla prescrizione.
Poco male per la difesa degli agenti che ha sempre ritenuto quest’indagine un’enorme montatura. «Accuse totalmente infondate e per noi calunniose» sostiene veemente l’avvocato Aldo Mirate.
Non così per la parte civile, l’avvocato Ginisi per Cirino e gli avvocati Mauro Caliendo e Roberto Caranzano per Renne. «Gli atti sono incontrovertibili sostengono - E non ci sono solo le testimonianze dei detenuti, ma anchequelle di ex agenti della Penitenziaria e intercettazioni telefoniche a sostenere l’accusa».
Ad Asti, la storia della piccola Abu Ghraib, mette imbarazzo. Dal carcere parlano di «vicenda delicata, da chiarire». Gli agenti della Penitenziaria se ne sentono ostaggio: «Da anni abbiamo la sensazione di essere lasciati soli, abbiamo paura anche solo a difenderci se veniamo assaliti» racconta uno di loro.
Il segretario generale l’Osapp, Leo Beneduci, rinnovando fiducia nell’autorità giudiziaria e nei colleghi, dichiara: «Aborriamo la violenza e se ci sono mele marce vanno isolate, auspichiamo che in sede giudiziaria si chiariscano se ci sono stati episodi di violenza».
Su tutto aleggia un clima teso. Forse lo stesso che si viveva all’epoca, quando a tirar fuori la storia di Cirino e Renne non furono loro stessi, non furono i compagni di cella e nemmeno agenti della penitenziaria. Fu un’assistente carceraria riuscita a entrare nel braccio dell’isolamento, area che non è nemmeno videosorvegliata. Vedendo Renne con il volto tumefatto, chiamò l’ambulanza e lo fece ricoverare. Fece una segnalazione e partì l’indagine.
In pochi mesi il commissario di polizia Antonella Reggio raccolse numerose testimonianze, comprese quelle di Cirino a Renne che all’inizio negarono.
Al termine di quell’inchiesta, il quadro raccolto dal commissario era, se possibile, ancora più inquietante di quello di oggi. Non solo detenuti e agenti sapevano, ma anche l’allora direttore del carcere Domenico Minervini (oggi ad Aosta). Scrive il commissario: «Nonostante fosse stato messo al corrente di quanto accadeva all’interno dell’isolamento, non prendeva ulteriori provvedimenti al fine di salvaguardare l’incolumità dei detenuti». Ce n’era anche per i medici del carcere che, nei loro verbali, scrivevano di aver trovato Cirino e Renne in buona salute. Né il direttore né i medici, tuttavia, risultano indagati. Per loro, Asti, può continuare a essere la città delle cento torri, del vino, dei tartufi e della poesia. Lontana mille miglia da Abu Ghraib.

l’Unità 25.10.11
Il fondo salva-Stati? Si potrebbe aprire ai capitali dalla Cina
La due giorni di Bruxelles ha prodotto esiti la cui verifica ci sarà domani
Ancora pressioni sull’Italia da parte dei vertici europei
La Germania
si prepara a un complicato voto al Bundestag per il via libera all’accordo
di Paolo Soldini


Arriveranno cinesi, brasiliani, sudafricani, arabi degli emirati e chissà ancora chi a salvare l’euro?
L’ipotesi di una partecipazione di fondi sovrani dei paesi extraeuropei (o europei ma extra-euro) all’impegno finanziario per combattere la crisi si era già affacciata timidamente domenica a Bruxelles. Ieri è diventata molto più consistente per la piega che le cose hanno preso a Berlino. All’improvviso, infatti, la Cdu, il partito della cancelliera ha accettato che il Bundestag voti in seduta plenaria sul piano tedesco per l’Efsf, il fondo europeo salva-stati. Si è trattato di una svolta clamorosa, perché fino a tutta la mattinata di ieri sia Angela Merkel che il suo ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble avevano fieramente avversato quest’ipotesi e sul piano da portare al vertice di domani avevano concesso al massimo un’informazione a porte chiuse alla commissione Bilancio.
Il repentino cambiamento d’idea sarebbe stato motivato dalle opposizioni sempre più forti che il piano originario tedesco, quello che era stato a lungo oggetto di un duro braccio di ferro con Parigi e che la cancelliera avrebbe ancora difeso ieri pomeriggio in vari incontri con i gruppi parlamentari, sta sollevando non solo nelle sinistre, ma anche in settori non marginali della coalizione di centro-destra e, soprattutto, fra i consulenti economici del governo. Gli oppositori ritengono che l’uso dell’Efsf come “leva finanziaria” o, si è detto, come “assicurazione parziale” a garanzia delle banche che acquistano titoli dei paesi a rischio avrebbe per effetto la necessità, prima o poi, di sfondare il tetto della quota tedesca al fondo stesso, fissata attualmente a 211 miliardi (su 440). Un sovrappiù che l’opinione pubblica non accetterebbe mai. Se il “piano leva” dovesse essere bocciato dal Bundestag non resterebbe altra soluzione che quella di un incremento della dotazione dell’Efsf con soldi che, considerata la necessità di garantire una sessantina di grandi banche europee dalle perdite di una svalutazione dei titoli greci che verrebbe fissata – avrebbe precisato la Merkel ai gruppi parlamentari – al 60%, dovrebbero per forza essere cercati altrove. Ecco perché ieri si è fatta strada l’ipotesi degli interventi extra-euro, o almeno di una combinazione tra le due ipotesi.
Si possono immaginare la frenesia in cui, in queste ore, si sta lavorando alla preparazione dell’appuntamento di domani e il nervosismo che domina. I media europei hanno dato ieri ampio spazio allo scontro tra Sarkozy e il premier britannico Cameron, al quale il presidente avrebbe detto di “chiudere il becco”. I tempi sono da cardiopalma soprattutto per Berlino. Il Consiglio europeo è convocato per le 18. Alle 12 la cancelliera Merkel parlerà per venti minuti al Bundestag, poi seguiranno tre ore di discussione. Se ci sarà un voto, come ormai è quasi certo, la cancelliera dovrà attenderne l’esito prima di partire per Bruxelles: la Corte di Karlsruhe (equivalente alla nostra Consulta) infatti ha decretato qualche settimana fa che in materia di misure finanziarie a livello europeo il parere del parlamento deve essere rispettato rigorosamente.
Se il governo non lo facesse rischierebbe una bocciatura costituzionale. Inoltre, prima che i capi di stato e di governo entrino nella sala del Consiglio, Angela Merkel dovrà consultarsi non solo con Sarkozy, ma anche con i leader dei paesi favorevoli al piano tedesco prima versione: Austria, Olanda, Finlandia, forse Polonia. Ci sarà, infine, da valutare gli sviluppi del “problema Italia”.
Da fonti tedesche pareva di capire, ieri, che tanto la cancelliera che Sarkozy eviterebbero di intrattenersi personalmente con Berlusconi e demanderebbero a Barroso e Van Rompuy il compito di valutare le misure con le quali il capo del governo italiano si presenterà a rapporto.

Repubblica 25.11.10
New York
La tenda nel cuore della City
Occupy Wall Street fa proseliti a New York. E a Londra Saint Paul chiude a causa degli indignati. La rivolta anti-banche va avanti. Ecco come
di Federico Rampini


Uno chef dello Sheraton viene a sfornare piatti caldi, le star del cinema fanno a gara a visitare la tendopoli, Mtv seguirà minuto per minuto la vita di alcuni dei manifestanti. Troppo? Non sembra, almeno stando all´ultimo sondaggio che racconta di due terzi della popolazione Usa solidali con le ragioni della protesta contro Wall Street. E la sinistra torna a sognare
Certo, c´è anche chi, come Frank Bruni sul New York Times, dà voce all´insofferenza

NEW YORK. Gli scettici, gli avversari, pure il sindaco Michael Bloomberg, aspettavano il Generale Autunno sperando che fosse lui a fare piazza pulita. Invece niente. I primi freddi sono arrivati, qualche acquazzone, le foglie cadono a Central Park, ma Occupy Wall Street è più vivo che mai. Ha superato il primo mese di resistenza la protesta accampata a Zuccotti Park, nel cuore della piazza finanziaria più globale che ci sia. Per parare l´offensiva del Generale Autunno si sono mobilitati in molti. Un grazioso "farmers´ market" ha piantato le sue tende a fianco a quelle dei manifestanti: ora i ragazzi hanno frutta e verdura fresca tutti i giorni, roba buona, al 100% "bio" e chilometro zero.
Uno chef dell´hotel Sheraton, abituato a cucinare per ristoranti a tre stelle Michelin, viene a sfornare piatti caldi tutti i giorni, omaggio della casa per i contestatori. In un mese di vita il movimento è cresciuto in tutti i sensi. Ha ormai partorito perfino una vena di creazione poetica: nella sezione Missed Connections (Incontri Mancati) del sito newyork.craigslist.com si possono leggere le poesie d´amore che celebrano le prime coppie unite dalla battaglia contro "l´1% dei profittatori". Nei momenti di noia (ammesso che ce ne siano) i militanti hanno a disposizione 3.000 libri da leggere, donazioni di simpatizzanti, in gestione alla Libreria del Popolo: ci sono l´opera omnia di Marx ed Engels, tutti i libri di Naomi Wolf e perfino quelli di Milton Friedman (il padre dell´economia neoliberista: bisogna studiare il pensiero nemico), ma il più gettonato di tutti è ... un manuale di magìa in francese. Sono cominciate le riprese per il primo documentario dedicato al movimento, titolo provvisorio "99% - The Occupy Wall Street Collaborative Film", un´opera a cui stanno lavorando 50 giovani registi che hanno già accumulato 200 ore di filmati. Unico problema, confessa la produttrice Audrey Ewell, "è che non riusciamo ancora a trovare qualcuno tra noi disposto a prendere le parti dell´avversario, a criticare il movimento". La musica in piazza non manca mai, soprattutto le percussioni afrocubane, però manca per ora un vero e proprio "inno", una canzone-simbolo come furono quelle di Bob Dylan per la contestazione pacifista negli anni Sessanta, e il critico musicale del New York Times propone di sceglierlo per referendum tra i brani dei Nirvana. Il movimento continua a non avere una leadership riconosciuta eppure ha già la sua prima rappresentanza parlamentare, almeno in pectoris: Elizabeth Warren, candidata al seggio del Senato nel Massachusetts, è considerata a tutti gli effetti una "pioniera" di questa lotta: da giurista di Harvard fu un´accusatrice autorevole di Wall Street nel 2008, è lei ad avere gettato le basi per l´authority di tutela del piccolo risparmiatore. A confermare la popolarità mondiale di Occupy Wall Street, le agenzie turistiche ormai hanno inserito Zuccotti Park nei giri organizzati dei torpedoni, alla pari con l´Empire State Building e Times Square. I manifestanti hanno dovuto mettere dei cartelli "I turisti per favore si fermino qui" per evitare che il via vai dei gruppi, insieme con quello delle troupe televisive, finisse per invadere la privacy di chi dorme in sacco a pelo sotto le tende. La ciliegina sulla torta è la notizia che Mtv lancerà presto un "reality show" su questa protesta: "True Life: I´m Occupying Wall Street" seguirà minuto per minuto la vita di alcuni manifestanti. Forse si comincia a esagerare? L´editorialista Frank Bruni sul New York Times dà voce alla prima insofferenza verso il consenso corale "politically correct": osserva che tra le star dello spettacolo venute a omaggiare Occupy Wall Street ci sono oltre ai militanti di sempre come Michael Moore e Susan Sarandon anche il magnate della musica rap Russell Simmons che da solo "vale" 340 milioni di dollari; l´attore Alec Baldwin che ha dimore sontuose a Manhattan e sulla spiaggia degli Hamptons; nonché musicisti come Mariah Carey, Nelly Furtado e Beyoncé che non esitarono a cantare a pagamento per la famiglia Gheddafi. Insomma un bel campionario di quell´1% di super-privilegiati contro i quali è nata la protesta.
È facile fare dell´ironia, eppure la destra repubblicana ha capito che questo movimento è pericoloso per lei. Dopo averlo bollato come un rigurgito di "lotta di classe, odio contro chi produce ricchezza, invidia sociale", da qualche giorno i toni dei repubblicani si sono fatti più cauti. È successo dopo che due sondaggi importanti – del Wall Street Journal e del Washington Post – hanno rivelato che i due terzi degli americani simpatizzano con Occupy Wall Street in quanto ne condividono lo slogan principale: "Tax the Rich", tassiamo i ricchi. In un paese che venera i miliardari creativi alla Steve Jobs e Bill Gates, si scopre che i due terzi dell´opinione pubblica sono indignati contro la vera plutocrazia, quella della finanza parassitaria. E la sinistra americana torna a sognare: era dagli anni Sessanta che non vedeva nascere un movimento di base animato da ideali di equità sociale.

Repubblica 25.11.10
Londra
Chiude anche Saint Paul i mercanti via dal tempio
di Enrico Franceschini


Gli indignati accampati a Paternoster Square hanno costretto la cattedrale-simbolo della capitale britannica a chiudere i battenti: non accadeva dal ´45, quando cadevano le V2 di Hitler. Le autorità religiose lamentano le perdite economiche per le mancate offerte dei fedeli Ma i ribelli anti-banche sembrano decisi a non mollare: hanno allestito una mensa, e ora fanno anche un giornale

LONDRA. La tendopoli nel cuore della City non è ancora riuscita a riformare il capitalismo, ma intanto ha provocato la chiusura di St. Paul. L´ultima volta che la cattedrale-simbolo di Londra serrò i battenti era il 1945 e sulla capitale cadevano le V2 di Hitler. Ora la minaccia sarebbero le duecento tende e il migliaio di dimostranti accampati da due settimane su Paternoster Square, la piazza che separa la chiesa dalla Borsa e dalle sedi delle grandi banche: «Un rischio per l´igiene e per la sicurezza», accusa il reverendo Graemer Knowles, canonico-capo della cattedrale. Più che urina e schiamazzi, tuttavia, sembra una questione di soldi: le 16mila sterline al giorno che i visitatori depositavano come donazioni nelle apposite cassettine dentro a St. Paul.
Un milione di sterline perdute da qui a Natale, calcola il reverendo, se i turisti continueranno a restare alla larga. Cui si aggiungono le perdite per i bar e i ristoranti della zona, dove broker e banchieri non si sentono più di andare. «Gesù voleva scacciare i mercanti dal tempio», s´indigna il professor Chris Knight, un docente di antropologia in pensione che qualche giorno fa si è unito agli occupanti, «invece questi preti vogliono attirarceli, i mercanti nel tempio».
Non c´è solo St. Paul a difendere lo spirito mercantile dall´assedio di "Occupy Lsx" (acronimo di London Stock Exchange, la Borsa londinese) e di Uk Uncut, il gruppo contro l´evasione fiscale delle grandi società, unitosi ai dimostranti. La City of London Corporation, l´autorità che amministra la cittadella della finanza, ieri ha messo in campo gli avvocati: è allo studio una richiesta di sgombero da inoltrare alla magistratura. Ma l´azione legale è complicata dalla confusione sulla proprietà della piazza: potrebbero volerci tre mesi per avere una sentenza e resta poi da vedere come farebbe la polizia a eseguirla, se i manifestanti non fossero lo stesso disposti ad andarsene. «Resteremo fino a Natale, e oltre», prevede Sean, studente, 19 anni, mettendo la testa fuori dalla sua canadese. E la tendopoli ha effettivamente già l´aria di un insediamento permanente: c´è la mensa, il centro-stampa, la libreria (ribattezzata "Freedom University"), ci sono i bidoni per la raccolta dei rifiuti differenziati e le toilette portatili. «Ma quale minaccia all´igiene dei turisti, qui siamo di una pulizia assoluta», sostiene Lucy, disoccupata 33enne, una dei promotori dell´iniziativa. Da domani il movimento anti-City avrà anche il suo giornale: The Occupied Times (Tempi occupati). Il Museum of London ne ha ordinate mille copie.
È un accampamento all´inglese insomma: pulito, efficiente, ordinato. Lo abitano giovani e anziani, senza lavoro (ma qualcuno ha preso le ferie per venirci) e studenti, inglesi e stranieri (Georgios dalla Grecia, Jacquie da New York, Maria dalla Malesia). Va bene, starete qui fino a Natale o magari a Pasqua, ma cosa volete? «L´attuale sistema economico e finanziario è insostenibile, antidemocratico e ingiusto, vogliamo più regulation nei confronti di banche e speculatori, meno tagli alla spesa pubblica», dice Virginia. «Non vogliamo cambiare tutto, ma c´è una esigua minoranza, l´1 per cento del mondo, che si arricchisce a dismisura e il 99 per cento che si impoverisce, non va bene», s´arrabbia Greg. «Mio padre ha perso il lavoro, poi abbiamo perso la casa, ma nessuno ha proposto di salvarci dalla bancarotta, perché le banche sì e noi no?», chiede Catherine.
Lungo i confini della tendopoli passano ogni tanto gli uomini (e le donne) in abito grigio: il nemico. Matthew Clapp, direttore di banca: «Il dibattito è sempre salutare, ma qui vedo un sacco di proteste senza offrire soluzioni. Cosa volete, tornare ai baratti? Se il capitalismo non funziona, cosa funzione?». Thomas, giovane broker: «Ce l´avete con la City, ma la City produce un terzo della ricchezza di questo paese. Una volta avevamo il British Empire, ora ci resta solo la finanza, senza di questa l´Inghilterra non conterebbe più nulla». Steve, banchiere quarantenne: «Avete issato un cartello con scritto "fermiamo la povertà", ma niente la ferma meglio del capitalismo, guardate com´è finito il comunismo».
Si fa sotto Lucy, la disoccupata di prima, «Permette?» chiede al banchiere, e lesta gli sfila di tasca una copia del Financial Times, lo apre alla pagina degli editoriali e legge: «La richiesta di una più equa distribuzione di ricchezza non può essere ignorata. Una crescente diseguaglianza, una povertà in crescita e l´imposizione di sacrifici a chi può meno sopportarli sono fattori che contribuiscono alla crisi economica che abbiamo davanti. I leader politici occidentali ignorano la protesta degli indignati a loro rischio e pericolo». Sventola il giornale in faccia al banchiere e provoca: «Questo lo dice il Financial Times, mica la Pravda». Se il quotidiano della City prende sul serio la tendopoli, gli indignati hanno aperto una breccia. Forse l´assedio alla cittadella della finanza non è inutile.

l’Unità 25.10.11
Il Gramsci di destra? Mai esistito
Le interpretazioni pericolose Un saggio di Rapone sugli anni giovanili gramsciani trasformato in rivelazione strumentale da «il Giornale». Perché l’iniziale radicalismo del pensatore non ha nulla a che fare con Mussolini
di Bruno Gravagnuolo


Il titolo è sconcio. Il sommario insinuante. La tesi, semplicemente bugiarda. Ecco il titolo, tanto per capirci: «Gramsci? Un mussoliniano. Parola di Fondazione Gramsci». Parole e musica sono de il Giornale berlusconiano, che premette al tutto una goliardica testatina («falce e moschetto»). E l’articolo è di Marcello Veneziani noto saggista di destra meno rozzo delle premesse slogan. Ma pieno di inesattezze e confusioni tali da «autorizzare» l’operazione in gioco: la parentela tra Gramsci e il fascismo. Il tutto travisando e strumentalizzando un serio lavoro di Leonardo Rapone, storico e membro del Comitato dei garanti della Fondazione Gramsci, il quale ammetterebbe secondo il sommario del quotidiano «le affinità tra il leader comunista e il fascismo». Di che si tratta? Del giovane Gramsci, a cui Rapone ha dedicato un volume per Carocci: Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo.
Qual è la tesi di Rapone? È l’idea di un Gramsci avversario di democrazia parlamentare e giolittismo. Nemico del riformismo socialista e ammiratore di un liberalismo forte autoritario (e conflittuale). E di un Gramsci avverso al pacifismo umanitario, e certo molto diverso dal pensatore carcerario che rovescia le illusioni giovanili in un pensiero ben altrimenti complesso. Ricerca utilissima quella di Rapone, che mette a fuoco alcuni passaggi chiave gramsciani, ma che diventa in Veneziani la caricatura di un Gramsci quasi in camicia nera e compagno di strada del Duce, almeno fino allo scoppio della Rivoluzione di Ottobre. Vediamo uno dei tratti chiave di questa caricatura: l’interventismo bellico di Gramsci nel 1915. Che non vi fu affatto! Laddove vi fu solo uno scritto del 31 ottobre 1914, sul Grido del Popolo nel quale il giovane Gramsci criticava (contro Tasca) attendismo e staticità socialista di allora, auspicando a suo modo una «neutralità attiva ed operante», come quella di cui parlava il Mussolini ancora socialista. Ma declinandola in modo opposto. Come? Come capacità di stare in mezzo agli eventi, per condizionarne il corso senza farsi scippare la scena da un avversario magari vittorioso in guerra, oppure sconfitto, ma pur sempre «dirigente» e al comando delle «cose pubbliche». Tanto è vero che lo stesso Gramsci, che sa di interpretare Mussolini in quel momento, precisa nell’articolo in questione: «...Se almeno io ho interpretato bene le sue (di Mussolini) un po’ disorganiche dichiarazioni e le ho sviluppate secondo quella stessa linea che egli avrebbe fatto».
Gramsci «occasionalista» dunque. Leninista della prima ora. O al più Gramsci anti-Imperi centrali, e non mero pacifista. Ma agli antipodi da Mussolini, anche allora. Talché, né «acerba esercitazione giovanile» o «incidente di percorso», come scrive Rapone. Né cripto interventismo o filomussolinismo, come pare suggerire a riguardo Paolo Mieli, che ha recensito in anteprima, con maggior serietà di Veneziani, il libro di Rapone e che si interroga su quell’articolo.
Altro artificio deformante della tesi di Veneziani sul «Gramsci mussoliniano»: il «filo» con D’Annunzio, Papini, Prezzolini, il futurismo, etc. Quanto al primo, nel 1919 Gramsci cerca politicamente di staccarlo dal fascismo. Ma non se ne nasconde fin da subito la natura piccolo borghese (di massa) e superomistica di provincia (in seguito approfondita nei Quaderni).
Ma più in generale Gramsci, in quegli anni, è attento a tutti i fermenti estetici e culturali di una società nazionale in rivolta contro l’Italia giolittiana: in nome della modernità industriale. Di qui l’interesse per le avanguardie, e per una intellettualità di massa inquieta e sradicata, che non sta dentro i limiti dell’Italia liberale di allora. Gramsci che discutendo con Trotzky difende il futurismo (e in seguito Pirandello) è ben in grado fin da subito di distinguere il segno politico che la cultura assume, nel fuoco degli eventi. Ed è per così dire, già «gramsciano», anche se è ancora estremista. Certo Gramsci legge Croce, Gentile, Sorel e ne rimane influenzato. Ma erano quelli i tramiti del marxismo, in anni di crisi e revisione del marxismo. Ed erano quelli i massimi intellettuali europei in Italia. Gli unici, all’inizio, attraverso i quali egli può «recuperare» un marxismo depurato dal fatalismo positivista, anche se ridotto a idealismo speculativo (Gentile) o a mero «canone di ricerca empirico» (Croce).
E Sorel? Gramsci ne apprezzava lo «spirito di scissione», il conflittualismo anti-utopistico, ma non lo declinerà mai in termini di realismo conservatore e cinico (alla Pareto) e nemmeno ne farà mai un idolo (anzi, nei Quaderni viene iscritto nell’anarco-sindacalismo). Certo, il Gramsci giovane è (a modo suo), massimalista, consiliarista. Ostile alla possibilità di una evoluzione democratica dei ceti subalterni, attraverso parlamento e diritti. E su questo si ritrova su un terreno comune con tutti gli antigiolittiani: Salvemini, Gobetti, Prezzolini, e tutto il massimalismo socialista a sinistra di Turati. E però da un lato i confini con la destra sono chiarissimi fin dall’inizio: quella di Gramsci è una democrazia radicale e di classe non rappresentativa. Dall’altro, come riconosce lo stesso Mieli, egli rivedrà quasi tutte le idee che avevano caratterizzato la sua formazione. Incluso quel certo volontarismo giacobino e non giacobino che avrebbe dovuto creare le condizioni di una democrazia integrale dei lavoratori. Sicché non solo Gramsci teorizzerà gradualismo, libertà e fase democratica. Ma arriverà nei Quaderni persino a rovesciare l’accusa di parlamentarismo a Giolitti nel suo contrario. Così: «È la lotta contro il parlamentarismo da parte di Giolitti e non l’essere egli parlamentarista che ha screditato il parlamentarismo». E poco prima: «Cercò di evitare che il governo diventasse di fatto e di diritto un’espressione dell’assemblea nazionale». Niente male per un vecchio antigiolittiano non democratico...

La Stampa 25.10.11
La prova dell’esistenza di Dio? Viene da Nietzsche
Parla il filosofo Robert Spaemann, compagno di ricerche di Ratzinger, che domani terrà una lectio a Torino
di Letizia Tortello


Robert Spaemann, nato a Berlino 84 anni fa, è a Torino fino a venerdì, ospite della Scuola di Alta Formazione Filosofica diretta da Ugo Perone. Domani alle 18, al Circolo dei Lettori, terrà una lectio sul tema «Che cosa rende persone le persone?». A lato Friedrich Nietzsche: teorizzò la morte di Dio e l’avvento del Superuomo

“È una vecchia diceria che esista un essere nella nostra lingua chiamato “Dio". Una diceria immortale, che non riusciamo in nessun modo a mettere a tacere». Chi parla (nei chiari toni della provocazione) non è un ateo e neppure un nichilista. È il filosofo Robert Spaemann, uno dei massimi pensatori tedeschi viventi, ospite questa settimana del X ciclo di seminari della Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino. Domani alle 18, presso il Circolo dei Lettori, terrà una lectio intitolata «Che cosa rende persone le persone?», e intanto arriva in libreria, edito da Lindau, il suo libro Tre lezioni sulla dignità umana .
Ottantaquattrenne dall’energia intellettuale inesauribile, nato a Berlino, compagno di ricerche di papa Benedetto XVI, Spaemann è autore di una dimostrazione di Dio «alle condizioni della vita moderna». Una tesi che muove da presupposti nietzscheani. Nel disorientamento del tempo presente, in cui laicità, religione ed etica sembrano sempre più universi lontanissimi tra loro, lui ribalta la «filosofia del martello». Fino al paradosso: «Dio è il fondamento e non si può che pensarlo così». Ma chi ha contribuito a preparare il terreno per questa nuova prova dell’esistenza di Dio è proprio il filosofo dello Zarathustra , che ne teorizzò la morte.
Professore, lei ha definito il suo argomento sull’esistenza di Dio come una tesi «Nietzsche-resistente». Che cosa significa?
«Contrariamente a quanto si crede, Nietzsche è il migliore teorizzatore del legame tra Dio, l’esistenza e la verità. Negare Dio equivale a dire che si nega la verità. Nella visione nietzscheana, gli uomini si limitano a conoscere i propri stati d’animo soggettivi. Ma se ci basiamo sull’identificazione tra il mondo e la sua rappresentazione, le rappresentazioni non coincideranno mai. Un esempio: poniamo che io abbia mal di testa, lei potrebbe dirmi che non è vero, perché il mal di testa lo sento solo io. Ma come ho scritto in un mio libro, se vogliamo essere reali dobbiamo rimanere attaccati all’esistenza di Dio, che è il garante dello spazio della verità, entro il quale il soggetto può recuperare la propria identità oltre l’autocoscienza istantanea».
Nietzsche non si è solo limitato a congedarsi da Dio, ha anche creato il Superuomo, un essere portatore di nuovi valori, fedele alla terra e non più al cielo. Come è stata possibile questa sostituzione?
«Il Superuomo ha accantonato la verità, a esistere sono solamente le interpretazioni del mondo. Ma l’Übermensch è pura fantasia».
Oggi però il mondo sembra dare ragione a Nietzsche. Sembra poter fare a meno di Dio.
«Gli uomini hanno dimostrato di non volere il Superuomo, bensì l’Ultimo uomo, quello che crede che la felicità sia divertimento, una vita piena di comodità, in cui si consumano le droghe. Ma io dico che ogni sostituto di Dio abbassa l’uomo. È la definizione di Dio l’essere insostituibile».
In un discorso del 2005 a Subiaco, quand’era cardinale, Ratzinger aveva lanciato una proposta paradossale: «Vivere come se Dio fosse». Non solo una scommessa, come diceva Pascal, ma una necessità, dice lei.
«Anche qui partirò da un esempio, per spiegare come gli uomini credono a molte verità, ne discutono e ci litigano. In realtà, la verità è una sola e non si basa sulla reciprocità. Parlavo prima del mio ipotetico dolore, non condiviso da lei. L’uomo è capace di verità perché senza di essa, intesa oggettivamente, non si riesce a rendere ragione dell’esperienza. Al fondamento di questa garanzia c’è Dio».
Lei si è più volte espresso sui temi della bioetica. Cosa pensa della recente sentenza della Corte di Giustizia europea che ha vietato la brevettabilità dei farmaci derivanti dalla ricerca su embrioni?
«Deve essere impedito dalle leggi quel progresso che si serve di esperimenti sugli esseri viventi, a partire dagli animali. Sono sperimentazioni criminali, paragonabili a quelle condotte nei campi di concentramento. La scienza non è il valore più alto».

Repubblica 25.10.11
I silenziosi complici del Male
Il romanzo di Baram, l´altro Littell "Le brave persone che aiutano i regimi"
di Susanna Nirenstein


L’autore israeliano è diventato un caso perché ha scelto di raccontare la tragedia non dal punto di vista delle vittime
"La sfida è evitare protagonisti pazzi o perversi. Meglio confrontarsi con la zona grigia"
"I miei personaggi hanno talento e lo mettono al servizio della dittatura Come fecero tanti"

Nel cuore di tenebra dell´Europa e del Novecento. È lì che l´israeliano Nir Baram vuol penetrare col suo imponente Brave persone (Ponte alle Grazie, traduzione di Elisa Carandina, in libreria da venerdì prossimo e già acquistato dagli editori di mezzo mondo), è lì, e non per raccontare il disastro dalla parte delle vittime, come è sempre stato nella tradizione della letteratura ebraica degli ultimi 65 anni: in questo romanzo, che si muove dalla Notte dei Cristalli nel ´38 all´invasione tedesca dell´Urss e che ha fatto molto discutere l´intellighentsia d´Israele (con infiniti plausi di Yehoshua e Oz), i due eroi principali fanno scandalosamente parte degli apparati nazista da un lato, e sovietico dall´altro, sono due intellettuali necessari, volenterosi, per quando dubbiosi, che finiscono per affiancare, oliare, potenziare i meccanismi vessatori e criminali dei due regimi.
Si potrebbe dire che c´è il precedente de Le benevole di Jonathan Littell, il discusso autore ebreo americano che di un gerarca hitleriano di stanza nella Parigi occupata ha fatto l´io narrante, ma i casi sono diversi e il messaggio è diverso, per quanto sia interessante notare che i due autori ebrei fanno parte della stessa generazione e sono stati colti da una necessità parallela: mettere da parte le lacrime e indagare l´impensabile.
Il 35enne Nir Baram si fa strada arditamente nella "zona grigia", tra persone affatto conquistate dall´ideologia totalitaria che finiscono per avvicinarsi al male, gli cedono lentamente e inconsapevolmente fino ad esserne sommersi. Ci sono due plot paralleli in Brave persone, due set che finiscono, un po´ troppo fantasiosamente forse, per incontrarsi nel 1941, a un passo dall´invasione della Wermacht: da un lato Thomas Heiselberg, capace e ambizioso pubblicitario berlinese, dirigente di una multinazionale americana presto costretta a lasciare il paese. Rimasto senza lavoro, campione nelle ricerche di mercato, nonostante abbia un certo disgusto per la violenza e l´antisemitismo nazista, a Thomas il salto più logico e promettente sembra offrire le sue competenze al ministero degli Esteri.
Dall´altra parte, a Leningrado, c´è Alexandra (Sasha) Weissberg, aspirante poetessa e figlia di una famiglia di intellettuali russi caduti nel gorgo degli arresti staliniani dei dissidenti: è Sasha stessa, quasi senza capirlo, uno dei motori che porta alla cattura dei genitori e poi di molti altri letterati, ed è lei stessa, in una scelta che sta tra il bisogno di sopravvivere, il desiderio di salvare i fratelli e la voglia di provare le sue capacità, a mettere a disposizione della famigerata Nkdv, la polizia segreta, le sue arti psicologiche e letterarie. Il suo compito? Portare a termine e mettere narrativamente a posto, insieme ai prigionieri, le loro impossibili confessioni, intrecciandosi con minacce e torture e morti, in un viaggio all´inferno senza ritorno.
Perché ha scelto di entrare nella mente di chi ha preso parte alle atrocità del nazismo e del comunismo?
«Penso che la II Guerra Mondiale abbia posto domande filosofiche ancora nell´aria. E in Israele, poi, parte del modo in cui interpretiamo i fatti è radicata in quegli anni. Da adolescente ho iniziato a sentire che la discussione era troppo semplicistica, che l´eterna posizione della vittima mi stava stretta. Volevo capire cosa si era raccontata la "gente normale" di quei regimi, il loro grado di consapevolezza, le aspirazioni, il ruolo. Così, una notte ho inventato Thomas Heiselberg, me lo sono visto camminare per Berlino, mentre progetta il modo di diventare un uomo importante: per farlo doveva collaborare, anche se, come molti borghesi, aveva un certo disprezzo culturale per l´élite nazista. E l´ho scritto. È questa la bellezza della letteratura, la sua abbagliante libertà».
Primo Levi diceva che per capire la Shoah, si deve conoscere, ma non immedesimarsi negli assassini, per evitare ogni condivisione.
«Ammiro Primo Levi, e io non ho scritto un romanzo sullo sterminio, piuttosto un libro su chi collaborò con i nazisti e con chi durante le purghe staliniane continuò a servire il Cremlino mentre i loro fratelli e amici e vicini venivano deportati e uccisi. Gente mediocre. Che non aveva mai visto un lager, ma che permise ai regimi di funzionare. Un´area fondamentale da indagare perché sappiamo che quel meccanismo di collaborazione e negazione funziona ancora in presenza dei genocidi: una minoranza sguazza nel sangue ma la maggioranza vive con le mani apparentemente immacolate, e ingrassa invece la macchina della carneficina. La sfida, per uno scrittore, è non cadere in personaggi perversi, pazzi, caricaturali, ma confrontarsi con la complessità».
Come giudica il libro di Jonathan Littell?
«Interessante. Ho apprezzato la sua vasta ricerca, il respiro. Ma il romanzo riporta al vecchio discorso sul legame tra nazismo, kitsch, violenza e perversione sessuale, senza farci fare passi avanti. Io non ero interessato agli assassini, ma a chi non era ideologicamente coinvolto, a chi voleva e poteva raccontarsi ogni tipo di storia, eppure finiva per affiancare il regime usando il meglio di sé, e ad avanzare grazie a quello. Persone che alla fine erano responsabili di migliaia di morti».
Pensava alla "banalità del male" di Hannah Arendt, alla macchina burocratica dello sterminio, o ai "volenterosi carnefici" di Daniel Goldhagen?
«A nessuna delle due interpretazioni, e del resto per scrivere un romanzo non bisogna abbracciare una teoria. I burocrati incapaci di critica della Arendt non sono i protagonisti di Brave persone. I miei personaggi sono dotati di talento, in grado di fare scelte. È questa la parte conturbante del romanzo».
Perché le chiama "brave persone"?
«È ironico. Sono loro a vedersi così: attraverso una serie continua di giustificazioni, scuse, distoglimenti di sguardi, non vogliono vedere il vero significato delle loro azioni. Al contrario io voglio sottolineare il tema della responsabilità, di qualsiasi società in crisi si parli».
Si è ispirato a personaggi come Albert Speer, l´architetto di Hitler che divenne ministro degli Armamenti dal ´42? Al ruolo degli intellettuali nell´Urss di Stalin?
«Thomas come Speer è un borghese, e non è un razzista. Ma le somiglianze finiscono qui. Thomas è più influenzato dalla cultura americana, è un individualista, cerca di realizzarsi. Da un punto di vista letterario piuttosto mi hanno influenzato L´uomo senza qualità di Musil e Il grande Gatsby di Fitzgerald. Per Aleksandra invece, sì, ho pensato a come le ideologie da sempre reclutino ai loro fini il mondo letterario».
Quanto tempo e fatica le sono stati necessari?
«Ho lavorato 5 anni. Ho letto circa 150 libri sulle due dittature e sulla guerra. Sono stato a lungo a San Pietroburgo, a Berlino, Varsavia, Lublino, Brest-Litovsk, Bielorussia. Ho studiato cartine e mappe e foto. Ma la sfida non è stata la ricerca, quanto la scrittura, la dimensione epica del romanzo europeo novecentesco che ho voluto far mia. Un anno e mezzo dopo averlo finito, ne sono ancora prigioniero. Però sto scrivendo un nuovo romanzo, tutto collocato nel presente».

Repubblica 25.10.11
Domani la lezione sullo scrittore a Torino tenuta da Bartezzaghi. Ne anticipiamo una parte
Quando Primo Levi decise di comprarsi il primo computer
di Stefano Bartezzaghi


Nel 1984 Primo Levi ha acquistato un personal computer. I computer avevano fatto la loro comparsa nei negozi da pochi anni; solo tre anni mancavano alla scomparsa dello scrittore. Abituale osservatore, narratore e commentatore della propria esperienza – da Auschwitz alle passeggiate sui marciapiedi intorno a casa sua, a Torino – Primo Levi ha anche descritto la propria iniziazione con la macchina su cui avrebbe scritto tutti i suoi ultimi articoli, libri e poesie, su cui avrebbe imparato a illustrare i suoi rebus e contro cui avrebbe giocato numerose partite di scacchi.
Levi era incuriosito dalle funzioni della macchina, molte delle quali lui stesso aveva precorso nei suoi racconti fantatecnologici, ma la sua abituale attitudine razionale nel caso di questo nuovo apparecchio non pareva dare buoni risultati. Il suo errore consisteva nell´ostinarsi a leggere il manuale per imparare a mettere in funzione il computer: ma il manuale usava in modo incomprensibile parole come "entrare" o "chiudere" e il glossario che era allegato era il rovescio parodistico dei normali dizionari, poiché definiva tali parole elementari con definizioni tecniche incomprensibili. Intervenne un più giovane consigliere che gli spiegò che stava come cercando di imparare a nuotare tramite la lettura di trattati, senza entrare in acqua. Poi lo prese anche un po´ in giro. Sei di una generazione di umanisti, che pretende di sapere sempre come funzionano le cose. Rilassati. Forse sai come funziona un telefono? Eppure lo usi tutti i giorni.
Così Levi si convinse, o forse meglio si rassegnò, a usare uno strumento senza penetrarne i segreti: ma, ci ha confidato, continuò a risentire dell´"angoscia dell´ignoto".
Molti anni prima Levi aveva scritto racconti in cui i computer risultavano capaci di scrivere poesie e in cui la Rete telefonica prendeva decisioni spontanee, metteva in contatto numeri e persone secondo propri criteri, propiziava accordi commerciali e matrimoniali. Oggi diremo che si tramutava in social network, con l´avvertenza che per Levi questa Rete (ne parlava già in maiuscolo alla fine degli anni ´60), telefonica, faceva tutto ciò in modo diverso e migliore di quanto possa fare un computer: questo, evidentemente, per un primato assegnato alla parola orale sulla scritta. Ma, invece, altrove Levi mostra di assimilare il funzionamento di base delle due modalità linguistiche, a favore delle supreme esigenze della comunicazione umana: «Deve essere un telefono che funziona, il libro scritto». Pretendendo da ogni testo (innanzitutto dai suoi) «chiarezza e concisione», Levi parla del diritto di ogni lettore di capire bene quello che ha scritto: anzi, corregge, «quello che gli ho scritto», mostrando così il fondamento pragmatico interlocutorio su cui è costruita la sua idea di letteratura.
Ma come il telefono anche il libro scritto, la parola orale e il linguaggio in genere aveva modi di funzionamento che in parte sfuggivano alla comprensione razionale immediata. La motivazione occulta di certi nomi (compreso quello che lui stesso aveva scelto come pseudonimo), la storia carsica delle etimologie, l´umorismo delle distorsioni popolari (l´acqua portabile e l´aria congestionata), l´atroce necessità e la divertente maledizione di Babele. Con gli studi classici e i dizionari etimologici, l´erudizione propria e altrui Levi ricostruiva il passato, l´ontogenesi dei casi linguistici più interessanti, come per esempio i motivi per cui la benzina si chiama così. La fantasia saggia del giocatore, che sa quando azzardare e sa quando attenersi alla tecnica più elementare del suo gioco, servivano a Levi per tutto il resto: per notare, per esempio, che «È solo una curiosa coincidenza che si chiamasse Benz l´uomo che nel 1885 costruì il primo motore a benzina efficiente; a meno che il suo nome (che compare tuttora nella ragione sociale della Mercedes) non abbia contribuito alla vocazione di inventore dell´ingegner Karl Benz».
I suoi due articoli intitolati "La lingua dei chimici" avrebbero potuto far parte di un trattato intitolato "La chimica della lingua". Quando mostra le caratteristiche delle formule chimiche "brute" o "grezze" del tipo H2O dice che hanno il vantaggio di essere facili da trascrivere ma lo svantaggio di fornire la lista degli ingredienti senza spiegare il modo della loro combinazione. Per chiarire fa un esempio linguistico «insomma, tutto va come se un tipografo estraesse dalla cassetta le lettere c, e, i, o, p, r, s s, e pretendesse di esprimere cosi la parola cipresso: il lettore non iniziato, o non aiutato dal contesto potrebbe anche "leggere" processi o scopersi o chissà quale altro anagramma» (a mancare sono almeno il verbo coprisse, il cognome deamicisiano Precossi e una parola-chiave della letteratura leviana, derivata da Dante: l´aggettivo percossi). Sono i casi della combinatoria, che unisce parole molto diverse in modi che a volte ci fanno pensare (ma abbiamo il vezzo di chiamare "pensiero" anche certa nostra instupidita meraviglia). Con il senso doloso e goloso di chi si concede trastulli forse illeciti, Levi andava a cercare i messaggi nascosti nelle combinazioni delle lettere. Amava cioè assecondare i capricci del vento che scompiglia le foglie su cui Sibilla scrive le sue di Sibilla, foglie che Dante, altro bel caso, descrive come "levi" (nel senso di "leggére"). Un testo raro e parzialmente inedito di Giampaolo Dossena, il grande esperto di giochi, racconta le visite a casa Levi e le confidenze dello scrittore su questa chimica verbale, fatta di parole «che si spezzano», come quel «Pesante marchio d´incesto» in cui Levi aveva scorto l´"esantema", i "chiodi" e il "cesto". Caute testimonianze, corroborate però da cenni autobiografici dello scrittore, parlano dei suoi interessi per crittografie e anagrammi, bizzarre forme, come traiettorie a effetto impresse a un pallone da un esperto tiratore. In un divertito coming out, Levi ha offerto al personaggio di un suo racconto (Calore vorticoso) la propria competenza nella costruzione di frasi "reversibili" (in enigmistica, palindromi). Si chiama Ettore, ed è dunque votato alla sconfitta sia per ragioni omeriche sia per ragioni enigmistico (letto al contrario: "E rotte"). A un certo punto Ettore sbotta: «Non bevo, non gioco, fumo pochissimo, ma ho anch´io il mio vizio (...). Non prendo l´eroina: scrivo frasi reversibili, avete qualcosa da obiettare? Eroina motore in Italia – Ai latini erotomani or è». Come il suo autore anche questo personaggio ama gli autocommenti, ma è meno modesto di Levi, e conclude: «Ottimo, due decasillabi sonanti, e neppure del tutto insensati».

Repubblica 25.10.11
Evariste Gaulois
Equazioni e duelli quel piccolo genio continua a stupirci
di Piergiorgio Odifreddi


Da studente era svogliato, arrogante e ribelle, ma aveva un talento precoce per i numeri e la politica: era repubblicano
L´impatto del suo lavoro sui contemporanei fu nullo: ci vollero decenni perché fosse letto e capito, era giudicato incomprensibile
Sono passati due secoli dalla nascita del celebre matematico che ispira ancora libri e film

La notte del 29 maggio 1832 Evariste Galois, fondatore dell´algebra moderna, scrisse furiosamente il suo testamento spirituale, in cui riassunse le sue scoperte a futura memoria. Sui margini annotò tragicamente e più volte: "Non ho tempo!". La mattina una carrozza lo prelevò per portarlo in una pineta per un duello. Ferito, venne abbandonato sul campo. Lo raccolse un contadino che lo portò in ospedale, dove morì il giorno dopo. Non aveva ancora compiuto ventun anni, essendo nato esattamente due secoli fa, il 25 ottobre 1811.
Il motivo del duello, così come il nome dell´avversario, non sono noti: si sa soltanto che era coinvolta una donna, rimasta anch´essa sconosciuta. Ma il tragico destino di Galois era comunque segnato, visto il suo carattere. Da studente era svogliato, arrogante e ribelle: l´unica materia che lo interessava era la matematica, per la quale aveva un talento precoce. Fallì due volte l´esame di ammissione al Politecnico, dove avrebbe forse trovato un ambiente adeguato alle sue capacità. Dalla Scuola Normale, in cui si era sempre sentito incompreso, fu espulso per aver pubblicato su un giornale una critica al preside.
L´altra grande passione della sua vita fu la politica. Il padre, sindaco del suo villaggio, si suicidò nel 1829 per colpa dei gesuiti e dei conservatori. Galois giurò vendetta, e nel momento della rivoluzione del 1830 si schierò apertamente con i repubblicani, arruolandosi nella Guardia Nazionale. Deluso dall´avvento al potere di Luigi Filippo d´Orleans, fu arrestato per aver brindato al suo assassinio e passò in galera buona parte del suo ultimo anno di vita.
La vita avventurosa e la tragica morte di questo genio solitario, che divise equamente le sue energie fra pensiero e azione, costituiscono una ghiotta tentazione per scrittori e registi, a cui hanno ceduto in molti. Naturalmente, la sfida consiste nel non limitarsi a trattare gli aspetti romanzeschi della sua vicenda, che oggi rimangono soltanto curiosità storiche, e nel cercare invece di penetrare le profondità del suo spirito, le cui conquiste mantengono un´importanza fondamentale.
A stabilire un legame di empatia possono aiutare qualità come una giovane età e un solido background scientifico. All´inaugurazione del Festival di Matematica del 2009 Paolo Giordano le ha messe a frutto entrambe, insieme al suo talento letterario, interpretando L´ultima notte di Evariste Galois in una memorabile lezione-spettacolo. Il suo testo è purtroppo rimasto inedito, ma la registrazione audio è tuttora reperibile sul sito dell´Auditorium Parco della Musica di Roma (www. auditorium. com/eventi/4939741).
Di pubblicazioni su Galois, comunque, non ne mancano. Anzitutto ci sono i suoi Scritti matematici, curati da Laura Toti Rigatelli (Bollati Boringhieri, 2000). Della stessa Rigatelli, insieme a Paolo Pagli, c´è anche il libretto Évariste Galois. Morte di un matematico (Archinto, 2007), che ripercorre la sua vita attraverso lettere e testi originali. E c´è Galois di Luca Viganò (Il Melangolo, 2005), uno spettacolo teatrale andato in scena nella stagione 2004-2005 al Teatro Stabile di Genova, pubblicato con una serie di inquadramenti matematici e storici.
Ma c´è, soprattutto, il romanzo Il matematico francese di Tom Petsinis (Baldini e Castoldi, 1999), che raggiunge brillantemente lo scopo di raccontarne la vita, pure senza entrare mai nei dettagli del suo pensiero. L´autore, che è un letterato e non un matematico, si cala infatti nei panni dell´irrequieto giovane, e cerca di rendere conto del fuoco interiore che lo consumò. Galois si confessa in prima persona al suo futuro biografo, affidandogli i propri pensieri così come, nella sua ultima memoria, aveva affidato ai posteri i propri risultati.
Lo vediamo dunque conversare immaginariamente con i grandi matematici del passato, in quell´ideale comunione spirituale che accomuna i sommi spiriti e li separa dal resto dell´umanità. Di Pitagora egli condivide l´idea della matematica come vera religione. Di Archimede, ammira sia i grandiosi risultati che l´eroica morte. Di Blaise Pascal, disapprova il "gran rifiuto" del pensiero in favore della superstizione. Di Pierre de Fermat, invidia il famoso margine contenente non solo l´intuizione di un misterioso teorema, ma anche un´annotazione complementare alla sua: "Non ho spazio!".
I suoi veri predecessori sono però altri, a partire dagli italiani Girolamo Cardano, Niccolò Tartaglia e Paolo Ruffini: coloro, cioè, che timidamente fecero i primi passi su una strada che Galois seppe percorrere fino in fondo. Il problema che egli affrontò è così naturale e semplice che lo si può appunto raccontare in un romanzo, benché la sua soluzione rimanga ancor oggi un tour de force che richiede un intero corso di algebra.
Molti sapranno citare le formule per la soluzione delle equazioni di primo e di secondo grado: formule semplici, già note a Egizi e Babilonesi. Ma pochi ricorderanno di aver visto a scuola simili formule per la soluzione delle equazioni di terzo e quarto grado: formule trovate appunto da Cardano e Tartaglia nel Cinquecento, e abbastanza complicate da aver dato luogo all´espressione "fare un terzo grado". Per quanto riguarda il quinto grado, nessuno ha certamente mai visto formule analoghe: con buone ragioni, visto che Ruffini dimostrò alla fine del Settecento che tali formule non esistono!
Il romanzo accenna a come Galois rimase affascinato dall´algebra, ricercò la soluzione dell´equazione generale di quinto grado, si illuse di averla trovata, scoprì il suo errore, e infine ottenne una nuova dimostrazione dell´impossibilità della soluzione, che portò alla teoria che oggi porta il suo nome: un metodo generale che permette non soltanto di dimostrare che la soluzione non esiste per nessuna equazione generale di grado maggiore del quarto, ma anche di stabilire per quali equazioni particolari essa invece esista.
L´impatto del lavoro di Galois sui suoi contemporanei fu nullo, e ci vollero decenni perché fosse letto e capito. Le sue prime memorie, presentate all´Accademia delle Scienze, furono "perse" dal losco Augustin Cauchy: il maggior matematico francese, ma anche un gran bigotto e un barone universitario. Un´altra memoria fu dichiarata "incomprensibile", e i suoi risultati vennero considerati "dubbi". Non c´è da stupirsi se Galois, con le sue idee politiche, arrivò a considerare il conservatore Cauchy "un cane", e la propria matematica un’espressione del romanticismo.
Alcune delle pagine più belle del romanzo sono appunto le osservazioni sul ruolo e la natura della matematica, oltre che sulle sue somiglianze e differenze con l´arte e la politica, che Petsinis mette in bocca al giovane protagonista. Un altro merito del libro è l´aver saputo evitare stereotipi troppo plateali, mostrando come un genio non solo possa sbagliare, ma debba lavorare sodo per raggiungere i suoi risultati. Noi italiani ci culliamo infatti furbescamente nell´illusione che la creatività possa supplire alla fatica, ma Thomas Edison ci ha ammonito che genius is one percent inspiration, and ninety-nine percent perspiration, «il genio è uno per cento ispirazione, e novantanove per cento sudorazione».

Repubblica 25.10.11
La fine dei tiranni
di Nadia Urbinati


Chi può oggi sostenere ragionevolmente che un governo autoritario è un buon governo o che il rispetto dei diritti è una cattiva pratica? È in questo clima di vittoria morale e ideologica del valore del diritto e dei principi dell´89 che i tiranni appaiono come schegge di un´era passata, destinati a non avere futuro. Del resto, nessun governo, nemmeno il più tirannico può durare più di una manciata di ore se pensa di resistere avendo contro l´opinione del suo popolo.
I pensatori illuministi pensavano che la diffusione del governo per mezzo dell´opinione avrebbe travalicato gli stati, e fatto sí che il giudizio pubblico riuscisse a monitorare tutti i governanti mettendone a nudo gli arbitrii e le debolezze. Fino a quando, in nessun angolo della terra il tiranno avrebbe potuto trovare riparo, nascondersi al giudizio del mondo. Una volta che il governo costituzionale avesse vinto la sua battaglia anche in un solo paese, il volto del potere avrebbe fatalmente perso i tratti della bestialità e della violenza. Dal 1649, l´anno nel quale gli inglesi tagliarono la testa al loro re divenuto tiranno, il destino della tirannia sarebbe stato segnato. Certo, sul modo di chiudere il conto con il tiranno non ci sarebbero state opinioni concordi, allora come oggi. Ma è indiscutibilmente vero che non c´è più posto sulla terra per i tiranni: la vicenda libica ne è una nuova prevedibile conferma.
Il tirannicidio è stato tradizionalmente il mito fondativo delle democrazie, benché solo quelle rappresentative siano riuscite nel difficile compito di neutralizzarlo. Lo hanno fatto depersonalizzando il potere. Proceduralizzando la distribuzione e il ricambio dell´esercizio del potere, le democrazie rappresentative hanno riportato il punto archimedeo dentro il processo della decisione collettiva. Hanno cioè dato completa immanenza al principio di autorità facendola dipendere dalla conta dei voti. Hanno in questo modo neutralizzato i loro naturali nemici, i pochi (o l´uno, che dei pochi è parte). La democrazia diretta non è mai riuscita a incorporare i nemici (anche se li ha saputi tollerare senza doverli eliminare). L´altrove è restato sempre una effettiva e concreta possibilità e, soprattutto, uno scopo legittimo per una parte della comunità politica (gli oligarchi) che l´ha perseguito senza interruzione e nella convinzione di lottare contro un pessimo governo, quello dei molti. La fine di questa condizione di endogena precarietà le democrazia moderne l´hanno ottenuta scrivendo costituzioni e adottando la rappresentanza. In questo modo, esse hanno tolto ai loro nemici naturali (i pochi) l´oggetto del contendere, il dissenso radicale su "chi" ha il diritto di prendere le decisioni e di giudicare.
Pare evidente che il problema di un altrove rispetto alla democrazia sia dipeso e dipenda dalla collocazione dei pochi. Lo aveva efficacemente chiarito Machiavelli. Ai molti è sufficiente sapere di essere sicuri nella libertà personale. Essere non dominati è per i molti bastante. Ma non lo è per i "grandi", la cui forte passione per il potere (o perché hanno interessi corposi da difendere o perché mossi da ambizione) è conveniente per tutti che venga soddisfatta senza danno per la società, visto che non può essere eliminata. Ecco quindi prefigurate le due strategie dal buon uso delle quali dipende la soluzione del problema tirannico: i molti hanno, se così si può dire, bisogno di tonici o stimolanti affinché vincano la propensione a non occuparsi della cosa pubblica; i pochi devono invece essere moderati nella loro passione eccessiva con strategie depressive. La buona costituzione è allora quella che riesce a contenere la passione per il potere che è dei pochi attraverso un sistema di partecipazione e di controllo che coinvolga tutti. Raggiunto questo obiettivo, sembra di poter dire che l´ordine politico dei moderni non ha più oppositori interni radicali perché è riuscito a rendere i suoi potenziali nemici parte del gioco. Vista da questa angolatura, la rappresentanza politica non solo non è una violazione della democrazia, ma è anzi il mezzo che l´ha rafforzata liberandola da quell´alterità endogena che per secoli l´aveva tenuta sotto scacco. Questo significa che oggi, la possibile violazione della democrazia sarà violazione della rappresentanza politica, tentativo mai accantonato di trasformarla in rappresentazione teologica o mistica dell´unità del popolo, fondata, magari, su una premessa di omogeneità intollerante e discriminatoria o sul mito di un capo carismatico. Una rappresentanza che è opposta a quella politica. La tentazione tirannica prenderà la forma di un "dispotismo indiretto". Se nell´antichità o nelle società attuali che non hanno ancora conosciuto la democrazia costituzionale il rischio alla democrazia veniva e viene dal versante del potere della volontà (togliere il diritto di votare), nelle democrazie rappresentative il rischio viene dal versante dell´opinione, dall´uso dei mezzi di formazione e diffusione delle opinioni. In forma indiretta, ovvero per rendere i cittadini docili o, quando ciò non funzioni, per togliere l´audio alla loro voce. Rendendo il loro voto la registrazione di un consenso fabbricato non da loro, e spesso contro i loro interessi.

Corriere della Sera 25.10.11
Memoria creativa contro i politicanti
di Raffaele La Capria


La memoria è un bene prezioso, arricchisce la nostra fantasia e garantisce la nostra identità. La letteratura, tutta, da Omero ai nostri giorni è memoria, la memoria dei sentimenti, delle passioni, delle speranze e dei sogni di chi ci ha preceduto. Riconoscendo in noi quei sentimenti siamo umani e ci ricolleghiamo all'umanità che ci ha preceduto. Senza quei sentimenti, Ettore e Achille, Agamennone e Menelao sarebbero figure disanimate e meccaniche come i fumetti giapponesi, e noi non ci riconosceremmo in loro e nei loro sentimenti, saremmo disumani come quei pupazzi. La letteratura è dunque la memoria che ci fa più umani e, nelle varie forme in cui ci è arrivata, costituisce la nostra tradizione, quella a cui volendo o non volendo continuamente ci riferiamo. Ogni scrittore intinge la madeleine nella sua tazza di tè, e poiché il protagonista di ogni romanzo è il tempo, è con la memoria che inizia la sua recherche. Senza questa memoria del passato, del nostro privato passato e di quello trasmesso dalla nostra tradizione, noi non avremmo nemmeno un presente, non sapremmo chi siamo. Per sapere chi siamo dobbiamo sapere chi siamo stati.
Fatta questa premessa mi sono spesso domandato, assistendo ai dibattiti televisivi, quante cose devono tenere nella memoria tutti quelli che fanno il mestiere di politici, o che di politica sono costretti ad occuparsi nel Paese della politica. Quante, ma quante date, frasi, parole, cifre, fatti e connessioni tra i fatti devono ricordare i politici per tirarli fuori nella discussione al momento opportuno! Il loro cervello dev'essere come un computer, premendo un tasto, deve prontamente apparire sullo schermo della memoria tutto il file, preciso, ordinato, con punti e virgole. Mi vien da pensare: ma come faranno? E non sarebbe meglio per loro e per la politica dimenticare molte delle cose che ricordano? Non sarebbe più vantaggioso mantenere l'animo sgombro e la mente più felice! Ma questo è il destino di chi fa quel mestiere, ed è inevitabile la deformazione professionale da cui nasce il battibecco più che il dialogo.
In politica la memoria è necessaria per controbattere la memoria dell'avversario. Prevale chi ha una memoria più pronta e più organizzata. Parla, parla, caro avversario politico, ma io ti conosco e so già chi sei, ho buona memoria io, so quello che pensi quello che hai detto e quel che dirai... È questo il battibecco. Memoria contro memoria, memoria-strumento dunque, e perciò priva di quell'alone fantasticante e personale che ogni memoria creativa dovrebbe avere. Memoria politica diversa dalla memoria immaginativa, quella che, in quanto scrittore, è preferibile custodire. È antipolitica questa?
Non credo. Vuol dire solo che la letteratura dovrebbe difendere la memoria fantasticante dalla memoria politicante che la tivù e i media ogni giorno propongono. E anche le case editrici e le librerie, che sono piene e vendono troppi libri dove imperano la memoria e il linguaggio politicante. La letteratura prende le distanze da questa memoria per concentrarsi su quell'altra che aiuta a scrivere. E non importa se ti attaccano l'etichetta di «indifferente». Sarai indifferente, ma letterariamente assolverai meglio il tuo compito. E lo assolverai ancor meglio se la tua «indifferenza» non riguarderà ciò che ai tuoi occhi appare essenziale ricordare: Auschwitz e l'arcipelago gulag, tutti i sommersi e i salvati dalla storia, e altri eventi che sarebbe disonorevole dimenticare. Uno scrittore ha il diritto di crearsi uno spazio suo, indipendente, perché se dà via libera alla memoria politicante, quella cui assistiamo ogni giorno alla tivù, pian piano la sua lingua e i suoi pensieri ne saranno contagiati. A ciascuno il suo mestiere e il suo impegno. Il mio vorrebbe contribuire a liberare un po' il Paese della politica dall'eccesso di politica. Anche per migliorarlo dal punto di vista della democrazia.

La Stampa 25.10.11
L’ultimo giorno del cacciatore Ötzi
L’uomo dei ghiacci salì a 3200 metri e mangiò carne di stambecco e mele. Poi una freccia lo colpì a morte
di Carlo Grande


Il verdetto Il mistero della mummia svelato in un meeting internazionale con i maggiori archeologi e antropologi La scena Era un «vecchio» di 45 anni: si dissetò ai bordi di un torrente e cercò l’ultimo riparo tra le rocce
Gli scienziati hanno analizzato campioni di tessuto dello stomaco e del cervello prelevati lo scorso novembre

Giogo di Tisa (Alto Adige), inizio estate di 5300 anni fa: un uomo vigoroso, sui 45 anni, ha terminato la faticosa salita dal fondovalle. E’ giunto sul crinale, a 3200 metri di quota, ha bevuto acqua di torrente, è ferito: la carne della mano destra, fra indice e pollice, è tagliata profondamente, fino all’osso. Non ci sono alberi, si ferma a riposare fra le rocce, mangia carne di stambecco, cereali, pezzi di foglie, mele, ali di insetti. Si sente al sicuro, ma una freccia lo raggiunge sotto la spalla destra, la cuspide di selce entra nelle carni, recide un’arteria vitale, provoca un’emorragia. Forse si alza, cade rovinosamente, forse qualcuno sopraggiunge e lo colpisce alla testa: lo troveranno con zigomo e testa fratturati, un trauma cranico che avrebbe potuto essergli fatale e che ha contribuito alla morte, con la ferita della freccia. L’arciere si avvicina, lo tira per girarlo, estrae l’asta della freccia (non la punta), forse per non farsi scoprire.
Se ne va: era uno, erano molti? L’uomo resta lì cinquemila anni, con il suo berretto di pelo, i calzari, l’arco e quattordici frecce, l’ascia metallica che non ha potuto impugnare.
E’ Ötzi, l’uomo del Similaun, la mummia dei ghiacci più famosa al mondo: le ultime ore sono state svelate da un centinaio di studiosi giunti a Bolzano da tutto il mondo per un convegno, hanno analizzato campioni di tessuto dello stomaco e del cervello prelevati lo scorso novembre. Erano medici ed esperti in nanotecnologie, antropologi e biochimici, archeologi e fisici, hanno espresso il verdetto: «Si è riposato, ha mangiato, l’hanno ucciso». Non è stato seppellito, perché non ci sono indizi di sepoltura, cumuli di pietra, alcuna forma di tomba.
Ötzi è morto dissanguato e per trauma cranico, in pochissimo tempo. Forse non sapremo mai chi erano o chi era l’aggressore, perché era lì, a 3200 metri di quota. Di sicuro si sa che lui non era un pastore (ecco un’altra nuova certezza). I ricercatori di Innsbruck Andreas Putzer, Daniela Festi e Klaus Oeggl hanno respinto una teoria diffusa dal ‘96, secondo la quale Ötzi aveva portato il bestiame sui pascoli per l’estate: nell’età del rame non si praticava la transumanza delle greggi, che cominciò solo nell’età del bronzo, dal 1500 avanti Cristo.
Ora le analisi continuano: l’uomo dei ghiacci non parla ma pone continue domande. Ha resistito all’ingiuria del tempo e degli uomini, il suo destino era di essere strappato al ciclo naturale della decomposizione, di superare i millenni bocconi, il naso schiacciato e la bocca contro la roccia, il labbro superiore leggermente rialzato. Lo rivediamo sanguinante: in meno di un minuto il suo destino si compie ma la sorte gli riserva ancora qualcosa, di far sognare altre generazioni.
Il freddo l’ha conservato, ancora oggi qualcuno prende in considerazione la mummificazione per conservare il Dna, per tener viva la speranza di tornare in vita in futuro. Si fa di tutto, pur di non morire per sempre. Al contrario del Principe della notte, il Nosferatu di Herzog, che aveva il problema inverso: «La morte – tenta di spiegare a Jonathan Harker - non è il peggio, ci sono cose molto più orribili. Riesce a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose…».