giovedì 27 ottobre 2011

l’Unità 27.10.11
Manifestazione domani in piazza del Popolo a Roma indetta dal sindacato pensionati
Attese nella capitale cinquantamila persone. «Tassare i ricchi e mantenere il welfare»
Padri e nonni con i figli, Lo Spi-Cgil in piazza
Domani i pensionati della Cgil riempiranno piazza del Popolo a Roma. Una manifestazione che, «alla faccia dei luoghi comuni», sarà dedicata ai giovani. «Ci vogliono mettere contro, ma sono i nostri figli».
di Massimo Franchi


Genitori, zii e nonni assieme e in nome dei figli e dei nipoti. Sulle note del “Nessun dorma” della Turandot la manifestazione dello Spi Cgil di domani a piazza del Popolo vuole ribaltare un luogo comune. Quello che vuole il tema “pensioni” mettere contro e in competizione i padri con i figli. Carla Cantone lo precisa subito: «Qualche opinionista con la pancia piena attacca continua a sostenere che il problema è quello di aumentare i coefficienti delle pensioni dei giovani al 60 per cento a scapito di quelle di chi in pensione c’è gia. È una vergogna e una falsità. Il problema continua è affrontare la crisi e tassare i ricchi per creare un fondo per dare lavoro ai giovani perché se i ragazzi trovano lavoro i coefficienti non servono a un bel niente e se, perfino nei settori di innovazione, la gente andrà in pensione a 67 anni, i nostri giovani rischiano di trovare lavoro a 45 anni e la pensione non l’avranno. Per questo noi alla nostra manifestazione i giovani li faremo parlare (toccherà allo studente universitario Luca De Zolt, ex portavoce della Rete degli studenti medi, Ndr) e dedichiamo loro la nostra manifestazione. Perché si tratta dei nostri figli».
Nei tre anni di mobilitazione praticamente continua che lo Spi ha portato avanti contro il governo negli anni della crisi, il sindacato dei pensionati Cgil torna a Roma.
La partecipazione sarà massiccia, si parla di almeno 50mila persone che riempiranno piazza del Popolo arrivando da tutt’Italia. Non solo per difendere le pensioni. «Nelle varie manovre i pensionati sono stati colpiti più di altre categorie. In primo luogo dai tagli agli enti locali che hanno impoverito fortemente il welfare locale, e quindi noi siamo vicini al presidente della Conferenza Stato-Regioni Vasco Errani e al nuovo presidente dell’Anci Graziano Del Rio nella battaglia per quantomeno ridurre questi tagli». Poi c’è il capitolo sanità: «Otto miliardi di tagli lineari vergognosi che impediscono livelli essenziali d’assistenza, senza contare la cancellazione del Fondo per la non autosufficienza». Le pensioni in senso stretto sono solo al terzo posto della battaglia programmatica dello Spi. «Su quelle in essere chiediamo una meccanismo di rivalutazione che tuteli realmente il potere d’acquisto. Su quelle future siamo davanti ad un teatrino indecente. Le tabelle dimostrano come in Italia si vada in pensione sei mesi dopo che in Francia e sulla vicenda dei 67 anni continua Cantone io mi chiedo come ci possano arrivare le maestre d’asilo o le infermiere o chi lavora da una vita sulle impalcature. Infine, mi chiedo che fine faranno i 50enni che hanno perso il lavoro quando il governo ha già bloccato la proroga della mobilità».
CHIUDE SUSANNA CAMUSSO
A chiudere la manifestazione di piazza del Popolo ci sarà il segretario generale della Cgil Susanna Camusso. Ieri, alla conferenza di presentazione, era invece presente il segretario confederale Vera Lamonica: «La piazza dei pensionati è di straordinaria rilevanza perché si tratta di un soggetto che ha pagato la crisi più di altri. Il nostro primo compito è quello di smascherare le falsità. È la cosa più grave è come vengono colpite le donne: chi oggi andrebbe in pensione a 60 anni, domani lo farà a 67, con un salto di 7 anni».

La "lettera di impegni" del governo alla UE
Licenziamenti facili e statali in mobilità e in cassa integrazione
B. rifila all’Europa promesse di macelleria sociale: dalle pensioni a 67 anni, ai licenziamenti facili. Tutto entro 8 mesi Ennesimo trucco di un governo finito: è già campagna elettorale
Bruxelles impone la tabella di marcia per provvedimenti drastici da varare in tempi strettissimi, “altrimenti se ne vada”. Sulla previdenza vince la Lega, sindacati pronti allo sciopero
dai titoli de il Fatto

La vignetta del Financial Times, berlusconi caduto

l’Unità 27.10.11
I Democratici: lettera «orrenda». Camusso e Bonanni: mobilitazione. Governo più volte battuto
Casini rilancia la proposta di Bersani: «O un governo di responsabilità in pochi giorni o le urne»
Cgil e Cisl: reagiremo Le opposizioni: governo screditato
Di Pietro: «Vogliono lo scontro sociale». Casini: «Libro dei sogni». Governo battuto due volte alla Camera. Su Irisbus e i sinistri stradali. Assenze tra gli scajoilani, l’Udc attacca: «Maggioranza allo sbando».
di Federica Fantozzi


«Orrenda» per il Pd, «deludente» per l’Udc, «pericolosa» per l’IdV. La lettera d’intenti che Berlusconi ha sfoggiato a Bruxelles non convince affatto l’opposizione. Che lamenta anche di non conoscerne il contenuto, oltre all’assenza di
una precedente discussione sul tema, e ne chiede la trasmissione immediata al Parlamento.
In particolare colpisce il centrosinistra in negativo l’ipotesi, alla quale hanno lavorato i ministri Sacconi e Brunetta, che sia possibile per le aziende licenziare dipendenti a tempo indeterminato per motivi legati alla crisi. Uno scenario allarmante che giunge del tutto inatteso.
«Orrende anticipazioni» le boccia Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro oggi capogruppo della relativa commissione alla Camera. E il leader IdV Antonio Di Pietro mette in guardia: «Il governo vuole lo scontro sociale, non si può ferma-
re la disperazione con la repressione». Il rifondarolo Paolo Ferrero invoca lo sciopero generale.
L’IRA DELLE TRE SIGLE
Intuibile l’ira dei sindacati, anch’essi ignari di quello che si preparava. Reagisce per primo Raffaele Bonanni che schiera la Cisl con inusitata durezza: «Non siamo d’accordo su queste norme, così si colpiscono i deboli, reagiremo nelle prossime ore». Susanna Camusso, al vertice della Cgil, propone una mobilitazione unitaria «che rimetta al centro le ragioni del lavoro e della crescita, ancora una volta negate». Un’iniziativa comune contro l’«ennesimo attacco» del governo ai diritti di donne, precari, Mezzogiorno. Critico anche Paolo Pirani, segretario confederale della Uil: «Non si può far pagare la crisi a dipendenti e pensionati senza colpire sprechi e privilegi».
E mentre il ministro Romani annuncia che quello che già si sapeva, cioè che sul decreto Sviluppo non esiste una road map (tradotto: il testo non c’è né potrà esserci causa impossibilità a mettersi d’accordo in consiglio dei ministri) Bersani e Casini giudicano inconsistente la risposta l’unica a questo punto del governo sulla crisi.
«Non c’è niente di serio dice il segretario del Pd Evidentemente l’esecutivo vuole prendersi qualche giorno di ossigeno in sede europea». Mentre Casini, data l’insufficienza delle soluzioni approdate all’euro-summit, spinge anche lui sul pedale del voto: «Bersani dice cose sagge. Siamo in zona Cesarini: o si riesce a fare un nuovo esecutivo di responsabilità nazionale in pochi giorni o non restano che le elezioni anticipate».
I due principali leader dell’opposizione guardano con occhio attento anche all’altro elemento della giornata politica di ieri: l’ennesima sconfitta parlamentare della maggioranza. Il governo è andato sotto due volte in aula: sulla mozione dipietrista contraria alla chiusura dello stabilimento Irisbus della Fiat e sul documento piddino sui risarcimenti per incidenti stradali. Sulla prima il parere del governo era negativo, sulla seconda favorevole.
NEL PDL 22 ASSENTI
Il primo scivolone arriva con tre voti di scarto, il secondo appena mezz’ora dopo con 13. Nel Pdl si contano 13 deputati in missione e 22 assenti. Tra questi ultimi Claudio Scajola e i suoi Gava e Giustina Destro, che non hanno votato l’ultima fiducia al governo e dopo essere stati espulsi dal gruppo sono dati in avvicinamento alla nebulosa montezemoliana.
Il centrodestra raggiunge la quota di novantadue sconfitte nell’emiciclo di Montecitorio. È l’ultima prova che, quando non c’è la blindatura di una fiducia e la relativa possibilità di “trattative private” tra i deputati in odore di mancata ricandidatura e Berlusconi, la maggioranza si sfilaccia. L’Udc attacca: «Sono allo sbando» denuncia Casini. «Il loro è un libro dei sogni, la lettera all’Ue piena di buone intenzioni che non si realizzeranno». E dunque, «mobilitiamoci». Perché il governo, è questa l’impressione (o l’auspicio) del leader centrista, è vicino al capolinea.

e nel Pd c’è persino chi ci starebbe...
La Stampa 27.10.11
“Non è un tabù ma questa proposta resta troppo vaga”
Ichino: sbagliano i sindacati a protestare
di Rosaria Talarico


ROMA L’esperto Il senatore del Pd, Pietro Ichino è avvocato, docente universitario, e giuslavorista Segue molto da vicino le principali tematiche del lavoro

Senatore Pietro Ichino nella lettera di Berlusconi inviata al presidente della Commissione europea José Manuel Barroso si parla anche di «licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato». Cosa ne pensa?
«Di una disciplina dei licenziamenti per motivi economici abbiamo bisogno e corrisponde a quello che la Banca centrale europea ci ha chiesto con la lettera del 5 agosto. Se il governo intende far riferimento a questo, sarebbe una scelta necessaria e doverosa e corrispondente a quelle richieste nei nostri confronti».
E se intendesse altro?
«Il punto è proprio qui: su questa materia si possono avere riforme di segno molto diverso. Non è possibile dare un giudizio senza sapere che cosa il governo abbia in mente. Non si può esprimere un parere positivo finché non si sa come l'esecutivo vuole intervenire».
Però il solo riferimento al licenziamento per motivi economici ha messo i sindacati sul piede di guerra… «Mi sembra altrettanto sbagliato fare un muro prima ancora di sapere cosa voglia fare il governo, come se su questa materia a priori non si dovesse legiferare. Se questa è la dichiarazione, i sindacati hanno sbagliato. Non si può dare un giudizio al buio. E quella formulazione non specifica quali siano i contenuti della riforma. Ed è proprio quello che vorrei sapere».
Nella lettera si legge che “entro maggio 2012 l'esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell'impresa”;. Lei ormai due anni fa ha presentato un disegno di legge per un nuovo codice del lavoro semplificato, che contiene anche una riforma sui licenziamenti.
«Se è per questo il Senato nel novembre 2010 ha approvato quasi all'unanimità una mozione che impegna il governo a perseguire un aumento della competitività del sistema-paese e in cui si richiama esplicitamente quel mio progetto di legge».
Nel suo disegno di legge si parla anche di licenziamenti per motivi economici e organizzativi.
«Se il governo intende riferirsi a ciò a cui è stato impegnato da quella mozione del Senato e con una riforma modellata sul disegno di legge 1873, la riforma è positiva. E non potrei dire nulla di diverso poiché il primo firmatario di quella proposta sono io. Se il governo vuole fare qualcosa di diverso bisogna vedere, perché è possibile riformare in mille modi».
Insomma la formulazione contenuta nella lettera è troppo stringata.
«Quello che dice la lettera può voler dire mille cose, che possono essere molto buone o molto cattive. Non è possibile una valutazione seria e non sarà possibile nemmeno da parte dell'Unione europea. Questa lettera non ha sufficiente precisione e univocità perché si possa dare un giudizio».

La Stampa 27.10.11
L’ira di Tremonti: non potremo mantenere quelle promesse
Il ministro non avvalla. Un collega: l’ha fatto volutamente
di Amedeo La Mattina


ROMA. Fate voi. Non riusciremo a mantenere tutti questi impegni e poi quello che conta, più che il giudizio di Bruxelles, sarà la reazione dei mercati». Non ci ha messo la sua firma nella lettera che ieri Silvio Berlusconi ha portato al vertice europeo. Il ministro dell’Economia è rimasto ai margini della trattativa. «Volutamente», dice chi ci lavora accanto: se tutto dovesse precipitare Tremonti potrebbe sperare di essere il successore del Cavaliere per un governo di transizione. «Macché spiega un ministro che è stato parte attiva nella stesura della lettera - è fuori gioco. Si è messo alla finestra quando ha capito che non era lui a dirigere le danze. E infatti questa volta non è stato lui a definire la griglia di proposte che ci consente di superare l’esame in Europa».
Tremonti non ha sopportato che il ruolo principale nella stesura della missiva sia stato affidato a Romani e Brunetta, con la supervisione di Gianni Letta. Un problema di metodo e protagonismo, ma non è escluso che ci sia una questione di merito. Ad esempio sulle dismissioni e le privatizzazioni l’inquilino di via XX Settembre non avrebbe le stesse idee dei suoi colleghi; non è disponibile alla vendita di alcuni gioielli dello Stato, anche in parte, come Finmeccanica, Eni ed Enel. Aziende che fanno gola ai privati e che potremmo mettere sul mercato per recuperare le risorse necessarie a finanziare la crescita e lo sviluppo. Soldi che serviranno anche ad abbattere il debito pubblico. Per fare questo il governo affiderà l’elaborazione di un piano ad «una commissione ristretta di personalità di prestigio». Ed è quello che Tremonti ha sempre visto come fumo negli occhi. Comunque si tratta di un versante ancora incerto, un terreno scivoloso tutto da definire nel quale Tremonti non potrà essere escluso.
Rimane il fatto, ripetono alcuni ministri, che il responsabile dell’Economia questo giro non ha toccato palla. Martedì sera, quando si è recato a Palazzo Grazioli (dove è rimasto in tutto mezz’ora), la lettera era già stata scritta e si trattava di una bozza, mentre la versione finale con tutte le scadenze non l’ha mai vista. Ne ha preso atto. Del resto per tutta la gestione della vicenda si sarebbe messo sull’Aventino, irritando pure Umberto Bossi, che però continua a proteggerlo. Un atteggiamento che stupisce il premier: «Umberto è l’unico che ancora lo difende, tutti gli altri lo vorrebbero morto». Nessuno nella maggioranza ha più paura delle sue dimissioni, spiegano i berlusconiani. Tra l’altro, Tremonti non può più ergersi a unico interlocutore in Europa: il Cavaliere si sarebbe ripreso il ruolo che gli spetta, perché la lettera porta la sua firma e non quella del ministro dell’Economia.
Il punto però è come dare gambe alle promesse fatte ieri da Berlusconi a Bruxelles. Come trasformare in provvedimenti il «libro dei sogni» e poi farlo passare nelle aule del Parlamento dove l’odore di elezioni anticipate nel 2012 sta nuovamente mettendo in moto le frange legate a Scajola e Pisanu. Tutti attendono l’esito del vertice europeo, ma gli occhi sono puntati sulla reazione che avranno i mercati sull’Italia. Lo scenario del voto, con l’indiscrezione di un patto tra Bossi e Berlusconi per andare a votare il prossimo marzo, sta facendo fibrillare la maggioranza. Anche in un incontro ristretto che si è tenuto ieri nella sede del Pdl si è ragionato di questa eventualità. Il segretario
Alfano ha riunito alcuni ministri e diversi parlamentari a lui vicini, quelli che vengono chiamati i «quarantenni» e che stanno preparando il ricambio generazionale in vista di urne aperte nella prossima primavera. Uno scenario che Alfano considera il più probabile. Nella Lega si parla addirittura di «black list», di maroniani da epurare in caso di voto. Gli estensori di questa lista sarebbero quelli del cerchio magico di Bossi, tra i quali il capogruppo Reguzzoni. Proprio tra lui e due deputati in odore di epurazione (Molteni e Rivolta) è andato in scena un alterco alla buvette di Montecitorio. La tensione è a fior di pelle e ieri alla Camera il governo è andato sotto diverse volte.

La Stampa 27.10.11
Dopo l’armistizio europeo un calvario verso le urne
di Marcello Sorgi


Il compromesso di Bruxelles che ha consentito a Berlusconi di evitare la crisi di governo è stato raggiunto a un prezzo alto e ha dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, che di fronte all’Unione le astuzie non funzionano. Dunque, o l’Italia è in grado di garantire che le riforme elencate nella famosa lettera di intenti - dalle pensioni ai licenziamenti più facili alle liberalizzazioni delle professioni, per fare gli esempi più controversi tra quelli indicati nelle quattordici pagine del testo - saranno realizzate entro tempi brevi e certi, o in caso di inadempienza si troverà quasi automaticamente fuori dal sistema di protezione dell’euro, nel pieno del vortice della crisi. Non a caso si è discusso della possibilità di mettere il testo nel verbale conclusivo del vertice Ue, cioè in pratica di trasformarla in una cambiale che avrebbe reso vincolanti da subito gli impegni presi da Berlusconi ma non ancora dettagliati né trasformati in provvedimenti. E questo malgrado il presidente Napolitano e il governatore e futuro presidente della Bce Draghi si fossero mossi simultaneamente ieri per garantire la serietà delle intenzioni messe per iscritto dal governo italiano e l’impossibilità, in questa fase, di evitare politiche impopolari pur di uscire dalla crisi.
Berlusconi non avrà molte possibilità di godersi il successo della sua missione al ritorno a Roma. A parte il contenzioso aperto con la Lega, e aggravato dalla polemica Fini-Bossi sulla baby-pensione della moglie del Senatùr, che ha infiammato la seduta della Camera, si muovono i sindacati, da sempre sensibili al tema della previdenza e irritati dalle decisioni annunciate dal governo senza consultazione preventiva, mentre le opposizioni continuano a dare battaglia in Parlamento (ieri il governo è andato sotto altre quattro volte).
La via d’uscita a questo calvario, che in tutta evidenza non potrà trascinarsi a lungo, è quella - inconfessabile ma ormai data per scontata nei corridoi di Montecitorio - delle elezioni anticipate. Un mese e mezzo di melina sulle riforme, all’ombra della quale Berlusconi cercherebbe di portare a casa la prescrizione breve e gli altri aggiustamenti procedurali che gli servono per i processi di Milano, e poi la rottura e lo scioglimento. Circola già la data dell’ultima domenica di marzo, come conseguenza di una conclusione anticipata della legislatura a fine anno, per andare a votare con l’attuale legge, rinviando il referendum e tutti i problemi aperti alle prossime Camere e al governo che verrà.

l’Unità 27.10.11
Intervista a Enrico Rossi
«Subito alle elezioni. Non ci sono altre strade»
Il presidente della Toscana: «Un governo di transizione a questo punto non è più una soluzione praticabile, e nemmeno auspicabile»
di Maria Zegarelli


Al voto subito. Non c’è altra strada che questa per il governatore della Toscana Enrico Rossi. E il centrosinistra si potrebbe giocare questa partita fino in fondo. Come? «Se saremo in grado di usare parole di grande onestà e serietà gli italiani capiranno e ci daranno fiducia». Per questo non crede nel governo di transizione, «non con questo Parlamento».
Presidente, al voto subito?
«Non abbiamo altra strada che questa: elezioni anticipate senza passare per un governo di transizione. A dirla tutta credo che il governo di transizione non sia neanche auspicabile».
Perché questo giudizio così netto?
«Intanto per la credibilità di questo Parlamento, fatto dagli Scilipoti e da forze politiche che non sono più affidabili. In questo momento il Paese ha bisogno di sacrifici, è chiamato a riconoscersi in un sentimento di appartenenza nazionale ed è evidente che nessuno della cerchia che ha governato finora ha queste caratteristiche. Anche una personalità esterna, di alto profilo, con questo Parlamento non riuscirebbe nell’impresa».
Secondo molti osservatori soltanto un governo di transizione potrebbe adottare quelle misure impopolari di cui c’è bisogno.
«Io la penso esattamente al contrario. Proprio in un momento in cui c’è bisogno di fare scelte coraggiose è la politica che deve farsene carico. Passare attraverso un governo di transizione vorrebbe dire abdicare alla propria funzione, dare il colpo finale alla politica. C’è bisogno di assumere misure economico-finanziarie e sociali importanti che spettano alla classe dirigente politica del Paese».
Lei pensa che il centrosinistra sia pronto per la sfida?
«Il centrosinistra si dovrebbe presentare con un programma serio per il risanamento del Paese e il suo sviluppo, nel quale i sacrifici siano distribuiti equamente. Si devono chiamare tutte le forze sociali a stringere un patto sociale, sono convinto che ci sia una disponibilità negli italiani a farsi carico di questa situazione, purché si indichi loro una strada con una proposta politica forte. Il centrosinistra si deve presentare così agli elettori, come una coalizione che vuole salvare il Paese senza demagogia, chiedendo sacrifici ma in modo equo. Deve dire: “chi ha di più deve dare di più, chi ha di meno deve essere tutelato”. E si deve spiegare che è finito il tempo delle bugie perché è arrivato il momento del linguaggio della verità».
Pochi punti, chiari, lei dice. Detta così sembra facile...
«Sono convinto che se non si inizia a discutere di cento punti, ma di tre o quattro questioni fondamentali, a partire dal lavoro, dall’equità sociale e fiscale, della necessità di una patrimoniale, aprendo il confronto con Idv, Sel e i socialisti, non sia difficile trovare un’intesa, con l’obiettivo di costruire un nuovo Ulivo».
E il rapporto con l’Udc?
«Che questo nuovo Ulivo debba discutere e trovare punti di incontro con le forze di centro, l’Udc in primo luogo, non lo trovo soltanto giusto ma anche naturale».
Dunque, non una coalizione con i centristi?
«La ritengo di più difficile realizzazione. Tutti i sondaggi dicono che l’Udc ha un elettorato più orientato verso il centrodestra. Noi dobbiamo essere più attenti verso il nostro elettorato cercando di riuscire a mobilitarlo. Detto questo, nulla esclude di trovare un’intesa su alcuni punti programmatici, a partire dalle riforme istituzionali, con una forza moderata e democratica come l’Udc. Ma il nodo vero rimane l’alleanza di centrosinistra e dobbiamo scioglierlo parlando più che alla politica alla società, agli elettori, perché non tutti sono chiusi nel proprio egoismo e individualismo».
Eppure se si andasse al voto il vero avversario si chiama “indecisione” e “astensionismo”. Insieme formano il “partito” più forte del Paese. Come si riavvicina questa fetta di elettori? «Ripeto, parlando il linguaggio della verità e chiamando tutto il Paese ad una sfida che riguarda tutti. Questa crisi profonda che attraversiamo è anche un’occasione per fare giustizia sociale. Si mobilita così la gente, dicendo che c’è una coalizione che intende far ripartire il Paese, rendere il fisco più equo e più giusto, combattere il precariato, rendere meno pesante la tassazione sul lavoro, affrontare in modo serio la riforma delle pensioni, perché è un tema che va affrontato...».
Le pensioni: già questo è un tema che divide il Pd. Lei pensa davvero che sia possibile trovare un punto comune anche con altre forze politiche?
«Se ne discute, si apre un dibattito sapendo che noi siamo in Europa e che quindi è in questo contesto che si inquadrano i problemi e si devono trovare le soluzioni. Se si apre una discussione seria, già adesso, è possibile arrivare a un programma di pochi punti, coraggioso, in grado di dimostrare che c’è un’alternativa credibile, che si impegna davvero, non come questo governo, a ridurre i costi della politica, che ne fa un punto forte del suo mandato e della campagna elettorale. Il Paese ha bisogno di proposte coraggiose e spetta a noi presentarle».

il Fatto 27.10.11
Hollande dà una mano a Bersani
di Wanda Marra


Angela Merkel e Nicolas Sarkozy se la ridono davanti alla parola credibilità associata a Silvio Berlusconi davanti alle telecamere di tutto il mondo? E intanto Pier Luigi Bersani prova a costruirsi un profilo di leader europeo.
 Il Partito democratico sta organizzando per il 5 novembre una manifestazione in grande stile in piazza San Giovanni: “Ricostruzione. In nome del popolo italiano”. Ospiti d’onore, François Hollande, fresco vincitore delle primarie del Partito socialista francese e dunque candidato alle presidenziali e il leader della Spd, Sigmar Gabriel.
Un colpo non da poco per il segretario democratico, guardato con invidia anche dai berluscones. D’altra parte, Bersani non si è risparmiato in viaggi all’estero nel-l’ultimo anno e così ha avuto modo di “curare” i suoi rapporti. Hollande l’ha invitato personalmente durante la Global Progress Conference (l’incontro tra 200 leader progressisti europei)di Madrid il 18 e il 19 ottobre, 48 ore dopo la sua vittoria alle primarie. Mentre Gabriel l’ha visto il 15 settembre a Berlino.
“FACCIAMO vedere che siamo una squadra – ha detto nel suo intervento a Madrid Bersani – la gente lo capirà e se ci riusciremo potremo invertire il ciclo”. E ha anche delineato i tratti essenziali della piattaforma programmatica: “Rinunciamo a un pezzo della sovranità nazionale e la devolviamo a un’Europa più democratica”, per “lavorare assieme sulla politica economica e del welfare”. I Democratici, insomma, si pongono come una forza davvero europeista, pronta a scommettere per dare “un’anima politica” all’Europa e a presentarsi come un blocco unico davanti a Stati Uniti e Cina, tanto per citare due grandi potenze. Non solo. In Europa, come spiega anche Lapo Pistelli, Responsabile esteri del Pd, finalmente hanno capito che Berlusconi - al di là delle gaffe, delle battute e delle macchiette - è un problema serio per l’Italia, che non si può liquidare come una parentesi, ma anche che contemporaneamente “esiste un’altra Italia”. Non a caso pare che esista un protocollo vero e proprio per cui ai leader europei è vietato farsi fotografare con Silvio Berlusconi. E rispetto a questo non è cosa da poco che Bersani se li porti addirittura in piazza. Soprattutto se si considera che nel prossimo anno e mezzo Francia, Germania e Italia andranno alle elezioni. Tra l’altro dal Pd fanno sapere che per il 5 novembre stanno lavorando ad altre adesioni internazionali.
CERTO non basta una piazza. Anche se per Bersani il palco che condividerà solo con i due leader europei sarà un’ottima foto da mostrare all’interno oltre che all’esterno del partito. Va detto, però, che le buone relazioni internazionali non sempre hanno portato bene ai leader democratici (e per la verità neanche ai loro interlocutori): tra Walter Veltroni e Se-golene Royal era tutto uno scambio di reciproche cortesie e complimenti. Tanto che un pranzo tra i due a Parigi nel 2007 ne suggellò una sorta di accordo. Veltroni, nel frattempo, da segretario democratico trionfatore delle primarie è diventato candidato premier sonoramente sconfitto da Berlusconi e poi dimissionario. La Royal, a sua volta, è stata sonoramente sconfitta alle primarie socialiste proprio dal suo ex compagno Hollande. E che dire dell’Ulivo mondiale? Lanciato da Massimo D’Alema nel 1999 aveva tra i suoi membri anche Tony Blair e Bill Clinton. Di strada non ne ha fatta molta. E quei leader politicamente non hanno fatto la miglior fine possibile.

intanto continua il quotidiano tentativo de l’Unità di assomigliare il più possibile all’Avvenire
con qualche aiutino...l’Unità 27.10.11
Oggi nella città di San Francesco la giornata mondiale istituita venticinque anni fa da Wojtyla
I protagonisti Il patriarca di Costantinopoli, il primate anglicano, rappresentanti islamici ed ebraici
Assisi, crocevia di religioni «Così si costruisce la pace»
Un invito alla coerenza, un appello forte alla pace: «I cristiani non siano lupi», dice Ratzinger in vista dell’appuntamento odierno ad Assisi. «Non si vince il mondo con la forza delle armi, ma con la mitezza».
di Roberto Monteforte


Arriveranno con un treno «speciale» che partirà questa mattina dalla stazione vaticana le delegazioni delle religioni invitati da Papa Benedetto XVI ad Assisi per la Giornata mondiale di preghiera per la pace. «Pellegrini della verità, pellegrini della pace»: sarà questo il senso dell’incontro voluto da Ratzinger nel 25 ̊ dell’appuntamento istituito con spirito profetico da Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986. L’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede era preoccupato per quella preghiera comune per la pace. Vi vedeva il rischio di sincretismo. Ora rilancia l’incontro mondiale di preghiera, ma con un timbro particolare. Intanto insiste sull natura di «pellegrinaggio» dell’appuntamento di Assisi. Non vi sarà alcuna preghiera comune tra i leader delle diverse confessioni religiose: dal patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I all’arcivescovo di Canterbury e primate anglicano Rowan Douglas Williams, a rappresentanti dell’Islam, della religione ebraica, a buddhisti e delle altre religioni. La riflessione avrà come oggetto la «ricerca della verità, nella promozione del vero bene dell’umanità e nella costruzione e nella costruzione della pace». L’altra novità introdotta dal papa filosofo sulla scia di quel impegnativo dialogo con il mondo laico instaurato con il «Cortile dei gentili», è stata l’apertura dell’incontro «ad uomini non credenti ma sinceramente in ricerca della verità».
Lo ha spiegato ieri lo stesso Benedetto XVI che ha dedicato alla giornata di Assisi l’udienza generale del mercoledì alla quale ha invitato a partecipare i fedeli della Chiesa di Roma. Così già da ieri il Papa ha invitato a pregare per la causa della pace. «Il Signore può guidarci ad essere costruttori di giustizia e di riconciliazione nelle nostre realtà quotidiane e nel mondo» ha affermato. «Vogliamo pregare il Signore ha aggiunto che ci renda strumenti della sua pace in un mondo ancora lacerato da odio, da divisioni, da egoismi, da guerre, vogliamo chiedergli che l’incontro ad Assisi favorisca il dialogo tra persone di diversa appartenenza religiosa e porti un raggio di luce capace di illuminare la mente e il cuore di tutti gli uomini, perché il rancore ceda il posto al perdono, la divisione alla riconciliazione, l’odio all’amore, la violenza alla mitezza, e nel mondo regni la pace». Nella sua omelia ieri nell’Aula Paolo VI il pontefice ha invitato i fedeli al coraggio della coerenza. «I cristiani non devono mai cadere alla tentazione di diventare lupi tra i lupi», ha affermato, perché «non è con il potere, con la forza, con la violenza che il regno di pace di Cristo si estende, ma con il dono di sè, con l'amore portato all'estremo, anche verso i nemici». «Gesù non vince il mondo con la forza delle armi ha aggiunto ma con la forza della Croce, che è la vera garanzia della vittoria».
Oggi la giornata sarà scandita da due momenti. Nella mattinata nella Basilica di santa Maria degli Angeli vi saranno gli interventi dei leader religiosi ospiti e della professoressa Julia Kristeva che parlerà in rappresentanza dei non credenti. Nel pomeriggio dopo un momento di preghiera personale, ci sarà il «pellegrinaggio» verso la piazza inferiore di San Francesco per l’incontro conclusivo che si concluderà con il solenne impegno per la pace, l’accensione delle lampade e lo scambio del gesto di pace tra i trecento partecipanti.

l’Unità 27.10.11
I credenti e i laici nel cortile globale del mondo ingiusto
Tra pagani e fedeli l’incontro era difficile. Oggi è necessario
Altro che atei devoti: la «persona» e i diritti, ecco il vero confronto
Presentato il libro sul dialogo tra fede e ragione laica voluto da monsignor Ravasi. Con Guido Fabiani, rettore di Roma III, Julia Kristeva, Giacomo Marramao, Remo Bodei
di Bruno Gravagnuolo


Chi ha una vaga memoria di certi dibattiti filosofici anni 70-80, restava stupito nell’ascoltare quel che oggi teorizza una pensatrice franco-bulgara come Julia Kristeva, semiologa, psicoanalista e studiosa del linguaggio poetico: «Osare l’umanesimo». Rovesciamento completo di ciò che lo strutturalismo marxista e «maoista» di allora andava predicando: l’antiumanesimo teorico. E invece, «l’umanesimo globale» di Kristeva convenuta ieri al «Cortile dei Gentili» voluto da Mons. Gianfranco Ravasi, in vigilia di Assisi, è stato il filo conduttore diversamente declinato, dell’incontro di ieri all’Università di Roma III.
Occasione, la presentazione del libro Donzelli proprio sul Cortile dei Gentili. Credenti e non credenti di fronte al Mondo di oggi (pp. 145, Euro 16,50). Con dentro saggi di Ravasi, Kristeva, Givone, Cacciari, Barbera, Balzani e Amato, Dionigi. Ma che cos’è il «Cortile dei Gentili»?
È l’area esterna al tempio antico israelita, dove i pagani (gentes) potevano entrare. Separata dallo spazio dei credenti da un muro invalicabile. Ebbene libro e convegno volevano scavalcare quel muro, se non abbaterlo, come ha spiegato Mons. Ravasi. In altri termini e meno metaforici, il tema è ancora il dialogo, oggi nel mondo globale. Tra credenti e non credenti. Quali terreni comuni, quali valori e emozioni da scambiare e «decidere assieme». E quali le distanze incolmabili. A praticarlo a Roma III quel tentativo, alcuni «gentili» di oggi. Filosofi e studiosi: oltre a Kristeva, Giacomo Marramao, Remo Bodei, il messicano Guillermo Hurtado e Walter Bayer, già segreterio dei comunisti austriaci, economista e marxista, coordinatore al parlamento europeo di Trasform Europe (un network con dentro i rossoverdi di sinistra radicale).
Dunque, s’è detto dell’umanesimo globale di Kristeva. Ovvero, rispetto della «persona come singolarità indistruttibile» e cioè ascolto e accoglienza del dolore di ciascuno sul pianeta. Nel segno di psicoanalisi e «bisogno di credere» a un senso, a un significato, non necessariamente religioso. Ma che almeno storicamente, ieri e oggi, sia imparentato con la tradizione greca e giudeo-cristiana. E però, come la mettiamo con il senso religioso degli altri? Scintoista, taoista, buddista, islamico? E allora il «religioso» diveine occasione di «domande ultime» sui valori comuni del pianeta cosmopolita (e in fondo ci aveva già pensato Kant, no?). Altri temi: ateismo, tecnica, relativismo. Per Marramao, non si tratta di subirli, ma di cogliere la «radicalità delle domande estreme, contro laicismo ateista e contro i bigotti. E aggiunge: «Non più solo un Dio ci può salvare, ma ormai l’uomo salva Dio».
E tra Atene e Gerusalemme si muove anche Bodei, che invita laici e credenti a imparare gli uni dagli altri, visto dovremo reinventare integralmente stili di vita e consumi. Per Bodei le critiche della Chiesa alla modernità vanno meditate. Specie quelle alla finanza e al liberismo. Quanto ai credenti suggerisce devono negoziare, perché i cosiddetti valori non negoziabili sono pur sempre un terreno comune, da gestire e definire. Di volta in volta, come fossimo tutti in viaggio, al modo in cui lo racconta Agostino di Ippona, nella sua idea di «Civitas Dei peregrina», che cammina verso l’alto, ma in corteo sulla terra. Non manca una battuta contro gli «atei devoti». La Chiesa, dice Bodei dovrebbe buttarli giù dal loggione, come chiedeva Petrolini a teatro. Agli spettatori, seduti accanto a quelli che lo contestavano... E a quanto pare il Papa in Germania lo ha accontentato, dissipando alcune ambivalenze passate: «Meglio un non credente onesto, che un ateo devoto...». Chiudono Baier e Hurtado. Ma il leit-motiv non cambia. Dialogare, negoziare sui valori, cercare insieme. Per cambiare un mondo violento, ingiusto e intollerabile.

l’Unità 27.10.11
E noi dobbiamo sovvertire l’agenda politica
di Flavio Lotti


La Giornata per la pace che oggi si celebra ad Assisi deve essere occasione di riflessione per tutti, credenti e non credenti, persone e istituzioni, forze politiche e associazioni. Ad un mese dalla Marcia Perugia-Assisi, che ha visto la partecipazione straordinaria di oltre duecentomila persone, essa ripropone un obiettivo e un
metodo. L’obiettivo è la pace e la giustizia, il metodo è quello del cammino, dell’incontro e del dialogo. Viviamo in un tempo in cui pace e giustizia sono state cancellate dall’agenda della politica e dei governi. Chi si pone ancora oggi questi obiettivi? Quali agende politiche gli danno il rilievo che meritano? In un mondo dominato dall’utilitarismo o, se si preferisce, dal pragmatismo utilitario, gli obiettivi della pace e della giustizia vengono tutt’al più considerati come grandi ideali irraggiungibili e quindi non perseguibili. Non è un caso se chi opera o manifesta per la pace e la giustizia viene a buon cuore definito «idealista», ovvero che non vuole fare i conti con la realtà. Quegli obiettivi che i nostri padri avevano accuratamente iscritto nella Costituzione e nelle carte fondamentali dell’umanità e che dovrebbero essere considerati da tutti patrimonio comune, oggi sono dimenticati o confinati nel campo astratto e ovattato dei «valori», un campo dove le parole vengono manipolate e straziate per poi essere strumentalizzate come e quando viene utile. Ad occupare la scena oggi restano solo i contrari: guerra, guerra civile, guerra «umanitaria», guerra infinita, uccisioni, repressione, torture, terrorismo, violazione dei diritti umani, fame, miseria, sfruttamento, migrazioni, ingiustizie, razzismo... I leader religiosi che oggi s’incontrano ad Assisi sanno di dover fare la loro parte per far sì che tutte le religioni e tutti i credenti possano divenire realmente strumenti di pace. È tempo che anche i leader politici facciano altrettanto. Rimettere la pace e la giustizia al centro del proprio programma politico vuol dire proporre una nuova cultura e una nuova agenda politica. Una cultura alternativa a quelle responsabili dei tanti disastri e delle tante crisi dei nostri giorni e un’agenda che risponda finalmente ai bisogni vitali e ai diritti di ogni persona. Ma l’incontro di Assisi indica anche un metodo: quello del dialogo. Dialogo è una parola facile ma una pratica difficile. Perché sia autentico servono una cultura e un linguaggio appropriati, disponibilità ad abbattere muri e divisioni anche feroci, e soprattutto tanta umiltà, mitezza, disponibilità all’ascolto e alla comprensione. A questo dobbiamo educarci tutti, politica inclusa.
*Coordinatore nazionale della Tavola della pace

Corriere della Sera 27.10.11
Regole per un nuovo umanesimo
Il «bisogno di credere», il «desiderio di sapere»: dialogo tra religioni e ateismo
un Nuovo Umanesimo in Dieci Principi
di Julia Kristeva


Che cos'è l'umanesimo?
Un grande punto interrogativo da affrontare con la massima serietà? È nella tradizione europea, greco-giudaico-cristiana, che si è prodotto questo evento che non cessa di promettere, di deludere e di rifondarsi. Quando Gesù si descrive (Giovanni 8,24) negli stessi termini di Elohim che si rivolge a Mosè (Esodo 3,14), dicendo: «Io sono», egli definisce l'uomo — anticipando così l'umanesimo —  come una «singolarità indistruttibile» (secondo l'espressione di Benedetto XVI).
Singolarità indistruttibile che non solo lo ricollega al divino attraverso la genealogia di Abramo (come faceva già il popolo di Israele), ma che innova. Giacché l'«Io sono» di Gesù si estende dal passato e dal presente al futuro e all'Universo; il Roveto ardente e la Croce diventano universali.
Quando il Rinascimento con Erasmo, poi l'Illuminismo con Diderot, con Voltaire, con Rousseau, ma anche con il Marchese de Sade, e via via fino a quell'ebreo ateo che è stato Sigmund Freud, proclamano la libertà degli uomini e delle donne di ribellarsi contro i dogmi e le oppressioni, la libertà di emancipare gli spiriti e i corpi, di mettere in discussione ogni certezza, comandamento o valore — aprono forse essi la porta a un nichilismo apocalittico? Attaccandosi all'oscurantismo, la secolarizzazione ha dimenticato di interrogarsi sul bisogno di credere che è sotteso al desiderio di sapere, così come sui limiti da porre al desiderio di morte — per vivere insieme. Tuttavia, non è l'umanesimo, sono le derive settarie, tecnicistiche e negazionistiche della secolarizzazione che sono precipitate nella «banalità del male», e che oggi favoriscono l'automatizzazione in atto della specie umana. «Non abbiate paura!», queste parole di Giovanni Paolo II non erano rivolte solamente ai credenti, che incoraggiavano a resistere al totalitarismo. L'invocazione di questo Papa — apostolo dei diritti dell'uomo — ci incita anche a non temere la cultura europea, ma al contrario ad osare l'umanesimo: costruendo complicità tra l'umanesimo cristiano e quello che, scaturito dal Rinascimento e dai Lumi, ambisce a rischiarare le vie rischiose della libertà.
Ecco perché, in questa vostra terra d'Assisi, i miei pensieri si rivolgono a san Francesco: che non cerca «tanto di essere compreso, ma di comprendere», «non tanto di essere amato, ma di amare»; che suscita la spiritualità delle donne con l'opera di santa Chiara; che pone il bambino nel cuore della cultura europea creando la festa di Natale; e che, poco prima di morire, da vero umanista ante litteram, manda la sua lettera «a tutti gli abitanti del mondo». Penso anche a Giotto che dispiega i testi sacri in un insieme di immagini viventi della vita quotidiana degli uomini e delle donne del suo tempo, e sfida il mondo moderno a scuotersi dal rito tossico dello spettacolo oggi onnipresente.
Ed è Dante Alighieri che mi interpella in questo istante, quando celebra san Francesco nel Paradiso della sua Divina Commedia. Dante ha fondato una teologia cattolica dell'umanesimo dimostrando che l'umanesimo esiste solo ed in quanto noi trascendiamo il linguaggio attraverso l'invenzione di nuovi linguaggi: come lui stesso ha fatto, scrivendo in uno «Stil novo» la lingua italiana corrente, e inventando neologismi. «Oltrepassare l'umano nell'umano» («trasumanar», Paradiso, I, 69), questo — dice Dante — sarà il cammino della verità. Si tratterà di «annodare» — nel senso di «accoppiare», di vedere come si annodano il cerchio e l'immagine dentro un rosone (come l'una si «indova» nell'altra, come si posiziona, come si mette in quel «dove», Paradiso, XXXIII, 138) — si tratterà di annodare il divino con l'umano nel Cristo, di annodare il fisico e lo psichico nell'umano.
Di questo umanesimo cristiano, inteso come un «oltrepassamento» dell'umano, come l'accoppiamento dei desideri e del senso attraverso il linguaggio — purché si tratti di un linguaggio d'amore — l'umanesimo secolarizzato è l'erede spesso inconsapevole. Se ne separa, affinando le sue proprie logiche, di cui vorrei delineare dieci principi. Che non sono dieci comandamenti, ma dieci inviti a pensare dei ponti tra di noi.
1.L'umanesimo del XXI secolo non è un teomorfismo. L'Uomo Maschile non esiste. Non esistono né «valori» né «fini» superiori, non c'è nessun approdo del divino presso gli atti più alti di quegli uomini che dal Rinascimento in poi si sono chiamati «genii». Dopo la Shoah e il Gulag, l'umanesimo ha il dovere di ricordare agli uomini e alle donne che se noi ci consideriamo come i soli legislatori, è solo grazie alla continua messa in discussione della nostra situazione personale, storica e sociale che possiamo decidere della società e della storia.
2.Processo di continua rifondazione, l'umanesimo si sviluppa necessariamente attraverso rotture che sono innovazioni (il termine biblico hiddouch significa inaugurazione-innovazione-rinnovamento; enkainosis e anakainosis; novatio e renovatio). Conoscere intimamente l'eredità greco-giudaico-cristiana, metterla sotto rigoroso esame, trasvalutare (Nietzsche) la tradizione: non c'è altro mezzo per combattere l'ignoranza e la censura, e facilitare così la coabitazione delle memorie culturali costruitesi nel corso della storia.
3.Figlio della cultura europea, l'umanesimo è l'incontro di differenze culturali favorite dalla globalizzazione e dall'informatizzazione. L'umanesimo rispetta, traduce e rivaluta le varianti dei bisogni di credere e dei desideri di sapere che sono patrimonio universale di tutte le civiltà.
4.Umanisti, «noi non siamo angeli ma abbiamo un corpo». Così si esprimeva, nel secolo XVI, santa Teresa d'Avila, inaugurando l'età barocca, che non è una Contro-Riforma, ma una Rivoluzione barocca che avvia il secolo dei Lumi. E tuttavia il libero desiderio è un desiderio di morte. E bisognava aspettare la psicoanalisi per raccogliere nell'unica e ultima regolamentazione del linguaggio questa libertà dei desideri che l'umanesimo né censura né blandisce, ma che si propone di mettere in evidenza, di accompagnare e di sublimare.
5.L'umanesimo è un femminismo. La liberazione dei desideri doveva necessariamente condurre all'emancipazione delle donne. Dopo i filosofi dei Lumi che hanno aperto la via, le donne della Rivoluzione francese l'hanno pretesa, questa emancipazione, con Théroigne de Méricourt, con Olympe de Gouges, e via via con Flora Tristan, con Louise Michel e con Simone de Beauvoir, accompagnate dalle lotte delle suffragette inglesi; e voglio ricordare qui le donne cinesi della Rivoluzione borghese del 4 maggio 1919. Le lotte per una parità economica giuridica e politica richiedono una nuova riflessione sulla scelta e la responsabilità della maternità. La secolarizzazione è la sola civiltà ad essere ancora priva di un discorso sulla maternità. Il legame passionale tra la madre e il bambino, questo primo altro, aurora dell'amore e della ominizzazione — quel legame nel quale la continuità biologica diventa senso, alterità e parola è un confidare, un affidarsi. Differente dalla religiosità come dalla funzione paterna, la fiducia materna le completa entrambe, partecipando così a pieno titolo all'etica umanistica.
6.Umanisti, è attraverso la singolarità condivisibile dell'esperienza interiore che possiamo combattere quella nuova banalità del male che è l'automatizzazione della specie umana cui stiamo assistendo. Dal momento che noi siamo esseri parlanti e scriventi, siccome disegniamo, e dipingiamo, e suoniamo, e giochiamo, e calcoliamo, e immaginiamo, e pensiamo: proprio perciò non siamo condannati a diventare degli «elementi di linguaggio» nell'iperconnessione accelerata. L'infinito delle capacità di rappresentazione è il nostro habitat, la nostra dimensione profonda e liberatrice, la nostra libertà.
7.Ma la Babele delle lingue genera anche caos e disordini che l'umanesimo non riuscirà mai a regolare con il semplice ascolto, per quanto attento, prestato alle lingue degli altri. È venuto il momento di riprendere i codici morali di un tempo: senza indebolirli con la pretesa di problematizzarli, e rinnovandoli al cospetto delle nuove singolarità. Lungi dall'essere dei puri arcaismi, i divieti e le limitazioni sono degli argini che non si possono ignorare, se non si vuole sopprimere la memoria che costituisce il patto degli umani tra di loro e con il pianeta, con i pianeti. La storia non appartiene al passato: la Bibbia, i Vangeli, il Corano, il Rigveda, il Tao, abitano il nostro presente. È utopico creare nuovi miti collettivi, e non basta nemmeno interpretare quelli antichi. Ci tocca riscriverli, ripensarli, riviverli: dentro i linguaggi della modernità.
8.Non c'è più un Universo; la ricerca scientifica scopre e indaga continuamente il Multiverso. Molteplicità di culture, di religioni, di gusti e di creazioni. Molteplicità di spazi cosmici, di materie e di energie che coabitano con il vuoto, che si compongono con il vuoto. Non abbiate paura di essere mortali. Capace di pensare il multiverso, l'umanesimo è chiamato a confrontarsi con un compito epocale: iscrivere la mortalità nei multiversi della vita e del cosmo.
9.Chi potrà fare questo? L'umanesimo, perché esso se ne sa prendere cura. Si dirà che la cura amorevole dell'altro, la cura ecologica della terra, l'educazione dei giovani, l'assistenza ai malati, agli handicappati, agli anziani, ai deboli non arrestano né la corsa in avanti delle scienze né l'esplosione del denaro virtuale. L'umanesimo non sarà un regolatore del liberalismo: piuttosto sarà in grado di trasformarlo, senza rovesciamenti apocalittici, o promesse di avvenire gloriosi. Prendendosi il suo tempo, creando una nuova vicinanza e delle solidarietà elementari, l'umanesimo accompagnerà la rivoluzione antropologica che già è annunciata tanto dalla biologia che emancipa le donne, quanto dal lasciar-fare della tecnica e della finanza e dall'impotenza del modello democratico-piramidale, che non riesce a canalizzare le innovazioni.
10.L'uomo non fa la storia, ma la storia siamo noi. Per la prima volta Homo Sapiens è capace di distruggere la terra e se stesso in nome delle sue religioni, credenze o ideologie. E per la prima volta gli uomini e le donne sono capaci di rivalutare in totale trasparenza la religiosità costitutiva dell'essere umano. L'incontro delle nostre diversità, qui ad Assisi, testimonia che l'ipotesi della distruzione non è la sola possibile. Nessuno sa quali esseri umani succederanno a noi che siamo impegnati in questa trasvalutazione antropologica e cosmica senza precedenti. La rifondazione dell'umanesimo non è né un dogma provvidenziale, né un gioco dello spirito: è una scommessa.
L'era del sospetto non basta più. Di fronte alle crisi e alle minacce sempre più gravi, è venuta l'era della scommessa. Dobbiamo avere il coraggio di scommettere sul rinnovamento continuo delle capacità degli uomini e delle donne di credere e di sapere insieme. Perché, nel multiverso circondato di vuoto, l'umanità possa perseguire a lungo il suo destino creativo.
(Traduzione di Adelina Galeotti)
© 2011 Julia Kristeva - Donzelli editore

agape...
Corriere della Sera 27.10.11
Olindo, Rosa e l'amore «Una forza nel cosmo ci unisce per sempre»
di Bruno Vespa


Dai quindici agli ottantacinque anni: l'amore accompagna tutta la nostra vita. Bruno Vespa affronta l'argomento nel libro «Questo amore» (ed. Mondadori — Rai Eri) da oggi in libreria tracciando un ritratto dell'animo degli italiani attraverso il racconto delle esperienze sessuali dei ragazzi di oggi, del ruolo di dominatrici svolto dalle giovani donne fino agli amori dei politici e delle persone comuni. Poi Vespa decide di cambiare passo e affronta le unioni tragiche andando in carcere a intervistare Olindo e Rosa Romano, condannati per il delitto di Erba, ma anche le grandi storie d'amore di attrici celebri e le feste che tanti problemi hanno procurato a Silvio Berlusconi, senza dimenticare l'amore di Dio, quello di sacerdoti e laici che rinunciano a tutto per dedicarsi agli altri.

Rosa Bazzi mi viene incontro con un sorriso spontaneo e luminoso nel corridoio delle sale colloqui del carcere di Bollate, a nord di Milano. Indossa una camicetta beige con pantaloni in tinta. «Ho accettato di vederla» dice stringendomi la mano «per capire come mai una brava persona come lei si è accanita contro me e mio marito.»
Rosa e suo marito Olindo Romano, che incontro più tardi nel carcere di Opera, a sud del capoluogo lombardo, stanno scontando una condanna all'ergastolo... Spiego a Rosa Bazzi che non sono venuto a parlare del delitto (sarà lei a farlo, toccando il tema della sua mancata maternità), ma a chiederle del suo amore per Olindo...
La loro settimana (a eccezione della quarta del mese) comincia e finisce il venerdì: per le due ore di colloquio, quando lei va e torna dal carcere di Opera, in attesa di un «ricongiungimento» che non servirà a farli incontrare più spesso, ma a risparmiare tempo e uomini per il suo trasferimento. Aspettando il venerdì successivo, Rosa ricama lenzuola per Olindo, e Olindo — il meno forte della coppia, in questo momento — spazza per tre ore al giorno il corridoio d'entrata e le aree adibite al passeggio. «Sempre senza incontrare nessuno» mi dice lui. «Per 4 anni e due mesi mi hanno sorvegliato a vista. Adesso mi hanno tolto da questo regime, ma ancora per tre anni dovrò restare da solo.» Trovo Olindo ingrassato... «Adesso peso 119 chili, qualcosa in più rispetto ai 115-118 che pesavo prima di essere arrestato. Ma dovrei scendere. Lele, per esempio, in due mesi ha perso una ventina di chili.» Lele chi? «Lele Mora, il mio buon vicino di cella. Pensava che lo avrebbero mandato agli arresti domiciliari, ha preso male il rigetto e si è ammalato di brutto.» ...
«Come passo le giornate?» riprende Olindo. «Come una marmotta. Mi sveglio, faccio colazione alle 7.30... Fumo un paio di sigarette, mi rimetto in branda, mi addormento di nuovo fino alle 11. A ora di pranzo vedo i notiziari in televisione, poi lavoro un po' e, dopo cena, guardo la tv fino a notte. Prima leggevo, adesso da un anno non leggo più niente.»...
Olindo ha il viso tondo incorniciato da capelli radi, indossa una camicia blu e pantaloni dello stesso colore. «Mi piacerebbe stirare le camicie di Oli» dice Rosa. «Prima mi sgridava se trovava una piegolina. Adesso gli rimprovero di essere diventato cicciotto e barbone.» «Eh, sì» ricorda lui. «Adesso, dopo cinque anni di isolamento, sono diventato un nullafacente e mi è passata la voglia»...
«Parliamo del passato, delle lettere che arrivano. Quando ero detenuto a Parma, arrivava di tutto, nel bene e nel male. Qui a Opera arrivano soltanto lettere di incoraggiamento. Abbiamo fatto richiesta di stare nello stesso carcere. So bene che non potrei vedere mia moglie più di adesso, ma stare sotto lo stesso cielo, respirare la stessa aria è diverso…».
«Quando ci hanno visto ridere in aula non era per indifferenza per quel che ci capitava intorno, ma perché Oli aveva tirato fuori la storia della cella matrimoniale. Era uno scherzo…». Rosy mi ricorda ancora quella battuta. «Era nata quando non c'era il giudizio definitivo. Pensai: finché non arriva la condanna della Cassazione, perché dividerci? No, non avevo pensato che c'è la separazione tra uomini e donne. Magari ce la dessero adesso, la cella insieme… Lei mi chiede come descrivere l'amore per mia moglie. Bella domanda. Quando sei lontano, ti incontri tre volte al mese e ti senti al telefono una volta alla settimana… mi capita di pensare a quanti hanno scritto sull'amore in modo tanto diverso. La Chiesa pensa allo spirito e lo circoscrive con i suoi dogmi, la scienza prova a catalogarlo con le leggi della chimica. Senza disturbare Dio, penso che nel cosmo ci sia qualcosa che ci tiene uniti. Ci sono leggi alte e non sempre spiegabili a tutti: se la luna regola le maree, è possibile che ci sia qualcosa che ti consenta di compensare i sentimenti che non puoi esprimere da vicino alla persona che ami. Tutto cambia, scopri che i neutrini sono più veloci della luce, ma nella piramide della vita resistono le cose che tengono unite due persone. Ieri come oggi».

Corriere della Sera 27.10.11
La Sinistra del dopo Todi divisa dai «Marxisti ratzingeriani»
di Dino Messina


Nella Rete e sui giornali sono stati ribattezzati «marxisti ratzingeriani». La definizione accomuna quattro eminenti intellettuali di formazione marxista, il filosofo del diritto Pietro Barcellona, il sociologo Paolo Sorbi, il filosofo e teorico dell'operaismo Mario Tronti, lo storico Giuseppe Vacca, che alla vigilia del convegno dei cattolici di Todi (17 ottobre) hanno firmato una lettera aperta davvero coraggiosa. E inaspettata, perché invita il Pd, partito «di credenti e non credenti» e il suo segretario, Pier Luigi Bersani, a un dialogo con la Chiesa cattolica a partire da «un'inedita emergenza antropologica» (il cui aspetto più allarmante è la manipolazione della vita) e sul terreno di due «temi fondamentali del magistero di Benedetto XVI che nell'interpretazione prevalente hanno generato confusione e distorsioni tuttora presenti nel discorso pubblico: il rifiuto del "relativismo etico" e il concetto di "valori non negoziabili"».
Un'impostazione che ha diviso la sinistra, tanto da spingere lo storico Francesco Benigno ieri sull'Unità a spiegare i motivi di un dissenso non soltanto personale. Non si tratta di una mossa di corto respiro, scrive il commentatore, anche perché lo esclude la stessa biografia dei firmatari. Ma dopo l'omaggio partono le bordate: i «quattro marxisti ratzingeriani», per la verità definiti così nel titolo e non nell'articolo, sono colpevoli, secondo Benigno, di una doppia semplificazione: ridurre il ruolo della religione nel mondo contemporaneo a quello della presenza della Chiesa cattolica, escludendo la pluralità delle fedi; sorvolare non solo sulle divergenze nel mondo cristiano ma anche su quelle interne allo stesso mondo cattolico.
Il terreno dei valori comuni non può essere né la critica al relativismo etico, né quello dei valori cattolici non negoziabili, come insegna anche il dialogo del 2004 tra il sociologo Jurgen Habermas e l'allora cardinale Ratzinger: «La giusta ricerca di un patrimonio morale condiviso da laici e credenti» scrive Benigno «può iniziare più facilmente dai valori comuni». Per esempio dall'invito del cardinale Bagnasco a farsi carico dei più poveri e indifesi.
Una parte della sinistra vuole un incontro con il mondo cattolico sui classici principi dell'egualitarismo. E considera che i «marxisti ratzingeriani» abbiano fatto un passo indietro. O sono troppo innovatori?

I catto-pd intanto fanno scaldare a bordo campo il proprio candidato, il chierichetto “sapientino-Renzi”...
Corriere della Sera 27.10.11
Il «big bang» di Renzi scuote gli equilibri nel Pd
L'interesse dei prodiani. L'appello di 10 parlamentari: solo lui può rimetterci in movimento
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il «big bang» di Matteo Renzi si avvicina, e a Roma i dirigenti del Partito democratico si preparano a non subire nessun contraccolpo. Ma l'effetto della «Leopolda II» è contagioso e si fa sentire anche nei palazzi della politica.
In un corridoio della Camera gli ex prodiani, gli "orfani", come si autodefiniscono loro, discutono dell'appuntamento fiorentino. Ci sono Giulio Santagata, che parteciperà all'iniziativa, e c'è Antonio Laforgia che dice: «Renzi è l'unico fenomeno interessante nel panorama del centrosinistra». Poco più in là Arturo Parisi annuncia: «Io ci andrò: credo di essere l'unico brontosauro ammesso e prenderò anche la parola». Il leader referendario non vuole mancare: è sua intenzione rilanciare le primarie proprio in quella sede, davanti al sindaco di Firenze che è uno dei più strenui sostenitori di questo strumento. Raccontano che anche Romano Prodi stia seguendo con molto interesse le mosse del "giovane" Renzi, benché abbia deciso di non partecipare alla manifestazione, per evitare polemiche dentro il Pd.
Dunque, l'ex premier è intrigato dal movimentismo del mai domo sindaco di Firenze. E non è il solo. Assiso su un divanetto, nel Transatlantico di Montecitorio, Pierluigi Castagnetti si lascia prendere dai ricordi: «Matteo è un coraggioso, un uomo intraprendente e pieno di vitalità. Mi ricordo che da segretario del Ppi volevo tenere un dibattito a Firenze sulla crescita demografica. Un tema di nicchia, ma Renzi mi assicurò che avrebbe organizzato tutto lui. Arrivai ed era pieno di gente, mi feci trascinare dall'entusiasmo anche io e mi sedetti per terra insieme a un gruppo di giovani. Intanto mi chiedevo: e adesso come riuscirò a introdurre un argomento così serioso? All'improvviso lui mi lanciò il microfono e io iniziai a parlare come se niente fosse». Ne ha tanti di ricordi, Castagnetti, alcuni recentissimi: «Ho conosciuto il capo dei vigili urbani di Firenze e mi ha raccontato che non c'è giorno in cui Renzi non faccia almeno una decina di telefonate. Gira per le strade a piedi e chiama per dire "c'è un marciapiede rotto", "c'è un semaforo guasto", e via così».
Insomma, nel Pd circolano già le agiografie orali di quello che potrebbe essere il leader del futuro. E nel frattempo dieci parlamentari del partito hanno presentato una lettera-appello a favore di Renzi e della sua iniziativa. Tra i firmatari, Pietro Ichino, Ermete Realacci, Roberto Della Seta, Luigi Bobba, Roberto Giachetti, Maria Paola Merloni. Spiega uno di loro, l'ex presidente di Legambiente Della Seta: «Non si tratta di essere d'accordo al cento per cento con tutte le proposte del sindaco di Firenze, ma il fatto è che comunque lui è l'unico che può togliere il tappo e rimettere in movimento il partito che altrimenti rischia la stagnazione». Inutile dire che Della Seta e gli altri firmatari dell'appello saranno alla «Leopolda II».
Insomma, Renzi è riuscito a rompere un argine anche nei palazzi della politica romana. Contro di lui si schierano i colonnelli di Bersani. Catiuscia Marini, presidente della Regione Umbria, e Stefano Fassina, che dice: «Matteo vende, come nuove, ricette fallite». Più cauti il segretario («Renzi è una risorsa») e D'Alema («è un giovane brillante»), che non vogliono esporsi troppo. E lui? Il protagonista delle molte conversazioni di casa Pd, il sindaco che vuole riformare le pensioni e accusa il sindacato di «conservatorismo», che dice? Di certo gli fischiano le orecchie. Di certo non si tira indietro e racconta qual è il Partito democratico che vorrebbe: «Se ci limitiamo a cercare di tenere tutti insieme con una classe dirigente sempre più autoreferenziale e stanca, abbiamo davanti non un viale, ma un vicolo del tramonto. È sbagliata l'idea che pur di non scontentare nessuno si tengano insieme le cose più assurde. La grande sfida che ha ora di fronte il Pd è capire se il discorso del Lingotto è il punto da cui ripartire».

il Giornale 27.10.11
Matteo Renzi ha già una pattuglia in parlamento In 10 del Pd firmano un appello pro rottamatori
di Orlando Sacchelli

qui
http://www.ilgiornale.it/interni/matteo_renzi_ha_gia_pattuglia_parlamentoin_10_pd_firmano_appello_pro_rottamatori/bersani-renzi-dalema-big_bang-rottamatori-pd/26-10-2011/articolo-id=553684-page=0-comments=1

il Riformista 27.10.11
Pd, la correntizzazione che diventa scissione
di Giorgio Merlo

qui
http://www.scribd.com/doc/70486402

Europa 27.10.11
L’unità impossibile
Un saggio di Polese Remaggi sulle origini del centrosinistra italiano
di Paolo Soddu

qui
http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/130344/lunita_impossibile

il Fatto 27.10.11
Diliberto: per 10 seggi voteremo sempre la fiducia
Il segretario del Pdci chiede l’apparentamento al centrosinistra
di Luca Telese


Chiedo a Oliviero Diliberto come si senta a essere il segretario dell’ultimo partito comunista, l’ultimo che porta nel suo simbolo quel che resta delle bandiere del Pci. La battuta sul vetero non me la passa. Sfodera il suo sorriso western (genere su cui ha esercitato la sua penna di saggista) e mi risponde con una battutaccia: “Veramente io sono il primo segretario bionico…”. È successo questo: dopo una brutta caduta, per salvare il ginocchio, Diliberto ha dovuto impiantarsi una protesi al titanio. Ma la battuta la fa perché, nel giorno in cui sbarca a Rimini per il congresso del suo Pdci (nato nel 1998, oggi federato con Rifondazione) scopre che i dati dell’organizzazione parlano di un partito tutt’altro che polveroso: “Dopo tre anni terribili, abbiamo quasi ventunomila iscritti che rinnovano la tessera del partito. Il 30% sono giovani sotto i trent’anni”. Così si comincia da come si fa politica in cattività dopo due mancati quorum elettorali.
È cambiato il vostro modo di fare politica, nel tempo della quaresima?
(Ride) Se è cambiato? Abbiamo campato un anno con 500 mila euro, un terzo di quello che il Pd spende per una campagna di affissione.
E questo congresso?
Lo facciamo a Rimini, fuori stagione per risparmiare. Ci costa ventimila euro. Tutti i delegati si pagano il viaggio da sé, compreso il sottoscritto.
Avete ancora dei funzionari?
Ne avevamo otto. Sono tutti in cassa integrazione.
Avevate un giornale di partito, Rinascita.
L’ho chiuso subito dopo le elezioni .
Chi sono questi giovani iscritti al Pdci?
Dei santi. Per diventare comunisti a vent’anni, oggi, bisogna essere degli incrollabili ottimisti.
Il segretario Diliberto, oggi, vive facendo il professore di Diritto romano a Cagliari.
Mi riempie di gioia. Ho continuato a farlo anche mentre ero deputato e ministro, per passione.
Quando Feltri le scrisse che prendeva due stipendi?
Già. Peccato che insegnassi gratis! Devo dargli atto, però, che con grande eleganza, mi chiese scusa con un editoriale in prima.
Il documento per Rimini è stato approvato con il 99%, le pare un buon segno?
Non faccia lo spiritoso: non è ‘il mio’ documento, infatti, ma quello di un gruppo dirigente.
Gli ultimi sondaggi cosa dicono?
Un dato stupefacente. La federazione è indicata al 2.7%.
Questo vuol dire che, se si vota con questa legge elettorale, potreste riportare una pattuglia di deputati in Parlamento…
Lei lo sa meglio di me. Se il centrosinistra concedesse il suo apparentamento, con questi numeri, tutta la federazione otterrebbe 21 seggi. Grazie al premio di maggioranza che viene diviso anche con il primo partito che non raggiunge il 4%.
Possono esserci altri accordi, ad esempio a essere ospitato nelle liste del Pd come i radicali per un diritto di tribuna?
Ecco, siccome il Corriere della Sera lo ha scritto colgo l’occasione per dire che su questo querelo. Non considererei dignitoso candidarmi sotto nessun simbolo che non sia il nostro.
Però lei sa che l’apparentamento a cui lei aspira pone un problema politico. Rifondazione e Pdci possono diventare determinanti per la fiducia, e si rischia un nuovo caso Turigliatto.
Ecco, su questo vorrei essere chiaro. Noi in questo congresso riaffermeremo l’obbligo morale di cacciare Berlusconi, battendolo alle elezioni.
Anche se questo significasse votare la fiducia al governo?
Vede, il 101% del nostro popolo è d’accordo su questo.
Non è così anche per tutti i vostri alleati di Rifondazione.
So che ci sono delle difficoltà in più, nel partito di Ferrero, ma non vedo alternative. Chi si candida deve impegnarsi a sostenere tre punti di programma e a sostenere il governo per cinque anni senza se e senza ma.
Mettiamo che si arrivi a quei 21 eletti. Il 40% sarebbero vostri, il 60% del resto della federazione, e tutti dovrebbero votare sì a un eventuale governo?
Non vedo proprio come potrebbe essere altrimenti. Abbiamo fatto tesoro del passato.
Ha letto che secondo Bertinotti, la sinistra non deve far parte di nessuna alleanza di governo?
Con tutto il rispetto per Bertinotti, diciamolo oxfordianamente, mi sembra una cazzata sesquipedale.
Il partito comunista che state costruendo non è antagonista, come dicono quelli di Rifondazione?
I partiti comunisti che conosco io operano nella realtà. Quindi, se ci si allea con il centrosinistra, si vota la fiducia. Punto.
Lo dirà così chiaramente?
Al congresso lancerò una proposta molto chiara: si lavora per un solo partito comunista , perché averne due è una follia, si lavora per una sinistra unita, perché con Vendola sono tante le cose che ci uniscono, si lavora per una coalizione di centrosinistra, perché questo è l’unico modo per battere Berlusconi. Le pare chiaro?
Come, come? Se ci fossero le primarie lei voterebbe per Vendola? Ma se è la bestia nera di Ferrero!
Io personalmente, fra lui e Bersani non avrei dubbi. La Federazione non lo so, non ne abbiamo parlato. Ma penso che l’obiettivo dovrebbe essere federarci con Sel per costruire una sinistra a due cifre.
Mi dice tre cose per cui un elettore di sinistra dovrebbe votare voi e non il Pd?
Perché stiamo con gli operai, e non con Marchionne. Perché difendiamo la scuola pubblica, e non quella privata come gli ex del Ppi. Perché siamo contro la guerra. Le pare poco?

Repubblica 27.10.11
I cinesi pronti a intervenire per aumentare le risorse nel caso di una crisi italiana
Si studia un organismo aperto ai contributi del G20
Il direttore del Fondo salva-Stati a Pechino e poi a Tokyo per sondare la loro disponibilità

di A. Bon.

BRUXELLES - Alla fine sarà la Cina a salvare l´Europa (e l´Italia)? Di fronte alla prospettiva di dover intervenire a difesa dei 1900 miliardi di debito pubblico italiano, gli europei si rivolgono ai Paesi extra-Ue in cerca di aiuto.
Il direttore del Fondo, Klaus Regling, partirà venerdì per Pechino e subito dopo si recherà a Tokyo per sondare in quale misura e soprattutto a quali condizioni Cina e Giappone siano disposte a soccorrere l´euro. Il presidente francese Sarkozy ha già in programma una telefonata con il suo omologo cinese Hu Jintao.
Sondaggi sono in corso anche con gli altri Paesi del Brics (acronimo per Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), ma per ora senza grande successo.
L´idea a cui stanno lavorando i tecnici di Bruxelles è quella di creare, accanto all´EFSF, un secondo «veicolo finanziario» a cui il Fondo europeo contribuirebbe con i capitali ancora disponibili, ma che sarebbe aperto all´intervento anche dei fondi sovrani degli altri Paesi del G20.
Uno dei principali ostacoli da superare è però la collocazione del nuovo «superfondo». Per quanto disponibili a contribuire, i Paesi emergenti che hanno un forte surplus commerciale e quindi capitali da investire, non sembrano molto disponibili a fidarsi delle strutture messe in piedi dagli europei. La Russia, per esempio, ha già fatto sapere che potrebbe venire in aiuto dell´euro, ma solo nel quadro del Fondo monetario internazionale. Posizioni analoghe sono state espresse dal Brasile. Il FMI, però, per statuto può intervenire solo in auto di uno stato sovrano, e non potrebbe quindi gestire le operazioni di sostegno che l´EFSF si propone di fare.
Da Washington, dove ha sede il Fondo monetario internazionale presieduto dalla francese Christine Lagarde, è venuto un segnale di disponibilità a creare una «facility» ad hoc che gli europei potrebbero gestire con una certa autonomia insieme con gli altri co-finanziatori. Ma a Bruxelles sono in molti a storcere il naso di fronte all´idea di dover affidare la propria salvezza ad un organismo sul quale l´eurozona avrebbe solo un controllo marginale. Senza contare che l´insistenza dei Brics sulla necessità di passare attraverso l´FMI si spiega con il desiderio dei Paesi emergenti di ridimensionare il peso decisionale degli europei nella struttura e di aumentare il proprio. Ogni decisione in materia sarà comunque rinviata al vertice del G20 in programma il 3 e 4 novembre a Cannes.
La Cina comunque non ha atteso l´appello degli europei per venire in aiuto dei paesi ue sotto attacco. Con riserve valutarie stimate a 3.200 miliardi di dollari, Pechino ha già acquistato titoli di debito dei Paesi europei per circa 500 miliardi, anche per diversificare rispetto alla sua mastodontica esposizione in dollari. Il Giappone, invece, fino ad ora si è mostrato più prudente. Tokyo ha però acquistato un quinto delle emissioni di titoli fatta finora dall´EFSF. E potrebbe continuare a sottoscrivere i bond del fondo europeo.

Repubblica 27.10.11
L’ultima rivoluzione
L’invasione culturale cinese
Pechino sta trasformando libri, giornali, cinema e tv in un nuovo business. Per esportarli in Occidente. E in Italia ora arriva la prima fiction
di Giampaolo Visetti


Mao Zedong usò la cultura per difendere il suo potere interno Quarantacinque anni dopo Hu Jintao sceglie la stessa arma per affermare la supremazia di Pechino a livello globale. Libri e giornali, cinema e tivù, turismo e moda, lingua e istruzione: gli strumenti della propaganda dovranno ora divulgare i valori della "nuova nazione" nel resto del pianeta
La parola d´ordine è "cinesizzare" l´Occidente per garantire al Paese il governo del secolo e vincere la sfida con gli Usa
Film "rispettosi dell´antica civiltà" dovranno oscurare i kolossal stranieri, mentre il taoismo dovrà arginare l´ascesa dell´Islam

Quarantacinque anni dopo l´inizio della Rivoluzione culturale in Cina, Pechino si lancia nell´invasione culturale del mondo. Mao Zedong usò la cultura per difendere il suo potere interno. Hu Jintao sceglie ora la stessa arma per affermare la supremazia della nazione a livello globale. Questa seconda Rivoluzione culturale è anche una contro-rivoluzione. Sancisce la fine del lento addio della Cina al maoismo originario, per imporre all´estero il successo del nuovo modello-Cina. Il soft-power è la condizione per salvare la stabilità dell´autoritarismo di mercato, fondato sull´egemonia del partito comunista. Il mondo, per la prima volta, sta cambiando la Cina: prima che questo avvenga, la Cina deve dunque cambiare il mondo.
È una svolta epocale: cinesizzare l´Occidente prima che questo occidentalizzi la Cina, così da garantire a Pechino il governo del secolo e vincere la sfida con gli Usa per il controllo del pianeta.
È sorprendente che una dichiarazione d´intenti tanto ambiziosa, appena varata dal summit del partito, al di là della Grande Muraglia sia passata pressoché inosservata. L´offensiva culturale però in Cina è già partita e, blindato il sistema, deve ora mutare le critiche straniere in unanime consenso. Il plenum del comitato centrale, l´ultimo prima del cambio di leadership nel 2012, ha coniato due slogan: "Sicurezza culturale nello Stato" e "Influenza culturale nel mondo". Sul piano pratico significa che Pechino tradurrà in business anche la cultura, ricostruendola sotto forma di industria. Nel 2010 ha fruttato 173 miliardi di dollari, il 2,6% del Pil. Entro il 2016 dovrà generarne il doppio. Ben più profonde le conseguenze sociali.
Il monopolio pubblico sulla cultura era il baluardo estremo del comunismo cinese. Aprire ai capitali privati il mercato delle idee di Stato è un esperimento senza precedenti nella storia dei regimi. Libri e giornali, cinema e tivù, convegni e grandi eventi, turismo e stile, lingua e religione, istruzione e ricerca avanzata, perfino Internet: riproporre come affari economici i capisaldi della censura e della propaganda politica, è «l´unica via» indicata ai prossimi leader cinesi per «salvaguardare l´unità e la creatività della patria, espandendo il peso della civiltà nazionale». Nessun altro Paese può oggi permettersi di eleggere la propaganda culturale a valore «di mercato». Il fatto che la seconda potenza economica del pianeta lo faccia, rappresenta una sfida affascinante, ma tradisce la consapevolezza di un pericolo incombente.
Per trent´anni la Cina si è concentrata su ricostruzione, arricchimento e urbanizzazione. Ora che è la nazione con più miliardari e più consumatori, tutti concentrali nelle metropoli, scopre che nessuno sa più cosa significa «essere una civiltà di 5 mila anni». L´Accademia delle scienze la definisce «nuova Cina a-cinese» e lancia l´allarme: «Prodotti e viaggi, soldi e consumi, impongono ai cinesi stili e vizi dell´Occidente». I giovani onorano Steve Jobs e ignorano Mao Zedong, adorano i Coldplay e dimenticano Confucio, mitizzano Coca Cola, McDonald´s e Walt Disney, ma non sanno citare un solo marchio "made in China". «Sicurezza culturale» significa dunque «difesa nazionale», la censura diventa istruzione e per la propaganda patriottica, trasformata in dottrina universale, la missione non si esaurisce nella crescita del fatturato pubblicitario.
Dopo i crolli d´immagine del 1989 con il massacro di piazza Tiananmen, e del 2010 con il Nobel a Liu Xiaobo, la nuova Rivoluzione culturale ai tempi della Rete giunge infatti al cuore di ciò che resta del dissenso: la critica al potere viene presentata come anti-cultura, l´aspirazione alla libertà di espressione come anti-economica ed entrambe risultano infine contrarie alla «morale della Cina». Pechino è così oggi l´unica capitale che, invece di importare i costi del pluralismo, è pronta per esportare la convenienza dell´autoritarismo. Il plenum di ottobre doveva presentarlo quale «nuovo modello di civiltà cinese contemporanea». Ha adottato come simbolo Chongqing, la megalopoli del futuro dell´astro nascente Bo Xilai. Un mix di Yan´an e Wall Street, di Mao Zedong e Rupert Murdoch, di Shenzhen e Londra, di Kim Jong-il e Angela Merkel, dove i miliardari devono cantare inni proletari, il pensiero individuale è un crimine collettivo, la disciplina si confonde con l´organizzazione e ognuno ha l´obbligo di onorare due divinità: il partito e il denaro. L´internazionale del patriottismo consumista, icona dei funzionari politicamente bruciati dagli imprenditori. Il partito è stato esplicito: «Nel Novecento il mondo ha pensato americano, nel nuovo secolo penserà cinese». Come? Convincendo l´umanità che «la Cina è un successo» e che «gli Usa sono un fallimento», che «la nuova cultura delle potenze in crescita» rende più della «vecchia civiltà europea delle nazioni in recessione».
È il primo scontro delle e-propagande. Investimenti colossali, messaggi opposti, ma stesse armi: informazione, cinema, prodotti, stile di vita, consumi, lingua, fede, scienza, tempo libero e cucina. Ma soprattutto: controllo totale del web. Istituti Confucio e news di Stato in inglese diffonderanno il mandarino e la «visione cinese della realtà» in ogni angolo del pianeta. Un «cinema rispettoso dell´antica cultura» e una tivù intesa come «educazione morale del popolo» devono invece passare da 100 a 800 film all´anno, per oscurare i kolossal di India e Usa. Il 16 novembre esordirà in Italia la prima serie tivù girata in Cina. Il destino del maestro di spada, saga sospesa tra fantascienza, confucianesimo e di kung fu, sarà trasmessa da Sky in prima serata e per 33 puntate. È il primo test globale di «esportazione della mitologia cinese via etere e a pagamento» e dall´1 gennaio sarà seguito dallo sconvolgimento anche dei palinsesti cinesi. Ieri il governo ha annunciato lo stop a varietà, reality, fiction sexy o violente. Per «ricostruire moralità, armonia, salute e cultura» le 34 emittenti più diffuse dovranno concentrarsi su informazione, storia, geografia, arte e astronomia, preventivamente vagliate dai funzionari del partito. Stampa, cinema, tivù, Internet e università inseriranno così «i valori della nuova Cina nella vita di ogni essere umano» e questa volta Pechino punta anche allo spirito. Domenica ai piedi del monte sacro Hengshan si è tenuto l´inedito Forum Internazionale sul taoismo. Oltre 500 rappresentanti di venti paesi hanno concordato che la filosofia precristiana di Lao Zi è «la base per rendere la cultura cinese la più importante del mondo». Imbarazzata da Buddha e da Confucio, la Cina riscopre il taoismo quale credo nazionale e universale del futuro. «Assistiamo alla crisi dell´Occidente e all´indebolimento popolare del cristianesimo - ha detto il vicepremier Hui Liangyu - riteniamo che l´espansione del mondo arabo e dell´Islam vada equilibrata».
Una Cina autoritaria e taoista come alternativa alla crisi dell´Occidente democratico e cristiano, ma pure argine contro il vento di libertà e pluralismo che soffia da un Medio Oriente teocratico e islamico: la missione della «sicurezza culturale» di Pechino nasce dentro tale vuoto, da colmare prima che «l´assenza di vantaggi del progresso - ha scritto il Quotidiano del Popolo - trasferisca i suoi costi da Francoforte a Shanghai, liberando il mercato agli slogan di Tripoli e Damasco». Salvare il mito di se stessa e garantire il potere ai successori dei suoi leader al passo d´addio, per «convertire a un comunismo nuovo la civiltà post-capitalista di un mondo orfano di Gerusalemme, Parigi e Washington»: a 35 anni del suo primo naufragio interno, l´ultima Rivoluzione Culturale della Cina va alla conquista del pianeta e per la prima volta, oltre a trasformare 1,4 miliardi di persone, ambisce a cambiare l´intera umanità. Culturalmente parlando, potrebbe non essere solo l´ennesima brutta notizia quotidiana.

Corriere della Sera 27.10.11
Ellen Sirleaf: «Il futuro è delle donne E noi cambieremo il volto dell'Africa»
Il premio Nobel per la pace: portiamo una quota extra di sensibilità
di Alessandra Muglia


«Donne, siete pronte per la storia?» aveva arringato appena eletta a capo della Liberia nel 2005. «Il futuro è nostro perché ce ne siamo fatte carico» è uno dei suoi motti. A sei anni di distanza, la neo Nobel per la pace Ellen Johnson Sirleaf, ex dirigente della Banca Mondiale e già presidente della sezione africana del programma di sviluppo dell'Onu, mostra tutta la determinazione a prendersi quello che ancora le manca: la riconferma per un secondo mandato, al ballottaggio dell'8 novembre. Per spuntarla, la leader africana apprezzata a livello internazionale per aver saputo mantenere stabilità in uno Stato annientato da 14 anni di guerra civile, riducendone il colossale debito nazionale, non ha disdegnato l'appoggio dell'ex «signore della guerra» Prince Johnson, arrivato terzo al primo turno.
Settantatré anni domenica prossima ed energia da vendere, Ellen Johnson (Sirleaf è l'ex marito, padre dei suoi quattro figli) è indaffaratissima. Chi sperava di poterla incontrare domenica scorsa a Rimini alle giornate internazionali del Centro Pio Manzù — che l'aveva premiata nel 2006 con la medaglia d'oro del presidente della Repubblica — è rimasto deluso: Ellen ha spedito un videomessaggio, presa com'è da una campagna elettorale in salita.
«La mia presidenza è stata un grande successo — dice al Corriere dal suo ufficio a Monrovia —. Per il fatto di essere donna ho portato una quota di sensibilità in più. Grazie al mio istinto materno, siamo stati in grado di rispondere a donne e giovani. Non a caso mi chiamano "Mama Ellen". Nel mio Paese mi considerano la madre della nazione».
C'è chi le rimprovera di non aver fatto abbastanza contro la povertà e una disoccupazione al 90%.
«Quando mi sono insediata ho trovato un Paese ridotto in macerie, c'è voluto tempo per mobilitare risorse. Ora il mio primo pensiero è combattere la disoccupazione, puntando su istruzione e formazione, soprattutto per le donne. Il futuro dell'Africa come motore della crescita economica globale è legato a filo doppio alla condizione femminile».
Come stanno le africane oggi rispetto a 5-10 anni fa?
«Decisamente meglio. Persino nelle campagne le donne iniziano a partecipare alle decisioni che riguardano la loro vita. Le figlie di famiglie povere, a cui un tempo era negato l'accesso all'istruzione, oggi vanno a scuola. Nelle classi ci sono quasi lo stesso numero di bambini e bambine. Non sono più una rarità in Africa le donne che raggiungono i più alti livelli di istruzione e che occupano posizioni da leader. Come primo presidente donna democraticamente eletto in un Paese africano io sono un esempio di questo percorso evolutivo. Ma dobbiamo ampliare la rappresentanza femminile: soltanto il 15% del nostro Parlamento è composto da donne».
Cosa prevede per i prossimi 10 anni?
«Mi creda, le donne cambieranno radicalmente il volto dell'Africa nel prossimo decennio».
Via i dittatori post coloniali, avanti le signore presidente. Però per ora lei è l'unica.
«Ce ne saranno almeno altre due o tre».
Sta pensando a Edith Nawakwi in Zambia o Ngozi Okono-Iweala in Nigeria, premiata l'altro giorno dal Centro Pio Manzù?
«Preferisco non fare nomi. Per scaramanzia. Comunque la bassa rappresentanza delle donne in politica non è una prerogativa africana. A livello globale la percentuale di donne nei parlamenti arriva al 18-19%. Pochi Paesi hanno raggiunto la massa critica del 30%, per lo più grazie alle quote rosa. Ma non c'è solo la politica: l'Africa prospererà anche grazie alle donne professioniste nella società civile».
Cosa può rallentare questa «avanzata»?
«Un ostacolo è quello del passaggio alla scuola superiore: ancora troppe donne si fermano prima per via dei matrimoni precoci e delle gravidanze sotto i vent'anni».
Ci sono diversi modi e stili di essere leader anche per una donna. Lei quali preferisce? Con quali leader ha rapporti privilegiati?
«Mi piace molto Angela Merkel. Ho visitato il suo Paese e lei il mio. Ci siamo incontrate più volte. È una leader molto forte, esemplare. Apprezzo anche Hillary Clinton. Ognuna di loro è innanzitutto un leader a cui è capitato di essere donna. Anche noi abbiamo personalità e approcci differenti, come succede tra gli uomini. A parte una cosa: la maggioranza delle leader, forse non tutte, tende a portare una quota extra di sensibilità nel proprio lavoro per il fatto di essere madre. Questa è l'unica differenza».
Considera il suo premio Nobel un riconoscimento per tutte le africane: possono diventare un modello per le occidentali?
«Le donne africane e dei Paesi in via di sviluppo hanno un fardello maggiore sulle spalle: scarsa istruzione, forti disuguaglianze, violenze sessuali. Tuttavia queste donne, anche in circostanze dure, tengono ferme le loro posizioni, combattono e mobilitano persone. Credo che il premio Nobel a me e alla mia compatriota sia un esempio del riconoscimento che anche in situazioni difficili possiamo arrivare a un livello di leadership esemplare. Lo stesso accade in America Latina e Asia: non a caso il Nobel è andato anche a una yemenita».
L'emancipazione delle donne non è una forma di rivalsa sugli uomini ma di co-operazione. Le donne in Africa e nel mondo sono pronte per questo?
«Le donne sono molto pronte e ora pure gli uomini lo sono. Le giovani del 21° secolo, da qualsiasi posto provengano, vogliono la stessa cosa: contribuire alla società in modo stimolante, sentirsi realizzate, apprezzate. Si ritrovano così a lavorare insieme agli uomini in diversi ambiti. E gli uomini si stanno abituando a considerarle partner e stanno capendo che non possiamo vincere le sfide globali senza coinvolgerle».
Considera l'avanzata economica della Cina in Africa una forma di «neo-colonialismo»? È preoccupata?
«Per nulla. Abbiamo maturato la capacità di negoziare con qualsiasi Paese, compresa la Cina. E sicuramente sapremo proteggere i nostri interessi».

Europa 27.10.11
Gerusalemme Est - Scompare l'Anp dai nuovi sussidiari per le scuole arabe
Israele cancella la Palestina. Dai libri
di Lorenzo Kamel

qui
http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/130351/israele_cancella_la_palestina_dai_libri

Repubblica 27.10.11
Cliché. Les Italiens
Così il nostro Paese è diventato un’anomalia in Europa
di Carlo Galli


Le recenti ironie di Merkel e Sarkozy sul presidente del Consiglio fanno tornare di attualità critiche e giudizi severi sull´immagine all´estero del Belpaese
Berlusconi è messo sotto esame come uno scolaretto, gli si danno ultimatum dopo troppi annunci a effetto e mistificazioni verbali
A partire dal 1500 un cliché ci dipinge come infami traditori perfidi congiurati alleati infidi e combattenti vili

Ci siamo fatti una gran brutta fama, in Europa e nel mondo. A partire dal 1500 è nato un cliché che ci ha dipinti come infami traditori, come perfidi congiurati, come vili sul campo di battaglia, come alleati pronti alla defezione, come saltimbanchi privi di dignità (e, più di recente, come mafiosi); nella migliore delle ipotesi, come talentuosi e inaffidabili avventurieri. Questa noméa anti-italiana è dovuta a un anti-machiavellismo di maniera, a pregiudizi protestanti e "nordici", e anche a effettive debolezze dei nostri costumi e delle nostre politiche – l´Italia è passata tardi e male dalle corti allo Stato, dall´intrigo alla legge, dall´arrangiarsi alla laboriosità, dalla sudditanza alla cittadinanza –; sull´italiano è stata costruita una maschera – quella di Arlecchino, diabolico ma gaglioffo e sempre bastonato, e quella di Pulcinella, eversivamente plebeo e scioperato – che ci ha accompagnato fino a tempi molto recenti; solo l´Italia democratica, saldamente ancorata alla Nato, all´Europa, al progresso economico e scientifico, se ne era liberata (e forse non del tutto).
Oggi un sorriso di scherno riappare, e unisce Francia e Germania in una valutazione del premier italiano, Silvio Berlusconi. È un sorriso umiliante che sancisce un´inferiorità determinatasi non in antichi campi di battaglia ma nel loro equivalente contemporaneo: cioè nel saper gestire, con responsabilità e decisione, le drammatiche vicende economiche e finanziarie che rischiano di travolgere la moneta europea – e con questa la già precaria esistenza della Ue –. È davanti a questa guerra che l´Italia di Berlusconi si comporta in modo risibile. Perché il suo governo – dopo non avere capito l´esistenza della crisi, e averla poi minimizzata – oggi non riesce ad agire, né a ispirare fiducia. Troppe sono le promesse non mantenute, gli annunci a effetto, le mistificazioni verbali, le giustificazioni spudorate, le lagnose proteste, le astuzie meschine, le esitazioni, le incertezze, le mostruose gaffe – che un tempo avrebbero provocato la rottura delle relazioni diplomatiche – in cui si è esibito Berlusconi, perché tutto ciò non avesse riflessi sulla considerazione in cui è tenuta l´Italia. Lasciata ostentatamente in disparte dai vertici informali che contano davvero, ignorata dagli Usa, tagliata fuori dai bottini di guerra, l´Italia fa ridere perché il suo premier non è all´altezza della sua posizione – e infatti la occupa, in un´interminabile agonia del suo regime, solo perché teme per il proprio futuro personale.
D´accordo. Sarkozy è irritato perché Bini Smaghi non lascia la Bce, come promesso, e anche la Cancelliera Merkel ha buoni motivi per non amare Berlusconi. Ma non v´è dubbio che quel sorriso è anche un giudizio politico complessivo: non solo Berlusconi è messo sotto esame come uno scolaretto, non solo gli si danno ultimatum, ma ci si consente anche di ridere apertamente di lui. Grazie al quale l´Italia torna a essere il Paese dei perfidi ingannatori e degli inaffidabili furbastri, qual era stato dipinto dalla tradizione di pregiudizi e stereotipi che ora riaffiora, e non certo per un immotivato rigurgito di razzismo anti-italiano quanto piuttosto perché all´anti-italianità, che cova sotto la cenere, si offrono fin troppi motivi di manifestarsi.
Non c´è alcun compiacimento nel rilevare ciò. Anzi, la derisione internazionale è un fattore di vergogna civile che si aggiunge agli altri che già amareggiano e avvelenano la vita politica del nostro Paese. Ma si deve anche respingere la scandalosa utilizzazione che la destra sta già facendo del sorriso franco-tedesco: un´utilizzazione strumentale, rivolta a sollecitare il vittimismo nazionalistico che batte nel cuore degli italiani, i quali dovrebbero indignarsi, secondo i berlusconiani, non per i mali dell´Italia – per la sua corruzione, per i miserabili investimenti nella ricerca, per il tasso di disoccupazione giovanile e femminile a livelli stellari – ma perché due leader europei (certo, pieni di problemi anche loro) si mettono a ridere quando si chiede loro se si fidano di Berlusconi. Ed è da respingere anche la tesi, avanzata dal premier, che l´opposizione sarebbe anti-italiana e che, controllando i media, diffonderebbe all´estero un´immagine falsa e catastrofistica del Paese. Come se la Cancelliera Merkel e il Presidente Sarkozy avessero bisogno della stampa italiana per formarsi un giudizio su Berlusconi e la sua politica.
Non si tratta di anti-italianità delle opposizioni e di patriottismo della maggioranza. Se si guarda non all´effetto (l´umiliazione) ma alla causa (la politica di Berlusconi) si capisce bene chi è che fa male all´Italia e chi invece cerca di mandare al mondo il messaggio che non tutti gli italiani sono arci-italiani stereotipi e macchiettistici; che – senza essere anti-italiani e senza giubilare per le sconfitte del nostro Paese – si può essere contro l´Italietta berlusconiana; e che anzi tanto più si è filo-italiani quanto più ci si adopera per dissociare democraticamente l´Italia da Berlusconi. È quindi ora di rimeditare quanto scrisse Gobetti nel 1925: «per essere europei dobbiamo sembrare nazionalisti»; il che significava – e significa – che per essere all´altezza della civiltà occidentale, e non delle sue periferie chiassose, dobbiamo amare l´Italia, veramente e non retoricamente, e, quindi, volerla diversa. Un´Italia, cioè, che, almeno, non assomigli alla sua maschera buffa e spregevole.

Corriere della Sera 27.10.11
Contro i (falsi) miti della psicologia
Cinquanta luoghi comuni sul nostro cervello smontati dalla scienza
di Cristina Taglietti


Rubriche di psicologia, manuali di auto-aiuto, strizzacervelli in tv. E poi un'invasione di notizie della serie strano ma vero, pillole di scienza, precetti di comportamenti. Mai come in questo periodo la psicologia è stata così popolare, anche se il cervello continua a essere un grande sconosciuto. Nel corso degli anni miti e leggende di (pseudo) psicologia si sono stratificati nelle nostre menti, spesso condensati in forma di proverbio popolare («Chi ben ama ben castiga», «Confidenza toglie riverenza», «L'unione fa la forza») a volte inducendoci in errore sulla natura umana, magari con il risultato di spingerci a prendere decisioni incaute. Così chi crede, per esempio, che le esperienze dolorose vengano abitualmente rimosse, può passare buona parte della sua vita a cercare nel passato il trauma che in realtà non ha mai subito o chi è convinto del fatto che «gli opposti si attraggano» potrebbe ritrovarsi a dedicare anni alla ricerca di un'anima gemella dalla personalità e dai valori radicalmente diversi dai propri.
Ora è un saggio documentato, scritto da quattro esperti, Scott O. Lilienfeld, Steven Jay Lynn, John Ruscio, Barry L. Beyerstein, I grandi miti della psicologia popolare. Contro i luoghi comuni che Raffaello Cortina ha mandato in libreria ieri, a fare finalmente chiarezza tra il vero e il falso in cinquanta miti che riguardano undici ambiti: la forza del cervello, lo sviluppo e l'invecchiamento, la memoria, l'intelligenza e l'apprendimento, la coscienza, le emozioni, il comportamento interpersonale, la personalità, la malattia mentale, il rapporto tra psicologia e legge, la terapia.
Una grande messe di conoscenze viene passata al setaccio fitto della scienza, senza pedanteria, in un volume rivolto anche ai non addetti ai lavori. Il vasto mondo della «psicomitologia» insegna, per esempio che: usiamo soltanto il dieci per cento delle nostre capacità cerebrali; la nostra memoria funziona come un registratore; l'ipnosi è utile per ricordare eventi dimenticati; i messaggi subliminali possono persuadere le persone ad acquistare determinati prodotti.
D'altro canto per gran parte dell'Ottocento furoreggiò la frenologia basata sulla convinzione che capacità specifiche come la capacità poetica, l'amore per i bambini, il riconoscimento dei colori, la religiosità fossero localizzate ciascuna in una particolare regione cerebrale e che si potessero individuare i tratti di personalità misurando la conformazione dei bernoccoli presenti sul cranio.
Gli studi successivi hanno dimostrato l'infondatezza di tale teoria, eppure altre ne sono arrivate, alimentate dal passaparola, dal bisogno di avere risposte semplici, dai pregiudizi e dalle aspettative che deformano la nostra percezione. Gran parte della psicologia quotidiana, ha spiegato lo psicologo Paul Meehl (1993), è composta da «induzioni da caminetto»: presupposizioni riguardo al comportamento basate esclusivamente sul nostro intuito. Che può essere utile per generare ipotesi da sottoporre a verifica, ma che spesso è carente come strumento per accertarne la correttezza. Se di alcune credenze è abbastanza facile capire l'infondatezza, altre sono avvolte da un involucro scientifico che pare più credibile. Come, per esempio, il fatto che l'adolescenza sia sempre un periodo difficile e burrascoso dal punto di vista psicologico, mito numero 7 sostenuto fin dall'inizio del Novecento da psicologi e terapeuti come G. Stanley Hall (1904) che prese a prestito il nome del movimento letterario tedesco «Sturm und Drang» o Anna Freud (1958) secondo cui «essere normali nel periodo adolescenziale è di per sé anormale». La teoria, secondo gli autori del libro, ha un nucleo di verità, ma una ricerca che ha esaminato tre ambiti dei comportamento dei teenager (la conflittualità con i genitori, l'instabilità dell'umore e i comportamenti a rischio), ha dimostrato con chiarezza che ciascuna di queste difficoltà è circoscritta soltanto a una piccola minoranza di adolescenti, il che rende l'angoscia esistenziale l'eccezione e non la regola. Così com'è falso che sia meglio manifestare la rabbia anziché tenerla dentro, teoria che ha influenzato anche molte psicoterapie dove i pazienti vengono incoraggiati a urlare, colpire cuscini o lanciare qualcosa contro il muro, mentre gli studi più avanzati indicano che l'ipotesi della catarsi è falsa e che, al contrario, lo sfogo infiamma ancora di più gli animi. E che dire dell'autostima? La sua mancanza sarebbe una delle cause principali di problemi psicologici anche gravi, che vanno dalla depressione alla violenza, dall'ansia all'alcolismo, fino ad essere invocata come causa della strage alla Columbine High School di Littleton, Colorado il 20 aprile 1999. Così come ha scarso fondamento un'idea usata spesso anche nelle aule dei tribunali secondo cui la maggior parte di coloro che hanno subito abusi sessuali nell'infanzia sviluppano gravi disturbi di personalità, fino a commettere a loro volta abusi (il cosiddetto «ciclo della violenza»).
Il libro smonta alcuni dei miti più radicati sui sogni: non è vero, per esempio che si sogna soltanto in bianco e nero, anzi la maggior parte delle persone riferisce sogni a colori. Così come è falso che sia pericoloso svegliare un sonnambulo, il massimo che può accadere è che al risveglio sia disorientato.

Repubblica 27.10.11
Quei bimbi stressati già a quattro anni ecco come liberarli dall´ansia di successo
L’allarme degli esperti: troppo competitivi, devono fare meno attività e giocare di più
Secondo uno studio tedesco circa la metà dei piccoli soffre per l´eccesso di pressioni
di Anais Ginori


PARIGI - Il mal di pancia prima di andare a scuola, lo scatto d´ira all´uscita dalla partita o ancora la febbre il giorno del compleanno. Il malessere segreto dei nostri figli si nasconde forse dietro a piccoli sintomi, a volte banali. «Abbiamo caricato i bambini di troppe aspettative. Sono condannati al successo», spiega il neuropsichiatra Boris Cyrulnik, lanciando un grido d´allarme nel suo nuovo saggio "La Vergogna", che ha già provocato un acceso dibattito in Francia e ora è pubblicato anche in Italia. Un traguardo dopo l´altro, senza potersi permettere di fallire. A scuola, nello sport, nelle discipline artistiche come nelle relazioni con gli amichetti, i piccoli sperimentano spesso la paura di non essere all´altezza. Secondo uno studio tedesco ripreso da Der Spiegel, la competizione tra bambini non è mai stata così forte: almeno il 50% di loro sperimenta lo stress tipico degli adulti, quell´ansia da prestazione che di solito esiste solo nel mondo del lavoro e può portare a fenomeni come il burn-out, l´annientamento emotivo.
«Nelle società occidentali, c´è una spasmodica ricerca del risultato, il culto della performance in ogni campo: intellettuale, fisico, sociale», continua Cyrulnik famoso per i suoi studi sulla resilienza dei bambini traumatizzati nelle guerre. «Una mente infantile - aggiunge - è molto più sensibile all´approvazione o alle critiche». I desideri dei genitori o di altri adulti vengono introiettati e, se non vengono realizzati, provocano un sentimento di vergogna. Insieme ad altri esperti, Cyrulnik si batte per l´abolizione dei voti e delle pagelle a scuola. «Si tratta di un´ossessione che tende a discriminare e penalizzare ancora di più alcuni alunni», ha scritto il neuropsichiatra nell´appello al governo insieme allo scrittore Daniel Pennac e al socialista Michel Rocard. «Il voto non riassume da solo il progresso didattico mentre indebolisce la fiducia in se stessi che è necessaria per il successo a scuola».
Altri specialisti francesi, come la psicologa Marie Bérubé, suggeriscono di alleggerire le giornate dei bambini. Troppe ore di lezioni in classe, troppe attività pomeridiane, tra sport, musica, teatro e altre discipline: il tempo libero quasi non esiste. «Invece di farli divertire o rilassare - racconta Bérubé - queste attività sono diventate ulteriori occasioni di stress».
L´idea di un´educazione meno competitiva è diametralmente opposta a quella lanciata qualche mese fa negli Stati Uniti da Amy Chua, la portavoce delle "mamme tigri" che propone di allenare i bambini come piccoli atleti, comunque vincenti e prestanti. «I genitori dovrebbero invece sviluppare l´empatia - ribatte Cyrulnik - . Accettare e rispettare i loro figli per come sono, senza cercare di trasformarli a immagine e somiglianza dei propri sogni». Il sentimento di vergogna, spiega lo psichiatra, comincia ad apparire intorno ai quattro anni, proprio insieme all´empatia, quando il bambino esce dal suo universo mentale per rappresentarsi dall´esterno, come lo vedono gli altri. Il rischio è più elevato tra i maschi, che sin da piccoli sono immersi in una cultura che li vuole forti e infallibili. «Ma non è solo una responsabilità dei genitori. Pesano anche i miti, la cultura e le aspettative sociali, che tra l´altro cambiano a seconda delle epoche», continua il neuropsichiatra con la speranza che, grazie all´attuale crisi, l´imperante "condanna al successo" passerà. Il suo consiglio è accompagnare il naturale sviluppo infantile, non cercare di dominarlo ad ogni costo. «La vergogna è normale e salutare per venti minuti - conclude Cyrulnik - molto meno se dura vent´anni».

Repubblica 27.10.11
Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet
"Gli effetti del carico di aspettative si pagheranno anche da adolescenti"


ROMA - Professor Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, è vero che i bambini sperimentano lo stress degli adulti?
«I bambini crescono in un mondo dove sono abituati a sentirsi unici, preziosi, necessari, dove sono valorizzati al massimo. Questa educazione consente di realizzare diversi apprendimenti e non tradisce la natura di un piccolo che ama stare con gli altri e primeggiare. I problemi nascono quando le proiezioni narcisistiche dei genitori sono troppe e s´incontrano con quelle dell´ambiente sociale, allora i bambini possono pagare un prezzo, essere stressati e soccombere se il successo atteso non si avvera».
Soccombere, in che modo?
«Sviluppare inibizioni, frustrazioni, sentimenti di vergogna, ritirarsi in se stessi. Con conseguenze nell´adolescenza: quando si può essere attratti dall´uso di droghe che potenziano le prestazioni o spinti verso l´anoressia perché non ci si sente adeguati rispetto ai modelli di bellezza. Fino a degenerazioni come la creazione di bande, del branco per affermarsi».
Cosa succede nella vita quotidiana?
«Vediamo bambini precocissimi con una pubertà psichica che precede quella fisica, se si entra in una elementare sembra di essere in una media: più che bambini ci sono maschi e femmine piccolissimi con i loro gruppi e riti. Il rischio è un´infanzia rubata». (m.c.)

Repubblica 27.10.11
"Noia, acciaio e cemento l´effetto babele ha vinto"
"L´urbanistica è diventata edilizia al servizio della finanza e della speculazione"
"L´idea della compresenza delle differenze è fondamentale: oggi è tutto uguale"
Lo studioso Rykwert analizza il nuovo volto delle metropoli dagli archistar ai grattacieli
di Marino Niola


Da qualche tempo le nostre città non hanno più cuore. È questo che le distingue dalle città del passato. A dirlo è Joseph Rykwert, il più importante studioso vivente della città. Professore di storia dell´architettura a Cambridge e attualmente emerito all´università della Pennsylvania. Autore di libri di culto come L´idea di città, La casa di Adamo in paradiso e il recentissimo La colonna danzante. Si dice che non ci sia dipartimento di architettura al mondo dove non lavori almeno uno dei suoi allievi. «La città non è mai solo un luogo fisico. È soprattutto una forma simbolica, che rispecchia la visione del mondo dei suoi abitanti. Era vero per le città antiche, è vero per le metropoli moderne. La differenza è che quelle contemporanee sono ormai l´immagine spaziale della speculazione immobiliare, la finanza tradotta in edilizia».
Se l´abitare materializza la visione del mondo di una società, allora gli edifici sparati verso il cielo dagli archistar traducono in spazio l´ideale economico della crescita infinita.
«È proprio così. Ovviamente questa tendenza è più spiccata dove la speculazione diventa un modo di vivere assoluto. Come in Arabia Saudita, dove si sta per costruire il grattacielo più alto del mondo. Si parla di un chilometro e mezzo. Attualmente l´edificio più alto è il Buri di Dubai, una torre di ottocento metri. Se si pensa che la Tour Eiffel è alta trecento metri si ha un´idea della dismisura del fenomeno».
Un effetto Babele. Un´ipertrofia dello sviluppo, economico e quindi architettonico.
«Questa mania di costruire nel deserto degli edifici altissimi, di vetro che consumano quantità enormi di energia e non rispondono alle esigenze abitative dei cittadini, ha qualcosa di assurdo e irrazionale, però è una realtà. Bisogna chiedersi come mai succedono queste cose, anche da un punto di vista antropologico».
E perché succedono queste cose?
«La ragione? Il petrolio. I produttori dell´oro nero investono i loro profitti colossali nella grande speculazione immobiliare. Così disseminano il pianeta di edifici di cristallo e di acciaio, con lo scheletro all´esterno del corpo, con i giunti a vista e pareti non ortogonali. Rendendo le città tutte uguali. Sempre più noiose. Al massimo si gioca un po´ con le forme, ma per me è un tentativo del tutto inutile. Il risultato non cambia. Questa architettura non solo non è a misura d´uomo, ma nega la misura dell´uomo».
Trent´anni fa usciva in Italia L´idea di città, dove lei parla della polis come forma simbolica. È possibile oggi fondare simbolicamente una città, come si faceva nel mondo antico?
«Insediarsi in un luogo è un processo abbastanza complesso e problematico. Lo provano i numerosi fallimenti. Nell´antichità si ricorreva all´oracolo di Delfi per farsi indicare il sito giusto. Invece per Brasilia, fondata ex novo il 21 aprile del 1960, è stato calcolato il centro geometrico del Brasile».
Dalla profezia alla geometria, dalla mantica all´informatica c´è una bella differenza. Ma la capitale brasiliana è la realizzazione di un sogno o di un incubo?
«Potrei rispondere parafrasando Chou Enlai, uno dei padri della rivoluzione cinese, al quale fu chiesto se la rivoluzione francese fosse stata un successo e lui rispose "è un po´ presto per dirlo". Forse è un po´ presto per dire se Brasilia è un esperimento urbano davvero riuscito».
Lei ha scritto che nel mondo antico c´è sempre bisogno di un rito per fondare la città, come fa Romolo quando traccia con l´aratro il confine di Roma. Ma anche per cancellarla non basta raderla al suolo. Occorre un vero e proprio rito di distruzione. Che riproduce al contrario il gesto del fondatore. Un po´ come mettere la storia in moviola. La rivolta giovanile che qualche settimana fa ha incendiato il centro di Londra, non assomiglia a un rito di distruzione?
«È una lettura possibile. Di fatto quelle violenze sono il sintomo di un senso crescente di inappartenenza, di spaesamento, di lacerazione del legame sociale. D´altra parte era stato il primo ministro Margaret Thatcher ad affermare che "la società non esiste, esistono solo gli individui". Un aforisma le cui conseguenze si sono viste in quei giorni».
Un tempo una città combatteva l´altra. Sparta e Atene. Roma e Cartagine. Le città di oggi sono in guerra con se stesse?
«Le antiche città erano fatte di differenze che coabitavano nel medesimo spazio. L´idea della compresenza delle differenze è un fondamento dell´urbanitas. La troviamo già in un mito antichissimo come quello di Ur, la megalopoli del duemila avanti Cristo».
Mentre nelle nostre città la convivenza si polverizza insieme al legame sociale.
«Nelle nostre città purtroppo la convivenza è decisamente in crisi. Al posto dei luoghi comuni ci sono tanti recinti. Quartieri dove si vive blindati. Gli stessi centri commerciali sono delle fortezze circondate da enormi parcheggi che fanno da fossato».
Si può dire che gli outlet e gli ipermercati sono le nuove agorà?
«Direi di sì, anche perché l´agorà stava sempre un po´ fuori dall´abitato. Agorein vuol dire andare in campo. Anche il forum dei romani, come dice la parola, era al margine della città eppure ne faceva parte, sul piano funzionale e simbolico».
Siamo a dieci anni dall´attentato alle Torri Gemelle. Ground Zero ha cambiato il nostro modo di pensare la città?
«La tragica distruzione del World Trade Center ha inflitto un grave colpo all´idea di città che ha dominato il ventesimo secolo. Le due torri non avevano aggiunto molto sul piano urbanistico, ma in compenso erano diventate il simbolo del potere finanziario mondiale».
Se Manhattan è l´acropoli del mercato globale, le Towers erano le colonne d´Ercole del sistema mondo.
«Sì. È per questo che sono state scelte come obiettivo. E il loro crollo in mondovisione ha mostrato la vulnerabilità del nostro modo di abitare. Per un po´ si sono costruiti meno grattacieli ma ben presto è ricominciata questa gara a chi costruisce più in alto. Irragionevole, visto che basta un black out per paralizzare una città fatta di torri di centinaia di piani e una crisi delle forniture alimentari per affamarla».
Non a caso la prima cosa che hanno fatto i newyorchesi alla notizia dell´uragano Irene è stato l´assalto ai supermercati.
«Pensi che l´undici settembre del 2001 ero a New York e dal mio appartamento al trentesimo piano di Bleecker Street, ho visto il primo aereo colpire la torre. Però dovevo scappare a Filadelfia per fare lezione. Ho lasciato mia moglie Anne a fotografare. Ho preso un taxi e l´autista mi ha detto che nel frattempo era stata colpita anche la seconda. Un´ora e mezzo dopo, arrivato a Filadelfia, sono andato a comprare l´acqua minerale, come faccio sempre. Ma il supermercato era stato letteralmente svuotato».
Dov´è allora il futuro della città?
«In quei movimenti che cercano di ristabilire un legame fra gli uomini, l´ambiente e l´agricoltura locale. Bisogna declinare al futuro quella dialettica tra città e natura tipica dell´antichità. Per ridare vita, misura e cuore alle nostre città».

Repubblica 27.10.11
Un saggio di Giovanni Ricci su cristiani e musulmani nel Rinascimento
Quelle alleanze segrete tra i papi e l’impero turco
di Marco Ansaldo


Tante sono state le volte che in Occidente si è pensato di rivolgersi ai sultani della Sublime porta per risolvere problemi politici o per interventi militari

Appellarsi ai turchi, o fare la guerra ai turchi? Ieri come oggi, quella carta pare sempre reversibile, concedendosi a una doppia lettura. In passato persino i pontefici si angustiarono su questo dubbio. Alessandro VI, Papa Borgia, che pure si era esposto nel chiamare il Turco, infine ne tremò al pensiero. I suoi avversari invece lo fecero con meno remore, come ricorda il letterato fiorentino Agostino Vespucci nel 1501 al suo amico Niccolò Machiavelli. E di fronte a un Papa che non cessava di rapinare col «suo gregge illecito», mentre ogni sera «venticinque femmine et più sono portate in palazzo», scrisse: «Pare necessario il Turco, poiché li Cristiani non si muovono ad estirpare questa carogna del consorzio umano».
Quante sono state le volte che in Occidente si è pensato di rivolgersi ai sultani della Sublime porta, per risolvere problemi politici o per interventi e alleanze militari? Tante, a metterle in fila tutte insieme. L´idea di riunirle è venuta a Giovanni Ricci, affermato storico dell´Università di Ferrara, che è uno specialista del ramo. Suoi sono altri volumi dedicati all´argomento, come Ossessione turca e I turchi alle porte. Ora questo suo nuovo Appello al Turco (Viella, pagg. 182, euro 20) svela come per molto tempo, nel periodo che va dalla conquista di Costantinopoli nel 1453 allabattaglia di Lepanto nel 1571,papi e sovrani fecero di nascosto «la cosa innominabile» che questo testo riproduce: si appellarono cioè ai turchi. Così facevan tutti, spiega Ricci in un capitolo. E se sarebbe un errore pensare che questo atteggiamento fosse la regola, la turcofilia serpeggiante per l´Italia era pure un fatto indubitabile: «Davvero, gli appelli ai turchi di cui ci stiamo occupando non possono essere derubricati come una somma di episodi minori o curiosi». Perché lo fecero Papa Pio II Piccolomini e Ludovico il Moro, Federico I d´Aragona e i Gonzaga, i Veneziani e i Genovesi. Con rigore documentale, e un linguaggio accattivante, Ricci ha selezionato un nutrito pacchetto di carte che è una miniera di informazioni: scambi di lettere e di emissari, trattative segrete e offerte di doni, azioni di spionaggio e di depistaggio. Una serie di trame che si sviluppano in Italia lungo tutto l´arco del Rinascimento. Si può così constatare come i Papi di quel periodo collaborarono con i turchi, alleandosi anche con loro a scapito dei prìncipi cristiani, quando lo richiedesse la ragion politica o i sacri poteri. Lo argomentava nel 1946 anche un libro pubblicato in Svizzera da Hans Pfeffermann, un testo tuttavia colpito da ostracismo, nota Ricci, rarissimo negli archivi italiani e non presente addirittura nella Biblioteca Vaticana.
La contesa a «condurre al Turco in Italia» fu difatti aspra e ricca di imprevisti. I genovesi in questo furono attivissimi. La famiglia dei Bucciardo si era ad esempio specializzata nelle faccende diplomatiche a cavallo del Bosforo, conosceva la lingua e vantava legami con la corte di Costantinopoli. Al punto da confermare il luogo comune secondo cui i genovesi erano sempre conniventi con i turchi. Altri non erano da meno, negli appelli. Ludovico il Moro confessò, parlando con un diplomatico veneziano, al momento di giocare l´arma della disperazione, cioè l´accordo col Turco: «Se io fusse a la conditione del re Alfonso [II d´Aragona], non solamente chiamarei i turchi, ma anche il diavolo». Papa Borgia, ancora lui, si spinse addirittura a un clamoroso invito, con un´immagine che avrà fortuna: «Quando il tuo cavallo pascolerà sull´altare di Pietro e con voce umana dirà: "Accomodatevi"?».
Appelli al Turco, e proclami di crociata. I due atteggiamenti opposti si sfiorano. Nell´epoca in cui la richiesta di aiuto fiorisce, l´idea di evangelizzare con le armi in pugno comincia ad appassire. Tra le paure di impalamenti durante la guerra d´Otranto spuntano però le fantasie sessuali prodotte dai turchi e sviluppate da Machiavelli nella Mandragola. A Venezia e a Bergamo popolani e valligiani, in contrasto con le autorità, percorrevano le strade al grido di «Marco! Marco! Turco! Turco!». Il Turco era diventato una garanzia di protezione per la Repubblica di San Marco che i cristiani volevano schiacciare.
Una lettura istruttiva, che va letta anche in controluce, con la situazione odierna di un´Europa in crisi, e un Paese rampante che ormai sta guardando altrove. Riflettendo che già a quell´epoca tutti, trovandosi in difficoltà, finivano per costringersi a invocare i turchi.

l’Unità 27.10.11
Leonardo e Michelangelo amici nemici
Musei Capitolini Una mostra allestita nelle sale di Palazzo Caffarelli mette a confronto i due geni del Rinascimento, lontani e diversi fra loro per tante ragioni, ma con una grande passione in comune: il disegno
di Flavia Matitti


Non si può certo dire che Leonardo e Michelangelo fossero amici, anzi i biografi cinquecenteschi parlano apertamente di una «grande inimicizia tra i due». Troppe cose li separavano. Tanto per cominciare l’età, c’erano infatti circa venti anni di differenza tra loro, in pratica una generazione. Erano poi diversi per temperamento e avevano una diversa concezione dell’arte. Leonardo sosteneva il primato della pittura, Michelangelo della scultura. Ma soprattutto vi era una differenza di fondo tra l’intellettualità di Leonardo, esponente geniale della cultura umanistica quattrocentesca, profondamente affascinato dal mondo naturale, e la spiritualità tormentata di Michelangelo, convinto che l’arte sia espressione di una forza creatrice individuale, ispirata direttamente da Dio.
Agli inizi del Cinquecento, poi, i due artisti si erano perfino scontrati pubblicamente a Firenze tanto che il gonfaloniere della repubblica, Pier Soderini, ebbe l’idea di sfruttare questa rivalità commissionando a Leonardo l’affresco con la Battaglia di Anghiari e a Michelangelo quello con la Battaglia di Cascina per la Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Vecchio. Per varie ragioni i due maestri non portarono a termine il lavoro ma quello scontro fra titani ha lasciato una serie di cartoni e disegni preparatori sui quali si formeranno generazioni di artisti.
PERCORSI ESPOSITIVI
Ora questi due geni del Rinascimento vengono nuovamente accostati in una mostra raffinata, e anche coraggiosa, dal titolo Leonardo e Michelangelo. Capolavori della grafica e studi romani (fino al 12 febbraio), allestita a Roma nelle sale al terzo piano di Palazzo Caffarelli ai Musei Capitolini. L’esposizione, curata da Piero Marani e Pina Ragionieri, riunisce sessantasei disegni dei due maestri. I disegni di Leonardo provengono dalla collezione della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, che possiede in tutto 1119 fogli dell’artista, un numero straordinario se si pensa che la seconda collezione per importanza di disegni del maestro è quella della Regina d’Inghilterra, che ne possiede duecento. I disegni di Michelangelo provengono invece dalla Fondazione Casa Buonarroti di Firenze, che conserva oltre duemila autografi dell’artista, tra disegni (circa duecento) e carte d’archivio.
Il percorso espositivo si divide in due grandi sezioni, una dedicata ai capolavori dei due maestri, l’altra è un omaggio a Roma, città nella quale entrambi gli artisti hanno soggiornato. Tra i capolavori di Leonardo sono esposti alcuni dei disegni più famosi del Codice Atlantico, come gli studi per ruote idrauliche, per catapulta, per bombarde che scagliano palle esplosive. I suoi disegni, pensati anche per essere realizzati dagli artigiani, appaiono meticolosi e ricchi di annotazioni. A volte però ricorre a una scrittura criptica. Lo fa soprattutto quando tratta segreti militari ma anche quando si autocensura, per esempio nel disegno per ali meccaniche si ripromette di sezionare un volatile, ma siccome Leonardo non uccideva gli animali ed era vegetariano, sembra a disagio e allora scrive «disfa un elitalou», ossia «volatile» scritto in modo speculare da destra a sinistra.
Di Michelangelo sono esposti disegni magnifici come il possente Nudo di schiena, probabile studio per la Battaglia di Cascina o la Cleopatra, un’opera finita realizzata non per studio ma per farne dono a un amico, o ancora il disegno per il Giudizio finale.
La mostra offre dunque al visitatore la rara opportunità di confrontare la maniera di disegnare dei due artisti e di osservare differenze, ed eventuali affinità, nel modo di affrontare certi temi, come il rapporto con l’antico, la figura umana, l’architettura. Per quanto considerati «rivali» infatti Leonardo e Michelangelo avevano sicuramente almeno un elemento in comune, riconducibile alla loro formazione fiorentina, l’amore per il disegno.

Repubblica 27.10.11
Leonardo e Michelangelo
Il confronto tra i due geni del rinascimento incomparabili rivali
di Cesare De Seta


L´artista di Vinci mostra versatilità inventiva, l´altro ansia di ritrarre corpi in movimento
Li separava circa un quarto di secolo e il dato anagrafico è davvero molto significativo
Da oggi ai Musei Capitolini di Roma oltre 60 fogli con studi e progetti dei grandi maestri
Secondo la leggenda si incontrarono sul Ponte Vecchio: il giovane prese in giro il collega più anziano

ROMA
Leonardo da Vinci nacque nel 1452, Michelangelo Buonarroti nel 1475: i paesi nativi erano a poche decine di chilometri l´uno dall´altro. Li separava circa un quarto di secolo e il dato anagrafico è molto significativo. Perché il primo rimase intimamente legato alla cultura quattrocentesca fino alla fine dei suoi giorni; il secondo ne assorbì il senso, ne travalicò i confini, visse il travaglio spirituale di Roma, con tutto quanto essa significa, dove trascorse una larga parte della sua vita. Michelangelo si spense nel 1564 alla soglia dei novant´anni e negli ultimi vent´anni s´era dedicato quasi esclusivamente all´architettura; Leonardo era stato al servizio dei duchi di Milano per quasi vent´anni, poi a Mantova e Venezia, in Umbria e Romagna e rientrò a Firenze nel 1503 quando ebbe l´incarico di dipingere la Battaglia di Anghiari nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio: fu messo a diretto confronto con il giovane Buonarroti che l´anno successivo ebbe l´incarico per la Battaglia di Cascina. Fu l´unico momento, altamente simbolico, in cui i due si trovarono gomito a gomito. Di entrambe queste opere non restano che memorabili disegni di studio a cui è stata dedicata una recente mostra a Casa Buonarroti. È leggenda che s´incontrarono sul Ponte Vecchio e il giovane si mostrò beffardo verso il più anziano maestro, Leonardo rispose a suo modo: piegò con due dita una moneta.
Il maestro di Vinci una prima volta si recò a Roma nel 1501 e vi ritornò, accolto in Vaticano da papa Leone X e da Giuliano de´ Medici, tra il 1513 al 1516: per studiare l´Antico, per affinare i suoi studi di ottica e geometria. Fu artifex errabundum, fino a quando fu invitato in Francia nel da Francesco I che lo colmò di onori e morì a Blois nel 1519. Vite diverse, personalità incompatibili e difficilmente comparabili, ma mettere a confronto i disegni serve a capire quale dialogo si possa istituire tra loro che furono allo stesso tempo pittori, scultori e architetti sommi.
La mostra Leonardo e Michelangelo. Capolavori della grafica e studi romani, a cura di Pietro C. Marani e Pina Ragionieri, ai Musei Capitolini, ha queste intenzioni e ci propone una selezione di oltre sessanta fogli di straordinaria fattura alcuni dei quali hanno come focus Roma, altri l´architettura, le macchine di guerra e la figura. I fogli provengono dalla Biblioteca Ambrosiana e da Casa Buonarroti. La mostra è articolata in diverse sezioni e a Leonardo spetta di diritto il passo: lo studio per ruote d´acqua, catapulta, due bombarde, studi per ali meccaniche appartengono al Leonardo ingegnere idraulico e inventore di macchine da guerra che disegnò al tempo il cui era al servizio di Ludovico il Moro e degli Sforza. I fogli del Codice Atlantico sono di una strabiliante minuzia e usualmente di piccolo formato, costellati di testi scritti in una minuta scrittura all´incontrario che Marani ha decifrato con perizia nel corso di decenni.
Il genio di Vinci mostra versatilità inventiva e prodigioso talento tecnologico, ma allo stesso tempo è capace di trasformare il fuoco delle bombarde in uno spettacolo pirotecnico di fantastica suggestione. La grande fortezza di montagna, 1507-10, mostra quale straordinario architetto sarebbe potuto essere Leonardo se ne avesse avuto modo. Un progetto influenzato da Francesco di Giorgio il cui trattato il maestro doveva conoscere. Uno studio di testa e un profilo maschile introducono allo sfumato che il giovane Leonardo aveva imparato dal suo maestro Verrocchio. Un modo cioè di graduare con delicatezza la superficie di una forma nel passaggio da luce a ombra, un concetto già teorizzato da Cennino Cennini a fine Trecento.
Ben altre le intenzionalità del tratto di Michelangelo che affonda matita, gessetto o penna sulla carta con pertinente energia, ritagliando i contorni e campendo il mallo di una figura con tratti modulati: come nel memorabile Nudo di schiena, 1504-5, studio per la battaglia di Cascina, o nelle Teste per la Madonna Doni, della Leda o della Vecchia. Proprio questi studi di vecchia rimandano ai Vecchi di Leonardo graffiati a punta di penna che sono epifania della moderna grafica satirica: qui la vicinanza tra i due è sensibile. L´arruffato studio michelangiolesco per il Cristo morto, 1535 c., dicono come la matita sia come mossa dall´ansia di fissare sulla carta un corpo in movimento, come pure nel coevo Sacrificio di Isacco che Ragionieri giustamente collega alla formella di Brunelleschi per il San Giovanni.
Negli studi romani l´architettura e l´antico sono dominanti: quelli di Leonardo per San Pietro sono esercizi geometrici e sono fogli di non agevole lettura. Meno ostici gli studi su villa Adriana, per il porto di Civitavecchia, per un anfiteatro e sulle antichità, in cui figura uno studio dall´Arianna in Vaticano. I fogli di Michelangelo sono decifrabili facilmente come i dettagli architettonici o sono riferibili alla Cappella Sistina e Paolina. Con un raro studio per il Giudizio Universale, perla tra le perle, in cui la grafia leggerissima rende ancor più sensibile la forza del moto che sembra scuotere i corpi terrorizzati dal gesto imperioso del Cristo. Il travaglio creativo di entrambi, la rilevanza che conferiscono alla pratica del disegno in tutte le sue tonalità sono un´esperienza centrale nell´arte del Rinascimento: i fogli che si vedono come in uno specchio sono, per l´eccezionale personalità di questi maestri, una sonda che va a fondo e illumina le loro opere somme che nascono da un retroterra di studi che dobbiamo considerare una filigrana da leggere in trasparenza. L´esito della loro grafica trova riscontro nel milieu degli allievi che sono di integrazione alla mostra.

Repubblica 27.10.11
Vasari lo proclamò padre delle arti, Lorenzo de’ Medici li collezionava
Quando il disegno diventò misura di tutte le idee
Qui sapere speculativo e tecnica esecutiva trovano il reale punto d´incontro
di Claudio Strinati


Non bisogna esagerare con la contrapposizione tra Leonardo e Michelangelo ma è vero che il secondo è stato poeta, arduo e tormentoso, e il primo no. Questo si riflette nel concreto dell´arte e quindi nel disegno. Leonardo ha una testa scientifica e il disegno gli serve come complemento essenziale dei suoi appunti di ricerca su tanti argomenti. Michelangelo si serve del disegno per preparare la creazione definitiva, che può anche avere poi come esito finale un disegno che equivale in tutto all´opera pittorica vera e propria. Tutti e due seguono la nuova tendenza affermatasi nella seconda metà del Quattrocento con il governo di Lorenzo il Magnifico a Firenze, cui debbono entrambi molto.
Quando nel 1568 il Vasari scrive l´introduzione alle Vite degli artisti mette a frutto quegli insegnamenti. Dice che il Disegno è padre di tutte le arti perchè procede dall´intelletto e «cava di molte cose un giudizio universale». È una dotta teoria, nata perché Lorenzo aveva creato molti anni prima una specie di libera accademia dove gli aspiranti artisti imparavano a conoscere la "mano" dei loro predecessori raccogliendone e studiandone i disegni. Fu Lorenzo a inventare l´idea del collezionismo dei disegni e infatti Vasari stesso ne fu grande raccoglitore. Altrimenti non conosceremmo oggi la struttura profonda dello stile di tanti artisti ancora adesso venerati. È all´epoca che si capì come un conto è vedere il quadro finito, l´architettura realizzata, la scultura montata là dove deve stare; un conto è conoscere i disegni fatti dall´artista sia per prepararsi all´opera sia come forma autonoma e perfetta di espressione. La mano dell´artefice si vede nel disegno perché è lì che sapere speculativo e tecnica esecutiva trovano il reale punto di incontro. Degli astrattisti e avanguardisti di primo Novecento cosa si sospettava sovente? Che non sapessero disegnare, più che non sapessero dipingere, perché è intuitivo come il fondamento dell´arte sia il disegno, base della costruzione della forma, senza la quale tutto il resto non conta.
L´attitudine scientifica e ricostruttiva di Leonardo si paragona bene con le esercitazioni grafiche di grandi veneti delle generazioni precedenti come Jacopo Bellini, o si apprezza meglio a confronto con un titano come Andrea Mantegna; mentre la foga poetica michelangiolesca ha punti di contatto stringenti con la prodigiosa grafica di Antonio Pollaiolo, maestro indiscusso, o con le ricerche di artisti-archeologi come Baccio Pontelli, probabile progettista del celebre codice tardo quattrocentesco, pietra miliare per la rinascita dell´Antico, detto Codex escurialensis, o con sublimi ritrattisti quali Ghirlandaio e Perugino. Nei teorici della fine del Cinquecento, ad esempio in Federico Zuccari, Disegno e Idea avranno analogo significato.