venerdì 28 ottobre 2011

l’Unità 28.10.11
OGGI IN PIAZZA
La manifestazione Spi Cgil «invade» Roma
«Giustizia sociale per il futuro dei giovani»
Sit-in in piazza del Popolo. Cantone, segretaria generale, boccia la lettera alla Ue «Ancora una volta il governo non si occupa di loro». Conclude Susanna Camusso
di La. Ma.


«Dedichiamo la manifestazione dei pensionati e delle pensionate ai giovani di questo Paese perché ancora una volta il governo non si preoccupa di creare un’occupazione certa e stabile, ma a come mettere le aziende nelle condizione di licenziare più facilmente». La segretaria generale dello Spi-Cgil, Carla Cantone, boccia le misure indicate da Berlusconi nella lettera all’Ue, «un piano lacrime e sangue che cancella il diritto del lavoro negando il futuro occupazionale e pensionistico dei giovani», ragione in più della manifestazione nazionale «Nessun dorma» indetta dal sindacato per oggi a Roma (dalle 10 in piazza del Popolo, conclusioni di Cantone e della leader Cgil, Susanna Camusso). La piattaforma era già ricca anche prima di quest’ultima stoccata: lo Spi chiede il ritiro delle norme introdotte con la manovra d’agosto «che portano allo smantellamento del welfare attraverso l’introduzione di nuovi ticket sanitari, l’azzeramento del fondo per l’autosufficienza e i pesanti tagli alla spesa sociale», dice Cantone. «È in sintesi continua la messa in opera del Libro Bianco di Sacconi secondo il quale il welfare pubblico deve essere sempre più povero, esoso e inefficiente a fronte di un welfare privato forte che solo i ricchi possono permettersi». Lo Spi propone anche un meccanismo di incentivi e disincentivi basato sulla flessibilità per rendere sostenibile il sistema previdenziale, ma soprat-
tutto un piano straordinario per il lavoro che punti alla crescita e alla stabilità occupazionale, con politiche attive per i giovani. Tra le altre proposte, quella di ridurre il vitalizio dei parlamentari, adeguando il loro trattamento previdenziale a quello della generalità dei lavoratori, e quella di introdurre un prelievo su pensioni e salari che superano i 90mila euro.
Riprende Cantone: «Tanti giovani saranno in piazza con i pensionati a chiedere al governo di farsi da parte per consentire al paese di tornare ad un livello accettabile di civiltà, di uguaglianza e di giustizia». «A chi vorrebbe contrapporre giovani e anziani chiude la segretaria Spi risponderemo quindi con una piazza piena di uomini e di donne di tutte le generazioni e provenienza per chiedono con determinazione e responsabilità un’Italia diversa e migliore».

l’Unità 28.10.11
Intervista a Susanna Camusso
«Questo governo se ne deve andare. Ha fallito su tutto»
Il segretario Cgil: pronti alla mobilitazione. Hanno solo creato diseguaglianze e precarietà. Non vorranno mica licenziare per decreto?
di Oreste Pivetta


Questo governo se ne deve andare. Malgrado il bel programmino spedito all’Ue? «Non ci stancheremo mai di ripetere che questo governo se ne deve andare. Ogni giorno che passa sono altre macerie sul nostro presente e soprattutto sul nostro futuro». Lo dice Susanna Camusso, segretaria della Cgil, a poche ore dall’ultima sceneggiata del nostro presidente del consiglio e a poche ore dalla grande manifestazione romana dei pensionati. Manifestazione che esprimerà inevitabilmente un altro calorosissimo, profondissimo, accoratissimo “no” al governo.
Insomma la lettera all’Unione europea non ha convinto il segretario della Cgil?
«Malgrado Berlusconi abbia puntigliosamente dettato mesi e scadenze, credo che non abbia convinto nessuno. È solo un elenco di cose, è un elenco di luoghi comuni, che non contengono nessuna ragione di crescita (a proposito, dove è finito il decreto sulla crescita con le norme per salvaguardare i figli, alcuni figli, di Berlusconi?) e che, per giunta, questo governo, come s’è più volte visto, non avrà mai la forza di realizzare. Che cosa farà? Si presenterà in Parlamento chiedendo la fiducia sulla libertà di licenziare per decreto? Mi sembra un’operazione mediatica. Berlusconi potrà vantarsi d’aver ottenuto il consenso dell’Europa e intanto tirerà avanti, provocando ulteriore danni, nell’irresponsabilità totale di chi non sa intervenire e non interviene di fronte alla crisi del paese».
Lei ci ha ricordato che per la prima volta nella storia della Repubblica abbiamo un ministro del lavoro che è contro i lavoratori. Conferma? «Un ministro del lavoro che odia i lavoratori. Non capisco che cosa abbiano fatto di male i lavoratori per suscitare tanta ostilità da parte di Sacconi, un atteggiamento vendicativo immotivato, che si materializza nell’idea singolare che si possa rimettere in sesto l’economia di un paese mortificando i diritti, senza rendersi conto d’aver in questo modo dato corpo semplicemente a una politica fallimentare. Intanto sul bersaglio ‘licenziamenti facili’ hanno puntato con un accanimento incomprensibile, dall’articolo 18, al collegato lavoro, all’articolo 8, in una società dove mai si è vietato di licenziare. Secondo loro un imprenditore non assume perché poi non potrebbe licenziare. Niente di più falso. Secondo questo governo ci sarebbe stato e ci sarebbe bisogno di maggior flessibilità. Finora hanno solo creato precarietà, ma la precarietà non aiuta le imprese: ne abbassa solo la qualità della vita e abbassa la qualità dei prodotti, le rende più vulnerabili, meno competitive. La loro precarietà colpisci i giovani, ruba ai giovani il futuro, cancella risorse, moltiplica il nostro debito. Da che cosa nasce la fuga dei cervelli? E quale danno rappresenta dal punto di vista economico? Siamo l’unico paese al mondo che taglia sulla scuola, taglia sulla ricerca, sull’innovazione».
Leggendo la missiva berlusconiana, pare che l’evasione fiscale sia scomparsa dall’elenco delle calamità nazionali e dei buoni propositi. Una dimenticanza o il riflesso di un lucido progetto? «Il progetto di Berlusconi è chiaro: proteggere il proprio elettorato, fareinmodocheifortieifurbinon debbano mai in alcun senso pagare. Ancora una volta vincono loro, i furbi e i forti: l’evasione la lasciamo da parte, i patrimoni non li tocchiamo, magari prepariamo qualche decina di condoni. Ne risulta l’esaltazione dell’individualismo, dell’esibizione impunita di ricchezza, della riconoscibilità che ne deriva, in uno stato destrutturato sulla scia di autoritarismo e populismo. L’unica politica di crescita realizzata è stata quella delle disuguaglianze. La giustizia sociale è scomparsa. Pensassero a un paese diverso, si sarebbero presentati all’Europa dicendo: l’economia sommersa in Italia vale un quarto del Pil, l’evasione fiscale pesa quanto le ultime finanziarie, colpiremo l’evasione fiscale, faremo emergere il sommerso, liberando forze positive, e così daremo un bel contributo al risanamento. Invece no: colpiscono i pensionati, penalizzano i lavoratori dipendenti, cacciano gli statali, vogliono libertà di licenziamento». Neanche un cenno alla patrimoniale, per la quale persino Confindustria s’è spesa...
«Non vogliono mettere le mani nelle tasche degli italiani. È il ritornello. Sappiamo bene quanto invece le mani le abbiano ficcate nelle tasche dei più deboli. Basterebbe ricordare i tagli agli enti locali, che significano ridimensionamento dei servizi alla persona...».
Non dimentichiamo la “perla” delle pensioni...
«Come se l’innalzamento dell’età pensionabile, gradualmente, non fosse già un obiettivo della riforma Dini». La Cgil è pronta alla mobilitazione con gli altri sindacati. Gli altri sindacati, Cisl Uil Ugl, sono pronti alla sciopero generale, ma firmano un comunicato senza chiamare in causa la Cgil. Non è un po’ strano? Il solito Sacconi anticipa che il fronte sindacale non si ricompatterà mai... Sarà possibile ritrovare l’unità?
«Sacconi non perde il vizio di voler decidere lui quel che devono fare i sindacati.Per il resto ho ascoltato dichiarazioni importanti, anche se non mancano le ambiguità. Io credo che non si possa trattare sulla libertà di licenziamento».

l’Unità 28.10.11
I sindacati uniti: «Pronti a scioperare Sacconi si fermi»
di Massimo Franchi


Il tentativo del governo, e del ministro Sacconi in particolare, era chiaro. Concedere alle imprese un grosso vantaggio, la sostanziale libertà di licenziare, per rompere il fronte con i sindacati. Il piano però non ha sortito l’effetto sperato. E per lui l’annunciata convocazione di «un tavolo di confronto con le parti sociali» per «approfondire il merito senza pregiudizi», rischia di essere una mission impossible. Sia con Confindustria che con Cisl e Uil. L’associazione degli industriali non vuol sentir parlare di «licenziamento facile». Da parte di Cisl e Uil invece è arrivata immediata un’alzata di scudi assolutamente non scontata. Sentire i loro segretari generali parlare all’unisono di «provocazione» e di ricorso «allo sciopero generale», di «colpiremo uniti» (Bonanni), «di nessun problema a scioperare con la Cgil» (Angeletti), fa un certo effetto. In queste ore Camusso, Bonanni e Angeletti sono stati in stretto contatto e hanno concordato una posizione comune. Bisogna però chiarire che la convocazione di uno sciopero generale unitario Cgil-Cisl-Uil non è all’ordine del giorno. Sebbene la Cgil spinga in questa direzione: «Accogliamo con grande favore le dichiarazioni di Bonanni e Angeletti commenta Fulvio Fammoni, segretario confederale Cgil -. Naturalmente bisogna dare conseguenza alle reazioni». «Lo faremo spiega Giorgio Santini, segretario generale aggiunto della Cisl se il governo modificherà la legge attuale, la 223 del 1991, quella che prevede, in caso di crisi, che azienda e sindacati di comune accordo chiedano gli ammortizzatori sociali, prima la Cig e poi la mobilità. Funziona benissimo e non c’è ragione per cambiarla». Dalla Uil si fa sapere che «ci muoveremo solo se il governo si intestardirà su questa norma senza ascoltare le nostre posizioni, se andrà avanti da solo», spiega Angeletti.Su una cosa Confindustria e (tutti i) sindacati sono d’accordo. Nelle 16 pagine firmate Berlusconi mancano molte delle cose richieste nei documenti co-firmati con Rete imprese e Cgil-Cisl-Uil-Ugl prima a giugno e poi ad agosto. «Equità e sviluppo», per dirla con Santini, segretario confederale della Cisl. Come sottolinea per prima Confindustria, nella ormai celeberrima lettera manca il taglio dell’Irap sul lavoro, manca la patrimoniale e l’intervento sulle pensioni di anzianità. Un efficientamento sulla previdenza era stato concordato fra le parti sociali all’interno della strategia che chiedeva al governo di introdurre una tassazione sui grandi patrimoni e il taglio del cuneo fiscale per imprese e lavoratori.
LA VALUTAZIONE DI MARCEGAGLIA
Diversa invece, ma più articolata del previsto, la valutazione di Confindustria sulle norme sui «licenziamenti per motivi economici». Sostenere che gli industriali siano completamente d’accordo è quantomeno improprio. E a testimoniarlo ci sono le parole di Emma Marcegaglia che, da New York, parla genericamente di necessità di «eliminare tutte le rigidità e introdurre più flessibilita» e, parlando dell’insieme della lettera, di apprezzamento per gli «impegni chiari» definita da Marcegaglia «una road map per le riforme». Su un punto invece Cgil e Confindustria hanno opinioni contrastanti. «Scrivere che entro maggio si metterà mano alla legislazione sui licenziamenti per ragioni economiche nella situazione di crisi drammatica che vive il nostro paese è una vera istigazione a delinquere. Ci sono migliaia e migliaia di aziende che stanno finendo i due anni di cassa integrazione e dovrebbero chiedere la deroga. Il messaggio che passa attacca Fammoni è che si possa espellere i lavoratori invece che trattenerli». Da Confindustria controbattono: «Pensare che un imprenditore si trovi davanti all’alternativa fra Cig e licenziamento, e scelga la seconda è un sillogismo inaccettabile, una semplificazione che non rispecchia il testo della lettera».

il Riformista 28.10.11
Eliminare il debito licenziando?
di Emanuele Macaluso

qui

l’Unità 28.10.11
Altro che moderati
di Francesco Cundari


In una democrazia che funziona, in condizioni normali, i programmi di governo si sottopongono agli elettori, non alle banche e nemmeno ai rappresentanti di altre istituzioni. Ma l’Italia, lo sappiamo, non è in condizioni normali, e dell’aiuto della Bce dunque delle autorità e dei partner europei ha un disperato bisogno.
Il governo che ha la prima responsabilità di avere portato l’Italia a questo punto, ovviamente, non ha la forza, la credibilità e neppure gli argomenti per garantire l’interesse nazionale in un momento tanto difficile. Ma l’idea stessa di una lettera di impegni per profonde riforme economiche firmata dal presidente del Consiglio e non sottoscritta nemmeno dal suo ministro dell’Economia, che anzi lascia intendere su tutti i giornali di non condividerla affatto, rappresenta un salto di qualità.
Con quella lettera il governo italiano ha compiuto infatti una scelta precisa, e niente affatto scontata. Le strade di Silvio Berlusconi e di Giulio Tremonti non si sono divise attorno a una questione da poco, ma sul cuore della strategia di politica economica e sociale del centrodestra di oggi, e soprattutto di domani. Da questo punto di vista, sarebbe sbagliato sottovalutare il fatto che si tratti in larga misura di un «libro dei sogni», com’è stato chiamato sulla stampa (noi diremmo piuttosto un libro degli incubi). Proprio questa caratteristica ne svela anzi il reale significato, che non è quello di un programma di governo, ma di un programma elettorale. Per non dire un manifesto ideologico. Illuminante, in questo senso, è il modo in cui ne ha dato conto ieri il Giornale di Alessandro Sallusti, che non solo ha pubblicato il testo integrale della lettera nelle prime due pagine del quotidiano, ma ci ha aperto la prima pagina con il titolo: «Ecco l’Italia di domani».
Il bivio davanti al quale sembrano essersi definitivamente separate le strade del premier e del suo ministro dell’Economia non è dunque una questione minore, tanto meno una scelta «tecnica». È invece esattamente questo: l’idea dell’Italia di domani che si ha in mente e che si vuole realizzare.
Giulio Tremonti ha sostenuto in questi anni molte posizioni. Si è scagliato contro lo statalismo e contro il mercatismo. Non ha esitato a tessere pubblicamente l’elogio del posto fisso come base della stabilità sociale italiana, ma nemmeno ha esitato a scagliarsi contro l’articolo 41 della Costituzione che avrebbe ingessato la libertà d’impresa nel nostro Paese.
Tuttavia, nello scontro che dentro il governo lo ha opposto ai più fanatici fautori del neoliberismo all’italiana, a cominciare da Renato Brunetta, la posizione di Tremonti, in questi anni, non è cambiata. Come dimostra anche il suo rifiuto di firmare la lettera inviata all’Ue, scritta in buona misura proprio da Brunetta, in collaborazione con Paolo Romani e con Maurizio Sacconi.
Silvio Berlusconi ha scelto dunque la sua linea e la sua squadra. Libertà di licenziamento, dismissioni di quel poco che resta dell’industria pubblica (che vuol dire, con l’aria che tira, quanto resta dell’industria italiana tout court, o poco meno), colpire gli statali, risparmiare rendite e grandi ricchezze, ignorare gli evasori.
Come è evidente a chiunque abbia la minima padronanza non diciamo dell’economia o della politica, ma della lingua italiana, una simile strategia si può definire in tutti i modi, meno che moderata. Al contrario, la strada scelta è quella dell’estremismo ideologico e della radicalizzazione sociale, nel tentativo di spaccare lo stesso fronte degli imprenditori. E con la non segreta speranza di mettere in difficoltà anche Emma Marcegaglia, colpevole di avere raggiunto un’intesa con tutti i sindacati sulla sterilizzazione dell’articolo 8 del decreto di ferragosto (con cui il governo aveva già provato a introdurre licenziamenti più facili). Agli occhi di simili estremisti, persino la Confindustria è ormai troppo «a sinistra», colpevole com’è di privilegiare quella coesione sociale che il governo degli irresponsabili appare deciso in tutti i modi a sfasciare. Altro che moderati. L’impressione è che l’eredità del berlusconismo sia proprio questa. La partita in corso dentro la maggioranza si gioca tutta qui. Il modello del Berlusconi grande federatore dei moderati nel ’94 non appare replicabile. La divisione tra una destra radical-liberista all’americana (modello Tea Party) e la tradizione dei moderati italiani appare sempre più come una divisione strategica.

«Le scadenze che B. non può rispettare
Nella lettera consegnata a Bruxelles il calendario delle misure irrealizzabili»
il Fatto 28.10.11
Dopo il vertice, la missiva del premier
Perché l’Europa fa finta di credergli
di Giampiero Gramaglia


Bruxelles Dalle 3 del mattino di giovedì 27 ottobre, l'Italia è ufficialmente un osservato speciale dell'Ue. Questo è il senso delle conclusioni di un Vertice europeo cruciale per l’Unione e per l’euro, non solo decisivo per l’Italia e la Grecia. Nove ore di negoziati su più tavoli, fin verso l'alba, come in altri round storici dell'integrazione, Maastricht o la notte che nacque l'euro. Questa volta, la posta in gioco non era fare un passo in avanti verso l'unione , ma evitare di cadere nell'abisso. I leader dell’eurozona dovevano sciogliere molti nodi della crisi del debito e ci sono sostanzialmente riusciti: hanno infatti varato il fondo ‘salva Stati’, già ratificato da tutti i 17 dell'euro, e lo hanno portato a mille miliardi; hanno tamponato le difficoltà delle banche, per la cui ricapitalizzazione ci sono 106 miliardi di euro; hanno avallato lo sblocco della seconda ‘tranche’ di aiuti alla Grecia, che fruisce della riduzione del 50% dei debiti verso gli istituti di credito , specie francesi e tedeschi.
E L'ITALIA? La lettera d’intenti che Silvio Berlusconi fa pervenire, quasi in extremis, ai presidenti delle istituzioni comunitari Van Rompuy (Consiglio) e Barroso (Commissione) ottiene a caldo riscontri positivi, poi ribaditi, ieri, nel rapporto post Vertice fatto al Parlamento europeo: gli impegni di risanamento e rilancio raccolgono generici consensi. Puo' forse sorprendere, a fronte d'un testo che prevede la riduzione al 113 per cento del Pil nel 2014, l’innalzamento dell’età della pensione a 67 anni dal 2026, licenziamenti più facili, dismissioni, incentivi all’occupazione di giovani e donne. Ma, in realtà, i leader non avevano molte alternative: domenica avevano chiesto all'Italia d'assumersi impegni di risanamento e rilancio; e l'Italia, sulla carta d'una lettera, l'ha fatto. Diplomaticamente impossibile dirle, a quel punto, "non ti crediamo". La via era obbligata: "Grazie, bene, brava, adesso vediamo che cosa fai davvero". Ed è qui che l'Italia si scopre osservata speciale: il suo operato, l'attuazione degli impegni, sarà' seguito da Van Rompuy, nella sua nuova veste aggiuntiva di 'ministro delle finanze europeo', e dall Commissione europea, il presidente Barroso e il responsabile delle finanze Olli Rehn. Una trojka belgo-portoghese-estone di persone molto concrete e poco inclini alla fantasia, magari un po' grige e, per quanto riguarda Rehn, più funzionario che politico. Da loro, c'è da aspettarsi più rigore che tolleranza, più pignoleria da ragionieri che colpi di genio da poeti o battute di spirito (anche se van Rompuy è capace degli uni e delle altre). Meglio farli dialogare con Giulio Tremonti, che parla il linguaggio di Rehn, che con il premier, che può al massimo provare a 'imbobinare' Barroso.
DEL RESTO, Tremonti deve tornare. In gioco, in Europa: mercoledì, i leader non dovevano mettersi d’accordo sui dettagli, ma dare gli input politici. Adesso, ci penseranno poi i ministri delle finanze. Dal Vertice escono indicazioni per evitare di lasciare spazio alla speculazione e sventare il contagio della crisi, che ha già investito Grecia, Irlanda e Porto-gallo e che rischia d'investire Italia e Spagna. Se L'Italia e' l'osservata speciale dell'Unione, l'Europa lo e' del mondo dei Grandi della Finanza: Bruxelles è una tappa verso il G20 di Cannes il 3 novembre. Là, saranno l'Ue e i nostri giudici bruxellesi, Sarkozy e la Merkel, ad esporsi all'esame dell'americano Obama e del cinese Hu. L'Unione difenderà l’idea di una tassazione sulle transazioni finanziarie, ma i suoi progetti e i suoi conti potrebbero non trovare accoglienza positiva.

La Stampa 28.10.11
Il rischio di perdere la faccia
di Marcello Sorgi


Lo sciopero generale annunciato simultaneamente dai sindacati, che da tempo non prendevano insieme un’iniziativa comune, e la presa di distanze del gruppo di parlamentari del Pdl facenti capo all’ex ministro Pisanu, che tornano a chiedere a Berlusconi di farsi da parte per consentire la nascita di un nuovo esecutivo a maggioranza più larga, confermano purtroppo ciò che si temeva.
All’indomani degli impegni presi in Europa con la famosa lettera di intenti approvata mercoledì notte nel vertice di Bruxelles, il governo rischia di non essere in grado di realizzare le riforme promesse per risanare i conti italiani e portare il Paese fuori dalla crisi. In qualche modo è come se la lettera fosse stata rispedita al mittente, non dal destinatario, l’Europa, che al contrario l’ha condivisa, ma dagli interlocutori italiani del governo che adesso dovrebbero consentirne l’attuazione.
Nelle reazioni manifestatesi ieri dopo la conclusione positiva della missione del Cavaliere ci sono due elementi che colpiscono: il primo è l’atteggiamento pregiudiziale verso Berlusconi, che corrisponde allo scetticismo in parte manifestato, seppure non ufficialmente, da alcuni dei partners europei che hanno accolto le proposte italiane.
Parola più, parola meno, è come se i sindacati, i dissidenti del Pdl e ovviamente l’opposizione dicessero: Silvio, non illuderti di poter forzare ancora la situazione. E prima di trascinare il Paese in una nuova guerra civile, pensaci, perché è una strada senza ritorno. Il corollario di queste posizioni è che se Berlusconi, al contrario di quel che tutti s’aspettano, decidesse di mollare, si ridimensionerebbero subito molti dei «no» alle riforme, prima tra tutte quella contestatissima per rendere più facili i licenziamenti nelle aziende in crisi, favorendo maggiore mobilità, e in prospettiva creando condizioni più elastiche per nuove assunzioni.
Fin qui, verrebbe da dire, niente novità. Che Berlusconi sia al centro di un braccio di ferro politico-mediatico, di attacchi quotidiani delle parti sociali e di una guerriglia parlamentare che quasi tutti i giorni mette sotto il governo nelle votazioni in aula, è da tempo davanti agli occhi di tutti. E se davvero la sua uscita di scena fosse indispensabile per arrivare all’approvazione delle riforme, presto o tardi, malgrado la sua testardaggine, il premier dovrebbe prenderne atto.
Ma è evidente che la verità non è questa. Infatti nessuna delle voci favorevoli all’uscita di scena del Cavaliere ha accompagnato la propria richiesta con una disponibilità effettiva e credibile a fare in fretta e seriamente le cose che l’Europa ci chiede. Dai sindacati, che evocano lo sciopero generale e il precedente della battaglia condotta nel 2003 dalla Cgil cofferatiana contro la modifica dell’articolo 18 dello Statuto, agli «scontenti» di Pisanu, che invocano il ritorno all’alleanza con l’Udc, ignorando che Casini ha già bocciato i contenuti della lettera di intenti, al centrosinistra, che coerentemente con il rifiuto espresso già quest’estate alle richieste della Bce, sembra ormai prepararsi solo alla prossima scadenza elettorale.
Benché ormai appaia inevitabile, uno scioglimento delle Camere maturato in queste condizioni, lasciando in asso l’Europa e per aria le riforme su cui l’Italia s’è impegnata solennemente, non potrà che risultare disastroso. Ci giocheremo definitivamente la faccia davanti ai nostri partners. Faremo una figura peggiore della Grecia. Diventeremo il capro espiatorio di un’Unione nella quale pure sono in tanti a dibattersi in problemi simili a quelli italiani, e a non vedere l’ora di scaricarne la colpa su un Paese inaffidabile come il nostro.
Per questo, il governo dovrebbe veramente fare di tutto per uscire dall’impasse. Costi quel che costi, compreso un passo indietro di Berlusconi, le misure elencate nella lettera di intenti devono al più presto essere trasformate in decreti da presentare in Parlamento. Ma anche opposizione e sindacati dovrebbero pensarci bene prima di insistere con la loro contrarietà e puntare a far saltare tutto. Perché alla fine sotto le macerie rischiano di restarci pure loro.

Corriere della Sera 28.10.11
Promettere non costa nulla, però...
di Sergio Rizzo


La lettera inviata da Silvio Berlusconi a Bruxelles comincia così: «L'Italia ha sempre onorato i propri impegni europei e intende continuare a farlo». Premessa doverosa, considerando lo scetticismo che in Europa ha sempre circondato i nostri propositi. Un deficit di credibilità (che sconta anche certi disinvolti comportamenti della classe politica) del quale adesso abbiamo l'assoluto bisogno di liberarci.
Ma per riuscirci è indispensabile passare dalle parole ai fatti. Cominciando da ciò che è stato promesso ma che non si è tradotto in atti concreti.
Alludiamo, a titolo di esempio, a quel passaggio della lettera nella quale si rammenta l'obiettivo, previsto dal governo con la manovra impostaci proprio dall'Europa, di riformare per delega il sistema assistenziale entro il 31 gennaio 2012. Pena, in alternativa, il ricorso a interventi sulla carne viva della popolazione come il taglio lineare alle agevolazioni familiari, o a un nuovo aumento delle tasse. Non che la riforma dell'assistenza, destinata a intaccare pesantemente istituti tipo le pensioni di invalidità e le indennità di accompagnamento, sia meno dolorosa: se è vero che da questo capitolo, per il quale spendiamo ogni anno circa 24 miliardi, dovrebbero venire risparmi per 20 miliardi. Sono numeri che illustrano con sufficiente chiarezza l'enormità dell'impresa. Va da sé che per far digerire iniziative tanto socialmente complicate ci vorrebbe un governo forte, concentrato e determinato, sorretto da una maggioranza altrettanto solida e coesa. Non abbiamo, invece, né l'uno né l'altra. Di più: mentre nella lettera si delineano azioni con una precisa cadenza temporale fino a tutto il 2012, data entro la quale si promette all'Europa di perseguire la «razionalizzazione e soppressione delle Province» comparsa nella manovra d'agosto e poi scomparsa in una settimana, non passa giorno senza che qualche autorevole esponente del centrodestra minacci elezioni anticipate nella prossima primavera. E qui torniamo inevitabilmente alla credibilità.
Ancora. La lettera annuncia un impegno straordinario per il Sud. Benissimo. Tale impegno, tuttavia, è stato già assunto varie volte dal governo a trazione leghista. Naturalmente a parole. Che fine ha fatto la Banca per il Mezzogiorno, tre anni fa presentata come taumaturgo dell'economia meridionale? E il piano per il Sud pomposamente sbandierato qualche mese fa, in quale cassetto si trova? Ora si rilancia con un programma «definito in maniera evocativa» (chissà se per commuovere gli gnomi di Bruxelles) «Eurosud». Buona fortuna. Ma come questo si possa conciliare con il beneplacito che il governo ha dato appena qualche ora dopo alla decisione parlamentare di mettere una pietra sopra al Ponte sullo stretto di Messina, opera ritenuta cruciale per realizzare il corridoio europeo Palermo-Berlino, è davvero un bel mistero. Viene poi da sorridere leggendo che si prevedono investimenti massicci nel settore della banda larga, appena brutalmente definanziato.
Per non parlare delle buone intenzioni sulla concorrenza, che fanno a pugni con la timidezza e le contraddizioni finora mostrate da esecutivo e maggioranza su questo fronte. Basta ricordare che mentre la manovra puntava a sfrondare la nostra incredibile giungla di ordini professionali, in Senato si discuteva una proposta di legge per creare una ventina di nuovi albi.
E il capitolo sulla semplificazione della burocrazia, nel quale si prefigura la completa abolizione dei certificati per «snellire i rapporti con la pubblica amministrazione»? Tornano alla memoria le parole del ministro Renato Brunetta in una intervista al Tg.com del 10 febbraio 2009: «Elimineremo la carta. Informatizzeremo tutti i certificati. Il cittadino avrà la possibilità di controllare la qualità del lavoro dei dipendenti pubblici. A settembre tutto sarà effettivo altrimenti andrò via». Trascorsi due anni da quel settembre 2009 il ministro è ancora al suo posto e quell'opera, paragonabile alle Fatiche di Ercole, non si può dire conclusa. Tutt'altro. Intorno alle pubbliche amministrazioni, a dispetto dei proclami, c'è ancora troppa foschia. Per quanto riguarda le pratiche elettroniche, una recente indagine della Confartigianato ha rivelato che nel 2010 soltanto il 13,4% degli italiani ha assolto via Internet obblighi burocratici con la pubblica amministrazione. A dimostrazione di quanto sia grande, in questa Italia, la distanza fra le parole e i fatti.

Repubblica 28.10.11
Un cerotto per Bruxelles
di Tito Boeri


Chissà perché, leggendo la lettera di intenti recapitata all´ultimo minuto dal governo italiano all´Unione Europea, mi è più volte venuta alla mente l´immagine del finestrino dell´aereo Ryanair riparato con il nastro adesivo, apparsa su molti siti nei giorni scorsi. La lettera sembra fatta apposta per salvare le apparenze. Si evita accuratamente di sostituire il finestrino e di assicurarne una chiusura ermetica, diciamo strutturale. Nulla viene chiarito, ad esempio, sui 20 miliardi ancora mancanti dalla manovra estiva.
I contorni della riforma fiscale ed assistenziale, che dovrebbe raccogliere questa cifra, rimangono se possibile ancora più vaghi di allora. Nulla viene spiegato sull´inasprimento della lotta all´evasione fiscale. Si evita accuratamente di proporre interventi sulle pensioni di anzianità che, è bene ricordarlo, sono quelle che hanno mandato in rosso i conti dell´Inps, anche tenendo conto dei massicci trasferimenti che lo Stato già concede all´ente previdenziale.
Sono queste pensioni incassate a partire da 57 anni di età da due a tre volte più alte delle pensioni di vecchiaia. E sono aumentate del 20 per cento negli ultimi 5 anni. Non vanno certo ai più poveri. Si vendono poi molte cose già fatte, come il raggiungimento dei 67 anni per il pensionamento di vecchiaia nel 2026, già implicito nell´aggancio dell´età pensionabile alla speranza di vita introdotto a inizio legislatura. Oppure le disposizioni sui servizi pubblici locali già contenute nella manovra di agosto vengono descritte come "provvedimenti da varare".
Un domani si avrà qualcosa da esibire, sperando che non si accorgano della data. Il resto sono annunci generici di cose da fare. La genericità si attutisce solo quando i provvedimenti hanno come obiettivo, quando intendono colpire, la costituency avversa, la base elettorale dell´opposizione, come nel caso delle misure sulla mobilità e la Cassa Integrazione nel pubblico impiego. In questi casi non ci sono proposte di riforma, ma solo minacce. Analogo il caso delle norme sui licenziamenti da rendere meno stringenti.
In questo momento di crisi, l´attenzione dovrebbe essere rivolta ai percorsi di ingresso nel mercato del lavoro, a modi per unificare il mercato del lavoro, superando il dualismo fra contratti temporanei e contratti permanenti. Servirebbe anche a sostenere la domanda riducendo la grandissima incertezza che circonda l´ingresso nel modo del lavoro, la durata dell´impiego dei giovani. Invece non c´è nessun cenno alla flessibilità in entrata, ma solo a norme che possono rendere più facili i licenziamenti individuali e collettivi. Infine nella lettera ci sono i titoli accattivanti, come "il programma di ristrutturazione delle scuole inefficienti", o "la valorizzazione del ruolo dei docenti elevandone impegno e retribuzione".
Non si capisce come, con quali strumenti e, soprattutto, con quali soldi. Ma chi non sarebbe d´accordo?
Perché oltre all´obiettivo di ottenere il permesso di volo (a quell´aereo di Ryanair per fortuna il permesso non è stato poi dato), il governo sembra avere in testa un altro obiettivo: preparare la campagna elettorale.
Il vero quesito da porsi allora non è tanto se questo governo farà le cose vagamente descritte nella lettera, ma un altro: sono questi impegni sottoscritti a livello vincolanti anche per il governo che ci sarà nella prossima legislatura?

Repubblica 28.11.10
Il Cavaliere in tv senza miracoli
di Concita De Gregorio


Cauto, lento, la voce impastata e vagamente dolente, Silvio Berlusconi arriva a casa all´ora di cena in apertura del suo tg privato, il Tg1. Nonostante vederlo durante i pasti sia la norma, stasera suscita un attimo di attenzione nuova. Non è più lui.
Cantilena, gli occhi ormai invisibili, un compito mandato a memoria come fosse la punizione di uno scolaro trovato impreparato il giorno prima.
Non si preoccupa neppure più che la messinscena sembri un´intervista: dice quel che ha da dire, quel che deve dire, fissando un punto davanti a sé. Per le domande si arrangeranno dopo, in redazione, a montarle.
La sedia davanti al tavolo è storta, come se avesse fretta di andarsene. Pochi minuti, infatti. Non c´è niente di cui vantarsi oggi, nessun miracolo da annunciare. C´è da camminare lungo il crinale sottile che separa i malumori ormai plateali della sua stessa maggioranza dai malumori dell´Europa. È una questione di tempo, anche. Deve tirare in lungo, rassicurare i suoi e dar loro un orizzonte di diciotto mesi, che le elezioni anticipate sarebbero una sciagura per tutti quelli che non hanno ancora maturato il vitalizio e sono tanti. Dare a intendere all´Europa che sta lavorando, intanto, e rinviare la verifica. È sotto monitoraggio, Merkel e Sarkozy glielo hanno spiegato bene: guarda che ti stiamo guardando, niente trucchi.
Con uno sforzo sovrumano e per lui contro natura dunque bisogna che rinunci alla televendita di batterie di pentole e scudi fiscali, stasera, bisogna che dica due o tre cosette. Vai con la prima: la crisi non è dei conti italiani ma dell´euro, il debito pubblico è ereditato dal passato - è questa è la solita solfa.
L´assunzione di responsabilità è un obiettivo personale e politico ancora lontano, purtroppo.
La seconda, una menzogna di passaggio: l´Italia è un Paese solido, il debito pubblico sommato al risparmio privato la mette al secondo posto dietro la Germania. Lo stato si appoggia al risparmio degli italiani, insomma, peccato che Draghi abbia illustrato appena ieri come il risparmio privato sia in Italia in caduta libera. Chiunque, del resto, può fare a casa la verifica in proprio.
Terzo, i licenziamenti. Qui proprio non riesce a rispondere, l´uomo del milione di posti di lavoro. Non è in grado di pronunciare la parola. Dice un´altra cosa, tema libero: lavoriamo per un mercato del lavoro più aperto a donne e giovani. Uno slogan standard, propaganda elementare.
Infine, il governo tecnico. Le pressioni dell´opposizione. «Che novità», è l´unica minibattuta con sorriso incorporato. «L´Europa ha apprezzato e approvato il nostro programma di governo, l´opposizione acquisterebbe credibilità solo se lo sostenesse». La frase è talmente priva di senso, sia nella prima che nella seconda parte, che la dice correndo. Stacco brusco, fine del messaggio. La cena può continuare. Debole no? Sì, debole. Serpeggia anche a tavola la stanchezza, l´idea che sarà un bel giorno quello in cui il tg tornerà a dare qualche notizia e non si dovrà sempre parlare solo di lui come se noi, l´Italia, non esistessimo.

l’Unità 28.10.11
Il segretario Pd ottimista sull’alleanza tra progressisti e moderati. «Sull’Ue il premier in Aula»
Il leader Udc: «L’opposizione è al momento della verità. La coalizione va costruita sui contenuti»
Bersani a Casini e Di Pietro: «Ora un’alternativa credibile»
L’opposizione chiede al premier di riferire in Aula sulla lettera all’Ue. Bersani vede Casini e Di Pietro. Passi avanti nella definizione dell’alleanza tra progressisti e moderati. Il leader Udc: «Costruirla sui contenuti».
di Simone Collini


«Costruire un’alternativa credibile». Dando vita a forme di coordinamento permanente tra i gruppi parlamentari del Pd, dell’Idv e del Terzo polo e accelerando sulla definizione delle proposte programmatiche. La questione è stata discussa da Pier Luigi Bersani prima con Pier Ferdinando Casini e poi con Antonio Di Pietro. La novità emersa dai due colloqui avuti dal segretario del Pd a Montecitorio ieri mattina, negli stessi minuti in cui iniziavano a circolare voci di nuovi strappi all’interno della maggioranza, è duplice. Il presidente dell’Idv si è detto disponibile a sostenere un governo di transizione «di breve durata» che permetta la riforma della legge elettorale e affronti l’emergenza economica. Ma soprattutto, il leader dell’Udc per la prima volta ha aperto a un’alleanza con anche Sel e Idv, chiedendo un confronto di tipo programmatico.
Bersani minimizza la portata dei colloqui, di fronte a chi vede uscire Di Pietro dal suo studio alla Camera dopo quasi un’ora di faccia a faccia. «Vedo tutti, parlo con tutti». Ma poi è lo stesso leader del Pd a spiegare che «sul progetto dell’alleanza tra moderati e progressisti non stiamo con le mani in mano». E che anzi «i lavori sono più avanti di quanto si pensi». Il punto ora, sottolinea Bersani, è operare per dare «credibilità» a questa coalizione che dovrebbe poi guidare una legislatura dal profilo costituente. I colloqui di ieri sono serviti a dare una valutazione comune negativa della lettera del premier all’Ue, e discutere «la strategia parlamentare da adottare per dimostrare che il governo non è affidabile» e i punti programmatici condivisi che potrebbero servire da pilastri sia per un governo ponte che per un’alleanza elettorale.
Casini, che sta tenendo i contatti con diversi malpancisti del Pdl, è convinto che l’ipotesi di un governo di responsabilità nazionale «o si concretizza a giorni o il voto è ineludibile». E se il leader dell’Udc si dice «sereno» perché vede nella maggioranza aumentare segnali favorevoli a questa soluzione, l’opposizione sta lavorando a quella «strategia» a cui fa riferimento Bersani per dimostrare che governo e maggioranza si reggono su un equilibrio precario e non riusciranno a tenere fede agli impegni presi. Pd, Idv e Terzo polo hanno chiesto al premier di riferire in Aula sulla lettera all’Ue perché, come dice Dario Franceschini, «contiene impegni e date, molto difficili da rispettare, che riguardano non solo l’esecutivo ma anche il Parlamento». Ma stanno valutando l’ipotesi di arrivare a questo appuntamento con una petizione firmata da oltre 316 deputati, cioè più di quelli che hanno votato l’ultima fiducia al governo (un’operazione analoga a quella messa in campo nel ‘94).
CREARE UN’ALTERNATIVA
«Il governo non è più affidabile come dimostra la lettera all’Ue, che è merce usata, a parte le minacce inaccettabili di entrare a pie’ pari sul mercato del lavoro», dice Bersani. Duro su questo anche Casini, che parla di «un patto scellerato sottoscritto tra Berlusconi e Bossi che, in cambio della libertà di licenziamento, non mette mano alle pensioni». I leader del Pd e dell’Udc sono d’accordo anche sul fatto, per dirla con Casini, che la lettera è «un manifesto elettorale per andare allo show down a gennaio e poi alle elezioni».
Per questo il leader dell’Udc dice che «l’opposizione è al momento della verità»: «L’Europa deve sapere che c’è un’alternativa seria, disponibile a creare un patto per l’innovazione e la crescita del nostro Paese con le parti sociali, che non rifiuta la lettera della Bce, e anzi sa declinarla in modo equo e socialmente sostenibile». Parole rivolte agli «amici di Vasto», che formulate in questo modo non vengono rispedite al mittente né da Vendola né da Di Pietro. Con Bersani soddisfatto perché per la prima volta Casini parla della necessità di «creare un’alternativa», chiamando il centrosinistra e chiedendo un’alleanza «costruita in base ai contenuti». Che è proprio quello che vuole anche il leader Pd.

Repubblica 28.10.11
Pd-Udc-Idv, asse per un governo di transizione
Bersani convince anche Di Pietro. Casini: la lettera alla Ue mette poveri contro ricchi
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Per l´opposizione è il momento della verità», dice Pier Ferdinando Casini dopo aver visto ancora una volta il leader del Pd Bersani. È l´annuncio di una possibile sinergia tra Terzo polo, Pd e Idv per collegarsi ai movimenti degli "scontenti" del Pdl, alla loro lettera per il «passo indietro» di Berlusconi. Se questa fronda (smentita dai frondisti) dovesse prendere corpo nelle prossime ore, le minoranze avvierebbero una raccolta di firme sotto una petizione che chiede le dimissioni del premier. Obiettivo naturale: 316 adesioni, cioè la maggioranza assoluta della Camera. Una sfiducia sostanziale, anche se non formale, in grado di convincere il premier a rimettere il mandato. Nel ‘94 andò proprio così, senza il passaggio parlamentare. «Dobbiamo trovare 10 Versace», dice un deputato del Pd alludendo alla fuga dal Pdl del deputato-stilista. E la speranza di un governo tecnico tornerebbe ad accendersi.
Di questa strategia, costruita sull´inaffidabilità del governo a varare sul serio le riforme contenute nella lettera alla Ue (Casini sostiene che «mette i ricchi contro i poveri» e Bersani parla di «merce usata»), il segretario del Pd ha parlato per un´ora ieri alla Camera con Antonio Di Pietro. La collaborazione dell´Idv è fondamentale per condurre in porto l´impresa, cioè un nuovo 14 dicembre con esito diverso. L´ex pm, alla fine del colloquio, ha accettato la tattica e la linea indicata da Bersani e Casini. Aprendo al governo di transizione, ipotesi sempre respinta seguendo la strada principale delle elezioni anticipate. «Con un po´ di buona volontà e responsabilità reciproca, anche di tutti quei parlamentari di maggioranza che hanno a cuore le sorti del Paese, si possono creare le condizioni per un´alternativa di breve durata», sono le parole nuove di Di Pietro. Parole che hanno uno scopo ben preciso: convincere i frondisti del Pdl sul futuro della legislatura. Significa restare un anno e mezzo in Parlamento e una via d´uscita dall´abbraccio con Berlusconi.
Al di là della raccolta di firme sotto la petizione per le dimissioni, l´importante è avere una pattuglia di parlamentari che voti contro il governo alla prima occasione utile e lo mandi a casa. Con la garanzia, oggi siglata anche da Di Pietro, che non si torna alle urne. Particolare non di poco conto: il vitalizio si matura dopo 4 anni e sei mesi. Siamo ancora lontani da quel traguardo.
Casini è convinto che la lettera alla Ue non avrà alcun seguito concreto. «Per fare quelle riforme ci vuole un patto con le parti sociali», dice. E Berlusconi non è nelle condizioni di farlo. Perciò il testo inviato in Europa può avere un solo uso: «Farne un manifestino elettorale per il voto a marzo». L´obiettivo resta l´esecutivo di transizione «e sono contento che nel Pdl molti l´abbiano capito» spiega il leader dell´Udc. Ma se la situazione precipita verso le urne, Casini chiede al centrosinistra, per non andare da solo, «un´aggregazione sui contenuti a partire dal sostegno alle lettera della Bce». E a chi sta fuori dal Parlamento (Montezemolo) l´appello del leader centristra è all´»assunzione di responsabilità e alla condivisione dell´obiettivo di un patto sociale per la crescita e tra le generazioni». Come dire: uniamo le forze.

Corriere della Sera 28.10.11
Zingaretti lancia il suo «decalogo», sospetti nel Pd
di Maria Teresa Meli


ROMA — Nicola Zingaretti pubblica sul Foglio il suo manifesto programmatico — «Dieci idee per cambiare l'Italia» — e subito nel Partito democratico si riaccende il clima dei sospetti. Per quale ragione il presidente della Provincia di Roma ha voluto mettere nero su bianco il suo decalogo per il Paese del futuro? Dentro il Pd si scatena la dietrologia. Ci si chiede perché abbia deciso di intervenire, per esempio, nel dibattito sulla politica economica che sta dividendo il partito, sottolineando che la «flessibilità non è il diavolo». Vuole candidarsi anche lui? Non è così, ma si propagano tante e tali voci che alla fine Zingaretti è costretto a precisare: «Io sostengo Bersani e lo sosterrò alle primarie».
In realtà, almeno per ora, il presidente della Provincia di Roma non aspira a un orizzonte nazionale: ha voluto scrivere quel decalogo perché vuole appoggiare il segretario con una piattaforma autonoma, senza appiattirsi né sui «brontosauri» del partito, né sui semi-giovani e semi-rinnovatori come Stefano Fassina, da una parte, e la coppia Serracchiani-Civati, dall'altra. Vuole giocare un suo ruolo e avere un suo spazio politico, anche in vista della disfida per il Campidoglio.
Dunque, è inutile esercitarsi in dietrologie e coltivare sospetti sulla sortita di Zingaretti. Semmai questa mossa va interpretata con un'altra chiave di lettura. Bisogna chiedersi per quale motivo il presidente della provincia di Roma abbia deciso di presentare proprio ora la piattaforma programmatica con cui sosterrà Bersani. È il segno che le elezioni anticipate si avvicinano, è il segno che c'è il sentore, in ampi strati del Pd, che alle primarie ormai non più tanto lontane il segretario non sarà il solo a scendere in campo, perché a contendergli la candidatura alla premiership ci sarà anche Renzi? Zingaretti fa la sua scelta: appoggerà Bersani, non il sindaco di Firenze. Renzi però, essendo in pista, non ha intenzione, almeno in questa fase, di alienarsi le simpatie del presidente della Provincia di Roma e infatti dichiara che il decalogo pubblicato dal Foglio è «molto interessante e per larghi tratti condivisibile».
Ma l'uscita di Zingaretti non è l'unico segnale che qualcosa si sta muovendo e che alla fine si potrebbe assistere a una sfida Renzi-Bersani alle primarie. Ci sono altre due conferme in questo senso. La fretta con cui la portavoce di Prodi smentisce che l'ex premier sponsorizzi il sindaco del capoluogo fiorentino, notizia mai uscita sui giornali, e la rapidità con cui l'ex amico di un tempo, Pippo Civati, ha voluto creare la sua corrente anti Renzi.

l’Unità 28.10.11
• Una intervista a Matteo Renzi
• Una intervista a Oliviero Diliberto
• Un articolo molto rispettoso su BXVI ad Assisi
tutto è disponibile qui

il Fatto 28.10.11
Venticinque anni dopo senza i vertici ebraici e dell’islam sunnita
Flop interreligioso: delusione ad Assisi
di Marco Politi


Assisi. Sotto le volte di Santa Maria degli Angeli, affiancato da esponenti delle principali religioni del mondo, Benedetto XVI confessa: “Sì, anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza: lo riconosciamo pieni di vergogna”. La religione, continua il Papa, non può essere giustificazione del terrorismo. Poi Ratzinger rimarca che anche la negazione di Dio è fonte di mali. “Il no a Dio – scandisce – ha prodotto una crudeltà e una violenza senza misura”, perché nei lager è saltata ogni norma morale . E qui sta il paradosso di questo “ritorno” ad Assisi di Benedetto XVI venticinque anni dopo il grande incontro interreligioso, convocato da Giovanni Paolo II nella città di Francesco.
PAPA Ratzinger denuncia il male dell’“assenza di Dio” mentre tutto l’evento si svolge sotto la cappa della sua proibizione: niente preghiere comuni. Prescrive ingenuamente il manualetto ufficiale stampato dal Vaticano: “Alle ore 13,45 (dopo il pranzo e prima delle 15,15) i membri delle delegazioni raggiungono gli appartamenti indicati per una pausa di silenzio, riflessione e preghiera personale”. E se gli illustri ospiti facessero una pennichella? Finisce che in Santa Maria degli Angeli il solo a invocare la divinità è il rappresentante dell’antica religione politeista africana Ifa: “Mio grande Signore, Erigi Alo, Ifa ha sposato Colei-che-si-bagna-nell’acqua fredda…”. La risposta dei scismatici lefebrviani, quelli a cui il Vaticano sta per regalare una prelatura speciale con propri vescovi senza che accettino i grandi documenti del Concilio su ecumenismo, ebraismo, libertà religiosa e rapporti con le altre religioni, è già pronta: “Adorazione del Santissimo Sacramento e recita del rosario in riparazione della celebrazione di un evento che ha umiliato la Sposa di Cristo mettendola sullo stesso piano delle false religioni”. Venticinque anni fa, quando Karol Wojtyla invitò i leader delle religioni mondiali a pregare insieme per contrastare il terrore dell’equilibrio nucleare tra Usa e Urss, fu proclamata una tregua planetaria di ogni conflitto e guerriglia.
NON CESSÒ, naturalmente, ogni colpo mitragliatrice, ma il fatto stesso manifestò il prestigio morale raggiunto all’epoca dalla Santa Sede. In quel giorno del 27 ottobre 1986 tutta Assisi diventò un luogo di preghiera. La folla girava emozionata ed eccitata di vicolo in vicolo, di piazza in piazza osservando nelle chiese, nei luoghi aperti, nelle antiche sale il salmodiare degli uomini di Dio venuti da ogni angolo del mondo. Vano sarebbe cercare nel-l’evento di adesso un simile fervore. Partecipano trecento esponenti di oltre cinquanta religioni, eppure il Vaticano raccoglie gli esiti delle crisi provocate con i grandi monoteismi. Non sono presenti le massime autorità ebraiche. Non si vede un rappresentante dell’università cairota di Al Azhar (Vaticano dell’islam sunnita). Non c’è nemmeno il Dalai Lama, che Benedetto XVI non volle ricevere per non indispettire la Cina. L’atmosfera è quella ingessata dei convegni accademici. “Era meglio se non tornavo”, si sfoga una fedele cattolica presente nel 1986. Il discorso del pontefice, scritto di suo pugno, è lucido e preciso. Denuncia l’abuso politico della religione. “Sappiamo – dice – che spesso il terrorismo è motivato religiosamente e che proprio il carattere religioso degli attacchi serve come giustificazione della crudeltà spietata”. Tutte le religioni, perciò, devono purificarsi. L’altra sottolineatura del suo intervento è la denuncia dell’ “assenza di Dio” come causa di decadimento dell’uomo e dell’umanesimo. Ma, controbilancia il Papa, soltanto una fede “rettamente vissuta” si trasforma in forza di pace. Novità, rispetto al 1986, è l’invito ad esponenti dichiaratamente non-credenti a prendere parte a questo “pellegrinaggio di verità e di pace”. Ratzinger li descrive come cercatori del vero Dio, la cui immagine è spesso “travisata” e nascosta dalle religioni stesse. A loro nome la psicanalista Julia Kristeva illustra i principi dell’umanesimo laico. “Rimettersi continuamente in questione”, battersi per l’emancipazione delle donne, prendersi cura dell’altro. “L’uomo non fa la storia, noi siamo la storia”, annuncia la Kristeva esortando a “riprendere e rinnovare i codici morali” costruiti nei secoli.
DOPO LA CERIMONIA del mattino con le dichiarazioni dei vari esponenti religiosi, la giornata si chiude con una cerimonia sul piazzale inferiore della basilica. Tutti rinnovano solennemente l’impegno per la pace e il dialogo. Poi un rapido omaggio alla tomba di Francesco. Così termina – frettolosamente – un appuntamento tutto di testa. Buono perché si è fatto. Emozionante come il menù papale: riso con verdura, insalata, frutta.

il Riformista 28.10.11
Risposta a Ratisbona?
I musulmani disertano il dialogo col Papa
di Francesco Peloso

qui

La Stampa 28.10.11
Se il papa apre agli agnostici
di Andrea Tornielli


Benedetto XVI ha celebrato il primo incontro interreligioso di Assisi secondo Ratzinger. E al di là delle precauzioni e dell’insistenza che è stata posta nell’evitare il rischio del sincretismo, la vera novità di questa edizione è rappresentata dall’invito rivolto ai non credenti, anch’essi «pellegrini» nella città di San Francesco.
Soltanto chi non conosce Joseph Ratzinger può stupirsi per questa innovazione. Il Papa teologo, al contrario della rappresentazione che di frequente viene data del suo pontificato, è non soltanto attentissimo al dialogo con chi non crede ma sembra talvolta persino privilegiarlo rispetto al più tradizionale dialogo tra le religioni. Se per quanto riguarda quest’ultimo, Benedetto XVI ha voluto precisare la cornice entro cui inscriverlo, insistendo sull’aspetto culturale, sul rispetto dei diritti umani e sulla necessità di togliere qualsiasi giustificazione all’uso della violenza e del terrorismo in nome della religione, nei confronti dei non credenti e degli agnostici che non hanno chiuso definitivamente la porta della domanda su Dio, il Papa mostra una crescente attenzione.
Nel libro-intervista con Peter Seewald pubblicato undici anni fa («Dio e il mondo»), l’allora Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, parlando della fede cristiana, disse parole inequivocabili e lontanissime da ogni tipo di integralismo e fondamentalismo: «La natura della fede non è tale per cui a partire da un certo momento si possa dire: io la possiedo, altri no. La fede rimane un cammino. Durante tutto il corso della nostra vita siamo in cammino, e perciò la fede è sempre minacciata e in pericolo. Ed è anche salutare che si sottragga in questo modo al rischio di trasformarsi in ideologia manipolabile. Di indurirsi e di renderci incapaci di condividere riflessione e sofferenza con il fratello che dubita e che s’interroga». «La fede può maturare - aggiungeva - solo nella misura in cui sopporti e si faccia carico, in ogni fase dell’esistenza, dell’angoscia e della forza dell’incredulità e l’attraversi infine fino a farsi di nuovo percorribile in una nuova epoca».
E il mese scorso, nell’ultimo giorno del suo viaggio in Germania, commentando le parole di Gesù «i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio», aveva spiegato: «Tradotta nel linguaggio del tempo, l’affermazione potrebbe suonare più o meno così: agnostici, che a motivo della questione su Dio non trovano pace; persone che soffrono a causa dei loro peccati e hanno desiderio di un cuore puro, sono più vicini al regno di Dio di quanto lo siano i fedeli "di routine", che nella Chiesa vedono ormai soltanto l’apparato, senza che il loro cuore sia toccato da questo, dalla fede».
Ecco perché di sua iniziativa Papa Ratzinger ieri ad Assisi ha ritenuto di rivolgersi anche a quelle «persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio». Queste persone pongono domande sia «agli atei combattivi» che «pretendono di sapere che non c'è un Dio», e li invitano «a diventare, invece che polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista».
Ma soprattutto chi non crede ed è in ricerca chiama in causa gli aderenti alle religioni, «perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri». I non credenti attendono di trovare risposte sul vero Dio, ma l’immagine di Dio che arriva dalle religioni «a causa del modo nel quale non di rado sono praticate, è non raramente nascosta». Il Papa ha detto ai leader delle religioni mondiali, senza ovviamente sottrarre la Chiesa cattolica a questa responsabilità, che l’agnosticismo oggi «dipende anche dai credenti» e dall’immagine «ridotta o anche travisata di Dio» che essi trasmettono.

Corriere della Sera 28.10.11
Gesù a teatro scuote Parigi. Già arrestati 220 integralisti
Piccoli, Lissner e la Binoche difendono la piéce: basta violenze
di Stefano Montefiori


PARIGI — In una settimana circa 220 arrestati, molte uova e un po' di olio sul pubblico all'entrata del teatro, fialette maleodoranti lanciate in sala e urla in difesa della religione cattolica e contro la «cristianofobia». Le proteste degli integralisti per la pièce di Romeo Castellucci «Sul concetto di volto nel Figlio di Dio», al Théâtre de la Ville, sono cresciute con il passare dei giorni fino a diventare un problema di ordine pubblico e un caso politico.
Anche ieri sera la polizia è intervenuta per consentire agli spettatori di entrare nel teatro e per fermare i manifestanti, vicini alla frangia più estremista e ormai minoritaria del Front National. Abbandonati da Marine Le Pen, i giovani (molti con la testa rasata) difensori dei valori cristiani contro l'«arte degenerata» hanno ricevuto il plauso di Bruno Gollnisch, il capo dell'anima radicale del partito che sul suo blog ha difeso l'intervento dei ragazzi, militanti di «Renouveau Français» e «Action Française», «contro una vergogna pagata con le nostre tasse» (il Théâtre de la Ville gode dei finanziamenti pubblici, ndr).
Castellucci mette in scena un figlio che si prende cura del padre vecchio e malato, affrontando il tema della decadenza fisica, davanti a un grande ritratto di Gesù dipinto da Antonello di Messina. Alla fine un liquame nero — «inchiostro», spiega l'autore — scende a ricoprire l'icona sacra.
Per gli integralisti cattolici un'insopportabile blasfemia, possibile solo grazie al clima di «cristianofobia» che i pensiero dominante è pronto a tollerare, «a differenza di quel che accadrebbe se a essere insultato fosse Maometto o la religione ebraica».
«Una enorme sciocchezza, quella gente deve smetterla di disturbare e permettere a chi lo vuole di godersi lo spettacolo», dice al telefono Michel Piccoli, 85 anni, che è tra i primi firmatari di un appello in difesa della pièce assieme al direttore del teatro Emmanuel Demarcy-Mota e a Juliette Binoche, Bob Wilson, l'«indignato» Stéphane Hessel, Patrice Chéreau e il direttore della Scala Stéphane Lissner. «I padri o i nonni di quei ragazzi se la presero pure con me nel 1963, quando interpretai Pio XII nel dramma "Il Vicario" di Rolf Hochhuth, che denunciava le debolezze del Papa contro i nazisti — continua Piccoli —. È una violenza che non sopporto, l'arte e le idee non possono essere schiave del fanatismo. I musulmani reagirebbero con ancora maggiore violenza? Sbaglierebbero, e non capisco perché questa rincorsa al peggio. Viva l'Islam, viva la Chiesa. La censura è opera non dei credenti ma di estremisti che non devono averla vinta».
La conferenza episcopale francese, tramite monsignor Bernard Podvin, «condanna le violenze perpetrate durante le recenti rappresentazioni e promuove il dialogo tra cultura e fede», ma ricorda che «i cattolici aspirano, come cittadini, a essere rispettati nella loro fede».
Lo spettacolo di Castellucci — con la protezione della polizia — resterà in scena fino a domenica al Théâtre de la Ville, per poi passare al grande centro culturale Centquatre, e gli integralisti hanno già annunciato che lo seguiranno. A partire dall'8 dicembre poi i manifestanti prenderanno di mira, al Théâtre du Rond-Point, il «Golgota Picnic» di Rodrigo Garcia, altra rappresentazione giudicata irrispettosa. L'impressione è che la battaglia sia appena cominciata.

l’Unità 28.10.11
La scuola non argina più l’ignoranza
L’istruzione pubblica sotto la lente d’ingrandimento di una docente
Nel libro di Graziella Priulla, di cui pubblichiamo le conclusioni, è contenuta una grande mole di dati che segnalano il declino di un’istituzione
Una politica che negli ultimi anni ha segnato il tracollo
I danni fatti non sono recuperabili in una generazione
di Graziella Priulla


Che cosa vogliamo lasciare all’Italia che verrà? Che cosa il mondo adulto organizzato vuole che sappiano le nuove generazioni, in Lombardia come in Sicilia? E a monte: la cultura riguarda la nostra vita? ha a che fare con il modo di passare le giornate, con la capacità di convivere civilmente? Come convincere i ragazzi che serve? Come gettare un ponte percorribile tra le loro menti e ciò che di meglio l’umanità ha prodotto, senza ingessarsi su modelli di cent’anni fa? Quali saperi restano, quali si sostituiscono? Come conciliare elementi di lungo periodo con elementi la cui utilità è legata a fattori transitori?
NESSUN CONFRONTO SERIO
Da anni non conosciamo un dibattito serio su quale debba essere la formazione più idonea per giovani che appartengono interamente al XXI secolo. In un contesto di definanziamento selvaggio, di classi superpopolate, di demotivazione e disaffezione dei docenti e degli allievi; in una società afflitta da crescenti dualismi sociali, da divaricazioni crescenti tra Sud e Nord, ricchi e poveri, garantiti e non garantiti, giovani e vecchi; nell’esasperazione di una conflittualità politica a tutt’altro rivolta; con un’opposizione parlamentare smarrita e confusa oltre il lecito; in un clima di generale incertezza e insicurezza...
di fronte al tenore delle sfide che incombono, alle naturali difficoltà della scuola a riorganizzare la propria azione, alle comprensibil”i preoccupazioni delle famiglie (...) sarebbe necessaria una progettualità di alto livello e di larghi orizzonti (...) Il governo sceglie invece la strada di un messaggio implicito semplificante e rassicurante: se la scuola è in difficoltà non dipende dalle ardue sfide cui deve far fronte, è solo perché le innovazioni scolastiche erano sbagliate; tolte queste innovazioni, restaurata la tradizione scolastica, i problemi si risolveranno. (dal libro M. Baldacci, Frabboni La Controriforma della scuola FrancoAngeli)
RITESSERE I FILI
Per ritessere un filo tra scuola e mondo ci sarebbe bisogno di una voglia di rimettersi in gioco, di un recupero d’orgoglio difficile da imprimere a questa grande organizzazione che pare giunta esausta al capolinea, logorata da un martellare di messaggi contraddittori. Come possiamo accingerci a un’operazione ciclopica di cambiamento, quando ci rendiamo conto che tutto ciò che ci sta intorno spinge in direzione contraria e a nessuno importa niente degli sforzi che facciamo?
Se ci si interroga con tanta insistenza sulla natura dell’identità è perché si ha la sensazione di avere a che fare con qualcosa di sfuggente o di perduto. Lo dico con smarrimento, poiché ho insegnato tutta la vita.
La posta in gioco è però troppo importante per rassegnarsi; non ci possiamo permettere il lusso di aspettare che la società italiana riconosca se stessa allo specchio, smettendo di galleggiare sugli ammortizzatori e di ignorare la distruzione o l’emarginazione di una parte determinante del proprio capitale umano. È un’urgenza che interpella tutti, e potrebbe trovare praticabilità in un’energia collettiva in grado di vincere declino, inerzia, disordine, demagogia.
È evidente che dalla crisi si potrà cominciare ad uscire solo quando si darà respiro e speranza alla crescita intellettuale e civile delle giovani generazioni, oggi senza prospettiva.
Bisogna farsi carico – con uno sguardo un po’ più lungo di una campagna elettorale – dei luoghi e dei modi in cui si genera il senso: senza di che insegnare e imparare sono parole vuote, stanche routine, note senza musica. Servono visioni strategiche, scelte che possano dare risultati tangibili fra anni, non fra mesi o giorni. La distruzione del sistema pubblico d’istruzione e il soffocamento della ricerca scientifica non sono fenomeni passeggeri e non sono rimediabili nell’arco di una generazione. Altro che norme nascoste nelle pieghe di leggi finanziarie o di decreti milleproroghe, o provvedimenti muscolari che creano l’illusione di facili riconquiste di credibilità ed autorevolezza!
PRIORITÀ NAZIONALE
Siamo ad un punto in cui solo una radicale inversione di tendenza, che ponesse la scuola come grande priorità nazionale in termini sociali, politici ed economici, potrebbe rivitalizzarla. Sapendo che essa non ha più il monopolio della riproduzione culturale. Assumendo l’onere laico e realistico di definire quale sia la sua specificità, insieme al fatto che l’educazione non può essere questione esclusiva degli addetti ai lavori. Difendendo a tutti i costi la scuola pubblica perché è rimasta il solo luogo comunitario diffuso, quotidiano, aperto, solidale dove diverse età condividono tempo, spazi, parole, fatiche, speranze, sogni, successi e delusioni. L’ultimo che si ostina a non produrre consenso. L’ultimo dove i bambini e i ragazzi non sono visti come consumatori e non sono divisi per potere d’acquisto. L’unico laboratorio di integrazione delle diversità. L’unica istituzione che toglie ai vecchi per dare ai giovani.
Com’è possibile che manchi il denaro per garantire queste conquiste?
Scrive nel suo Maestri d’Italia. Rapporto sulla scuola ItaliaFutura (associazione confindustriale, non covo di sovversivi): “l’Italia e la sua scuola si interpretano a vicenda: nella crisi del sistema educativo si può leggere un disorientamento collettivo più generale”.
Non si possono trovare risposte a tutte le domande; non ci sono tesi da dimostrare, bandiere da impugnare; ma è triste che di temi così importanti per l’avvenire del Paese discuta solo un’élite sofisticata e smaliziata, che spesso si parla addosso avvitandosi in ingegnerie riformistiche, astrazioni pedagogiche, perorazioni programmatiche, e sempre si divide per appartenenze accademiche o politiche.
SPAZIO ALLA SPERANZA
È ancora possibile che il corpo sano della società riscopra un’energia corale che ci consenta di liberarci dalla rassegnazione e dall’indifferenza, di ridare spazio all’impegno e alla speranza?

La Stampa 28.10.11
Intervista
“Occidente, nessun muro può fermare gli immigrati”
L’economista indiano Jagdish Bhagwati: “Espellere i clandestini non serve: ritornano. Bisogna accettare il fatto che sono qui”
di Mario Baudino


E’ riconosciuto come uno dei più importanti studiosi - e teorici - del commercio internazionale, docente alla Columbia e ascoltatissimo consigliere di organismi come le Nazioni Unite o il Wto. Jagdish N. Bhagwati, nato a Mumbai nel ‘34, vive in America ma ha mantenuto orgogliosamente la cittadinanza indiana, e c’è sicuramente la sua opera di studioso dietro il grande sviluppo economico del Paese, dove torna ogni volta che può, fedele all’idea che gli «emigrati intellettuali» devono coltivare un principio di «lealtà». In agosto ha pubblicato una lettera aperta al presidente Obama, ribadendo una sua idea chiave: il timore che i liberi commerci con i Paesi in via di sviluppo tolgano posti di lavoro nei Paesi ricchi è infondato. Qualcosa di molto simile pensa dell’immigrazione, non quella di alto livello ma quella delle masse povere, e lo ha spiegato ieri alla Fondazione Einaudi di Torino aprendo un convegno su questi temi organizzato dal Centro studi Luca d’Agliano, con il Centre for Economic Policy Research, la Commissione Europea e la Compagnia di San Paolo. La sua analisi riguarda gli Usa, dove la politica sull’immigrazione, spiega, è andata incontro a un clamoroso fallimento. Ma può estendersi a tutto l’Occidente, Europa compresa.
Professore, la questione è economica ma anche e forse soprattutto etica. Lei è uno studioso dell’immigrazione. La ritiene un fenomeno storico, o un diritto di ogni essere umano?
«Il problema è tutto qui. Emigrare, andare via in cerca di salvezza o di miglior fortuna, è un diritto naturale, che per fortuna oggi viene generalmente riconosciuto. Entrare in un altro Paese è tutta un’altra questione. Gli animali difendono il loro territorio. E le persone spesso si comportano alla stessa maniera».
Senza riuscirci?
«La mia analisi sulla politica americana giunge a questa conclusione: arrestare i flussi di immigrazione è impossibile. Abbiamo costruito una barriera difensiva sulla frontiera con il Messico che nel ‘92 costò 326 milioni di dollari e nel 2010 è arrivata a farcene spendere 2958. Si sono lanciate operazioni di sapore bellico senza alcun risultato. Anzi, l’immigrazione illegale è aumentata. Questa era la politica di Clinton. Ora con un altro presidente democratico, Obama, si è inasprita la pressione su quanti sono entrati nel Paese, fino alla vera e propria privazione dei diritti elementari. E anche qui senza risultati perché l’idea di essere disumani con gli immigrati non fa parte della cultura americana».
Se ce la fai a passare, magari a prezzo della vita, poi ti tratto bene. Non è ipocrita?
«Semmai è un atteggiamento schizofrenico. Se non vedi che cosa succede alla frontiera, stai tranquillo. La parte sinistra del cervello ti dice: sono illegali. La parte destra invece ti ripete: sono immigrati, e noi siamo un Paese di immigrazione. È un atteggiamento molto americano, ma mi piace ricordare quel che disse Max Frisch, lo scrittore svizzero, a proposito proprio degli immigrati italiani del dopoguerra: abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini».
E da uomini vanno trattati.
«A questo punto non li puoi espellere. Anche perché non serve a nulla. Ritornano. Anni fa propendevo per una maggior tutela dei confini. Ora dico: accettiamo il fatto che sono qui. Il confine resta un elemento simbolico, ma di lì in poi lasciamo che gli Stati, parlo degli Usa, competano. Gli immigrati si spostano, gli Stati “cattivi” perdono forza lavoro, quelli “buoni” ne guadagnano».
Anche con la recessione e la crisi mondiale?
«Certo non è un buon periodo per mettere mano alle legislazioni. Però resta vero che quella americana ha fallito. Alla fine, il numero degli immigrati non è un problema. Sono semmai le leggi sbagliate che lo fanno crescere. Dobbiamo riconoscere che non c’è modo di impedire alla gente di spostarsi, e nel caso di venire in America. Ai miei studenti faccio spesso l’esempio di Al Capone: in pieno proibizionismo, i suoi camion di whisky arrivavano regolarmente a destinazione. So che è una posizione molto controversa, ma non ci posso far nulla».
Vale anche per l’Europa?
«Forse voi pagate ancora una mentalità imperiale. Arrivano dalle vostre ex colonie, questo può provocare un senso di superiorità, sbagliato. In America è diverso. E poi, sa quando la frontiera del Rio Grande ha cominciato a diventare un problema? Nel ‘24, quando si bloccò l’immigrazione soprattutto di cinesi e giapponesi per la costruzione delle ferrovie. I messicani prima, e gli altri latino-americani subito dopo, presero semplicemente il loro posto».
Ma una politica delle porte aperte regge dal punto di vista economico?
«Le rispondo con una battuta che circola fra gli economisti: sul Rio Grande le imprese che lavorano alla barriera col Messico si bloccano improvvisamente. Che è successo? Semplice: non ci sono più clandestini da far lavorare».

il Fatto 28.10.11
Giustizia finale per i desaparecidos ergastolo all’“angelo della morte”
Condanne a vita per i torturatori argentini
di Anna Vullo


Buenos Aires. Ergastolo. Il verdetto risuona, per ben 12 volte, nel-l’aula gremita del tribunale Federale 5 di Buenos Aires. I familiari dei desaparecidos si abbracciano con gli occhi lucidi, invocano il silenzio per essere sicuri di avere sentito bene. Sopra di loro, nella galleria affollata di parenti e simpatizzanti dei militari, mogli, figli e sorelle scuotono il capo. “Terroristi, sovversivi”, grida qualcuno.
Sono le 8 e 30 di mercoledì sera quando, dopo quasi due anni di dibattimento, viene letta la sentenza del processo per una parte dei crimini commessi all’Esma, l’ex Scuola di Meccanica della Marina, negli anni della dittatura (1976-1983).
TORTURE, sequestri, omicidi, abusi sessuali, persino violenze contro bambini sequestrati assieme ai loro genitori. Crimini contro l’umanità di cui sono accusati 18 repressori che facevano parte del gruppo operativo dell’Esma, uno dei principali centri di tortura all’epoca della dittatura, tra cui l’ex capitano di corvetta Alfredo Astiz, detto l’“angelo biondo” o “angelo della morte”, simbolo dell’orrore di quegli anni, e Jorge “el Tigre” Acosta, responsabile operativo del principale centro clandestino della Marina.
Per loro e altri 10 militari la sentenza più dura: carcere a vita. Una sentenza giusta, che chiude una delle pagine più buie della storia argentina, restituendo dignità ai parenti delle migliaia di desaparecidos e senso a una lotta di oltre trent’anni per ristabilire la verità sul destino dei loro cari. Altri 4 sono stati condannati a pene tra i 18 e i 25 anni, due assolti ma resteranno in carcere perché coinvolti in altre cause.
Quello che si è appena concluso è un processo-simbolo, anche se riguarda solo una piccola parte degli omicidi e dei crimini commessi all’Esma, perché verte su fatti di enorme ripercussione non solo in Argentina, come il sequestro, l’omicidio e la scomparsa di un gruppo di genitori di desaparecidos - conosciuto come il gruppo della Chiesa di Santa Cruz - tra i quali la presidentessa delle madri di Plaza de Mayo di allora Azucena Villaflor, e due monache francesi, Alice Domon e Leonie Duquet, che assistevano le vittime nelle ricerche dei familiari scomparsi. Un sequestro di massa reso possibile dalle informazioni fornite da Astiz, che si infiltrò nel gruppo fingendosi fratello di un desaparecido.
OLTRE A QUESTI sono stati esaminati i casi di altre 86 vittime della repressione, tra cui quello celeberrimo di Rodolfo Walsh, icona del giornalismo militante dell’epoca e autore di una lettera alla giunta militare in cui denunciava gli orrori della dittatura. Una lettera che gli costò la vita. Gli imputati accolgono la sentenza in silenzio, lo sguardo immobile, bersagliati dai flash dei fotografi. Ergastolo per Antonio Pernias, tra i torturatori più crudeli; ergastolo per Adolfo Miguel Don-da, che si appropriò della bambina di suo fratello, Victoria, una delle tante figlie di desaparecidos che hanno recuperato la propria identità solo di recente. Poi altri nomi: Nestor Savio, Jorge Radice, Raul Scheller, Ricardo Cavallo, Julio Cesar Coronel, Ernesto Weber, Alberto Gonzalez, Oscar Montes.
Piange Miriam Lewin, sopravvissuta alle torture e testimone-chiave in numerosi processi. Stringe mani Estela Carlotto, presidentessa delle Nonne di Plaza de Mayo, cui la dittatura ha portato via una figlia e il suo bebè, un nipote che Estela continua a cercare. Fuori dal tribunale applaudono e gridano e cantano gli Hijos, i figli di desaparecidos, generazione di ragazzi cresciuti senza padri. Vengono scanditi i nomi dei compagni scomparsi: “Presente!” risponde il pubblico.
L’Esma è un edificio immacolato su avenida Libertador – ora sede di un centro della memoria - di fronte a condomini abitati dalla borghesia di Buenos Aires: ai tempi in cui le Ford Falcon vi scaricavano ogni giorno decine di detenuti nessuno vedeva niente, nessuno sentiva niente. Si calcola che vi siano state imprigionate almeno 5mila persone. Ne sono usciti vivi in meno di 200.
Alcuni di loro hanno testimoniato al processo e visto in faccia per la prima volta i loro torturatori. Come Miriam Lewin, giornalista, sequestrata dall’Esercito e poi finita all’Esma, la cui figura di spalle compare nelle prime, agghiaccianti immagini del processo contro la giunta militare avviato dal presidente Alfonsin con il ritorno alla democrazia, nel 1983. E poi di fatto reso vano dalle leggi dell’obediencia debida e del punto final. “È stata una sensazione impagabile vedere gli imputati ascoltare il verdetto in manette”, commenta Lewin. “Quanta malvagità in una sola fila di sedie”.
PER ESTELA Carlotto “dopo tanti anni, giustizia è fatta”. “I colpevoli sono stati giudicati senza odio, con i mezzi concessi da un Paese democratico. Ora pensiamo ai nostri figli e continuiamo a lottare per ritrovare in nostri nipoti”. Quella dell’altra sera è una vittoria anche del governo: è stato Nestor Kirchner, nel 2003, a rendere inconstituzionali le leggi promulgate da Alfonsin e il successivo indulto di Menem, permettendo la riapertura dei principali processicontroicriminidelladittatura. L’attuale presidenta Cristina Kirchner ha continuato il suo cammino appoggiando pubblicamente i familiari dei desaparecidos.
Prima di lasciare l’aula Alfredo Astiz si appunta sul petto una coccarda con i colori dell’Argentina. Si volta verso i familiari delle vittime e rivolge loro un sorriso sprezzante. La banalità del male. La macchina da guerra programmata per “uccidere politici e giornalisti”, ma anche tanti ragazzi che si affacciavano alla vita. Condannato a finire i suoi giorni in un carcere comune.

il Fatto 28.10.11
Gli uomini-topi intrappolati in Israele
I lavoratori clandestini palestinesi tra rifugi e persecuzioni
di Roberta Zunini


Tel Aviv - Tulkarem Niente più tende, né raduni all'interno del grande palazzo abbandonato di Roshild avenue, uno dei viali principali di Tel Aviv: la polizia municipale della capitale amministrativa israeliana, l'altro ieri ha preso a calci e spintoni i giovani che cercavano di difendere le ultime tende. Dove, da quattro mesi, centinaia di cittadini, sono accampati per protestare contro la politica. Ma i due comitati che hanno guidato la protesta sociale non si danno per vinti. Domani si tornerà a manifestare nelle città principali: appuntamento simultaneo alle 9 di sera, nelle piazze principali di Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa e Bersheva. “E questa volta parteciperanno anche molti arabi israeliani – dice al Fatto Stav Shaffir, la giovane leader della rivolta sociale - che stanno messi peggio di noi. Vivono in case terrificanti, perché non hanno abbastanza soldi per pagare gli affitti mostruosi di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme. A loro noi ebrei israeliani riserviamo del resto i lavori più umili e mal pagati”. C'è chi conosce bene lo sfruttamento degli arabi-palestinesi israeliani e cisgiordani. E non solo da parte degli ebrei israeliani. “Anche gli arabi israeliani sfruttano gli uomini-topi. Sono stato per anni uno di loro e gli arabi con nazionalità israeliana non sono stati certo solidali con noi: ci avrebbero sfruttato il doppio degli ebrei, facendoci dormire per strada”. Amed Dea (nome di fantasia per proteggerlo da eventuali ritorsioni) è un 35enne palestinese biondo con gli occhi azzurri, tornato nella sua città natale - Tulkarem in Cisgiordania - dopo aver tentato di trovare lavoro a Tel Aviv per 8 anni, entrando clandestinamente da Israele, attraverso le colline che da Betlemme portano alla “terra promessa”.
PER MESI ha dormito sotto il ponte di Hewara, a pochi chilometri da Tel Aviv, nei grattacieli in costruzione, nei livelli più bassi dei parcheggi sotterranei. Con lui c'erano decine d’immigrati clandestini cisgiordani. Oggi ci sono anche gli immigrati sudanesi ed eritrei. “Ma loro entrano dal confine sud con l'Egitto. Stanno sicuramente peggio di noi, ma anch'io ho passato dei bruttissimi momenti”. Abdel è finito in carcere più volte.
 “Lo vedi quell'uomo – mi indica furtivamente un signore di mezza età che sosta come in attesa di qualcuno o qualcosa, fuori dalla porta della sua tavola calda – quello è uno dei palestinesi che trasporta, dietro lauto pagamento, i ragazzi che vogliono provare a entrare clandestinamente in Israele per lavorare”. Esiste una rete capillare di autisti che conducono questi poveri cristi fino a Betlemme. Una volta lì dovranno cavarsela da soli. Una volta entrati in Israele – se ce la fanno – vengono contattati da altri trafficanti di esseri umani che li propongono a datori di lavoro. “All'inizio pensavo che la cosa migliore fosse rivolgermi agli arabi israeliani ma poi ho capito che mi facevano lavorare di più a metà salario. Così ho provato ad andare nei ristoranti degli ebrei israeliani e lì ho sempre lavorato come cuoco. Ma alla fine arrivavano sempre gli ispettori della municipalità e io finivo in carcere. Ogni volta il periodo di detenzione aumentava. Dopo l'ultimo arresto mi sono fatto 6 mesi di galera senza poter essere contattato dai miei familiari. Ma a chi ci dava lavoro, nonostante fossimo clandestini, talvolta non veniva fatta nemmeno una multa”. Amed ha ancora amici clandestini a Tel Aviv e ci dà alcuni contatti, dietro rassicurazioni scritte e dopo aver parlato con noi per mezza giornata. Nella zona della stazione centrale dei bus di Tel Aviv ci viene incontro un ragazzo di 24 anni, anche lui biondo, la pelle chiarissima. Non sembra un arabo israeliano, né un arabo cisgiordano (palestinese) piuttosto un ebreo askenazi.
“Quando esco dal lavoro vado subito al parcheggio. Andiamo in fretta per favore, non voglio rischiare l'arresto”. Scendiamo e troviamo in una sorta di intercapedine tra i muri, una decina di giacigli luridi. Tre ragazzi si alzano ed escono. Non si fidano, non vogliono parlarci. Un altro emerge dagli stracci: “Mi dispiace ma sta per iniziare shabbat e io devo correre per andare dalla mia famiglia”. La sua casa in linea d'aria è a meno di cento chilometri ma si trova in Cisgiordania e gli ci vorrà almeno un giorno di cammino più mezza giornata di pulmino per arrivarci. “Voglio andare a vedere mia figlia appena nata. Ci devo provare almeno”. E se ti scoprono? “Inshallah”.

il Fatto 28.10.11
Confucio, l’ultimo prodotto da esportazione di Pechino:
dopo le merci, “vendere” la cultura
di Simone Pieranni


Pechino. La Cina da fabbrica del mondo, è pronta per il passaggio più arduo: diventare un cantiere culturale globale ed esportare prodotti culturali e stili di vita.
L'ultima riunione annuale del Comitato Centrale del Partito comunista ha lanciato una riforma per preparare, apparentemente, il paese al cambio politico che si verificherà nel 2012. In realtà, la Cina ha ormai assunto il ruolo di leader economico del pianeta e come tale si sente chiamata a svolgere un ruolo culturale di estrema rilevanza. Per sostenere il benessere economico, secondo i leader del paese, serve una nazione in grado di reggerne l'urto culturale. La trama disegnata dai 300 membri del Comitato Centrale va in due direzioni: internamente si tratta di consolidare un controllo ideologico in grado di disegnare una nuova morale, all'esterno significa tratteggiare un soft power in grado di esportare nel mondo non solo prodotti, bensì un'immagine della Cina in grado di sostenere le accuse, le critiche esterne e replicare con la proposizione di un modello culturale.
IL CENTRALISMO democratico è quanto forse oggi rimane dei fasti comunisti, e data la premessa, ovvero il documento finale del Comitato Centrale, il resto del corpo politico e sociale si riversa a eseguire gli ordini. Tempo fa hanno cominciato politici o personalità in vista del mondo economico, attraverso articoli ed editoriali con cui per la prima volta la Cina ha provato a spiegare al resto del mondo le ragioni delle proprie scelte. Uno degli ultimi esempi è arrivato dal consigliere di Stato Dai Bingguo, che durante la sua visita nel Regno Unito ha scritto sul The Daily Telegraph un articolo circa la crescita “pacifica” della Cina, spiegando che “i cinesi hanno sofferto l’aggressione straniera e non sono intenzionati a infliggere tali sofferenze ad altri popoli”. Il 23 giugno, anche il premier Wen Jiabao ha scritto un articolo sul Financial Times spiegando di essere sicuro circa le possibilità cinesi di contenere l’inflazione. Si tratta di una campagna internazionale di pubbliche relazioni. In Italia dal 16 novembre Sky trasmetterà una fiction cinese, ma più in generale, i cinesi si stanno concentrando proprio sul cinema: “L’industria cinematografica cinese, la terza al mondo, ha bisogno di entrare nel mercato estero, aiutando il pubblico straniero a capire meglio l’essenza della nostra cultura”, ha specificato il professor Huang Shixian della Beijing Film Academy. Non solo cinema, perché nel disegno del soft power cinese, insieme agli istituti Confucio presenti in ogni angolo di mondo, Pechino sembra voler scomodare anche il taoismo: Ren Farong, presidente dell’Associazione taoista, ha detto che il Taoismo dovrebbe essere visto come l'essenza del suo soft power all'estero.
Sulla nuova riforma culturale della Cina è intervenuta anche Hu Shuli, battagliera giornalista cinese, spesso spina nel fianco del potere politico: “Una nuova economia richiede una nuova cultura, capace di incoraggiare il rispetto per tolleranza e cooperazione culturale. Questo è ciò che farà guadagnare il rispetto della Cina agli occhi delle altre nazioni”.

La Stampa 28.10.11
Dare una mano all’Europa è nell’interesse della Cina
di Wei Gu


La Cina ha buoni motivi per aiutare l’Europa senza condizioni. Il mese scorso, il premier Wen Jiabao aveva affermato che un impegno del fondo cinese potrebbe dipendere da certi benefici, ossia che l’Europa garantisca al Paese lo stato di «economia di mercato». Ma in quanto maggiore beneficiario del commercio globale, è nell’interesse della Cina fare il necessario per aiutare l’Eurozona a tornare alla stabilità.
Secondo l’ufficio di statistica dell’Ue, a luglio la Cina ha superato gli Stati Uniti ed è diventata il più grande partner commerciale dell’Unione europea. Con i legislatori statunitensi che stanno discutendo se imporre tariffe sulle esportazioni cinesi, la Cina è costretta a sostenere le sue esportazioni verso l’Ue. Gli europei in difficoltà compreranno meno dalla Cina e potrebbero essere più propensi a unirsi agli Stati Uniti nella ricerca di un capro espiatorio in Oriente.
Pechino ha già acquistato obbligazioni emesse dal Fondo europeo di stabilità finanziaria, con rating di tripla A. Ma questo non è abbastanza. Il presidente francese Nicolas Sarkozy dovrebbe parlare con la sua controparte cinese il 27 ottobre, mentre il responsabile dell’Efsf (Fondo europeo di stabilità finanziaria) dovrebbe andare in Cina il giorno dopo. Entrambi potrebbero chiedere alla Cina di investire una parte dei suoi 3,2 trilioni di dollari di riserve valutarie in uno speciale veicolo per il debito in sofferenza.
Con una posizione così debole dell’Ue, Pechino potrebbe insistere per ottenere maggiori benefici. La Cina potrebbe impossessarsi di porti e risorse direttamente, ma se la Cina fa troppa pressione, i Paesi dell’Eurozona potrebbero impuntarsi, svalutare l’euro e arrangiarsi da soli.
Inoltre, offrire aiuto senza condizioni avrà il vantaggio di far accettare prima o poi Pechino come economia di mercato: la Cina sta già diversificando la sua economia riducendo le esportazioni, il che ha diminuito la sua eccedenza della bilancia delle partite correnti dal 5,2% del Pil nel 2010 al 2,8% nel primo semestre del 2011.
Per approfondimenti: http://www.breakingviews.com/ (Traduzioni a cura del Gruppo Logos)

Corriere della Sera 28.10.11
Pechino prepara 100 miliardi ma fissa nuove condizioni
di Danilo Taino


Il destino della Cina è di fare sempre paura. Con una decisione che in sé ha qualcosa di storico, l'Europa la chiama, le chiede di aiutarla comprando titoli pubblici del Vecchio Continente. Il presidente francese Nicolas Sarkozy telefona, ieri, a Hu Jintao, numero uno a Pechino, sperando che al prossimo vertice del G20 questi si impegni nel fondo di aiuti ai Paesi europei in crisi. Ma il rovesciamento di duecento anni di storia — le potenze europee che tornano a inchinarsi all'imperatore celeste — manda brividi di nervosismo: dopo una lunga marcia passata dalle campagne — l'Africa, il Sudamerica, l'Est un tempo sovietico — gli ex maoisti si avvicinano ora alla città, al pezzo pregiato sulla scacchiera.
Il presidente Hu non ha preso impegni con Sarkozy, anche se il Financial Times parla di un possibile contributo pari a 100 miliardi di dollari: spera che la soluzione trovata ieri mattina dal vertice dell'Eurozona «promuova la ripresa economica e lo sviluppo». Per ora, niente di più. Pechino siede su 3.200 miliardi di dollari di riserve accumulate con surplus commerciali di anni, ma non ha intenzione di prendere rischi, prima vorrà vedere i dettagli del piano di salvataggio dei leader europei. Poi deciderà, ma non è il caso di trattenere il fiato: difficilmente farà molto se avrà dubbi finanziari o politici. L'Europa, comunque, ci prova. Oggi Klaus Regling, il capo del Fondo salva Stati Efsf, sarà a Pechino, prima tappa di un road show mondiale tra gli investitori potenziali, per spiegare le decisioni prese ieri a Bruxelles. E a Parigi, in un momento di comicità, il ministro della Difesa francese Gerard Longuet si è lasciato andare: «I cinesi comprano dollari, ora vogliono comprare euro — ha detto — Questo significa che hanno più fiducia nel futuro dell'Europa e della sua valuta che nel futuro degli Stati Uniti». Gli entusiasmi si fermano però qui.
Più seriamente, il commissario europeo all'Economia, Olli Rehn, ha messo la questione in termini rovesciati. Ha detto che un contributo di Paesi emergenti «avrebbe conseguenze politiche molto ampie» e «significherebbe che i cinesi, i russi e i brasiliani avrebbero indirettamente un posto al tavolo dell'Eurozona». Una decisione strategica «da non sottovalutare». Anche da Berlino sono arrivati inviti a non strafare: i cinesi non fanno niente per niente e sono spesso arroganti. Qualche giorno fa, per dire, il presidente del fondo sovrano cinese, Jin Liqun, ha avuto parole chiare: «L'Eurozona è una di alcune entità politiche ed economiche che si aspettano la carità dalla Cina e dai mercati emergenti. Noi vi rispettiamo, per favore rispettate voi stessi». Di fronte alla crisi del debito, in effetti, l'autostima degli europei sta piuttosto vacillando.
Più in concreto, se l'aiuto cinese arriverà sarà condizionato a concessioni, alla possibilità di fare acquisizioni industriali e bancarie in Europa e a non essere disturbati. Ancora il mese scorso, il premier Wen Jiabao ha ribadito che la Cina si aspetta che l'Europa le riconosca lo status di economia di mercato. È qualcosa che i cinesi avranno automaticamente nel 2016, ma vorrebbero prima. Non per prestigio, ma perché non essere considerati economia di mercato comporta una penalizzazione quando si devono stabilire i prezzi equi nei casi di dispute antidumping. In qualche modo, Pechino vuole che i membri della Ue la smettano di sollevare questioni di concorrenza sleale (e magari di copyright).
Il fatto è che, davanti agli europei con il cappello in mano, il nuovo status la Cina lo ha già conquistato: è semplicemente al vertice della gerarchia finanziaria del mondo. Paura?

Repubblica 28.10.11
"Sono i Romanov" Cade il mistero sugli ultimi zar
La Chiesa Ortodossa non ha mai riconosciuto le indagini e i test genetici
di Nicola Lombardozzi


La commissione speciale di Mosca ha emesso il suo verdetto: "I resti di Nicola II e della sua famiglia sono autentici" Ma resta il giallo sui mandanti. Non ci sono prove che l´ordine sia partito da Lenin, come ritengono molti storici

Che riposino in pace i fantasmi dello Zar e della sua famiglia, giustiziati una notte di luglio del 1918 da un plotone d´esecuzione bolscevico. Dopo anni di misteri, fantasiose ricostruzioni e sensi di colpa più o meno giustificati, la Russia ha deciso di mettere la parola fine a un´epopea che appariva interminabile. La speciale commissione d´inchiesta governativa ha consacrato la chiusura dei suoi lavori con la solenne consegna di un lungo documento e di ben 28 volumi di reperti e verbali, al pomposo avvocato della Real Casa Aleksandr Zakatov, rappresentante della capofamiglia granduchessa Maria Vladimirovna Romanova.
Le conclusioni sono quelle già note da tempo ma fino ad ora mai messe ufficialmente per iscritto: i resti di Nicola II, della moglie e dei figli, ritrovati nei pressi di Ekaterinenburg 93 anni fa, sono autentici. Ufficialmente false dunque tutte le voci e le leggende nate su presunte fughe o su personaggi sfuggiti al massacro. Più vago resta semmai il mandante. La decisione di sterminare la famiglia imperiale detenuta nella fatiscente casa Ipatevskij sarà attribuita solamente al soviet regionale degli Urali che ne aveva la responsabilità della detenzione. Non ci sono prove, infatti, che l´ordine sia venuto direttamente da Lenin come molti storici ritengono certo. Nonostante testimonianze eccellenti, come quella di Lev Trotskij, i giudici inquirenti non hanno rintracciato una sola prova che possa accusare, seppur tardivamente il Padre della Rivoluzione. «È probabile - ammettono - che l´ordine sia stato orale e comunque mai registrato ufficialmente proprio per non indicare le responsabilità dei vertici dello Stato».
Di certo quell´esecuzione fece tirare un sospiro di sollievo al Cremlino nel pieno dell´invasione delle guardie bianche controrivoluzionarie che si temeva potessero liberare "Nicola il sanguinario e i suoi eredi".
Che la vicenda sia definitivamente chiusa non è poi del tutto chiaro. Restano ancora aperte questioni difficili da sanare. Innanzitutto l´atteggiamento della Chiesa Ortodossa russa che non ha mai riconosciuto il valore delle indagini e dei test genetici effettuati dai magistrati. Già nel 1998, quando Boris Eltsin volle a tutti i costi far seppellire i resti dei Romanov nella fortezza di San Pietro e Paolo a San Pietroburgo, il Patriarca e tutte le sue alte gerarchie disertarono la cerimonia «in attesa di accertamenti più attendibili». Né ha mai dato notizia di inchieste alternative e di approfondimenti, nemmeno dopo la decisione di canonizzare Nicola II e tutti gli altri "martiri del comunismo". La cosa ha conseguenze imbarazzanti. Se non altro per la sorte di altri due corpi ritrovati solo qualche anno fa nelle foreste vicino a Ekaterinenburg. I test e i giudici confermano che si tratta dei due corpi mancanti che fecero alimentare le tante ricostruzioni: quello della granduchessa Maria e dell´ultimogenito Aleksej. Avevano 19 e 14 anni al momento della fucilazione. Adesso riposano in due casse da laboratorio nel seminterrato del centro di medicina legale di Ekaterinenburg in attesa che il Patriarca esprima un parere che ne possa autorizzare la sepoltura insieme agli altri familiari. Il governo di Vladimir Putin, che da tempo ha stretto un´alleanza sempre più forte con la Chiesa, non ha alcuna intenzione di forzare la mano senza un parere ufficiale. L´avvocato della Casa Reale, discretamente fa sapere: «Se la Chiesa volesse cambiare la sua posizione, ne saremmo molto lieti».

Repubblica 28.10.11
Viaggio nel dizionario delle relazioni (lessicali)
di Valerio Magrelli


Risponde alle nostre lacune espressive: basta conoscere un termine collegato a quello che ci manca
Ci insegna a passare da "pedale" a "calzolaio" da "lemma" a "pappagallo"
Esce per Zanichelli un vocabolario analogico "portatile": non per cercare parole che già possediamo ma per trovare quelle rimaste sulla punta della lingua

Il punto di partenza è elementare. Un dizionario si può consultare in due modi: conoscendo il termine di cui andiamo a caccia, oppure non conoscendolo, e avendo solo una vaga idea della sua esistenza. Del primo caso si occupano i dizionari tradizionali, del secondo, quelli come il Dizionario Analogico della Lingua Italiana di Donata Feroldi e Elena Dal Pra (Zanichelli, pagg. 960, euro 59), ultima novità "portatile" in questo campo: due anni fa Utet aveva pubblicato una grande opera diretta e curata da Raffaele Simone di ben 3.900 pagine.
La differenza è la stessa che passa fra una ricerca verticale e una orizzontale. Esaminiamo dunque quest´ultima: quante volte, mentre stiamo esponendo un concetto, la parola che serve a esprimere il nostro pensiero ci sfugge, malgrado sappiamo che esista? È proprio qui che interviene l´"analogico": non per cercare qualcosa che già possediamo, ma per trovare quello che ignoriamo. Insomma, per dirla con un titolo dello scrittore francese Pascal Quignard, questo tipo di libri serve a rintracciare le parole rimaste "sulla punta della lingua".
La differenza fra le due famiglie di vocabolari viene chiarita nella presentazione, firmata dalla prima autrice (essendosi la seconda occupata di poco più di un decimo dell´opera). Per ricorrere all´analogico, basta essere in possesso di un termine collegato a quello che ci interessa, o anche soltanto sapere a quale ambito disciplinare esso appartenga. Piuttosto che all´ignoranza del significato di un elemento noto, questo strano strumento (alla stregua di un dizionario dei sinonimi e contrari, che non a caso ne costituisce l´antecedente) risponde a una lacuna espressiva. I suoi fruitori ideali saranno dunque tutti coloro che hanno la necessità di trovare "le parole per dirlo" (e questa volta il riferimento è a un romanzo autobiografico della francese Marie Cardinal).
Ma in che modo funziona questa scatola magica? Abbiamo parlato della sua orizzontalità, ed è proprio questo tipo di configurazione a consentire di attraversarne le pagine in una specie di surf lessicale, scivolando leggeri da un termine all´altro. Facciamo un esempio vicino alla cronaca: "corruzione" (da adesso in poi, e me ne scuso, dovrò fare a meno delle virgolette, che altrimenti infesterebbero il resto dell´articolo). Si arriva subito al verbo corrompere, e a cinque sostantivi: favore, reato, vizio, peccato, malavita. Imbocchiamo la strada del peccato, e ci troviamo davanti a un ventaglio di caratteristiche (una ventina di voci, da piccolo a grave, da turpe a mortale), di azioni (una trentina di verbi fra cui tentare, trasgredire, pentirsi) e di persone (con penitente e confessore). Ma non tralasciamo la coda, dove è questione di diavolo, religione, sacramenti e inferno. Morale: la via della corruzione porta dritta alle fiamme.
Scegliamo poi un oggetto concreto: pedale. Finiremo in un attimo in motocicletta, bicicletta e automobile, ma ci imbatteremo anche in strumenti musicali e, curioso davvero, calzolaio. Seguendo quest´ultima pista, incontriamo in effetti i suoi strumenti, dalla lesina al deschetto, con tanto di pedale e tirasuole. Scopriremo così l´espressione torace da calzolaio, per indicare un petto infossato.
Prendiamo infine un termine più astratto: parola. Ecco venire fuori, a bruciapelo, una serie composta da: motto, termine, vocabolo, voce, lemma. Dopo questo livello, appare il più complesso occorrenza, quindi, meno ostici, paroletta, parolina, parolona, parolone e parolaccia, su su fino agli ardui locuzione, polirematica e sintagma. Seguono le caratteristiche del nostro vocabolo (un centinaio di aggettivi), poi cinque generi di tipi (in base all´accento, alla lunghezza, alla forma, al significato e alla formazione). Da qui ci si sposta per vedere le parti che lo compongono (ad esempio la sillaba), le discipline che lo studiano (ad esempio la linguistica), le persone che se ne occupano (ad esempio il semiologo) le azioni cui dà vita (ad esempio il ripetere pappagallescamente), gli strumenti che lo riguardano (ad esempio il libro) e per terminare i modi di dire (ad esempio dare la propria parola). Per i più curiosi, segnalo che nella voce successiva, paroliere, troviamo come rinvii canzone, musicista e, a chiudere, il cerchio parola.
Ma non posso concludere senza un accenno personale. Traduttrice, critica e teorica della letteratura oltreché lessicografa. Donata Feroldi si è laureata in filosofia con una tesi intitolata "Il significato dell´orrore". Un´indagine teoretica sul significato del termine. Era il 1991 quando mi capitò di leggerla, e ne rimasi assai colpito. Infatti, sin da allora, la ricerca della studiosa appariva impostata come un ipertesto, ossia «un insieme di nodi connessi da legami, dove le informazioni non sono legate linearmente, come su una corda a nodi, ma estendono i loro legami a stella, con una modalità reticolare». Insomma, già da vent´anni Donata Feroldi si muoveva secondo i protocolli dell´attuale Dizionario Analogico della lingua italiana.
Un simile approccio generava molte sorprese. Scoprii così che orrido proviene dal latino horreo (per indicare il rizzarsi dei peli), seppi che dalla stessa radice proviene il francese ordure (cioè spazzatura), mi accorsi della parziale coincidenza dell´etimologia di orrore con quella di raccapriccio e capriccio (forse da capo riccio), mi resi conto che ribrezzo è un derivato di brezza (in riferimento al vento che fa rabbrividire), realizzai che il vocabolo schifo è collegato al verbo schifare (nel senso di schivare, evitare), e giunsi al gran finale di un´interpretazione globale, secondo cui l´orrore si rivelava come «essere confrontati con l´origine», perché «l´orrore è esperienza limite in tutti i sensi e secondo tutte le topografie culturali».
Credo che quella tesi ebbe la lode. Certo, oggi è difficile resistere alla tentazione di pensare che, mentre un tempo l´università pubblica serviva a studiare l´orrore, domani si limiterà a praticarlo, sotto forma di un insegnamento depauperato, svalutato e privatizzato.

La Stampa 28.10.11
Addio a Hillman così si muore da filosofo antico
Il grande psicanalista americano si è spento a 85 anni Malato di cancro, ha rinunciato alla morfina per ragionare fino all’ultimo con i discepoli sulla sua esperienza estrema
di Silvia Ronchey


UN NUOVO MODO DI PENSARE "Ci dava non solo le risposte ma le domande. Le correggeva, le guariva dalla loro inerzia"

UN TACCUINO VICINO AL LETTO La moglie trascriveva le parole che pronunciava nel sonno per poi analizzarle insieme

DOMANI SU TUTTOLIBRI L’ultima intervista di Hillman
L’ultima intervista con Hillman, realizzata tre settimane fa da Silvia Ronchey. Nel labirinto di Pahor: il sogno della doppia Trieste. Storia, mitologia, curiosità del telefono. La classifica dei libri. Le letture di Alessandro Spina, scrittoreimprenditore testimone della Libia.

THOMPSON (CONNECTICUT) «James è morto questa mattina a casa, a Thompson. È rimasto fedele a se stesso fino alla fine». Così, dal Connecticut, in un messaggio email indirizzato ai famigliari e agli amici più stretti, Margot McLean ha annunciato ieri la scomparsa di suo marito, James Hillman. Il grande psicanalista americano, nato a Atlantic City 85 anni fa, era da tempo malato di cancro. In un altro messaggio di pochi giorni fa la moglie aveva informato che «James ci sta lasciando con magnifica grazia», e in un altro ancora aveva scritto che «parla in molte lingue, a volte per tutta la notte. Sorride e continua a essere incredibilmente spiritoso».
Lo psicanalista e filosofo americano James Hillman era nato nel 1926. Allievo di Carl Gustav Jung, è stato il fondatore della psicologia archetipica. È autore di oltre venti libri tradotti in 25 lingue I 10 libri fondamentali Il suicidio e l’anima (Suicide and the Soul, 1964), Astrolabio-Ubaldini 19992; Adelphi 2010 Saggio su Pan (An Essay on Pan, Adelphi 19822 1972), Il mito dell’analisi (The Myth Adelphi 19913 of Analysis, 1972), Re-visione della psicologia (Re-visioning Psychology, 1975), Adelphi 19922 Il sogno e il mondo infero (The Dream and the Underworld, 1979), a cura di Bianca Garufi, Ed. di Comunità, Milano 1984; Il Saggiatore, Milano 19962; Adelphi 2003 Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino (The Soul’s Code, 1996), Adelphi 1997 L’anima del mondo (con Silvia Ronchey), Rizzoli 1999; Bur 20042 La forza del carattere: la vita che dura (The Force of Character and the Lasting Life, 1999), Adelphi 2000 Il piacere di pensare (con Silvia Ronchey), Rizzoli 2001; Bur 2004 Un terribile amore per la guerra (A Terrible Love of War, 2004), Adelphi 2005
“Socrate, sei come una torpedine marina. Quando parli dai la scossa», è scritto in un dialogo di Platone. James Hillman, fra i massimi pensatori dei nostri tempi, aveva una personalità socratica. Ci insegnava a conoscere noi stessi, secondo il motto inciso sul marmo di Delfi. Si metteva sempre in contrasto con l’opinione corrente. E aveva una grande esperienza nel dialogo. Ogni volta che si dialogava con Hillman ci si trovava in contatto con quell’ironia socratica, quella capacità di rovesciare ed elettrizzare ogni discorso, che è propria di chi ha inventato un nuovo pensiero e un nuovo modo di far pensare gli altri, sovvertendo completamente le loro abitudini logiche e psicologiche. Hillman ci dava non solo e non tanto le risposte, Hillman ci dava le domande. Correggeva le nostre domande, le guariva dalla loro inerzia e dalla loro patologia.
Da anni aveva scelto di psicanalizzare non più singoli pazienti, ma tutti noi. Era un terapeuta della psiche collettiva, aveva preso in cura l’Anima del Mondo. Meraviglioso scrittore, ispirato oratore nelle prodigiose conferenze tenute per tutta la vita in tutto il mondo, Hillman era un cosmopolita. Aveva studiato alla Sorbona e a Dublino, era stato allievo di Jung a Zurigo, alla sua morte aveva diretto lo Jung Institut. Conosceva non solo molte lingue - incluse quelle morte, come il greco antico degli dèi pagani che amava e frequentava - ma anche il linguaggio dell’inconscio, la lingua dei sogni, il dialetto dei simboli e delle immagini. Non era solo «cittadino del kosmos », del mondo ordinato del visibile, ma anche e forse soprattutto un cittadino del sottomondo , di quell’universo di fantasie, archetipi e miti, di quell’universo sotterraneo, fatto a strati come le rovine dell’antica Troia scavata da Schliemann, che sta dentro ognuno di noi, e che sta anche intorno a noi, sebbene pochi sappiano vederlo.
A questo secondo kosmos di cui era cittadino Hillman aveva dedicato i suoi molti libri, pubblicati in tutte le lingue, che hanno fatto dell’autore stesso un mito. Sono veri capisaldi del Novecento libri come Il suicidio e l’anima o il Saggio su Pan oIl mito dell’analisi o la Re-visione della psicologia oIl sogno e il mondo infero , per non parlare degli ultimi grandi bestseller internazionali, dal Codice dell’anima aLa forza del carattere aUn terribile amore per la guerra . Chi ha letto i libri di Hillman sa che chi li aveva pensati e scritti non era solo uno scrittore e un pensatore, ma era, come lo aveva definito un celebre critico americano, «uno dei più veri e profondi guaritori spirituali del nostro tempo». Era questo che faceva, con i suoi libri, le sue conferenze, le verità aggressive, le idee sempre corrosive e eversive che ci offriva: vivificare le nostre menti e le nostre anime, rimetterle in contatto con le loro origini. Quando parlava o scriveva, rovesciando luoghi comuni e abitudini mentali, ci istigava a praticare una conoscenza che andasse anche al di là e al di qua del pensiero razionale.
Lo ha fatto fino all’ultimo istante della sua vita. Nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, ha continuato a dialogare con una piccola cerchia di seguaci, amici e discepoli dalle estrazioni più varie, accomunati dalla pluriennale venerazione per lui e da quello che gli antichi greci avrebbero chiamato l’amore per la sophia , ossia, appunto, la filosofia. La sua è stata non solo una morte filosofica, ma da filosofo antico, l’ ars moriendi - anche se non voleva la si chiamasse così - di un laico, pagano maestro di intelletto e soprattutto di anima. Perché alla scommessa, pacata e implicita, di restare pensante, lucidamente pensante e dialogante, di spingere la ricerca razionale fino all’estrema soglia della biologia, si sommava un’incessante attività di ricerca interiore, di introspezione psicologica: un esercizio estremo di quella «visione in trasparenza» di cui aveva parlato nei suoi scritti, e che lo ha portato all’ultima frontiera dell’io in uno stato di continuo ascolto dei messaggi della psiche, e non solo di quella conscia. Uno stato infero, ma sublime, nel senso etimologico latino del termine, sub limine , alla soglia, sul confine.
L’inesauribile curiosità per quello stato, che lo animava e di cui continuamente parlava come di una condizione nuova e sorprendente, era mantenuta a prezzo di un ridotto dosaggio di morfina e dunque di una sofferenza fisica affrontata con assoluto coraggio ma senza ostentazione né retorica, per non rischiare, come diceva, di peccare di hybris . Del resto, con la concentrazione e la lucidità che perseguiva in modo tanto accanito quanto stupefacente, anche il dolore era analizzato in termini sia filosofici sia psicologici, e molto spesso - in sintonia con un altro dei suoi grandi interessi di studio - in termini alchemici. Le immagini del processo di dissolutio ecoagulatio e la descrizione in quel linguaggio di altre condizioni psichiche che via via si affacciavano - la rubefactio immaginativa, che precede la sublimazione nell’estrinsecazione della bellezza, la figura della rotatio , nel cui ciclo non si può mai dire cosa è superiore e cosa inferiore - dominavano spesso la parte più strettamente introspettiva e psicologica della sua analisi del morire.
Uno dei grandi blocchi americani di carta rigata gialla era sempre accanto al suo letto, perché chi si avvicendava a vegliare il suo sonno - Margot, la stoica, coraggiosa moglie, ma anche gli allievi e amici - potessero raccogliere e trascrivere le parole che pronunciava in sogno, per poi leggergliele al risveglio e analizzarle insieme a lui. Anche in questo esercizio adottava il sistema maieutico del dialogo, e l’ispezione del profondo portava a un’estroflessione e quasi condivisione dell’anima, a dimostrazione di un’altra delle grandi verità che aveva elaborato nella sua opera, prendendo spunto dai pensatori antichi, platonici e neoplatonici: che noi siamo dentro l’anima, e non l’anima in noi, che l’anima è uno spazio fluido che si può condividere. Se l’anima individuale si fa nel mondo (il concetto del «fare anima», tratto dalla definizione che Keats aveva dato del mondo come «la valle del fare anima»), noi tutti partecipiamo dell’Anima del Mondo.
Diceva che le parole gli alleviavano i dolori delle ossa come i cuscini che gli venivano continuamente sistemati nel letto da cui, come sapeva, non si sarebbe più rialzato, e che era stato portato in salotto, al centro della casa, di fronte alla grande vetrata aperta sull’abbagliante autunno del New England. Su un tavolino, a disposizione di chiunque volesse leggerle, una raccolta di poesie giapponesi sulla morte scritte da monaci zen o da autori di haiku. «Una radiosa gradevole / giornata d’autunno per viaggiare / incontro alla morte».

Repubblica 28.10.11
Dall'analisi di Jung ai miti greci, addio al poeta dell'anima
di Umberto Galimberti


Il celebre studioso è scomparso all´età di 85 anni. Aveva allargato l´orizzonte della psicoanalisi convinto che oggi il malessere individuale affondi nella società
Individua l´origine della sofferenza nell´incapacità di pensare agli altri con il cuore
Ha superato l´insegnamento dei maestri, puntando uno sguardo lucido e critico sul mondo

Chi era James Hillman? Lo psicoanalista che ha allargato l´orizzonte della psicoanalisi al di là della condizione e della sorte dell´anima individuale, partendo dalla persuasione, che quella che oggi va curata è, come lui la chiamava: l´"anima mundi" che ha perso il mondo immaginale, per raccogliersi nel chiuso di una ragione solo concettuale, dove non è più possibile rintracciare quella capacità immaginativa del cuore che sa che cos´è l´amore, la bellezza, la giustizia, e quella verità interiore di cui abbiamo perso sia l´origine, sia la traccia.
Esiste certo un malessere dell´individuo, ma le sue radici oggi non vanno cercate tanto nella sua infanzia, che induce spesso una condizione solipsistica e impotente di sé, ma nel modo con cui l´individuo interiorizza la società in cui vive, le sue forme di potere, la conflittualità che la percorre, l´habitat che lo circonda perché, scrive Hillman. «Io non sono, se non in un campo psichico con gli altri, con la gente, gli edifici, gli animali, le piante».
E allora cos´è quel Terribile amore per la guerra (Adelphi) che aveva reso così inquietante la corrispondenza tra Freud e Einstein? Cosa sono quelle Forme del potere (Garzanti) che fanno smarrire a ciascuno di noi la nozione di "cittadino", che sempre più maschera la nostra condizione di impotenza? Che ne è de La forza del carattere (Adelphi) che rischiamo di conoscere solo nella vecchiaia, quando più nessuno si occupa di noi e, riflettendo, ci accorgiamo che di noi ci si occupava solo a partire dalla nostra efficienza e produttività: puri funzionari d´apparato senz´anima.
E l´Anima (Adelphi), questa parola intorno a cui ruota tutta la riflessione hillmaniana, nulla ha a che fare con sfondi religiosi e neppure con il dualismo platonico e il suo bimillenario conflitto col corpo. L´"anima" di Hillman non è neppure solo la controparte sessuale di ciascun di noi come il suo maestro Jung aveva insegnato, ma è, come lui scrive, quella «fede nelle immagini e nel pensiero del cuore che porta a un´animazione nel mondo. Anima crea attaccamenti e legami. […] Guardandomi indietro, mi sembra che Anima sia stata alla base di tutto il mio lavoro».
Se la società, nel modo con cui è strutturata e nelle modalità con cui fa vivere gli individui è, più dell´infanzia, la responsabile della sofferenza di cui si occupa Il mito dell´analisi (Adelphi) è perché la nostra società non ha più anima, più non conosce le relazioni tra gli uomini, se non come relazioni di interessi e di profitto, più non si commuove per il dolore del mondo, più non sa immaginare tutto ciò che non rientra nella concettualità, nella funzionalità e nel calcolo delle utilità, in cui ciascun individuo è costretto a vivere, smarrendo quel pensiero del cuore, come scrive Hillman ne L´anima del mondo e il pensiero del cuore (Adelphi), di cui erano capaci i Greci che pensavano col cuore.
Di qui il recupero hillmaniano della mitologia greca non per un intento filologico o erudito, ma per mostrare come "si pensa col cuore", quindi non per concetti, ma per immagini. Apprendiamo così dal suo Saggio su Pan (Adelphi) cos´è il panico, la masturbazione, l´incubo, la seduzione delle ninfe, così come da La giustizia di Afrodite (Edizioni La Conchiglia) apprendiamo come inscindibile sia la bellezza dalla bontà e dalla verità. Concetti che la cultura cristiana ha separato, mentre il mito e la filosofia greca tenevano ben saldi nella parola kalokagathon, bello e buono insieme.
Perché la "vera" bellezza è nella bontà che trasfigura il volto e rende lo sguardo sereno. In gioco qui non c´è la verità concettuale della scienza o della filosofia e ancor meno quella dogmatica delle religioni, ma quell´essere pervenuti alla conoscenza di sé, a cui invitava l´oracolo di Delphi, perché in ciascuno si creasse quell´armonia interiore in cui si radica bellezza. Ma siccome per il Greco antico la bellezza individuale non è raggiungibile senza una Politica della bellezza (Edizioni Moretti & Vitali), di nuovo ritorna il motivo che solo una società ben governata può ridurre la sofferenza di tanti individui.
Ma perché questo ritorno alla Grecità, già percorso da Hölderlin, Nietzsche, Heidegger? Non per motivi poetici o filosofici, ma per resuscitare quel politeismo della mitologia greca che, a differenza del modello monocentrico della cultura giudaico-cristiana che tanto ha influenzato la psicoanalisi di Freud, consente di recuperare quella dimensione policentrica, così essenziale oggi, dove la confluenza delle culture chiede una disposizione dell´anima che consenta quella tolleranza e quell´accoglienza che solo il relativismo, di cui le religioni sono incapaci, sa concedere.
«Gli dèi morirono dal gran ridere quando udirono che un Dio voleva essere il solo» scrive Nietzsche. Hillman non raccoglie sarcasticamente e neppure polemicamente questo riso, ma ci propone tutti gli dèi, celesti e inferi, non come semplici espressioni delle passioni umane e quindi iscritte nella "patologia" («Gli dèi sono diventati malattie» ebbe a scrivere Jung), ma per restituirli alla "mitologia", dove nessun dio vuol essere il solo, perché, nonostante La vana fuga dagli déi (Adelphi) propria dell´Occidente cristiano, indispensabili sono le figure mitologiche in cui l´anima può rispecchiarsi e, rispecchiandosi, avere un´immagine di sé, per non vivere alla cieca, a propria insaputa.
Non si legga Hillman solo per la potente seduttività della sua scrittura. A percorrerla per intero c´è una radicale revisione dello scenario psicoanalitico, a partire dalla persuasione che, se l´uomo è un animale sociale, non c´è sofferenza individuale disgiunta dal mondo in cui si vive. Ed è su questo mondo e sulla sua anima che Hillman ha puntato il suo sguardo lucido e critico.

Repubblica 28.10.11
Il suo editore italiano lo racconta: "Per energia e slancio era un puer"
Calasso: "Un pensatore originale e solitario"
"Certamente non era un uomo da scuole. Ma è impossibile liquidarlo come un brillante bricoleur"
di Luciana Sica


Roberto Calasso è a Barcellona, in una libreria. Controlla la data del primo libro che ha pubblicato di James Hillman, Saggio su Pan, era il ´77. «Ma poi sono usciti i suoi due saggi fondamentali: Il mito dell´analisi nel ´79 e Revisione della psicologia nell´83...».Ma quando l´ha conosciuto?
«All´inizio degli anni Settanta, ad Ascona, durante i colloqui di Eranos. Lì c´era gente come Scholem, Corbin, Portmann, Eliade e ricordo come mi è apparso lui: l´unico americano e però perfettamente addentro a tutto il tessuto della cultura europea, era anche il più giovane, ma con una grande intensità e una grande autorità naturale».
Interloquiva con il fior fiore degli intellettuali...
«Ah sì, certamente. Non era affatto in soggezione».
Aveva tutta l´aria di un puer, qualcosa di fanciullesco...
«Fanciullesco forse è troppo dire... Ma sì, era un puer, con un suo slancio molto evidente, di energia e anche di giovinezza».
Il vostro rapporto ha avuto anche una natura affettiva?
«Fin dall´inizio è stato così, e ho seguito le varie fasi della sua vita. Èstato un rapporto molto buono, con le vicissitudini editoriali che si possono immaginare: un libro che ritarda o che si deve rifare, ma è andato sempre tutto bene. L´ultima volta l´ho visto un paio di anni fa, a Milano - veniva spesso in Italia, dov´era più conosciuto che nel suo Paese».
È stato uno psicoanalista o piuttosto un grande umanista?
«È stato il primo e forse l´ultimo di quelli che sono partiti da Jung facendo poi un percorso unico, originale, mentre gli altri sono rimasti più o meno prigionieri di quella che era la loro origine».
Allievo diretto di Jung, Hillman muore esattamente cinquant´anni dopo il maestro zurighese. Che ha "tradito", o no?
«Beh, è una storia complicata. Perché Hillman ha anche diretto l´Istituto Jung fino a quando non l´hanno cacciato via... ».
Ma è stato lui stesso a dire di aver avuto "una crisi di fede", inventando poi la "psicologia archetipica", ribattezzata a dispetto del ridicolo "una terapia degli dei". Lei come la vede?
«Io vedo lui molto solitario, sia in America che in Europa, non un uomo da scuole... La cosa importante è stata il suo modo di rovesciare il rapporto con il mito in genere: non pretendere da psicoanalista di spiegare il mito, che sarebbe stata un´operazione ingenua. E´ il mito che spiega noi, e Hillman ha seguito questa idea con la stessa analisi, dove ad agire - lui dice - è il mito apollineo...».
Contro la parola, il Logos, il cuore della psicoanalisi e della cultura occidentale... Ma non era un po´ troppo quando voleva "stendere l´anima del mondo sul lettino e rimanere in ascolto delle sue sofferenze"?
«"Anima" è la parola chiave per capire Hillman, un´anima che insieme è interna ed esterna, appartiene anche al mondo proprio della natura, non della società e neppure del collettivo».
Qualcuno l´ha liquidato come "un brillante bricoleur".
«Lévi-Strauss diceva che i miti stessi sono un´operazione di bricolage, ma poi ha passato l´intera vita a tentare di capire com´era fatto quel bricolage... Mi spiace non fargli omaggio del libro per gli amici che facciamo a fine anno, una specie di bibliografia ragionata di opere neoplatoniche a partire dal Quattrocento fatta da un grande libraio antiquario che è Paolo Pampaloni e Marco Ariani, uno dei curatori della nostra Hypnerotomachia Poliphili. E´ ancora in bozze, purtroppo non abbiamo fatto in tempo».