domenica 30 ottobre 2011

l’Unità 30.10.11
Il sondaggio
Il Pd primo partito tiene il Pdl a distanza ma cresce la sfiducia
Centrosinistra avanti di 11 punti rispetto alla coalizione di governo. L’area
del Terzo polo stabile tra l’11 e il 13%. La crisi economica fa sentire i suoi effetti
di Carlo Buttaroni


Pd primo partito, centrosinistra in vantaggio di 11 punti sulla coalizione di Governo e consolidamento di un’area terzo-polista che, secondo la rilevazione, negli ultimi mesi si colloca stabilmente tra l’11% e il 13%.Sono questi i dati più rilevanti dell’indagine Tecné sulla situazione politica e sui flussi di voto.
La crisi economica, quindi, fa sentire i suoi effetti. La ricerca evidenzia, infatti, una diminuzione costante di consensi al partito del Presidente del Consiglio (-4,5% rispetto ad aprile 2010 e -12,4% rispetto alle politiche 2008) e all’alleanza formata da PDL, Lega nord e Destra (-7,5% rispetto ad aprile e -13,6% rispetto alle politiche). Il sorpasso del centrosinistra è iniziato poco prima dell’estate alimentandosi anche della mobilitazione referendaria sull’acqua e sul nucleare ed è maturato negli ultimi mesi con l’inasprirsi della crisi finanziaria. Ad aprile le due principali coalizioni si trovavano in una situazione di sostanziale parità; a giugno il centrosinistra registra un vantaggio di quasi 4 punti, che diventano 8 a luglio e 11 tra settembre e ottobre.
Quanto la crisi finanziaria si avviti con la crisi politica lo evidenzia la diminuzione dell’area della partecipazione che passa dal 77,5% delle politiche, al 71,6% di aprile e al 66,6% di ottobre.
La crisi della coalizione di Governo è ancora più evidente se si analizza l’andamento del consenso, calcolato non solo tra chi esprime il voto ma su tutti gli aventi diritto.
Dal 37,3% delle politiche 2008, il centrodestra scende, infatti, al 30,1% di aprile e al 23,1% di ottobre.
Il flusso in uscita di consensi si orienta prevalentemente verso l’area del non voto e la Lega Nord non sembra in grado di attrarre gli elettori che abbandonano il partito di Berlusconi. Al contrario, nelle 10 rilevazioni prese in esame, il centrosinistra fa registrare una sostanziale stabilità di consensi (tra il 30% e il 33%).
Il vantaggio del centrosinistra non nasce soltanto dalla stabilità elettorale ma dalla capacità di compensare al suo interno i flussi di consenso in uscita dai singoli partiti. Nel complesso, infatti, la base elettorale del centrosinistra si sposta a sinistra a favore soprattutto di Sel e Idv e diminuisce il peso del Pd all’interno della coalizione: alle politiche del 2008, ogni 100 voti ottenuti dai partiti di centrosinistra, 80 provenivano da elettori del Pd, mentre a ottobre la quota scende a 60. Al contrario, il peso del Pdl, all’interno del centrodestra, non cambia di molto rispetto alle politiche: nel 2008 era pari al 78%, oggi è al 72%. Segno evidente che è l’intera coalizione di centrodestra a perdere consensi.
Dai dati emerge la corrispondenza tra crisi economica e comportamento elettorale: al crescere del disagio si registra una diminuzione della partecipazione elettorale e l’aumento del consenso ai partiti che sembrano interpretare meglio la protesta.
Più di ogni altra cosa l’indagine fotografa il passaggio politico che si sta consumando in questi mesi. Sotto la spinta della crisi sembra volgere al termine una stagione che ha visto come principale protagonista Silvio Berlusconi. Un distacco che matura nell’opinione pubblica dieci anni dopo il «patto con gli italiani», siglato nella trasmissione di Bruno Vespa, in cui si annunciava una rivoluzione infrastrutturale e un nuovo miracolo.
E forse è proprio aver portato così in alto le attese a segnare così fortemente il distacco. Dopo dieci anni le strade italiane sono ancora la metà di quelle tedesche e francesi. Anche gli italiani si scoprono più poveri, compresi quelli che lavorano. Lo stipendio medio di un dipendente colloca, oggi, l’Italia nella parte bassa della classifica europea e i lavoratori italiani, con meno di 15 mila euro l’anno, percepiscono un reddito netto pari al 56% di quello degli inglesi, al 71% di quello dei tedeschi, all’83% di quello dei francesi e all’88% di quello degli spagnoli.
Nonostante gli stipendi siano più bassi, il costo della vita è, invece, tra i più alti: fatta 100 la media dei Paesi della zona euro, l’Italia è a quota 104 e una giornata tipo fatta di colazione, spostamenti, spesa, telefonate, eccetera impegna l'84% dello stipendio. In Germania è circa la metà (43%), in Spagna è il 59%, in Francia il 61%, in Inghilterra il 59%. Senza calcolare i costi dell’abitazione. A dieci anni dal patto con gli italiani 8 dei quali al governo del Paese delle promesse di Berlusconi sono rimaste poche tracce.
Al contrario, il futuro si è fatto più minaccioso, la forbice delle iniquità si è aperta, sono aumentate le famiglie povere e le nuove generazioni hanno di fronte la prospettiva di una condizione che sarà sicuramente peggiore a quella dei loro genitori.

Corriere della Sera 30.10.11
Il Pdl recupera consensi. Effetto Grillo, Pd in calo
E quattro italiani su cinque bocciano l'innalzamento dell'età pensionabile
di Renato Mannheimer


Il governo si trova in una situazione molto complicata e pericolosa. Stretto tra le pressioni dell'Europa, che lo incita ad agire presto ed efficacemente, e tra le sempre più profonde divisioni interne (sia tra Pdl e Lega, sia all'interno dei due partiti della maggioranza) che, attraverso veti e controveti, gli impediscono spesso di agire. Ma, a fronte di queste forti difficoltà, l'esecutivo gode di un elemento che gioca a suo favore: anche le forze di opposizione sono travagliate da analoghi, se non talvolta più intensi, conflitti interni ciò che rende anche per loro assai complesso esercitare un'azione incisiva. Il centrosinistra — e lo stesso Pd — appare diviso anche su scelte e orientamenti fondamentali, quali, ad esempio, il giudizio sulle richieste contenute nella lettera inviata a suo tempo dalla Bce, l'opportunità di rendere più flessibili i contratti di lavoro o — è il caso più recente — la proposta di elevare l'età pensionabile.
Questo quadro di incertezza che caratterizza entrambi i poli si riflette nella distribuzione delle intenzioni di voto. Che vede nelle ultime settimane un rafforzamento relativo dell'area di centro — specie per ciò che concerne Fli — vista come possibile alternativa alla scelta diretta verso le due coalizioni maggiori. E mostra, al tempo stesso, un trend che per molti può costituire una sorpresa: un lieve incremento del seguito virtuale del Pdl e, contemporaneamente, una erosione del consenso al Pd. Quest'ultima può essere dovuta, come si è detto, all'effetto paralizzante dei conflitti interni — sul programma e sulla leadership — che finisce con il togliere credibilità allo stesso Bersani. Parte dei voti in uscita dal Pd sembrerebbero essersi diretti verso il Movimento di Grillo.
Viceversa, l'andamento (non sappiamo se temporaneo o meno) di parziale crescita del Pdl pare provenire da un parziale ripensamento dei molti che, nei mesi scorsi, avevano abbandonato l'opzione per il partito di Berlusconi per rifugiarsi tra gli indecisi: non a caso, in queste ultime settimane il numero di chi non si pronuncia sulla propria scelta di voto ha subito una contrazione.
Al di là di questi mutamenti parziali, però, il quadro complessivo delle intenzioni di voto resta sostanzialmente stabile e continua a vedere il centrosinistra superare — attualmente di 7 punti — il centrodestra. Ciò non significa, tuttavia, un'automatica prevalenza nel risultato elettorale, in quanto appaiono determinanti le scelte di alleanza dei partiti di centro, che possono, di fatto, determinare la vittoria dell'una o dell'altra coalizione. La maggioranza dei votanti per il terzo polo pare preferire tuttavia una collocazione autonoma.
Spesso indipendentemente o quasi dalle loro scelte di voto, tutti gli elettori chiedono al governo, seppure in forme diverse, di procedere celermente con iniziative concrete che favoriscano lo sviluppo del Paese e, al tempo stesso, contribuiscano a ridurre la spesa pubblica. Quali sono, nello specifico, queste richieste? Sono elencate nella tabella qui a fianco. Alcuni provvedimenti, come si è detto, risultano auspicati dalla quasi totalità della popolazione: ad esempio, ridurre il numero dei parlamentari, combattere più efficacemente l'evasione fiscale, incentivare le imprese che assumono e favorire la nascita di nuove attività. Anche l'idea di una qualche forma di tassa patrimoniale è vista con favore dalla maggioranza dei cittadini.
Viceversa, il provvedimento di cui più si è discusso in questi ultimi giorni, l'elevamento dell'età pensionabile, suscita diffuse perplessità. Solo l'8% degli italiani lo giudica «molto opportuno», mentre un altro 12% lo definisce «abbastanza opportuno». Nell'insieme, dunque, quattro italiani su cinque condannano questa prospettiva. La percentuale di contrari appare più elevata tra i votanti per i partiti di opposizione e per la Lega, ma è molto consistente anche all'interno della base elettorale del Pdl.
Un'altra difficoltà per l'esecutivo, che vede la contrarietà di una quota significativa dei suoi stessi sostenitori, proprio su uno dei provvedimenti simbolo della manovra progettata.

l’Unità 30.10.11
Dalla convention di Napoli il leader Pd manda un messaggio ai rottamatori: «Non scalciate»
«Bisogna mettersi a disposizione, non può esserci un ricambio senza rinnovamento di idee»
Bersani: siamo un collettivo basta divisioni giovani-vecchi
Il segretario dei Democratici inaugura “Finalmente Sud”, la scuola di politica dedicata agli under 35. E incoraggia gli oltre duemila giovani raccolti in platea: «Ci vogliono idee, metodi e protagonisti nuovi».
di Simone Collini


«Oggi avviamo un progetto che non ha precedenti nella storia della politica italiana», dice Pier Luigi Bersani arrivando a Napoli per inaugurare una scuola di formazione riservata a ragazzi under-35 delle regioni del Mezzogiorno che durerà un anno (attraverso appuntamenti come questo e soprattutto mediante la costruzione di una rete on-line) e che sarà poi estesa anche alle regioni del Nord. «Mi sembra una notizia no?», e sorride. «Ma se devo essere proprio sincero...». Il leader del Pd sa bene qual è l'attenzione mediatica riservata al Big Bang di Matteo Renzi e quale a questo appuntamento. Ma non si scandalizza, anzi ai duemila ragazzi che lo salutano con una standing ovation alla Mostra d'oltremare dice innanzitutto: «Stiamo facendo formazione alla politica, e allora la prima cosa da imparare è l'autonomia della politica. Rapporti amichevoli con la comunicazione, ma guai ad esserle subalterni. Anche perché il mestiere della politica non è il mestiere della comunicazione». Inevitabile, in una giornata come questa, andare col pensiero alla Leopolda. Anche perché Bersani dedica una parte dell'intervento con cui apre “Finalmente Sud!” alla questione del rinnovamento, insistendo però su un fatto: «La distinzione fra giovani e adulti è una stupidaggine di proporzioni cosmiche. Tocca ai giovani andare avanti, a chi sennò? Ma noi siamo un collettivo. Da soli non si salva il mondo. Non si può dar l'idea che un giovane per andare avanti deve scalciare, deve insultare».
RICAMBIO SENZA CAMBIAMENTO
Ma non è solo questo ciò che non convince Bersani, quando sente parlare della necessità, che pure riconosce, di rinnovare la classe dirigente del partito. Del resto se ha insistito, anche tra le perplessità di una parte dei vertici del Pd, per organizzare questa scuola di formazione è proprio perché giudica necessario «far girare la ruota». Lo dice a questi ragazzi che rappresentano i “ricostruttori d'Italia”, dal momento che «senza il Sud l'Italia non può farcela». Quello che però non piace a Bersani è assistere a movimenti che sembrano prefigurare un «ricambio senza cambiamento». E non è solo perché a muovere aspiranti rottamatori sembra più che altro lo slogan «vai via tu che arrivo io che sono più giovane». Dice il leader del Pd: «Serve un ricambio con cambiamento. Ci vogliono idee, metodi e protagonisti nuovi. Non una di queste cose senza le altre. Perché è inutile mettere il vino nuovo in otri vecchi. Non si possono contrabbandare per nuove idee degli anni 80. Abbiamo già dato». Un riferimento a chi pensa si possa rispondere alla crisi in atto riproponendo le ricette sul mercato del lavoro lanciate da Reagan, Thatcher e rilanciate in casa nostra da Craxi e soci. «Non possiamo riscoprire idee che ci hanno portato al disastro e venderle per cose nuove».
Davide Zoggia, seduto tra le prime file insieme ad altri membri della segreteria, dice che il messaggio di Bersani serve a ribadire «la necessità di un lavoro collettivo» e che non ci sono interpretazioni «legate a personalizzazioni»: «Sbaglia perciò chi, come Matteo Renzi, legge questo intervento come una critica nei suoi confronti. Bersani non ha nemmeno citato Renzi, ha chiamato la classe dirigente italiana ad un'assunzione di responsabilità e a lavorare insieme per la ricostruzione del Paese». Che poi è effettivamente il cuore del discorso che fa il leader del Pd di fronte ai duemila ragazzi arrivati a Napoli.
La ricostruzione per Bersani dovrà partire da una “riscossa civica” perché Berlusconi non è il solo responsabile, se ci troviamo in questa difficile situazione economica e sociale. «C'era chi sapeva. Perché le classi dirigenti italiane hanno taciuto? Io ho una teoria: che oltre all'ideologia berlusconiana c'è un egoismo di classe, per cui a lungo si è pensato che i piedi se li bagnassero solo quelli di terza classe. Quando si son bagnati i piedi anche loro hanno iniziato a dire che qualcosa non andava. Ma adesso basta, con l'egoismo sociale non si va da nessuna parte. Chi ha di più deve dare di più, altrimenti i piedi ve li bagnate pure voi. Senza equità il Paese non si salva».
Per ricostruire servirà però «tempo e lavoro». Per questo è necessaria una scuola di formazione come questa. Che Bersani dedica alle 72 vittime delle stragi di Oslo e di Utoya. Per ricordare quei ragazzi le autorità norvegesi dissero ai funerali che era stato attaccato quanto di meglio c'è in democrazia: i giovani impegnati in politica. Dice Bersani chiudendo l'intervento, prima che sul maxischermo partano le immagini di quel campeggio e di quei ragazzi sorridenti spazzati via dalla follia omicida: «Gli diremo che nel Sud dell'Europa la fiaccola è accesa e va avanti».

Corriere della Sera 30.10.11
Il giorno del Big Bang
Le primarie e i rischi di un nuovo «scisma»
A sinistra si riapre il vaso di Pandora
di Antonio Polito


E Big Bang fu. Il Pd sta davvero esplodendo. Dopo la settimana dei TQ (Trenta-Quarantenni)
e il documento dei T (Trentenni), è arrivato il sabato del Q (Quanto si odiano). Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani si sono ieri reciprocamente mandati a quel paese.
E, data la tenera età del sindaco rottamatore, non poteva che essere il paese dei balocchi, dove Bersani vorrebbe sbattere i giovani che «scalciano per farsi strada» e dove Renzi non vuole andare perché — parole sue — «io non sono un asino».
In attesa di accertare chi abbia ragione su questo delicato punto politico, bisogna spiegare perché scoppi una rissa di queste proporzioni nel partito che i sondaggi danno in testa, e per giunta nel pieno di un dramma nazionale ed europeo che dovrebbe consigliare al Pd modi più proficui di occupare il proprio tempo. La prima spiegazione è che la sinistra italiana non è mai così ebbra di litigi come quando sente aria di vittoria. E infatti ieri non solo Bersani s'è scagliato (ovviamente senza mai nominarlo) contro Renzi. Ma anche Vendola è accorso a dargli man forte, bollando il ragazzino molesto con il marchio infamante di «liberista». E de Magistris non ha mancato di prendere le distanze a sua volta, perché non sia mai che uno che «scassa» come lui si faccia scavalcare da uno che «rottama» soltanto. Può stare tranquillo Alessandro Baricco, che parlando al convegno di Firenze ha esortato la nuova sinistra a «non aver paura di perdere»: se ne avranno l'opportunità, non esiteranno.
Il fatto è — ed ecco la seconda spiegazione della furia dello scontro — che Renzi apre il vaso di Pandora delle ambizioni di tutti coloro che sognano di diventare il candidato premier del centrosinistra. Bersani si era accordato con Vendola per una piacevole gara a due, che il segretario del Pd contava di vincere senza spargimenti di sangue. Ma se Renzi apre le porte ad altre e magari numerose candidature di provenienza democratica, Bersani rischia seriamente di perdere le sue primarie a vantaggio di Vendola. Per questo il segretario sembra pensare a un qualche meccanismo di eliminatoria interna pre-primarie per evitare la ressa. Gioco pericoloso: rischiamo così di rivedere, con altri protagonisti, lo storico scisma di Veltroni che vince tra i militanti e D'Alema che lo scavalca nel voto dei dirigenti, origine di una rivalità infinita e letale per la sinistra italiana.
La kermesse di Firenze ha perciò ottenuto il suo obiettivo politico: costruire la candidatura di Renzi quasi in contrapposizione al Pd ufficiale, il cui simbolo non compariva nella sala ma che era evocato sotto forma di dinosauri disegnati alle pareti. Eppure non è sembrata in grado di segnare quel passaggio dalla provocazione alla proposta che Renzi aveva annunciato. Non sarà facile per lui oggi tirare fuori dal mare di parole ascoltate le cento proposte per l'Italia promesse. L'uomo si conferma un ottimo showman, no Renzi no party. Ma è chiamato a dare almeno qualche indizio del suo peso politico.
Un effetto però il giovane sindaco l'ha prodotto: da oggi Bersani non dovrà più preoccuparsi soltanto di non avere nemici a sinistra, finendo così per inseguirli annacquando un po' alla volta il suo passato riformista. Ora sa che ha anche un concorrente a destra. È un bene per il Pd. Ma forse è anche la condanna di Renzi, almeno finché gioca nel campo tradizionale degli elettori di sinistra, i quali non gli perdoneranno mai di aver preso un caffè con Berlusconi, per giunta a casa sua. D'altra parte, non sono sicuro che Tony Blair sarebbe mai diventato leader del Labour se ci fossero state le primarie.
Antonio Polito

Il leader Sel: con il sindaco di Firenze non si esce dal liberismo, con Bersani sensibilità comune
Le critiche dei centristi alle primarie di coalizione: «Il Pd superi l’alleanza di Vasto»
Vendola contro Renzi: «Sei tu il vecchio». Udc: pronti a correre soli

l’Unità 30.10.11
Se si vota, primarie
di coalizione a gennaio Pd, sceglie la Direzione
di S. C.


Bersani incassa la standing ovation che gli riservano i duemila ragazzi arrivati a Napoli da tutte le regioni meridionali e prepara la road map verso la candidatura alla premiership del centrosinistra. Innanzitutto i tempi: se si dovesse aprire la crisi di governo nei prossimi sessanta giorni e non ci fossero le condizioni politiche per dar vita a un governo di transizione, le primarie di coalizione si dovranno tenere a gennaio. Una data che mette d'accordo anche Vendola e Di Pietro. Dopodiché, le regole. Il leader del Pd, che ieri ha inaugurato la scuola di formazione che per un anno impegnerà duemila segretari di circolo, amministratori e rappresentanti di associazione under-35, non appena ha visto un fiorire di possibili candidature tra i suoi stessi compagni di partito, ha messo in chiaro che non intenderà mettersi “al riparo di una norma statutaria” (lo Statuto approvato ai tempi di Veltroni prevede che sia il segretario il candidato del partito alle primarie).
In concreto vuol dire che, senza apportare modifiche allo Statuto, Bersani chiederà al Pd, «che ha gli organismi e i mezzi per decidere in solidarietà e responsabilità», chi sarà il candidato del partito. Ancora più in concreto vuol dire che non appena si capirà che si va al voto anticipato in primavera, Bersani convocherà la Direzione, chiedendo che i duecento membri del parlamentino democratico decidano con una votazione chi sarà per il Pd a sfidare Vendola, Di Pietro ed eventuali altri candidati. E se Renzi, Chiamparino o altri contesteranno il fatto che quell'organismo rispecchia gli equilibri di maggioranza e minoranza interni al partito e che quindi il risultato sarà scontato, nello staff del segretario si fa notare fin d'ora che quegli equilibri sono stati determinati da primarie che ci sono state due anni fa, che Renzi ha sbagliato a fare il parallelo con Martine Aubry («i segretari possono perdere») e che Bersani al contrario della leader dei socialisti francesi, che non era stata scelta attraverso meccanismi di ampia partecipazione e che ora è stata sconfitta da François Hollande per la corsa all'Eliseo è stato eletto dopo una consultazione che ha coinvolto tre milioni di persone.
Renzi ha fiutato l'aria e già inizia a lanciare frecciate: «Tutti i giochini sulle primarie li lasciamo agli addetti ai lavori. Noi ragioniamo di cose che possono interessare e servire agli italiani, non agli schiacciatasti del Parlamento». Il sindaco di Firenze, se effettivamente alla fine valuterà di avere buone chance per potersela giocare, si candiderà alle primarie nonostante il Pd scelga un altro candidato. E se è praticamente impossibile che gli organismi dirigenti decidano di ricorrere a misure estreme come l'espulsione dal partito, sarebbe però complicato per Renzi partecipare alle primarie di coalizione. Le regole dovranno infatti deciderle insieme i vertici del Pd con quelli di Sel e Idv (di coinvolgere l'Udc in questa partita ancora ci sperano, i Democratici, ma è assai probabile che con i centristi si siglli successivamente un patto di legislatura). E né Vendola né Di Pietro si stanno mostrando troppo entusiasti all'idea di fare un pezzo di strada insieme al sindaco di Firenze. È anzi proprio dal governatore della Puglia che arrivano le parole più dure nei suoi confronti: «È il vecchio, con una cultura politica essenzialmente di destra».

Corriere della Sera 30.10.11
Il piano di Pier Luigi per le primarie. Un solo candidato scelto dal partito
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Il Big Bang c'è già stato, ma lo ha fatto Bersani»: non è l'amore per il paradosso che spinge Beppe Fioroni a parlare così. Il leader degli ex popolari del Pd è preoccupato: «Il segretario, annunciando una road map che prevede l'alleanza stretta con Di Pietro e Vendola, dà l'addio a ogni ipotesi di alleanza con il terzo polo. E dicendo che non deve essere necessariamente lui il candidato del Pd alla premiership del centrosinistra apre il cantiere della torre di Babele. Che succederà ora? Si candideranno Renzi, Civati, Bindi, e poi chissà chi altro? Un caos. Fermiamoci: non facciamoci del male. Il mio è un appello a tutti quelli che ci stanno facendo un pensierino: candidatevi se proprio vi scappa, ma evitiamo l'autolesionismo».
Fioroni è preoccupato sul serio: teme l'esplosione del suo partito, già abbondantemente diviso e lacerato. Ma la road map di Bersani non è solo quella che il segretario ha esposto pubblicamente in un'intervista al Messaggero, lasciando intendere che vi saranno più candidati del Pd alle primarie. Quello è stato un ballon d'essai per testare le reazioni del partito. E in questo senso la presa di posizione di Fioroni non lascia spazio ai dubbi. Il vero obiettivo del segretario, però, è un altro: disinnescare Renzi, senza far mostra di temerlo o di voler tarpare le ali alla dialettica interna o, peggio, al dibattito che si è aperto in seno all'elettorato non militante del centrosinistra.
L'idea di andare con più candidati del Pd alle primarie non passa nemmeno per l'anticamera del cervello di Bersani. Non è questo che ha in mente. Anzi. Quando il leader dei «Democrats» ha spiegato che non si attaccherà allo statuto, che non seguirà la regola secondo cui il candidato del partito alle primarie è automaticamente il segretario, Bersani non intendeva aprire le porte a tutti. La sua road map è un'altra. L'ha spiegata così ai fedelissimi: «Non penso assolutamente di andare a un voto dove da una parte ci sono Di Pietro e Vendola, e dall'altra dieci candidati nostri. Sarebbe un suicidio per il partito». Anche perché (ma questo Bersani non lo ha detto esplicitamente), dividendosi, si correrebbe il rischio di regalare la vittoria a Vendola. «Quello che io dico — è stato il ragionamento del segretario — è che sarà il Pd, con i suoi organismi dirigenti, a scegliere chi si presenterà alle primarie. Non mi faccio scudo dello statuto, ma mi presto al voto della Direzione e anche a quello dell'Assemblea Nazionale. Se decideranno che è meglio che non sia io il candidato, certo non ne farò una questione personale».
Insomma, il piano di Bersani è quello di delegare la scelta al partito. Il quale partito, è ovvio, sceglierà lui, visto che nell'apparato Renzi non ha grande influenza: viene sopportato nel migliore dei casi, quando non è odiato o temuto. Basterà questo a bloccare il sindaco di Firenze? Non è affatto detto. Anche Renzi ha una sua road map: dopo la Leopolda scriverà un altro libro, e andrà in giro per l'Italia a presentarlo. La sua sarà, di fatto, una campagna elettorale, anche se il primo cittadino del capoluogo toscano non ha ancora deciso se gli servirà per scendere in pista, o solo per rimanerci, aspettando di capire quale sarà l'evoluzione della situazione politica italiana.
Ma la domanda è questa: se Renzi dichiarerà pubblicamente che intende partecipare alla gara per la leadership, riuscirà Bersani a mantenere il suo piano e a evitare che si vada alle primarie, o l'onda d'urto di quell'iniziativa sarà tale da costringerlo a riscrivere il suo copione? Perché se Bersani non reggesse alla pressione si aprirebbero le cataratte: chi impedirebbe a Rosy Bindi di candidarsi? E chi fermerebbe Civati o Marino?
Nell'attesa, il partito si posiziona e si riposiziona. Le tante correnti, e i loro rivoli, si dividono in tre tronconi fondamentali. La «nuova destra» (la definizione, ovviamente è di comodo), dove c'è Renzi, ma ci sono anche i veltroniani e Gentiloni e Letta. Il loro leader futuribile e possibile è il sindaco di Firenze. La sinistra di stampo classico, di cui fanno parte i giovani turchi Fassina e Orfini. Il loro leader del futuro è Enrico Rossi. Poi c'è (poteva mancare in un partito che per due terzi è composto da ex pci?) quello che si potrebbe definire il centro berlingueriano, che media: sta a sinistra, ma sogna di diventare un partito socialdemocratico di stampo moderno. La particolarità è che a rappresentarlo non è, come sarebbe scontato, il segretario, ma Nicola Zingaretti. Già, il vero anti-Renzi è il presidente della Provincia di Roma.
Insomma, dire che la confusione è grande è un eufemismo. L'unica cosa certa sono le alleanze, almeno su questo si è raggiunto un punto fermo. Nel loro ultimo incontro Bersani e Casini si sono separati consensualmente e amichevolmente: se si andrà alle urne nel 2012 non ci sarà nessuna intesa elettorale con il terzo polo. Tornando al partito, è un quadro del Pd e per il Pd non certo confortante. Ma non è detto che le polemiche siano di nocumento al centrosinistra. Ne è convinto Paolo Gentiloni: «Grazie all'iniziativa di Renzi cominciamo finalmente a parlare di contenuti e a dividerci sulla politica. Non dobbiamo avere paura di questa contingenza, ma anzi dobbiamo prenderla come un'occasione».

il Fatto 30.10.11
Il Fondo monetario si prepara a salvare Italia e Spagna
Così anche la Cina potrà intervenire nella crisi europea
di Stefano Feltri


Per ora è solo un’indiscrezione, ma considerata molto credibile: il Fondo monetario internazionale sta discutendo con l’Unione europea di interventi straordinari per Italia e Spagna. Le ragioni sono evidenti: dopo l’accordo di mercoledì a Bruxelles tra i capi di Stato e di governo dell’Unione il Fondo salva Stati Efsf è stato potenziato da 440 a 1000 miliardi di euro. Ma si tratta di una forza teorica, fatta più di garanzie e di ingegneria finanziaria che di soldi reali. L’asta di titoli di Stato italiani di venerdì ha dimostrato che gli investitori non credono che l’Italia sia al sicuro: il Tesoro ha venduto i Btp a 10 anni al tasso record del 6,06 per cento, il più alto da quando c’è l’euro a proteggere i nostri conti.
Più di così, però, l’Europa non può fare. Di capitali in circolazione ce ne sono pochissimi, le banche europee dovranno trovare 106 miliardi, in teoria per proteggersi dal mancato rimborso di metà del debito greco, come deciso a Bruxelles, il pratica per far fronte a scossoni maggiori. Come una crisi dell’Italia, le cui banche infatti sono tra quelle che dovranno trovare più soldi, 14,7 miliardi di euro. E non sarà facile trovarli. Il capo dell’Efsf, Klaus Regling, è volato a Pechino a cercare di convincere i cinesi a investire nel salvataggio degli Stati europei, finanziando il fondo. Il governo della Repubblica popolare si è dimostrato freddo ma possibilista. Le notizie filtrate ieri da Washington sulla rete di salvataggio attorno a Spagna e Italia sembrano indicare quale sarà la soluzione: un aumento di capitale del Fondo monetario che oggi può contare su 383 miliardi di dollari (più altri 600 promessi ma non versati). Se si deciderà di rafforzare il Fmi per poi intervenire in Europa, magari direttamente nel fondo Efsf salva Stati la Cina potrebbe raggiungere due obiettivi: impiegare parte delle sue riserve che accumula esportando e aumentare il proprio peso dentro un’istituzione un tempo simbolo del Washington consensus, il predominio economico americano sulla globalizzazione. Anche il Portogallo, stando ad altre indiscrezioni riportate dalla Reuters, anche il Portogallo (già beneficiario dei programmi dell’Efsf) avrebbe chiesto agli Stati Uniti di intervenire direttamente in Europa, si immagina sempre con il Fmi. Se ne discuterà nei dettagli al vertice del G20 di Cannes, la prossima settimana, forse davvero l’ultima possibilità di trovare un metodo globale per affrontare la crisi del debito prima che uno dei focolai più pericolosi deflagri.
E l’Italia cosa può fare? Più passano i giorni, meno le promesse del governo Berlusconi nella lettera al consiglio europeo vengono considerate credibili. L’Economist parla di “due italiani”: “uno potrebbe condannare l’euro [Berlusconi], l’altro salvarlo [Draghi]”. Il Financial Times dice in prima pagina che “L’Italia rovina il clima dopo l’accordo europeo”, alludendo alla pessima asta dei Btp. Il ministro delle Finanze tedesco, il durissimo Wolfang Schaeuble in un’intervista avverte che se l’Italia non si muove in fretta saranno i mercati a punirla. Ma i giorni scorrono e di azioni concrete del governo non c’è traccia. Confcommercio, in uno studio, indica da dove si potrebbe cominciare: la politica cosa ogni anno 9 miliardi, 350 euro a famiglia, 150 a persona. Basterebbe tagliare di un terzo questa voce di bilancio per poter ridurre di quasi un punto percentuale l’Irpef e far ripartire la crescita. Ma una promessa del genere è troppo perfino per Berlusconi.

Corriere della Sera 30.10.11
Il Fondo salvataggi alla Cina «Pronti a lavorare in yuan»
di Gabriele Dossena


A ruoli capovolti, con le parti che si invertono. L'euro, da moneta di riserva globale, adesso spalanca le porte a ogni tipo di valuta, per far fronte alla crisi del debito. Così Klaus Regling, numero uno del Fondo europeo di stabilità finanziaria (l'Efsf), è volato a Pechino, all'indomani dell'accordo raggiunto dai leader europei per tentare di superare le difficoltà della zona euro, con un chiaro — e dichiarato — obiettivo: «Ascoltare potenziali investitori». Precisando, sempre dalla Cina, che il Fondo salva Stati europeo può emettere debito in qualsiasi moneta, e se emetterà bond in yuan dipenderà solo da Pechino. Per inciso, secondo fonti cinesi, Pechino potrebbe iniettare tra 50 e 100 miliardi di dollari nel Fondo salva Stati. Forza dei tempi. Che stravolgono la filosofia e le ambizioni scritte nell'atto di nascita della moneta unica.

REPRINT:
The Economist 29.10.11
Special report: Italy
Oh for a new risorgimento
Italy needs to stop blaming the dead for its troubles and get on with life
says John Prideaux

qui

The Economist 29.10.11
The euro-zone crisis
China to the rescue?

qui


La Stampa 30.10.11
Deng, lo strano comunista che ha cambiato il mondo
Una biografia del leader cinese: feroce nelle repressioni, visionario nelle riforme
di Gianni Riotta


Il padre delle riforme Un manifesto gigantesco a Pechino ricorda ai passanti il ruolo di Deng Xiaoping, che dopo la morte di Mao ha cambiato la Cina
Il professore di Harvard Ezra Vogel è nato nell’Ohio nel 1930. Uno dei maggiori esperti in Cina e Giappone, insegna ad Harvard dal 1964. Dal 2000 si è dedicato a scrivere la biografia di Deng
Quale leader del XX secolo ha, a vostro giudizio, migliorato la vita del maggior numero di esseri umani? E quale leader ha più a lungo mutato le sorti del mondo? Il presidente Roosevelt, che batte la crisi del 1929 e Hitler, il pacifista dell’indipendenza indiana Gandhi, Mandela, il reverendo King, Watson&Crick del Dna, Jobs del computer, i pionieri di femminismo ed ecologia, Wolf e Bateson?
Nelle 876 pagine della sua biografia «Deng Xiaoping and the transformation of China» il professor dell’università di Harvard Ezra Vogel propone il leader della nuova Cina come campione del Novecento. Centinaia di milioni di cinesi devono a Deng il passaggio, in una generazione, dalla fame, la miseria e la fatica dei campi al benessere, la ricchezza, standard di vita occidentali. Se il XXI secolo è già definito - forse con un pizzico di fretta patriottica - dallo studioso di Singapore Kishore Mahbubani «Secolo asiatico», il merito è di Deng, che muta la Cina della ciotola di riso al giorno nel gigante economico, diplomatico e militare profetizzato da Napoleone: «Quando la Cina si sveglierà, scuoterà il mondo».
Mao chiamava Deng «Ago in un batuffolo di cotone», il soprannome dei compagni nel Partito comunista cinese era più grigio, «Fabbrica d’acciaio». Per tutta la vita diede poca confidenza, non strinse amicizie profonde, si tenne chiuso dentro il cuore e l’anima. Vogel, 81 anni, riesce a raccogliere pochi aneddoti sui 92 anni del leader cinese, riservato e schivo, tipico quadro comunista, senza archivio di carte, appunti, diari. Nato al tramonto della Dinastia Qing, fuma e beve, adora il pane e i formaggi (gusti acquisiti a 16 anni, emigrato in Francia dove si converte al comunismo con il futuro primo ministro Zhou en Lai), gioca a bridge e userà fino all’ultimo le sputacchiere care ai cinesi della sua generazione. Niente università, solo un anno alla Scuola di partito a Mosca. Non si apre neppure in famiglia, la prima moglie muore giovane, la seconda lo lascia, la terza, Zhuo Lin, gli dà tre figlie e due figli. A uno di loro, Deng Pufang, le Guardie Rosse, durante la Rivoluzione Culturale, spezzano la schiena buttandolo dal quarto piano: resta paraplegico.
Per tutta la vita la sua sola ossessione è sviluppare la Cina, creare le fabbriche, le scuole, le strade, i palazzi, la vita che ha visto brillare a Parigi e che nella fame, le guerre, le persecuzioni dell’antico impero sembra perduta. Lavora con metodo e, non appena la morte di Mao apre alle caute riforme di Hua Guofeng, per vent’anni guida i cinesi al futuro, ammonendoli «Arricchitevi!». Non ha gli slogan di Mao, Rivoluzione culturale, Grande Balzo in Avanti, tutti finiti in tragedia. Deng accetta e scarta le idee con pragmatismo da «Fabbrica d’acciaio», quel che funziona si usa, quello che non funziona si rottama. I risultati sono formidabili: «In Occidente nessuno, nel 1978, immaginava che il Partito comunista cinese potesse guidare la nazione a una crescita economica più rapida dei Paesi capitalistici. Neanche gli studiosi ne avevano la più pallida idea», riconosce Vogel.
Il paradosso della Cina di Deng, gigante economico che usa gli strumenti del mercato in uno Stato comunista a partito unico, azzera ogni ideologia del ‘900, liberale o socialista, e vale qui la risposta di Vogel alla domanda «Quale leader ha migliorato la vita di più persone nel secolo?»: Deng Xiaoping.
Dove invece gli storici delle prossime generazioni dibatteranno è sulle contraddizioni di Deng, prima del famoso viaggio in America del 1979, quando il minuscolo leader cinese si cala sulle orecchie da Topo Gigio il cappellone Stetson dei cow-boy e saluta come a un rodeo. Perché dei massacri del maoismo Deng è corresponsabile, fin dall’epica Lunga Marcia che salva l’esercito popolare nel ‘34. Durante la riforma agraria 1949-1951
Deng epura i piccoli agricoltori, la classe di suo padre, e riceve l’elogio macabro di Mao «Hai avuto successo, ne hai liquidati un bel po’…». Vogel stima le vittime fra i due e i tre milioni. Altrettanto brutale il padre della nuova Cina è nel capeggiare la «Campagna contro la Destra» del 1957, che stermina 550.000 intellettuali e dissidenti, gli scienziati, i tecnici, la classe culturale indispensabile al boom cinese. E ancora nel Grande Balzo in Avanti del 1958-1961, un crimine che scatena per le assurde scelte di Mao la carestia dei 45 milioni di morti, Deng è fedele alla linea.
Toccano poi a lui gli arresti domiciliari nel 1966 come «neocapitalista», il campo di lavoro nello Jianxi a spalare letame, le torture inflitte al figlio. E ancora nel ‘75-‘76, tra la morte di Mao e la sconfitta dei radicali della Banda dei Quattro, Deng è costretto all’autocritica e emarginato. Nell’esilio rurale in Jianxi, solo e in silenzio, capisce che le forze produttive del capitalismo, della scienza e della tecnologia batteranno il modello socialista. Finito il lavoro nei campi, stila tra un mozzicone e l’altro il piano che, una volta arrivato al potere dopo Hua Guofeng, imporrà al Paese sterminato.
Resta a suo carico la strage degli studenti che chiedevano, oltre al benessere, libertà, a piazza Tiananmen, nel 1989: «L’Occidente se ne dimenticherà presto» commenta cinico e realista e anche stavolta, purtroppo, vede bene. Vogel non lo assolve, ma inquadra storicamente la tragedia: senza il partito unico la Cina non si sarebbe sviluppata, ricadendo nelle faide dei signori della guerra.
Prevarrà nel futuro l’immagine dello stoico Deng che nel campo di lavoro progetta la salvezza della Cina o il complice delle stragi? Per ora, il piccolo figlio del possidente Deng Wenming è il leader del ‘900 che più influenza il nuovo secolo: quando le navi da guerra cinesi incrociano nell’Oceano Indiano, quando Pechino rileva debito americano ed europeo, quando compriamo scarpe a buon prezzo, perdiamo posti di lavoro, esportiamo beni di lusso alla borghesia cinese. E’ stato Deng Xiaoping a svegliare la Cina e il mondo non finirà a lungo di scuotersi.

La Stampa 30.10.11
Obbligatorie le impronte digitali sui documenti d’identità
Pechino approva due nuove leggi per la lotta contro il terrorismo


Il Parlamento cinese ha adottato ieri due nuove leggi che inaspriscono la legislazione antiterrorismo già in vigore nel Paese, e rendono obbligatorie le impronte digitali sulle carte d’identità nazionali. Le norme approvate dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale popolare mirano a «rafforzare la stabilità sociale», hanno indicato dei deputati ai giornalisti. La prima legge - ha detto il parlamentare Li Shuwei - dà una definizione giuridica di «terrorismo», fissando più chiaramente gli obiettivi e le condizioni di intervento delle unità antiterroristiche in Cina. Sono definiti terroristici gli atti destinati a creare un clima di paura o a esercitare pressioni sulle istituzioni dello Stato o sulle istituzioni internazionali, con la violenza, il sabotaggio e la minaccia. La Cina aveva già adottato numerose leggi antiterrorismo, ma l’assenza di una definizione chiara poneva problemi di interpretazione, ha aggiunto il parlamentare, sottolineando che la nuova legge fornirà una base giuridica alla partecipazione della Cina alla lotta contro il terrorismo a livello internazionale. Le nuove regole sembrano puntate essenzialmente contro i movimenti ribelli degli uiguri nello Xinjiang, dove sono frequenti moti, attentati e attacchi alle sedi del governo. Secondo Pechino, c’è il rischio che gli uiguri, musulmani, possano avere contatti con l’islamismo radicale internazionale, ma finora i separatisti venivano perseguiti in base ad accuse di «attentato alla sicurezza nazionale» e non di terrorismo. La nuova definizione di terrorismo serve anche a facilitare le richieste di cooperazione verso i servizi di intelligence di altri Paesi, soprattutto il Pakistan e gli Usa.

l’Unità 30.10.11
Nella legge di stabilità cancellato il fondo di 184 milioni per dare voce ai “giornali di idee”
Da l’Unità al Secolo d’Italia In pericolo il futuro di centinaia di aziende, con 4mila dipendenti
Niente soldi all’editoria così si uccidono le testate «scomode»
«È una volontà politica», denuncia il Comitato per la Libertà e per il diritto all’Informazione. Rischiano di sparire centinaia di realtà editoriali che non rispondono alle logiche del mercato ma che esprimono la voce dei territori e della società civile.
di Roberto Monteforte


Un appello al presidente della Repubblica è un gesto estremo. Da allarme rosso. Questa volta il pluralismo dell' informazione è veramente a rischio. Un’intera realtà editoriale, quella dei giornali di idee e non profit, delle testate cooperative e politiche di
ogni orientamento da Liberazione e il Manifesto sino al Secolo d'Italia e alla Padania, da l'Unità a Avvenire e al Riformista, sino a Nuova Ecologia, Rassegna Sindacale e ai settimanale diocesani che assicurano l’informazione locale da gennaio rischiano di dover chiudere. Sono le voci spesso scomode delle idee, di realtà editoriali che non rispondono alle logiche del mercato, che esprimono la voce dei territori e della società civile, che rischiano di sparire. Lo dicono drammaticamente le cifre.
Invece dei 184 milioni di euro previsti dal Fondo per l’editoria per il finanziamento “diretto”, l’anno prossimo al netto dei 50milioni destinati a far fronte al pagamento del debito che il governo ha con l’Ente Poste per le tariffe agevolate e degli oltre 40 milioni della convenzione tra lo Stato e la Rai saranno disponibili non più di 30 milioni di euro. È quanto stabilisce la “legge di stabilità”, ora in discussione al Senato. Sono briciole.
LA SCURE DI TREMONTI
Nel 2006 per il Fondo editoria erano stati stanziati oltre 420 milioni di euro. Troppi per il ministro Tremonti. Nel 2008 scendono a 336 milioni. Per il 2010 erano previsti 344 milioni. Alla fine scendono a 195 milioni e tale cifra era quella prevista dalla “legge di stabilità” anche per gli esercizi 2011 e 2012.
Con la manovra del luglio 2008 Tremonti ha cancellato il “diritto soggettivo” al finanziamento diretto. Solo alla fine dell’anno di riferimento e “a riparto” tra i diversi aventi diritto, si saprà la quota parte del contributo pubblico cui si ha diritto. Un duro colpo al settore, che ha reso incerta la definizione dei bilanci e delle garanzie da fornire al sistema bancario.
In questi anni deputati e senatori, in modo “trasversale”, sono riusciti a garantire al Fondo quei 195 milioni di stanziamento. Il settore dell’editoria, attraverso dure ristrutturazioni e stati di crisi, e malgrado la forte penalizzazione sul mercato pubblicitario, sino a oggi ha retto. Ora, con i “tagli lineari” voluti dal governo Berlusconi, centinaia di aziende rischiano di essere cancellate. Sono quattromila, senza considerare l’indotto, i dipendenti che rischiano di finire per strada.
«È una volontà politica» hanno denunciato i promotori della conferenza stampa contro i tagli al Fondo per l’editoria, tenuta lo scorso 27 ottobre al Senato e indetta dal Comitato per la Libertà e per il diritto all’Informazione. La Fnsi, Mediacoop, Confcooperative, Cgil, Federazione dei giornali diocesani e i direttori dei giornali coinvolti hanno chiesto “criteri rigorosi e innovativi” per accedere ai “finanziamenti diretti”, a partire dall’accertamento del reale numero di dipendenti regolarmente assunti a tempo indeterminato, della vendita e distribuzione. Chiedono che i risparmi che si conseguiranno con l’operazione di “pulizia” siano utilizzati “per finanziare l’innovazione digitale e la crescita della domanda di informazione”.
I tagli, in realtà, finirebbero per aggravare la crisi. Per gli ammortizzatori sociali a tutela dei lavoratori si spenderebbe più di quanto sarebbe necessario per garantire il Fondo per l’editoria. Senza contare le perdite per gli enti previdenziali e le entrate per lo Stato, dall’Iva all’Irap.
L’appello ai parlamentari è quindi che sia ripristinato il Fondo. Vi sono gli emendamenti dell’opposizione presentati dai senatori del Pd Vita e Lusi, cui si è aggiunta la firma del senatore Butti del Pdl. Lo schieramento è trasversale. La battaglia di libertà per il pluralismo continua.

l’Unità 30.10.11
Dublino Ex ministro e poeta, è il settantenne Higgins il nuovo presidente
Ribaltamenti Smentiti i sondaggi. Determinante la crisi economica
Vince il laburista, perde la star tv Il voto a sorpresa dell’Irlanda
Pronostici ribaltati nelle presidenziali irlandesi. Vince il laburista Higgins. Emergono i suoi legami con il Fianna Fail e crolla l’«indipendente» Gallagher, favorito sino a pochi giorni prima del voto.
di Gabriel Bertinetto


Non se l’aspettava nessuno a Dublino. I sondaggi sono stati completamente ribaltati. Il politico idealista, schierato a sinistra, sconfigge l’imprenditore e star televisiva che si professava indipendente, ed era invece (o almeno era stato) in stretti rapporti con l’odiato partito conservatore Fianna Fail. Il partito che gli irlandesi considerano responsabile del tracollo economico del 2008. E che hanno punito rifilandogli il minimo storico dei consensi nelle elezioni parlamentari di febbraio.
Michael D. Higgins, 70 anni, poeta, ex-parlamentare laburista, è il nuovo presidente dell’Irlanda. Gli avevano pronosticato il 25% dei voti. Ha raggiunto il 40%. Le stesse indagini demoscopiche avevano regalato a Sean Gallagher l’illusione di un trionfante 45%. Sogni di gloria drasticamente ridimensionati dalla realtà del 28% uscito dalle urne.
DISASTRO ECONOMICO
L’esito delle presidenziali mostra quanto sia stata sconvolgente per i cittadini irlandesi la crisi degli ultimi anni, quando hanno improvvisamente scoperto la fragilità del boom conosciuto all’inizio del millennio. Boom costruito sul credito facile, speculazioni finanziarie, tagli di imposta sconsiderati. Per qualche anno il bengodi di pochi è sembrato offrire prospettive ai molti. Poi la bolla è scoppiata. Chi aveva fatto debiti per comprare la casa, si è trovato senza soldi e senza mura. Fallimenti a catena di banche e imprese. Disoccupazione alle stelle (ancora oggi il 14,3% della popolazione).
Il merito di avere sfilato a Gallagher la maschera del candidato indipendente, rivelandone il vero volto «fiannafailico», va a un illustre outsider della competizione elettorale. Si chiama Martin McGuinness, un nome che in Irlanda e nel Regno Unito è tragicamente associato agli anni del conflitto armato fra Londra e i nazionalisti cattolici di Belfast. Lui nega, ma molti ancora sospettano che per un certo tempo abbia comandato l’Ira. Un ex-terrorista insomma, anche se fu lui assieme a Gerry Adams il protagonista della svolta che portò l’Ira a deporre le armi a metà degli anni novanta.
In un dibattito televisivo, due giorni prima del voto McGuinness ha prodotto le prove del finanziamento ricevuto da Gallagher nel 2008 a favore del Fianna Fail. Non una grande somma, 5000 sterline. Ma Gallagher fino ad allora aveva negato. E oltre Manica non si perdona facilmente il politico che sgarra o che mente. Lo scoop non ha migliorato la performance elettorale di McGuinness che con il 14% è anzi andato lievemente sotto la percentuale attribuitagli dall’ultimo sondaggio. A beneficiarne è stato il
laburista Higgins con un prepotente balzo in avanti. Segno che i cittadini guardano con una relativa fiducia ai tentativi di ricostruzione economica e sociale che sta portando avanti il nuovo governo, in cui i laburisti sono presenti seppure come soci di minoranza.
LA TANA DEL DRAGO
Un’altra lezione che emerge dalle presidenziali irlandesi è la capacità della società irlandese di resistere all’ipnosi mediatica. L’associazione fra successo economico e fama televisiva ha pompato l’ascesa di Gallagher nei consensi popolari, ma non fino al punto di vaccinarlo dal giudizio negativo per certi comportamenti eticamente o legalmente scorretti. Eppure Gallagher è stato il re della trasmissione Dragon’s Den (Tana del drago), in cui alcuni ricchi e affermati umini d’affari vagliavano le proposte di giovani aspiranti imprenditori e decidevano se sostenerli con i propri investimenti.
Quanto a McGuinness, può vantare di essere andato ben oltre il bacino elettorale del suo partito, il Sinn Fein, che in Ulster è pari al 25%, ma in Irlanda è limitato al 10%. Forte del buon risultato ottenuto a Dublino, riprende a Belfast il ruolo di governo da cui si era temporaneamente sospeso.

l’Unità 30.10.11
Intervista a Radwan Ziadeh
«In Siria è strage continua. Se continua a tacere, il mondo sarà complice»
L’attivista per i diritti umani «Repressioni, fosse comuni, torture: il regime finora ha ucciso 4000 civili, oltre 200 bimbi. La comunità internazionale non alza un dito»
di Umberto De Giovannangeli


È divenuto il simbolo della rivolta popolare contro il regime di Bashar al-Assad. Per il suo impegno a difesa dei diritti umani ha conosciuto più volte le carceri del regime: è Radwan Ziadeh, 35 anni, fondatore e direttore del Damascus Center for Human Rights Studies, oltre che uno dei principali promotori della «Dichiarazione di Damasco»; attualmente è visiting scholar presso la George Washington University. «Da mesi – dice Ziadeh nell’intervista esclusiva concessa a l’Unità – nel mio Paese è in atto una insurrezione popolare contro il regime del clan Assad. La risposta sono quasi 4mila morti – tra cui oltre 200 bambini più di 30mila feriti, sono le carceri piene di oppositori, le torture sistematiche anche negli ospedali dove vengono ricoverati i manifestanti feriti, le fosse comuni, città messe a ferro e fuoco, esponenti dell’opposizione minacciati anche all’estero. Assad ha dichiarato guerra al popolo siriano come e peggio di quanto hanno fatto Ben Ali in Tunisia o Mubarak in Egitto. Ma la comunità internazionale non ha alzato un dito contro di lui. E questa si chiama complicità». L’Onu, insiste Ziadeh, «deve imporre sanzioni contro gli individui e le istituzioni responsabili della repressione violenta delle proteste. Queste sanzioni dovrebbero essere simili a quelle adottate dall’Ue e dagli Usa, e il Consiglio di Sicurezza dovrebbe prendere l’iniziativa di inviare il dossier siriano all’Aja, come è stato fatto per il caso libico».
Suo fratello Yaseen, un commerciante di 37 anni, il 30 agosto è stato prelevato con la forza a Daraya, periferia di Damasco, dagli uomini di Assad. «È finito in carcere per colpa mia. Mio fratello non era mai sceso in piazza: non potendo colpire me, si rifanno su di lui», denuncia Radwan. Dal Palazzo di Vetro, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, è tornato a chiedere «la fine immediata delle operazioni militari contro i civili» in Siria.
Ban ha inoltre chiesto «la liberazione di tutti i prigionieri politici e delle persone detenute per aver partecipato a manifestazioni» ed ha esortato le autorità siriane a intraprendere «riforme ambiziose» per rispondere alle aspettative della popolazione. Professor Ziadeh, già in passato la Siria è stata teatro di rivolte contro il regime baathista. Cosa differenzia la rivolta in atto?
«In primo luogo, l’ampiezza e il numero delle manifestazioni. Le proteste di oggi non si concentrano in una o due città come negli anni ’80, bensì si sono estese in decine di città e centri minori di tutta la Siria. Un’altra differenza sostanziale è il ruolo dei mass media, che è molto diverso da quel che era in precedenza. I mass media sono una delle ragioni per cui possiamo conoscere il numero approssimativo delle vittime delle proteste in corso. Per converso non abbiamo fino ad oggi un conteggio ufficiale di quanti rimasero uccisi a Hama nel 1982, solo stime che variano dalle 20 mila alle 30 mila persone. All’epoca l’accesso all’informazione era limitato, oggi non è più così. Oggi gli eventi possono essere documentati immediatamente. La rivoluzione du Internet e dei social network quali Youtube, Facebook e Twitter, ha un ruolo fondamentale nello svelare ciò che sta accadendo e nel consentire ai manifestanti di comunicare tra di loro».
Ciò che non cambia è la reazione del regime...
«Assad cerca di mascherare la sua impotenza politica con l’esercizio brutale della forza. Il bilancio aggiornato di sette mesi di repressione è sconvolgente: 3.800 persone sono state uccise. Di queste, 3.150 sono civili e 650 militari. Da marzo, i bambini e gli adolescenti uccisi dalle forze del regime sono oltre 220, le donne 115: nel solo mese di ottobre i bambini uccisi sono almeno 31, praticamente uno al giorno. I rastrellamenti casa per casa sono ormai diventati una prassi: entrano e arrestano tutti gli uomini dai 18 ai 45 anni. A Deraa (città-simbolo della rivolta, ndr), è stata scoperta una fossa comune: nella fossa c'erano anche i resti di donne e bambini. E non è un caso isolato. Per ciò che ha fatto, e continua a fare, Assad dovrebbe essere processato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, così come si voleva per Gheddafi. Assad minaccia di destabilizzare l’intera regione se il mondo oserà contrastarlo. Ma il mondo non può subire questo ricatto. La repressione, le fosse comuni, le torture, non hanno fermato l’insurrezione. In questo contesto, è molto importante ciò che sta accadendo nell’esercito, che è sempre stato uno dei pilastri del regime: ogni giorno aumenta il numero dei soldati e ufficiali che disertano per passare con il popolo in rivolta. E queste defezioni incrinano la compattezza del regime e danno speranza a coloro che ogni giorno rischiano la vita per rivendicare i propri diritti. Il nostro obiettivo principale e tutta la nostra attenzione, in questa fase, è sull’esercito siriano».
In questo scenario, cosa chiedete alla comunità internazionale, agli Usa e all’Europa in particolare? «Chiediamo coerenza e coraggio. Chiediamo di non chiudere gli occhi di fronte al sangue che scorre nel mio Paese. Chiediamo un sostegno attivo, fatti e non parole, ad una rivolta pacifica, che chiede diritti, libertà, come è accaduto in Tunisia o in Egitto. Chiediamo la creazione di una “no fly zone” come è avvenuto in Libia, a protezione della popolazione civile cannoneggiata dall’artiglieria pesante e bersagliata dai caccia del regime. Non agire significa essere complici di un dittatore che ha dichiarato guerra al popolo».

La Stampa 30.10.11
Mogliaia di coscritti si sono rifugiati nelle campagne e attaccano le forze di sicurezza
Siria, è guerra aperta “Disertori contro soldati”
E Assad avvisa: se l’Occidente interviene si scatenerà un terremoto
di Lorenzo Trombetta


Da tre giorni sono chiusi in casa gli inquilini della palazzina Sabbagh di Bab Amro, antico rione di Homs, terza città della Siria, dove per tutta la giornata di ieri sono proseguiti i tiri della contraerea dei carri armati dell’esercito fedele al presidente Bashar al Assad. «Dormiamo tra il bagno e il corridoio, le stanze della casa più lontane dalla facciata presa di mira dai colpi», racconta interpellato telefonicamente Munir, pseudonimo di un attivista di Homs, ricercato dalle milizie lealiste perché membro dei Comitati di coordinamento locale, principale piattaforma di organizzatori della rivolta in corso da sette mesi.
Il centro di documentazione delle violazioni in Siria, legato ai Comitati, ha pubblicato ieri sera sul suo sito Internet una lista di 55 civili uccisi tra venerdì e ieri. La lista è dettagliata, con nomi, cognomi, luoghi e dettagli delle uccisioni. La maggior parte delle vittime - trentuno - proviene da Homs città e dai suoi dintorni; altre diciassette uccisi a Hama, poco più a Nord; le altre vittime si dividono tra la regione meridionale di Daraa, quella nord-occidentale di Idlib, due sobborghi di Damasco e Qamishli, cittadina nel Nord-Est a maggioranza curda.
L’agenzia ufficiale «Sana» ha dal canto suo riferito dei funerali celebrati ieri di 15 tra soldati dell’esercito (tra cui due ufficiali), agenti delle forze di sicurezza, poliziotti e un civile, uccisi venerdì. Nel bilancio fornito dai media governativi non figurano i tre minorenni uccisi a Homs e Hama «per mano delle milizie di al Assad», come affermano i testimoni ripresi nei video amatoriali pubblicati su Youtube e che ritraggono le salme dei tre giovani «martiri».
L’offensiva governativa da settimane si concentra contro Homs e Hama, lungo la direttrice Sud-Nord Damasco-Aleppo, due epicentri della rivolta dove si sarebbero rifugiati centinaia, forse migliaia, di soldati disertori. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) afferma che venerdì sono stati uccisi 17 militari governativi nelle campagne di Hama da disertori. Altri venti e un ribelle sono morti invece ieri all’alba in uno scontro nel nord ovest. Per il regime si tratta di terroristi armati da Israele, Arabia Saudita, Turchia.
La guerra civile in cui sembra scivolare la Siria centrale è però ancora lontana da Damasco e il presidente Assad ha mandato ieri un messaggio preciso all’Occidente: un’eventuale azione in Siria scatenerebbe «un terremoto» e «metterebbe a fuoco l’intera regione. Volete vedere un altro Afghanistan, o decine di Afghanistan?», ha detto in un’intervista concessa al Sunday Telegraph.
«Nessuno mi ha obbligato a scendere in strada. In Siria siamo liberi di dire e fare quel che vogliamo», afferma Tania, cristiana del quartiere Qusur, che preferisce però non rivelare il suo cognome. Il governo ha annunciato che sono aperte le liste elettorali per le consultazioni amministrative del 12 dicembre. Si andrà a votare con la nuova legge, definita uno dei fondamenti del processo di riforma avviato da Assad. Processo che però non ha toccato l’articolo della Costituzione che di fatto rende il Baath il partito unico, al potere da mezzo secolo e facciata istituzionale del regime dominato dagli Assad e da alcuni clan alawiti alleati.
E oggi a Doha, in Qatar, si recherà una delegazione governativa di Damasco che dovrà dire alla commissione ministeriale della Lega Araba che ha ieri condannato le uccisioni di civili - se la Siria è disposta ad avviare, al Cairo, un dialogo con tutte le sigle del dissenso e delle opposizioni.
"Homs è sotto assedio «I tank del regime sparano sulla gente con le mitragliatrici»"

La Stampa 30.10.11
L’Islam e noi: la primavera è lontana
di Vladimiro Zagrebelsky


Due notizie giungono insieme e permettono una riflessione sulla concezione dei diritti fondamentali che ha maturato l'Europa, rispetto a quella che emerge da alcuni paesi, ove prevale la religione islamica. È di ieri la notizia che la condotta del Comune e la contrastata procedura per l’autorizzazione a costruire a Torino una moschea, luogo di culto dei musulmani, sono state convalidate da una sentenza del Tribunale amministrativo.
Le leggi italiane dunque non impediscono a chi professa la religione islamica di avere, alla luce del sole, un degno luogo di culto. Sembrerebbe ovvio, eppure è stato necessario l’intervento di un giudice, poiché vi sono resistenze.
La decisione certifica che, osservate le ordinarie norme urbanistiche, nessun impedimento può essere frapposto sulla base della fede religiosa, sgradita ad alcuni, ai cui riti è destinato il luogo di culto. Corretto e, insisto, ovvio alla luce di ciò che stabiliscono la nostra Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In questi stessi giorni le nuove autorità dell’Egitto, ed anche esponenti di quelle libiche, hanno annunciato le prime che continuerà a essere necessaria una speciale autorizzazione per costruire chiese cristiane e le seconde che lo Stato libico riconoscerà un posto privilegiato alla sharia, la legge che i musulmani ritengono rivelata da Dio. Sulla compatibilità di questa fonte del diritto con i principi che sono propri delle democrazie, si è pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo, quando le è stata sottoposta la questione della compatibilità, appunto con i principi democratici, dello scioglimento di un partito politico turco, che aveva nel proprio programma l’instaurazione della sharia in Turchia. E la Corte europea ha affermato che l’imposizione della sharia come legge fondamentale non sarebbe stata compatibile né con la laicità, cardine della democraticità dello Stato, né con l’eguaglianza dei cittadini. Nel progetto di quel partito, infatti, sarebbe stato reintrodotto il sistema ottomano del diverso statuto giuridico delle persone secondo la religione professata. Si può aggiungere che in diversi Paesi musulmani, che si richiamano alla sharia, la libertà religiosa di chi non aderisce alla religione islamica soffre gravi restrizioni. La libertà di religione non riguarda solo la libertà di coscienza individuale, ma anche quella di cambiare religione, di manifestare la propria adesione a una religione individualmente e collettivamente, in pubblico e in privato, con il culto, l’insegnamento e il compimento dei riti. Tutti aspetti di libertà religiosa che hanno dato luogo a talora drammatiche repressioni.
Tornando alla costruzione di luoghi di culto e alle pratiche religiose alle quali sono destinati, le due contrastanti notizie consentono innanzitutto di rilevare quanto profonda sia la diversità di tradizioni culturali e giuridiche in materia di libertà fondamentali in generale e di libertà religiosa in particolare. Anche se si è consapevoli del fatto che il superamento di pratiche restrittive fuori dell’Europa sarà probabilmente lungo e contrastato, occorre mantenere fermezza di posizioni ideali e continuità nella pressione perché l’attuale stato di cose muti. L’Unione europea e i singoli Stati membri dichiarano di tener conto della necessità di protezione dei diritti fondamentali in tutte le relazioni commerciali e di cooperazione che allacciano con altri Stati. Periodicamente il Parlamento europeo produce in proposito una abbastanza triste relazione. Abbastanza triste, perché ne risulta che troppo spesso l’interesse economico o politico prevale e spinge a chiudere gli occhi sulla natura dei governi con cui si tratta. Le recenti relazioni con i Paesi del Nord-Africa ne sono un evidente esempio.
Ma un tratto essenziale del diverso modo di intendere i diritti fondamentali in Europa e in gran parte del resto del mondo, riguarda, oltre che il loro contenuto, la natura stessa dei diritti dell’uomo. Per il loro riconoscimento e la loro protezione non vale, nei rapporti tra gli Stati, il principio di reciprocità. Uno Stato non può rifiutare sul suo territorio a cittadini di un altro Stato (o a fedeli di una specifica religione) di esercitare un loro diritto fondamentale per il fatto che in quell’altro Stato eguale riconoscimento e protezione non sono assicurati. Si tratta di una questione essenziale, che è conseguenza diretta della convinzione raggiunta in Europa, che i diritti e le libertà fondamentali appartengono alle persone originariamente e non per concessione degli Stati. Le violazioni che avvengono altrove non giustificano le violazioni che si commetterebbero in Europa. L’Europa, se così si comportasse, colpirebbe se stessa e i fondamenti della propria cultura. Oggi dunque, mentre non dimentichiamo che la libertà di religione non è garantita altrove e a chi ne soffre assicuriamo la nostra simpatia (nel senso etimologico del patire insieme), possiamo dire che siamo fortunati ed anche orgogliosi di ciò che avviene da noi, in Europa.

l’Unità 30.10.11
L’indignazione si aggira per il pianeta
Zygmunt Bauman guarda al nuovo movimento internazionale e spiega come la protesta sia diversa in ciascun Paese perché è diverso il muro che vuole abbattere per costruire un mondo più giusto di quello attuale
di Giuliano Battiston


Abbiamo incontrato Zygmunt Bauman a Roma, in occasione della sua lectio magistralis su Quali sono i problemi sociali oggi?, nell’ambito della Terza edizione del Salone dell’editoria sociale di Roma.
Nei suoi testi cita spesso una frase di Cornelius Castoriadis: «Ciò che non va nella società in cui viviamo è che ha smesso di mettersi in discussione». In un mondo in cui le vecchie coordinate della modernità solida stanno scomparendo, come individuare le domande più pertinenti e i problemi sociali a cui rispondere con più urgenza?
«Viviamo in un tempo di vuoto (simile all’“interregnum” dell’antica Roma), un periodo in cui i vecchi metodi con cui facevamo andare avanti le cose risultano inefficaci, mentre non ne sono stati ancora inventati di nuovi. È un periodo di cambiamento, non di transizione, perché “transizione” implica un passaggio da un “qui” a un “lì”, e sebbene conosciamo piuttosto bene il “qui” da cui cerchiamo di fuggire non abbiamo idea del “lì” dove vorremmo arrivare. Definire quali fossero i “problemi sociali” su cui intervenire poteva essere un compito difficile ma praticabile al tempo in cui i nostri antenati discutevano sul cosa ci fosse da fare, ma erano piuttosto sicuri sul chi lo avrebbe fatto, ovvero lo stato, un’istituzione potente, dotata di tutto ciò che occorresse per farlo: il potere (la capacità di fare le cose) e la politica (la capacità di decidere quali cose andassero fatte e quali evitate). Oggi invece tutti i poteri che determinano la nostra condizione – la finanza, gli investimenti di capitale, il commercio – sono di natura globale, extraterritoriale, molto al di là della portata di tutti gli organismi politici esistenti; allo stesso tempo, la politica rimane ostinatamente locale, confinata al territorio di un singolo stato. Oggi la domanda vitale è “chi lo farà”, nel caso dovessimo decidere ciò che c’è da fare».
Gli «indignati» sostengono che a «fare le cose» non debbano più essere quelli che le hanno fatte finora. Per qualcuno, questo movimento planetario dimostra il collasso della democrazia rappresentativa, della comunità politica territorialmente definita; per altri, si tratta dell’ennesimo movimento effimero. Lei cosa ne pensa? «I manifestanti di Manhattan, così come i giovani e meno giovani del movimiento los indignados, sono privi di leader, provengono da ogni tipo di vite, razze, religioni e campi politici, sono uniti soltanto dal rifiuto di lasciare che le cose procedano come ora. Ognuno di loro ha in mente un’unica barriera o muro da mandare in frantumi o distruggere. Le barriere variano da Paese a Paese, ma ciascuna è ritenuta quella il cui smantellamento è destinato a mettere fine a tutte le sofferenze. Sulla forma che dovranno prendere le cose, ci si interrogherà solo in seguito. Combinare un unico obiettivo di demolizione con un’immagine vaga del mondo che verrà è la forza di questi manifestanti, ma anche la loro debolezza. Sono abili demolitori, ma devono ancora dimostrare di essere abili costruttori. In ogni caso, se i due giovincelli di Rhineland, Marx ed Engels, si sedessero ora a redigere il loro ormai bicentenario Manifesto, potrebbero inaugurarlo con l’osservazione che “uno spettro si aggira sul pianeta: lo spettro dell’indignazione”».
L’indignazione è in primo luogo il frutto della crisi economico-finanziaria. In «Vite che non possiamo permetterci», scrive che la crisi dimostra che «il capitalismo dà il meglio di sé non quando cerca (se cerca) di risolvere i problemi, ma quando li crea», e che «non può essere contemporaneamente sia coerente che completo». Intende dire che il capitalismo è un sistema parassitario?
«Cento anni fa, Rosa Luxemburg ha compreso il segreto dell’inquietante abilità del capitalismo di risorgere ripetutamente dalle ceneri; una capacità che si lascia dietro una scia di devastazione: la storia del capitalismo è segnata dalle tombe degli organismi viventi la cui linfa vitale è stata succhiata fino all’esaurimento. La Luxemburg confinava però la gamma degli organismi allineati per le imminenti visite del parassita alle “economie pre-capitalistiche”, il cui numero era limitato e progressivamente in diminuzione per la continua espansione imperialista. Ragionando secondo queste coordinate, la Luxemburg non poteva far altro che anticipare i limiti naturali alla possibile durata del sistema capitalista: una volta che tutte le “terre vergini” del globo fossero state conquistate, l’assenza di nuove terre sfruttabili avrebbe portato il sistema al collasso. La profezia della Luxemburg si sta per avverare? Non lo credo. Nell’ultimo mezzo secolo, il capitalismo ha imparato l’arte prima sconosciuta di produrre sempre nuove “terre vergini”. Questa nuova arte, resa possibile dal passaggio dalla “società di produttori” alla “società di consumatori”, fa sì che il profitto e l’accumulazione consistano soprattutto nella progressiva mercificazione delle funzioni della vita, nel sostituire il desiderio al bisogno come volano dell’economia. La crisi attuale deriva dall’esaurimento di una “terra vergine” artificialmente creata, quella costruita sulla “cultura delle carte di credito”. In linea di massima,lo sfruttamento di questa particolare “terra vergine” è ora finito, e ai politici è stato lasciato il compito di ripulire i detriti lasciati dal banchetto dei banchieri». Quali sono le conseguenze del passaggio dalla società solida dei produttori a quella liquida dei consumatori? «In una società di produttori i profitti venivano generati dall’incontro tra il capitale e il lavoro, e in un certo senso il capitalismo era un fattore di risentimento collettivo. Nella società dei produttori, i profitti vengono dall’incontro tra la merce e il cliente; si tratta di un evento solitario, che promuove l’interesse personale piuttosto che la solidarietà e l’unione. Formati socialmente innanzitutto come consumatori e solo in secondo luogo come produttori, siamo addestrati a modellare le relazioni interumane sul modello della relazione del consumatore con i beni di consumo. Ciò porta alla fragilità e alla temporaneità dei legami interumani. Inoltre, per raggiungere il rango di consumatori, ognuno di noi deve trattare se stesso come una merce vendibile, il che intensifica la continua frammentazione e atomizzazione della società. Per finire, segue la fascinazione per il Pil (che misura soprattutto le attività di consumo): la società dei consumatori non conosce altro modo per “risolvere i problemi” e affrontare i problemi sociali che incoraggiare la “crescita economica”, ingrandendo all’infinito la pagnotta da affettare piuttosto che dividerla giudiziosamente ed equamente». L’idea dell’equivalenza tra crescita economica e giustizia sociale, basata sull’assunto che il progresso e lo sviluppo potessero risolvere di per sè la questione della disuguaglianza sociale, ha caratterizzato tutto il Novecento. La crisi è anche l’occasione per mettere in discussione l’idea della crescita e del progresso come fini in sé?
«I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; dopotutto, l’arricchimento è un valore che merita di essere ambito fino a quando aiuta a migliorare la qualità della vita, che nel dialetto della congregazione planetaria della Chiesa della Crescita Economica significa “consuma di più”. Per la fede di questa Chiesta fondamentalista, tutte le strade verso la redenzione, la salvazione, la grazia divina e secolare, la felicità immeditata ed eterna, passano attraverso i negozi. E quanto più affollati sono gli scaffali dei negozi in attesa dei cercatori di felicità, tanto più vuota è la Terra. Ciò che è passato sotto il più assordante silenzio, è l’avvertimento di Tim Jackson nel suo libro di ormai due anni fa, Prosperità senza crescita (ed. italiana Edizioni Ambiente 2011, ndr): alla fine di questo secolo “i nostri figli e nipoti avranno a che fare con clima ostile, risorse esaurite, distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazione di massa e guerra quasi inevitabile”. Forse sta per emergere la verità di una visione alternativa della storia e del progresso: anziché una corsa in avanti, irreversibile, che non prevede ritirate, rincorrere la felicità attraverso i negozi è solo una deviazione eccezionale, intrinsecamente e inevitabilmente temporanea? La giuria non si è ancora espressa. Ma è tempo che emetta un verdetto. Più indugia, più è verosimile che sarà costretta a uscire di corsa dalla sala di consiglio. Per mancanza di cibo».
Il decano della sociologia. Il pensatore
Tra i maggiori analisti del nostro tempo, Zygmunt Bauman, nato a Poznan, Polonia, nel 1925, ha costruito un lungo percorso di ricerca. È animato da una forte passione etica e che mira, nella diversità degli argomenti trattati, a un unico obiettivo: proteggere il nostro bene comune più prezioso – la società in cui viviamo – da chi ci insegna che «qualunque cosa si raggiunga nella vita può essere ottenuta nonostante la società, e non grazie a essa». Per farlo, secondo l’autore de «La società sotto assedio» (Laterza) occorre in primo luogo porre le domande giuste, perché «porsi le domande giuste è ciò che fa differenza tra l’affidarsi al fato e perseguire una destinazione, tra la deriva e il viaggio».

Corriere della Sera 30.10.11
Fiction e realtà. Un film ripercorre i rapporti della giovane Spielrein con Jung e Freud, ma non valorizza il suo ruolo di studiosa
Tra due maestri ma sempre fedele a se stessa
La vera vita di Sabina, da paziente a pioniera della psicoanalisi
di Danilo Di Diodoro


C' è una piccola placca commemorativa sulla casa al numero 83 di via Pushkin nella città russa di Rostov. Non la vedono in molti. Lì è vissuta Sabina Spielrein, la prima paziente sulla quale un trentenne Carl Gustav Jung sperimentò nel 1905 l'appena nata tecnica psicoanalitica freudiana. Sabina sarebbe poi diventata anche la più giovane tra le primissime psicoanaliste a pubblicare un articolo sulle nuove teorie freudiane. E introdusse il concetto di istinto di distruzione che molti anni più avanti sarebbe stato ripreso da Freud nella sua opera "Al di la del principio di piacere". Ma Sabina fu molto di più. Fu un terremoto per la psicoanalisi degli albori e per lo stesso Jung che venne travolto in una relazione ad alta temperatura emotiva con questa bella e intelligente ebrea russa. Una relazione, alla base anche dell'ultimo film di David Croneberg intitolato A Dangerous Method, nella quale i sentimenti che si svilupparono fra psicoanalista e paziente, ma anche tra un uomo e una donna reciprocamente attratti, erano ancora tra di essi molto indistinti. E fu proprio da questa primordiale confusione che sarebbe stato successivamente sviluppato il concetto di «controtransfert».
S abina Spielrein era giunta all'osservazione di Jung nell'estate del 1904, quando fu ammessa nella clinica Burgholzli di Zurigo per quella che fu diagnosticata all'epoca come una forma di psicosi isterica, un termine oggi non più utilizzato, ma che può essere comunque ricondotto all'area delle psicosi, i disturbi psichici più gravi. La nuova paziente, che nella cartella clinica è descritta all'ingresso ridente e piangente allo stesso tempo, e afflitta da tic massivi, fu presa in carico dal giovane Jung, che non aveva molta esperienza con questo tipo di patologia. Fino ad allora, il trattamento più frequentemente utilizzato in tali casi era l'ipnosi. Ma Jung decise che con Sabina avrebbe provato a sperimentare la nuova tecnica psicologica che in quegli anni cominciava a circolare soprattutto nei Paesi europei di lingua tedesca: la psicoanalisi del dottor Sigmund Freud di Vienna.
La teoria e la tecnica della psicoanalisi non erano però ancora ben definite, così Jung, che era sposato, si ritrovò esposto a un'intensa relazione affettiva con Sabina, nel tentativo di aiutarla. E la terapia sembrò funzionare: nel giro di sei mesi la paziente non aveva più sintomi e anzi la primavera successiva decise di seguire gli studi di Medicina, con l'intento di diventare anche lei psicoanalista. Intanto Jung era ormai un fervente seguace di Freud, proprio in virtù degli ottimi risultati che riteneva di aver raggiunto nel trattamento di Sabina. Jung e Freud iniziarono una corrispondenza che sarebbe andata avanti per anni fino alla loro rottura e alla "scissione" della psicoanalisi junghiana da quella freudiana.
L a relazione tra Sabina Spielrein e Jung era però diventata intanto una bufera passionale, come emerse dopo che nel 1980 lo psicoanalista junghiano Aldo Carotenuto pubblicò il libro "Diario di una segreta simmetria - Sabina Spielrein tra Jung e Freud". «Carotenuto venne in possesso dei documenti trovati negli scantinati del Palais Wilson a Ginevra, la vecchia sede dell'Istituto di psicologia» dice la dottoressa Ursula Prameshuber psicoanalista del CIPA, Centro italiano di psicologia analitica — . Tra questi documenti c'erano i diari di Sabina Spielrein e la sua corrispondenza con Jung e Freud. Fino a quel momento il nome di Sabina Spielrein era legato soltanto ad alcuni note a piè di pagina nelle opere dei due grandi psicoanalisti. La scoperta dei diari e delle lettere gettò una nuova luce sulla sua personalità, mostrando l'importanza emotiva e intellettuale che lei aveva avuto per Jung e il rapporto di reciproca stima che si era instaurato con Freud».
T ra Sabina e Jung la passione crebbe al punto che i due cominciarono a condividere fantasie onnipotenti di fusione tra la "razza" ariana, alla quale apparteneva Jung, e quella ebrea. Fantasticavano di avere un figlio, che avrebbero chiamato Siegfried e che avrebbe rappresentato una sorta di mescolanza eroica fra ariani ed ebrei. Ma nel 1908 la grandiosa fantasia andò in frantumi, quando Jung ebbe dalla moglie Emma un (vero) figlio maschio, Franz, che si aggiungeva alle due figlie femmine. Jung ebbe un primo risveglio dall'incanto passionale, e nel 1911 Sabina si trasferì a Vienna dove entrò nella Società psicoanalitica. Dice ancora la dottoressa Prameshuber: «Sabina è conosciuta più per la sua storia con Jung che per la sua produzione scientifica, eppure ha pubblicato in varie riviste scientifiche più di trenta articoli. Il più conosciuto e citato, scritto nel 1912, è «La distruzione come causa della nascita» con il quale fu ammessa alla Società Psicoanalitica di Vienna. In questo articolo parla della componente distruttiva dell'istinto sessuale, idea poi rielaborata da Freud con il concetto di "pulsione di morte". Ma sviluppò anche idee molto originali e moderne per la sua epoca, specialmente nell'ambito della psicoanalisi infantile e della psiche femminile.
La vicenda umana di Sabina ebbe una fine tragica. Nel 1923, su consiglio di Freud, tornò a Mosca e poi a Rostov, dove si riunì al marito, un medico russo sposato nel 1912. Ebbe due figlie, ma nell'agosto 1942 i tedeschi che avevano invaso la Russia giunsero a Rostov e rastrellarono gli ebrei. Sabina, pur avendone avuto la possibilità, non aveva voluto fuggire e così lei e le figlie furono trucidate.

Corriere della Sera 30.10.11
Un'innovatrice nelle indagini sull'animo femminile e su quello infantile


Fu Sabina Spielrein a individuare una componente distruttiva nell'istinto sessuale, idea poi entrata nella teoria freudiana della pulsione di morte nel 1920, quando Freud le riconobbe il merito di aver iniziato la riflessione su tale tema. «Il concetto di pulsione di morte — dice Giuseppe Filidoro, psicoanalista della Società italiana di psicoanalisi — fu proposto da Freud per spiegare sadismo, masochismo e depressione, sindromi cliniche caratterizzate da distruttività e da incomprensibile ricerca attiva della sofferenza. Inoltre questo concetto serviva a Freud per spiegare la tendenza di alcuni pazienti alla ripetizione di esperienze traumatiche e a resistere alla cura psicoanalitica. L'ipotesi freudiana dell'esistenza di una pulsione di morte, derivata dalla tendenza degli organismi a tornare allo stato inorganico, non è oggi però da tutti accettata». La vicenda di Sabina e Jung aiutò però anche a comprendere il fenomeno del controtransfert. «Secondo una prima definizione di Freud, il controtransfert doveva essere considerato una reazione inconscia dello psicoanalista nei confronti dei sentimenti che verso di lui prova il paziente — spiega Filidoro —. Quando non ben "padroneggiata" dallo psicoanalista, questa reazione poteva diventare un ostacolo alla terapia. A partire dagli anni '50 il controtransfert è stato inteso non più o non solo come ostacolo al processo terapeutico, ma, se ben compreso dallo psicoanalista, come uno strumento per lo scambio comunicativo in seduta. Comunque anche oggi, nonostante ci sia molta più attenzione verso i complessi intrecci transfert/controtransfert, esiste il rischio che questi sentimenti escano dal "gioco" psicoanalitico e vengano agiti nella realtà con conseguenze potenzialmente drammatiche. Un rischio di cui ogni psicoanalista è consapevole». Infine va ricordato il contributo che Sabina diede alla psicoanalisi infantile e allo studio della psiche femminile. Dice Ursula Prameshuber : «Nel campo della psicoanalisi infantile Sabina usò l'osservazione dei bambini, introdusse il gioco nella terapia, studiò il linguaggio infantile. E nello studio della psiche femminile introdusse concetti innovativi per l'epoca, affermando che la psiche femminile si distingueva per l'empatia mentre quella maschile per l'oggettività. Un'idea ripresa da Jung nei suoi concetti di Eros legato al femminile e Logos legato al maschile».

Corriere della Sera 30.10.11
I Pirandello: due vite (anche) da pittori
Dalle suggestioni di Cézanne alla modernità di Braque e Picasso
di Sebastiano Grosso


C i sono anche sei dipinti di Luigi Pirandello (1867-1936) — accompagnati da una sezione fotografica di Angelo Pitrone sui luoghi dell'Agrigentino che hanno ispirato il premio Nobel — in questa retrospettiva del figlio Fausto (1899-1975), esponente — assieme a Ferrazzi, Marino, Meli e Janni — della seconda stagione della cosiddetta Scuola romana o Scuola di via Cavour (dallo studio della coppia Raphael-Mafai in cui si ritrovavano Ungaretti, De Libero, Scipione, Sinisgalli, Mazzacurati, Cagli ed altri) che va dagli anni Trenta alla fine della II Guerra mondiale. Esposti una trentina di olii e altrettanti pastelli.
Nella mostra romana — che segue quella alla Galleria nazionale d'arte moderna — non mancano le curiosità. Intanto un disegno inedito (Nudo di donna sdraiato, del 1938), appena ritrovato fra le carte di Fausto, dal figlio Pierluigi e dalla nuora Giovanna, che avrebbe potuto far parte della rassegna di nudi, tutt'ora esposta a Palazzo Grimani di Venezia — nell'ambito della Biennale — per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Ma anche, un Paesaggio di Anticoli Corrado (1936) di Fausto Pirandello, erroneamente attribuito al padre Luigi da Claudia Gian Ferrari, nel catalogo generale dei dipinti (Electa) da lei curato, con la scritta, sotto la riproduzione, al n. 168: «Dimensioni e ubicazioni ignote». Il dipinto, invece, che misura 34x20, si trova a Roma e appartiene al figlio di Fausto, Pier Luigi.
Luigi Pirandello era uno scrittore prestato alla pittura? Beh, intanto la tavolozza non era certo un fatto sporadico. Era solo un'altra maniera di narrare, di usare la tela come una sorta di palcoscenico dove prendeva corpo il suo «teatro» di colori.
La pittura entrava anche nei dialoghi delle sue opere teatrali, dei romanzi, delle novelle. E i ritratti scritti dei suoi personaggi avevano sempre e comunque una valenza pittorica.
Anche Ernest Hemingway — ha scritto Antonio Alessio in Pirandello pittore — diceva di «aver imparato ad usare le parole nel modo in cui Cézanne usava i colori, e di avere appreso la "struttura della prosa" studiando "la struttura della pittura di Cézanne"». Lo stesso Emilio Cecchi si chiedeva se Pirandello, nello scrivere, mescolasse «inconsciamente i due processi: della pittura e della letteratura», processo di cui qualsiasi studioso di questo «spirito instancabile e coraggioso» avrebbe dovuto tenere conto. Certo, alla fine, sarà la letteratura ad avere la meglio. Ma il figlio Fausto realizzerà il suo sogno.
Per oltre vent'anni (dal '21 al '44), Fausto passa le estati col padre, ad Anticoli Corrado, la cittadina nei pressi di Roma famosa per la bellezza delle sue donne, che aveva ospitato artisti come Corot, Böklin, Eyck, Lipinsky e continuava ad accoglierne altri. Spesso padre e figlio dipingono insieme («Mio caro Fausto, sappi approfittare di questa libertà che t'ho donato, d'arte e di vita: è l'unico modo di compensarmi»). Dal '27 al '31, Fausto va a vivere a Parigi. Ci sono Severini, Tozzi, De Chirico, Savinio, Campigli, Paresce, Magnelli, De Pisis. Il giovane Pirandello costeggia la «colonia italiana», ma se ne sta in disparte. Questione di carattere. Preferisce studiare Picasso e Derain, Cézanne e Braque. Carena e Spadini gli appaiono sempre più lontani.
Rientrato a Roma, assiste incredulo alla guerra fra anticlassicisti e novecentisti, fra critici e artisti (gli vengono in mente le parole di suo padre: «La sorveglianza critica uccide l'arte. La critica d'arte moderna è micidiale: L'avete tutti nel sangue: bisogna liberarsene») ma preferisce non immischiarsi.
«Sono mesi che non vedo nessuno — scriverà alla sorella —. Ho ottimi amici che frequento spesso: Dante, Masaccio, Piero della Francesca, Leopardi, Villon, Omero, Ariosto, Mantegna». Ancora suggestionato da cubismo e surrealismo parigini, Fausto torna alla figura. La Scuola romana lo attrae, ma non il mondo onirico di Scipione, Mafai ed altri.
I suoi nudi, i ritratti e le nature morte conservano un'eco cézanniana che, man mano, acquista un sapore espressionistico. Nei contadini a riposo, nella donna con i girasoli, nelle mucche al pascolo, nelle contadine con falce e nelle Crocifissioni resta il senso del mistero che lo accompagna dovunque e comunque, del quotidiano che non riesce a diventare eroico neppure quando viene trasfigurato. Lionello Venturi lo convertirà all'astratto concreto.

Corriere della Sera 30.10.11
Alla Strozzina di Firenze
Ispirazione e politica. Quel che resta della democrazia
di Stefano Bucci


L a maggioranza ha sempre ragione? No. Almeno secondo il 70,5% dei visitatori della mostra Declining Democracy in corso all Centro di Cultura Strozzina (CCCS) di Firenze. Il referendum legato alla esposizione curata da Piroschka Dossi, Gerald Nestler, Christiane Nestler e Franziska Nori (che del CCCS è anche direttrice) qualche ragione di riflessione la provoca senz'altro visto che i visitatori ancora convinti del potere della democrazia si fermano ad un esiguo 15,6% (il resto si dividono tra schede bianche e nulle). Anche perché la mostra che ha invitato dodici artisti contemporanei (da Lucy Kimbell a Cesare Pietrojusti), «a declinare i principi della democrazia in un momento in cui la loro validità sembra essere stata messa in discussione» ha voluto puntare l'obbiettivo proprio sulle difficoltà del mondo contemporaneo, in particolare di quello occidentale. Oltretutto, ai piani alti di Palazzo Strozzi (il CCCS si trova invece nei sotterranei dell'edificio rinascimentale progettato da Giuliano Sangallo, Benedetto da Maiano e dal Cronaca) viene proposta un'altra idea del potere, quella che lega il denaro e la bellezza (e una visita almeno per la Calunnia di Apelle di Botticelli o per l'Incontro di San Nicola del Beato Angelico la mostra, aperta fino al 22 gennaio, la merita sicuramente).
L'idea di base è quella di un'arte «trasformata in strumento di coinvolgimento». Per questo gran parte dei lavori esposti prevedono l'interazione dei visitatori (su Facebook è tra l'altro possibile trovare i risultati aggiornati del referendum). Visto che, spiega Nori, «gli artisti hanno voluto, tutti o quasi, indagare da un lato i meccanismi inceppati delle democrazie moderne ma dall'altro anche le possibili forme di partecipazione scaturite dalle nuove tecnologie di comunicazione e dai nuovi strumenti per comunicare e condividere opinioni».
Thomas Hirschhorn presenta ad esempio Where do I stand? What do I want? (2007): otto notebook rielaborati con disegni, scritti e collage mentre Francis Alÿs (Belgio) propone quel When Faith Moves Mountains che nel 2002, in Perù, coinvolse cinquecento volontari per spostare di circa dieci centimetri di una duna di sabbia larga quasi duecento metri (opera ormai considerata un manifesto dell'arte sociale). Thomas Kilpper ha affrontato invece il tema della migrazione documentando la sua esperienza a Lampedusa, dove (dal 2008) sta portando avanti il progetto A Lighthouse for Lampedusa, con l'obiettivo di costruire un faro con i frammenti delle barche approdate sull'isola. Michael Bielicky e Kamila B. Richter, con Garden of Error and Decay (2010) offrono a loro volta al pubblico «di intervenire come in un videogioco in un attacco frontale ai simboli del potere, utilizzando il social network Twitter». Stesso discorso per Democracia, un collettivo la cui nuova opera video Ser y Durar (2011) mostra alcuni giovani che, praticando il parkour all'interno di un cimitero civile, «si muovono tra monumenti e simboli ideologici creando una lirica riflessione sul rapporto tra individuo e storia collettiva». E ancora: Artur Zmijewski nella video installazione multicanale Democracies (2009) «formula un confronto tra momenti di proteste e manifestazioni in diversi paesi del mondo» e il collettivo Buuuuuuuuu, attivo su Internet, «sollecita azioni partecipative di dissenso contro gli autoritarismi di governi e istituzioni e propone una serie di azioni a cui i visitatori sono invitati a partecipare sia in mostra che nel loro blog». D'altra parte, «libertà è partecipazione», lo diceva anche Gaber.
La mostra: «Declining Democracy», Centro di Cultura Contemporanea Strozzina (CCCS), Palazzo Strozzi, Firenze, fino al 19/1 (info: www.strozzina.org). Catalogo Silvana Editoriale, pp. 140, 25

Repubblica 30.10.11
All´inizio furono i blog
È la nuova stampa, bellezza
Visto, si posti
di Riccardo Luna


All´inizio furono i blog, poi divenne citizen journalism, ora si chiama "pro-am": professionisti e amatori che lavorano insieme su fatti, notizie e inchieste All´impegno di reporter fai-da-te si è aggiunta la qualità. Ecco come è scoppiata la pace tra la Rete e le redazioni

La guerra fra giornalisti e blogger è finita. Non è stato firmato nessun trattato di pace, non è stato necessario. È successo questo piuttosto. Intanto, i giornalisti sono scesi dal piedistallo (anche perché Internet il piedistallo lo aveva demolito): a volte bloggano, sempre più spesso stanno sui social media non solo per dare notizie ma per dialogare con i lettori da pari a pari. Sull´altra sponda i diari privati hanno lasciato i blog per traslocare su Facebook, mentre alcuni blogger hanno creato veri giornali online e molti cittadini prendono volontariamente parte al processo delle notizie postando foto, video e testi. Questa cosa nuova si chiama pro-am journalism e questo è forse il modo migliore di produrre informazione di qualità al tempo di Internet.
Lo si è visto durante la primavera araba, quando la più efficace fonte di informazione è stato un dipendente del network radiofonico americano Npr. Si chiama Andy Carvin, ha quarant´anni e il suo account Twitter è considerato «il migliore del mondo» dalla Scuola di giornalismo della Columbia University. Carvin non si limita a mandare messaggi (anche se il giorno della liberazione di Tripoli, lo scorso 21 agosto, ne ha inviati più di ottocento): usa Twitter come piattaforma per cercare notizie in tempo reale dai vari fronti ingaggiando un furioso controllo della verità via tweet in un dialogo continuo con il resto del mondo. Un professionista e migliaia di volontari. Il modello è lui.
Jay Rosen, che ha coniato l´espressione pro-am journalism, tutto questo lo aveva previsto sei anni fa. Docente di giornalismo alla New York University, a una conferenza a Cambridge lesse una relazione che si intitolava proprio "It´s over, la guerra è finita". Dirlo allora era difficile. Erano i tempi in cui Ben Bradlee, il leggendario direttore del Washington Post dello scandalo Watergate, poteva liquidare con una feroce battuta il fenomeno del citizen journalism, ovvero l´informazione fornita ogni giorno da migliaia di volontari in Rete: «Se hai un attacco di cuore chiami un chirurgo, non vai da un citizen-chirurgo». Ma a sgretolare questa contrapposizione, secondo Rosen, era bastata una frase nel reportage dell´inviato del New York Times John Schwartz dalla scena del terribile tsunami che aveva colpito l´Asia meridionale nel Natale 2004: «Per una cronaca migliore dalla zona del disastro è difficile fare meglio dei blog». Big Bang. Fu il primo, grande successo del citizen journalism, la scoperta che a volte un lettore di un giornale può fare meglio di un giornalista professionista se testimone oculare di un fatto. Già nel 1999 Dan Gillmor aveva sintetizzato il fenomeno con una massima affidata al San José Mercury News e diventata poi un mantra per la blogosfera: «My readers know more than I do, i miei lettori ne sanno più di me». Mai un giornalista aveva avuto il coraggio di dirlo.
Ma la convinzione che l´informazione di qualità potesse fare a meno dei giornalisti crollò, secondo Rosen, in seguito a un altro tipo di tsunami, la crisi finanziaria del 2008. «Tra i lettori dei quotidiani ce n´erano abbastanza che per esperienza diretta sapevano del problema dei mutui immobiliari, quella storia poteva essere scritta prima che lo scandalo esplodesse. Ma non è stato fatto». Perché? Perché giornalisti e cittadini non hanno collaborato. Dice sempre Rosen: «I giornalisti non sono abituati ad ascoltare, i blogger non sono preparati a dare un´informazione di qualità. Per questo abbiamo bisogno che lavorino assieme».
È quello che sta accadendo. Il caso più eclatante è forse quello dell´Huffington Post. Per seguire le elezioni è stata realizzata una piattaforma per ospitare i reportage dei cittadini: si chiama Offthebus, giù dall´autobus e fa il verso a un libro del 1973 che raccontava il dorato mondo dei giornalisti che seguivano i candidati dal bus ufficiale. Analogamente la Cnn ha creato iReport, una piattaforma dove chiunque può aggiungere contenuti: quelli migliori e vagliati dalla redazione finiscono sul sito ufficiale. La collaborazione però prevede uno scarto ulteriore come quello che fece il Guardian nel 2009 quando chiese ai suoi lettori di esaminare le migliaia di note spese dello scandalo dei parlamentari inglesi. Fu un successo e alcuni lo chiamarono "giornalismo diffuso".
Questo modello adesso arriva in Italia dove il citizen journalism vive una stagione florida. Secondo Liquida, che ne fa un monitoraggio continuo, i blog che fanno informazione sono circa 15mila. A questi vanno aggiunte oltre 500 micro web tv che fanno controinformazione locale e che trasmettono "a web unificato" in occasione di grandi eventi. Il caso di maggior successo è Agoravox: nato in Francia nel 2005 da un´idea dell´italiano Carlo Revelli, ha oltre centomila citizen reporter e vanta alcuni scoop come la prima intervista a Julian Assange. Da Parigi, dove hanno il quartiere generale, il direttore Francesco Piccinini dice: «Ci sono giornalisti che meritano tutta la nostra stima. Collaboriamo affinché i fatti tornino ad essere la notizia».
E la collaborazione è partita. Luca De Biase è un solido cronista dell´innovazione. Ora guida la Fondazione Ahref e ha da poco lanciato una piattaforma per il giornalismo di qualità. «Abbiamo parlato per anni di contrapposizione fra giornalisti e Rete, ma non ha più senso. Mettiamoci d´accordo sul metodo: accuratezza, imparzialità, indipendenza e legalità. E collaboriamo». Non a caso la piattaforma si chiama Timu, che in swahili vuol dire «facciamo squadra». È partita con un´inchiesta collettiva sulla dispersione scolastica promossa dalla Fondazione per il Sud. E ora ha in corso una gara per indicare quali devono essere i prossimi muri da abbattere. Ma gli obiettivi sono molto più ambiziosi: «Produrre collettivamente le migliori inchieste civiche». Un giornalista guida e gli altri lo aiutano. Sì la guerra è proprio finita. Bloggate in pace.

sabato 29 ottobre 2011

l’Unità 29.10.11
Migliaia di pensionati con lo Spi. Cantone: «Sono loro il vero welfare»
Manifestazione dedicata ai precari: la crisi unisce padri e figli
Cgil: nessuna trattativa sui licenziamenti Appello a Cisl e Uil
In settantamila riempiono piazza del Popolo per la manifestazione dei pensionati della Cgil. Due donne, Carla Cantone e Susanna Camusso, scaldano la folla: «No ai licenziamenti», meglio la patrimoniale.
di Massimo Franchi


«Gli unici ammortizzatori sociali rimasti in Italia». Carla Cantone e Susanna Camusso usano la stessa espressione per definire i pensionati arrivati a Roma da tutta la penisola, compresa la Liguria «abbattuta, ma non piegata». Sono settantamila «con i capelli bianchi o colorati, con i reumatismi, ma sempre ribelli, liberi, resistenti», sottolinea con orgoglio dal palco il loro segretario in chiusura del discorso. Piazza del Popolo è stipata di bandiere rosse, di nonni, padri e parecchi figli e nipoti, testimoniati dalle bandiere dell’Udu e dall’intervento dal palco di Luca De Zolt.
I VERI PROBLEMI
Ma è parlando a loro che Camusso dà segnali politici molto forti al governo e a Cisl e Uil. «Sui licenziamenti per ragioni economiche Sacconi dice che vuole aprire un tavolo con le parti sociali. Ebbene, sappia che noi al tavolo non ci andremo e non parteciperemo attacca il segretario generale della Cgil Il ministro che odia i lavoratori deve capire che i sindacati sono autonomi e che non può convocarci solo quando vuole lui. A chi pensa di raccontare che il problema di questo Paese sono i licenziamenti? A cambiare l’articolo 18 non ci siamo stati nel 2001 e non ci staremo oggi», e qui scatta l’applauso più fragoroso. A Bonanni e Angeletti, con cui continuano i contatti per una strategia comune, Camusso poi riconosce coraggio nell’aver tagliato i ponti con il governo: «Abbiamo apprezzato l’uso della parola sciopero, che sembrava oramai abrogata. Facciamo un appello a Cisl e Uil: ritroviamoci a discutere e a trovare ragioni unitarie». E Camusso poi spiega molto delle politiche che la Cgil vorrebbe per cambiare, «perché un’altra ricetta c’è e se il governo l’avesse seguita tre anni fa, quando chiedevamo per primi la patrimoniale che ora è sulla bocca di tutti, forse ci saremmo stati anche noi con Francia e Germania a dettare l’agenda agli altri paesi europei invece di essere commissariati dalla Bce». Se lo slogan, comune a Camusso e Cantone, è: «Ognuno paghi per ciò che ha e inizi a pagare chi non ha mai pagato», mentre nella lettera di Berlusconi all’Europa «c’è ancora l’idea che a pagare siano i lavoratori», il segretario generale della Cgil va più nello specifico: «Sulle pensioni non è vero che la lettera non dice niente, perché la “finestra mobile” diventa un vincolo che allunga a tutti di un anno l’andata in pensione di vecchiaia, colpendo in particolare donne e lavoratori del Mezzogiorno che hanno discontinuità contributiva. Il fondo dei lavoratori dipendenti all’Inps (in attivo per 10 milioni, ricorda Cantone) finanzia quello di autonomi e dirigenti, che pagano meno contributi». Operare sulle pensioni dunque «si può», «ma non ci vuole l’età che si allunga nel tempo, serve invece, qui sì, flessibilità, con le persone che decidono se andare in pensione o continuare a lavorare», spiega Camusso. Altolà invece sul tema «mobilità»: «Serve un decreto per non limitare a 10mila il numero dei lavoratori che ne possono usufruire». Ce n’è pure per Confindustria: «Se riscopre l’amore per il governo appoggiando la lettera alle Ue con l’idea di far mandare le persone in pensione a 70, noi rispondiamo che ce ne ricorderemo quando nelle trattative aziendali ci chiederanno i pre-pensionamenti».
In piazza i pensionati dimostrano il loro dinamismo e la loro fantasia nei tanti striscioni, cartelli e adesivi: «Paghi chi non ha mai pagato», è il più gettonato. Mentre il titolo de L’Unità “Licenziamo Berlusconi”, diventa uno slogan per tutti. Una piazza «senza privilegiati», fatta di persone «con pensioni da fame dopo una vita di sacrifici» ricorda Cantone. Una piazza indignata, che rilancia il «Ver-go-gna, ver-go-gna», urlato dal suo segretario quando ricorda «l’azzeramento del fondo per i non autosufficienti, i tagli al welfare locale, mentre il governo per gli anziani ha un solo progetto, la Social card». Si torna poi a spingere sul tasto della solidarietà padri-figli: «Senza lavoro non c’è welfare, quello che la nostra generazione con sacrifici enormi ha conquistato, e non c’è futuro per l’Italia e i suoi giovani, a cui dedichiamo questa manifestazione e che con l’innalzamento dell’età pensionabile rischiano di trovare un lavoro a 50 anni».
La chiusura, ancora comune per le due segretarie, è uno alla mobilitazione che continua. «Anche se sono tre anni che combattiamo contro il governo sottolinea Cantone non siamo stanchi». Anche perché, come spiega Camusso, «la fine del tunnel la vediamo». E dunque l’appuntamento è per il 3 dicembre. «A piazza San Giovanni, la piazza violata il 15 ottobre dalla violenza, che la Cgil vuole di nuovo piazza di democrazia per una grande manifestazione con un solo slogan: «Lavoro, lavoro lavoro». Ci saranno anche i pensionati, tanti come ieri.

il Fatto 29.10.11
A Roma manifestazione di Cgil e Uil
Missiva all’Unione europea, i pensionati si indignano
di Salvatore Cannavò


I pensionati riempiono piazza del Popolo a Roma in una manifestazione che va oltre la classica scadenza sindacale. Quella che si è vista ieri mattina nella capitale, su iniziativa dello Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati diretto da Carla Cantone, è stata infatti una piazza per certi versi tradizionale, fatta del “corpaccione” forte della Cgil. Pronta a mobilitarsi quando c’è da fare massa critica per dimostrarne la forza. Ma ieri a Roma si è vista anche una piazza diversa. Molto attenta, molto “indignata”, molto politica. È finita con Carla Cantone e Susanna Camusso abbracciate sul palco e poi insieme a cantare “Bella ciao”, ma tutta la manifestazione è stata segnata da quanto sta avvenendo tra Roma e Bruxelles, dalla lettera del governo al-l’Europa, dalla previdenza, dai licenziamenti. Anzi, a indignare di più i pensionati della Cgil non è tanto l’elevamento dell’età pensionistica, che pure è contrastata con forza – “altrimenti quando andranno a lavorare i nostri figli? A 50 anni?”, urla dal palco la Cantone – quanto il progetto di rendere più facile i licenziamenti da parte delle imprese. Una “vergogna” che la Cgil è decisa a fronteggiare con tutti i suoi mezzi: “Ci avete già provato una volta con l’articolo 18 – scandisce Cantone – e vi è andata male”. La Camusso ribadisce il concetto: “Se il ministro Sacconi ha in mente di convocare incontri, sappia che a un tavolo sui licenziamenti la Cgil non siederà mai”.
Ma in questa piazza c’è ancora di più. Incombe lo spettro di un governo in crisi permanente e di un leader di cui vergognarsi. “Guarda che non è vero che la Merkel si è scusata”, dice un pensionato di Napoli a un suo compagno. E mentre lo Spi-Cgil di Perugia distribuisce Baci Perugina – “noi non tiriamo sassi ma solo baci” – un anziano cigiellino dell’Emilia spiega al suo compagno che “sul più importante giornale del mondo (è l’Economist, ndr) “quello” è raffigurato come un clown. Un pagliaccio, capisci?”. “Vergogna, vergogna” è così il grido che sale dalla piazza più volte, prima quando Carla Cantone accusa la lettera alla Ue di immoralità e poi nei confronti della Lega, accusata di giocare sulla pelle dei pensionati.
DAVANTI a una piazza così, la segretaria dello Spi ha gioco facile a chiedere che Berlusconi se ne vada, ma va oltre per dire al centrosinistra che se vuole essere quell’alternativa in cui molti sperano “deve scegliere se stare da una parte o dall’altra perché in mezzo si prendono solo schiaffi”. Insomma, sui licenziamenti il Pd deve avere una posizione chiara.
In Cgil si sta discutendo di quale risposta organizzare contro quella che viene vista come l’ennesima minaccia. La Camusso rilancia le aperture a Cisl e Uil – e da una piazza vicina, Santi Apostoli, dove si tiene la manifestazione degli statali della Uil ieri in sciopero, Luigi Angeletti conferma che un incontro tra tutte le sigle è previsto nei prossimi giorni – dicendo di “apprezzare” la volontà di ricorrere allo sciopero espressa da Raffaele Bonanni e rilancia il tema dell’unità. E in queste ore i sindacati si stanno consultando per capire che margini di iniziativa comune ci possano essere. “Certo – ci confida una dirigente nazionale del sindacato – che una grande manifestazione popolare di tutti, sindacati e forze politiche, oggi sarebbe possibile e avrebbe un grande consenso”. Ci state lavorando? “Se ne sta discutendo”, risponde. Giriamo la domanda a Cesare Damiano che però non rilancia: “Vedremo, ora prepariamo la manifestazione del Pd, poi vedremo”. In realtà nell’organizzare una risposta di piazza al governo i piani si intrecciano e si confondono. Una vera manifestazione popolare, organizzata da tutte le forze sindacali e dai partiti del centrosinistra metterebbe in imbarazzo l’Udc di Casini che non può certo sfilare con la Cgil. E quindi la Cisl frena così come una buona parte del Pd. Probabile dunque che, come si sente ripetere da più parti, si “marci divisi per colpire uniti”, cioè si organizzino diverse iniziative. Ma c’è chi spera che qualcosa in più possa sorgere.
INTANTO, la Cgil dà appuntamento al 3 dicembre quando terrà la manifestazione nazionale con chiusura in piazza San Giovanni “che intendiamo riconquistare al lavoro e alla democrazia” spiega Camusso. Il Pd ne farà una propria il 5 novembre nello stesso luogo. La piazza di ieri chiede qualcosa di più.

Repubblica 29.10.11
"Il produttore di macerie"
"Licenziamenti facili, una provocazione"
No compatto dei sindacati. Il premier: fermi all´800. Confindustria: dialogo
Palazzo Chigi fa suo un disegno di legge di Ichino (Pd) che vuole riformare la materia
di Roberto Mania


ROMA - Fuoco incrociato governo-sindacati sui licenziamenti. Cgil, Cisl e Uil si preparano dopo anni a uno sciopero generale probabilmente unitario. Il premier, Silvio Berlusconi, non indietreggia e va all´attacco, mentre da New York, la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, prova ad allentare la tensione con una sorta di appello ai sindacati: «Lavoriamo insieme, discutiamo insieme, non è con gli irrigidimenti ideologici che risolviamo i problemi del Paese. Un autunno caldo renderebbe tutto più complicato».
Ma per ora il clima è molto diverso. Il leader della Cgil, Susanna Camusso, ha detto, chiudendo la manifestazione nazionale dei pensionati, che «l´unico licenziamento ammissibile è quello del governo». Raffaele Bonanni (Cisl) ha ripetuto che la proposta del governo «è una provocazione, un´assurdità». E Luigi Angeletti (Uil): «Non faremo passare questa legge»
Ma per Berlusconi, che ha scritto una lettera al Foglio diretto da Giuliano Ferrara «la polemica sui "licenziamenti facili" è figlia di una cultura ottocentesca che ignora i cambiamenti del mercato mondiale ed è oltraggiosa per l´intelligenza degli italiani: già ora nelle aziende con meno di quindici dipendenti, dove lavora circa la metà degli occupati, non vige la giusta causa». Nella lettera, Berlusconi - che parla anche di una campagna «fatta di ipocrisie e falsità» - conferma per la prima volta che il vero obiettivo è quello di cambiare l´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che, in caso di licenziamenti senza giusta causa nelle aziende con più di quindici dipendenti, prevede il reintegro del lavoratore e non un risarcimento economico. Finora si era parlato di licenziamenti per motivi economici, mentre l´Europa ha chiesto al governo essenzialmente di modificare proprio quella norma che frenerebbe la crescita dimensionale delle imprese, una delle ragioni della scarsa competitività del nostro sistema.
Berlusconi ha scritto anche di più, oltre a sostenere che «gli imprenditori del ventunesimo secolo non sono i padroni delle ferriere dell´Ottocento». Perché ha spiegato che è intenzione del governo di fare proprio il disegno di legge presentato dal senatore del Pd Pietro Ichino sulla cosiddetta flexsecurity. Una proposta sottoscritta da una cinquantina di esponenti dell´opposizione anche se non è mai diventata la posizione dei democratici. Ichino propone un sistema con un contratto di lavoro a tempo indeterminato per tutte le nuove assunzioni (a parte i casi classici di contratti a termine per punte di produzione stagionale o per sostituzioni) e con protezioni uguali ma senza che nessuno sia «inamovibile». In caso di licenziamento è previsto un sostegno al reddito decrescente per un triennio. Ma non è questa la strada per Pier Luigi Bersani, segretario del Pd: «La verità è che i cassintegrati avranno i licenziamenti e non che i licenziati avranno la cassa integrazione». Nei prossimi giorni Cgil, Cisl e Uil potrebbero decidere l´eventuale sciopero.

il Riformista 29.10.11
Cgil, Cisl e Uil pronte allo sciopero unitario sui licenziamenti
di Giuseppe Cordasco

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l’Unità 29.10.11
Una proposta indecente. Anche contro le imprese
Ma l’obiettivo del governo potrebbe essere un altro: mascherare dietro la liberalizzazione dei licenziamenti la facoltà di espellere i lavoratori scomodi, i sindacalizzati, gli usurati e le lavoratrici-madri
di Luigi Mariucci


C’è da chiedersi quale sia il senso e l’utilità delle misure di liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici annunciate dal governo nella lettera alla UE. Per prima cosa va sgombrato il campo dall’alibi costituito dal «ce lo chiede l’Europa». Da dieci anni la politica delle destre in Italia si è trincerata dietro questo alibi, fin dal libro bianco del 2001: il risultato è che è cresciuta enormemente la precarizzazione del mercato del lavoro, che colpisce soprattutto i giovani e le donne, mentre non è stato scalfito alcun reale privilegio corporativo e non si è attivato nessun strumento di sostegno al reddito e di avviamento al lavoro per i soggetti esclusi dal mercato del lavoro, alla faccia della c.d. flexsecurity. Dietro lo schermo della liberalizzazione delle assunzioni si sono invece rafforzati i meccanismi familistici quando non clientelari: le “conoscenze” ele “raccomandazioni” restano lo strumento più diffuso per trovare lavoro. Lasciamo quindi stare, al momento, la questione europea. Guardiamo a ciò che succede in concreto in Italia.
Su un mercato del lavoro già precarizzato e frammentato, segnato in particolare dal drammatico dualismo nord-sud, si è abbattuta la crisi economica a partire dal 2008. In generale le crisi aziendali si verificano non per deficit di produttività del lavoro o per gap competitivi, specie nei settori più avanzati sul piano tecnologico. Basti guardare alla meccanica emiliana e alle migliaia di piccole imprese, specie artigiane, del nord-est strozzate dalla tenaglia tra caduta delle commesse, ritardati pagamenti dei committenti e difficile se non impossibile accesso al credito. Nelle grande maggioranza dei casi il problema di queste imprese non è quello di liberarsi dei lavoratori ma, al contrario, di trattenerli, di conservare quindi la capacità produttiva in vista di una possibile ripresa. Da qui il massiccio ricorso ai c.d. ammortizzatori sociali in deroga, che consentono una parziale copertura dei salari anche nelle imprese a cui non si applica la cassa integrazione. Che c’entra tutto questo con la liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici? Nulla. Si tratta quindi di una operazione puramente ideologica a cui giustamente i sindacati, per una volta uniti, si oppongono con forza.
A meno che l’obiettivo vero sia un altro: mascherare dietro la liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici quella, in realtà, per motivi “soggettivi”: dare mano libera alle imprese per espellere i lavoratori scomodi, i sindacalizzati, quelli meno produttivi per ragioni oggettive (i lavoratori usurati, le lavoratrici-madri ecc.). Tutto questo in coerenza con il disegno del famigerato art. 8 della legge n.148, quello che consente con contratti aziendali o territoriali di abrogare l’intero diritto del lavoro, compresi i diritti fondamentali.
Una norma indecente, contro cui si sta avviando giustamente una iniziativa referendaria. In entrambi i casi si vellica l’istinto peggiore delle imprese: le si induce a muoversi nella logica del breve periodo, degli interessi immediati, in una prospettiva sostanzialmente anarchica e all’insegna di un selvaggio dumping sociale. Quando ciò che serve è il contrario. Puntare sulla coesione sociale, su un patto di fondo tra le forze produttive che faccia uscire il paese dalla forbice tra misure necessarie di contenimento del debito pubblico e recessione.

l’Unità 29.10.11
«È ora di cambiare» Musica e cultura in difesa della scuola


È ora di dire basta e lo dicono in tanti in questi giorni. Lo fa anche la Flc, l’organizzazione dei lavoratori della scuola e della conoscenza della Cgil, che dà appuntamento questa sera in piazza del Popolo con un evento musicale per dire che è arrivato il momento per il Paese di voltar pagina.
Un’iniziativa che vuole sottolineare la necessità di ripartire dall’istruzione, dal rilancio della ricerca pubblica, ripartire con una vocazione secolare, l’arte e la musica, ripartire dal lavoro. «Ricostruiamo l’Italia» è lo slogan scelto per la campagna che inizia oggi. A partire dalle 18 sul palco si alterneranno Daniele Silvestri, Frankie Hi-Nrg, i Blues Willies e Max Paiella, Ascanio Celestini, Ivana Monti con altre personalità del mondo della cultura, dello spettacolo e del lavoro. A condurre la serata sarà Dario Vergassola. Tra gli interventi, quello del segretario di Flc, Domenico Pantaleo e della leader Cgil, Susanna Camusso.
Saranno con noi tanti artisti spiega Pantaleo per ribadire che esiste un Paese che non si rassegna al declino e al degrado culturale. Ricostruire l’Italia significa rivendicare una maggiore giustizia sociale. Vogliamo fare della conoscenza un bene comune che deve servire alle nuove generazioni per uscire dalla precarietà esistenziale e per poter conqui-
stare un futuro migliore. Il governo Berlusconi invece colpisce duramente i lavoratori, i pensionati e i precari per salvare i ricchi, gli evasori fiscali e le rendite speculative. Per questa ragione occorre aprire una nuova stagione politica e sociale».
Scuola, università e ricerca sono state molto penalizzate dalle scelte del governo che, manovra dopo manovra, gli ha sottratto risorse, mentre un ministro per l’istruzione tra i più criticati della storia recente ha avvilito competenze e professionalità.
Alle “vecchie” ragioni di protesta, Flc aggiunge le ultime, ben rappresentate dalla lettera che il governo ha inviato all’Unione europea che continua Pantaleo «contiene un attacco fortissimo ai lavoratori eal diritto allo studio».

l’Unità 29.10.11
Vecchioni suonerà alla manifestazione di San Giovanni. Già pronte decine di treni e due navi
Vendola apre all’alleanza tra progressisti e moderati: «Purché il programma sia di svolta»
Il Pd prepara la sua piazza Bersani: «Finirà questa notte»
Vecchioni suonerà alla manifestazione del 5 a San Giovanni. Bersani lancerà le proposte per la «ricostruzione». Un obiettivo che per il leader Pd richiede uno schieramento ampio e un patto di legislatura con i centristi.
di Simone Collini


«Perché questa maledetta notte dovrà pur finire», cantava Roberto Vecchioni a San Remo, e poi a piazza del Duomo a Milano, chiamando in entrambi i casi la vittoria. Pier Luigi Bersani ci ha tolto l’imprecazione, aggiunto un di più di assertivo, e su Facebook ieri ha lanciato la manifestazione del 5 novembre a San Giovanni al motto di «finirà questa notte». Non è casuale la citazione. Sabato prossimo Vecchioni suonerà (così come anche i Marlene Kuntz) a quella che per il Pd dovrà essere una «grande festa di piazza». Di fronte alla Basilica saranno allestiti spazi per le famiglie e punti di attra-
zione per i bambini. E Bersani, che dal palco illustrerà «le proposte per la ricostruzione democratica, sociale ed economica del Paese» invita «tutti» ad esserci: «Chi non vuole portare la bandiera del Pd porti il Tricolore perché noi faremo questo in nome del popolo italiano».
La macchina organizzativa in queste ore gira a pieno ritmo. Sono già stati organizzati decine di treni, centinaia di pullman e anche due navi. Sul palco, accanto a Bersani, ci saranno anche il candidato alle presidenziali francesi François Hollande e il segretario della Spd tedesca Sigmar Gabriel. Dice con orgoglio il leader del Pd che non è vero che chi guarda all’Italia dall’estero pensa che da noi non ci sia un governo capace di guidare il Paese ma neanche un’opposizione in grado di dar vita a un’alternativa credibile. «I governi Amato, Ciampi, Prodi, D’Alema: in Europa ci conoscono per quella storia lì, che è una storia di buon nome. Io il 5 novembre porto in piazza a San Giovanni il candidato all’Eliseo dei progressisti, Hollande, il segretario dellla Spd, Gabriel. Provi Berlusconi a chiamare ad una sua manifestazione qualche leader Popolare europeo. Questo dà la misura del rapporto reciproco di credibilità internazionale che c’è in questo momento». Bersani parla all’indomani di un’apertura di credito data dall’Ue alla lettera di Berlusconi, e rispondendo a una domanda che gli viene posta durante la trasmissione “Radio anch’io” esprime il timore che «quando la commissione guarderà ed esaminerà quel documento, sui contenuti e sulla tempistica e sulla credibilità verrà fuori che il governo sta raccontando cose che non ci sono e ci sarà un effetto boomerang».
PATTO CON I CENTRISTI
L’obiettivo resta la «discontinuità politica» e in questa fase il leader del Pd vuole impegnare l’opposizione nella costruzione di una «alternativa credibile»: «Ci sono da fare le riforme e per questo ci vuole uno schieramento ampio, una convergenza forte, al di là delle barriere tra diversi». Dopo il segnale positivo arrivato da Pier Ferdinando Casini, che si è detto disponibile a ragionare su una coalizione «costruita sui contenuti», anche Nichi Vendola parla della possibilità di «un’interlocuzione a tutto campo con i centristi, purché il programma sia quello di una svolta per l’alternativa», e Antonio Di Pietro dice che ora «l’impegno è di trovare un punto d’intesa per sfiduciare il governo Berlusconi e un’alternativa di governo».
I leader di Sel e Idv si candideranno alle primarie del centrosinistra e Bersani assicura che lui sarà in campo («non temo nessuno risponde a chi gli domanda dell’ipotesi di candidatura di Matteo Renzi solo un pazzo può pensare di prendere in mano una situazione come questa»). Quanto ai centristi, se anche non dovesse andare in porto l’alleanza elettorale, per il leader Pd ci sarebbero comunque tutte le ragioni per lanciare un appello alle forze moderate anche dopo il voto, in caso di vittoria del Nuovo Ulivo. Si tratterebbe di una sorta di patto di legislatura per realizzare la necessaria «ricostruzione democratica». Un obiettivo che solo uno «schieramento largo», al di là del premio di maggioranza garantito dal Porcellum, può raggiungere.

il Riformista 29.10.11
Il segretario Pd conferma «Io mi candido»
Bersani anticipa il “Big Bang”
Il Wiki-Pd di Renzi. Duello con Bersani
di Tommaso Labate

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il Riformista 29.10.11
Se la corrente del biberon veste alla marinara
di Emanuele Macaluso

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il Fatto 29.10.11
Renzi non sfonda nemmeno tra i fiorentini
“Qualunquista, vuole andare a Roma” Leopolda2: pochi i giudizi positivi
di Wanda Marra


Si candiderà alle primarie del centrosinistra, rivoluzionerà miracolosamente la politica italiana, offrirà nuova vita al nostro paese con un novello Big Bang (ambizioso titolo per un evento politico)? Un’ambientazione suggestiva (la Leopolda, che fu la prima stazione ferroviaria di Firenze), 8 megaschermi, cena fiorentina per tutti, una scenografia che mette insieme i brontosauri (i dirigenti di partito da pensionare) e il rassicurante salotto di casa, Matteo Renzi è riuscito a catalizzare l’attenzione politica sulla sua iniziativa che si è aperta ieri sera in diretta live su Otto e Mezzo (presente pure un vip doc come Alessandro Baricco) e che finisce domani, seminando il panico tra i suoi presunti amici del Pd e solleticando la curiosità di tutti gli altri.
MA MENTRE i riflettori illuminano la kermesse del sindaco di Firenze (un giorno e mezzo di maratona di liberi interventi di 5 minuti ciascuno), cosa dicono i fiorentini, dopo due anni di amministrazione del trentaseienne ex boy scout, che promuovendo le sue 100 promesse sbaragliò alle primarie il collega di partito, Lapo Pistelli, e poi vinse le elezioni contro l’ex portiere della Fiorentina? Abbiamo fatto una passeggiata per le strade del centro della città (Piazza della Signoria e zone limitrofe) ponendo un paio di semplici questioni ai passanti: cosa non funziona a Firenze? E Renzi vi convince? Molti hanno risposto con nome e cognome, qualcuno ha preferito evitare. Leonardo, 38 anni (si definisce cittadino): “Renzi? É una testa di cazzo. Ha bloccato una città, chiudendo le strade del centro e ci ha infilati tutti nel traffico”. Marta Rosci, 60 anni, pensionata: “Con Renzi ho un rapporto strano, per alcune cose mi piace, per altre penso proprio che si sia montato la testa. É ovunque, mette bocca su tutto. Certo la città è pulita, le strade sono a posto. Però, ci sono tante cose di cui non si interessa affatto: gli scioperi, il Primo maggio, il 25 aprile. É molto ambizioso, è un cattolico d’assalto. E lo sanno tutti che vuole andare a Roma”. Maria Gambioli, 34 anni, insegnante: “Il sindaco? Non mi dispiace. Anche se quando piove, la città si blocca continuamente. Però ha fatto i marciapiedi per le carrozzine. E per me che giro con un bambino piccolo è tanto”. Renata, architetto (e l’età non si dice): “Cassonetti, luci, pedonalizzazione: dobbiamo tutto a Renzi. Io sono una professionista e Renzi mi piace. E ci tengo a dirlo perché sono una delle poche, della mia categoria a pensarla così”. Gianni Seminara, 56 anni, sarto su misura: “Firenze è una città che sta perdendo le sue caratteristiche, come l’artigianato. Qui va tutto per approssimazione, tutto senza un disegno, secondo gli aggiustamenti e i compromessi del momento. E Renzi in questo è maestro. D’ altra parte io mi sto convincendo di una cosa: se gli italiani si guardano allo specchio davvero, capiranno che Berlusconi l’hanno voluto loro. Non è lui che ha corrotto l’Italia, è l’Italia che ha prodotto lui”. Michele, 33 anni, impiegato comunale: “Per Renzi l’unica cosa importante è il fine, e i mezzi non contano. Quando ha deciso che deve fare una cosa, la fa, occupandosi solo che il bilancio sia a posto. Poi, se magari per far questo deve esternalizzare tutto, non gli interessa”. Mario, 48 anni, bancario: “Renzi è giovane, è giovane. Tutti a dire che è giovane: ma basterà? E noi, e tutti gli altri che dobbiamo fare, sparire solo perché abbiamo qualche anno in più? Non lo so, a me non è simpatico. E non mi sembra che l’unica cosa interessante da fare possa essere pensare di annullare la vecchia politica. Le cose le fa? Boh. E comunque, il traffico è ingestibile e i parcheggi carissimi”. Duccio, 28 anni, studente: “All’università fa freddo, ma non so se è colpa di Renzi. E magari, se diventa presidente del Consiglio, la Fiorentina vince il campionato , Berlusconi docet. Bersani, Vendola, Di Pietro? Meglio lui. Una cosa però la voglio dire: Forte Belvedere è chiuso dal 2007, dopo che è morta una ragazza. Per carità, una cosa grave, però che ci vuole a mettere due transenne? Servono 4 anni?”.
VIERI, 32 ANNI, lavora in uno studio di progettazione: “Un esempio di amministrazione? La Tramvia per arrivare in centro: sì, si è fatta, e per molte persone è utile. Però, mi hanno spiegato che si è sbagliato il progetto: se appena va un po’ più veloce esce dai binari, deraglia. Mi pare che Renzi sia bravissimo a far pubblicità a quello che fa. Ha tolto le pensiline dalla stazione di Santa Maria Novella: per carità, giustissimo . Però, stiamo parlando di pensiline, no? Un po’ di senso delle proporzioni! Poi, ho sentito che vuole rifare la facciata di San Lorenzo sul progetto di Michelangelo. Bellissimo, ma con che soldi?”. Marzia Fabiani, coordinatore Retail Mercato e Finanza di Banca Intesa: “Renzi? Mi piace perché non sono di sinistra. Poi, certo, è un qualunquista. Che dubbio c’è? Comunque, se c’è una cosa a cui bisognerebbe lavorare è l’ordine pubblico, evitando che parti del centro storico diventino dominio degli squatter e dei rom: non dovrebbe essere difficile, no? Una cosa è rifondare la città, una cosa mettere qualche filtro”. Valeria Chianese, 31 anni, barista. “Mica lo capisco se l’amministrazione di questa città funziona: molti dicono che la Tramvia è un bene, molti no. Però, io devo dire che dei politici non mi fido proprio e quindi non li seguo, Renzi compreso”. Leonardo, 33 anni, impiegato museale. “Renzi? Lo odio, è un incapace. Si occupa solo di fare una campagna elettorale permanente. E per il resto non fa niente. Anonimo. La rottamazione? Renzi vuole rottamare noi, i fiorentini. Questa città sta morendo, soffocando tra il traffico e le strade chiuse. Non gliene frega niente: lo sanno tutti che vuole andare a Roma”.

il Fatto 29.10.11
Prodi: “Io renziano? Smentisco, casomai sono anziano!”
di Giampiero Calapà


Renziano io? No, guardi, smentisco. Mi continuano a tirare per la giacchetta da più parti: adesso me la tolgo, la giacca”. Romano Prodi, l’unico che ha sconfitto Berlusconi, si smarca dalle voci rimbalzate da più parti su un suo possibile sostegno al sindaco di Firenze alle primarie: “Guardi, preferisco non commentare perché tutte le volte poi esagerano nel portarmi da una parte o dall’altra. Non dirò nulla sulle primarie eccetera. Però, renziano proprio no, casomai anziano, infatti faccio il nonno”, scherza il Professore.
Poco prima la sua portavoce Sandra Zampa era già corsa a precisare: “Un supposto sostegno del presidente Prodi a Matteo Renzi e alla sua iniziativa politica, così come ad altre iniziative promosse da componenti interne del Pd, è del tutto infondata” . Mentre il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, apre alle primarie dicendo di non temere “né Zingaretti, né Renzi”, il governatore della Toscana Enrico Rossi, che si farà vedere alla Leopolda, avrebbe preferito “che Renzi continuasse a fare il sindaco di Firenze (il mestiere più bello del mondo, diceva Renzi solo poco tempo fa, ndr), perché non si lascia un incarico dopo due anni e mezzo, dopo aver suscitato tante aspettative: ma se deciderà davvero di candidarsi alle primarie, sbagliando, dovrà comunque essere libero di farlo”.
Come poteva aspettarsi Renzi il sostegno di Prodi per il Big Bang della Leopolda? La colonna sonora dell’evento sarà di Jovanotti, il più veltroniano dei cantanti. E l’avvicinamento con quello che un tempo per Renzi era il “disastro”, Walter Veltroni, l’uomo che affossò il secondo governo Prodi, appare evidente.

Corriere della Sera 29.10.11
La sfida di Renzi: le primarie? Bersani può perdere
E il leader si prepara a cambiare lo Statuto per contrastare la scalata del sindaco
di Monica Guerzoni


FIRENZE — Alle primarie «corre chi vuole correre». E Pier Luigi Bersani sappia che può anche perdere. «In Francia il segretario del partito socialista Martine Aubry ha corso alle primarie e ha perso...». Matteo Renzi apre la «Leopolda 2011» davanti a duemila persone, non tutte giovanissime, lancia il suo «Wiki-Pd» aperto ai contributi di chiunque e scatena, come promesso, il «Big Bang». E meno male che dice di non sentirsi un «guastafeste»... «Il mio peggior difetto? Sono troppo arrogante, lo ammetto».
Il Pd gli «garba», ma solo «quello serio, quello vero». Si dice che avesse accarezzato l'idea di scendere in campo per la premiership a dispetto dello Statuto, con la segreta speranza di «farsi cacciare» dal Pd per far man bassa di voti. Ma Bersani ha provato a rompergli il giocattolo. Ha detto che si candida, ma non si è fatto scudo delle regole interne del partito e, per sminare la bomba Renzi, ha aperto le primarie a tutti: «Io non ho paura». Bersani non teme Renzi e non teme Zingaretti, però si prepara a cambiare lo Statuto, dove è scritto che il candidato premier è il segretario del partito. «Bene, senza primarie non ci sarebbe il Pd», accoglie la svolta Renzi. E a sera la presidente Rosy Bindi, che allo Statuto si era appellata per stoppare il leader dei «rottamatori», certifica suo malgrado la rivoluzione inevitabile: «Se ci sono richieste di candidatura la strada è cambiare lo Statuto. E corrono tutti». E a quel punto, chi vince? «Bersani, chi mai dovrebbe vincere?».
Vista da Firenze, la partita per il segretario non si annuncia così facile. Basta varcare la soglia dell'ottocentesca stazione Leopolda per capire che Renzi fa sul serio e l'unico paragone possibile è con il Lingotto di Walter Veltroni. C'è un'aria nuova, giovane e non giovanilistica. Un linguaggio facile, immediato. Luci ovattate, come in un locale di tendenza. Ci sono le porte pieghevoli per il calcetto e i canestri da basket, l'area bambini e il palco che diventa palcoscenico «perché nessuno salga su un podio per parlare agli altri». Ma al centro della scena, che evoca un interno Anni 50, seduto al computer come fosse a casa sua, c'è sempre lui. Un po' attore, un po' comico, un po' presentatore. Allegro, ironico, sferzante. A volte volutamente irritante.
La lettera di Berlusconi alla Bce? «Ci fa piacere che abbia calmato l'Europa, ma non si sa nulla di cosa voglia fare il governo». Le alleanze? «Io in coalizione con Diliberto non ci sto nemmeno a Firenze». La pubblica amministrazione? «Basta con i dirigenti a tempo indeterminato».
Si era ripromesso di essere buono con Bersani e compagni, di non trattare troppo male «dinosauri», «sfingi» e altre anticaglie democratiche, ma davanti ai cronisti non resiste: «Bersani che chiede le dimissioni di Berlusconi su Twitter è il tormentone più cliccato. La sfida del centrosinistra è dire cosa viene dopo». Nella testa di Renzi il «dopo» sono le elezioni e non «un inciucione», quale sarebbe per lui un governo tecnico. È un programma in cento punti da lanciare online, è una squadra che «non è una corrente ma molto peggio, perché nun ce ne po' frega' de meno». E un vocabolario che non schiva parole come «supercazzola», rubata al Mario Monicelli di Amici miei.
Renzi, si sa, è uno che non le manda a dire. Parla del programma del Pd e ironizza sull'idea che le soluzioni per la crisi economica possano nascere da «un tizio che sta chiuso al Nazareno e che non ha preso mai voti neppure in un condominio». Che farebbe, se a Palazzo Chigi ci fosse lui? Abolirebbe il finanziamento pubblico ai partiti, ma «non è una ripicchina». Cancellerebbe i vitalizi e il bicameralismo perfetto. Affronterebbe il tema licenziamenti senza tabù. Metterebbe mano alle pensioni, passando dal retributivo al contributivo. Taglierebbe le cattedre universitarie aumentate «in modo squallido e vergognoso». E farebbe carta straccia degli ordini professionali, perché «sono caste». Come ha detto aprendo la tre giorni Davide Faraone, il deputato all'assemblea regionale siciliana che vuole fare il sindaco di Palermo e che sfiderà il candidato ufficiale del Pd.

Repubblica 29.10.11
Il Wiki-partito di Renzi che mette paura al Pd
di Concita De Gregorio


Da Bersani agli ex popolari del Pd ecco chi teme l´offensiva del wiki-sindaco
I prodiani lo sostengono, Berlusconi lo ha invitato e piace ai leghisti scontenti

PUÒ piacere o non piacere, ma è bravo. È bravo a parlare, la cadenza toscana la battuta pronta lo aiutano, e dunque a stare in tv. È bravo a capire cosa serve e cosa no per arrivare dove vuole.
A molti non piace, dal segretario Pd alla Bindi e neanche a Civati e Serracchiani
È bravo a intuire i tempi e i modi, i toni che sempre risultano eccessivi ma funzionano, alla fine, in tempi di eccesso al ribasso. Allo scherno è subentrata la paura, se e quando ci saranno le primarie del centrosinistra Renzi sarà l´avversario da battere: per il segretario, per Vendola e Di Pietro se le primarie saranno di coalizione, per tutti. Si è candidato con chiarezza e con anticipo, alla battaglia per la rottamazione generazionale ha poco a poco sostituito quella delle idee, ha mosso se stesso sulla scacchiera con un gioco che deve andare a dama, quella: provincia, comune, governo.
Può piacere o dispiacere, Matteo Renzi - superstar del weekend alla stazione Leopolda di Firenze, Big Bang non solo del Pd - e a moltissimi non piace. Non al segretario del Pd Bersani («Bersani ha un´idea del partito antica, novecentesca») nè ai suoi giovani leoni, oggi in leggerissimo dissenso dalla linea del segretario ma pur sempre dentro quel recinto, il confine segnato dall´ortodossia ex Pci ex Ds, compagine ancora forte ma in evidente sofferenza dentro un´autentica trincea difensiva ossessionata dal nemico interno. Non piace perché viene dalla Dc, e dunque nell´amalgama mal riuscita del Pd rappresenta, per i Ds, "quegli altri". Non piace neppure a una parte consistente degli ex popolari, Rosy Bindi in testa, per motivi di stile, di programma e in fondo certo di rivalità. Renzi va a messa la domenica e in ritiro spirituale l´estate. È favorevole al nucleare controllato, non ha votato sì a tutti e quattro i referendum sicuro che sull´acqua pubblica ci fosse qualcosa da discutere, non è un paladino dei matrimoni gay ma neppure omofobo, piace agli industriali e ai parroci. Per i cattolici del Pd della vecchia guardia è un rivale temibile, imbattibile sul fronte dei social network, della banda larga e di twitter, roba che Bersani dice di "farsi governare da altri" come se fossero maiali, che poi non si butta via niente ma intanto sporcano e fanno rumore. Non piace più un granchè neppure a Civati e Serracchiani, che alla Leopolda dell´anno scorso erano con lui, anche per via di quella sua così visibile ambizione personale: Renzi vuol fare le primarie e di seguito il presidente del consiglio, «è un furbo», dicono di lui, è uno addestrato alla competizione fin dall´asilo, uno che fa melina al capitale e alle massonerie, alle nobildonne fiorentine e ai Della Valle, «non è affidabile». «Divide e non unisce», dice Rosy Bindi, «al contrario di Prodi» il quale tuttavia seppur attraverso i suoi uomini lo sostiene: sarà pure che c´è in ballo la corsa al Quirinale, che l´alleanza eventuale del Pd con Casini porta in pegno il Colle per Pierferdy e che i prodiani hanno altre ambizioni, ma insomma lo sostiene. Parisi e i prodiani alla Leopolda ci sono. D´Alema lo detesta come chiunque non sia sé medesimo o altri da lui forgiati. Veltroni sta a guardare in crescente silenzio essendo stato Zingaretti, in principio, il suo quarantenne di riferimento.
A chi piace dunque quello che con tutta evidenza sarà il candidato per così dire nuovo alle eventuali primarie di centrosinistra? Il per così dire nuovo Renzi (in politica da quando aveva 17 anni, cioè ormai quasi da venti, già presidente della Provincia, oggi sindaco) piace al centro e a destra, fra i leghisti scontenti del Bossi servile, fra i delusi del berlusconismo imprenditoriale, le partite iva e i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori che sono tanti. Piace a Berlusconi stesso, che lo invita a casa (Renzi ci va, pazienza per le critiche) e ne elogia le virtù che mancano a se medesimo e ai suoi alleati: non usa il dito medio, non bestemmia, non racconta barzellette sui negri e sugli ebrei, non usa metafore falliche come intercalare, non dice culona alle signore.
La rivoluzione della buona educazione. Matteo Renzi è beneducato e svelto. Furbo, ambiziosissimo. Piace, a sinistra, agli scontenti del Pd e alla sinistra di nuova generazione, a un bel po´ di grillini e dipietristi, a quelli che non se ne può più della casta che finora piuttosto silenti - ma in molti - serpeggiano anche nel partito di Bersani. Roberto Benigni gli ha dato di recente la sua benedizione. Santoro lo aveva ospite frequent flyer. A Ballarò e da Lilli Gruber è di casa, la Sette il suo salotto. Nel parterre della Leopolda, la cui sigla è mutuata da una serie americana tv di grande successo, ci sono il giuslavorista Pietro Ichino e Sergio Chiamparino, Alessandro Baricco e il presidente dell´Anci Graziano Del Rio, il vincitore dello Strega Edoardo Nesi, l´inventore dei Gormiti, il fratello di Peppino Impastato, il successore del sindaco assassinato a Pollica, il mago della tv Giorgio Gori, l´inventore della Tecnogym Neri Alessandri.
Sindaci trenta-quarantenni al governo delle città. Apre i lavori Davide Faraone, deputato regionale siciliano anti-Lombardo. Li chiude lui, domenica. Ha predisposto un servizio di baby sitting e di road sharing per arrivare in stazione (vuoi ridurre l´inquinamento? Sei un pendolare? Clicca qui e chiedi un passaggio alla Leopolda, venite insieme). Ha fatto in modo che con "un aggeggino" si possa partecipare alla discussione inviando messaggi in diretta dalla tv, dunque da casa. Troppo inglese, forse, ma chi deve capire capisce. Firma l´invito alla Leopolda con: «Un sorriso, Matteo». È amico personale di Pep Guardiola, l´allenatore del Barca, e chissà che non faccia una sorpresa. Non è abbastanza, certo, per fare un leader di centrosinistra né un presidente del consiglio. È quel che basta, tuttavia, per capire a chi faccia paura, Matteo Renzi, e perché.

La Stampa 29.10.11
Inchiesta del quotidiano  «Die Welt»
Germania, accuse alla Chiesa «Fa affari con la pornografia»


Dopo i casi di preti pedofili un nuovo scandalo investe la chiesa cattolica in Germania: «Fa affari con la pornografia». È quanto ha denunciato il quotidiano «Die Welt», secondo il quale la società editrice Weltbild, di proprietà della chiesa, avrebbe nel suo catalogo decine di pubblicazioni pornografiche. Weltbild (6.400 dipendenti e un fatturato di 1,7 miliardi di euro) ha annunciato che intende difendersi e minaccia cause per diffamazione perché, spiegano alla casa editrice, quelle di cui parla Die Welt sarebbero «pubblicazioni erotiche, non pornografiche». Già nel 2008 alcune associazioni di fedeli avevano prodotto un documento critico di settanta pagine sulle pubblicazioni del gruppo editoriale, che oltre all’erotismo offre titoli su esoterismo, magia e satanismo.

il Fatto 29.10.11
Parigi val bene una messa
Il Cristo dei fanatici
La violenza degli ultra-cattolici francesi che boicottano lo spettacolo della Raffaello Sanzio
di Elisa Battistini


La notizia vera, probabilmente, è che si parli di una delle più importanti compagnie teatrali del mondo (non è un’esagerazione) solo quando c’è la notizia. Di cronaca. Ma, laicamente, è lo stesso regista della Socìetas Raffaello San-zio, Romeo Castellucci (che è stato anche direttore della Biennale Teatro), a non drammatizzare: “Il meccanismo dell’informazione funziona così. In Italia il teatro non interessa, è un’arte minoritaria, non ha a che fare con la vetrina della politica. La cosa positiva degli scontri e delle minacce di questi giorni è che, invece, in Francia è vero oggetto di dibattito”. Allora veniamo alla cronaca. Sul concetto di volto del figlio di Dio, produzione internazionale della compagnia di Cesena, va in scena dal 20 ottobre al Théatre de la Ville di Parigi, uno dei produttori dello spettacolo.
FINO A GIOVEDÌ sera (quando le forze dell’ordine sono riuscite a bloccare i manifestanti fuori dal teatro), tutte le rappresentazioni sono state interrotte da gruppi di estremisti. Giovani, molto giovani. “Hanno meno di 30 anni”, dice uno dei tecnici della compagnia, da Parigi. Appartengono a gruppi come Action Francaise (movimento monarchico), Renoveau Francais (nazionalisti di estrema destra), o Civitas Institut. Formato da “giovani cattolici che difendono l’onore di Cristo”, come si legge sull’hompage del loro sito. O l’associazione Agrif, che si batte per l’identità francese e cristiana. Questi ultimi due gruppi hanno cercato di impedire la messa in scena dello spettacolo per vie legali. Ma il 18 ottobre, il Tribunal de Grande Instance di Parigi ha respinto il loro ricorso e ieri ha respinto la richiesta di impedirne la messa in scena al Teatro 104, dove Sul concetto del volto di Dio “traslocherà” il 2 novembre. Il lavoro mostra a un figlio che accudisce il vecchio padre, con forte realismo. Il figlio gli cambia il pannolone, ad esempio, e ci sono chiari riferimenti agli escrementi. Alle loro spalle, però, c’è il ritratto di Gesù di Antonello da Messina. “E a un certo punto – dice il regista – sul volto di Gesù cola, dall’interno, dell’inchiostro nero. Unire Cristo e la materialità della vita non è però una provocazione. È la realtà umana, anzi è la verità ultima dell’uomo. Perché non dovrei accostare il corpo a Cristo, il cui volto rappresenta la bellezza dell’umano?”. Castellucci, che ha alle spalle decine di lavori formalmente molto potenti e ha sempre osato per quanto riguarda il linguaggio (nel Giulio Cesare metteva in scena due anoressiche per incarnare o forse disincarnare l’anima tormentata di Bruto, ma è solo un esempio tra i tantissimi), questa volta è davvero a disagio. Anche perché si trova a Senigallia, dove sta provando il nuovo lavoro (Il velo nero del pastore che debutterà il 10 novembre al Teatro Vascello all’interno del RomaEuropaFestival) e fa “decine di telefonate al giorno per sapere se a Parigi tutto va bene”. Certo, l’eco sollevata in Francia è grande. Tutti i principali giornali d’oltralpe hanno scritto del boicottaggio, Le Monde ha fatto una lunga intervista al regista ed è partita una petizione in difesa della libertà d’espressione. Primi firmatari: il regista Patrice Chéreau, l’indignatissimo Stéphane Hassel, gli attori Michel Piccoli, Juliette Binoche.
CHI È A PARIGI descrive una situazione folle, ma non pericolosa per attori e tecnici. “I dimostranti – continua il tecnico-attrezzista della compagnia – hanno fatto cose pazzesche, sono saliti in scena ma non ci hanno toccato. Piuttostoselasonopresaconilpubblico. La prima sera hanno iniziato a gridare: Vergognatevi! Andrete all’Inferno! e Abbasso alla Repubblica, viva il re. Il pubblico ha reagito a sua volta, urlando frasi in difesa della libertà d’espressione. Poi sono arrivati una decina di poliziotti e questi ragazzi si sono inginocchiati e hanno iniziato a cantare l’Ave Maria. Alla fine la polizia li ha portati fuori e lo spettacolo è proseguito. Le interruzioni sono durate una settimana, ma dal 21 ottobre, la direzione del Teatro ha chiesto agli spettatori di non reagire e mantenere la calma per far lavorare le forze dell’ordine”. I fondamentalisti cristiani e gli estremisti di destra, nel delirio, si sono dimostrati molto “creativi”: hanno sprangato le porte del teatro (il pubblicoè dovuto entrare dalle porte laterali), lanciato lacrimogeni, sono saliti su un balcone dello stabile e hanno gettato olio di motore e pece sulla gente. Giovedì 27, la prima sera in cui lo spettacolo è andato in scena senza disordini, circa 300 persona hanno manifestato fuori dal teatro (dove ci sono una decina di camionette della polizia) brandendo crocifissi e rosari.
IL PARADOSSO è che, secondo la vulgata, Castellucci – che 30 anni fa ha fondato con la sorella e la moglie la Socìetas, una specie di comunità teatrale più che una compagnia – sia credente. “A questo non voglio rispondere – dice – È un fatto del tutto privato. Di certo se c’è qualche cattolico in buona fede, tra questi manifestanti, non ha visto lo spettacolo. Gesù in questo lavoro è il modello dell'uomo: il suo volto è la cosa più bella che si possa immaginare. Sul concetto di volto del figlio di Dio riflette però sulla vecchiaia, sul timore di essere abbandonati. Chi crede dovrebbe avere un rapporto meditato con la propria fine”. Il regista è sinceramente sgomento, ma da Parigi l’impressione è che il “manipolo” di dimostranti abbia solo una gran voglia di visibilità. Eppure, se la Francia, in questa occasione, rivela un lato estremista, l’Italia rivela un certo provincialismo. Quello di parlare di una delle compagnie italiane più note al mondo solo quando gli lanciano i lacrimogeni. All’estero.

Corriere della Sera 29.10.11
Dialogo tra le religioni e con gli atei. Le nuove sfide di Benedetto XVI
di Andrea Riccardi


N on è abituale che un papa torni in un luogo per commemorare un atto del predecessore. Ma l'altro ieri Benedetto XVI, con vari leader religiosi, è salito ad Assisi per ricordare la Giornata mondiale di preghiera per la pace, voluta da Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986. Infatti quella Giornata fu un evento storico durante la Guerra Fredda, quando convennero esponenti del patriarcato di Mosca, musulmani, il rabbino Toaff e tanti altri: si riunirono per «pregare non più gli uni contro gli altri — disse papa Wojtyla — ma gli uni accanto agli altri». Allora non si parlò molto (solo il papa prese sinteticamente la parola), ma ci fu molto silenzio. L'immagine dei leader religiosi, uno vicino all'altro con il papa tra loro, resta una delle grandi foto del secolo.
Da dove veniva l'idea? Papa Wojtyla era preoccupato per la pace al crepuscolo della Guerra Fredda. Non apprezzava che la lotta per la pace fosse prevalentemente nelle mani dell'Est e delle sinistre. Era convinto che il fondamento religioso della pace andasse ricercato nelle religioni. Tuttavia la cultura pubblica dell'Occidente le considerava fenomeni residuali. L'avanzata della modernità le avrebbe spazzate via o confinate nel privato. Il papa era invece consapevole della loro vitalità. Lottava contro il pronosticato declino del cristianesimo. Nel 1979 l'imam Khomeini era tornato in Iran, mostrando la forza dell'islam. Erano tempi di quella che Gilles Kepel avrebbe chiamato la «revanche de Dieu».
Giovanni Paolo II intuiva che le religioni, sconfinando nel fondamentalismo, avrebbero fomentato guerre e cultura del conflitto. Aveva misurato la forza delle religioni che allora la cultura occidentale sottovalutava ampiamente, presa com'era dal paradigma: più modernità, meno religione. Nell'incontro del 2011, Benedetto XVI può positivamente registrare il significativo capovolgimento di questo paradigma in venticinque anni: ora gli umanisti partecipano alla Giornata di Assisi. Non esiste più l'ateismo di Stato e la religione è una realtà con cui tutti (credenti o non credenti) fanno i conti nella vita sociale e internazionale.
Papa Wojtyla nel 1986 riprese i fili del dialogo interreligioso, iniziato dopo il Concilio (che aveva subito battute di arresto con l'islam), nella prospettiva dell'unità delle genti e della pace. Giovanni Paolo II fu creativo e poetico ad Assisi. Da qui voleva che partisse un movimento di religioni: «la pace è un cantiere aperto a tutti — disse — e non soltanto agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi». Il mondo francescano e la Comunità di Sant'Egidio si sono fatti carico di questa dimensione. C'è stata l'opposizione dei lefevriani, per cui Assisi era una svendita della verità cattolica. Ma papa Wojtyla è ritornato successivamente ad Assisi in momenti difficili: nel 1993 per la Jugoslavia, nel 2002 dopo gli attentati negli Stati Uniti. Allora mostrò di non condividere la cultura del conflitto e prese posizione contro il terrorismo globale. La sfida riguardava tutte le religioni, ma in particolare l'islam.
Benedetto XVI, nel 2006, ha parlato di Assisi 1986 come di «una puntuale profezia». Varie voci erano corse sull'opposizione all'incontro da parte del cardinal Ratzinger, che contribuirono a creare il mito del cardinale intransigente e del pontefice aperto. Nel 2002 ricordo il cardinale partecipe e soddisfatto della Giornata di preghiera. L'intento di Assisi non era «negoziare le nostre convinzioni di fede» — aveva detto Giovanni Paolo II. Ora Benedetto XVI è tornato ad Assisi, convinto dell'attualità del dialogo in un mondo globalizzato, dove la convivenza quotidiana è attraversata dalle tensioni del pluralismo religioso e etnico. La sua linea si muove tra due posizioni che appaiono attraenti: le passioni fondamentaliste e il relativismo cosmopolita. Il fondamentalismo offre il calore di una passione totale. Il relativismo è impregnato di sapore di modernità. Se tanti leader religiosi vanno con il papa ad Assisi, significa però che questo ideale si è fatto strada nei cuori e nelle culture.
Benedetto XVI, chiamando i religiosi all'impegno contro la violenza, ne ha additato un nuovo tipo che cresce tra «i grandi che fanno i loro affari, e poi tanti sedotti e rovinati sia nel corpo che nell'animo». È «l'adorazione di mammona, dell'avere e del potere» in un mondo che nega Dio. Andrea di Creta, poeta liturgico orientale, ha detto descrivendo questa condizione: «idolo a me stesso sono diventato». È la nuova violenza diffusa nelle società della globalizzazione, sotterranea ma talvolta prorompente. Con Assisi 2011 lo spirito di pace tra le religioni continua il suo cammino, mentre ci sono antiche e nuove forme di violenza con cui misurarsi. Forse c'è un mondo nuovo da capire, assai diverso da quello di venticinque anni fa.

Corriere della Sera 29.10.11
Il voto politico dei cattolici. La storia del «Non expedit»
risponde Sergio Romano


A proposito del voto dei cattolici, rispondendo a un lettore, lei ha affermato che «Pio X allentò i vincoli del "non expedit" e permise la partecipazione degli elettori cattolici alle elezioni nazionali». Forse perché i miei studi sono ormai lontani, non ricordo più di che si trattava. Vuole spiegarmelo?
Saverio Rossetti, Milano

Caro Rossetti,
«Non expedit» è una espressione latina che significa «non conviene», «non è opportuno», e si riferisce al voto dei cattolici nelle elezioni politiche italiane dopo la costituzione dello Stato unitario. Nel 1863 un battagliero teologo, Don Giuseppe Margotti, esortò i fedeli, dalle colonne dell'Unità Cattolica, a non essere «né eletti né elettori». La Chiesa dette forma a quella raccomandazione e dal 1868 in poi — come ha scritto lo storico Alfredo Canavero — «la posizione della Chiesa fu quella di ribadire il “non expedit», specialmente all'approssimarsi di scadenze elettorali». Dopo la conquista di Roma, quella esortazione fu formalmente ribadita con un decreto della Sacra Penitenzieria. Con l'aiuto della Biblioteca Ambrosiana e degli Archivi vaticani sono andato alla ricerca del testo originale, ma non l'ho trovato e non escludo che si trattasse di una istruzione proclamata a voce e trasmessa al Paese dai pulpiti delle chiese. Ma il «non expedit» ha una interessante storia successiva che è stata ricostruita da Maria Franca Mellano in un libro intitolato «Cattolici e voto politico in Italia», pubblicato dall'editore Marietti nel 1982.
I primi ripensamenti della Chiesa cominciarono nel 1876, quando il governo della Destra, presieduto da Marco Minghetti, dovette dare le dimissioni e lasciare il posto alla Sinistra di Agostino Depretis. Roma era caduta da sei anni, le prospettive della restaurazione apparivano sempre più improbabili e la nuova classe politica sarebbe stata molto più anticlericale di quella che aveva governato l'Italia negli anni precedenti. Mentre si avvicinavano le elezioni politiche e si annunciava una legge che avrebbe aumentato il numero degli elettori, Pio IX dovette chiedersi se il «non expedit» fosse ancora utile alle sorti della Chiesa in un Paese sempre più potenzialmente ostile. Come ricorda Maria Franca Mellano, il Papa dette incarico a monsignor Nina, segretario della Suprema Sacra Congregazione, di «suggerire innanzitutto agli organi della stampa cattolica di gradualmente modificare il loro linguaggio onde passo per passo abituare l'opinione pubblica all'idea che il mentovato concorso (al voto, ndr) non era in sé in nessun caso illecito e cambiandosi le circostanze poteva eziandio riuscire opportuno». Ma nei giorni seguenti accadde qualcosa (un imprecisato «incidente») che indusse Pio IX a sospendere la sua iniziativa.
Le riflessioni ricominciarono dopo la sua morte, agli inizi del pontificato di Leone XIII. Fu deciso ancora una volta di avviare una cauta discussione sulla stampa cattolica e la persona scelta per orchestrarla fu il brillante giornalista teologo Don Giacomo Margotti che quindici anni prima aveva coniato l'espressione «né eletti né elettori». Nel frattempo il predecessore del «non expedit» aveva cambiato opinione, e si buttò quindi nell'impresa con entusiasmo; troppo forse per tutti coloro che nell'ambito della Chiesa non avevano rinunciato a sperare nella dissoluzione dello Stato Italiano. Leone XIII giunse alla conclusione che i tempi non erano maturi e lasciò al suo successore, Pio X, il compito di modificare la linea della Chiesa.

Corriere della Sera 29.10.11
Divieto del Burqa all'italiana una Proposta che non Convince
di Marco Ventura


È finalmente iniziata alla Camera dei Deputati la discussione sulla proposta di legge anti-burqa. Se approvato, il testo unificato presentato dalla maggioranza includerebbe tra i mezzi atti «a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona», e pertanto vietati dalla legge sull'ordine pubblico, gli «indumenti o accessori di qualsiasi tipo, compresi quelli di origine etnica e culturale, quali il burqa ed il niqab».
Così formulata, la norma è applicabile solo a prezzo di arbìtri e forzature di dubbia costituzionalità. La legge riconoscerebbe infatti alle forze dell'ordine la più ampia discrezionalità nel valutare il caso concreto. Si tratterà un passamontagna con la stessa severità riservata a un burqa? E le sciarpe tirate sul naso renderanno «difficoltoso il riconoscimento della persona» quanto il niqab? Soprattutto, la nuova legge continuerebbe a consentire di portare il burqa a chi avesse un giustificato motivo per farlo, ad esempio la convinzione di seguire un precetto religioso.
Tanto strepito per nulla, insomma. La maggioranza annuncia un'improbabile linea dura, concentra l'ansia da Islam su un problema minore, e intanto priva polizia, giudici e cittadini di norme certe in sintonia con la costituzione e capaci di evitare abusi e ambiguità.
L'imperizia tecnica che la maggioranza ha portato in aula è figlia della demagogia. Un intervento legislativo dal solido profilo tecnico-giuridico è possibile. Ci vorrebbe però che libertà personale, culture e religioni fossero prese sul serio. Che gli apprendisti stregoni si facessero da parte. E che norme sensate ed efficaci sul burqa si inquadrassero in un progetto articolato per l'Italia multi-culturale e per l'islam. In nome di una politica religiosa forgiata sul principio di laicità, la Francia ha vietato il burqa per davvero. Il divieto transalpino ha retto al vaglio della Corte europea e i problemi applicativi sembrano per ora contenuti. Viceversa il tragicomico divieto del burqa all'italiana rischia di essere il trastullo di una maggioranza che non si vergogna di usare la religione per coprire la propria inanità.

Repubblica 29.10.11
Ospedali psichiatrici giudiziari "Chiudete le carceri della vergogna"
di Fabio Tonacci


ROMA - Edifici sporchi, celle claustrofobiche, personale medico quasi inesistente, detenuti legati a letti di metallo con un foro centrale per far cadere le feci. E ancora, bagni alla turca con bottiglie d´acqua da bere depositate nel water per mantenerle fresche ed evitare che i topi risalgano dalle fogne. Flash agghiaccianti della situazione in cui si trovano i sei ospedali psichiatrici giudiziari ancora aperti in Italia. Ad Aversa, a Napoli, a Barcellona Pozzo di Gotto, a Montelupo Fiorentino, a Reggio Emilia e a Castiglione delle Stiviere. Ospitano 1500 internati, condannati dalla giustizia ma ritenuti mentalmente infermi. Vivono in condizioni disumane, raccontate nel dettaglio in un´inchiesta uscita il 28 ottobre sul primo numero di E-il mensile, il nuovo periodico di Emergency.
Il 27 settembre il Senato ha approvato all´unanimità la relazione della Commissione parlamentare d´inchiesta sull´efficacia del servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino. Un testo che impegna il governo a chiudere definitivamente gli ospedali psichiatrici giudiziari, nati nel 1975 con la riforma penitenziaria. Già nel 2008 un decreto della Presidenza del consiglio ne aveva imposto la chiusura, ma poi niente era stato fatto. Nel luglio dello scorso anno una commissione ha ispezionato a sorpresa le sei strutture con una videocamera. Ne è nato un documentario, girato dal regista Francesco Cordio. «Un viaggio nell´Ottocento - lo ha definito Ignazio Marino - quei luoghi sono abissi dove il tempo si è fermato».
Malati e dimenticati. Un´agente penitenziaria in servizio presso l´Opg di Napoli rivela: «Per il 40 per cento degli internati la pericolosità sociale è venuta meno, sono stati dichiarati "dismissibili". Ma i magistrati di sorveglianza non sanno dove mandarli».

l’Unità 29.10.11
Il rapporto di Antigone Il caso limite di Lamezia Terme dove l’indice di affollamento è del 303%
Allarme suicidi 56 nel 2011: uno ogni mille persone. Fuori dagli istituti il rapporto è uno ogni 20mila
Le carceri scoppiano. E c’è chi paga per mangiare
Presentato ieri il rapporto sulle carceri redatto dall’associazione Antigone. «Il sistema è malato spiega il presidente dell’osservatorio Patrizio Gonnella su questo siamo tutti d’accordo, ma le ricette divergono».
di Uciana Cimino


Sarebbe stato scarcerato domani Agatino Filia, 56 anni. Invece, non è riuscito a immaginare un futuro “fuori” e si è tolto la vita impiccandosi giovedì con le lenzuola alla tromba delle scale del carcere di Livorno. È il 56 ̊ detenuto suicida nel 2011, su un totale di 154 morti in carcere. Un detenuto ogni mille. Fuori dal carcere la percentuale è di un suicidio ogni ventimila persone. Che succede fra le mura degli istituti di pena italiani? A stilare il rapporto è Antigone, l’osservatorio sulle condizioni di detenzione che dal 1999, con i propri volontari, ispeziona tutti i penitenziari italiani. Quest’ultimo rapporto non a caso l’ha intitolato “Le prigioni malate” (Dell’Asino edizioni). «Il sistema non può più reggere, il lavoro degli operatori è impossibile, siamo tutti d’accordo sul fatto che è malato, poi le ricette per la cura non coincidono», spiega Patrizio Gonnella, presidente dell’osservatorio. Quali le cause? Il sovraffollamento, innanzitutto. L’Italia è maglia nera in Europa. I detenuti presenti nei 206 penitenziari sono circa 68.500 a fronte di una capienza di 45.817. Con casi limite come quelli di Lamezia Terme (dove l’indice di affollamento è del 303%), Brescia (258%), Busto Arsizio (253%).
Il tutto mentre la pianta organica della polizia penitenziaria è sottostimata di quasi 10 mila unità. Sovraffollamento non dovuto a reati contro il patrimonio o alla mafia «ma all’impatto enorme che hanno avuto la legge Fini-Giovanardi sulle droghe e la Bossi-Fini sull’immigrazione» continua Gonnella.
UNA VERA EMERGENZA
Centinaia sono i ricorsi presentati alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo contro le condizioni inumane di detenzione. Storie che raccontano anche di celle di 4x2 destinate a due persone, in cui entra la pioggia, non c’è acqua calda e gli spazi sono talmente risicati che se un detenuto è in piedi, l’altro deve stare sul letto. Il rapporto non tace casi di violenze, torture e morti sospette. Come il caso di Asti (dove Antigone si è costituita parte civile) in cui i pm hanno ricostruito che i detenuti venivano sottoposti a un «tormentoso e vessatorio regime», o quello della violenza subita da un internato transessuale ad Aversa, o i due agenti di San Vittore accusati di violenza sessuale aggravata e i molti abusi sui detenuti extracomunitari. Da nord a sud lo scenario non cambia: a Bergamo un detenuto è stato ucciso dalla malasanità, troppi ritardi nelle visite. A Lecce è allarme Tbc, scabbia e varicella. A Siracusa un detenuto non può fare la dialisi perché manca il carburante per portarlo in ospedale. A Mantova i detenuti sono alloggiati persino nella sala colloqui e non possono fare sport o attività culturali causa mancanza di personale. Il ministero, poi, paga meno di 4 euro al giorno i tre pasti giornalieri e a queste cifre non c’è guadagno per le ditte appaltatrici. Infatti è permesso e anzi agevolato il sopravvitto che i detenuti acquistano di tasca propria all’interno delle carceri. Questo ha creato «un’oligarchia dei fornitori in cui spadroneggiano solo due ditte». Il governo ha varato il Piano Carceri, presentato nel 2010 dal Commissario Straordinario all’edilizia penitenziaria Franco Ionta, che prevede 11 nuovi istituti e 20 nuovi padiglioni per un costo di 661 milioni da realizzarsi entro il 2012. Solo in questi giorni sono usciti i primi tre bandi e gli unici lavori iniziati sono quelli per l’allargamento del carcere di Piacenza. Ma Antigone obietta: «di quella cifra 100 milioni saranno presi dalla Cassa delle ammende, riservata al reinserimento dei detenuti, inoltre in Italia esistono 40 carceri fantasma, costruiti, arredati e abbandonati; perché non mandarli a pieno regime e risparmiare?».

Corriere della Sera 29.10.11
Le Maserati dei generali
di Gian Antonio Stella


Una sola delle 19 Maserati Quattroporte comprate dal ministero della Difesa costa nella versione base 22.361 euro più dell'intero stanziamento 2011 dato all'Accademia della Crusca, che dal 1583 difende la nostra lingua. Una volta blindate, quattro auto così valgono quanto la dotazione annuale della «Dante Alighieri» che tenta di arginare il declino della nostra immagine nel mondo tenendo in vita 423 comitati sparsi per il pianeta e frequentati da 220mila studenti che seguono ogni giorno 3.300 corsi di italiano.
Basterebbero questi numeri a far capire a una classe dirigente seria, capace di «ascoltare» i cittadini, come l'acquisto di quella flottiglia di auto blu di lusso non possa esser liquidato facendo spallucce. Ci sono gesti che pesano. Soprattutto in momenti come questi. Dicono: la notizia è uscita ora ma il contratto è del 2009-2010. Cioè prima che Tremonti disponesse che «la cilindrata delle auto di servizio non può superare i 1600 cc. Fanno eccezione le auto in dotazione al capo dello Stato, ai presidenti del Senato e della Camera, del presidente del Consiglio dei ministri…».
Sarà… Ma la crisi era già esplosa, il Pil procapite degli italiani era già affondato, il debito pubblico era già schizzato verso il record e l'Ansa aveva già diramato notizie così: «Fotografia del crollo dei mercati nel 2008: Piazza Affari vale la metà rispetto a un anno fa e appena un quarto (23,4%) del Pil, quando ancora a fine 2007 era al 47,8%...». Insomma: eravamo già immersi in quello che Napolitano definisce «un angoscioso presente».
Solo che un pezzo della classe politica, la quale magari ritiene «sostenibili» il prelievo di solidarietà sulle buste paga degli statali, il sequestro per due anni delle liquidazioni, i contrattini-capestro che asfissiano milioni di giovani, trova invece «insostenibile» non solo abbassarsi ad andare in ufficio in autobus, come fanno molti loro colleghi stranieri, ma anche avere «ammiraglie» meno lussuose. La foto ai funerali dei due alpini morti ad Herat nel maggio 2010 diceva tutto: il cronista dell'Espresso contò 259 auto blu.
Dice l'ultimo rapporto governativo che in Italia queste auto più o meno blu sarebbero 72mila e secondo il Giornale costerebbero un tale sproposito da far dire a Brunetta: «Possiamo risparmiare un miliardo di euro in un triennio». Auguri. Certo è che quella fastidiosa notizia sulle 19 berline de-luxe comprate alla Difesa, dove in teoria solo 14 persone avrebbero diritto all'autista ma nel «parco» ci sono cento auto blu e 700 «grigie», è stata vissuta da milioni di cittadini come un cazzotto in faccia. Per non dire di come l'hanno vissuta i carabinieri che battono gli sfasciacarrozze in cerca di ricambi per le vecchie auto scassate. O i poliziotti che a Milano o Cagliari fanno collette per comprare la benzina.
Il Sap, il sindacato degli agenti, accusa: «A Roma circolano ogni giorno 400 auto blu contro 50 macchine della polizia e dei carabinieri addetti alla sicurezza dei cittadini. In pratica per ogni volante o gazzella ci sono otto auto dedicate alla protezione di politici, magistrati…». L'80%, dicono, «potrebbe essere tagliato». Probabile. Tre anni fa Recep Erdogan fu sbattuto in prima pagina sul giornale Hurriyet perché un fotografo l'aveva beccato in campagna elettorale con l'auto di Stato. Scandalo. Non si fa così, in Turchia.

il Fatto 29.10.11
PDCI Il congresso: “Con il Pd per vincere”
Tornano i comunisti, con Cuba e il Vietnam
di Sandra Amurri


ARimini, dove 20 anni fa il Pci si scioglieva dando vita a Rifondazione, si può dire che sia nata la Terza Internazionale e mezzo. Il Partito comunista italiano ha le facce dei compagni di Cuba, Argentina, Brasile, Sudafrica, Corea, Cina, Vietnam, per un totale di 45 delegazioni estere. Occhi a mandorla, visi colorati, mani che credono fortemente in un mondo migliore e celebrano il fallimento del capitalismo. Una nota dolente: le donne. Ancora troppo poche per poter titolare “fine del maschilismo”, malattia che non risparmia la sinistra. Lo sconforto si attenua guardando Milagros Carina Soto Aguero, ambasciatrice di Cuba a Roma, seduta dietro alla delegata del Partito comunista argentino che ha appoggiato la presidente Cristina Kirchner. Carina è una donna forte e semplice: “È bueno che le donne comuniste nel mondo siano in crescita”.
Colpisce un ricambio generazionale, le nuove leve hanno meno di 40 anni e i nuovi iscritti sono studenti, precari della scuola, metalmeccanici. Le note dell’Internazionale che risuonano dopo quelle dell’inno di Mameli, emozionano anche Saleh Ra’Afat, inviato dal presidente palestinese Abu Mazen. L’obiettivo in questo congresso, scandisce a chiare lettere Diliberto, è “ricostruire il Partito comunista italiano”. E le lancette dell’orologio tornano a quella svolta che ha sancito la fine del più grande partito comunista dell’Occidente. “Di errori ne abbiamo fatti tanti, come negarlo, ma siamo pronti a ricominciare” dice Anna, la gioventù stampata sul viso che non conosce l’offesa delle rughe. “Guardando tutti questi comunisti ho pensato che se Berlusconi fosse qui avrebbe un attacco epilettico” esclama ridendo. “A sinistra regna grande frammentazione che genera debolezza”, insiste dal palco Diliberto e il pensiero va a Nichi Vendola con il quale, spiega, “ci legano le stesse sensibilità sulla guerra, sulla difesa dell’ambiente contro il nucleare, sul bisogno di ridare corpo al movimento dei lavoratori. Dobbiamo contribuire a cacciare i mercanti dal tempio, a difendere la Costituzione, a ristabilire l’uguaglianza di fronte alla legge, a combattere la cancerosa corruzione”. “Abbiamo il dovere dell’unità a sinistra – ripete Diliberto – contro Berlusconi e contro il berlusconismo, ce lo chiede il popolo democratico, l’Italia perbene. I lavoratori, se stiamo fuori dal Parlamento, ci percepiscono come ininfluenti. Dobbiamo sconfiggere ogni forma di estremismo velleitario. L’alleanza elettorale è necessaria, ma non sufficiente. Negozieremo alla luce del sole su accordi programmatici chiari ai cittadini e fattibili, come la lotta all’evasione fiscale e alla precarietà, il ruolo del pubblico nell’economia, la difesa dello stato sociale”. Seguono parole chiare come primarie. “Vi parteciperemo anche noi”. Di governi tecnici o di larghe intese neppure a parlarne, la parola d’ordine è: elezioni a marzo. Ce n’è anche per la casta, quella dei “ricchi e dei potenti. L’assemblea dei giovani di Confindustria fa sì che quelli siano i figli dei vecchi di Confindustria”. E in sala si odono parole comuniste come “proprietà collettiva”: così si chiamano i “beni comuni come l’acqua, l’ambiente”, spiega. In verità la platea gremita dopo 3 anni di assenza dal Parlamento è un miracolo a cui Diliberto aggiunge la “cancellazione dai media e la fine delle risorse economiche, la perdita della vecchia sede del partito e la cassa integrazione per tutto il, seppur piccolo, apparato centrale” che definisce la “nostra odierna dignitosa povertà”. E i media non ci sono neppure oggi a raccogliere la consapevolezza degli errori, a raccontare questo piccolo grande spicchio di comunismo nel mondo e il richiamo di Diliberto alla risposta che Enrico Berlinguer diede a Minoli nell’84: “Quali sono le cose di cui va orgoglioso?”. “Sono orgoglioso di essere ancora fedele agli ideali della mia gioventù”.

l’Unità 29.10.11
La Cina è già qui ma l’Europa abbia una voce sola
di Ugo Papi


Negli ultimi tempi si parla sempre più spesso dell’interesse cinese nel sostenere la disastrata economia europea. Sono sempre più insistenti le voci di un piano di salvataggio del gigante asiatico pronto ad intervenire massicciamente nel vecchio continente. Al centro dell’interesse cinese vi sono possibili investimenti nell’economia reale con l’acquisizione di aziende in crisi e l’acquisizione di titoli di Stato. È una questione che rimarrà all’ordine del giorno per l’immediato futuro e negli anni a venire. È infatti evidente che le trasformazioni epocali degli ultimi anni hanno proiettato sulla scena economica internazionale nuovi attori. Il primo di questi è la Cina, con i suoi tassi di crescita impetuosi e soprattutto riserve per oltre 3200 miliardi di dollari. Gli interventi di Pechino si stanno intensificando da tempo. La Cina continua a comprare buoni del Tesoro anche dei paesi meno virtuosi come l’Italia, la Spagna e persino la Grecia, che non possono che salutare positivamente l’aiuto che arriva da oriente. Già oggi un terzo delle riserve cinesi sarebbero in euro, pur nella difficoltà di un calcolo preciso, visto che la Cina considerano questa materia un serio segreto di stato.
La maggioranza dei titoli restando una rigorosa logica di mercato che privilegia sempre gli investimenti più sicuri. Si fa inoltre sempre più insistente la possibilità che l’Impero di mezzo entri con propri capitali in imprese finora controllate dai singoli paesi europei. Per fare solo un esempio italiano, nei giorni scorsi si è parlato di un interessamento della potenza asiatica peri Eni, Enel, persino Finmeccanica. L’interesse cinese nel sostenere l’Europa è evidente: l’Ue è il primo partner commerciale di Pechino. Il volume di scambi commerciali tra l’Europa e la Cina sono più forti di quelli con gli Stati Uniti. Il surplus del paese asiatico rispetto alla Ue è imponente. Lo scorso anno ha toccato la vetta di circa 170 miliardi di euro. Sostenere l’Euro per Pechino significa salvare le proprie esportazioni, tanto più vantaggiose per i consumatori europei, tanto più la moneta europea si mantiene forte. La crisi delle economie occidentali sta già colpendo la Cina. Di fronte ad essa le autorità cinesi hanno reagito predisponendo un rivoluzionario piano quinquennale che prevede una riconversione dell’intera economia dal settore delle esportazioni a quello dell’aumento dei consumi interni, per dipendere meno dall’andamento dell’economia internazionale. Ma per raggiungere l’obiettivo, la Cina ha bisogno di tempo. Intanto la leadership cinese, in questo periodo deve risolvere due problemi.
Tenere sotto controllo il costo della vita, che continua a salire in tutta la nazione alimentando l’inflazione, e allo stesso tempo varare politiche adeguate per non fare calare la crescita economica e l’export, messi a dura prova dalla crisi dell’euro e da un’economia statunitense che non riesce a ripartire in nessun modo. Per il loro sostegno alla zona euro i cinesi chiedono però esplicitamente delle contropartite politiche.Il Premier Wen Jabao ha chiesto chiaramente che l’Europa riconosca alla Cina lo status di economia di mercato. Se questo avverrà, sarà difficile aprire delle procedure anti dumping, con tutte le conseguenze negative che tale scelta comporterebbe per i produttori europei che protestano da tempo per l’invasione di prodotti sottocosto made in China. La scelta dell’Europa, in questo caso, è di natura economica ma anche politica. Fu infatti politica la decisione di riconoscere lo status di economia di mercato alla Russia nel 2002, pur in mancanza di effettive garanzie economiche.
Il vecchio continente si trova di fronte ad una decisione importante che può essere presa con serietà e rigore valutando i pro e i contro di una più massiccia presenza della nazione asiatica nell’economia e nella finanza dei nostri paesi. Ma la scelta avrà un senso se la UE saprà unita aprire un tavolo di discussione con i cinesi sul ruolo e le finalità del loro intervento per salvare l’euro e acquisire aziende strategiche. Se prevarrà l’interesse nazionale e la paura irrazionale a perdere sarà l’intero continente.

il Fatto 29.10.11
La Cina scopre i suoi lavoratori indignados
di Simone Pieranni


Pechino. Esistono anche gli indignados cinesi, ma per coglierne le consuete caratteristiche è necessario spogliarsi dei vestiti occidentali e abbracciare la complessità della Cina. Gli indignati cinesi scavalcano il concetto classista e vedono uniti per la prima volta piccoli imprenditori e i loro lavoratori contro le autorità, pur mantenendo come obiettivo naturale il capitalismo finanziario, di cui sono caduti vittime. Senza piattaforme condivise e percorsi prestabiliti alcuni giorni fa, nei pressi della città di Huzhou, nel Zhejiang, migliaia di “padroncini” - la spina dorsale dell'economia cinese – e i loro lavoratori sono scesi per strada dando fuoco ad auto, sfasciando vetrine di palazzi governativi, sputando la propria rabbia contro le autorità.
Il motivo apparente è stato un tentativo di innalzare alcune imposte sulle piccole imprese, uno sgarbo considerato fuori luogo da chi ha prodotto per il mondo – da questa zona arrivano tutti i capi di abbigliamento per l'infanzia che riempiono i negozi nostrani – e ora si trova ad affrontare una crisi senza precedenti.
NEL ZHEJIANG da mesi si assiste alla fuga e alla chiusura di molte aziende: le banche nel tentativo di congelare l'inflazione hanno chiuso i rubinetti del credito, togliendo la possibilità alle piccole e medie imprese di accedere a prestiti, tagliando sul nascere il loro tentativo di crescere e di innovare per tornare ad essere competitivi vista la recente difficoltà delle esportazioni cinesi: secondo Hsbc Holdings Plc l'attività manifatturiera ha mostrato una contrazione a settembre, corrisposta proprio con la stretta del credito.
Si è sviluppato così un meccanismo, chiamato delle “banche ombra”, con prestiti che sono arrivati a interessi anche del 180%. Chi non ha chiuso, è scappato, creando una situazione d’emergenza che ha visto l'intervento anche del premier cinese. Proprio l'arrivo di Wen Jiabao giorni fa, aveva fatto pensare a manovre immediate: nella consueta attenzione ai riti, di cui il Partito Comunista è ancora oggi grande cerimoniere, si era pensato che la visita di nonno Wen avesse sancito la risoluzione del problema. Invece mercoledì, una passeggiata per ritirare le spese tributarie effettuata da alcuni solerti funzionari statali presso un'azienda che produce vestiti, ha causato la reazione del piccolo imprenditore. “Non pago”, deve aver risposto, causando una reazione a catena che secondo i testimoni, che hanno postato foto e impressioni sul twitter locale, Weibo, è sfociata in una manifestazione violenta di migliaia di persone. È intervenuta la polizia e da ieri la città di Huzhou è sotto controllo, con negozi chiusi e poca gente per strada. Un'indignazione interclassista, che scuote la tranquillità apparente di chi dovrebbe salvare l'Europa.

Repubblica 29.10.11
Pechino compra la Svezia, cinesi anche le Saab
Accordo da 100 milioni salva la casa auto. Seconda acquisizione dopo la Volvo
L’azienda era finita in mani olandesi, ma era ormai a un passo dal tracollo
di Andrea Tarquini


BERLINO - La lunga marcia dell´industria e degli investitori cinesi nel mondo libero prosegue a passo sempre più spedito, e soprattutto con obiettivi e priorità strategiche sempre più chiare: acquisire eccellenze, know how tecnologico, teste di ponte su segmenti di mercato qualificati. Saab automobile, l´antica, gloriosa azienda svedese da tempo sull´orlo della bancarotta, è stata rilevata da parte del gruppo Youngman&Pan per 100 milioni di euro. La Repubblica popolare ormai controlla tutta l´industria automobilistica svedese. Un´industria, ricordiamolo, da anni a rischio di tramonto ma che con appunto Saab e con Volvo - già rilevata dai cinesi di Geely - vanta comunque marchi di qualità. Una produzione di sportive e limousine di lusso e gran qualità, a livello quasi premium, modelli che vanno per la maggiore nel vitale mercato nordamericano.
L´accordo ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai restanti 3.700 dipendenti di Saab auto, il cui posto di lavoro è in massima parte a Trolhaettan, nella Svezia meridionale, e in piccola parte nel Regno Unito. L´accordo sarà valido se tutte le procedure fallimentari già definite per Saab saranno rispettate e se verrà approvato da ogni autorità competente. Il crollo di Saab era cominciato nel 2010, quando General Motors, il gigante americano allora in crisi, l´aveva ceduta al gruppo olandese Spyker, poi ribattezato Swan, per concentrarsi sul risanamento a Detroit e sulla sorte di Opel. Ma finora Swan non era riuscita a rilanciare Saab, la cui fine sembrava imminente. Ora sono arrivati i cinesi. Comprano per 100 milioni di euro, ma si impegnano a investire per 480-500 milioni per rilanciare il marchio, e a non delocalizzare. «Abbiamo tirato un bel sospiro di sollievo», ha detto il numero uno di Swan, Victor Muller. Di fronte alle varie difficoltà burocratiche infatti l´interesse della Repubblica popolare a Saab sembrava svanito.
La storia delle auto del regno delle Tre Corone finisce così. Prima la Volvo, simbolo della berlina di lusso supersicura e indistruttibile e auto-mito fin dai primi anni Sessanta per finire alla serie di film Twilight (il giovane vampiro innamorato d´una mortale). Poi la Saab, che dalla mitica ‘Saab 96´ agli ultimi cabrio, nelle pellicole di Hollywood ha visto al volante Jack Nicholson e altri divi, sono caduti in mano alla superpotenza dell´estremo oriente.
Non siamo più alla sola rincorsa dell´Occidente nel mercato delle utilitarie e della produzione di massa. A Pechino evidentemente non basta più neanche copiare (spesso ancora male) grandi berline e Suv made in Germany, anche perché poi per plagio questi prodotti si vedono spesso chiusi i mercati decisivi. Adesso col cavallo di troia svedese cambiano le carte in tavola, e le regole del gioco. Proprio mentre sul piano generale della crisi economica, finanziaria e del debito internazionale la Cina pone chiare condizioni per aiutare Europa e Usa. La vecchia Urss di Kruscev la chiamava competizione pacifica tra i sistemi, ma non aveva i mezzi per condurla. A Pechino invece non mancano né volontà, né strategia di lungo respiro, né miliardi. I produttori europei e Usa, anche di lusso, sono avvertiti.

il Riformista 29.10.11
L’Eurozona chiede aiuto alla Cina per non affondare
Dragone. All’indomani del summit Ue, il dg dell’Esfs è volato a Pechino. Al centro dei colloqui con le autorità della Repubblica popolare, l’investimento del gigante asiatico nelle obbligazioni sul debito comunitario
di Nello Del Gatto

qui

Corriere della Sera 29.10.11
In tv il reality choc sull’ultimo giorno dei condannati a morte
In Cina lo seguono 40 milioni di persone
di Valerio Cappelli


ROMA — «Voglio solo vederti prima dell'esecuzione». Il dialogo tra padre e figlia si svolge attraverso il vetro divisorio. Parlano al citofono. Lei piange disperata, il padre è incatenato ai polsi e ai piedi e indossa il camice arancione dei condannati a morte. «Questo episodio l'ho visto e rivisto e ogni volta l'addio del padre alla figlia mi tocca nel profondo del cuore», dice Ding Yu. E poi, rivolta alla telecamera «Mezz'ora dopo, lei avrebbe avuto solo le ceneri di suo padre».
In Cina Ding Yu è una popolare giornalista televisiva, incarna la quintessenza della tv del dolore, una sorta di Maria De Filippi o Barbara d'Urso di Pechino. Da quattro anni conduce un programma che si intitola «Interviste prima delle esecuzioni». Il documentario ne ripropone una sintesi; si intitola Dead Men Talking e fa il verso al film con Sean Penn e Susan Sarandon. L'ha realizzato il regista australiano Robin Newell.
È un filmato che toglie il fiato, «è a metà strada tra il talk show e il reality — dice Mario Sesti che il 2 novembre lo ospita nella sezione Extra —, è la prima volta che immagini del genere si vedono in Occidente, abbiamo lavorato a lungo per riuscire ad averle. È una specie di diagramma della Cina attuale, dove da una parte permangono residui di pratiche medievali, dall'altra si assiste a un processo di mediatizzazione che trasforma tutto questo in un talk show simile a quelli delle società occidentali».
Il programma in Cina è seguito da 40 milioni di spettatori ed è uno dei tre più visti su una rete di 50 canali. Viene trasmesso in luoghi pubblici, nei bar ma anche nelle prigioni distrettuali. Il produttore ne rivendica il ruolo pedagogico, dice che «è una grande idea, sia commerciale che dal punto di vista della responsabilità sociale. Vogliamo che lo spettatore sia avvisato, in modo tale da evitare tante altre tragedie».
Nulla viene risparmiato, pianti, urla, l'ultimo incontro dei condannati con i parenti nel cortile della prigione prima che vengano caricati su camion militari scoperti che attraversano la città in fila indiana. I prigionieri restano in piedi, hanno un cartello sulla schiena che indica il crimine per cui saranno giustiziati, un monito per i cittadini che osservano la scena in silenzio, ai lati della strada.
Ding Yu prima di raggiungere il carcere, dove si svolgono le interviste, si imbelletta in automobile, poi si fa ritrarre nel weekend a casa mentre prepara le cene in famiglia, dispiaciuta perché la figlia non apprezza i suoi «spring rolls». Nelle interviste recita, si mette in posa, ha un tono compassionevole; ai condannati (è necessario il loro consenso per le interviste), che appaiono storditi o attoniti, chiede: «Ti rendi conto di quello che hai fatto? Non sei mica una bestia». Si fa raccontare i dettagli del delitto: «Quindi hai infilato il coltello dalla schiena?». Ancora: «Non vedo sufficienti ragioni per bruciare vivo tuo marito». Le condannate vengono fatte cantare in coro in prigione: «Dobbiamo essere di buon esempio, ripensare ai nostri errori...».
Ding Yu si vede come «una testimone che entra nelle loro menti prima che arrivi la morte. Non posso dimenticare certi momenti, non posso fare niente. Penso alle persone uccise per colpa loro. E mi fa sentire meglio».
Il 90 per cento dei crimini di cui si occupa riguardano tradimenti e rapine in cui c'è scappato il morto. Zhang Peng, 26 anni, voleva uccidere la nonna della sua ragazza nel sonno, facendo sciogliere del sonnifero nel té. Qualcosa non ha funzionato e ha ucciso sia lei che suo marito. «L'avevi escogitato bene il piano, eh, hai mai pensato a loro?», domanda la telegiornalista. Prima di piangere anche lei, rivolta alla telecamera: «Così giovani, non potranno più vedere il mondo, divertirsi, avere una famiglia».
La scena più straziante è quella del confronto tra i parenti delle vittime con i parenti dei condannati. In alcuni casi se c'è il perdono della famiglia la pena capitale viene commutata in ergastolo. I genitori del condannato si inginocchiano davanti al giudice invocando la clemenza della corte.
In Cina, ricorda la voce narrante, esistono 55 crimini, dal contrabbando all'omicidio, puniti con la pena di morte. Può avvenire in due modi: fucilazione o iniezione letale. I giustiziati sono oltre 3500 all'anno. Uno dei giudici interpellati dice che non sono ancora pronti per rinunciarvi. Le guardie armate prima di sparare si galvanizzano: «Siete pronti?», grida l'ufficiale.
All'epoca del documentario, Ding Yu aveva realizzato 208 puntate: «Io i condannati a morte li tratto come persone comuni. Con me sono calmi, si sentono sollevati, è come se avessero lasciato l'anima da qualche parte».

Corriere della Sera 29.10.11
Quell’abisso fra ricchi e poveri che scatena le crisi globali
La diseguaglianza crescente non è solo una questione etica
di Massimo Mucchetti


Ma che mondo è questo nostro nel quale la concentrazione della ricchezza è tale per cui i bonus della Goldman Sachs, anno domini 2009, sono pari al reddito di 224 milioni delle persone più povere del pianeta? Globalizzare produzione e commerci, attorno al dogma della libera circolazione dei capitali, e deregolare le società occidentali, in nome del massimo lucro di manager e azionisti, ha prodotto il sonno del diritto. E come il sonno della ragione di Goya, anche questo genera un mostro: l'eccesso di disuguaglianza.
La cosa non turba il governo né la Bce: basta leggere il loro scambio epistolare, che promette crescita senza un cenno all'equità. E basta guardare l'asta dei Btp, chiusa sopra il 6%, per capire come tanto realismo economicistico rischi di non convincere nemmeno i mercati per i quali è pensato. Come negli anni Trenta, ci vorrebbero pensieri irregolari. Come quelli emersi tra ieri e giovedì, alla Fondazione Cariplo di Milano nel corso della XXIV conferenza internazionale dell'Osservatorio Giordano Dell'Amore, curata dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e dedicata alle disparità economiche e sociali. Un seminario di alto livello al quale — e non è un buon segno — non ha partecipato la Milano dell'economia e dell'accademia, nonostante l'appello di Guido Calabresi e Guido Rossi.
Si usa dire che la globalizzazione ha tolto dalla povertà assoluta alcuni miliardi di persone, la Cina, l'India. Tutto vero. Ma la globalizzazione ha anche fatto saltare i vecchi equilibri. Branko Milanovic, economista tra le università di Belgrado e del Maryland, ne offre l'incendiaria misura nel grafico che pubblichiamo in questa pagina: l'1% più ricco della popolazione mondiale, circa 70 milioni di persone, guadagna quanto gli ultimi 4.275 milioni. A parità di potere d'acquisto, al 10% più ricco va il 55% dei consumi mondiali. Non è un dato naturale né meritocratico, ma un portato di (in)civiltà, ove si consideri che in Germania, dove vige l'economia sociale di mercato e i sindacati siedono nei consigli di sorveglianza delle imprese dai 2 mila dipendenti in su, il 10% più ricco si aggiudica il 25% dei consumi.
Milanovic corregge Marx: nel secolo XIX il conflitto sociale avveniva dentro Paesi relativamente simili; oggi tra aree del mondo. Di un mondo che tecnologia e finanza hanno interconnesso nella convinzione di poterlo dominare, ma che ora cerca di allentare le tensioni attraverso la migrazione dei popoli. Se i nuovi proletari sono i migranti, bastano le leggi Bossi-Fini o i ranger alla frontiera messicana del Texas a tenere assieme le società? Nell'epoca in cui i tre quarti delle disuguaglianze globali dipendono dalle differenze tra Paesi, la prima forma di rendita diventa la cittadinanza d'origine. E questo sul piano sociale spiazza la politica della concorrenza dentro i Paesi del Primo Mondo e tra questi e il resto del pianeta.
La questione della disuguaglianza non è soltanto etica. L'eccesso di disuguaglianza è, al tempo stesso, figlio e padre della follia finanziaria dell'Occidente. La Grande Depressione del 1929 e la Grande Recessione del 2007, osservano Michael Kumhof e Romain Rancière, due economisti del Fondo monetario internazionale, sono state entrambe precedute da una forte e prolungata impennata della disuguaglianza nei redditi e nella ricchezza e, al tempo stesso, da un analogo rigonfiamento dei debiti del ceti medi e bassi. In entrambi i casi, i ricchi hanno usato le risorse eccedenti i loro pur opulenti consumi per finanziare, tramite il sistema bancario, i poveri nei loro acquisti. E i ricchi si sono pure offerti a modello dei consumi di massa, come Luigi XIV lo era per la nobiltà francese del Seicento. Robert Frank, della Cornell University, cita a esempio la superficie media delle nuove case americane che sale dai 1600 piedi quadrati del 1980 ai 2100 del 2001, mentre le paghe ristagnano. Ma se i poveri indebitati non riescono ad avere i redditi aggiuntivi necessari a rimborsare il debito, conclude Lars Osberg, della Dalhouise University di Halifax, il sistema bancario e finanziario si troverà pieno di attività inesigibili. E per salvarlo dovrà intervenire lo Stato, aumentando il debito pubblico.
Vi è dunque, negli Usa, una chiara catena causale tra disuguaglianza, debito, bolle finanziarie e debito pubblico. E l' Italia? Ne ha parlato a lungo Andrea Brandolini, economista della Banca d'Italia. E tra le tante osservazioni ne ha fatta una controcorrente. Da citare in conclusione.
L'indice Gini (che va da 0 nell'ipotesi che tutto sia equamente diviso tra tutti a 1 nell'ipotesi che tutto sia in mano a una sola persona) è sceso da 0,408 del '68 a 0,297 del 1982 per poi rimbalzare nei primi anni Novanta e volare a 0,351 nel 2004 salvo ridiscendere un po' adesso, causa le perdite finanziarie delle classi più alte. Ebbene, in questo quarantennio, il periodo di maggior crescita (oltre il 3% annuo) sono gli anni Settanta che si concludono con il debito pubblico non oltre il 51% del Pil. Questo non basta certo a rendere formidabili quegli anni come vorrebbe Mario Capanna, ma forse non erano nemmeno il male assoluto come molti oggi dicono. Erano anch'essi un passaggio — doloroso e terribile, causa il terrorismo, infine domato dalla politica — così come un passaggio sono gli anni Dieci di questo secolo. Un passaggio ancora irrisolto, causa l'ignavia delle classi dirigenti.
mmucchetti@rcs.it

Corriere della Sera 29.10.11
Il saggio Aristotele beffato dalla bella Phyllis
Quando l'amore si vendica della filosofia
di Eva Cantarella


Una leggenda che fece la sua comparsa nel XIII secolo in un sermone di Jacques de Vitry racconta che, un giorno, la moglie di Alessandro Magno decise di vendicarsi del precettore del marito (come ben noto, nientedimeno che Aristotele), che aveva rimproverato all'allievo di trascurare per lei gli affari di Stato. Decisa a vendicarsi, dopo aver fatto innamorare Aristotele la donna gli promise di concedergli i suoi favori a condizione che, prima, le consentisse di cavalcare la sua schiena. Aristotele acconsentì, la moglie di Alessandro avvisò il marito di quel che sarebbe di lì a poco accaduto e questi, non visto, ebbe modo di assistere all'umiliazione del suo maestro. Diventata celebre, la storia subì variazioni: secondo Henri d'Andeli, che di lì a poco la riprese, Alessandro sarebbe stato testimone, per caso, della scena del maestro cavalcato dalla sua amante Phyllis. E purtroppo per lo sfortunato filosofo l'aneddoto diventò un tema iconografico popolarissimo. Ironia del destino: per secoli il povero Aristotele venne raffigurato cavalcato da uno degli esseri dei quali si era impegnato con tanta convinzione (e purtroppo con tanta fortuna) a dimostrare l'inferiorità; uno di quegli esseri che, in ragione della loro appartenenza sessuale, secondo lui non possedevano il logos, la grande ragione, di cui solo gli uomini erano detentori. Come l'impietosa iconografia suggerisce, peraltro, in alcune circostanze perdendone totalmente il controllo.

La Stampa TuttoLibri 29.10.11
Roger Penrose
Sono infiniti i Big Bang che hanno fatto il mondo
"Il cosmo rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice, evocando l’«eterno ritorno» di Nietzsche"
di Piero Bianucci


Penrose Il teorico americano della Cosmologia Ciclica Conforme: non esiste un Inizio, l’Universo è una serie di inizi ricorrenti
«Angeli e demoni» dell’olandese Maurits Cornelis Escher

Roger Penrose DAL BIG BANG ALL'ETERNITÀ trad. D. Didero Rizzoli, pp. 357, 22
Roger Penrose LA STRADA CHE PORTA ALLA REALTA’ Trad. E. Diana BUR, pp. 1206, 14,90

L’universo di Roger Penrose rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice della mitologia, evoca l’« eterno ritorno» di cui parla da Nietzsche ne La gaia scienza . Non c’è un Big Bang. Ci sono innumerevoli Big Bang che si succedono senza fine. Penrose, ottant’anni, professore emerito all’Università di Oxford, indica questa teoria con la sigla CCC, che sta per Cosmologia Ciclica Conforme, e la descrive nel suo ultimo libro Dal Big Bang all’eternità . Non è semplice divulgazione. Dalle pagine irte di formule e ostici disegni Penrose offre al grande pubblico, ma anche ai suoi colleghi, una visione cosmologica alternativa.
Il Big Bang classico ha un difetto estetico. Assegna all’universo un inizio: è una radicale asimmetria. Ne deriva un difetto logico: se c’è un inizio, che cosa c’era prima? Inoltre l’inizio ha un prezzo: nell’istante della nascita l’universo doveva essere infinitamente piccolo, infinitamente denso e infinitamente caldo. E’ ciò che i fisici chiamano «singolarità», un modo elegante per battezzare qualcosa che non si sa come inserire nelle conoscenze attuali.
Gli infiniti del Big Bang sono un prezzo che molti scienziati non sono disposti a pagare. Le cose andrebbero a posto se l’universo fosse sempre esistito ed eterno. Ci avevano pensato Bondi, Gold e Hoyle negli Anni 40 del secolo scorso. La chiamarono «teoria dello stato stazionario» perché l’universo, in questo caso, a grande scala appare sempre uguale a se stesso. Neppure questo è gratis: poiché l’universo si espande e tutte le galassie si allontanano l’una dall’altra, per mantenerne la stabilità bisognava supporre la creazione continua di materia dal nulla. Ma il prezzo era accettabile: basta la creazione di un atomo di idrogeno per metro cubo ogni miliardo di anni, una quantità non misurabile, che la meccanica dei quanti potrebbe giustificare.
La scoperta nel 1965 della radiazione cosmica «fossile», il calore residuo del Big Bang, liquidò l’idea dello «stato stazionario»: le due cose erano incompatibili, e la radiazione fossile era una realtà sperimentale, non una teoria, per quanto attraente. L’ambiente di Cambridge che aveva fatto da culla allo stato stazionario era tuttavia così creativo e intelligente da resistere anche all’evidenza delle osservazioni astronomiche. Penrose e il celeberrimo Hawking (è appena uscita una sua precisa e leggibilissima biografia scritta da Kitty Ferguson) vengono dalla scuola di Hoyle e del suo allievo Sciama. Non c’è da stupirsi se ne mantengono l’impronta. La Cosmologia Ciclica Conforme cerca di mettere d’accordo i dati osservativi che danno ragione al Big Bang con lo «stato stazionario»: non esiste un Inizio, l’Universo è una serie di inizi ricorrenti, e a questa conclusione si arriva reinterpretando la Seconda legge della termodinamica, quella secondo cui l’entropia, il disordine, non può che aumentare.
Siamo immersi nell’attualità. Penrose ha inventato una tassellatura periodica che è il modello dei «quasi cristalli» per la cui scoperta tre settimane fa è stato assegnato a il Nobel della chimica a Daniel Schectman, mentre il Nobel per la fisica è andato agli scopritori dell’accelerazione dell’Universo (Perelman, Riess e Schmidt), fenomeno che Penrose concilia con la sua teoria. Le prove della Cosmologia Ciclica Conforme, infine, Penrose le vede nella mappa della radiazione cosmica fossile disegnata dal satellite americano W-Map e ne attende la conferma dal più recente e accurato satellite europeo «Planck». Ogni Big Bang, infatti, dovrebbe ereditare qualche impronta dall’universo che l’ha preceduto, e queste impronte si manifesterebbero nella mappa della radiazione fossile.
L’idea dell’universo oscillante tra successivi Big Bang, non è nuova: ci hanno pensato Einstein (1930) e, nell’ambito della teoria delle stringhe, Gabriele Veneziano (1998). E’ difficile addentrarsi nei tecnicismi che rendono originale la Cosmologia Ciclica Conforme. La «conformità» si riferisce alla geometria dell’universo considerata a scala diversa. Ne troviamo l’analogo artistico in un disegno di Escher che rappresenta una tassellatura formata da angeli e diavoli inscritta in un cerchio. Non a caso Escher frequentava la famiglia Penrose. E non a caso si tratta di angeli e diavoli. All’interrogativo «che cosa facesse Dio prima di creare il mondo». Sant’Agostino rispose: «Preparava l’inferno per chi avesse posto questa domanda».

La Stampa TuttoLibri 29.10.11
Radko-Pahor: sogna una “doppia Trieste
di Ferdinando Camon


Boris Pahor è nato a Trieste il 28 agosto 1913 Il suo libro maggiore, «Necropoli», è edito da Fazi
Boris Pahor DENTRO IL LABIRNTO Fazi, pp. 630, 18,50

Libro importante e appassionante, un’epopea tragica e romantica della comunità slovena di Trieste, un libro necessario, che noi italiani non possiamo non leggere, anche se in molti punti ci racconta vicende ignominiose, compiute dai padri dei nostri padri, e che noi non sapevamo. Non queste. Non così. È la storia degli sloveni a Trieste, vista dall’altra parte. L’autore, sloveno nato e vivente a Trieste, s’incarna nel protagonista Radko Suban, ne racconta la vita negli anni ’46-’47, ma trova modo di risalire fino alla liberazione dal lager di Bergen Belsen e più indietro ancora alle persecuzioni dei fascisti contro il suo popolo: nel suo cervello s’accendono, con improvvisi flash anche senza motivo, le vampe del rogo appiccato dalle Camicie Nere alla Casa della Cultura degli sloveni. Fiamme, il palazzo che brucia, scalmanati che saltano e cantano in camicia nera, inni di trionfo, di minaccia e di gioia, figure che scappano e piangono, sono quelli che parlano la lingua scritta nei libri che bruciano.
È il trauma fondante della vita di Pahor. Non lo liquida, non ci riesce. Del resto, perché dovrebbe? Ma lo controlla, è lucido e calmo, non deborda, non maledice, anzi condanna chi vuole violenza per violenza. Ha coscienza che in quell’occasione non fu sconfitto lui o la sua... usiamo questa parola, razza, ma l’umanità. E vorrebbe una soluzione in nome dell’umanità. Non gl’interessa la lotta tra Urss e Jugoslavia, tra capitalismo e comunismo, tra Mosca-Roma (il Pci stava col Pcus, contro Tito) e LubianaBelgrado. Non ha una visione storica o politica del problema, ha una visione umana. E perciò perdente nei fatti, anche se moralmente alta. È un «senzapatria», che non può vivere se non creando legami con la patria. Il più solido legame è questo libro. Storia di Radko-Boris e della comunità slovena e di Trieste e dell’incrocio di Trieste coi regimi che l’hanno attraversata: nella prima guerra i padri sloveni combattevano con l’Austria-Ungheria, hanno perso Vienna e sono finiti sotto Roma, nella seconda guerra hanno perso Roma e rischiano di finire sotto Belgrado, il sogno di Pahor era che si trovassero sotto se stessi. Ma pur essendo tanta la parte storico-politica, questo è per me, essenzialmente, un romanzo d’amore.
Boris recupera la vita di Radko fin da quando esce dal lager, e all’uscita trova l’infermiera francese Arlette. È il primo amore, che attraversa tutti gli altri amori. Mija, Erika, Neva. Donne diverse, amori diversi, ogni amore una visione della vita, la visione più acuta è la prima, quella di Arlette: «Il fondamento di ogni amore è la compassione». Radko-Boris lo scopre all’inizio del libro, lo recupera alla fine. Da Arlette ha avuto niente e tutto, perché Arlette sposa un borghese, si sistema e fa una figlia. Ma in ogni momento è pronta a correre da lui. Lui intanto sta per avere un figlio dalla donna più provvisoria, più estranea, più immatura che ha incontrato, Neva. Ma non vuol legarsi, prende il treno e scappa. Ogni donna è una seduzione, e la seduzione genera un campo magnetico: come vi entra dentro, è attratto nel gorgo, precipita. Lui «patisce» la vita, non vive la vita, è la vita che vive in lui, dettandogli le leggi. Tutto «càpita». Anche gli arresti e le deportazioni, naziste o fasciste. «L’umanità (dovrebbe guardare ai milioni di cadaveri dei lager) come il contadino guarda al letame che favorisce il nuovo raccolto».
Deve pensarla così anche l’inquirente della Casa del Lavoratore che sottopone Radko a un interrogatorio kafkiano, preambolo drammatico al regime comunista che sta per venire. Radko non ama quel regime, non vuole «una» Trieste, sogna una «doppia» Trieste, una Trieste dalle due anime: si sente un essere «anfibio». «La pretesa di conservare l’assoluta purezza dell’ideologia si rivelava simile alla smania per la purezza razziale. Entrambe
“Dagli anni ’46-’47 risalendo alla liberazione dal lager di Bergen Belsen e alle violenze fasciste La storia d’amore di un «senzapatria» che non può vivere se non creando legami con la patria”

Repubblica 29.10.11
Cyber filosofia
Se un videogioco aiuta a capire Kant
di Michele Smargiassi


Non solo scienza e matematica. Anche i libri di testo delle materie umanistiche rinascono in veste multimediale. E rivoluzionano la didattica
I volumi sono "eyes-up": occhi in alto, fissi alla lavagna multimediale. E poi filmati e musica
Storia e letteratura erano il recinto inviolato di un insegnamento lineare testuale e narrativo

La folla assedia la prigione, vuole linciare il presunto omicida. Lo sceriffo, che ha il volto di Clint Eastwood, sa che non si condanna un uomo senza giusto processo, ma sa anche che un assalto causerà molti morti. Sceglierà la soluzione B, il male minore, e consegnerà l´uomo? Sceglierà la soluzione A, la sua coscienza, e pereat mundus? "L´ingiustizia può essere preferibile alla giustizia?".
Il dilemma lampeggia luminoso sulla lavagna elettronica, aspettando una risposta. La classe medita, si divide, discute, cerca argomenti migliori. Eccoli: un colpetto col dito, si apre una scheda, il dilemma prende nome: etica della convinzione contro etica della responsabilità, legge morale contro utilitarismo. Scegli B? Lo schermo dice "La pensi come Hume", e spiega perché. Qualcuno cambia opinione, qualcuno insiste. Il professore riassume. La lezione sul Kant è terminata. Gli studenti rimettono l´Abbagnano nello zaino.
Chissà cosa direbbe lui, Nicola Abbagnano, l´illustre esistenzialista, scomparso vent´anni fa, l´autore del manuale di filosofia più diffuso nella storia della scuola italiana, ancora oggi adottato in una classe su due, cosa direbbe della sua transustanziazione multimediale interattiva.
Il primo manuale lo scrisse nel ´37, dall´89 viene aggiornato da Giovanni Fornero, se ne vendono centotrentamila copie l´anno, finora tutte di carta. Ma l´edizione 2012 sarà molto, molto speciale. Sarà un libro eyes-up, occhi in alto, non sprofondati nella pagina scritta ma fissi sulla Lim, la lavagna multimediale che lentamente, faticosamente sta sostituendo quella di pietra nelle scuole della Repubblica. Doveva accadere, sta per accadere: il libro elettronico, il manuale augmented, il cyber-testo scolastico già familiare ai professori di materie scientifiche, ora sfonda fragorosamente la porta più resistente delle aule umanistiche.
Storia, filosofia, letteratura italiana: tra pochi giorni Pearson Italia, il gruppo editoriale che ha in portafoglio sigle storiche della "scolastica" come Paravia e Bruno Mondadori, insegnerà a quattromila insegnanti di tutta la penisola, nelle trentacinque tappe del convegno itinerante dal titolo "La forza delle idee", come maneggiare questi oggetti didattici ancora non identificati, questi libri-più il cui impatto rischia di essere, per le tradizioni didattiche nazionali, molto più dirompente dell´effetto che hanno avuto i testi elettronici di matematica o fisica. Perché da noi, si sa, la linea fra le due culture divide anche due pedagogie e due didattiche. Storia, filosofia, letteratura sono il recinto ancora inviolato dell´approccio idealistico, crociano, storicistico, sono materie a impianto narrativo, testuale, lineare, e i manuali di studio ne sono stati finora la fedele versione editoriale.
Ma guardateli adesso questi blasonati e anche navigati testi, l´Abbagnano-Fornero di filosofia, il De Bernardi-Guarracino di storia (25 anni di onorato servizio e un terzo del gradimento degli insegnanti), il Baldi di Letteratura (140 mila copie l´anno, in carriera dal ´93), guardateli "dopo la cura": all´apparenza sembrano gli stessi, sono libri, hanno pagine, ma non si usano più come prima. Non li userà più come prima lo studente, che assieme al libro acquisterà una password per accedere online a filmati, immagini, musica, esercizi interattivi. Ma soprattutto non li userà più come prima l´insegnante, che disporrà del libro in formato dvd, carico di ore ed ore di materiali "animabili" da utilizzare in classe, a portata di un clic.
Per la storia, è facile immaginare quali: lezione sulla Seconda guerra mondiale, si naviga tra un discorso di Hitler, un commento di Primo Levi, la mappa animata delle annessioni tedesche, uno spezzone di Salvate il soldato Ryan, i cinegiornali. Ma anche in letteratura esplodono i "contenuti", non più "aggiuntivi", ma primari.
Lezione su Ungaretti: ecco il poeta a Parigi nel ´13, sconvolto dal suicidio dell´amico Sceab, è lui stesso a rievocarlo in un filmato ripescato dalle teche Rai. E poi eccolo soldato sul Carso, interventista sconvolto dall´orrore della guerra, come il suo coetaneo dall´altra parte delle trincee, Otto Dix: i versi de La Veglia fluiscono sullo schermo messi a confronto con la sanguigna Trincea del pittore, la grafica addita somiglianze e riferimenti, ma se vuoi, con un dito il testo smette di scorrere e ogni singolo verso si "apre" e svela schede di analisi linguistica, metrica, retorica, stilistica.
Questa, è chiaro, non è più la lezione umanistica con cui sono cresciute intere generazioni di liceali italiani: il dolce o severo fluire del sapere sotto forma di parole sonanti, all´alto della cattedra verso il basso dei banchi. Rinati in veste multimediale, i nuovi libri di testo inevitabilmente "tirano" la didattica verso il modello anglosassone, il laboratorio hands-on, dove l´impero romano o l´Illuminismo vengono costruiti come i composti nell´aula di chimica, assemblando ingredienti diversi e facendoli reagire.
Come reagirà il ceto insegnante "umanista" italiano? «Nessuna rivoluzione, solo opportunità in più», ridimensiona Emilio Zanette, direttore editoriale Pearson: «il testo scritto non scompare affatto e ogni insegnante ha la libertà e la competenza per usare i materiali nuovi come preferisce». Certo, l´insegnante vecchio stile potrà ancora limitarsi a usare qualche gadget e a rifugiarsi poi nel più classico "per sabato portate da pagina x a pagina y".
Ma la classe docente italiana è più aperta di quel che i luoghi comuni la fanno, e poi gli strumenti finiscono sempre per cambiare i contenuti. E la direzione è chiara: già in via d´estinzione nelle materie scientifiche, il manuale come lo conosciamo resterà, in quelle umanistiche, un testo di riferimento per lo studio a casa. In classe, l´insegnante sarà il concertatore, il regista, l´alchimista di una quantità variabile di ingredienti di volta in volta evocati e fatti interagire davanti alla classe.
Siamo alla didattica "fai-da-te", e al testo come semplice repertorio di attrezzi utili? In fondo, gran parte dei "materiali multimediali", con un po´ di pazienza, si trova già in Rete: è l´inizio della fine del "manuale"? No, questo no, reagisce Roberto Gulli, amministratore delegato di Pearson, una vita passata a creare libri e nessuna intenzione di dismettersi come editore: «Un buon testo è, e lo sarà sempre, un percorso consapevole di organizzazione del sapere che presuppone un autore».
Da questa convinzione la scelta, non solo per prudenziale marketing, di innestare i nuovi contenuti sulla solida base dei manuali classici e ben avviati, invece di creare testi radicalmente nuovi. Forse per questo, dove si può, l´autore stesso si presenta in video, con la sua faccia, la sua voce, e spiega di persona, e tutti vedono che dietro un testo in fondo c´è sempre un uomo, e che un manuale non è la tavola della legge ma una proposta, da accogliere eyes-up, ad occhi ben aperti.

Repubblica 29.10.11
"Basta con il diritto al capriccio dobbiamo tornare moralisti"
Lo abbiamo chiesto a studiosi e filosofi cominciando dal grande saggista
Dalla famiglia alla tradizione, quali sono i riferimenti che valgono anche oggi?
"Con le nuove tecnologie i piccoli insegnano agli adulti: l´esperienza non ha più senso"
"L´anarchismo e la cultura del desiderio non ci hanno portato da nessuna parte"
di Franco Marcoaldi


Leggo dalla bandella della sua Eneide di Virgilio (Rizzoli), che tra le molteplici attività di Vittorio Sermonti – narratore, saggista, traduttore, regista, attore – c´è stata anche quella di docente. Vorrei pertanto cominciare questo nostro incontro incentrando l´attenzione su qualcosa che ha rappresentato, io credo, un giro di boa decisivo per le sorti dell´autorità giusto all´interno della scuola.
Non saprei dire con precisione quando è accaduto, ma da un certo giorno in avanti, di fronte a qualunque conflitto tra allievo e docente, la famiglia, che in precedenza era sempre stata dalla parte del docente, ha cominciato immancabilmente a prendere le parti dell´allievo, ovvero del figlio. Creando non poca confusione di ruoli.
«Credo anch´io che si sia trattato di un passaggio cruciale, che a ben vedere va ricondotto a un fenomeno sociale iniziato negli anni Sessanta, quando i cuccioli del dopoguerra, i famosi giovani, vengono universalmente promossi dalle strategie pubblicitarie al privilegio di un illimitato protagonismo, in quanto ottimi conduttori di consumi. Ho l´impressione che questo aspetto della promozione generazionale consacrata dal Sessantotto, che peraltro sbandierava l´anticonsumismo, non sia stato studiato abbastanza.
«Successivamente, fra gli anni Ottanta e i Novanta, la dilatazione-globalizzazione del mercato ha travolto anche la diga dei giovani ed ex giovani ormai viziati da qualche nostalgia, per tracimare su altri soggetti, più aggressivamente indifesi: i bambini. Da qui una vera e propria pedagogia pubblicitaria del consumo. E in concomitanza con i nuovi assetti familiari, tarlati dal rimorso di genitori magari separati o entrambi in carriera, si è affermata l´elezione dei piccini a despoti assoluti degli acquisti. A giudici inappellabili dei gusti alimentari, emozionali ed informatici delle famiglie. A consumatori modello di un futuro sempre più assillante e puerile».
Poveri insegnanti: in un quadro come questo dev´essere ben duro provare ad esercitare l´autorità.
«Autorità? Ma quando mai? Tanto per cominciare, gli insegnanti non guadagnano una lira e dunque vengono comunemente guardati dall´alto in basso. E poi, come dice il nostro primo ministro, l´educazione che impartiscono è l´esatto opposto di quella che viene proposta a casa! Faccio notare, en passant, che considerare la famiglia come nucleo della società è tipico del cattolicesimo, mentre invece considerare la famiglia come alternativa alla società, è tipico della mafia.
Ebbene, a questo disastro socio-politico tutto italiano si è aggiunta poi la slavina delle nano-tecnologie, che hanno messo un bambino di sei anni in condizione di insegnare a me cose molto più "importanti" di quante gliene possa insegnare io, che ne ho ottanta passati. In un quadro siffatto, il rispetto per l´esperienza e per l´età non ha più alcun senso. D´altra parte, ci aveva pensato già Antonio Machado ad ammonirci: "Ti consiglio in quanto son vecchio?/E tu non seguire il consiglio"».
Eppure, la nostalgia dell´autorità e l´aspirazione al ripristino del suo valore è molto diffusa, radicata.
«Sì, però anche qui dobbiamo metterci d´accordo. Si potrebbe dire che viviamo in un campo di tensione tra il desiderio dell´autorità e il terrore dell´autoritarismo. O, esattamente al contrario, tra il desiderio di autoritarismo e il terrore dell´autorità. Per certo, questa aspirazione tanto diffusa quanto confusa che reclama la restaurazione di un´autorità purchessia, sconta oggi una difficoltà supplementare: il fatto che la sua demolizione sia stata immediatamente rimpiazzata da un assillante culto del potere. Per molti, troppi, ciò che importa è che chi decide, decida di decidere. Il "valore-potere", intendo dire, ha invaso lo spazio del "valore-autorità" e nell´atto stesso di svuotarlo l´ha otturato di sé. Difficile rianimare l´autorevolezza bocca a bocca, posto che chi decide lo voglia. Perché l´esercizio attivo-passivo dell´autorità è troppo rischioso: pretende risorse obsolete, come la riconoscenza e l´ammirazione. Pensare è ringraziare, ha detto qualcuno. Beh, io non vedo in giro molta voglia di ringraziare».
La parola autorità è imparentata anche con auctor, colui che genera, che crea. E lei ha una grande dimestichezza con i grandi creatori del passato, segnatamente con Dante e con Virgilio. Sulla base della sua esperienza, è ancora possibile, per le nuove generazioni, un rapporto fertile con questi giganti?
«Direi proprio di sì, ed è un´ipotesi verificata grazie a una recente e protratta esperienza con i ragazzi a cui leggevo l´Eneide in chiesa, in piazza, a scuola. Qualcuno che andava al sodo mi chiedeva come, secondo me, un giovane che passa ore inchiodato alla play station, che filma col cellulare ogni grinza del quotidiano, che pratica l´ubiquità comunicando in rete con la Nuova Zelanda, possa occuparsi dell´epica classica. Insomma, voglia perder tempo con l´Eneide. Non ho idea. Fatto sta che intanto io constatavo che la "ragazzità" di un ragazzo non lo esonera oggi – come non ha mai esonerato nessuno – dall´unicità e dalla fragile grandezza della persona intera che è.
È molto probabile che la psiche degli umani e la modalità del loro vivere associato rispondano a modelli un po´ meno labili e fluttuanti nel tempo di quanto vorrebbero farci credere sociologi, pubblicitari e sondaggisti.
Insomma, non credo che la lunga durata dell´antropologia, e della grande poesia, tenga il galoppo che quelli pretendono da noi. Anche perché vale per ciascuno, giovane o vecchio che sia, ciò che ci ha ricordato con brusca esattezza George Steiner. "I grandi classici continuano a leggerci più di quanto noi li leggiamo"».
Mettiamola diversamente: c´è ancora uno spazio pubblico ampio, influente, riconosciuto, che ci consenta di mettere a frutto l´autorità emanata dalla grande cultura del passato? Un´autorità capace di offrici, ad esempio, quell´orizzonte di trascendenza inter-generazionale che la nostra società, schiacciata sul presente, sembra avere perso?
«Difficile rispondere. Perché noi viviamo in una sotto-società, che è quella italiana, in cui si afferma il primato della politica, che è poi l´anti-politica, la quale a sua volta è dominata dall´economia che a sua volta è dominata dalla finanza.
Ora, in una situazione come questa, la grande cultura, a maggior ragione quella classica, sembrerebbe non avere più spazio alcuno.
Ma io non credo che la storia umana sia una storia lineare. Dunque non credo che l´attuale rapporto tra il presente e il passato debba necessariamente compromettere, in modo assoluto, il rapporto tra presente e futuro. Oggi lamentiamo, e non a torto, una perdita di orizzonte trascendente nelle nostre società, ma nulla sappiamo di un eventuale sacro prossimo venturo. Sappiamo invece che viviamo in un infelice anarchismo capillare, magari in nevrotica balia delle agenzie di rating. Sappiamo che il diritto al desiderio, il diritto a un infaticabile consumo, il diritto ancor più grave al capriccio, non ci hanno portato da nessuna parte e ci hanno reso piuttosto infelici.
Sarò banale, ma io credo sia cruciale il ripristino di una diffusa cultura della moralità. Sì, banale e moralista. Mi va benissimo. Il fatto che qui da noi il termine "moralista" abbia un unico significato deprecativo, la dice lunga sul genere di moralismo che pratica chi lo depreca. Vedo mestamente imperversare l´etica truccata, verticale e consumistica del desiderio, mentre io amerei che si ripristinasse un patto comune, capace di riattivare l´orizzontalità dei rapporti tra cittadini, con tutti i suoi negoziabili vantaggi».

Repubblica 29.10.11
Escono la ristampa del classico seicentesco e lo studio del filosofo del ´900
Da Hobbes a Schmitt, ecco il Leviatano
di Antonio Gnoli


Quando fu pubblicato, nel 1651, si avvertiva in Europa la necessità di un rinnovo delle istituzioni Tanti poi interpretarono il trattato: da Rousseau a Kant fino a Benjamin

Il Leviatano è un grandissimo libro di teoria politica. Ancora oggi ci turbano le sue analisi. Ancora oggi stupisce la capacità introspettiva con cui Thomas Hobbes indagava la natura umana, estraendone miserie e nefandezze: la cupidigia e l´invidia, l´ostilità e la paura, la menzogna e il tradimento, la violenza e il sopruso. Sentimenti dell´uomo sorretti dal bisogno innato di prevalere sul proprio simile. Si tratta di descrizioni note che tornano alla mente in occasione della nuova edizione del Leviatano (edita da Rizzoli) e della pubblicazione di un vecchio saggio di Carl Schmitt: Sul Leviatano (edito da il Mulino). Entrambi i libri presentano un´introduzione di Carlo Galli che ricostruisce con grande competenza l´alfa e l´omega del capolavoro hobbesiano.
Quando nel 1651 Hobbes pubblica il suo libro, l´Europa – con la pace di Westfalia – ha messo fine al lungo periodo di guerre civili e religiose. Si avverte nel continente la necessità di un rinnovo profondo delle istituzioni, fino ad allora eccessivamente condizionate da una visione feudale e teologica. Hobbes è conscio che soltanto un gesto radicale che azzeri tutto quanto è accaduto in passato, possa far nascere un organismo così potente e persuasivo da regolare la vita dei sudditi. La macchina politica hobbesiana – che Galli riconduce alla prima costruzione del moderno Stato rappresentativo del diritto – ignora i problemi legati alla legittimazione divina e va dritta alla questione essenziale: come superare il disordine che è insito nella natura umana, creando un ordine che sia stabile, duraturo e condiviso?
Il passaggio dallo stato di natura allo Stato propriamente detto (e riconosciuto) si avvale secondo Hobbes di un patto di non belligeranza che gli uomini stringono tra loro, perché fuori da quel patto la vita risulterebbe brutale e insicura. Tuttavia, un accordo così vasto non può che essere un artificio grazie al quale Hobbes formalizza la nascita dello Stato moderno e del legame sociale. Garantendo la pace e con essa la vita degli individui, lo Stato spoglia i suoi sudditi di tutti gli altri diritti. Non a caso c´è chi ha visto in Hobbes delinearsi una prima forma di totalitarismo. Galli ridimensiona questa preoccupazione e semmai scorge nel volto barocco del Leviatano (il nome allude a un mostro marino che Hobbes riprese dalla tradizione biblica) una potenza costantemente minacciata dalle forze della storia. Lo stato hobbesiano è in grado di arginare e ritardare il conflitto, ma non di debellarlo definitivamente. È il dramma nichilistico nel quale versa il pensiero di Hobbes.
Il Leviatano ha avuto numerosi interpreti. Da Rousseau, Kant ed Hegel fino agli stimoli novecenteschi offerti da Benjamin, Strauss, Macpherson, Bobbio e ovviamente Carl Schmitt. Il cui libro, Sul Leviatano, fu pubblicato nel 1938. Giurista autorevole, ma ormai inviso al regime nazista, Schmitt ci consegna pagine esoteriche, attraversate da deliranti pulsioni antisemite, ma anche capaci di illuminare il destino teorico di Hobbes. Già in passato Hobbes era stato al centro dei suoi interessi, ma qui si configura un problema nuovo: è in grado lo Stato leviatanico di affrontare e risolvere quei conflitti per i quali era predisposto? Schmitt mette in dubbio la solidità di fondo dello Stato moderno insidiato dalla imprevedibilità dei soggetti patologici (ai quali lo stesso partito nazista appartiene). È probabile che una tale convinzione la ricavi dalla consapevolezza di vedere i primi segni della crisi dello jus publicum europaeum. Il crepuscolo della sovranità statale sarà infatti uno dei temi portanti del Nomos della Terra. Con l´opera del 1950 Schmitt si va sempre più convincendo che lo spazio geopolitico stia mutando radicalmente e che gli stessi soggetti della politica (in primis gli Stati nazione) come Hobbes li aveva teorizzati, stavano tramontando.
Strana coppia Hobbes e Schmitt. Così la definisce efficacemente Galli. Tanto uno è all´inizio del Moderno quanto l´altro si colloca alla fine di quell´esperienza. «Si tratta», osserva Galli, «di due visioni prospettiche della medesima epoca storica». Scrivendo il Leviatano Hobbes immaginò che il disordine originario, fonte di mortale pericolo, dovesse essere quanto più possibile neutralizzato e sostituito dalle certezze dell´ordine normativo creato dalla ragione umana. È proprio ciò che alla fine Schmitt mise in discussione: l´efficacia di contenere il politico dentro una forma giuridica stabile e condivisa. Era convinto che le potenze (più o meno segrete) della storia difficilmente si sarebbero adeguate alla misura umana. E alla sua ragione.

La Stampa TuttoLibri 29.10.11
È scomparsa la borghesia, e così va in fumo l’Italia
di Lelio De Michelis


De Rita e Galdo La fine della società aperta che «non protegge soltanto i privilegi di pochi»
Giuseppe De Rita Antonio Galdo L'ECLISSI DELLA BORGHESIA Laterza, pp. 92, 14

E' l'Italia secondo Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, in questo importante L'eclissi della borghesia (Laterza). Un saggio breve e giustamente polemico, che farà (si spera) discutere.
Un libro che è l'aggiornamento dell' Intervista sulla borghesia in Italia di quindici anni fa, quando i due autori denunciarono quell'anomalia tutta italiana «che aveva preso forma sull'onda lunga del miracolo economico: l'esplosione del ceto medio e il vuoto borghese». Da allora, sostengono oggi gli autori, «il secondo aspetto del fenomeno, la scomparsa della borghesia, si è accentuato fino a divenire il nervo scoperto di un Paese in affanno, sostanzialmente fermo, barricato a difesa del proprio benessere e incapace di proiettarsi verso il futuro». E questo vuoto di borghesia «ha lentamente trascinato la società italiana verso una deriva antropologica caratterizzata da pulsioni individuali, anche le più sfrenate, interessi personali o di singola categoria. Ovunque si è spento il senso del collettivo e la condivisione di obiettivi generali sui quali incontrarsi e ritrovarsi». Il prezzo che l'Italia sta pagando per questo «è altissimo», perché comporta la scomparsa della società aperta che, unica, garantisce opportunità per tutti «e non protegge soltanto i privilegi di pochi».
E la borghesia - classe minoritaria ma essenziale - è importante per De Rita e Galdo. Perché avrebbe - ma qui c'è un nostro disaccordo, portati come siamo a non amare le «classi dirigenti» e a preferire una società di individui autonomi e kantianamente capaci di cittadinanza, senza dover essere «diretti» da qualcuno -, perché appunto avrebbe «un suo insostituibile primato proprio nella funzione di indirizzare il sistema; e quanto più una società è complessa, tanto più diventa necessaria una leadership». Per cui è sì vero - con De Rita e Galdo - che l'Italia dovrà sostituire il noi all'io e «il gusto del collettivo dovrà assorbire le pulsioni individuali e l'etica della responsabilità dovrà affermarsi come antidoto al cinismo e all'indifferenza diffusa»; ma non tanto di individualismo si deve forse parlare, quanto di pulsioni indotte secondo modelli consumistici, che hanno prodotto individui isolati ma conformisti e in massa eterodiretti e appunto funzionalmente pulsionali. E se è ancora vero che questi processi di (per noi falsa) individualizzazione hanno generato un io ipertrofico, hanno anche generato un noi: localistico/egoistico sì, ma comunitario, che ha cancellato la società aperta e impedisce di pensare al futuro.
In Italia c'è comunque - e come non essere d'accordo - un' eclissi della borghesia. Che ha fatto il Risorgimento e la ricostruzione post-bellica. Ma che poi si è appunto eclissata quando è arrivato il boom economico ed è scattata «la molla del benessere», con un imborghesimento di massa e la «cetomedizzazione dell'Italia».
Tutto è ceto medio, ovunque; ma in Italia in modi diversi da altri Paesi. Da noi, Dc e Pci, negli anni, hanno organizzato ma anche bloccato la società. Mentre la borghesia si è accomodata nel sistema, espellendo da sé (aggiungiamo) coloro che invece (come Adriano Olivetti) cercavano un'Italia nuova e virtuosa. E anche quando Berlusconi è arrivato al potere, ha vinto non in nome dei valori borghesi, ma del ceto medio e del populismo. Complice la Lega, «sindacato territoriale» populista del Nord.
Tutto è perduto? No, e i segnali di speranza, per De Rita e Galdo, sono molti. In particolare, «il ritorno al desiderio, alla ricerca di nuovi orizzonti, nuovi traguardi, nuove mobilitazioni». Un desiderio di mutamento (o l'ardore, riprendendo un libro di Roberto Calasso, «qualcosa che brucia dentro di noi»), per la «ricerca di una rete di connessioni con gli altri, di un noi che comprenda l'io, senza escluderlo e senza isolarlo». E allora chissà «che nel fuoco del cambiamento non prenda corpo e si formi quella borghesia di cui oggi siamo orfani e la cui assenza sentiamo come un vuoto nel quale l'Italia è sospesa».
"Ha fatto il Risorgimento e la ricostruzione post-bellica, con il boom economico si è esaurita nel ceto medio"

l’Unità 29.10.11
Hillman, lo sciamano dell’anima
È morto a 85 anni lo psicoanalista e filosofo americano. Allievo di Jung ha re-immaginato l’analisi junghiana riportandola nel mondo. Paladino di una psicologia ecologica non voleva curare i singoli, ma «la civiltà»
di Romano Màdera


Nel 1989 lascia l’attività: basta parlare all’io, vuole la città come interlocutore

È morto James Hillman, uno dei pochi psicoanalisti che si era impegnato in un’impresa straordinaria quanto stravagante, forse infantile o donchisciottesca: curare la civiltà, non più i singoli pazienti! Si può dire che la psicoanalisi ci ha sempre provato, ma senza dirselo, perché in fondo il cambiamento di pochi individui, diventati più attenti alle proiezioni del male sugli altri, più disposti a cercare faticosamente la verità su se stessi, dovrebbero essere anche più capaci di autocritica e di tolleranza. Ma insomma, cambiare il mondo non è compito di un analista, la politica deve rimanere fuori dallo studio.
E invece, all’apice del successo, Hillman, nel 1993, ha osato scrivere Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio. Si è interrogato su quello sguardo psicologico che chiude le finestre sul mondo, separa il paziente dalla sua storia, dalla sua cultura, dalle immagini che ne hanno modellato la percezione, e poi rovescia tutto e fa nascere il mondo dai seni della mamma e dalla camera da letto dei genitori. Hillman si è chiesto se la psicopatologia dei singoli non contenesse invece la sofferenza (pathos) dell’anima (psiche) che cerca di articolare un’espressione, un discorso (logos). Il singolo non è messo al mondo dalla famiglia, in realtà la sua nascita avviene nel mondo che dà forma e voce al carattere e alla vocazione di ciascuno, ed è nel mondo che ciascuno incontra il suo destino.
Quali sono le forme e le voci del mondo? Chi ascolto quando ascolto un sintomo, per esempio quando qualcuno è ossessionato da internet, dal telefonino, dal traffico, dagli appuntamenti di lavoro? Hillman è stato capace di divinare, nell’accelerazione del tempo e nella contrazione dello spazio, così tipici della nostra epoca, una epifania drogata di Ermes-Mercurio il dio degli scambi, dei confini, dei commerci. Certo è la storia che mi parla in un soggetto, e nella storia la sua biografia, e tuttavia c’è qualcosa che evoca, da dentro quella stessa esperienza, un modo di essere e di costruire la realtà che intesse i fili del tempo, che collega le civiltà, che è vasto e profondo quanto solo l’immagine può suggerire senza mai chiudersi in una definizione esaustiva. L’immagine porta nei pressi dell’anima del mondo, della matrice dei nostri vissuti, delle nostre fantasie, delle psicopatologie.
Si tratta allora di rimanere aderenti alle immagini, di farle dialogare tra loro senza costringerle nella camicia di forza riduttiva delle spiegazioni, di dischiuderne la forma che le apparenta: queste forme sono archetipali, in se stesse inattingibili, proprio perché origini comuni capaci di generare immagini sempre diverse, per tempi e per culture diverse.
L’anima del mondo è intessuta, secondo HIllman, da queste energie formatrici che si condensano, volta a volta, in immagini guida di altri immagini: gli dei.
Il politeismo di Hillman non ha però niente di teologico: nella mitologia greco-romana, lui, ebreo americano educato in Europa, trova un repertorio che, rivisto come sguardo psicologico, può curare un mondo afflitto da una postura monoteistica, e quindi intollerante, insofferente delle differenze, incapace di scorgere divinità e bellezza nelle infinite variazioni della natura e dell’arte, senza irrigidirle in qualche direttiva moraleggiante.
Tutto si potrà rimproverare a Hillman, tranne il fatto che abbia solo teorizzato la terapia della civiltà, senza provare di persona a imboccare questa diversa strada. Nel 1989, nel bel mezzo di una carriera professionale ricca di riconoscimenti, abbandona la pratica analitica privata e si dedica allo sviluppo della sua idea di psicologia archetipica, cerca di parlare il suo linguaggio fuori dallo studio, di fare della città il suo interlocutore. Hillman ha scritto di questa decisione come di una profonda «crisi morale». Andava tutto bene con i pazienti, ma sentiva che non stava facendo la cosa giusta, che ritagliare il proprio intervento sul soggetto umano significa rimanere in una prospettiva di tipo cartesiano: voler dedurre la realtà dall’io, per quanto corretto con l’aggiunta dell’inconscio.
IL SUO «POLITEISMO»
Avrebbe potuto però fermarsi a questa critica e continuare a praticare l’analisi junghiana, della quale era uno dei più importanti esponenti nel mondo. Neppure Jung, il suo maestro, gli è bastato: sì, Jung era andato in una direzione che potremmo chiamare terapia delle idee, e non più solo del singolo, ma rimaneva nel solco della tradizione cristiana e monoteista: la sua direzione guardava all’asse che congiunge l’io al Sé, dove il Sé è il nuovo centro unitario del rapporto fra coscienza e inconscio. Troppa unità, troppo «io» ancora. La varietà del mostrarsi dell’anima del mondo è irriducibile alle nostre pretese di afferrarla in una qualche rappresentazione unitaria, per quanto complessa essa voglia essere.
E poi via dall’antropocentrismo della nostra civiltà, dalla sua malattia che infetta le architetture delle nostre città insieme alla devastazione delle foreste e degli oceani: Hillman si è fatto paladino di una nuova psicologia ecologica.
Le rutilanti idee-provocazione di Hillman sono state coraggiose e affascinanti, hanno proposto la via di un pensiero psicologico capace di superare il romanzo familiare.
Rimane oggi da vedere se il suo radicale antiumanesimo, la sua celebrazione del differire infinito, non sia però, anch’esso, troppo figlio del nostro tempo, troppo post-moderno, troppo collusivo con le varie morti di Dio, dell’uomo, del soggetto, dell’io, della morale, dell’unità ... troppo neonietzscheano, insomma.
Forse il corpo del mondo, e quello degli individui, ha invece un disperato bisogno di unità, di progetto, di gerarchie di senso, di ordinato equilibrio.

Chi era. In Connecticut
James Hillman è morto l’altro ieri a Thompson, in Connecticut all’età di 85 anni. Era malato da tempo, ma ha respinto le cure più invasive pur di conservare la sua lucidità e libertà di giudizio. psicologo analista di formazione junghiano, James Hillman nasce nel 1926 ad Atlantic City. Compiuti gli studi di filosofia a Parigi e Dublino, ha studiato psicologia all’Università di Zurigo. Entrato a far parte dell’Istituto di psicologia analitica C.G. Jung, lo dirige tra il 1959 e il 1969. Esponente tra i più originali della psicologia junghiana, è autore di una critica radicale della psicoanalisi, che per lui non deve restare confinata all’interno del rapporto medico-paziente, ma diventare uno strumento di esplorazione della natura umana e di comprensione del disagio dell’uomo nella società.

il Fatto 29.10.11
Hillman, il profeta dell’Anima
di Franca D’Agostini


La morte di James Hillman spinge a riflettere sulla grande vague anti-teoretica, anti-logica, anti-concettuale che ha attraversato la cultura europea e nordamericana a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, e di cui Hillman è stato un illustre e raffinato esponente. La formidabile carenza di logica e di sensatezza di cui è afflitto il linguaggio pubblico recente, specie italiano (ma anche il dibattito di lingua inglese non scherza, a giudicare da quanto scrive Julian Baggini nel suo repertorio di assurdità Do They Think You’re Stupid?, Granta), ci dice che l’operazione culturale di svilimento del logos a vantaggio del pathos perseguita da Hillman e da molti altri ha avuto gran successo. Ma ci dice anche che forse èilcasodichiuderequelcapitolo e che concetti come anima, cuore, emozione interiorità e amore possono tornare tranquilli a fare il loro dovere, senza bisogno di essere lanciati come cubetti di porfido contro il contrafforte del logos che – secondo il paradigma emozionalista – ospiterebbe la potente e venefica città della Scienza, della Tecnica, e (per gli americani) della Filosofia.
PER COMPRENDERE l’operazione di Hillman credo sia necessario collocarla in due contesti ben definiti: il tramonto della psicoanalisi, e la latitanza culturale della filosofia. La psicanalisi nelle diverse forme inizia un suo chiaro e vistoso declino in Europa già negli anni Settanta dello scorso secolo, le psichiatrie alternative e antiedipiche segnalano con chiarezza che il paradigma freudiano, anche nella versione lacaniana, regge male le nuove condizioni dell’immaginario e del linguaggio condiviso, mentre la versione junghiana sempre più chiaramente trascolora in terapeutica culturale astratta. La situazione non è chiara per il grosso pubblico che ancora pensa a Freud, Jung e Lacan come un’avanguardia culturale, ma non sfugge alla sensibilità di Hillman cheprocedesenz’altroarivoltare la psicologia analitica come un guanto e a riciclarla come filosofia. La psiche, insegna Jung è abitata e sovrastata dal collettivo, e dai contenuti mitici immaginativi archetipici che l’umanità intera condivide. Perché allora curare i singoli?
La psicanalisi di Hillman esce dallo studio e dalla clinica individuale e diventa terapeutica delle idee, dell’umanità intera, e non delle singole persone. Programma tipicamente filosofico: ecco Hillman incamminato a svolgere il ruolo husserliano di “funzionario dell’umanità”. Il programma destinato a fare di Hillman il maestro e profeta degli animisti mitomani e antilogici di tutto il mondo si annuncia nel Mito dell’analisi del 1972. L’Occidente, così si spiega nel libro, avrebbe umiliato e assoggettato l’immaginazione e l’anima, e in generale il femminile (anima junghianamente è per l’appunto il femminile). Di qui il rilancio dell’idea di Keats, secondo cui il mondo è la “valle del fare anima”. Cosa si deve fare in questa vita? Semplice: making soul, contro una cultura che ha dimenticato gli dei e l’anima e il potere fantastico dell’invenzione creati-va umana. La critica naturalmente era rivolta al tendenziale positivismo della psicanalisi, specie freudiana, ma il making soul divenne una cifra importante della psicologia archetipica hillmaniana, facendone il paradiso del femminismo differenzialista. Americano di nascita, ma europeo di formazione (studia alla Sorbona e a Dublino) Hillman torna in America nel 1984, e qui ha una visione chiara del gioco che contrappone i cosiddetti techies e i fuzzies, i tecnocrati e i vaghi, si direbbe. È una guerra politico-culturale che infuria nei tardi anni ottanta, ed è tipica di contesti e culture dove la filosofia (che appunto dovrebbe chiarire le idee sull’irrilevanza della dicotomia: essendo la tecnica stessa estremamente vaga, e le vaghezze necessariamente determinate , dovendo dirsi in parole) è povera o assente.
IN QUESTA GUERRA l’anti-positivismo di Hillman ha buon gioco. Il suo progetto a mano a mano (e con lieve contraddizione rispetto all’assunto) diventa un vero e proprio sistema filosofico, dotato di una metafisica, un’antropologia, un’etica, e ancheinprospettivaunapolitica.In breve quella hillmaniana è una metafisica panteistica, e panpsichistica. Il mondo “è pieno di dèi”, Hermes, Afrodite, Ares sono le immagini archetipiche che ci guidano nel vivere amare e soffrire. La psiche inoltre non è solo dentro di noi, è tutto intorno a noi. All’uomo psicologico (che vive “facendo anima”) Hillman oppone l’uomo spirituale (mirante a una perfezione trascendente) e l’uomo normale (che si identifica con l’adattamento pratico e sociale). Il codice dell’anima del 1997, rivede la terapia: si tratta non di crescere ma di decrescere, tornare alle nostre radici, vedere da vicino quale sia il mito o il dio che ci guida, e così conoscere la nostra “vocazione”. Naturalmente, non è filosofia vera, e pertanto originale e intellettualmente esigente, ma una popularphilosophie gentile, che rielabora materiali largamente presenti nella tradizione della filosofia pratica, ed è piena di colore, di narrazioni, miti e figure. Un fenomeno editoriale insomma (il suo Codice dell’anima fu un best seller in tutto il mondo). Hillman è stato in definitiva un grande divulgatore e grande narratore dell’inconscio. Ma i contenuti per così dire politici della sua dottrina – al di là delle sue intenzioni – hanno fatto non poco danno in un’epoca che certo aveva bisogno di filosofia, ma non di quella filosofia, e che voleva una scossa da torpedine marina, ma non quella scossa emozionalistica e psichistica. Coloro che hanno fatto del socratismo visionario di Hillman una ideologia a volte sono andati troppo in là. In un libro di un intellettuale hillmaniano, di cui non farò il nome, si legge che le donne sarebbero superiori in quanto avrebbero l’intelligenza dei sentimenti, “e come dice l’etimo della parola stessa, ‘sentimento’ vuol dire: avere il senso, il sentire, nella mente” (?!). Il povero Hillman, conoscitore di molte lingue ed esperto di etimi ingegnosi e sottili, come avrebbe valutato una simile idiozia?
 *Docente di Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino

La Stampa TuttoLibri 29.10.11
Hillman: “Sto morendo ma non potrei essere più impegnato a vivere”
“Con la morte vicina, la vita si esalta”
di Silvia Ronchey


L’ultima intervista Al capezzale dello psicoanalista che ha domato il dolore per ragionare sulla propria fine
Hillman «Guardando la mia fine ad occhi aperti, e riflettendoci sopra, mi rendo conto di realizzare qualcosa di molto prezioso»

«Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere». Così aveva scritto, nella sua ultima mail. E così l’ho trovato, quando sono andata a salutarlo per l’ultima volta nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, pochi giorni prima che morisse: il fantasma di se stesso, ma incredibilmente vitale; il corpo fisico ridotto al minimo, quasi mummificato, tutto testa, pura volontà pensante. Restare pensante era la sua scommessa, la sua sfida. Per questo aveva ridotto al minimo la morfina, a prezzo di un’atroce sofferenza sopportata con quella che gli antichi stoici chiamavano apatheia : un apparente distacco dalla paura e dal dolore che traduceva in realtà un calarsi più profondo in quelle emozioni. L’unica cosa che contava era analizzare istante dopo istante se stesso e quindi la morte come atto oltre che nella sua essenza. Se Steve Jobs, morendo, ha lasciato detto «stay hungry, stay foolish», l’ultimo insegnamento di James Hillman può riassumersi così: «Resta pensante» fino all’ultima soglia dell’essere.
Il tempo qui sembra fermo, le lancette puntate sull’essenza ultima.
«Oh, sì. Morire è l’essenza della vita».
Com’è morire?
«Uno svuotamento. Si comincia svuotandosi. Ma, si potrebbe chiedere, che cos’è o dov’è il vuoto? Il vuoto è nella perdita. E che cosa si perde? Io non ho “perso” nel senso comune di “perdere”. Non c’è perdita in quel senso. C’è la fine dell’ambizione. La fine di ciò che si chiede a se stessi. E’ molto importante. Non si chiede più niente a se stessi. Si comincia a svuotarsi degli obblighi e dei vincoli, delle necessità che si pensavano importanti. E quando queste cose cominciano a sparire, resta un’enorme quantità di tempo. E poi scivola via anche il tempo. E si vive senza tempo. Che ore sono? Le nove e mezza. Di mattina o di sera? Non lo so».
E’ una condizione perseguita dai mistici.
«Oh sì, dall’induismo per esempio, gli induisti ne scrivono. Ma in questo caso è tutto unwillkürlich , involontario. E’ accidentale».
Comunque non credo non ti sia rimasta nessuna ambizione.
«Davvero?» [Apre di scatto gli occhi finora socchiusi, con un lampo azzurro di sfida].
Ti resta quella degli antichi romani: lasciare il tuo pensiero ai posteri.
«E’ vero. E’ molto importante per me che il mio pensiero rimanga. Ma la parola posteri mi rimanda a postea , a un dopo, a un futuro, in cui non voglio essere trasportato adesso».
Perché esisti solo al presente.
«Sì, e voglio tenere chiusa la porta con il cartellino “Exitus”. La potrò aprire a un certo punto, quando capirò come farlo nel modo giusto. [Tenta di scuotere il capo, ma il dolore lo ferma]. Non saprei ora come aprire quella porta senza che ne dilaghi una folla di creaturine che vogliono qualcosa. Molti degli antichi filosofi ne sono stati catturati, probabilmente tu sai chi lo è stato più degli altri. Io non voglio. Il mio compito è dialogare e tenere il dialogo aperto su quel che accade momento per momento. Il mio è piuttosto un reportage. Dal vivo. Dal vero».
Non potrebbe essere altrimenti: o non fai il reportage - come la maggior parte di chi si trova nella tua condizione - oppure ciò che riferisci è la verità. E penso che tutti siano affamati di questa verità.
«Tutti sono affamati di morte. La nostra cultura lo è. Io, qui, come vedi, ne parlo continuamente. Ma non la esprimo. Perché nella morte io sono impegnato. Non voglio uscirne, per esprimerla, per vederla o guardarla in trasparenza. Non cerco di formularla. Ogni tanto si realizza qualcosa che mi porta in un altro luogo dal quale posso osservarla. Magari anche di riflesso. Ogni sorta di cose si riflettono in questa introspezione, ma non l’attività essenziale di ciò in cui sono impegnato [ossia l’atto del morire]. Il tempo che mi dò è il qui e ora».
Capisco «E’ molto importante ciò che semplicemente il giorno ci dà, ogni singola cosa che si realizza durante il giorno. La persona, l’osservazione che ha fatto, l’odore dell’aria in quel momento.
"«Non si chiede più niente a se stessi si comincia a svuotarsi dei vincoli che parevano importanti» «Le persone vengono da me per parlare e quando troviamo le parole giuste la sofferenza si allevia»"
E queste cose hanno bisogno di accettazione, di ricognizione, di riconoscimento... Adesso non ho ancora la parola giusta. Ma trovare le parole è magnifico. Trovare la parola giusta è così importante. Le parole sono come cuscini: quando sono disposte nel modo giusto alleviano il dolore».
E il dialogo aiuta a trovarle?
«Sì, e mi rende così felice.
Sai, da qualche tempo le persone vengono da me come se avvertissero in me il richiamo di quel vuoto di cui parlavo. Se io non fossi così vuoto, non verrebbero».
Come un risucchio che attira.
«Dev’essere così».
O una condizione di saggezza?
«No. Una calamita. Cercano qualcosa cui attaccarsi. Vogliono qualcosa, ed è la mia capacità di cristallizzare e formulare. Due parole che sono usate per una delle ultime fasi dell’alchimia. Cristallizzazione e formulazione. Le persone sono in pessima forma di questi tempi, il mondo è in pessima forma. E in qualche modo il mio avere trovato qualche solidità li attrae».
Ma non parlavi di vuoto?
«Sì. Il mio stato di svuotamento esprime qualcosa che non avevo finora realizzato e che può riassumersi nella parola coagulatio . Due princìpi governano tutti i processi alchemici: la coagulatio e la dissolutio . Coagulatio in alchimia significa rapprendersi in un punto, diventare più solidi, più definiti, formati, dotati di morphe . Ora l’intero processo che sto attraversando è la coagulazione della mia vita nel tempo . Ma la coagulatio è sempre seguita dalla dissolutio . Che è esattamente il contrario: dissoluzione, le cose che si separano, si sciolgono, perdono la loro capacità di definirsi. La cosa interessante è che improvvisamente questo spiega i miei sintomi. Non faccio che pensare, morbosamente, che sto affondando sempre di più, che mi sto dissolvendo. Ma le due cose, dissoluzione e coagulazione, sono inscindibili. Non è fantastico? Non ci avevo riflettuto finché non mi è venuta per la prima volta in mente la coagulatio . E la rubefactio , che permette alla bellezza di mostrarsi. Così ora sono una persona diversa. Non avevo mai percepito queste cose dentro di me. O non le avevo mai riconosciute. Prima, non avevo mai saputo chi ero».
Da dove viene questa consapevolezza?
«Oh, decisamente dal morire».
Ti dici «impegnato nel morire». Vuoi arrivare alla morte in piena consapevolezza. Ma, come diceva Epicuro cercando di spiegare perché non bisogna averne paura, «se ci sei tu non c’è la morte, e se c’è la morte non ci sei tu».
«Esatto».
Mi sto domandando se allora questo tuo morire non sia un’intensificazione del vivere.
«Assolutamente sì, non c’è il minimo dubbio. Quando la morte è così vicina la vita cresce, si esalta. Ne sono certo. Ma non vorrei essere presuntuoso».
In che senso?
«Orgoglio, arroganza, hybris : attenzione a non peccare contro gli dèi. Mai, in nessuna occasione».
Certo, ma non credo che la tua sia hybris . Credo sia puro coraggio affrontare la morte a occhi aperti. E’ raro, ed è per questo che il tuo reportage è così prezioso.
«E’ prezioso, sì. Mi sto rendendo conto di qualcosa che non avevo mai realizzato prima. Ha a che fare con un certo argomento di cui Margot ed io dovremo parlare prima, una certa decisione che io potrei prendere. Sai, nel mondo di oggi mi è consentito, come lo sarebbe stato nel mondo greco».
Capisco a cosa alludi.
«Ma il punto è che dovrei mettermi nelle loro mani, e sarebbero loro a decidere. In qualche modo io sarei il loro strumento, non loro il mio. Intendiamoci, lo spero. Ma sarebbero loro a informarmi quand’è il mio momento. Oppure potrei prenderlo nelle mie mani, che sono lo strumento classico: la mano [Hillman fa il gesto di trafiggersi il petto], o la vasca da bagno, come Petronio. Ma il fatto è che l’intera cerimonia - perché la definirei così non è ancora lontanamente immaginabile. O meglio, l’idea è immaginabile, dato che ne sto parlando ora. Ma c’è un’altra idea, sempre antica, che in qualche modo contrasta. Primum nil nocere . Primo, non fare del male. [Si tratta del giuramento di Ippocrate]. E allora, qual è la decisione migliore? che ne pensi?».
Gli antichi stoici dicevano, a proposito del suicidio: «C’è del fumo in casa? Se non è troppo resto, se è troppo esco. Bisogna ricordarsi che la porta è sempre aperta». Evidentemente, la tua casa non è ancora piena di fumo. Quando lo sarà, lo sentirai.
«Riuscirò a sentirlo?».
Forse ti sentirai confuso. Quello che so è che ora stai respirando, non c’è fumo nel tuo cervello, nella tua psiche, nella tua anima. Quando ci sarà, forse prenderai in considerazione il suggerimento degli stoici. Non sei forse un pagano? Non hai allenato per tutta la vita il tuo istinto a percepire le epifanie degli dèi?.
«Oh sì che sono un pagano. E’ questo il punto».
E’ pagana anche la tua percezione della bellezza, del grande teatro verde della natura che hai scelto per questa tua ars moriendi, questa tua arte pagana del morire che è anche, o anzi è soprattutto un’arte estrema del vivere.
«Non mi piace definirla un’ars moriendi. E’ piuttosto un’arte dello stare in prossimità dell’essere, tenersi più stretti possibili a ciò che è».
"«Non mi piace definirla un’ars moriendi ma un tenersi più stretti possibili a ciò che è» «Sono un pagano e non vorrei essere presuntuoso o arrogante Non bisogna mai peccare contro gli dèi»"

I suoi testi fondamentali
Il suicidio e l’anima Adelphi 2010
In questo libro Hillman ha restituito l’idea di anima a un secolo, il Novecento, dominato dalla psiche. «Prima di allora l’anima la si trovava o al cimitero o in chiesa, non era un concetto psicologico. Reintroducendo l’anima recuperavo anche tutta la sua tradizione».

Il codice dell’anima: Carattere vocazione, destino Adelphi 1997
Qui, accanto alla nozione di anima, ha introdotto quella, altrettanto antica, di demone individuale. «E’ un’idea che deriva da un mito esistente in tutto il mondo: entriamo in questo mondo con una vocazione particolare e un particolare carattere. Socrate chiama questo nostro compagno demone - daimon».

Il mito dell’analisi Adelphi 1991
Introduce per la prima volta il concetto di «fare anima», partendo da una citazione di Keats: «Chiamate, vi prego, il mondo “la valle del fare anima”. Allora scoprirete a cosa serve il mondo». Un’idea che non ipotizza una salvezza, ma implica l’essere coinvolti nella sostanza del mondo.

Saggio su Pan Adelphi 1982
Perora il ritorno a quella «Grecia psichica», che «ci offre una possibilità per correggere le nostre anime», e ha esaltato il politeismo greco, «la più riccamente elaborata di tutte le culture», sostenendo la necessità di un ritorno dell’uomo contemporaneo a un’«anima politeista».

Fuochi blu Adelphi 1996
La metafora dell’alchimia è una delle più adatte a descrivere il processo interno di trasmutazione attraverso l’immaginazione che Hillman propone quale terapia dell’anima. Nel deserto americano, l’infelicità è blu alchemico. L’umore blue trasfigura le apparenze in realtà immaginali, il cielo azzurro richiama l’immaginazione mitica ai suoi ambiti più lontani.

Corriere della Sera 29.10.11
Hillman detectve delle tenebre
di Giulio Giorello


Ricordate Stephen Dedalus, il Telemaco dell'Ulisse di Joyce, che solitario sulla spiaggia della baia di Dublino medita sui confini dell'anima? Fin dove essa si estende? Forse, fino all'ultima stella che si scorge all'orizzonte.
Dunque, l'anima non è imprigionata dentro il corpo, come pretendeva molta filosofia — da Platone a Cartesio — ma è il nostro corpo che fluttua nell'anima. Questa tentazione antidualistica, che nell'Occidente ritroviamo nella filosofia della luce di Giovanni Scoto Eriugena (810-877 circa), come negli ultimi Cantos di Ezra Pound, attraversa la riflessione del grande eretico della psicoanalisi James Hillman, scomparso all'età di 85 anni. Hillman è stato accusato di aver «tradito» Carl Gustav Jung, a sua volta traditore di Sigmund Freud; per di più «l'eresia nell'eresia» di Hillman ha fatto irruzione nei campi dell'antropologia, della storia e persino della politica. Sul lettino viene ora «analizzata» l'intera società, con la miriade di relazioni che si stabiliscono tra quelle irripetibili singolarità che sono gli individui.
Se c'è un classico che mi viene in mente quando sfoglio un volume di Hillman, questo è il filosofo Giambattista Vico (1668-1744): l'anima del singolo individuo non è una sostanza ma un'attività, qualcosa che partecipa alla continua trasformazione dell'Anima del Mondo. Ma al Dio unico che come un monarca reggeva la compagine dei cieli, Hillman preferiva l'apparente caos del politeismo, con le sue tante divinità dalle mille facce. Gli antichi dèi non sono mai morti; al più si sono addormentati, e nel loro sonno continuano a sognarci come noi li sogniamo a nostra volta. Ed è un'illusione pensare che si possano esorcizzare riconducendoli con la stessa terapia psicoanalitica alla razionalità dell'esistenza diurna. Ermes ed Ercole, Apollo e Afrodite, il terribile Dioniso e il grande dio Pan si risvegliano nelle pieghe della vita di ogni giorno, nei tanti contrasti e conflitti che costellano la nostra società apparentemente così disincantata e tecnologizzata.
Ma anche il Disincanto, la Tecnica e la Psicoanalisi sono un intreccio di miti: Prometeo, Dedalo o Edipo non sono comparsi invano sulla scena delle idee. Per Hillman non è il mito che va spiegato, ma il mito è la spiegazione stessa. Come ebbe a scrivere in Saggi sul Puer (Raffaello Cortina, 1988): l'esploratore dell'anima cerca «un'apertura nella trama del fato», che è anche «un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più complicato o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l'apertura nei fili dell'ordito al momento giusto, perché il varco ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre esso resta aperto». Così il setting psicoanalitico si tramuta in una incessante investigazione, aperta a tutti coloro che riescono a praticare l'arte di cogliere l'occasione.
Hillman ha saputo raccogliere in questo modo la sfida dell'oracolo di Delfi, che è anche quella della filosofia di Socrate: conosci te stesso. Soleva dire che «il mondo è come un giardino» che ci si offre con l'immediatezza «di un riflesso sul lago». Ma il giardino dell'anima può essere labirintico, e come quello dell'Eden ospitare... il suo Serpente. Il caos del politeismo produce anch'esso dell'ordine, ma è un ordine instabile pieno di fenditure: guai che qualcuno pensi di aver trovato la risposta definitiva alla domanda di Delfi. Conoscere se stessi è l'indagine più difficile, rischiosa e talvolta persino mortale. Nessuna formula pronta per l'uso è a disposizione. Nel libro di Hillman che ho amato di più, Il sogno e il mondo infero (Edizioni di Comunità, 1984; il Saggiatore, 1996; Adelphi, 2003), quel che impedisce all'ordine della mente di diventare odiosa burocrazia dello spirito è il meccanismo del revel/rebel. Una baldoria (revel) tutt'altro che innocua, ma che getta i semi dell'insurrezione dell'anima. Così i suoi confini ci sfuggono di continuo, e scopriamo che vana è la pretesa di illuminare in modo completo ciò che è dentro di noi. Ma questa non è una maledizione, bensì una grazia che ci viene dal «mondo infero», cioè dagli strati dell'inconscio che sottendono le avventure della nostra consapevolezza. Dopotutto — come dicono i mitici personaggi di Joyce — siamo «tenebra che splende nella luce».

E Adelphi pubblica i libri che amava
Una raccolta dei libri che più amava: è l'iniziativa cui sta lavorando Adelphi per Natale in ricordo di James Hillman, il grande psicoanalista e filosofo statunitense morto giovedì a 85 anni a Thompson, in Connecticut. Questa sorta di strenna ideata dalla sua principale casa editrice italiana, curata da Paolo Pampaloni e Marco Ariani, vuole offrire al lettore una chiave in più per comprendere la profondità e la complessità del pensiero dell'autore. Di James Hillman Adelphi ha pubblicato numerosi titoli. Tra gli ultimi: Il suicidio e l'anima (2010; nella foto); Il codice dell'anima (2009); La forza del carattere (2007).