lunedì 31 ottobre 2011

Repubblica 31.10.11
"Se il governo va avanti sarà sciopero"
Contatti Cgil-Cisl-Uil: a breve incontro. Il ministro del Lavoro: accuse false


Il governo: allo studio misure di protezione Ichino: cambiamo insieme l´articolo 18 I sindacati: no a tavoli

ROMA - «Se il governo dovesse procedere, ci sarà lo sciopero generale», annuncia Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. Nessun tavolo, ribadisce, per discutere con l´esecutivo di licenziamenti. Mentre «a breve», forse in settimana, un incontro con Cisl e Uil per decidere la data dello sciopero. «Va rilanciato il patto con gli imprenditori», incalza Bonanni, segretario della Cisl. «Non facciamoci dettare l´agenda dalla politica, che è in stato confusionale».
I sindacati si ricompattano dunque contro l´ipotesi, inserita nella lettera di intenti del governo all´Europa, di riformare entro il prossimo maggio la legislazione del lavoro, anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti «per motivi economici». «Il termine licenziamenti facili è assolutamente falso», si difende il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. E il governo sta lavorando «alle protezioni dei lavoratori», augurandosi che «anche le imprese facciano la loro parte». Il ministro non esclude di valutare la proposta di Pietro Ichino, senatore del Pd, a riformare insieme l´articolo 18 (formalizzata in un ddl scritto nel 2009 e firmato da 54 senatori), proposta «per molti aspetti interessante» e «molto simile» alle idee del governo. E assicura che «tutti i licenziamenti discriminatori devono restare nulli».
Si infiamma, dunque, il dibattito politico. La maggioranza ribadisce la volontà di procedere. «Per creare lavoro, non per licenziare», dice Gasparri, Pdl. L´opposizione incalza. «Invito il governo a spegnere la miccia che ha acceso e mettersi a ragionare seriamente», propone Bersani, Pd. «Più che libertà di licenziare servirebbe la libertà di assumere», chiosa Matteo Renzi, sindaco "rottamatore" di Firenze. «Sacconi ha innescato una bomba e ora grida aiuto», lo attacca Maurizio Zipponi, Idv. Ma anche Cazzola, Pdl, ammette: «Se qualcuno sostiene che rivedendo l´articolo 18 un terzo delle aziende assumerebbe almeno un lavoratore e così l´occupazione crescerebbe di un milione, sono previsioni cervellotiche, non dimostrabili, se non pura propaganda».
(v.co.)

l’Unità 31.10.11
Il segretario Pd chiude la due giorni di Napoli respingendo le «favole» di Berlusconi e dei suoi ministri
Bersani avverte il governo: spenga la miccia che ha acceso
Avvertimento al governo: smetta di raccontare favole e spenga la miccia che ha acceso sui licenziamenti. Bersani chiude la due giorni di “Finalmente Sud” anche con un messaggio a Renzi: «Certe idee da anni ’80»
di Simone Collini


Un duro attacco al governo che continua a raccontare favole, critica l’euro, vuole licenziamenti facili, e una bacchettata a chi confonde il riformismo con il liberismo che tanti guai ha prodotto negli ultimi trent’anni. Un monito a non fomentare la divisione sociale e una rassicurazione sul fatto che le primarie per la premiership si faranno.
Pier Luigi Bersani chiude la due giorni di “Finalmente Sud!” lanciando messaggi all’esterno ma anche all'interno del suo partito. Come dice Rosy Bindi arrivando anche lei a Napoli, «dividersi ora sarebbe un suicidio per tutti», e il leader del Pd assicura che per quanto lo riguarda non c’è nessuno scontro personale con Matteo Renzi e che in un momento delicato come questo tutte le energie vanno indirizzate verso l’obiettivo finale, che rimane mandare a casa questo governo per poi ricostruire sulle macerie del berlusconismo.
Certo, Bersani rimane convinto che alcune proposte rilanciate dalla Leopolda abbiano ben poco di nuovo e siano invece “un usato”, riproponendo «idee degli anni ‘80 che già ci hanno fatto finire nei guai». Il segretario si riferisce appunto alle idee liberiste «alla Thatcher, alla Reagan, alla Craxi» che tanto hanno pesato sui decenni successivi. Ma questa, dice, è una «discussione di merito» che non ha niente a che vedere con le interpretazioni che ha trovato sui quotidiani.
ELETTO CON LE PRIMARIE
«Oggi leggo sui giornali di uno scontro personale che non esiste, non mi appartiene perché non è nel mio stile e nella mia logica», dice ai cronisti arrivando alla Mostra d'Oltremare. E le polemiche sulle primarie?, gli viene domandato. «Non c’è polemica con nessuno. Non si legano le mani a nessuno, non si faccia finta che c’è questa polemica. Io voglio bene a tutti». Anche a Renzi? Un sorriso: «Proprio a tutti».
Quando ci sarà da sfidare il centrodestra, il candidato premier verrà scelto con le primarie, assicura Bersani rivendicando al suo partito il merito di averle “inventate” («non saremo mai avari su questo e non si descriva un Pd o un Bersani arroccato») e ricordando non a caso di essere «l’unico segretario al mondo eletto in primarie aperte» (Renzi già contesta infatti l’idea di far scegliere “il” candidato del Pd dagli organismi dirigenti del partito anziché da nuove primarie aperte). E quindi: «Come potrei averne paura?». Ma appunto, arrivare alla sfida col centrodestra presuppone accelerare la crisi di questo governo. Il che non si farà discutendo ora di questioni interne ma mettendo la maggioranza di fronte alle proprie contraddizioni e debolezze. Per questo Bersani liquida la questione “rottamazione” con poche battute, garantendo che saranno lui e la sua generazione a «mettersi a disposizione per creare contenuti nuovi da mettere sulle gambe della nuova generazione che ci garantirà un ricambio con cambiamento». E dedica invece l’intervento con cui chiude l’inaugurazione della scuola di formazione politica riservata a duemila ragazzi under-35 delle regioni meridionali (che dopo questo appuntamento a Napoli andrà avanti per un anno via web e con altri incontri simili a questo) puntando il dito sui rischi che il governo sta facendo correre all’Italia.
Bersani parla dal palco allestito alla Mostra d'Oltremare negli stessi minuti in cui il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi smentisce che si vogliano introdurre licenziamenti facili e parla del rischio di atti di terrorismo. Il leader del Pd invita il governo a «spegnere la miccia che ha acceso e a mettersi a ragionare seriamente» perché non sarà con «diversivi e alzate di ingegno che aggravano la situazione invece di risolverla» che si fa fronte alla crisi, non è con le «nuove favole» che si può «reagire e far uscire l'Italia dal pericolo», non è con le «letterine» che ci si allontana dal «baratro», non è con i «capri espiatori, che una volta sono i magistrati, una volta i comunisti e ora l'euro», che si risolvono i problemi. Serve «un colpo di reni», adesso. Servono «riforme vere» e non «drammatiche barzellette» secondo le quali facilitare i licenziamenti porterebbe più occupazione. E allora al governo Bersani dice due cose. La prima: «Se non ci fosse l’euro l’Italia sarebbe in mezzo al Mediterraneo con della carta straccia in tasca. Non confondiamo la cura con la malattia». La seconda: «Se accendiamo micce di divisione sociale anziché di coesione, si rischiano conseguenze drammatiche».
LA FIDUCIA PER ZITTIRE TUTTI
Il Pd, ora che in Parlamento si dovranno discutere le misure anti-crisi, è pronto a fare la sua parte per far approvare le riforme necessarie al Paese. Ma se Berlusconi metterà la fiducia sul pacchetto di provvedimenti messi a punto dal governo, dice Bersani, sarà il chiaro segnale che non c'è nessuna volontà di confronto. Di più, sarà un'ennesima prova di debolezza del premier e di chi gli sta facendo da stampella: «Vogliono andare avanti militarizzando la maggioranza, che palesemente annaspa. Si zittisce l'opposizione e si mandano avanti, decreto dopo decreto, contenuti che non convincono nessuno. Non posso sentire Berlusconi nelle ultime 48 ore cantare ottimismo mentre ci stanno dando soldi al 6% d'interesse».

Corriere della Sera 31.10.11
Bersani: «Nessuno scontro Ma ha idee da anni 80»
«Non temo le primarie». Bindi: suicidio dividersi
di Ernesto Menicucci


NAPOLI — «Le primarie? Io non ho paura. E non si spaccino per nuove le idee degli anni 80». La sfida è lanciata e Pier Luigi Bersani, da Napoli, la raccoglie: se Renzi vuole scendere in campo, il segretario è pronto. Sia sulle regole, che sui temi: «Le primarie di coalizione — dice — le decide la coalizione. Ma il Pd, che le ha inventate, non sarà mai avaro o arroccato su questo argomento. Sono l'unico segretario al mondo eletto con primarie aperte, vuoi che abbia paura?». Con Renzi, il week end è ad alta tensione: «Ho letto di uno scontro personale che non esiste e non mi appartiene. Ho solo sentito il dovere di dire, a questa platea (i duemila giovani di "Finalmente Sud" ndr), come intendo il cambiamento all'interno di un collettivo: ho parlato con convinzione di un meccanismo. Non c'è polemica, non si faccia finta che c'è. Non si legano le mani a nessuno e non mi va di essere tirato per la giacca: tutte le idee sono buone, sono amico di tutti, voglio bene a tutti». Anche a Renzi? «Proprio a tutti». Bersani sposta il tiro sui programmi. Ma lancia comunque una nuova stoccata al rivale: «Attenzione a non scambiare per nuove certe idee da usato anni 80. Sul mercato del lavoro siamo in una fase drammatica, tra cassa integrazione e la flessibilità maggiore del mondo, e c'è chi pensa che licenziando si può assumere. Queste ricette semplici, queste idee troppo facili, portano solo guai». E ancora, sul modo di concepire il partito: «Voglio rivedervi — dice ai giovani — organizzeremo altri appuntamenti fisici. Rete è una parola con un doppio significato: può collegare, ma anche imprigionare. È importante scaricare le informazioni nel rapporto fisico, reale. Al centro c'è sempre l'uomo, e le donne». Altro che «Wiki-Pd» renziano, così attento ai social network. Terzo affondo, quando cita Rita Borsellino: «Ha accettato di candidarsi a Palermo. Non è una ragazzotta, ma quanto può dirci su certi temi! Quando penso al vino nuovo da mettere in otri nuove, parlo di pulizia, legalità, onestà, civismo, sobrietà della politica». Il segretario strappa anche una standing ovation: «Mi è bastato che qualcuno, al Nord, vedesse questa platea: è questo il Sud, va' là».
A chiudere i lavori arriva anche Rosy Bindi: «Il partito ha bisogno di tutti, ma soprattutto di idee. Chi vorrà confrontarsi su questo piano troverà la sede del partito aperta, in particolare l'Assemblea nazionale, il luogo nel quale il Pd elaborerà il programma per le elezioni». La Bindi insiste: «Spero che nessuno voglia praticare la divisione: sarebbe un suicidio per tutti. Se qualcuno ha questa tentazione, faccia la sua strada». Preoccupata dalla presenza di Chiamparino alla Leopolda? «No, perché? Ognuno va dove ritiene». E la spaccatura nel Pd? «Non la vedo. Ci sono persone che discutono, con idee obiettivamente diverse. Su questo è giusto che gli organi del partito si esprimano». Renzi è una minaccia o una risorsa? «Ma quale minaccia... L'importante è che nessuno si senta la sola risorsa». Dal palco l'ultimo affondo: «Voi che siete qui — dice la Bindi — non scommettete su una giornata da effetti speciali, ma su un anno di lavoro». Ogni riferimento alla platea fiorentina, fatta anche di scrittori ed ex calciatori, è puramente voluto.

Corriere della Sera 31.10.11
«Alleiamoci con Casini. E candidiamo lui»
Bettini: i leader del centrosinistra facciano tutti un passo indietro
Intervista di Maria Teresa Meli


ROMA — Goffredo Bettini, ex coordinatore del Pd di Veltroni, non ha dubbi: Bersani, Vendola e Di Pietro dovrebbero rinunciare a candidarsi alle primarie per lasciare il passo a Casini, in vista di un'alleanza larga che nella prossima legislatura faccia le cose che servono per sollevare l'Italia dalle macerie. Dopodiché ognuno riprenderà la propria strada, nella logica del bipolarismo. E Renzi? Si candidi pure contro Casini, se è questo il suo desiderio.
Bettini, crede che le elezioni siano vicine?
«Ormai si ha la netta impressione che la legislatura volga al termine: in Italia non regge più niente».
Secondo lei il centrosinistra è pronto a questa prova?
«Nel nostro campo si moltiplicano le ambizioni e i posizionamenti. Tutti si annusano e poi si distaccano in una danza ai più incomprensibile e che comincia ad apparire persino macabra, tanto essa si conduce su un terreno (quello degli attuali partiti) fragile, sfaldato, poco rappresentativo e credibile. Le nostre divisioni sono infatti solo gli ultimi simulacri che nascondono la misera volontà di autoconservazione di piccoli o grandi poteri. È urgente prendere coscienza che tutti i nostri scontri, alleanze e confronti rischiano di svolgersi su un Titanic».
Sembra di capire che il Pd andrà alle elezioni con Di Pietro e Vendola.
«È impensabile dividere la sinistra. Ma è anche assai poco credibile che la sinistra, rinchiusa in se stessa e nello stato che ho descritto, possa vincere, e soprattutto possa governare da sola».
E allora?
«La via maestra è quella di ridurre all'osso le ambizioni della prossima legislatura. Le priorità sono: chiudere la fase dolorosa del berlusconismo e ridare dignità alla nostra presenza nel mondo. Occorre quindi superare la crisi economica con l'autorevolezza che oggi ci manca, misurando le decisioni con un criterio semplice: deve contribuire chi più ha. Secondo quanto ha detto il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace: "Per governare la globalizzazione occorre ristabilire il primato della politica, responsabile del bene comune, su economia e finanza, e non temere di proporre cose nuove anche se possono destabilizzare equilibri di forze preesistenti che dominano sui più deboli". Se invece l'indirizzo è una babele di contorcimenti e posizionamenti astratti per nominarsi ognuno liberista acceso o moderato, socialdemocratico tradizionale o innovatore, renziano o bersaniano, nessuno ci capisce più niente. Infine la prossima legislatura a carattere repubblicano, costituente e di transizione dovrebbe mettere ordine allo scassato equilibrio dei poteri».
E con quale formazione si dovrebbe andare al voto?
«Sono convinto che gli obiettivi che ho descritto debbano essere posti al centro di un programma elettorale di larghe alleanze con il terzo polo. Non possono essere perseguiti in sempre più improbabili governi istituzionali nell'attuale Parlamento, screditato e segnato da inaccettabili trasformismi: queste sono operazioni incomprensibili ai cittadini».
L'alleanza con il terzo polo è una difficile operazione politica.
«Già, a me sembra che prevalga la passione per contarsi nel nostro fazzoletto elettorale (per fortuna ampio). E invece dovremmo mettere insieme tutte le persone di buona volontà per frenare il decadimento nazionale. Poi, in un futuro migliore, ognuno riprenderà la propria strada in uno schema bipolare, civile e moderno. Naturalmente per fare tutto ciò è necessario un candidato premier, da sottoporre a primarie vere, in grado di rappresentare questo chiaro, onesto, contingente, compromesso politico».
I candidati sono anche troppi, Bettini.
«Bersani, Vendola e Di Pietro non si devono candidare alle primarie. Ma non si tratta solo di far compiere un passo indietro ai leader attuali: si tratta di incoraggiarli a compiere due passi avanti, per fare, in uno slancio di generosità, la cosa più giusta ora, per vincere, unire e per governare la prossima legislatura».
Chi, al posto loro?
«A certe condizioni (ripeto, per una legislatura limitata nelle cose da fare e per percorrere solo un tratto di cammino comune), se ci fosse un'intesa e se questo fosse decisivo per realizzare l'aggregazione auspicata, non mi fermerei pregiudizialmente di fronte all'idea di valutare la disponibilità di una personalità come Casini, un uomo che in tempi non sospetti ha rotto con il berlusconismo, dimostrando coraggio, misura e buonsenso. Una persona perbene che ha svolto egregiamente il ruolo di presidente della Camera. Se spiegato, tutti capirebbero il senso di un compromesso siglato alla luce del sole tra democratici e moderati».
E Casini dovrebbe sottoporsi alle primarie?
«Certo. E se Renzi, o chiunque altro, vorrà partecipare, si accomodi pure».
A proposito, che ne pensa di Renzi?
«Per me è troppo di destra. E ha uno stile molto diverso dal mio perché vuole quel partito personale a cui io sono contrario. Ciò detto, è una risorsa perché è un uomo intelligente e coraggioso».

Repubblica 31.10.11
Il populista di centro
di Concita De Gregorio


Per la "sinistra radicale" è l´unto di Arcore. E il suo partito s´è arroccato in difesa
L´impressionante ondata di reazioni viscerali sul Web mostra che molto piace e dispiace

FIRENZE. MATTEO Renzi è un populista di centro, posizione finora scoperta sulla scacchiera della politica italiana. Ne abbiamo e ne abbiamo avuti di destra, un paio di loro – gli uomini della provvidenza di due diversi ventenni – hanno scritto pagine grottesche e tragiche della storia di questo paese. Ne abbiamo di sedicente sinistra, se non loro si sente a sinistra il loro elettorato, Grillo e Di Pietro sono tra questi.
Al centro avevamo prudenza e convenienza, eredi della vecchissima Dc, finiani arrivati direttamente dal Msi, moderati fuoriusciti dal Pd: un terzo polo fatto apposta per le alleanze eventuali di governo, niente di particolarmente appassionante per i milioni di elettori in fuga dalla politica, giovani senza occupazione né avvenire, delusi e disillusi cui restano solo le piazze per sfogare la legittima rabbia, con tutti i pericoli del caso. Ora c´è Renzi.
Il discorso di ieri, alla Leopolda, fa piazza pulita di tutto quel che si è detto e scritto, anche qui, alla vigilia: la paura che hanno di lui molti dei dirigenti di centrosinistra, l´ammirazione che suscita in Berlusconi, il seguito che ha o potrebbe avere nella destra moderata leghista e cattolica, la sua incerta identità di genere politico nel senso che, si legge su Internet tra i commenti delle centinaia di migliaia di persone scatenate in un furibondo dibattito, "Renzi è uno di destra, è un berluschino, la sinistra non gli compare nemmeno nei sogni". Benissimo. Ieri erano parole, oggi è un fatto. Domenica mattina, alla stazione Leopolda di Firenze, il missile è partito. Può piacere o non piacere, si diceva giorni fa, e l´impressionante ondata di reazioni viscerali che si registrano in Internet mostra che molto piace e dispiace: comunque accade, e nemmeno un cieco non vedrebbe che la "discesa in campo" di Renzi è destinata a cambiare il panorama politico dei prossimi mesi - forse anni - non solo a sinistra. Non c´è chi non veda che se si presentasse come certo desidera fare alle primarie potrebbe cogliere un risultato determinante, "pesare" molto, addirittura - si dice sottovoce, ma si dice - vincere o comunque far perdere gli avversari interni (a vantaggio di Vendola, aggiunge chi usa questo argomento nella logica della guerra nella stessa metà campo). Che spiazzerebbe e molto i leader del Terzo Polo e persino qualche leghista che si scalda in panchina, per quanto bordo campo ministeriale. Le luci e le ombre di Renzi erano tutte nel suo discorso di ieri, e vediamo dove e perché.
Non una parola su come si esca dall´agonia del berlusconismo. Renzi si vanta di aver pronunciato "tre o quattro volte in tre giorni il nome di Berlusconi perché qui si parla di futuro e lui non è il futuro". Applausi dei tremila adoranti in sala, vai Matteo. Tuttavia l´uscita dalla pericolosissima fase finale del regime moribondo richiede azione, intelligenza e misura: richiede che ci si metta in gioco adesso, non che ci si proponga per quando ci sarà solo cenere e che si faccia riscaldamento nel frattempo. Tenersi in forma per andare a seppellire morti e feriti della battaglia finale non è un gesto di generosità politica, per usare le parole che il sindaco cavalca. Secondo: contribuire alla dissoluzione del Pd, perché questo può accadere dopo il Big Bang, tenendolo buono solo come mezzo di trasporto per sé medesimi e il proprio gruppo già selezionato di governo è un genere di opportunismo che abbiamo già altrove visto all´opera. Un genere che conosciamo bene, insomma, e di cui vorremmo liberarci non solo a parole. Nei fatti Renzi è diventato sindaco grazie al Pd e conta di arrivare a Roma sul medesimo autobus, o tramvia per restare a Firenze, salvo poi congedare l´odiato apparato che - non si deve dimenticare nemmeno un minuto - è fatto anche di sostegno economico, organizzazione, militanza di base. Sono moltissimi quelli che "Renzi non mi piace ma ho lavorato e lavoro per lui". Ciò detto, moltissimi sono anche - e molti di più diventeranno - quelli che "Renzi non mi piace ma l´alternativa qual è", perché ha ragione il sindaco a dire che "la storia nuova la scrivono i pionieri e non i reduci" e al detestato Renzi per il momento il Partito non oppone che veterani salvo che non arrivi Zingaretti, potrebbe essere lui la carta sinora coperta ma sono ipotesi, prudentissime illazioni.
Dunque, per restare alla cronaca, non si può non osservare che otto su dieci delle cose che Renzi dice sono condivisibili e largamente condivise dalla base del Pd, che peraltro è una base anche istituzionale: decine e decine di giovani sindaci e amministratori del Pd hanno parlato alla Leopolda, Matteo Richetti presidente del consiglio regionale emiliano molto convincente per quanto ex educatore di una parrocchia - pregio o difetto secondo i punti di vista. "Se la Direzione del partito ci impedirà di candidarci lo faremo lo stesso", ha detto più o meno il sindaco: sta reclutando "da sotto", dalla base amministrativa, e sfoggia una possibile classe di governo fatta da Zingales, Ichino, Gori.
Le cose che dice, le parole che piacciono. Non si ferma il vento con le mani. Aprire e non chiudere. Le primarie ribaltano il flusso: non il vertice che dà la linea ai dirigenti che spiegano alla base. La base che sceglie. "Non prendo lezioni di economia da uno che sta in una stanza in via del Nazareno e non ha i voti nemmeno del suo condominio, le prendo da Luigi Zingales". Il quale dice che in Italia ci sono "le migliori segretarie e i peggiori manager" perché è fondata sul servilismo, e il servilismo "è la virtù dei buoni a nulla, quelli che non hanno alternative". Quelli capaci solo di annuire a mai di dissentire, i giovani vecchi di cui le segreterie di partito sono colme, forgiati come cloni. Non si può chiedere come fa D´Alema, si legge sui blog, che i giovani si facciano avanti se hanno qualcosa da dire e poi zittirli quando lo fanno. Oltretutto Renzi non è nemmeno così giovane. La colpa semmai è stata quella di aver paura, in tutti questi anni, che le capacità e i talenti altrui facessero ombra a chi era al comando: non aver cresciuto pionieri. "Non si dividono gli imprenditori dai lavoratori - urla il sindaco - si divide chi ha coraggio da chi ha paura, chi ha voglia di rischiare da chi vive di rendita, chi ha talento da chi ha le conoscenze giuste". Ovazione. E´ questo il cancro dell´Italia, la rendita, il nepotismo anche politico. Qualcuno sa dargli torto? Il candidato parla a braccio. Mostra uno spezzone di "Non ci resta che piangere" per dire che a quelli che dicono "ricordati che devi morire" - la crisi economica mondiale, il rischio collasso - uno dice "me lo segno", intanto prova a fare. In questo è bravissimo. Un grande comunicatore, dote e business di famiglia, è cresciuto nell´azienda paterna così, guardando i video di Berlusconi. Però poi dice per battere Grillo basta dimezzare i parlamentari, eliminare i vitalizi, fare in modo che "l´esempio parta dall´alto, lo so che non risolve ma è un segnale", nel paese al collasso basta privilegi. Liquida Vendola con una battuta, "ha fatto cadere il governo Prodi quando ero all´università", Bersani con mezza, i reduci e il vento. Lo acclamano. Nella disperazione del pantano è qualcosa che si muove. La "sinistra radicale" lo disprezza: è l´unto di Arcore. La colpa è aver lasciato il pantano fiorire di mucillagine. Essersi arroccati in difesa finora uccidendo tutto ciò che poteva portare nuova vita. Autodifesa generata dalla paura. Da ieri c´è Renzi. Può piacere molto o pochissimo, ma c´è. Avanti gli altri.

Repubblica 31.10.11
La tentazione di veltroniani e area Letta "La Leopolda può allargare il nostro campo"
Nel fronte del no a Renzi, oltre ai bersaniani, i "giovani turchi" di Fassina
Lo scetticismo dell´ex ppi Fioroni: "Alla Leopolda nessun cattolico, è un handicap"
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - Non c´è niente di meglio che un Big Bang, per ridisegnare la geografia di un partito. Le nuove linee di frattura del Pd si erano già delineate dopo l´estate, non è "merito" di Renzi, giurano i suoi rivali, ma la musica suonata alla Leopolda non ha certo aiutato. Le wiki-idee dei nuovi rottamatori, per intenderci sì alla Bce no alla Cgil, sì a Marchionne no alla Fiom, sì a Steve Jobs no a Nichi Vendola, superano i confini di chi si è proclamato renziano. Volano oltre l´ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino, l´economista Pietro Ichino, il prodiano Sandro Gozi. Sorpassano l´endorsement arrivato dall´uomo ombra del "professore" Arturo Parisi. E arrivano nel cuore della segreteria del Pd, nella compagine che fa capo al vice di Bersani Enrico Letta. Toccano i modem di Veltroni. Interloquiscono con Areadem di Franceschini.
Contro, ma proprio contro, ci sono i "giovani turchi": il dalemiano Matteo Orfini, il responsabile Economia e Lavoro Stefano Fassina: tutti convinti - come Bersani - che le ricette di Renzi siano "anni ottanta", che chi la pensa come lui pretende di uscire dalla crisi economica in continuità con le idee che l´hanno prodotta. Insomma, che altro che rottamatore, Renzi è solo l´ultimo anello di un establishment che non vuole cambiare questo Paese con un po´ di sana sinistra. Contro è Massimo D´Alema, che non ha mai avuto "il ragazzo" in simpatia, che ne è da sempre il bersaglio, e che resta leale al fianco di Bersani, nonostante le sue idee sul dopo Berlusconi siano più vicine a quelle di Veltroni e Franceschini. Contro è anche Rosy Bindi, ma la presidente - rivela chi la conosce - gioca una partita tutta sua: «Rosy pensa che se Bersani scivola, rimane lei come garanzia per la sinistra del partito». E´ neutro Romano Prodi: il Professore tiene a far sapere di non appoggiare nessuno. E sta alla finestra anche l´ex popolare Beppe Fioroni: viene anche lui dagli scout, ma a qualcuno fa notare che alla Leopolda non c´era nessun rappresentante delle associazioni cattoliche: «Lì c´è un frattura che va sanata».
È però tra le minoranze, che il big bang colpisce più duro. Areadem sostiene Bersani, Franceschini lo ripete ogni volta che può, ma è un fatto che la compagine del capogruppo si sia riavvicinata a quella di Walter Veltroni. E che come loro la pensi anche il vicesegretario Enrico Letta: all´Italia non serve la foto di Vasto, serve un progetto più largo, che comprenda il Terzo Polo. «In nome di questo - racconta un esponente di Areadem - siamo pronti a discutere con tutti». Anche con Renzi. Veltroni - che era stato indicato come probabile king maker del sindaco fiorentino - per ora tace. L´ex leader, ad Auschwitz con una delegazione bipartisan di parlamentari, non entra nelle beghe del partito, ma di certo se dovesse scegliere tra Renzi e Bersani, non avrebbe dubbi su chi appoggiare. Quanto a Letta, alcuni dei suoi - proprio nel giorno della Leopolda - hanno scritto una lettera al segretario ribadendo fedeltà, ma invitandolo a un confronto «anche aspro». Il nodo è sempre lo stesso: non appiattirsi sulle posizioni della Cgil, saper affrontare i nodi posti dalla lettera della Bce. Lo dice chiaramente, anche se da un´altra posizione, il modem Gentiloni: «Bisogna allargare il campo e non rinchiudersi nel recinto della sinistra tradizionale».
«Gli equilibri sono delicati - dice un dirigente - e qualsiasi forzatura può far saltare tutto. Se Renzi avesse annunciato la sua candidatura, o se Bersani decidesse di indire primarie il 15 gennaio, il Pd esploderebbe». E poi, spiega, tra Renzi e Montezemolo c´è più di un flirt: «Se non allarghiamo il campo, e quei due vanno insieme, sono dolori sia per il Pdl che per il Pd».

l’Unità 31.10.11
Populismo perché non c’è più il popolo
Mario Tronti ritiene che solo la sinistra può battere il potere della personalizzazione ricostruendo l’autorità delle classi dirigenti e il concetto sociale di lavoro. Un saggio dal nuovo numero di «Democrazia e diritto»
di Mario Tronti


Èdifficile dire che cos’è popolo, oggi. Il popolo del turbocapitalismo: composizione sociale, insediamento territoriale, lasciti tradizionali, lingua, dialetto, culture, tra megalopoli, medio e piccolo centro, paese e frazione di paese, differenza femmi-
nile, qui, in questo punto, nel basso del sociale. Spazi di analisi per una sinistra del futuro. Non è navigando in rete che si toccano i livelli profondi dell’esistenza umana disagiata. Non è con la biopolitica che si intercettano i bisogni delle persone semplici, donne e uomini, come si dice, in carne ed ossa.
Recita il mantra: nulla è più come prima, nulla si può più dire come prima. Ma io non trovo una definizio-
ne diversa di popolo da quella che dice: classi inferiori. Diversa dall’idea settecentesca di una «popolazione dedita a occupazioni meccaniche, grossolane e faticose, esclusa dal governo e dalle cariche pubbliche». È ancora, essa, maggioranza? Dipende da che punto si guarda il mondo: da occidente o da oriente, da nord o da sud. Qui da noi, nel nostro giardinetto, incantato e malandato, la contraddizione è sempre crescente. Sia con la crisi, sia con lo sviluppo, negli ultimi decenni la distanza tra ricchi e poveri è aumentata. Chi lavora, lavora di più e guadagna di meno. Chi non lavora, perché non trova lavoro, scende i gradini della scala sociale: come sta avvenendo per la prima volta a questa forma inedita di sottoproletariato intellettuale.
IL POSTMODERNO
È in atto una sorta si proletarizzazione postmoderna dei ceti medi. Sociologicamente quello che si può dire popolo si riproduce in forma allargata. Ma non è questa misura quantitativa il punto decisivo. Anche se fossero destinate, le classe inferiori, ad essere consistente minoranza, è da quella parte che bisogna stare. C’è un solo modo per combattere efficacemente il populismo di oggi, fino a sconfiggere le sue ragioni, ed è nel dare un segno politico a questa realtà di popolo. Gino Germani leggeva in modo perspicace il populismo come passaggio da tradizione a modernità, dove pezzi dell’una e pezzi dell’altra convivevano e si combattevano. Guardava soprattutto a quello dell’America Latina. Ma il discorso vale anche per il populismo delle origini, russo e statunitense.
Il populismo di oggi descrive il passaggio dal moderno a quello che si dice il postmoderno, per significare una cosa che nessuno sa che cosa sia, una terra di nessuno, ma per quello che già si può già vedere, un mondo senz’anima, solo corpi, virtuali però, corpi senza carne, appendici delle macchine, le sole creature rimaste intelligenti.
La deriva populista, malattia della vecchiaia delle società avanzate, esprime nel suo fondo oscuro essenzialmente tutto questo. La forma politico-istituzionale sarebbe più corretto dire antipolitico-istituzionale – è il nuovo Leviatano della democrazia populista. Un mostro niente affatto mite, armato di quella violenza sottile che è il consenso plebiscitario, macroanthropos animalizzato, rivestito di luccicanti panni partecipativi, che nascondono la nuda vita della cessione di sovranità dalla nuova plebe all’ultimo capo, nemmeno carismatico.
Nel populismo di oggi, non c’è il popolo e non c’è il principe. E quello che abbiamo imparato da bambini «a conoscere bene la natura de’ popoli bisogna essere principe e a conoscere bene quella de’ principi bisogna essere populare» -, per essere messo di nuovo a frutto, ha bisogno che riemergano, nelle vesti nuove assunte, i poli del conflitto. Per questo, è necessario battere il populismo, nella forma della democrazia populista: perché nasconde il rapporto di potere. È l’apparato ideologico, adeguato al nostro tempo, che maschera, e al tempo stesso garantisce, il funzionamento della realtà. Dentro c’è tutto: la dittatura della comunicazione, la vecchia sempre nuova società dello spettacolo, la civiltà dell’intrattenimento, l’ultima retorica di massa, la retorica della rete, l’interattività come luogo di subalternità. Conseguenza: tutti, e tutte, parlano di politica in modo stravagante, non guardando dai luoghi bassi ai monti e dai luoghi alti al piano, ma girando intorno, chiacchierando del più e del meno, di corpi e desideri, di comune e governance, di diritti o di tumulto.
Come si fa popolo, oggi: questo è il problema. Come si fa popolo, senza più la centralità della classe. Fare popolo incontra le stesse difficoltà che fare società. È possibile riaggregare una soggettività collettiva di persone dopo la disgregazione che gli spiriti animali borghesi hanno prodotto nei rapporti del tutto asociali tra gli individui? E anche: come si fa principe, senza più la sovranità dello stato-nazione. Quale autorità senza Stato, e pur tuttavia ancora in presenza del potere? Chi decide nello stato normale, visto che lo stato d’eccezione si colloca ormai fuori dall’Occidente?
CLASSE ED ÉLITE
Il tema del senso della politica e il tema della verticalità della relazione politica, sono strettamente intrecciati. Volta a volta, per ogni tempo, non necessariamente per ogni epoca le epoche sono rare! – il primo tema rimane eguale nell’eterno ritorno, il secondo cambia forma nel decorso storico. Tenendo ferma politica di redenzione e politica di realismo, devi capire che cosa c’è, qui e ora, nel basso della società e nell’alto del potere. Il Novecento ti ha dato il popolo come classe e l’élite come partito. Una potente semplificazione che ha fatto grande storia. Comprensibile a tutti, ha messo in moto le masse. Modello irripetibile? Probabilmente, sì. Perché è superato il sistema dei soggetti. Ma superare quella sì un’epoca! dialetticamente vuol dire conservarne l’essenza di metodo, il movimento della politica. Popolo ed élite non porta al populismo. Porta al populismo capo ed élite. La teoria delle élites ha fat-
to critica anticipata della personalità autoritaria. E l’avrebbe scongiurata se fosse stata praticata da una grande forza politica. Attraverso la riproposizione della teoria delle élite si potrebbe oggi fare critica posticipata della personalità democratica. E si potrebbe, questa, delegittimare nella pratica di un forte movimento politico.
C’è un solo modo per decostruire il potere della personalizzazione ed è quello di ricostruire l’autorità di classi dirigenti. Questo si può fare solo a sinistra e con la sinistra. Soltanto qui si può resuscitare, con la mente, il senso autentico del concetto politico di popolo: specificandolo e determinandolo con il concetto sociale di lavoro. Popolo, non di sudditi, non di cittadini, ma di lavoratori. Popolo lavoratore: nuovissima parola antica. Dove il lavorare raggiunge non la vita, ma l’esistenza, nella centralità politica della persona che lavora. Dopo la giusta, e libera, parzialità operaia lì giustizia e libertà hanno avuto veramente un senso -, per ritrovarlo questo senso, occorre, ed è possibile, forse per la prima volta, fondare una classe generale. Quella del popolo lavoratore. La classe operaia, nella sua orgogliosa rivendicazione di essere parte, nel rifiuto del lavoro, che nient’altro era che rifiuto di essere classe generale, è stato un soggetto rivoluzionario sconfitto. Perché la sconfitta politica non si traduca in fine della storia, è necessario riafferrare il filo là dove si è spezzato, riannodarlo e ripartire e proseguire.
L’OGGI
L’exit è totus politicus. Popolo lavoratore come classe generale è possibile solo oggi, nelle condizioni di lavoro esteso e parcellizzato, diffuso e frantumato, territorializzato e globalizzato, lavoro marxiano sans phrase, che va dalla fatica delle mani alla fatica del concetto, dall’occupazione che non si ama all’occupazione che non si trova, un arcipelago di isole che fanno un continente. Che cos’è élite? È la forza politica che fa dei lavoratori un popolo. Una classe dirigente che fa non di se stessa ma del lavoro un soggetto governante. Poi si troverà il nome dello scopo finale. Intanto si dicano i mezzi per raggiungerlo.

La Stampa 31.10.11
Napolitano: preoccupato dai tagli all’editoria
Il Presidente: rischi di mortificazione del pluralismo, chiederò al governo di ripensarci


ROMA. «Preoccupato per i tagli all’editoria»: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fa suo l’appello dei direttori di testate no profit, politiche e cooperative che sono insorti contro la decisione dell’esecutivo di decurtare il fondo dell’editoria, e fa sapere che chiederà al governo di riconsiderare la sua scelta. Rispondendo ad una lettera aperta indirizzatagli da 64 direttori di testate di partito, cooperative Mediacoop e no profit e della Fisc (la Federazione italiana settimanali cattolici) - da Europa a Liberazione, dal Secolo d’Italia all’Unità, da Avvenire al manifesto e al Riformista -, il Capo dello Stato spiega di «condividere la preoccupazione per i rischi che ne potrebbero derivare di mortificazione del pluralismo dell’informazione».
«Ho letto con attenzione la vostra lettera e mi rendo ben conto dell’importanza degli argomenti che mi avete illustrato in polemica con l’annunciato taglio lineare al fondo per l’editoria», scrive Napolitano in riferimento alla missiva pubblicata ieri su diversi quotidiani. «Condivido prosegue - la preoccupazione per i rischi che ne potrebbero derivare di mortificazione del pluralismo dell’informazione. E non mancherò di manifestare questo mio punto di vista al governo». «Ho, nello stesso tempo, trovato - continua il Capo del Stato nella sua risposta pubblicata sul sito del Quirinale - altamente apprezzabile, nella vostra lettera, la sensibilità per l’urgenza di un’opera di bonifica in questo settore e la disponibilità a proporre ulteriori criteri per consentire da un lato risparmi e dall’altro una più rigorosa selezione nell’accesso alle risorse».
«Credo - conclude il presidente della Repubblica - che quanto più darete seguito concreto a questi vostri intendimenti, tanto più ne guadagnerà in efficacia la sollecitazione, che faccio mia, per una riconsiderazione delle decisioni del governo».
Secondo il segretario della Federazione nazionale della stampa, Franco Siddi, l’invito di Napolitano al governo «è di eccezionale rilevanza e conferma quanto sia prezioso il pluralismo come bene immateriale che merita il sostegno dello Stato, affinché anche le voci non meramente commerciali possano animare il circuito dell’informazione e delle idee. Il governo non può sottrarsi al dovere di una risposta».
La risposta del Capo dello Stato, fanno notare il senatore Pd Vincenzo Vita e il portavoce di Articolo 21 Giuseppe Giulietti, «è di grandissima importanza».

Corriere della Sera 31.10.11
«Imparziale? No, difendo la Costituzione»
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni ma io confesso che non mi sento del tutto imparziale. Anzi, mi sento partigiano, sono un partigiano della Costituzione». Antonio Ingroia, aggiunto della Procura antimafia di Palermo, allievo di Paolo Borsellino e fedelissimo di Giancarlo Caselli, parla al sesto congresso del partito dei comunisti italiani. È il magistrato che ha condotto alcune delle inchieste più difficili sulla mafia, da quella che ha riguardato il senatore pdl Marcello Dell'Utri a quella sull'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, fino alle grandi stragi e alla trattativa fra Stato e Cosa nostra. La platea del congresso di Rimini si alza, gli regala una standing ovation. E lui spiega il motivo della sua presenza qui, mezz'ora di intervento per parlare di mafia e legalità nella giornata conclusiva di un incontro politico, di partito, sotto lo slogan «La rivoluzione da ottobre».
Partigiano Ingroia lo è davvero, socio onorario dell'Anpi che lo ha premiato ad aprile di quest'anno. Ma la resistenza di cui parla è un'altra. «Fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla — dice il magistrato — so da che parte stare». E ancora: «Ho accettato l'invito di Oliviero Diliberto pur prevedendo le polemiche che potrebbero investirmi per il solo fatto di essere qui. Ma io ho giurato sulla Costituzione democratica e sempre la difenderò». In effetti le polemiche arrivano subito, tutte targate Pdl. Il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto usa il sarcasmo: «Ringraziamo il dottor Ingroia per la sua chiarezza. Sappiamo che le vicende più delicate per i rapporti fra mafia e politica sono nelle mani di pm contrassegnati dalla massima imparzialità». Il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri dice di voler portare il «comizio e questo scandalo in Parlamento». Il ministro della Giustizia, ed ex magistrato, Francesco Nitto Palma preferisce il no comment, il falco Giorgio Stracquadanio invoca l'intervento del Csm mentre la colomba Gianfranco Rotondi dice, ironicamente, di avere rispetto perché «non si era mai visto un giudice comunista che venisse fuori con tanta chiarezza». Ma è Jole Santelli, ex sottosegretario alla Giustizia, a dar voce a quello che nella maggioranza pensano in molti: «Credo che Ingroia stia preparando il suo ingresso in politica. È ovviamente possibile che tale previsione si riveli errata ma altrettanto probabile che, come altri suoi colleghi, sia nel momento di passaggio in cui la toga serve per acquisire notorietà per la carriera politica».
Dottor Ingroia, allora stanno così le cose, è vero che lei vuole scendere in politica? «Non ci sono i presupposti — risponde il procuratore durante il viaggio di rientro da Rimini — in questo momento non ci sono elezioni e quindi siamo di fronte al solito pretesto per fare il tiro al bersaglio sul magistrato di turno». Ma questo vuol dire che, se ci fossero elezioni, lei si candiderebbe? «Non ho detto questo ma ricordo che, in base alla legge, il magistrato ha diritto sia all'elettorato attivo che a quello passivo». Più di uno spiraglio lasciato aperto, insomma. Quest'estate il nome di Ingroia era circolato per una possibile candidatura a sindaco di Palermo. Non se ne farà nulla, ed è lui stesso a spiegare il perché: «È inopportuno che un magistrato si candidi nella stessa città dove è stato in servizio». E non è inopportuno che un magistrato partecipi ad un congresso di partito? «Non vedo dove sia lo scandalo, per altro ero stato già invitato in passato da Di Pietro e da Claudio Fava. Semmai il tema è perché alcuni partiti invitano i magistrati a parlare di giustizia e di mafia mentre altri no. Evidentemente alcuni partiti non hanno a cuore questi temi».
Diliberto, appena confermato segretario del Pdci, lo difende rinviando al mittente le accuse: «Ringrazio Ingroia per il suo coraggio. Era ben conscio che la sua partecipazione ad un libero congresso qual era il nostro, ancorché sacrosanta, avrebbe suscitato le schiumanti reazioni di chi odia i liberi congressi».

Repubblica 31.19.11
Il procuratore Scarpinato: non capisco le polemiche
"Ha detto una cosa ovvia il giudice giura sulla Carta"
Ha detto una cosa che gli studenti di legge apprendono all´inizio del loro corso
di Salvo Palazzolo


PALERMO - «Francamente, non capisco le polemiche di alcuni esponenti politici dopo le dichiarazioni di Ingroia – dice Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta – tutti i magistrati sono partigiani della Costituzione, perché sulla Costituzione hanno giurato».
Si polemizza sul fatto che talune riflessioni di un magistrato sono state fatte in un congresso di partito.
«Curioso che faccia scalpore un´affermazione direi elementare, che gli studenti di Giurisprudenza apprendono all´inizio del loro corso. E come tale, si può, anzi si deve ribadire in tutte le sedi: il magistrato è prima di tutto sottoposto alla legge delle leggi, ovvero alla Costituzione, e non più soltanto alla legge ordinaria, come avveniva prima del ‘48. Ed è la stessa Costituzione a prevedere che il magistrato deve dare della legge ordinaria un´interpretazione conforme alla Costituzione: ove ciò non sia possibile, deve sottoporre la legge ordinaria al vaglio della Corte Costituzionale. La Costituzione ha affidato alla magistratura il ruolo di garante della fedeltà costituzionale delle leggi. In questo senso può dirsi che i magistrati sono partigiani della Costituzione».
Dunque, secondo lei, non si discute della partecipazione dei magistrati alla vita pubblica?
«È tutt´altra questione quella della candidatura di un magistrato. E non discutiamo neanche della partecipazione dei magistrati alla vita politica. Chi vuole portare il dibattito su questo versante forse ha dimenticato i principi fondamentali del diritto. La verità è che la politica passa, lo Stato resta. E la Costituzione è il patto fondamentale dello Stato. Le leggi ordinarie sono invece espressione delle maggioranze politiche contingenti».
Ma quelle maggioranze sono espressione della volontà popolare. Torniamo al tema dei rapporti fra politica e magistratura?
«Non basta la volontà popolare espressa dalle maggioranze semplici per cambiare la Costituzione, occorrono delle maggioranze rafforzate e delle procedure complesse, proprio perché le leggi costituzionali riguardano i pilastri portanti che reggono l´edificio dello Stato. La stessa Costituzione prevede che neppure queste maggioranze speciali possono modificare la forma repubblicana».

«La Società italiana di Psichiatria: un documento di denuncia»
Repubblica 31.10.11
Brevi e pessime notizie sulla sanità, da noi e fuori
di Mario Pirani


Ogni giorno si affacciano previsioni di calo del Pil (+ 0,3), di aumento dello spread, di nuovi interventi per coprire altre frane nei conti. Le scelte della maggioranza non sono però ispirate a criteri il più vicino possibile all´equità e alla razionalità. Lo prova l´ostinata difesa imposta dalla Lega delle pensioni di anzianità, care ai suoi elettori e che permettono l´andata in quiescenza prima dei 65 anni (una specialità tutta italiana) e l´assoluta indifferenza generalizzata verso i colpi inferti al Sistema sanitario nazionale. Indifferenza dovuta anche al fatto che i malati non hanno una forza di pressione politico-sindacale: non sono, infatti, una categoria stabile e sindacalizzata, chiamata a votare o a manifestare. Basta, quindi, colpire il personale sanitario per allargare le maglie di una progressiva privatizzazione secondo gli ideali della destra. Già la manovra di luglio sanciva una detrazione di 7 miliardi e 950 milioni concentrati nel 2013-14, ma già si parla di anticipare il colpo al 2012, arrivando ad oltre 10 miliardi di sottrazione. A gravare sulle famiglie e sul personale vi è l´introduzione su più larga scala dei ticket, il congelamento delle retribuzioni dei medici, il blocco dei contratti, lo stop al turnoover. Si approfitta della crisi per smantellare pezzo a pezzo una delle pochissime grandi realizzazioni del riformismo italiano.
La Società italiana di Psichiatria ed altre associazioni ed onlus dedite alla salute mentale hanno inviato ai ministri e alle autorità interessate un documento di denuncia delle discriminazioni assicurative e sanitarie delle persone affette da disturbi mentali. "La situazione è drammatica per quanto riguarda eventi morbosi (dall´infarto all´ictus, al cancro o altre malattie organiche che non interessano la mente). Tale situazione è accentuata dal fatto che, ad oggi, in campo assicurativo viene preclusa a priori ai sofferenti di disturbi psichici o a chi risulti assumere psicofarmaci l´accesso a forme di copertura per rimborso delle spese mediche derivanti da patologie organiche o da infortuni o, qualora, i disturbi o l´assunzione di psicofarmaci dovessero manifestarsi durante il periodo di validità della polizza". La lettera si richiama in proposito alla Convenzione dell´Onu sui diritti delle persone con disabilità, stabilendo che "queste devono poter ottenere, a condizioni eque e ragionevoli, un´assicurazione malattia … e un´assicurazione sulla vita". L´Italia ha firmato la Convenzione in proposito nel marzo 2007 ma senza passare ad alcuna misura applicativa. L´avversione culturale verso i malati di mente è più tetragona del più ragionevole spirito riformatore e di giustizia.
Anche in Italia – ne abbiamo già parlato – comincia a risentirsi il fenomeno, partito dagli Usa, della carenza di farmaci oncologici generici ma pur sempre basilari per il trattamento di talune neoplasie e per i trapianti di midollo. Si tratta di scelte industriali dovute alla convenienza di dedicarsi a nuovi farmaci biologici di più alto costo e profitto. In proposito il 25 ottobre ho ricevuto una telefonata dal prof. Umberto Tirelli, direttore del Centro nazionale tumori di Aviano, che mi aveva già allertato sulla situazione. Questa volta mi è sembrato un po´ sollevato: "Proprio oggi mi sono arrivate 17 fiale di carmustina, il farmaco che mancava da diversi mesi e che ci permetterà ora di trattare almeno tre pazienti in attesa del trapianto di midollo. Il problema è ormai comune a tutti gli istituti autorizzati a questa terapia. Molti hanno dovuto ricorrere a farmaci sperimentali, almeno 10 volte più costosi e di possibile minore efficacia. Negli Stati Uniti non c´è accordo su come affrontare il problema, anche se è stato notificato che da settembre ad oggi vi sono stati 15 decessi per mancanza di farmaci". Occorre predisporre, magari a livello europeo, una forte azione di contrasto politico ed economico. La legge del profitto senza alcun controllo può provocare disastri.

Repubblica 31.10.11
Chi ha paura del referendum
di Ilvo Diamanti


Il referendum per abolire l´attuale legge elettorale incombe e incute molti timori tra i dirigenti e i parlamentari dei partiti. In modo trasversale. D´altronde, il cosiddetto Porcellum attribuisce ai gruppi dirigenti un grande potere nella scelta delle candidature. Il che significa: nella scelta degli eletti, visto che attualmente gli elettori non hanno la possibilità di votare per i candidati, ma solo per le liste e per le coalizioni.
Il che spiega la resistenza dei parlamentari nei confronti di un referendum che li costringerebbe a stabilire un rapporto con la società e il territorio, divenuto, quantomeno, accessorio. Per la stessa ragione, tuttavia, questo referendum interessa molto agli elettori. Lo dimostra, in primo luogo, il numero delle firme raccolte dai promotori: oltre 1 milione e 200 mila. Senza una adeguata visibilità sui media – semmai il contrario. E senza che i maggiori partiti mobilitassero, a questo fine, la loro organizzazione – semmai il contrario. Ma il consenso per il referendum, oggi, appare molto esteso fra i cittadini, come emerge da un sondaggio condotto da Demos alcuni giorni fa. Quasi metà degli elettori (intervistati) - per la precisione: il 46% - afferma, infatti, di essere d´accordo sull´abrogazione dell´attuale legge elettorale. Intenzionato, al tempo stesso, a votarlo. Un ulteriore 18% ne condivide l´obiettivo, ma è ancora incerto se votarlo. Nel complesso, circa i due terzi degli elettori sono d´accordo con il quesito referendario, mentre quasi la metà appare già in questa fase disposta a partecipare alla (eventuale) consultazione. Si tratta di un orientamento molto chiaro, indicativo di un sentimento ampiamente condiviso fra i cittadini. Tanto più se si tiene conto che il referendum costituisce ancora una prospettiva, un´ipotesi, per quanto sentita dagli elettori. D´altronde, la disponibilità dei cittadini a intervenire direttamente su questioni di grande interesse pubblico è già emersa esplicitamente in occasione dei referendum dello scorso giugno. A cui ha partecipato oltre il 57% degli elettori. Sollecitati dai temi della consultazione, che riguardavano aspetti importanti relativi al "bene comune". L´acqua, i servizi locali, la tutela dell´ambiente, il nucleare. Questa partecipazione inattesa, tuttavia, riflette anche l´insoddisfazione verso le forze politiche di governo. E non solo di governo. Ma, soprattutto, rivela una domanda di partecipazione e di impegno diretto nella vita pubblica largamente diffusa nella società. Tuttavia, il consenso verso i due referendum ha confini sociali in parte differenti. Fra coloro che affermano di aver votato al referendum sui "beni comuni" dello scorso giugno, infatti, circa il 63% sostiene che voterà anche per abrogare il Porcellum. Oltre un terzo, dunque, al proposito, esprime dubbi oppure dissenso. Tuttavia, il 24% di coloro che avevano disertato la consultazione dello scorso giugno afferma che voterà contro l´attuale legge elettorale. Segno che, oltre alla "domanda" di partecipazione, contano le "domande" che la ispirano. Per questo motivo il profilo degli elettori si differenzia, in qualche misura, in base alle questioni e ai quesiti sollevati dai referendum. Rispetto agli elettori che avevano partecipato al referendum dello scorso giugno, quelli favorevoli al referendum elettorale appaiono, infatti, maggiormente concentrati: a) nelle classi di età centrale e matura (30-60 anni), b) tra i liberi professionisti, i dirigenti, i tecnici e i ceti medi intellettuali. Mentre, a giugno, la partecipazione maggiore (rispetto alla media) si era verificata tra i giovani e i giovanissimi e tra gli studenti. Il sostegno ai referendum elettorali, inoltre, appare maggiormente esteso a centrosinistra e a sinistra. In particolare, fra gli elettori del Movimento 5 Stelle (80%) di Sel (73%) e del Pd (64%). Mentre i referendum di giugno avevano ottenuto un consenso più trasversale.
Tuttavia, lo ripetiamo, quasi i due terzi degli elettori che hanno partecipato ai referendum sui "beni comuni" affermano che voterebbero anche contro l´attuale legge elettorale. Calcolati sull´intero corpo elettorale, questi "referendari" convinti sono circa il 36%. Oltre un terzo degli elettori. Tra di loro assumono un peso maggiore, rispetto alla media, gli elettori di sinistra e di centrosinistra. Ma sono presenti in misura significativa anche quelli di centro e di centrodestra. Li accomuna la disponibilità a impegnarsi e a mobilitarsi per "cambiare". Non solo e non tanto una legge, per quanto importante. Ma il sistema politico e le istituzioni. Per questo si sentono molto vicini alle ragioni e alle manifestazioni degli "indignati" (70%). Mentre esprimono grande insoddisfazione nei confronti del governo, ma anche verso l´opposizione di centrosinistra (meno del 30% dei referendari la valuta positivamente). Per questo motivo sono percepiti come un pericolo dai gruppi dirigenti dei partiti principali. In primo luogo, dai leader delle forze politiche di governo. Perché i referendum hanno, spesso, costituito dei punti di svolta critici. Da ultimi: i referendum elettorali del 1991 e del 1993 hanno accelerato il crollo della Prima Repubblica e avviato il passaggio alla Seconda. È comprensibile che questo nuovo referendum elettorale, spinto da quello dello scorso giugno, susciti grande apprensione tra chi teme una svolta definitiva. Oltre il berlusconismo. Ma anche oltre l´antiberlusconismo. Perché decreterebbe la crisi definitiva della leadership del governo di centrodestra. Ma metterebbe in discussione anche quella dell´opposizione di centrosinistra. In particolare, nel Pd, dove Pippo Civati, una settimana fa, e soprattutto Matteo Renzi, ieri, hanno apertamente contestato le "vecchie burocrazie di partito". D´altronde, il gruppo dirigente del Pd, verso i referendum di giugno, ha espresso un sostegno tardivo. Quasi fuori tempo massimo. Mentre verso il Porcellum ha manifestato un orientamento diffidente e reticente. In contrasto con l´atteggiamento convinto dei militanti e degli elettori. Ma c´è da dubitare che il Pd possa battere Berlusconi e il centrodestra conducendo la sua lotta asserragliato nelle aule del Palazzo. Scommettendo sul passaggio da uno schieramento all´altro di parlamentari (sedicenti) "responsabili". Piuttosto che puntare sulla "sfiducia" del Parlamento è meglio investire sulla "fiducia" nella società. E nel movimento "invisibile" che, quando ne ha l´occasione, come in questi referendum, non esita a mobilitarsi. A diventare "visibile".

Corriere della Sera 31.10.11
Moneta e libero scambio: la Cina tratta sull'Euro
di Paolo Salom


Nell'Arte della guerra, il generale e filosofo Sun Tzu (544-496 a. C.) osserva: il miglior risultato che si può ottenere su un campo di battaglia è vincere senza combattere o, comunque, con il minimo possibile di perdite umane e materiali. Per ottenere questo risultato è indispensabile pianificare ogni mossa, ogni dettaglio, ogni decisione. Una visione interiorizzata e, come dimostrerà millenni più tardi Mao Zedong, molto diversa dai canoni di von Clausewitz: «Quando il nemico attacca — ordinava il futuro Grande timoniere durante la lotta contro Chiang Kai-shek — noi ci ritiriamo. Quando il nemico si ritira, noi lo inseguiamo».
Il G20 di giovedì, a Cannes, non dovrebbe presentarsi come una battaglia campale. Ma i cinesi arriveranno preparati come se lo fosse. Vero che a Pechino sono giunte (esplicite?) richieste di «collaborazione» — la telefonata del presidente francese Nicolas Sarkozy all'omologo Hu Jintao dopo il vertice europeo del 27 ottobre e la visita, a Pechino, un giorno più tardi, di Klaus Regling, capo del Fondo europeo di stabilità finanziaria. Tuttavia, per ottenere l'aiuto della Repubblica Popolare (Paese che nei suoi forzieri conserva riserve in valuta per tremila e più miliardi di dollari), i leader europei dovranno convincere i loro ospiti orientali del vantaggio strategico di una simile scelta.
Sul piatto, al momento, ci sarebbe un'offerta di 50-100 miliardi di dollari che andrebbero a integrare il Fondo gestito da Regling. Un assaggio, un primo passo, per verificarne l'utilità (in termini di ritorno politico ed economico). Intendiamoci, i cinesi hanno ben presente quanto l'Europa sia importante per la «fabbrica del mondo»: l'interscambio commerciale, nel 2010, ha raggiunto i 363 miliardi di euro. Se la Cina resterà a guardare e lascerà precipitare la crisi, perderà uno sfogo essenziale per le sue esportazioni. Per non parlare degli investimenti diretti delle aziende occidentali. D'altro canto, la consapevolezza, lo status internazionale raggiunto da Pechino — potenza globale vicina ai momenti di maggior splendore della sua Storia — consiglia a Hu Jintao e compagni di flettere solo un poco i muscoli e ottenere quei vantaggi che ora appaiono alla loro portata. Di che cosa ha bisogno la Cina? Intanto e prima di tutto, i suoi sherpa, nelle decisive ore di preparazione del vertice, potranno avanzare la richiesta di riconoscimento dello status di «economia di mercato» — l'Europa non lo ha mai concesso — e, ancora, potrebbero chiedere concessioni sul ruolo internazionale dello yuan, divisa non convertibile al centro di una tensione latente con gli Usa che insistono nel chiederne l'apprezzamento. I cinesi potrebbero infine pretendere un peso decisionale maggiore all'interno dell'Fmi (è sul piatto da tempo) a detrimento proprio di alcuni Paesi europei.
Queste ipotesi — perché tali sono al momento: nessun dettaglio è trapelato a proposito dei contatti dei giorni scorsi — non sono del tutto condivise. C'è chi (l'Economist) dubita della reale volontà di effettuare un simile baratto: «Ottenere concessioni politiche in cambio di aiuti in denaro significherebbe che gli investimenti non sono commercialmente attraenti», sottolinea il settimanale britannico.
Allora? Sun Tzu, osservando lo scenario, potrebbe trovare una via d'uscita inaspettata. O meglio, potrebbe notare che, in questo momento, l'Europa ricorda il Titanic con il suo abbrivio che l'avvicina sempre più a un iceberg. Mentre la Cina potrebbe tranquillamente salvare la nave alla deriva, stendendo solo un braccio. E conquistarne il carico. Senza il minimo sforzo.

La Stampa 31.10.11
“La salvezza dell’euro dipende dalla Cina”
Gros e Padoan: è l’unico fatto nuovo emerso dal vertice europeo
di Marta Dassù


L’intervento di Pechino a sostegno dell’Eurozona è gradito, ma c’è già chi teme che i cinesi richiedano troppe contropartite e che la loro intrusione nel continente si riveli difficile da sopportare

Partiamo dal vertice europeo della settimana scorsa, che ha finalmente approvato un pacchetto salva-euro. È uno schema che potrà funzionare? I mercati sembrano scettici.

Pier Carlo Padoan: «Il pacchetto va nella giusta direzione, quantomeno per i capitoli che ha affrontato: banche, debito sovrano, crisi greca, meccanismi di finanziamento. Ma non è certo sufficiente nel contenuto, perché mancano cifre precise e dettagli cruciali. Queste ambiguità si riflettono nella reazione dei mercati: dopo una breve euforia, è tornato il pessimismo». Daniel Gros: «I temi affrontati sono quelli giusti, certo. Ma il mio giudizio è che non c’è stato alcun progresso rispetto a due settimane fa: cosa è cambiato realmente? Ho poi seri dubbi sulle modalità che sono state scelte per ricapitalizzare le banche. Una volta deciso di far pagare un costo salato agli attuali azionisti, l’intervento di ricapitalizzazione andrebbe fatto in modo molto rapido. Allungando i tempi, infatti, le ripercussioni negative sull’economia aumentano: purtroppo sta succedendo proprio questo».
Almeno una novità c’è stata: la «gamba cinese» di quel veicolo speciale che dovrebbe servire a potenziare l’Efsf, il fondo salvaStati. Ma perché la Cina dovrebbe investire di più quando non è pronta a farlo la Germania?».
Gros: «È vero, il coinvolgimento finanziario della Cina è una possibile novità. Ma io la considero preoccupante: il rischio è che la Cina diventi una gamba centrale del fondo salva-Stati, assumendo un peso eccessivo». Padoan: «Mi sembra una preoccupazione infondata. Quella che si sta costruendo è una Quale ruolo deve avere la Cina nel salvataggio dell’Eurozona? Ne hanno discusso Pier Carlo Padoan, Professore ordinario presso la facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma, e l’economista Daniel Gros, direttore del Ceps, centro studi per le politiche europee con sede a Bruxelles.
I due esperti hanno messo a confronto le loro posizioni in una conversazione moderata da Marta Dassù e svolta a margine della seconda edizione del «Trialogue» Europa-Stati Uniti-Cina, un summit organizzagamba multinazionale più che cinese: lo schema è di coinvolgere il Fondo monetario internazionale, con un “veicolo speciale” al quale i cinesi sembrano disposti a contribuire. In generale, è un bene che la Cina sia più coinvolta nella governance finanziaria internazionale. Pechino sta cercando di costruirsi una nuova posizione finanziaria su vari fronti, a cominciare dalla possibilità di un fondo monetario asiatico e dalla partecipazione del renminbi ai diritti speciali di prelievo (il paniere di valute utilizzato dall’Fmi). Ricordiamoci che la Cina dispone di riserve per circa 3200 miliardi di dollari, che vuole impiegare in modo finanziariamente e politicamente oculato. Contribuire al pacchetto europeo rientra nell’interesse cinese a una graduale diversificazione».
È però il caso di chiedersi se avrebbe dei vantaggi nei loro rap- la contropartita per il con- porti con gli Stati Uniti. Ma agli tributo cinese - a quanto pa- europei costa piuttosto poco».
re, la concessione alla Cina Gros: «Io credo che il vero pro- dello status di economia di blema stia proprio nell’ingresso mercato - non ponga dei della Cina nel pacchetto euro- problemi. peo. È un passo che in realtà Padoan: «Non vedo gravi proble- complica la soluzione, sopratmi. È un passo a cui i cinesi tengo- tutto perché avrà effetti imporno molto soprattutto perché tanti sui paesi periferici dell’Euto dall’Aspen Institute Italia a Venezia, in collaborazione con l’Aspen Strategy Group americano e la Scuola Centrale di Partito di Pechino.
L’incontro a tre non rimarrà un evento isolato, ma si propone di diventare una piattaforma stabile per gli scambi informali tra Cina, Europa e Stati Uniti. Dopo Pechino nel dicembre 2010 e Venezia quest’anno, il terzo appuntamento è stato già pianificato e si terrà nel corso del 2012 negli Stati Uniti. sarà comunque l’unico effetto di un eventuale intervento cinese, che potrebbe per esempio far crescere la fiducia dei mercati». Gros: «Può darsi, ma ciò che mi preoccupa molto è il quadro complessivo nel medio e lungo termine. La fiducia poggia sulla capacità dei paesi periferici di tornare a crescere. Non si sfugge da questa esigenza strutturale. Lo accennavo già prima: la bilancia dell’Eurozona è complessivamente in pareggio e non ci sarebbe dunque alcun bisogno di capitali esterni. Il problema è ovviamente lo squilibrio interno, ossia la distribuzione dei capitali nell’Eurozona. Per questa ragione, la soluzione più opportuna sarebbe che la Bce funzionasse da camera di compensazione, invece di ricorrere all’Fmi o ad altri strumenti. In breve: abbiamo bisogno di una redistribuzione del risparmio». rozona. L’afflusso di capitale Padoan: «È vero, non c’è carendall’esterno rafforzerà l’euro, e za di risparmio, in Europa. Ma ciò peggiorerà ulteriormente la la verità è che le risorse disponicompetitività delle economie bili non vogliono andare a finangià deboli. La realtà è che il capi- ziare il fondo salva-Stati. Duntale europeo sarebbe sufficien- que sono ormai necessari ente. Ma continua ad essere at- trambi i canali: la Bce e i finantratto dalla Germania». ziatori esterni». Padoan: «Questo effetto negati- A giudicare dal «Trialogue» vo non mi pare scontato, e non di Venezia, americani e cinesi temono che la risposta europea alla crisi del debito sovrano sia comunque troppo lenta. Uno dei dubbi è se il mercato unico reggerà.
Gros: «In effetti gli interventi che si stanno decidendo formalizzano la dittatura dei Paesi creditori: una situazione difficilmente sostenibile. C’è troppa enfasi sulla politica fiscale, ma il problema alla radice rimane: i nostri mercati finanziari e le nostre banche sono deboli. I governi sono legati a doppio filo, e quindi ricattati, dai mercati finanziari: ciò ha reso difficile gestire un problema semplice, come la Grecia. Ma nessuno ha il coraggio di recidere questo legame, fissando nuove regole». Padoan: «È interessante notare che sta prevalendo anche in Europa, come già nel Fondo monetario, un approccio basato sulla separazione tra paesi creditori e debitori. Un riequilibrio è indispensabile, stante che abbiamo rinunciato al tasso di cambio come naturale strumento di aggiustamento. A livello nazionale, non è affatto un caso che i paesi meglio in grado di reagire alle crisi si siano dimostrati quelli che avevano già fatto le riforme: l’Irlanda per esempio. Al contrario, Paesi come la Grecia e il Portogallo non hanno analoghe capacità di aggiustamento».
Per chiudere con una previsione secca: se tutte le parti attueranno l’accordo di mercoledì scorso, la tenuta del sistema-euro può essere considerata garantita?
Padoan: «Certamente non aiuta ventilare l’ipotesi di un’uscita di alcuni Paesi, perché la solidarietà dell’Eurozona è assolutamente essenziale». Gros: «Direi che l’Italia è diventata il tassello cruciale dell’intero sistema-euro: gli altri problemi sono gestibili, per quanto complessi, ma la tenuta dell’Italia è decisiva a livello sistemico».

l’Unità 31.10.11
Tregua rotta Razzi della Jihad sul Neghev dopo l’uccisione di 9 miliziani
p Hamas mantiene il basso profilo in attesa del nuovo scambio di prigionieri
Israele-Palestina, tensione alta Nuovi raid aerei su Gaza
Raid aerei su Gaza. Razzi sulle città frontaliere. I venti di guerra tornano a spirare nella Striscia e nel sud d’Israele: 11 morti (10 palestinesi e 1 israeliano): è il bilancio di due giorni di guerra tra Tsahal e la Jihad islamica.
di U.D.G.


Raid aerei su Gaza, lanci di razzi nel Neghev. Vacilla la tregua tra Israele e Hamas. Nove miliziani della Jihad islamica palestinese sono stati uccisi l’altro ieri nel corso di raid aerei israeliani sulla Striscia di Gaza, mentre un israeliano ha perso la vita per le lesioni riportate a seguito di un lancio di razzi contro il sud dello Stato ebraico. Una scia di sangue che si è allungata anche ieri. Un palestinese è stato ucciso ieri in un raid aereo israeliano sulla Striscia, poche ore dopo l'inizio di un tacita tregua tra Israele e le milizie palestinesi. Fonti militari israeliane hanno detto che è stato colpito un gruppo di miliziani nei pressi di Rafah che si stava preparando a lanciare un razzo contro Israele, nel Neghev occidentale.
SCIA DI SANGUE
Il raid dell’esercito di Tel Aviv arriva all'indomani dell'ennesima giornata ad alta tensione nel Sud di Israele: l’altro ieri pomeriggio salve di razzi sono ripetutamente cadute nella città di confine di Ashdod, ferendo lievemente una persona, distruggendo diverse automobili parcheggiate e dando fuoco ad altre. Nella vicina Gan Yavne un'altra persona è stata ferita in modo lieve da una scheggia. Molte persone in preda a uno stato di shock hanno dovuto essere assistite. Intanto nel Sud del Paese le maggiori città (Beer Sheba, Ashqelon e Ashdod) vivono in un clima di elevata tensione, mentre da Gaza anche ieri mattina sono stati sparati in loro direzione alcuni razzi Grad. Le scuole sono chiuse, per ragioni di sicurezza. L'Alto rappresentante della politica estera della Ue, Catherine Ashton, ha condannato ieri «l'uccisione indiscriminata di civili» in seguito agli episodi avvenuti nella Striscia di Gaza e nel sud di Israele. La Ashton, in un comunicato, esprime «estrema preoccupazione» per gli scontri a fuoco nella zona e chiede «il rispetto del cessate il fuoco negoziato dall'Egitto». Nel braccio di ferro tra Israele e Jihad islamica, Hamas mantiene un basso profilo e, dietro le quinte, tenta di calmare la situazione. Fonti giornalistiche a Gaza notano che il braccio armato di Hamas (le Brigate Ezzedin al-Qassam) non ha finora partecipato ai nutriti lanci di razzi verso Israele. Le stesse fonti aggiungono che in questa fase Hamas non ha interesse ad andare ad una escalation militare con Israele. Ciò anche nel timore di pregiudicare la «seconda fase» dello scambio di prigionieri che ha portato alla liberazione del militare Gilad Shalit: dopo un primo scaglione di 477 detenuti palestinesi (già rilasciati dalle prigioni israeliane) altri 550 dovrebbero riacquistare la libertà entro due mesi. In serata un razzo sparato da Gaza è esploso a sud della città israeliana di Ashqelon, senza provocare vittime. Si tratta del secondo attacco palestinese in quella zona nelle ultime ore. Gli abitanti delle località israeliane limitrofe alla Striscia hanno avuto ordine di entrare nei rifugi, nell’eventualità che gli attacchi palestinesi si ripetano.

l’Unità 31.10.11
Il presidente in un’intervista al Sunday Telegraph: «Metteremo a fuoco la regione»
Strategia mediatica Bashar ringrazia la Russia, che ha bloccato le sanzioni all’Onu
Assad sfida il mondo «Se toccate la Siria sarà un terremoto»
Un’azione dell'Occidente contro la Siria causerebbe un «terremoto» e «metterebbe a fuoco l'intera regione». Parola di Bashar al-Assad. Il presidente siriano avverte: se ci attaccano «saranno 10 Afghanistan».
di Umberto De Giovannangeli


Un avvertimento che suona come un ricatto. Dopo quasi 4mila morti, oltre 30mila feriti. Dopo le torture sistematiche, le città sotto assedio, le carceri riempite di oppositori, Bashar al-Assad sfida l’Occidente. Un'azione dell'Occidente contro la Siria causerebbe un «terremoto» e «metterebbe a fuoco l'intera regione». «Volete vedere un altro Afghanistan, o decine di Afghanistan?», chiede il presidente siriano in una intervista concessa al Sunday Telegraph. I Paesi occidentali, afferma Assad, «aumenteranno la pressione», ma «la Siria è completamente diversa da Egitto, Tunisia, Yemen.
La storia è diversa, la politica è diversa». «La Siria aggiunge Assad è ora il fulcro della regione. È la sua linea di faglia, e se si gioca col terreno si causa un terremoto...». «Qualsiasi problema con la Siria metterà a fuoco l'intera regione. Se il piano è di dividere la Siria, cioè di dividere l'intera regione».
CHIAMATA ALLE ARMI
Il presidente ha ammesso che le forze di sicurezza avevano compiuto «molti errori» nella prima fase della protesta, ma ha dichiarato che ora prendono di mira «soltanto i terroristi». Assad sostiene di aver agito diversamente da altri leader arabi. «Non abbiamo scelto la strada del governo ostinato afferma sei giorni dopo l'inizio (delle proteste, ndr) ho dato inizio alle riforme». Assad definisce la ribellione come «una lotta tra islamismo e pan-arabismo» e aggiunge: «Abbiamo iniziato a combattere con i Fratelli Musulmani negli anni '50 e ci stiamo ancora battendo contro di loro». Ma Assad non si è limitato a sfidare l’Occidente. In un’altra uscita «mediatica» ringrazia i suoi sostenitori internazionali esortandoli a perseverare. In primi luogo, la Russia.
Il presidente siriano ha chiesto a Mosca di continuare a sostenerlo di fronte alle condanne occidentali della sua repressione delle manifestazioni. «Soprattutto, contiamo sul sostegno della Russia, un Paese al quale siamo legati da legami solidi (...). Il ruolo della Russia è estremamente importante», dichiara Assad in un' intervista alla televisione russa. «Dai primi giorni della crisi, siamo rimasti in contatto permanente con il governo russo. Teniamo i nostri amici russi al corrente di tutti i dettagli dell'evoluzione degli avvenimenti», ha aggiunto. L'appello avviene a meno di un mese dalla dichiarazione di Dmitri Medvedev, in cui il presidente russo per la prima volta invitava il suo collega siriano ad accettare le riforme o a dimettersi. Ma la Russia continua a sostenere la Siria al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e ha bloccato finora ogni proposta di sanzioni. La repressione in Siria «non può continuare» ed il regime di Assad deve «rispettare e rispondere alle aspirazioni e alle richieste legittime del popolo siriano». Lo ha detto l'inviato cinese per il Medio Oriente, Wu Sike, in visita al Cairo, sottolineando di aver espresso questo auspicio in una sua recente visita a Damasco. In quell'occasione «ho sottolineato ad alti funzionari in Siria il pericolo della situazione». La Lega Araba ha avvertito il presidente siriano che un intervento internazionale sarà inevitabile se dovesse fallire la sua mediazione che ha l'obiettivo di fermare le violenze. Lo riporta il quotidiano kuwaitiano al-Qabas. Ieri si è svolta una riunione a Doha tra una delegazione ministeriale della lega Araba e responsabili siriani, che hanno portato la risposta di Damasco alle richieste formulate dalla stessa delegazione nel corso di una riunione, mercoledì nella capitale siriana, con Assad. Citando fonti arabe ben informate, il giornale afferma che «la delegazione araba è stata franca e chiara nel corso della sua riunione con la direzione siriana. E l'ha avvertita che se dovesse fallire una soluzione araba, questo porterebbe a una internazionalizzazione della crisi». «Ciò significa hanno precisato le fonti che la Siria si dovrà aspettare un intervento straniero e un embargo economico».
SCONTRI A HOMS
Nel Paese, intanto, continuano le violenze. Venti soldati dell’esercito siriano sono stati uccisi e altri 53 sono rimasti feriti in scontri con presunti soldati disertori a Homs, nel centro della Siria. Lo ha reso noto l’Osservatorio siriano dei diritti dell’Uomo (Osdh). «Venti soldati hanno perso la vita e altri 53 sono rimasti feriti in scontri tra l’esercito e uomini armati, forse disertori, nel quartiere di Baba Amro a Homs», ha indicato l’Osdh.

Corriere della Sera 31.10.11
Diritti e impegno, armi della pace
Da Aristofane a Gandhi, da Hugo ad Einstein: tutti i campioni della «non violenza attiva»
di Michele Ainis


L'Arco della Pace è un imponente monumento che taglia in due piazza Sempione, nel cuore di Milano. Ora è anche il titolo di un'opera monumentale: 3 volumi, 16 capitoli, 1.800 pagine. La firma Carlo Vallauri per i tipi di Ediesse, con l'ambizione di colmare un vuoto nella nostra narrazione collettiva, scrivendo una storia della pace. È un nuoto controcorrente, quello di Vallauri: come quello dei salmoni. Perché i libri di storia raccontano le guerre, non la pace. La pace per definizione non ha storia, o forse è fuori dalla storia.
E infatti il racconto della pace significa anzitutto esplorare un sogno, un desiderio, un'utopia che l'umanità coltiva da tempo immemorabile. Che si riflette per esempio in una commedia di Aristofane (Lisistrata), dove le donne imbastiscono uno sciopero del sesso per costringere i mariti a deporre le armature di battaglia. Che cova in tempre insospettabili, perfino nei capi militari: dopo la vittoriosa spedizione dei Mille, Garibaldi inviò da Napoli un memorandum alle potenze europee, invitandole a sciogliere gli eserciti e le flotte. Che scaglia maledizioni contro l'idea stessa della guerra: una follia, diceva Erasmo da Rotterdam.
Sicché in questi tre volumi sfila una galleria di personaggi storici, di pensatori, papi, artisti, condottieri. Di campioni della pace come Gandhi, o come Einstein, il cui ultimo gesto prima di morire fu la sottoscrizione d'un manifesto contro le armi nucleari. E a un certo punto la storia si mescola con la storiografia, con la sociologia, con la psicologia sociale. Con le dottrine politiche, filosofiche, giuridiche. L'andatura si fa rapsodica e incostante. Vi si riversano letture talora un po' disordinate, lunghe digressioni che spezzano il filo degli eventi. È un'opera irregolare, quella di Vallauri. D'altronde è irregolare anche l'autore: dirigente pubblico, storico, scrittore, giornalista. Difficile catturarlo in un'unica etichetta.
C'è però una regola, c'è una bussola nel lungo racconto di Vallauri. O meglio ce ne sono due, ed è su questa doppia proposta di lettura che occorre soffermarsi. In primo luogo il nesso tra movimenti e istituzioni: perché i gruppi che s'oppongono alla guerra hanno bisogno di forgiare strutture stabili e coese, se vogliono incidere sul corso della storia. Allo spontaneismo deve subentrare l'organizzazione. E a quest'ultima l'azione pratica, concreta: come quando nel 1914 un inglese (Modgkin) e un tedesco (Schulze) fondarono il Movimento per la riconciliazione, che inventò l'obiezione di coscienza al servizio militare.
Non che tale sforzo, di per sé, sia sufficiente. C'è spesso nelle guerre un che d'accidentale, un errore di calcolo, un elemento imponderabile che sfugge ai piani delle stesse istituzioni. Ne è prova la carneficina innescata nel primo Novecento, quando nessun governo aveva realmente l'intenzione di aprire un conflitto mondiale. Proprio per questo, tuttavia, servono contrappesi da opporre alla forza cieca degli eventi. Servono luoghi d'ascolto e di moderazione, dove si parli il linguaggio della pace.
Ma è un linguaggio impervio, specie nei momenti di tensione che precedono le guerre. In quei frangenti devi schierarti, o di qua o di là. Altrimenti t'accuseranno d'intelligenza col nemico, come accadde nel 1932 ai pacifisti francesi guidati da Romain Rolland. Del resto assai spesso i movimenti sono stati vittime delle loro stesse contraddizioni. È successo negli anni Sessanta e Settanta del secolo XX, nel dopo Vietnam che pure scolpì nelle coscienze il valore della pace, senza però impedire uno sguardo strabico e distratto verso la violenza di Stato dei Paesi socialisti. Succede per lo più rispetto alla domanda su cui parrebbe infrangersi il sogno della pace: è giusto tollerare gli intolleranti? È utile una risposta pacifica alla prepotenza altrui?
Qui la risposta più plausibile è quella che dettava Einstein: una pace «non disarmata». Ma nella storia umana le risposte sono state innumerevoli, come i convegni (memorabile quello del 1848 a Parigi, presieduto da Victor Hugo), le consulte per la pace (in Italia la prima nacque nel 1962), le leghe internazionali (come «No Peace without Justice»), le manifestazioni (quella del 1982 a New York radunò 700 mila persone), le encicliche papali (a partire da Pacem in Terris di Giovanni XXIII), i centri studi sul disarmo (come lo Stockholm International Peace Research), o per l'appunto i movimenti pacifisti sorti in Europa e altrove dopo la seconda metà dell'Ottocento.
Queste esperienze danno corpo e forma all'istanza della pace, e dunque segnano il passaggio — per così dire — da una sfera pregiuridica a un'altra regolata dalle norme, dalle istituzioni. Da qui il tentativo d'assoggettare anche la guerra al mantello del diritto (la prima teoria si trova in Grozio: De iure belli ac pacis, 1625). Da qui, più in generale, il nesso fra pace e diritti — l'altra bussola che orienta la ricerca di Vallauri. E d'altronde, se parlano le armi, i diritti sono costretti a tacere. Al pari delle istituzioni che li garantiscono, che li rendono effettivi. Qualcuno saprebbe forse immaginare un tribunale costituzionale all'opera mentre nelle strade divampa una rivoluzione?
I diritti, quindi, sono la cartina al tornasole della pace. Se retrocedono, se in qualche caso vengono sospesi, significa che abbiamo già le gambe immerse in un tempo di guerra. E non è forse (ancora) questo il nostro tempo? All'alba del terzo millennio si contavano una ventina di guerre civili, dalla Liberia all'Indonesia. Il giorno dell'attacco alle Torri gemelle di New York, altrove (in Africa, in Asia, nel remoto Oriente) morirono molte più persone in guerre dimenticate dai mass media. Eppure quelle guerre ci riguardano, ci toccano da fin troppo vicino. Sono l'effetto d'una diseguaglianza che cresce fra gli Stati (il paese più ricco, il Qatar, ha un reddito pro capite 428 volte maggiore del più povero, lo Zimbabwe). E che si riflette poi dentro gli Stati, alimentando disordini di piazza, in Italia come in Grecia. Non c'è pace senza giustizia. E non c'è giustizia senza eguaglianza, come diceva Kant.

La Stampa 31.10.11
Benvenuti all’Hotel Mengele Il Paraguay segreto dei nazi
Nelle stanze che ospitarono criminali e sostenitori di Hitler in Sud America
di Paolo Manzo


L’albergo che ospitò il medico dei lager è a San Bernardino ancora oggi isola germanica
All’inizio del ’900 viveva qui il cognato anti-semita di Friedrich Nietzsche
In città tutti ricordano Hilda Pilota, cacciatrice di felini e «amica intima del Führer»
A villeggiare arrivano benestanti paraguaiani e nostalgici dal Brasile

SAN PAOLO. Bastano 40 dollari per rivivere il brivido del nazismo in Sudamerica. È il prezzo per notte nella stanza più lussuosa dell’Hotel del Lago, costruito nel 1888 sulle rive dello Ypacaraí, in Paraguay, a una quarantina di chilometri dalla capitale Asunción, nella cittadina di San Bernardino. In Paraguay, Paese che non è bagnato dal mare, è oggi il posto più trendy per trascorrere le vacanze. Nel mondo, invece, San Bernardino è tristemente famosa per aver accolto a lungo Joseph Mengele, il «dottor morte» di Auschwitz, in fuga dalla Germania hitleriana sconfitta e rifugiato per decenni in Sud America.
A San Bernardino, secondo alcune ipotesi mai confermate, il pluriricercato criminale nazista sarebbe anche morto, e non in Brasile come comunemente si pensa. In ogni caso, Mengele non è l’unico fantasma ingombrante di questo villaggio, fondato da cinque famiglie tedesche nel 1881, che ospita ancora oggi una delle più chiuse comunità germaniche, quella dei menoniti.
L’hotel è tuttora molto frequentato e dispone anche di un centro culturale per la promozione dell’artigianato. Ma dietro la facciata da paesino pacifico e immerso nel verde della natura tropicale, San Bernardino nasconde una vera concrezione del pensiero nazista. Mentre una delle cameriere sorridendo accompagna l’ignaro visitatore nella suite più bella attraversando l’antico salone, rimasto come nell’Ottocento, in perfetto stile teutonico, altre storie vengono a galla.
In una delle stanze dell’Hotel del Lago, fatto costruire dall’architetto tedesco Wilhelm Weiler, si suicidò con un mix a base di morfina e stricnina il cognato del filosofo Friedrich Nietzsche, Bernhard Förster, marito della sorella Elisabeth, temerario esploratore ma anche convinto antisemita. Dopo il fallimentare esperimento di creare una colonia ariana interdetta agli ebrei in Paraguay, con il nome di Nueva Germania, Bernhard preferì la morte al disonore. Quando poi il nazismo acquistò popolarità in Paraguay, attorno al 1930, Förster divenne una specie di eroe e il Führer in persona ordinò di far spargere terra tedesca sulla sua tomba. È davanti alla sua stanza, la numero 19, che si deve passare per raggiungere la tanto celebrata suite, almeno dalla direzione dell’albergo.
E il viaggiatore sobbalza. Per anni «la stanza della torre», come fu ribattezzata, fu la preferita da una delle donne più influenti di San Bernardino, la franco-tedesca Hilda Ingenohl, meglio conosciuta come «la Tigresa» per la sua passione sfrenata verso i felini, cui dedicava intere stagioni di caccia in Sudafrica.
«Era filonazista - rivela un’abitante di San Bernardino che preferisce rimanere anonima -: stravedeva per le teorie di Hitler. E diceva di essere sua amica». Certo è che se si va a indagare meglio il curriculum di questa signora appaiono molti punti oscuri. Nata a Parigi nel 1874 prestò servizio come infermiera in Europa durante la Prima guerra mondiale. Ma l'altra sua grande passione, a parte le bestie feroci, erano gli aerei. E in molti riferiscono che durante la guerra fu in realtà una provetta pilota d’aviazione. Fu la quarta donna al mondo a tentare un volo ininterrotto intorno al mondo, ma invano.
Dopo il 1918 arriva in America Latina, prima in Uruguay, su invito di Grete Goetsch, moglie dell’ambasciatore tedesco, poi in Argentina dove finisce per dirigere l’Ospedale tedesco di Rosario, infine a San Bernardino, di cui si innamora. Compra duecento ettari di terreno ma trascorrerà molto tempo nella «stanza della torre» all’Hotel del Lago. Uno spartano letto matrimoniale, un armadio il cui specchio rimanda l’immagine della stanza e l’altro specchio affrontato, un ampio balcone da cui dominare tutta l’entrata dell’hotel. Questo era il suo piccolo regno dal quale pianificava le sue continue escursioni in Europa. Amava anche la musica classica e a San Bernardino creò un’orchestra per giovani cui dava personalmente lezione. Ebbe perfino una storia d’amore con il famoso musicista paraguayano Florentín Giménez. Ma quando si ammalò di cancro tornò in Germania, a Bonn, nel 1953.
«In questo albergo soggiornarono anche Antoine de Saint-Exupéry prosegue per cambiare argomento l'improvvisata guida messa a disposizione dell’albergo -. Scrisse qui Volo di notte . All’epoca coordinava il servizio aereo postale tra Argentina e Paraguay. E venne qui anche la scrittrice svedese Ida Bäckmann». Nomi più spendibili, che però ancora oggi sono appannati dall’ombra del filonazismo, lo scheletro più ingombrante di questa terra dove, nel 1927, fu fondato il primo partito nazionalsocialista al mondo fuori dalla Germania.

Corriere della Sera 31.10.11
Il divenire umano secondo l’Induismo
di Giorgio Montefoschi


L a radice vid, da cui derivano le parole Veda (gli antichi testi dell'induismo) e Vedanta, significa, insieme, sapere e vedere. Il Vedanta — scrive René Guénon nel suo libro fondamentale L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta (Adelphi, pp. 171, 12) — è la Scienza Sacra per eccellenza: una dottrina metafisica suprema, aperta a concezioni illimitate che, come l'Assoluto, non ammette definizioni, limitazioni o confini. Le Upanishad, facenti parte del Veda, sono la base fondamentale del Vedanta. Tutto quello che esprime il Vedanta, questo percorso di conoscenza e sapere che culmina nella «Liberazione finale», è contenuto nelle Upanishad. Ma noi occidentali — ammonisce Guénon — dobbiamo abbandonare le nostre categorie mentali con le quali, da altrettante migliaia di anni, definiamo la vita e la morte, l'eternità e Dio, se vogliamo accostarci a quel cammino e alla essenza di quel pensiero.
Noi occidentali siamo abituati a definire: Brahma, l'essere supremo dell'induismo, è al di là di ogni definizione e di ogni distinzione. La sua manifestazione nel mondo non è nulla più che una «illustrazione», una illusione simile al miraggio dell'acqua nel deserto. La realtà profonda è invece l'Atma, e cioè lo Spirito Universale: una diretta emanazione di Brahma, che vive nel mondo e nel cuore dell'uomo, e dunque, è conoscibile dall'uomo. L'uomo, infatti, vive in una esistenza corporea, «grossolana», e in un «stato sottile». Il suo «stato sottile» — quello che gli occidentali chiamano anima — partecipa dell'Essere Universale e ha la sua dimora nel centro vitale dell'individuo: vale a dire, il cuore.
Meravigliosa (ma ecco che noi cristiani sentiamo una eco di parole lette altrove) è la descrizione che la Chhandogya Upanishad fa di questa presenza dell'Essere nel cuore: «L'Atma che sta nel cuore è più piccolo di un chicco di riso, più piccolo di un chicco d'orzo, più piccolo di un chicco di senape, più piccolo del germe racchiuso in un chicco di miglio; questo Atma che sta nel cuore è anche più grande della terra, più grande dell'atmosfera, più grande del cielo, più grande di tutti questi mondi messi insieme». Il più piccolo è il più grande. Vive in una cavità infima dell'essere umano: ma è immenso, indefinibile, fuori dello spazio e del tempo.
L'immortalità, che per gli occidentali consiste in un prolungamento indefinito della vita (e per i cristiani contempla il mistero glorioso della resurrezione della carne), per il Vedanta non si identifica con l'Eternità, non ha nulla in comune col «passato» individuale e terreno. Al momento della morte, lo «stato sottile», l'anima, accompagnata da tutte le sue facoltà (come dignitari accanto a un re) si ritira in una essenza luminosa. Attorno al cuore, esistono cento e più arterie. Una di queste attraversa la testa e va nella Luce: incontra un raggio di luce che non è altro che una emanazione di Brahma.
Non appena raggiunge la realtà assoluta, l'individualità svanisce con tutte le sue determinazioni limitative e contingenti, e resta la sola personalità nella pienezza dell'essere. Sta scritto: «Il Sé di colui che ha raggiunto la perfezione della conoscenza divina (Brahma) e che di conseguenza ha ottenuto la Liberazione finale, ascende, lasciando la sua forma corporea, alla luce suprema che è Brahma e a lui si identifica in maniera conforme e indivisa, come l'acqua pura, mescolandosi con il lago limpido (senza tuttavia perdersi in alcun modo), diviene in tutto conforme ad esso». È un percorso lungo. Lo Yogi (la parola Yoga significa unione) lo può anticipare sulla terra, con l'aiuto della meditazione e dei riti. Questi sono strumenti, o «supporti»: forme esteriori (che Guénon accomuna in qualche modo ai sacramenti della religione cattolica) che contengono però una realtà divina, di cui l'uomo, proprio per la sua condizione terrena, «ha bisogno». Il percorso agevolato dalla meditazione e dai riti è paragonato, nel Veda, al percorso più veloce che un uomo può fare per raggiungere una meta, se cavalca un cavallo da sella. Ma la meta — viene precisato — in «tempi» diversi, la possono raggiungere tutti.

Repubblica 31.10.11
Elogio degli insegnanti
Perché la tecnologia non può sostituirli
di Massimo Recalcati


Spesso sono messi sotto accusa. Dal ministro, dai genitori. Eppure non possono essere rimpiazzati da un computer: proprio perché sono umani e sanno sbagliare
Le possibilità della Rete escludono l´eros che abita da sempre ogni relazione formativa
Oggi i professori bravi possono sentirsi molto soli ma sanno evitare le cadute nella noia

Un bravo insegnante, raccontava una volta un grande psicoanalista come Moustapha Safouan, si riconosce da come reagisce quando, salendo in cattedra, gli capita di inciampare. Cosa saprà fare di questo inciampo? Ricomporrà immediatamente la sua immagine facendo finta di nulla? Rimprovererà con stizza le reazioni divertite dei ragazzi? Nasconderà goffamente il suo imbarazzo? Oppure prenderà spunto da questo imprevisto per mostrare ai suoi alunni che la posizione dell´insegnante non è senza incertezze e vacillazioni, che non è al riparo dall´imprevedibilità della vita?
Potrà allora far notare che lo studio più autentico e appassionato non è mai esente dall´inciampo perché è proprio questo, come il fallimento, a rendere possibile la ricerca della verità. Certamente ci sono insegnanti che separano il sapere dalla vita e che offrono ai loro alunni solo una serie di nozioni nate già morte. In questi casi non c´è vita ma routine e un uso sterile del sapere.
Ma se esiste una vocazione all´insegnamento, non può che radicarsi nell´inciampo. E questo mostrano una serie di libri usciti in questo periodo che, nonostante tutto, sono dichiarazioni appassionate per la scuola e per chi tutti i giorni ci lavora e si dispera: da L´iguana non vuole di Giusi Marchetta (Rizzoli) a Ti voglio bene maestro! di Giuliano Corà (Angelo Colla Editore). Raccontano le loro difficoltà, gli errori, confessano le fragilità. E insieme rinnovano la voglia di andare avanti.
D´altra parte i bravi insegnanti sanno di cosa parlo; loro stessi sono inciampati almeno una volta prima di salire in cattedra e continuano ad educare i loro allievi alla contingenza imprevedibile della vita. Ricordiamo gli insegnanti che sono stati per noi degli inciampi che ci hanno sottratti alle nostre abitudini mentali e ci hanno fatto pensare in modo nuovo. Il nostro tempo favorisce invece l´assimilazione dell´insegnante ad un computer, ad un tecnico di un sapere senza corpo, totalmente disincarnato. Nel tempo in cui la rete sembra scalzare la funzione dell´insegnante offrendo un sapere a portata di mano e senza limiti, dobbiamo ricordare che essa non ha un corpo, non può animare l´erotica dell´apprendimento. Le possibilità della rete e la computerizzazione tecnologica dell´insegnamento sembrano invece coltivare l´illusione dell´esclusione del corpo dalla relazione didattica. Ma solo un cognitivismo esasperato può pensare di separare i processi di apprendimento dall´eros che abita da sempre ogni relazione formativa.
La psicoanalisi e la pedagogia più illuminata insistono su questo punto: le possibilità dell´apprendimento hanno come condizione l´eros del desiderio. Pensare di trasmettere il sapere senza passare dalla relazione con chi lo incarna è un´illusione perché non esiste una didattica se non entro una relazione umana. Coloro che vorrebbero ridurre il processo di apprendimento e di insegnamento alla trasmissione tecnologica e asettica di pratiche codificate cognitivamente e che ripongono la loro speranza nella definizione di un metodo efficiente di assimilazione e di organizzazione dei saperi, pretendono di cancellare l´intrusione del corpo nella relazione didattica e commettono un errore ossessivo in senso clinico.
Il bravo insegnante non è colui che nega il valore del sapere, non è colui che proclama il suo azzeramento, ma è colui che mentre lo trasmette sa anche mantenerlo sospeso. Questo doppio tempo della dinamica formativa lo ritroviamo nella vita quotidiana di ogni insegnante e di ogni allievo come oscillazione tra la necessità dell´applicazione, del metodo, dell´ostinazione, della fatica e del sacrificio e possibilità dell´erotizzazione del mondo attraverso il linguaggio, del desiderio di conoscenza, del viaggio, dell´avventura, dell´andare altrove, al largo, lontano, alla scoperta di altri mondi, verso l´inedito e il non ancora conosciuto.
Nel nostro tempo l´insegnante è sempre più solo. Questa solitudine non riflette solo la sua condizione di precariato sociale, ma anche la rottura di un patto generazionale coi genitori. Lo studio dello psicoanalista ne raccoglie i cocci: genitori sempre più complici e alleati di figli sempre meno riconoscenti e sempre più pretenziosi. Genitori che anziché sostenere l´azione educativa della scuola, di fronte al primo ostacolo, preferiscono spianare la strada ai loro figli, togliere gli ostacoli, evitare l´inciampo, per esempio cambiando scuola o insegnanti, insomma recriminando continuamente contro l´Altro come fanno i loro stessi figli.
Un tempo l´alleanza generazionale tra genitori e insegnanti non era mai in discussione. Il rischio era quello di giustificare derive autoritarie del processo educativo. Oggi però questa alleanza tende a dissolversi. L´ostacolo della differenza generazionale e dell´insuccesso scolastico viene vissuto solo come una frustrazione da evitare. In questo difficile contesto la domanda che assilla l´insegnante nella sua solitudine si radicalizza: come può continuare ad amare ciò che fa? come può resistere all´appassimento, all´accomodamento del sapere somministrato secondo gli standard stabiliti? come può tenere viva la passione che comporta la sua pratica?
I bravi insegnanti sanno rinnovare ogni giorno il loro desiderio solo perché conoscono le insidie della caduta nella noia e nella ripetizione e si impegnano a ricercare i giusti antidoti sopportando la solitudine che la sfaldatura del patto generazionale tra gli adulti comporta. Per questa ragione il tempo dell´inciampo resta essenziale perché mantiene sveglio l´insegnante stesso e, di conseguenza, impedisce anche ai suoi allievi di addormentarsi.
Un mio vecchio professore di filosofia commentando con il solito rigore e la sua chiarezza cristallina la Scienza della logica di Hegel, di tanto in tanto alzava gli occhi al cielo e ci diceva; "qui veramente non possiamo più seguire Hegel; chissà cosa avrà visto?". Il mio vecchio professore di filosofia non aveva imbarazzo nell´inciampare sul testo che commentava perché sapeva bene che questo inciampare ci avrebbe aiutato ad autorizzarci a pensare con la nostra testa, cioè a cercare il nostro modo personale di inciampare sul testo.
Il bravo insegnante, nelle Scuole elementari come all´Università, è colui che non ha né paura né vergogna del suo non sapere, della sua ignoranza (che Cusano avrebbe definito "dotta") perché sa che i limiti del sapere sono ciò che animano la spinta della conoscenza. E´ il grande peccato che racconta il mito biblico dell´albero della conoscenza. In cosa consiste? Nell´illusione umana di accedere al sapere come dominio, alla conoscenza assoluta del bene e del male, ad un sapere che pretende di essere padrone della vita, che pretende di escludere l´inciampo.