martedì 1 novembre 2011

l’Unità 1.11.11
Il leader del Pd lancia l’appello alla partecipazione per la manifestazione di sabato
«Venite tutti con la bandiera tricolore e insieme impegniamoci a iniziare un’altra storia»
Bersani alla sfida della piazza «Italia in pericolo, ora la svolta»
Bersani invita ad andare a San Giovanni «tutti coloro che hanno a cuore il futuro del Paese». La giornata di sabato come anticipazione della campagna elettorale. Il leader Pd: «Italia in pericolo, serve un colpo di reni».
di Simone Collini


«Care italiane, cari italiani». E poi ci sarebbe anche un’altra sorta di missiva, che potrebbe cominciare con un «caro governo». Pier Luigi Bersani, rientrato da Napoli nella sua Piacenza e in attesa che riprendano i lavori parlamentari a Roma, ieri si è messo a scrivere. Il primo testo, un appello a partecipare alla manifestazione di sabato a San Giovanni, l’ha postato su Facebook. Il secondo, un allarme sui rischi che corre l’Italia se non ci sarà «un colpo di reni» che preveda «riforme vere» e una «novità politica», l’ha mandato alle agenzie di stampa dopo che sono stati diffusi i dati Istat sulla disoccupazione giovanile e i tassi dei titoli italiani. Berlusconi e soci intendono rimanere inchiodati alla poltrona? Bersani è convinto che la richiesta di dimissioni che arriverà dalla manifestazione di sabato sarà tale da non poter cadere nel vuoto.
IN PIAZZA CHI HA A CUORE IL PAESE
L’intento del leader Pd è di riunire in piazza San Giovanni tutti quelli che «hanno a cuore» il futuro del Paese, perché per la «ricostruzione» economica, sociale e democratica che sarà necessaria dopo che questo governo non sarà più in carica, sarà necessario «uno sforzo corale». Per questo Bersani lancia un appello attraverso il web alle associazioni impegnate nella società, ai movimenti civili, alle «donne italiane, che hanno mostrato chiaramente, con la propria mobilitazione, di essere uno dei pilastri fondamentali del cambiamento della società»: «Moltissimi saranno in piazza San Giovanni i militanti del Pd. Ma l’invito è per tutti. Venite con la bandiera tricolore. Portate con voi la Costituzione italiana, la più bella del mondo. E tutti insieme diremo al mondo, all’Europa e al nostro Paese, “in nome del popolo italiano”, che tutti insieme ci impegniamo per cominciare un’altra storia».
Al dipartimento Organizzazione del Pd continuano a lavorare per organizzare treni (già ne sono stati prenotati una decina), navi (due) e pullmann (un centinaio) da tutte le regioni italiane. E al quartier generale dei Democratici prevedono che la fase politica e il taglio “di apertura” oltre i confini di partito che sta dando all’iniziativa Bersani porteranno a Roma una quantità di gente come non se ne vede da anni. Certo, con il corteo sarebbe stata un’altra cosa (la delibera di Alemanno dopo le violenze dei black bloc lo ha impedito), ma al Pd sono convinti che i concerti in programma (Vecchioni e non solo), gli interventi dei progressisti stranieri (dal socialista francese Hollande al socialdemocratico tedesco Gabriel), la partecipazione di chi non è del partito ma vuole mandare a casa il governo (in piazza ci sarà anche il leader Idv Di Pietro) la giornata si chiuderà con un gran successo.
ITALIA IN PERICOLO, ORA COLPO DI RENI
Per Bersani, che non vuol vedere l’offensiva politica del Pd contro il governo indebolita da divisioni interne (leggi l’operazione avviata da Matteo Renzi e sostenuta più o meno apertamente da personalità anche ai vertici del partito) questa manifestazione potrebbe essere l’occasione per rafforzare la sua leadership e dare un anticipo di campagna elettorale da candidato premier. Nel Pd si scommette su una crisi di governo in tempi rapidi, anche perché la situazione si fa di giorno in giorno meno sostenibile. Ieri, dopo che sono usciti i dati Istat sulla disoccupazione giovanile e i tassi dei Btp, Bersani ha chiesto retoricamente al governo se ci sia «bisogno di altro» per lanciare l’allarme. L’Italia «corre un serio pericolo», sostiene il leader del Pd, perché le promesse dell’Ue «hanno avuto un effetto nullo a causa della mancata credibilità dell’esecutivo e dell’inadeguatezza degli impegni»: «Ora non c’è più il tempo per crogiolarsi con le favole. Per far ripartire l’Italia ed evitare guai peggiori c’è bisogno di un colpo di reni, di discontinuità, di una chiara novità sul piano politico e di avviare decisioni di riforma vere e immediate».

il  Riformista 1.11.11
Bersani punta sulla piazza
È ancora rissa nel Pd
di T. L.

qui
http://www.scribd.com/doc/71121478

l’Unità 1.11.11
Il mio dubbio sulle primarie di coalizione
di Francesco Piccolo


Però racconta allo stesso tempo che all’interno del partito ci sono conflitti forti. L’errore che dovrebbe evitare Renzi è quello di confondere il partito e la coalizione. E infatti tutto ciò è una buona occasione per riflettere sulla opportunità o meno delle primarie di coalizione.
Sia chiaro: le primarie di coalizione si faranno, perché il centrosinistra è sempre andato come un treno, e non si è mai posto il dilemma se scegliere o no una strada ma c
di T.L.i si è ritrovato dentro senza più possibilità di tornare indietro. Figuriamoci poi se qualcuno dei pretendenti possa mai esprimere un dubbio sulle primarie: sarebbe come perderle in quel momento. Quindi tutti sono entusiasti, o si mostrano entusiasti che a questo punto è lo stesso.
Ora, se all’interno di un partito le primarie sono sia un atto democratico sia un dopante per i conflitti, tutto ciò, trasportato nella coalizione, ha un impatto decuplicato riguardo le divisioni. Sembra che di questo non solo non importi più a nessuno, ma che nella sostanza ci si senta così divisi che appare naturale perseguire testardamente questa strada.
Nella sostanza, con le primarie di coalizione non si risolvono i conflitti, ma al contrario si rinuncia a una discussione politica, e di conseguenza alla ricerca di un punto di accordo; ognuno porta le proprie idee, le esaspera per vincere, sottolinea gli errori degli altri, qualche volta (o spesso) li insulta. In un partito, spesso è stato difficile ricomporre le divisioni. Ma in una coalizione, i vincitori e i perdenti saranno divisi non soltanto da un rancore, ma da idee diverse e da una autonomia di fondo che si ripresenterà alla prima occasione.
Insomma, le primarie in generale e quelle di coalizione in particolare, servono a trasferire il lavoro che dovrebbero fare i politici su noi elettori. E noi elettori scegliamo, ognuno, con i nostri mezzi e i nostri condizionamenti che non sono tutti razionali e competenti.
Ma, nonostante tutto, spesso riusciamo a fare scelte coraggiose. Il problema, però, è che sottrarre il compito ai politici non solo permette loro di non compiere sforzi per trovare soluzione ai problemi, ma al contrario permette loro di restare saldi, molto spesso demagogicamente, nelle proprie posizioni. In questi anni si parla molto di populismo: ebbene, il populismo è diretta conseguenza della possibilità di fare un cammino prima elettorale e poi governativo senza mai sporcarsi le mani con la responsabilità diretta.
Faccio un esempio: prendiamo Di Pietro (ma potrei dire chiunque altro si presenti come candidato alle primarie di coalizione). Ecco, potrebbe presentare delle idee forti e piuttosto aliene dal compromesso (è un ritratto più che credibile). Se perde le primarie, può partecipare alla fase elettorale con leggerezza: se si perde, è perché non sono state accolte le sue idee e quelle del suo partito. Se si vince, poi bisogna governare; e se si governa male, o a fatica, Di Pietro, che non si è preso nessuna responsabilità del programma perché lui ne aveva un altro, può sfilarsi anche dai possibili errori del governo.
In più, Di Pietro (e chiunque altro), a seconda del proprio spirito, può continuare imperterrito a fare una specie di opposizione anche all’interno della coalizione, perché ha perso e ha perso il suo programma, e ciò significa che non ha intenzione di prendersi il carico di responsabilità di quello degli altri.
Il Partito Democratico era nato con l’intento di risolvere i conflitti delle varie parti dell’Ulivo. Le primarie di coalizione sono la dimostrazione che non ci è riuscito, si è solo piantato al centro della coalizione con un peso più pachidermico.
Ma i conflitti dell’Ulivo sono rimasti sia all’interno del proprio corpo sia tra i vari corpi della galassia del centrosinistra.
E le primarie di coalizione continueranno ad alimentare questo paradosso, a farlo crescere. Se lo si sopportava negli anni in cui non si poteva governare, sarà devastante negli anni in cui si potrebbe governare.
Due scelte sono possibili al posto delle primarie di coalizione. La prima è quella naturale: il partito che avrà avuto più voti alle elezioni, avrà diritto a proporre come presidente del consiglio il suo leader.
Il secondo è quello davvero auspicabile: la coalizione si mette intorno a un tavolo, discute su convergenze e divergenze, trova con pazienza compromessi e alla fine esprime non soltanto un programma di governo, ma anche una personalità condivisa che rappresenti in quel modo davvero tutti. In questo caso, al contrario delle primarie, il candidato sarebbe il candidato di tutti, per davvero.
E ogni singola parte si sarà presa la sua fetta di responsabilità, nella scelta del leader e del programma.

l’Unità 1.11.11
Intervista ad Antonio Di Pietro
«Il Pd diviso è un danno per tutti
Primarie, potrei sostenere Bersani»
Il leader Idv: no al bis del Molise, non vorrei che qualche sconfitto si candidasse poi contro di noi Renzi? «Una risorsa». Il mercato del lavoro? «Da riformare ma non si parta dai licenziamenti»
di Claudia Fusani


A determinate condizioni, visto il particolare contesto di macelleria sociale, l'Idv è disposto anche a fare un passo indietro e a sostenere Bersani nelle primarie di coalizione».
Di Pietro, passo indietro vuol dire che lei rinuncerebbe a correre nelle primarie di coalizione?
«Cerchiamo di essere precisi. E conseguenti. La mia, quella dell' Italia dei Valori, sarebbe una scelta di responsabilità per tutelare la coalizione in un momento in cui il Paese ha bisogno assoluto di una svolta e di un'opposizione per cui è primaria una scelta di chiarezza e responsabilità per cambiare e andare avanti». Bersani ha detto: cambio le regole, il segretario non è più il candidato premier, sarà il partito, nelle forme da stabilire, a deciderlo. Un passo avanti?
«Senza dubbio. Ma siamo sicuri che poi chi resta fuori da quella selezione...
Ad esempio il sindaco di Firenze Matteo Renzi? O magari il presidente Zingaretti?
«...loro od altri. Dicevo: siamo sicuri che poi non decideranno in ogni caso di partecipare alla primarie col rischio di assistere all' ennesimo scannamento? Quello che temo è l'effetto Molise» Cioè?
«Il Pd ha fatto le primarie, ha vinto Frattura, un altro candidato è rimasto fuori e poi ha deciso di correre comunque alle Regionali. Il risultato è stato che Frattura ha perso per mille voti. Mille voti che la coalizione ha scialacquato e che invece poteva recuperare se fosse rimasta unita».
Il Pd litiga troppo?
«In questi giorni sono in Molise, nella mia terra. Vado in giro, parlo con le persone ai banchi del mercato, mentre si raccolgono le olive. Le persone sono disperate per quello che succede nel partito di maggioranza relativa della coalizione. E a me fa male al cuore vedere cosa sta succedendo nel Pd. Sono liti e divisioni dannose che non ci possiamo permettere. Detto questo Renzi è una risorsa, pone delle questioni, è un pungolo. È sbagliato criminalizzarlo».
In questo contesto si colloca l’eventuale passo indietro di Antonio Di Pietro?
«L’ldv considera le primarie lo strumento principe democratico per la selezione della premiership. E però rinunciare alle primarie è un passo indietro importante che potrei prendere in considerazione solo se funzionale alla chiarezza e al rafforzamento della coalizione per voltare pagina rispetto all’incubo Berlusconi e per contrastare la macelleria sociale che ci circonda». Coalizione elettorale, quelli di Vasto, Pd-Idv-Sel, e poi patto di legislatura con l’Udc di Casini?
«Messa così credo che si facciano i conti senza l’oste. È matematicamente certo che quando si andrà al voto Casini farà quello che dice di essere, il Terzo Polo, per giocare il ruolo dell’ago della bilancia. Detto questo, anch’io auspico un’alleanza di legislatura con Casini, senza veti nè preconcetti. Una cosa è certa: ogni giorno che passa è un giorno perso rispetto alla coalizione». Lei ha parlato di una contro-lettera alla Ue firmata Di Pietro, Bersani e Vendola.
«È una proposta che l’Idv ha lanciato in questi giorni e per cui attendiamo la risposta. Lo spirito della lettera è dimostrare a Bruxelles che ci sono due Italie, quella di Berlusconi e quella di un’opposizione seria e responsabile e con idee chiare. Dobbiamo portare in Europa le nostre proposte. Far vedere al resto del mondo che l’alternativa a Berlusconi esiste già».
Riforma del lavoro. Non più rinviabile?
«Non c’è dubbio. Ma parlare di licenziamenti facili è solo un modo brutale di far quadrare i conti. Parlare di flessibilità senza prima aver discusso del necessario sistema di garanzie a tutela, sia dei più giovani che dei meno giovani, significa avallare il rischio “caporalato”, considerare il mercato del lavoro il mercato delle cose e i lavoratori una scorta di magazzino».
Nel confronto tra Ichino (Pd) e il ministro Sacconi con chi sta?
«Con il sistema delle garanzie. Il rilancio dell’economia deve passare prima da altri punti. Non certo dai licenziamenti facili o dalle pensioni, un Moloch da affrontare ma prima di toccare l’età della pensione ci sono altre cose da fare».
Il ministro Sacconi evoca il rischio del terrorismo e di omicidi come avvenne con D’Antona e Biagi. «Qualche tempo fa, quando dissi che ci poteva scappare il morto, mi hanno tutti sparato addosso. Lo dissi perchè in giro vedo, tocco, ascolto la tensione e la disperazione sociale che possono portare alla rivolta e a gesti estremi. Non giudico le parole di Sacconi. Dico che se sei un ministro e capisci, anche lui mi verrebbe da dire, che esiste questo rischio che è prima di tutto sociale, allora hai l’obbligo di dare risposte al problema. Dirlo e basta non serve, non può mettere in pace le coscienze. Servono fatti e non parole. Che la disperazione è tanta».

il Fatto 1.11.11
Nel frigo di Renzi
di Antonio Padellaro


Cosa c’è nel frigorifero di Matteo Renzi? Le canzoni già sentite, ma che suonano sempre bene (La sinistra troppo conservatrice. Le pensioni che derubano i giovani per garantire i vecchi. I tesori artistici da valorizzare. La casta da ribaltare). Il cambiamento declamato che non costa nulla (volti nuovi, rottamiamo i dinosauri, viva il partito leggero). L’occupazione mediatica a tappeto (davanti a una finta libreria o mentre chatta sull’iPad: profumo di focolare e di modernità). L’occhio fisso in telecamera. La faccia impostata sul tasto: ho 36 anni, sono un bravo ragazzo e mi piacciono le cose che piacciono a voi. Non un trascinatore di folle, ma un tipo svelto a chiamare l’applauso facile (Ah se non ci fosse stato Napolitano). Infine, a guardarlo e a sentirlo, la sensazione netta che gli covi dentro qualcosa come: io sono il Renzi e voi no.
Niente di male, per carità. Sbagliato dargli del berluschino. Senza essere ogni ora su giornali e tv, non si fa molta strada nell’era della politica compulsiva. Certi accorgimenti scenografici (l’idea frigo è la politica che entra nelle case) possono apparire ingenui, ma fanno titoli). E non è colpa del sindaco di Firenze se al primo impatto non risulta simpaticissimo. Potremmo perdonargli perfino quella strana visita ad Arco-re, anche se per discutere dei problemi fiorentini sarebbe stato più adatto Palazzo Chigi. Altro lascia perplessi. Perché tra il vecchio e il nuovo resta uno spazio troppo vuoto. Dire di no in egual misura al berlusconismo e all’antiberlusconismo significa gettare via nello stesso sacco la peggiore anomalia politica che la Repubblica abbia conosciuto assieme a chi non si è piegato alla voce del padrone, a chi ne ha sofferto le conseguenze, a chi si è battuto nelle piazze contro le quotidiane prepotenze di un potere rapace e intimamente fascista. No, caro Renzi, Minzolini e Biagi non sono la stessa cosa. E citare Marchionne come “motivatore rivoluzionario” dimenticando ciò che in termini di sofferenza umana si è consumato in questi anni a Mirafiori, Pomigliano, Termini Imerese, significa rottamare il fine stesso della politica: la vita delle persone. Tanti sono i problemi che affliggono il Partito democratico, ma finire nel limbo dell’indifferenza non glielo auguriamo proprio.

«Il nuovo... ha salde radici democristiane»
il Fatto 1.11.11
Renzismo. Il format si fa partito
Il big bang della Leopolda terremota il Pd
di Luca Telese


Comunque vada, i giorni della Leopolda sono stati un terremoto. Una riscrittura della lingua mediatica del centrosinistra, soprattutto del Pd. Uno sparigliamento da riassumere in un nuovo vocabolario, quello che Matteo Renzi (nel bene o nel male) sta imponendo alla politica.
BIG BANG. E’ il momento primo, il principio di un nuovo inizio. Ma anche il turbine che sconquassa il vecchio equilibrio. Il Big Bang di Renzi ha acquisito una forza motrice imponente, anche perché colma un vuoto. Non esisteva, dentro il Pd, un punto di forza protagonista che si stagliasse oltre le correnti. Renzi spara sul quartier generale e non solo: su Bersani, e anche sul suo primo sfidante, Vendola. Ma, soprattutto, Renzi rompe la regola dei “Compagni di scuola” (copyright Andrea Romano) cresciuti a Botteghe Oscure. La regola per cui cane non mangia mai cane, e i peggiori dissidi vanno composti con il patteggiamento fra nemici. Renzi aveva rotto questa regola fin dalle primarie a sindaco. Ora, ripetendo lo schema a livello nazionale, rompe l’unanimismo ipocrita con cui le correnti non hanno mai messo in discussione Bersani pur facendogli la guerra tutti i giorni. Il big bang del Pd rompe il dogma da Politburo per cui può esserci un solo candidato del partito, ed è quello deciso dal partito.
FORMAT Fa una certa impressione notare che la scenografia di un congresso era costruita come quella di un programma televisivo. Accattivante e calda, come quella di un buon programma, “diversa” dall’iconografia tipica della convention di partito, ma terribilmente simile a quella di “Kalispera” di Alfonso Signorini, o di “Cotto e Mangiato” di Benedetta Parodi. La finta casa accogliente è un nuovo prodigio della politica, ma un vecchio trucco del piccolo schermo.
MAGNOLIA. Se c’è un format, c’è anche un produttore. Anzi, ce ne sono tre, fra i più creativi e brillanti: Lorenzo Mieli, numero uno di Freemental, e Giorgio Gori, il guru di Magnolia. E poi c’è l’autore regista di “Notte prima degli esami”, Fausto Brizzi, che ha condotto una intera sessione di dibattito. Ieri il sito Termome  tropolitico.it  , su segnalazione del lettore Gianluca Morganti, ha prodotto un piccolo ma significativo scoop. Nel Pdf delle 100 proposte di Renzi, è rimasta la traccia dell’estensore materiale del file, che incredibilmente è proprio Gori. Un tempo la politica forniva contenuti, adesso deve interpretare dei format. Renzi ha esordito in televisione alla “Ruota della Fortuna”. Un grande salto epocale è stato compiuto: dall’immaginazione al potere, alla fiction al potere.
RAP Uno degli interventi più brillanti della convention non aveva parole. L’editore Alberto Castelvecchi, infatti, ha usato i suoi cinque minuti per animare la platea suggerendole di battere le mani in modo ritmato, per costruire il ritmo ideale che dovrebbe avere un dibattito. Un ritmo musicale. Un ritmo televisivo, una animazione da villaggio turistico? Tutte queste cose insieme.
GORMITI Chi mai avrebbe pensato di invitare l’inventore dei Gormiti, Leonardo Cosumi? Renzi lo ha fatto. I Gormiti sono un doppio modello: il simbolo della creatività italiana che si impone nel mondo. Ma anche la fu-tura madeleine della generazione dei figli dei trenta-quarantenni di oggi. Il renzismo ha capito un caposaldo della nuova animazione Disney: per portare al cinema i figli devi piacere ai papà.
VELTRUSCONINISMO 2.O Nella lingua della Leopolda c’è qualcosa di Veltroni, e persino di Berlusconi. L’idea del contenitore Omnibus, che Renzi aveva già immaginato nel suo primo libro “Da De Gasperi agli U2”. Rispetto al veltronismo, però, il renzismo non cammina con il freno a mano tirato del ma-anche. Non attenua tutto nella sincreticità delle differenze unite dal sentimento. Non è buonista, anzi. Quando può, un calcio negli stinchi lo rifila volentieri. Veltroni leggeva con il leggìo e con i gobbi elettronici di vetro, Renzi cammina con il microfono in mano appoggiato sul cuore, come Silvio quando imita Frank Sinatra. Ma perché quando si mette una libreria in scena, ci sono i libri finti? Costano più di quelli veri, e fanno molto “L’Italia è il paese che amo”. Il renzismo, dunque, è un upgrade 2.0: migliora i difetti, ma ricicla software già sul mercato.
BARICCATE Se si fa la rivoluzione bisogna andare sulle barricate, o – meglio – sulle Bariccate. L’intervento che non si scorda, è quello di Alessandro Baricco. Anche il giovane Holden sublima un genere antico: l’autocritica. L’incipit è folgorante: “Sono uno dei responsabili del mondo che è là fuori”. Svolgimento perfetto: “Con l’alibi di tutelare i deboli, abbiamo allestito un sistema di tutele e di difesa di una rete dirette e di diritti ben stabile. Mentre i poveri avevano bisogno di un sistema dinamico: un paese bloccato in cui il ricco patisce l’asfissia ma non tanto. Mentre il povero ne muore”. Se il renzismo cercava un padre nobile lo ha trovato. Ed è uno che fa share. Battuta folgorante: “Io ho passato una vita a cercare di non morire democristiano, e l’altra a cercare di non morire berlusconiano. Ma vi pare una vita?”.
MARCHIONNE Nello spirito era ovunque. Uno dei postulati del renzismo è: “Io sto con Marchionne senza se e senza ma”. Sul palco si parlava moltissimo di giovani precari. Ma in prima fila si notavano molti giovani confindustriali.
DIRIGENTI Quella di Renzi è la prima corrente formata (per ora) da un dirigente solo. Il primo caso di casting posticipato.
DEMOCRISTIANI Renzi si presenta la quintessenza del nuovo, ma è anche il più antico dei giovani politici italiani. Nel 1994, nel movimento dei giovani Popolari c’erano due leader locali: il responsabile dei giovani di Firenze (il nostro Matteo) e quello dei giovani siciliani (Angelino Alfa-no). Il nuovismo in Italia ha radici antiche (e sempre democristiane). Ricordatelo a Baricco.

La Stampa 1.11.11
Matteo il più trasversale. Ma a sinistra pesca poco
La fiducia è alta, anche a destra. Però prende un voto radical su 4
di Jacopo Jacoboni


50% 25% "Indice Il gradimento tra chi di fiducia si dice di sinistra
Secondo Swg, che spesso lavora per il Il sindaco di Renzi piace solo a un Pd, Renzi piace molto al 50% di radical su quattro. Un altro cattolico italiani, i delusi dai due poli. come Romano Prodi riusciva a Molto meno nella sinistra-sinistra conquistarne invece tre su quattro

È trasversale, davvero il più trasversale tra i potenziali leader. Pesca davvero molto a destra, questo non lo dice Nichi Vendola ma le prime rilevazioni sul consenso di Renzi. Il problema - non perché lo dica «il manifesto» - è che a sinistra scalda un po’ poco i cuori. Li scalda assai meno, per intenderci, di quello che sapeva fare un altro cattolico come Romano Prodi.
Per adesso l’unico indicatore vero che si può utilizzare è la fiducia degli italiani (italiani tout court, di destra, centro, sinistra) nel sindaco di Firenze. Diciamo che si attesta poco sotto il 50 per cento (46 per cento) secondo Demopolis, un po’ più in alto (al 50) secondo Swg, l’istituto di sondaggi che spesso lavora proprio per il partito democratico. Prima traduzione: Renzi ha indici di fiducia medio alti, a volte anche molto alti, rispetto agli altri leader. Però, attenzione, l’analisi dev’essere più complessa.
La fiducia, al momento, Matteo la raccoglie soprattutto tra gli elettori di centrodestra, o di destra a tutto tondo. I quali magari - perché no - potrebbero poi votarlo davvero, ma certo in tanti casi esprimono semplicemente una simpatia all’avversario meno sgradito. Fa una grande differenza. Per capirci, secondo Demopolis ha fiducia nel sindaco di Firenze il 48 per cento di chi si dichiara di centrodestra (e il 44 di chi si colloca nel centrosinistra), ma solo un misero 25 per cento di chi si considera di sinistra-sinistra. Insomma, Renzi prenderebbe voti (ipotetici) solo da un elettore di sinistra-sinistra su quattro. È poco. Prodi ne prendeva tre su quattro.
Se incrociamo questi dati con quelli dell’ultimo Osservatorio di Renato Mannheimer, il risultato per Renzi è bifronte: ha molta fiducia addosso (e ancor più notorietà, al 66 per cento), ma se la somma di ciò che è a sinistra del Pd viaggia oggi intorno al diciotto per cento (Sinistra e libertà al 7,8, Idv al 6,8 e i grillini al 3,4), possiamo dire che in quel notevole bacino Renzi pescherebbe qualcosa intorno al quattro per cento. Si può dirlo? Una miseria.
Il nodo è qui; assai prima che su discussioni metafisiche tipo la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Renzi piace trasversalmente a destra, non abbastanza a sinistra-sinistra. Informa Maurizio Pessato, di Swg, che «Renzi sta pescando bene in quel 50 per cento di italiani che non ha più fiducia né nella maggioranza, né nell’opposizione». Tuttavia, «all’interno della coalizione di centrosinistra resta ben indietro a Bersani. Nel centrodestra pareggia con Alfano». Pietro Vento di Demopolis, alla domanda se il sindaco di Firenze sarebbe un leader possibile, risponde cauto: «Di sicuro appare destinato a incidere sul dibattito politico, anche in vista di un ventilato ritorno alle urne in primavera». Mannheimer aggiunge un elemento pro Matteo: «Ha davanti a sé un grande spazio, offerto anche dal cedimento del Pd in queste ultime ore». Il favoloso mondo di Amélie del centrosinistra è sempre incredibilmente davanti al Cavaliere, ma il Pd è stato risuperato dal Pdl, 26,4 contro 25,9. E Renzi deve stare attento a chiarire a tutti e a se stesso chi sia il suo bersaglio prioritario.

La Stampa 1.11.11
L’anomalia Renzi, il Pd che piace a destra
di Federico Geremicca


È possibile che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, abbia ragione, e che le idee proposte da Matteo Renzi all’adunata della Leopolda siano (magari non proprio tutte...) roba «da Anni 80».
Ciò, però, non risolve affatto - e anzi in qualche modo appesantisce - il vero problema che sembra esser oggi di fronte allo stato maggiore del Pd: l’interpretazione, cioè, del consenso crescente che accompagna l’azione del giovane sindaco di Firenze. È evidente, infatti, che quanto più si sminuisce quel che Renzi dice (e quel che propone), tanto più diventa complicato spiegarne il successo. A meno di non volersela prendere con il comprensibile disorientamento che da tempo, ormai, attraversa il Paese: tesi certo possibile, ma assai simile all’anticamera di una resa.
Ovviamente - e invece - Pier Luigi Bersani non ha alcuna intenzione di arrendersi e lasciare il passo a Renzi: rivendica le prerogative garantite dallo Statuto del Pd al segretario del partito in caso di primarie per la scelta del candidato premier; insiste (come domenica a Napoli) sul profilo di un Pd certo responsabile ma «da combattimento»; prepara (sabato a Roma) una manifestazione di piazza per esporre le sue ragioni politiche e programmatiche. Va tutto bene: se non fosse che ognuna di queste contromosse appare (o rischia di apparire) vecchia e vana di fronte al caleidoscopio di idee (certo non tutte convincenti) e di emozioni che il sindaco di Firenze maneggia con spregiudicata maestrìa.
Dunque, piuttosto che una reazione dettata da una sorta di antico riflesso condizionato (il richiamo alla disciplina, l’anatema nei confronti dell’avversario, il declassamento delle idee proposte) sarebbe forse più utile interrogarsi davvero sulle ragioni del consenso conquistato da Renzi, ed anche - se non soprattutto - sulla «spendibilità» di quel consenso. Un sondaggio reso noto ieri, infatti, conferma un fenomeno del quale molti osservatori si dicevano già certi: il sindaco di Firenze raccoglie più favore a destra (48%) o al centro (47%) piuttosto che nel centrosinistra (44%) o a sinistra (addirittura 25%). Si tratta di dati sui quali non sarebbe male ragionare, visto che segnalano una situazione certamente inedita e che però potrebbe paradossalmente rappresentare una soluzione ad un antico problema del centrosinistra in tutte le sue versioni (dall’Ulivo all’Unione e via dicendo).
Per dirla in estrema sintesi: Matteo Renzi sembra esser di quei candidati capaci di vincere delle elezioni alle quali però non arriverebbero mai, visto che prima perderebbero (stando al sondaggio in questione) il test delle primarie. Si tratta di una circostanza, di un profilo che - fatte tutte le differenze ricorda non poco la vicenda di Tony Blair, più amato fuori che dentro il Labour party. E’ una situazione appunto inedita: che contiene, però, la parziale soluzione di uno dei più irrisolvibili rovelli del centrosinistra, la sua difficoltà (incapacità) ad intercettare voti moderati e di centro. Ora, l’interrogativo è: esiste un modo per rendere spendibile e produttiva l’anomalia costituita dalla qualità del consenso che va cementandosi intorno a Matteo Renzi?
La risposta non è certamente facile, ma la soluzione non pare però raggiungibile attraverso i toni aspri e la chiusura a riccio che contraddistinguono da sempre la reazione del vertice del Pd alle iniziative del sindaco di Firenze. Contestargli un eccesso di populismo o un uso strumentale del dato anagrafico, non paiono infatti argomenti capaci di arrestare una parabola che porta in sé - comunque la si giudichi - il segno della novità. Le vie da battere, evidentemente, sono altre. Pena un rischio che, per il leader e il gruppo dirigente del Pd, potrebbe davvero farsi concreto e quindi mortale: che di qui a qualche tempo, per il «popolo del centrosinistra» l’alternativa non sia più rappresentata dalla scelta tra Bersani e Renzi, ma tra Vendola (l’altra novità) e Renzi. Se questo accadesse - in una situazione nella quale la pazienza nel Paese è al limite e la voglia di rinnovamento e cambio sempre crescente - nessuno, alla fine, potrebbe considerare un tale epilogo una sorpresa...

il Fatto 1.11.11
Stefano Fassina “Cultura vecchia e neoliberista”
“Il sindaco di Firenze ha assunto in pieno il berlusconismo”
di Wanda Marra


Matteo Renzi? Assume in pieno il berlusconismo come progetto politico”. Stefano Fassina ha 45 anni, è il Responsabile economico del Pd, fa parte dei T/q ovvero i Trenta/quarantenni dirigenti del partito, che estremamente - lavorano a un “rinnovamento” dall’interno. Sabato e domenica era a Napoli con Bersani alla due giorni della scuola di Formazione politica per i giovani del sud.
Come mai i media hanno dato tanto spazio a Renzi e hanno praticamente ignorato il fatto che a Napoli ci fossero 2000 giovani per partecipare alla scuola di formazione del Pd?
Ovviamente c’è il tentativo di fomentare quest’immagine del Pd come un partito vuoto, un partito vecchio. La tentazione di chi attacca il quartier generale va molto di moda e serve a costruire un dopo Berlusconi molto in continuità con Berlusconi.
La colpa è di Renzi?
Renzi ha un progetto politico e lo porta avanti efficacemente assumendo in pieno il berlusconismo come progetto politico e democratico. Anche se c’è una moda leaderistica nelle file del centrosinistra, anche quello che si considera più radicale.
Parla di Vendola, di Di Pietro?
Parlo della cultura di chi considera fisiologico mettere il nome del candidato nel simbolo.
Lei ha detto (come Bersani) che Renzi ha idee vecchie, degli anni ‘80.
Lui porta avanti temi economico-sociali di impianto sostanzialmente neoliberista.
Ma insomma a voi del Pd Renzi però proprio non piace: perché?
Ha una cultura politica molto personalistica, plebiscitaria, mentre un partito dev’essere una squadra, un collettivo. Ripeto, ha assunto senza se e senza ma il paradigma berlusconiano.
Vi fa paura?
Francamente credo che alla Leopolda ci fossero tante energie positive che spero siano protagoniste del Pd. No, non ci fa paura.
L’impressione è che a questo punto stia dettando l’agenda al Pd, stia conducendo il gioco e costringendo gli altri a seguirlo.
Non mi pare. Quando c’è un fatto messo sulle prime pagine dei giornali non è colpa del Pd.
Ammetterà che è una spina nel fianco, però.
Siamo in una fase di transizione, e lui è sicuramente in campo, molto sostenuto da chi vuole questa transizione di un certo segno sociale e democratico. E non mi pare che Renzi voglia fare il gioco squadra: continua a insultare il Pd dicendo che si tratta di un partito totalitario.
Lei l’ha definito “figlio di papà, portaborse miracolato”.
Era una reazione agli attacchi. Volevo solo ricordare che chi non ha mai avuto bisogno di spedire un Cv, di fare un colloquio, di aspettare con ansia la scadenza di un contratto precario, non mi pare abbia molti titoli per sparare.
Voi T/q eravate partiti a Pesaro chiedendo un rinnovamento del partito, poi siete stati a L’Aquila, ma non siete riusciti molto a trovare il peso che chiedevate.
Il 99 per cento del nostro tempo noi lo spendiamo a fare i dirigenti del Pd.
Sembra che vi siate già ammosciati
Il nostro obiettivo è un rafforzamento del processo di rinnovamento in atto.

il Fatto 1.11.11
Il monoteismo non finisce mai
di Luigi Zoja


È finita, dicono tutti. E scherzano sui noti leader imbalsamati per lasciare ai successori il tempo per accordarsi e i simboli di una apparente continuità. Ma Silvio Berlusconi non è provenuto dalla cooptazione di un settore del paese, ma dalla stupidità che ha posseduto la sua maggioranza. E l’imbalsama-tura presuppone il commiato di un leader ancora in posizione di forza, mentre quello cui assistiamo è un tramonto privo di forza e che rifiuta il commiato. L’evento cui assistiamo non è una delle falsificazioni di una dittatura, ma un paradosso del sistema democratico. Si è parlato spesso di anomalie della democrazia italiana. In un certo senso, la prima e principale è il bipartitismo imperfetto descritto da Giorgio Galli due decenni dopo la caduta del fascismo. Per evoluzione culturale e struttura istituzionale, l’Italia era entrata a far parte delle democrazie mature.
 MA I DUE PARTITI maggiori non potevano alternarsi al governo come avveniva in quelle: la funzione principale del bipartitismo mancava. Uno dei due era la Democrazia cristiana: il partito moderato che si autodefiniva di centro, ma che lo schieramento internazionale classificava a destra in quanto filoamericano. Il secondo, leader della sinistra, non era socialista come negli altri paesi occidentali, ma comunista. Il mondo era diviso dalla Cortina di Ferro. L’Italia si trovava in una alleanza militare e politica con gli Stati Uniti, per definizione il comunismo non poteva governare. Questa anomalia non era scesa dal cielo nel 1945. Nella psicologia collettiva italiana aveva dei precedenti, che da soli forse non la giustificano ma contribuiscono a spiegarla. Da migliaia di anni il paese aveva subito padroni politici e orientamenti ideologici diversi. Una sola istituzione era rimasta fissa, ed era caratterizzata da un’unica verità di cui si riservava l’interpretazione: la Chiesa Cattolica Romana. Migliaia di anni con questa forma mentale non passano senza lasciare traccia. Il monoteismo dei partiti marxisti era più compatibile con le nostre strutture inconsce collettive del flessibile pragmatismo abituale nei partiti socialisti dell’Europa del Nord. Il risultato diquestacontinuitàprofonda,più difficile da eludere dei razionalismi che abitano i discorsi di superficie, si è visto quando il comunismo è svanito. Nella sinistra si è creato un profondo vuoto. La cultura riformatrice più laica e flessibile aveva radici istituzionali più deboli e recenti, anche se nel tempo proprio il Partito comunista italiano aveva realisticamente cercato di farla sua. Così, la sinistra postcomunista è nata gracile e perdente, e questo si vede ancora. In un certo senso, l’imperfezione denunciata da Galli anziché esser superata era diventata più visibile.
 Negli ultimi due decenni, però, anche la destra italiana ha dovuto accorgersi di essere anomala. Si è raggruppata non intorno a una ideologia democratico-conservatrice, ma a Silvio Berlusconi. Se questo non è letteralmente un monoteismo certo assomiglia a una monarchia. Ora, per raggiunti limiti di tempo (o, dirà qualcuno, di dignità, ma non è facile scorgere la differenza), il premier-azienda dovrà fare un passo indietro dalla politica. Basta contare quante volte il suo nome ricorra non solo nelle pubblicazioni e nei canali televisivi che lo sostengono, ma anche in quelli opposti, per rendersi conto che lascerà un vuoto. Senza più pronunciare il suo nome, vuote resteranno le bocche, che hanno bisogno di certe parole tanto quanto di cibo: senza questo langue la vita fisica, senza le prime quella politica. Dopo la sinistra, anche quella che si autodefinisce “destra” (pur essendo fortemente anomala rispetto ai raggruppamenti moderati europei) rischia di cadere nel vuoto.
 A QUEL PUNTO, dal bipartitismo imperfetto non si sarà arrivati a una integrazione nel sistema europeo, ma a una “anomalia perfetta”: cioè, etimologicamente, completa. Riguardante i due schieramenti. Uno stimato uomo politico cui ho esposto questo timore mi ha incoraggiato a essere meno pessimista. La destra post-berlusconiana, mi ha spiegato, è già strutturata ed è già in funzione. Mi rallegro se non ci saranno vuoti di potere. Ci sarà e resterà , però qualcos’altro, stabilmente più temibile. Il berlusconismo ha presieduto alla trasformazione dell’Italia da paese mediamente colto a paese massicciamente consumista, spostando energie, denaro, sentimenti e consensi dal primo al secondo territorio. La rapidità e profondità di questa trasformazione difficilmente ha uguali. Certo, in buona misura questo sta avvenendo in tutto l’Occidente ed era cominciato ben prima di Berlusconi, con Thatcher e Reagan. Ciò che lo rende anomalo non è l’aver esaltato il ruolo dell’impresa privata: per diversi aspetti l’Italia era davvero arretrata nel rendersi conto della sua fondamentale funzione. L’avvelenamento è avvenuto non sul lato della produzione, ma su quello del consumo. È stata sparsa una mentalità per cui la comunicazione collettiva è consumabile come passatempo. La stessa politica può diventare passatempo, come ha constatato l’Europa intera vedendo il nostro premier fare le corna a una riunione internazionale. È un’ottima cosa che cultura e politica divengano più divertenti: la seriosità sola non le ha mai rese migliori. La serietà, invece, qualche volta lo ha fatto. Un giorno non lontano potremmo scoprire che tra l’infantilizzazione di un paese e il fatto che a quel paese manchino il credito e i crediti di cui ha assoluto bisogno esiste un vincolo storico non casuale.

il  Riformista 1.11.11
Tra Renzi e Alfano moriremo democristiani?
di Ubaldo Casotto

qui

Repubblica 1.11.11
Francia, la bandiera integralista dei cristiani d´assalto
Assediano piece teatrali giudicate blasfeme. Distruggono opere d´arte a colpi di martello. Ecco chi sono gli estremisti col crocifisso che spaventano la Francia
di Anais Ginori


Assalti per giorni al Théatre de la Ville al grido di "Basta cristianofobia". Opere distrutte a colpi di martello. E cortei nelle strade di Parigi avvolti in mantelli rossi e con il crocifisso in mano. Gli ultracattolici di Action Française compiono azioni sempre più clamorose. "La libertà di espressione non è più un argomento valido", dicono. E annunciano una guerra contro l´arte trasgressiva e le "bestemmie della società"
Gli artisti lanciano un appello: "Il nostro Paese si è sempre battuto per tutelare la laicità"
Il sacerdote Beauvais: "Non siamo cattivi, siamo fedeli alla nostra fede"
Il movimento fa riferimento alla Fraternità San Pio X fondata da Marcel Lefebvre
L´Arcivescovo li ha sconfessati. Duro anche il ministro della Cultura Frédéric Mitterrand

A vederla da vicino, dietro all´ingresso blindato del Théatre de la Ville, la scena è stata ancora più surreale. C´era qualcosa di terribilmente stonato, nelle decine dei sedicenti "crociati" che assaltavano una pièce nel nome del cristianesimo. Non è questa la Francia, la capitale moderna della laicità, il Paese tollerante e aperto a ogni forma d´espressione e d´arte? Invece è successo proprio qui, nel cuore di Parigi. Adesso che le auto della polizia sono andate via, e gli agenti in tenuta antisommossa pure, c´è un´aria di tregua. Ma giusto qualche giorno, perché lo spettacolo Sul concetto di volto del figlio di Dio del regista italiano Romeo Castellucci sta per riprendere in un altro teatro, inseguito dai contestatori. Poche centinaia di persone. La Prefettura di Parigi non fornisce dati ufficiali ma negli ultimi giorni ha fatto almeno cento controlli quotidiani per fermare la protesta dura dei gruppi cristiani. «Non li sottovalutiamo» avverte l´esperto di estrema destra Yves Camus. Alla vigilia della campagna elettorale, questo piccolo movimento di crociati, in polemica anche con la Chiesa ufficiale, riprende la tradizione di nazionalisti ultra cattolici di Action Française ma s´ispira all´uso dei media dei Tea Party americani.
Sigle vecchie e nuove, una galassia in rapida evoluzione. Da mesi i militanti di questi gruppi si muovono al motto di "Basta cristianofobia". Distruggono opere a colpi di martello come fossero organismi vivi, assediano innocui teatranti, sfilano con mantelle rosse, cantici e ceri nelle strade della capitale per riportare la Francia alle sue "radici". «Una serie di azioni così mirate e violente - ammette Camus - non si vedevano da tempo». Lo spettacolo di Romeo Castellucci è stato interrotto più volte, attori e pubblico sono stati colpiti dal lancio di uova, pomodori, olio per automobili. Un giovane è stato fermato mentre saliva sulla facciata del teatro per gettare fialette maleodoranti davanti al botteghino. Alcuni militanti hanno comprato i biglietti per condurre i loro attacchi dalla platea. Gli effetti si sono subito visti. Dopo i primi giorni, sono apparse delle porte scanner al Théatre de la Ville, e gli spettatori si sono dovuti sottoporre ai controlli di sicurezza prima di sedersi in poltrona.
Lo scandalo arriva solo agli ultimi minuti dello spettacolo, quando il volto di Cristo - una riproduzione gigante del "Salvator Mundi" di Antonello da Messina - sembra sporco di escrementi, espressione delle sofferenze dei due personaggi, un vecchio incontinente e il figlio che lo lava e lo cambia. Il bilancio, dopo dieci giorni di rappresentazioni, è di quasi trecento persone fermate, alcune in possesso di lacrimogeni. Una ventina di militanti sono stati denunciati per "atti di degrado del patrimonio pubblico" e "violazione della libertà di espressione", un reato che prevede fino a tre anni di prigione e 45mila euro di multa. Il Comune di Parigi si è costituito parte civile. Nonostante le minacce, il direttore del teatro, Emmanuel Demarcy-Mota, ha deciso di non fermare la pièce. «Perché non è giusto cedere alle intimidazioni di questi neo-fascisti» ha commentato.
La chiesa Saint-Nicolas-du-Chardonnet, nel quinto arrondissement, è considerata la casa di questo movimento che fa riferimento alla Fraternità San Pio X, fondata da Marcel Lefebvre negli anni Settanta. «Signori spettatori, oggi assisterete a una bestemmia e noi siamo qui per rimediare ai vostri peccati» ha urlato il sacerdote della chiesa Xavier Beauvais, mentre cercava di fermare la gente in Place du Chatelet. «Non siamo integralisti cattivi - ha aggiunto - siamo cattolici, fedeli alla fede cattolica, e veniamo a manifestare contro la bestemmia». Il cardinale André Vingt-Trois ha ovviamente preso le distanze da questi contestatori. «Sono gruppuscoli che si riferiscono alla Chiesa cattolica senza avere nessun legame» ha detto l´arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale francese. «Usano la fede come argomento per giustificare violenze ingiustificabili». Le parole del religioso si sono sovrapposte a quelle del laico Frédéric Mitterrand. «La Chiesa cattolica in Francia - ha commentato il ministro della Cultura - non è né integralista, né oscurantista».
Il portavoce del nuovo movimento, Alain Escada, riceve nella sede dell´Istituto Civitas, nella storica banlieue di destra, Argenteuil. «Dal momento in cui si offende e si umilia Cristo che è sacro per molti fedeli, la libertà di espressione non è più un argomento valido» spiega il segretario generale di Civitas, cittadino belga e titolare di una libreria a Bruxelles. È fermamente convinto che la Francia sia la culla di «una nuova cristianofobia». «Bisogna fare di tutto per fermare questa malattia». Il debutto è avvenuto, non a caso, ad Avignone, la città dei Papi. Il 17 aprile scorso gli integralisti hanno manifestato contro l´opera provocatoria dell´americano Andreas Serrano, "Piss Christ", un crocifisso immerso nell´urina, distrutto dai contestatori a martellate.
«Escada è solo l´esponente di facciata» osserva Camus. «Dietro di lui c´è una rete di personaggi dell´estrema destra legati al mondo universitario e militare». Nel movimento militano anche monarchici, nazionalisti, sigle come France Action Jeunesse, Action Française, Renouveau français. Non sono pochi gli osservatori convinti che la recente svolta a base di azioni sempre più clamorose sia legata al "voltafaccia" del Front National, guidato adesso da Marine Le Pen. La figlia del fondatore del partito di estrema destra ha preso le distanze dagli ultra cattolici e si è anzi schierata in difesa della laicità. Orfani di una rappresentanza politica, sabato scorso, questi gruppi si sono dati appuntamento davanti alla Piramide del Louvre. Hanno sfilato - un migliaio secondo la Prefettura - con crocifissi e raffigurazioni del Sacro Cuore, di Giovanna d´Arco, fino in Place André Malraux per una lunga veglia notturna di preghiere. Molti manifestanti contestano la tolleranza delle istituzioni nei confronti dei musulmani. «Il dibattito sulla laicità ci ha portato a favorire l´integrazione dell´Islam, cancellando le nostre radici cristiane» dice Escada. Il segretario di Civitas poi torna prudente. «Non siamo un movimento politico», precisa. Altri non la pensano come lui. L´abbate Régis de Cacqueray ha già proposto di creare delle liste civiche in vista delle elezioni amministrative del 2014. «Speriamo di conquistare alcune decine di comuni. Vogliamo degli eletti veramente cattolici che possano estendere il regno di Nostro Signore Gesù Cristo».
Lo spettacolo di Castellucci è stato rappresentato in Italia e altrove in Europa senza suscitare simili proteste. «Questi gruppi di individui violenti e organizzati fanno parte di movimenti religiosi e politici su cui è necessario indagare» scrivono diverse personalità della cultura in un appello. «Per noi, questi comportamenti sono il segnale di un crescente fanatismo religioso. La Francia si è sempre battuta per tutelare la libertà di espressione e il teatro è spesso stato al centro di queste lotte» dicono i firmatari, tra i quali gli attori Michel Piccoli e Juliette Binoche, lo scrittore Stephane Hessel, il direttore della Scala di Milano Stephane Lissner. Da domani lo spettacolo "Sul concetto di volto del figlio di Dio" sarà rappresentato in una sede più a rischio, il centro culturale Centquatre, nel diciannovesimo arrondissement. Le misure di sicurezza saranno ulteriormente aumentate. In Rete circolano inviti per contestare altri spettacoli giudicati blasfemi, "Le Vicaire" del tedesco Rolf Hochhut che sarà al Théatre 14 dalla settimana prossima e poi il "Golgota picnic" di Rodrigo Garcia che comincerà l´8 dicembre al Théatre du Rond-Point. La battaglia dei nuovi "crociati" contro le trasgressioni dell´arte è appena cominciata.

Repubblica 1.11.11
L´intervista
Il regista Castellucci: "Contro di me e i miei attori gravi minacce"
"Rischiamo la vita ma non cederemo agli oscurantisti"
di Anna Bandettini


ROMA - «Non faccio che stare al telefono con Parigi, voglio essere vicino come posso ai miei attori. Ho paura, sì. Ho paura per loro che sono lì, che devono andare in scena. E ho paura per me. Ne me la sentirei proprio di andare in giro per la Francia in questo momento: la mia foto è sui blog dei fondamentalisti cristiani dove sono additato come terrorista islamico. A loro si sono aggiunti quelli dei nazisti e degli antisemiti. Come a dire: è lui. Chi lo vede, è suo».
Romeo Castellucci è sempre misurato, non si arrabbia mai, ma ora con voce preoccupata sottolinea: «Nel mio lavoro mi è capitata qualche denuncia, qualche contestazione individuale, ma qui c´è una vera e propria falange contro». Regista di Cesena, 51 anni, artefice della Societas Raffaello Sanzio, il più famoso gruppo teatrale italiano in Europa, artista inconfondibile che da sempre lavora con sguardo diverso nel grande bagaglio delle immagini collettive della nostra cultura, è lui il bersaglio dei militanti di Istitut Civitas che per giorni, da metà ottobre, lo hanno minacciato fuori dal Theatre de la Ville di Parigi con l´accusa di blasfemia, fino ad a interrompere il suo spettacolo, Sul concetto di volto nel figlio di Dio, che da domani, sempre a Parigi, si sposterà nel più periferico Le Centquatre e poi in tournèe in altre città francesi.
C´è il serio rischio che vadano avanti.
«Sì, temo ci perseguiteranno ancora. Anche se Le Centquatre è in una periferia dove ci sono molti musulmani e forse questo può tenerli lontano», dice Castellucci, al telefono dalle Marche dove sta preparando il nuovo spettacolo, Il velo nero del pastore, che debutterà a Roma il 10 novembre, e che sfiora a sua volta il tema del sacro.
Sul concetto di volto nel figlio di Dio, è stato visto in Italia, in Spagna, in Polonia: paesi cattolici dove non è successo nulla. Perché in Francia sì?
«In Italia alcuni mi hanno semmai incolpato di essere troppo cristiano, di aver rivelato troppo... La Francia? Gli integralisti hanno colto l´occasione per farsi pubblicità. Già al festival di Avignone, questa estate, c´erano state avvisaglie: una sera c´era stata una rissa tra spettatori, una cosa quasi futurista, ma era a fine spettacolo, che è anche legittimo. Ora invece siamo alle minacce di questi che mi dicono essere lefebreviani, seguaci dell´arcivescovo scomunicato dal papa. Ma la cosa tenebrosa è che si sono amplificati in rete e ora sono tanti, compresi nazisti e gruppi antisemiti, gente che grida fuori dal teatro "abbasso la repubblica", "Viva il re". Ebbene sì. Oscurantisti, medievalisti».
Cosa l´ha impressionata delle loro minacce?
«Le perquisizioni. Tutti gli spettatori devono passare il metal detector. Le minacce ci hanno obbligato a militarizzarci. È una cosa tremenda vedere queste cose in un teatro. Io credo che la polizia abbia avuto sentore di qualche seria minaccia, che non ci ha rivelato».
Mai pensato di dire basta, torniamo a casa?
«No, non è possibile. Bisogna mantenere le posizioni di fronte a tanto oscurantismo».
Ma perché farlo con l´immagine di Cristo?
«È difficile prescindere dal fiume in cui si è nati. Noi siamo nutriti dell´immagine di Cristo. E lo spettacolo è un "de profundis", una preghiera sulla caduta dell´uomo che si leva dal punto più basso, da un nadir dell´uomo che ho voluto rappresentare metaforicamente con le finte feci. Ed è falso che vengono gettate contro il Cristo di Antonello da Messina, in fondo alla scena, perché a quel Cristo lo spettacolo rivolge la domanda accorata "perché ci hai abbandonato?". Cioè l´esatto contrario delle accuse degli integralisti».
Se potesse incontrarli che direbbe loro?
«Convertitevi»
Sarebbe a dire?
«Li ho visti fuori dal teatro, spaventosi, paiono diavoli e da quello che urlano, si capisce: non conoscono le Sacre Scritture».

l’Unità 1.11.11
Sul fondo per l’editoria si riapre il confronto dopo i pesantissimi tagli annunciati dal governo
Natale, Fnsi: non difendiamo l’assistenzialismo, ma il diritto dei cittadini a essere informati
Le parole di Napolitano ridanno speranza
ai giornali a rischio
Qualcosa si muove dopo la risposta di Napolitano ai direttori dei giornali non profit, politici, cooperativi a rischio chiusura. La politica deve tener conto del suo richiamo a difesa del pluralismo e del rigore.
di Roberto Monteforte


Ha scosso e in positivo il messaggio del presidente Giorgio Napolitano in risposta ai direttori dei giornali no profit, politici, cooperativi e di idee a rischio chiusura per i «tagli lineari» all’editoria annunciati dal governo. Intanto tutta la stampa italiana ne ha parlato.
«Ha richiamato l’attenzione su di un tema che sino all’altro ieri rischiava di essere considerato importante soltanto dai soggetti direttamente coinvolti. Invece commenta Roberto Natale presidente della Federazione della Stampa -, come dimostra l’impatto avuto anche sulla grande stampa dalla sua presa di posizione, si è capito che non stiamo parlando soltanto del problema della salvaguardia dei posti di lavoro. Il presidente Napolitano ci ha aiutato a far capire che non è una battaglia di nicchia, ma una questione generale e costituzionale».
Il presidente della Fnsi rilancia quel fermo richiamo al «rigore» avanzato dal Colle. «Parliamo di finanziamento pubblico al tempo di Lavitola e dunque dobbiamo essere nettissimi nel prendere le distanze da tutto quanto sappia di assistenzialismo clientelare. Così con il finanziamento pubblico non si può andare avanti». Assicura che il sindacato dei giornalisti farà della difesa del pluralismo come per la legge sulle intercettazioni: «Faremmo cogliere aggiunge che quando si parla della chiusura di oci, nel fragile pluralismo italiano, si parla di una questione che tocca sì noi giornalisti, ma anche milioni di italiani che chiedono un’informazione non omologata, diversa, critica. Dobbiamo insistere sull’impoverimento che rischia di dover subire chi cerca di esercitare una cittadinanza consapevole e informata. «Non deve poter parlare solo chi ha grandi capitali alle spalle. Questo è in sostanza la ragione del finanziamento pubblico all’editoria».
LE DIFESA DEL PLURALISMO
«Ora è chiaro che in discussione è la difesa del pluralismo di questo paese e non solo, anche se importante e drammatico, il rischio della perdita di posti di lavoro» afferma Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil che sottolinea l’impegno unitario di Cgil, Cisl e Uil. Non nasconde la sua soddisfazione per «la risposta» del Colle, anche Francesco Zanotti, il presidente della Federazione italiana dei settimanali diocesani (Fisc). «Con il suo intervento il presidente Napolitano ha dato notevole risalto alla nostra richiesta che non mira a conservare alcun privilegio, ma solo a garantire il pluralismo informativo». «Prendiamo briciole di contributi conclude Zanotti -, ma per noi sono essenziali e questa è una battaglia di libertà. Per ogni voce che si spegne è il Paese a perdere qualcosa».
«Dopo le parole importantissime del Presidente della Republica ci aspettiamo una maggiore disponibilità della maggioranza» osserva il senatore Pd Vincenzo Vita (Pd) che auspica un’intesa «trasversale» sugli emendamenti presentati alla legge di stabilità per ripristinare il Fondo per l’editoria. Qualche apertura arriva dal vicepresidente del gruppo del Pdl al Senato, Gaetano Quagliariello che giudica «istituzionalmente condivisibile» la lettera di Napolitano perché «non entrerebbe nelle scelte del governo e si farebbe garante di un principio costituzionalmente protetto». Occorre tenere conto dei suoi richiami. «La materia va fortemente riorganizzata osserva Perché nel momento in cui c’è una contrazione della dimensione pubblica, la contrazione deve interessare tutti e portare ad una qualificazione degli interventi». Il pluralismo per Quagliariello va salvaguardato anche «nei periodi di crisi». Offre la sua disponibilità ad affrontare con l’opposizione una riorganizzazione di tutto il comparto della comunicazione, anche quella su web.

il Fatto 1.11.11
Ordine di Palazzo Chigi
Il governo taglia i fondi all’editoria, a rischio anche le agenzie di stampa
di Chiara Paolin


Come insegna Lavitola, oggi è molto meglio essere “un bandito” per ottenere un finanziamento all’editoria: se fai solo il tuo mestiere di editore, rischi di restare a secco. E così Palazzo Chigi, dopo aver annunciato il massacro per i giornali (veri) d’opinione e di cronaca locale, ora pensa alle agenzie di stampa: quelle già note, più o meno virtuose, e quelle che si presentano per la prima volta a batter cassa, magari con un curriculum speciale.
Tipo quella di Marco Durante, già noto alle cronache per il suo ruolo di facilitatore nell’affaire Lapo Elkann/trans Patrizia. Anche la sua agenzia, LaPresse, potrebbe beneficiare del contributo statale.
LA PRESIDENZA del Consiglio attendeva entro lo scorso 6 ottobre le proposte di offerta per il Fondo 560, quello cui attingono - e di cui a volte vivono in esclusiva - le agenzie italiane garantendo in cambio informazioni emesse in tempo reale. Destinatari dell’invito a proporre, i soliti noti: Ansa, Agi, AdnKronos, Asca, Tm News (l’ex ApCom), Radiocor, Dire, il Velino, Italpress, 9Colonne. Ma una lettera di Elisa Grande, capo dipartimento per l’editoria di Palazzo Chigi, ha spostato a fine mese il termine “in considerazione della richiesta per-venuta da alcune agenzie e tenuto conto che non sono ancora state comunicate le effettive risorse disponibili per la stipula delle convenzioni relative all’anno 2012”, includendo nell’invio anche La Presse. Dunque stavolta la torta potrebbe essere divisa in undici, perché uno in più ha chiesto di sedersi a tavola, con una fettina più piccola: rispetto ai 40 milioni di euro del 2010, il fondo si potrebbe ridurre dal 30 al 50 per cento. Un bel guaio per le agenzie più grandi, e soprattutto per l’Ansa, che già l’anno scorso subì una decurtazione di quasi 6 milioni (considerando anche il blocco dei rinnovi per le commesse del Ministero degli Esteri), fin qui destinataria di una quota poco inferiore al 20 per cento del fondo. La rete internazionale creata dall’unica agenzia capace di coprire tutti i continenti reggerà a una nuova sforbiciata?
I CALCOLI si faranno quando le somme verranno davvero assegnate, ma di certo il futuro appare grigio. Forse non sarà piaciuta l’indipendenza dimostrata negli ultimi anni dalla più importante agenzia nazionale: dalla lettera di Veronica Lario sulla condizione del marito premier alla puntuale rassegna internazionale sui risultati del governo italiano, fino alla recente missiva della fronda interna al Pdl, l’Ansa ha dato qualche grattacapo a Berlusconi. E sarà interessante vedere se altre testate dichiaratamente più favorevoli, come il Velino di Daniele Capezzone, riusciranno a mantenere il loro obolo (700 mila euro l’anno). Per il resto il taglio dovrebbe proporzionalmente riguardare tutti: i circa 10 milioni concessi all’Agi e all’AdnKronos (nonostante la diversità del lavoro svolto dall’agenzia Eni e da quella guidata da Pippo Marra, commensale di Luigi Bisignani), i 4 milioni circa dell’Asca, i 2 milioni e rotti della Tm, il milione e mezzo all’agenzia economica Radiocor e il resto a soggetti come Dire e 9colonne (pressoché sconosciute ai non addetti ai lavori).
Tutti concordano: troppe agenzie, ne basterebbero due o tre. Ma quest’anno potrebbe essercene un’altra che promette scintille, un’agenzia che vanta - secondo il suo sito - “25 fotoreporter e 500 liberi professionisti”. In effetti, la fotografia è sempre stato il core business aziendale (specialità: sport e spettacoli), con quell’episodio di Lapo e l’amicizia tra Fabrizio Corona e il presidente Durante che ha fatto il giro del gossip nazionale. Ora però Durante fa sul serio: a gennaio ha chiuso un accordo per distribuire in Italia foto e notizie dell’agenzia americana Ap al prezzo di 2 milioni di dollari l’anno. Durante dovrà vendere un bel po’ di abbonamenti per onorare l’accordo, sperando magari una una mano santa Palazzo Chigi.

il Fatto 1.11.11
Ingroia ribatte alle accuse: “Se mi invita il Pdl vado anche lì”
Il procuratore aggiunto di Palermo contestato per l’intervento al congresso dei Comunisti italiani: “Sono imparziale, non neutrale”
di Sandra Amurri


Il Partito dei Comunisti Italiani invita il pm Antonio Ingroia a parlare di legalità e Costituzione, come recita lo slogan del Congresso di Rimini (“Difendi la Costituzione”). E, giusto per restare in tema, in casa Pdl “urla il vento e soffia la bufera”. L’accusa è: Ingroia non è imparziale, ergo non lo sono neppure i processi da lui istruiti come quello, giusto per fare un esempio, al senatore Marcello Dell’Utri.
Dottor Ingroia, conta più ciò che un magistrato dice o dove lo dice?
Premesso che è accaduto quello che temevo, o meglio, che mi aspettavo che accadesse, la domanda va al cuore del problema. Il magistrato possiede libertà di opinione e di espressione, compresa quella di interloquire con la politica senza compiere scelte di campo. Il tema centrale, meritevole di confronto, era la difesa della Costituzione posta continuamente sotto assedio. Mentre è diventato: chi lo ha detto? Il pm che si occupa anche di indagini su mafia e politica. E dove lo ha detto? Al Congresso di un partito. Da un lato esiste un imbarbarimento del confronto politico. Dall’altro quello che definirei un arretramento del dibattito, in quanto anche laddove ci sono state critiche civili si è evidenziato il profilo di inopportunità del mio intervento. Sono certo che 20 anni fa, e ancor prima, se un magistrato avesse detto le stesse cose – a prescindere dal contesto – si sarebbe sviluppato un dibattito sui contenuti.
Lei ha affermato: io sono partigiano della Costituzione, dunque non imparziale come dovrebbe essere un magistrato.
L’imparzialità è un dato centrale e fondamentale del ruolo della magistratura nell’esercizio delle sue funzioni, guai a quei magistrati – e ce ne sono, come dimostrano le indagini – che, fuori dalle aule di giustizia frequentano troppe stanze e salotti del potere e nelle aule di giustizia si comportano con contiguità. Per intenderci, magistrati forti con i deboli e deboli con i forti. Io mi sento imparziale nell’amministrare la giustizia e sfido chiunque a provare che non lo sia stato e non lo sia. Ma non debbo essere neutrale.
Che imparzialità e neutralità non sono sinonimi dovrebbe spiegarlo anche al segretario dell’Anm Cascini, che l’ha indirettamente invitata a maggiore prudenza per evitare equivoci che possono appannare l’immagine di imparzialità.
Nessun equivoco: non debbo essere neutrale, nel senso che ho delle opinioni di fondo a cui far riferimento che non sono né ideologiche né politiche, ma costituzionali, cioè quei valori consacrati dalla Carta su cui ho giurato.
Per molti del Pdl il suo intervento è preparatorio a una sua candidatura.
Siccome il dottor Ingroia le stesse cose le ha dette in più sedi congressuali, Fli, Idv, Sel, vorrebbe dire che va a caccia di candidature. Allora mi inviti anche il Pdl e prenderò in considerazione anche questa candidatura. Più seriamente, credo che un magistrato abbia il diritto e il dovere di confrontarsi sulla giustizia, sulla legalità, con la politica, cioè con chi fa le leggi. Così come i medici interloquiscono sulla sanità con la politica il magistrato lo fa sulla giustizia.
Lo dice perché sa che il Pdl, con ministri imputati per mafia, non la inviterebbe.
Ritengo che sia grave che la politica non voglia ascoltare la voce dei magistrati.
Sarebbe più giusto dire: una certa politica. Non crede?
Lei sta affermando una cosa ovvia.
Falcone e Borsellino sarebbero mai andati ospiti a un Congresso di partito?
Credo che non siano mai stati invitati a un congresso. Ma sono andati a convegni organizzati da partiti politici sia di destra che di sinistra. Ricordo benissimo che Borsellino lo abbia fatto.
Lei dal palco del Pdci ha detto che il Parlamento è diventato un notaio che ratifica decisioni prese altrove. Forse per questo il senatore Quagliariello l’accusa di usare la Costituzione come foglia di fico per coprire interventi politici?
Lei era presente e ricorderà che ho fatto una riflessione sui rischi che corre la Costituzione e che derivano da alcuni progetti di legge e da alcune prassi. C’è stato un progressivo – lo dicono molti costituzionalisti – impoverimento del ruolo del Parlamento. Ho espresso la preoccupazione che si stia andando verso un riassetto dell’architettura istituzionale del nostro Paese finalizzato alla mortificazione della separazione dei poteri e al concentramento nel potere esecutivo.
E ha aggiunto che la politica, invece di chiedere passi indietro alla magistratura, dovrebbe fare essa stessa passi avanti.
Credo che vi sia tra i cittadini un evidente abbassamento della credibilità nei confronti delle Istituzioni. E io, da uomo delle Istituzioni, non posso che augurarmi che questa fiducia venga riconquistata. Come? Non chiedendo alla magistratura – come spesso fa la politica – di fare passi indietro, ma pretendendo che la politica faccia passi avanti rispetto al bisogno di legalità, di diritti, di giustizia.
Per finire: il senatore Gasparri ironizza e dice che alla luce del suo intervento ha più chiara la vicenda Ciancimino.
Non credo che questi non-argomenti di Gasparri meritino risposte. Ciancimino, come è noto, si trova in custodia cautelare, su richiesta della Procura di Palermo.

Corriere della Sera 1.11.11
Ingroia: perché mi definisco partigiano


Caro direttore,
nel ringraziarla per la correttezza con la quale il suo giornale, al contrario di qualche altra testata, ha sintetizzato il mio intervento di domenica scorsa a Rimini, vorrei cogliere l'occasione per riprovare a sottoporre a confronto il reale senso del mio intervento, che mi pare sia stato purtroppo confermato dal fragore di certi attacchi dai quali, come era prevedibile, sono stato ancora una volta investito. È consentito a un magistrato, famoso o no poco importa, esprimere la propria opinione su tematiche legate alla sua professione come Costituzione, legalità e antimafia? E gli è consentito interloquire con la politica su questi temi, poco importa in quale contesto, purché egli non dimostri collateralismo con alcun partito? Io credo di sì. Credo sia un mio diritto come cittadino e un mio dovere come magistrato, e perciò l'ho fatto anche in convegni, manifestazioni o congressi dei partiti che mi hanno invitato per ascoltare il mio punto di vista, e l'ho fatto davanti a iscritti ai partiti politici di diverso orientamento politico-culturale, dai comunisti all'Idv, a «Futuro e libertà», senza aderire a nessuno di essi. E sono pronto a farlo anche in manifestazioni organizzate, perché no, dal Pdl. Non conta dove si dicono le cose, ma quel che si dice. E ho detto pure che mi sento dalla parte della Costituzione, un partigiano della Costituzione, che dalla resistenza partigiana è nata, restando sempre doverosamente imparziale nell'esercizio delle mie funzioni proprio perché quella stessa Costituzione me lo impone, ma con le opzioni valoriali che quella stessa Carta dei diritti mi indica. Le reazioni, spesso composte, e talune manipolazioni mediatiche del mio intervento, che mi presentano come magistrato parziale e comunista, sono però la conferma dell'imbarbarimento della lotta politica, alla ricerca di facili pretesti per tirare acqua al proprio mulino. E questa è la cosa che più dovrebbe preoccupare tutti. Venti anni fa a nessuno sarebbe passato per la mente di attaccare un magistrato di fronte a una dichiarazione di fedeltà ai valori costituzionali e l'accostamento della parola «partigiano» alla Costituzione non avrebbe destato scandalo. Oggi, invece, sì. Possibile avviare un serrato ma pacato confronto su questi temi? Io ancora non dispero. Altrimenti, non resta che prendere atto del gravissimo arretramento del dibattito politico-culturale nel nostro Paese, al quale mi auguro che la parte più consapevole del mondo delle istituzioni e dell'informazione sappia porre rimedio.
Antonio Ingroia
procuratore aggiunto a Palermo

il  Riformista 1.11.11
Suicidi in carcere
Il Dap istituisce una commissione
Polizia penitenziaria. Dopo la morte dell’assistente capo presso la Casa Circondariale di Bellizzi Irpino i casi salgono a 84 in dieci anni. Rita Bernardini sul problema sovraffollamento: «Serve l’amnistia».
di Laura Landolfi

qui

il Fatto 1.11.11
Carceri, si suicidano persino gli agenti
In sette si sono tolti la vita nel 2011. Il Dap ora promette una commissione
di Silvia D’Onghia


Quando hanno aperto la cella/ era già tardi perché/ con una corda al collo/ freddo pendeva Michè”. Nel 1961 una ballata di Fabrizio De André raccontava in musica il suicidio in carcere di un detenuto, condannato a 20 anni per l’omicidio di chi “voleva rubargli Marì”. A cinquant’anni di distanza, sono rimasti in pochi a occuparsi di chi si ammazza dietro le sbarre. E quasi nessuno ricorda che a farla finita sono anche quelle persone che negli istituti lavorano.
Luigi è l’ultimo dei sette poliziotti penitenziari che si sono suicidati nel 2011. Lavorava nel reparto colloqui del carcere di Avellino, si è impiccato ieri mattina nella sua casa di Batti-paglia. Aveva 46 anni, una moglie e un figlio piccolo. Immune da provvedimenti disciplinari, da qualche giorno era in congedo ordinario. Ne hanno dato notizia i sindacati della polizia penitenziaria. Altrimenti il nome di Luigi sarebbe rimasto sconosciuto anche alle agenzie di stampa.
IL PRIMO a togliersi la vita, il 9 aprile di quest’anno, è stato un assistente capo in servizio nel carcere di Mamone Lodè, nel nuorese. Si è ucciso con la pistola d’ordinanza nella sua casa di campagna. Il 12 aprile un assistente del penitenziario di Caltagirone, 38 anni, si è impiccato in contrada Stizza. Il 15 maggio si è sparato nel suo alloggio in caserma un ispettore viterbese. Giuseppe, assistente capo in servizio a Parma, si è impiccato il primo luglio dopo aver fatto rientro nella sua Cirò Marina, in Calabria. Il 7 settembre è stata la volta di un assistente delle Vallette di Torino, che ha premuto il grilletto all’interno del cimitero di Foglizzo. Stessa modalità, ma in casa, per un ispettore romano, che si è suicidato il 18 ottobre. E poi Luigi.
Nessuno può giudicare, entrare nel privato o additare questo o quel motivo per scelte così drammatiche. Ma forse sarebbe il caso di provare a capire se esiste un filo che lega questo alto numero di suicidi (si rischia di andare verso il pessimo record dei 10 nel ‘97 e ‘98). Ieri il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che si è detto “addolorato”, ha “immediatamente istituito una commissione che ha il mandato di studiare il fenomeno del suicidio tra il personale di Polizia Penitenziaria sia dal punto di vista quantitativo, con un esame comparato del fenomeno presso le altre Forze di Polizia, sia dal punto di vista qualitativo, per l’individuazione delle possibili cause dell’atto di suicidarsi”. Un’ipotesi di aiuto, in realtà, era nata già qualche anno fa, nel 2008, quando l’allora capo del Dap Ettore Ferrara pensò, anche su richiesta dei sindacati, di creare degli sportelli di ascolto all’interno delle carceri. Buoni propositi mai messi in pratica (eppure, per esempio, basterebbe affidare il servizio alle Asl, che già si occupano della salute dei detenuti). “L’amministrazione ha fatto orecchie da mercante – denuncia il segretario del Sappe, Donato Capece –. Non vorrei che anche le ultime affermazioni fossero di facciata. Invece è un allarme da non sottovalutare”. Secondo il sindacato, dal 2000 ad oggi i suicidi sono stati 100 (oltre a un direttore d’istituto e a un dirigente regionale). Cifra che l’amministrazione abbassa a 65, ma comunque un numero elevato.
I POLIZIOTTI penitenziari vivono in condizioni molto difficili. Le 2000 assunzioni previste dall’ex ministro Alfano nel Piano carceri non sono mai state fatte (le 1400 che si stanno pianificando erano già previste dal turn over). Gli agenti sono costretti a turni pesanti e sono sempre a contatto con le libertà private (e con la disperazione) dei detenuti. “Non c’è un nesso diretto tra suicidio e lavoro – spiega il segretario della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno –, molto più probabilmente la consapevolezza di non poter assolvere al proprio mandato indebolisce chi è sulla border line della depressione. C’è una manifestazione di disagio legata alla non qualità del proprio lavoro”.

l’Unità 1.11.11
Dopo il voto all’organismo delle Nazioni Unite gli Usa minacciano di sospendere i fondi
Durissima Tel Aviv: «Così si fermano i negoziati». L’Anp: «Un momento storico»
Palestina nell’Unesco Israele: «Una tragedia» E l’Europa si spacca
Un voto di grande valore simbolico, che potrebbe aprire la strada all’ingresso nell’Onu. Il sì dell’Unesco alla Palestina rafforza Abu Mazen, ma apre una crisi con Israele e Usa. Sì di Spagna e Francia, l’Italia si astiene
di U.D.G.


Per i Palestinesi è una vittoria storica. Per Israele, una «tragedia». Per gli Usa un affronto che vale 60 milioni di dollari. Per l’Europa è l’occasione, l’ennesima, per dividersi. Storico voto ieri a Parigi della Conferenza generale dell'Unesco che con 107 voti a favore, 14 contrari e 52 astenuti ha accolto la Palestina come membro a pieno titolo dell'organismo Onu per Scienza, Educazione e Cultura. È un clamoroso successo diplomatico per i palestinesi, che per la prima volta entrano ufficialmente a far parte di un'agenzia delle Nazioni Unite. Ma che ha messo sul piede di guerra gli Stati Uniti e Israele, dividendo l'Europa. Washington ha annunciato il ritiro del contributo previsto di 60 milioni di dollari, quasi 1/4 del bilancio totale dell' Unesco. E anche Israele potrebbe presto decidere di tagliare i fondi dopo aver parlato di «tragedia» per il voto di ieri.
DIVISI
Dal voto è emersa, ancora una volta, un’Europa spaccata: con la Francia che a sorpresa ha detto sì insieme a Paesi come Spagna, Grecia, Austria, Belgio e Lussemburgo e alla maggioranza degli Stati arabi, africani e latinoamericani, oltre a Russia, Cina e India. Mentre la Germania ha votato no e l'Italia si è astenuta. «È una vittoria del diritto, della giustizia e della libertà», esulta da Ramallah il presidente palestinese Abu Mazen. «Questo è davvero un momento storico che restituisce alla Palestina, culla delle religioni e delle civiltà, alcuni dei suoi diritti», gli fa eco il ministro degli Esteri palestinese Riyad Al Maliki, rivolgendosi ai rappresentanti dei 195 membri dell'Unesco riuniti a Parigi. L'adesione, ha poi aggiunto parlando ai cronisti, «è la nostra vittoria». «Abbiamo rimesso la Palestina nel planisfero sottolinea e ora nessuno potrà ritirarla». Oggi, spiega ancora, «sappiamo che eliminare l'ingiustizia che vivono i palestinesi è possibile È solo l'inizio del percorso, ma arriveremo alla liberazione». Quanto all'Italia, commenta, «avremmo auspicato che votasse a favore visti i legami privilegiati tra italiani e palestinesi». A Parigi, Al Maliki ha anche tenuto a dire che la posizione degli Stati che si sono astenuti invocando un impatto negativo sulle trattative di pace con Israele è «sbagliata», mentre si è detto «molto felice» per il sì della Francia. Quella di Parigi, ha affermato, «è una posizione che mostra grande maturità».
LA RABBIA DI GERUSALEMME
Di segno opposto è la reazione d’Israele e degli Usa. La Casa Bianca ritiene che la decisione sia «controproducente» e «prematura» e ha così annunciato il taglio dei fondi. «Dobbiamo effettuare un versamento di 60 milioni di dollari all'Unesco a novembre e non la faremo», dichiara alla stampa la portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland. «La decisione di oggi (ieri, ndr) complica la nostra capacità di appoggiare i programmi dell’Unesco», aveva commentato poco prima l'ambasciatore Usa presso l’organizzazione, David Killion. Un riferimento, il suo, ad una legge interna americana, che prevede di sospendere i fondi ad ogni agenzia Onu che accetti l’adesione della Palestina. Il taglio dei contributi Usa avrà pesanti conseguenze sul funzionamento dell'Unesco. «Una vera e propria mazzata», afferma una fonte interna. Da parte sua, commentando il voto, Nimrod Barkan, l'ambasciatore di Israele che potrebbe seguire gli Usa sospendendo i fondi ha definito l'adesione della Palestina all'Unesco una «tragedia». E in una nota lo Stato ebraico condanna «una manovra palestinese unilaterale che non cambierà nulla sul terreno ma allontanerà ancora di più la possibilità di un accordo di pace». Aprendo la sessione invernale della Knesset, il Parlamento israeliano, il premier Benjamin Netanyahu ha censurato l’Anp per aver intrapreso passi unilaterali prima all'Onu e poi all'Unesco e ha affermato che si tratta di «chiare infrazioni degli impegni di pace», ostacoli cioè ai tentativi «di risolvere il conflitto con Israele mediante trattative dirette». La sensazione maturata in Israele è che l'attuale leaderhsip palestinese punti ad uno Stato indipendente al di fuori degli accordi di Oslo. Di fronte a questa tendenza, «non staremo con le braccia conserte», avverte Netanyahu. Ben più ruvido, come al solito, il commento del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, «falco» di Israel Beitenu, che evoca la necessità di «rompere ogni relazione» con l’Anp. Di tono conciliante è la replica di Al-Maliki, che a stretto giro di posta annota: «Non penso che lo status di membro dell'Unesco avrà un impatto negativo sui negoziati».

stralci da una intervista dell’Unità a Lucio Caracciolo:
Israele ha definito una «tragedia» il voto all’Unesco, sottolineando che in questo modo si allontana la ripresa del negoziato con l’Anp
«Non mi risulta che ci siano negoziati in programma. Dal punto di vista israeliano, questa è comunque una battaglia persa. Un segnale di quello che potrà accadere quando si voterà in Assemblea Generale dell’Onu per ammettere la Palestina nelle Nazioni Unite con rango di osservatore. Ciò permetterà ai palestinesi di adire, per esempio, la Corte penale internazionale de L’Aja, nel tentativo di fare giudicare soldati di Israele cui vengono imputati crimini di guerra o contro l’umanità».
Gli Stati Uniti sembrano aver fatto proprie le posizioni di Israele... «Fino a un certo punto. È evidente che gli Usa restano l’ombrello strategico decisivo che garantisce Israele contro ogni minaccia esistenziale. Ma non sottovaluterei il senso di frustrazione che in certi ambienti militari e diplomatici statunitensi si avverte quando si parla dello Stato ebraico. La sensazione è quella di un Paese, Israele, che chiede e prende in continuazione in cambio di nulla».

il Fatto 1.11.11
Palestina, quasi Stato nell'Unesco
Gli Usa tagliano i fondi Ritorsione pro-israeliana: “Così la pace si allontana”
di Roberta Zunini


Pochi mesi fa sono stati festeggiati i diecimila anni di Gerico, la città più antica del mondo, una delle principali attrazioni archeologiche mondiali sul territorio dell’Autorità nazionale palestinese. Che ieri, una delle più importanti agenzie dell’Onu, l’Unesco (organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, ndr) ha promosso da entità a Stato sovrano a pieno titolo, anticipando e, soprattutto, contravvenendo alle indicazioni degli Stati Uniti, in vista dell’imminente voto del Consiglio di sicurezza Onu sull’ingresso della Palestina tra gli Stati membri dell’assemblea generale. “Quest’ammissione è una vittoria della libertà, della giustizia e della cultura intesa nel senso più alto del termine”, ha subito dichiarato il presidente palestinese Abu Mazen. La Palestina è una terra ricca di siti archeologici e con una tradizione culturale antichissima. Ma la diatriba culturale è l’ultimo dei problemi. Da ieri siamo di fronte a uno degli scontri diplomatici più duri del nuovo millennio. Tanto che gli Usa hanno sospeso, appena 9 ore ore dopo il voto dell’Unesco, il budget federale mensile predisposto: 60 milioni di dollari (gli Usa partecipano al 22% del totale del budget dell’agenzia Onu).
“IL VOTO - ha affermato NAbil Shaat, collaboratore di Abu Ma-zen - è un test riuscito prima del voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di ogni futuro voto in seno all’Assemblea generale Onu per il riconoscimento dello Stato palestinese”. Un voto - previsto per l’11 novembre - che sta mettendo a dura prova le alleanze tra Stati Uniti e Paesi mediorientali, in primis la Turchia, l’Egitto e ultima, ma non ultima, l’Arabia Saudita (finora primo alleato di Washington), visto che il presidente americano Obama ha dichiarato fin dall’annuncio del ricorso all’Onu da parte dell’Anp, che avrebbe posto il veto al riconoscimento, via assembleare, dello Stato palestinese. Le parole del presidente Abu Mazen e di Nabil Shaath hanno fatto infuriare ancora di più Israele e gli Usa che hanno subito minacciato di ritirare gli aiuti all’Unesco e dunque all’Onu. Contributi ingenti che incidono per un quarto sulla somma globale. Shaath, che è membro del comitato centrale di Fatah, ha ricordato all’agenzia di stampa internazionale Aki che oggi “nove dei Paesi più popolosi al mondo, Cina, India, Russia, Brasile e Pakistan, cioè due terzi della popolazione mondiale, hanno votato a nostro favore”, sottolineando come le dichiarazioni irate degli Usa, “sono una minaccia per la pace e la sicurezza mondiale, nonché una punizione collettiva”. Shaath ha poi detto che il Consiglio di sicurezza deve a questo punto prendere atto del voto, riferendosi al veto già annunciato dagli Usa riguardo alla richiesta di riconoscimento della piena membership, formalizzata il 23 settembre davanti all’assemblea generale Onu da Abu Mazen.
“QUELLO CHE è successo è una vittoria per tutto il popolo palestinese, un nuovo riconoscimento internazionale al diritto del popolo palestinese di avere uno Stato indipendente e sovrano”. L’assemblea generale dell’Unesco di ieri ha mostrato peraltro in anticipo gli schieramenti della comunità internazionale: la Francia, molto dinamica, per usare un eufemismo, durante questa primavera araba di rivoluzioni e guerre per il petrolio mediorientale, si è schierata a favore dell’ingresso della Palestina nell’Unesco. Mentre già si sapeva che la Germania avrebbe votato contro. L’Italia e l’Inghilterra invece si sono astenute... ça va sans dire.

«Se i palestinesi provano a forzare la via diplomatica, come hanno fatto ieri, tutti gridano che queste iniziative «unilaterali» sono un ostacolo alla pace. Ci piacerebbe allora sapere - in particolare da Israele, Stati Uniti, e Italia - esattamente cosa dovrebbero fare i palestinesi, a parte svanire quietamente tra le nuvole»

La Stampa 1.11.11
Ma il vero scontro arriverà all’Onu
di Lucia Annunziata


Il voto è stato una anticipazione, una sorta di frecciata arrivata a segno Mettiamoci d’accordo. Se i palestinesi si armano, tutti gridano che la violenza è un ostacolo alla pace. Se i palestinesi provano a forzare la via diplomatica, come hanno fatto ieri, tutti gridano che queste iniziative «unilaterali» sono un ostacolo alla pace. Ci piacerebbe allora sapere - in particolare da Israele, Stati Uniti, e Italia - esattamente cosa dovrebbero fare i palestinesi, a parte svanire quietamente tra le nuvole, come in «Miracolo a Milano».
Ieri la Palestina è stata ammessa all’Unesco. Vecchia storia - ogni anno i palestinesi regolarmente chiedono di essere ammessi -, nuovo risultato: 107 contro 14, con 52 astenuti. L’approvazione è arrivata, grazie soprattutto al consenso del nuovo fronte che guida lo sviluppo mondiale, i Paesi Brics, Brasile, India, i Paesi africani, arabi, la Cina, la Russia e qualche Paese europeo rilevante come la Francia e il Belgio. Contro hanno votato Usa, Israele, Germania, Canada, Australia, Olanda. L’Europa si è divisa, come si vede, esprimendo anche una buona parte di prudenti che si sono astenuti, fra cui Italia e Inghilterra, Polonia, Portogallo, Ucraina, Danimarca, Svizzera. Un voto insomma che insegue i profili del multilateralismo in cui nuotiamo, e che, non a caso, ne ha svelato tutte le venature. Usa e Israele hanno reagito con forza, I primi annunciando che taglieranno ora i loro fondi all'Unesco (il 22 per cento dei 634 milioni di dollari annuali), il secondo parlando di «tragedia».
Reazioni francamente esagerate se si trattasse solo dell’entrata in questa organizzazione culturale che difende tra l’altro i siti patrimonio dell’umanità, cui i palestinesi contribuiscono con Betlemme e il curioso e fangoso Mar Morto. La relazione fra Washington e Unesco è in effetti tormentata da molto tempo - il presidente Ronald Reagan nel 1984 decise di boicottare l’organizzazione, da lui accusata di sentimenti anti-israeliani e antioccidentali, e il rientro è avvenuto solo nel 2003, grazie a George Bush. Ma l’irritazione di ieri ha a che fare con il senso che il voto è stato un’anticipazione, una sorta di frecciata arrivata a segno, del vero scontro che avverrà fra poco: a novembre infatti l’Onu dovrebbe esprimersi sulla richiesta della Palestina di essere ammessa come Stato membro. Se l’ammissione passasse, magari proprio grazie al fronte creatosi ieri all’Unesco, significherebbe il riconoscimento di fatto dello Stato palestinese, aggirando il consenso di Israele, e dunque anche di Washington.
Ma davvero questa strategia palestinese è così dannosa?
Le puntate precedenti all’origine di questo dubbio vanno forse richiamate qui, per chiarezza. I palestinesi sono divisi in due entità, sia territoriali che politiche, almeno dal 2003. Oggi il West Bank, cioè la ex Cisgiordania occupata, è guidata da Fatah, l’ex organizzazione di Arafat, maggioritaria nella Pla, Palestinian National Authority, il governo ad interim, il cui presidente è Abu Mazen, nomignolo di Mahmoud Abbas, e il primo ministro è Salam Fayyad, economista, con una carriera nel Fondo Monetario. Gaza è invece controllata, dopo le elezioni del 2007, da Hamas, che ha vinto quelle elezioni. Fra le due entità non c'è oggi quasi nessuna relazione anzi scorre tale cattivo sangue da aver dato origine a una guerra segreta - così come diverse sono le posizioni politiche. Nel West Bank il primo ministro è concentrato da tre anni nella costruzione di istituzioni locali, con una propria economia, aiuti internazionali, e relazioni estere, nell’ipotesi di dimostrare e far pesare la maturità raggiunta dalla Palestina. Hamas invece, alleato di Iran ed Hezbollah, non riconosce nemmeno Israele, figuriamoci aprire tavoli di pace.
Non che le differenze abbiano alla fine avuto molta rilevanza nel rapporto con Israele. I colloqui di pace guidati dal Quartetto (Usa, Unione Europea, Russia e Onu) con inviato Tony Blair, e rilanciati da Obama, hanno preso la solita ferrovia morta, e giacciono lì - colloqui per preparare altri colloqui - da un paio di anni.
Le strategie dei due settori di palestinesi si sono nel frattempo distinte ancora di più dopo la primavera araba: mentre Hamas stringeva i suoi rapporti con l’estremismo, i vecchi (anche in senso di età) leader di Fatah hanno avuto un’idea coerente con quella dello Stato de facto: chiedere, appunto, l’ammissione all’Onu come membro.
In questa situazione si capisce bene la reazione di Usa e Israele, ma ugualmente ci rimane incomprensibile.
E’ vero che uno Stato palestinese dovrebbe nascere da una negoziazione con Israele, come sostiene Washington. Ma se i negoziati da decenni non vanno da nessuna parte, cosa debbono fare i palestinesi, che, fra i due popoli, ricordiamolo, sono quelli che lo Stato non ce l’hanno? L’ammissione all’Unesco, e all’Onu, forzare insomma la mano alla diplomazia, è davvero un ostacolo alla pace, una «minaccia», come si è detto ieri, alla stregua di un’aggressione armata o di un atto di terrorismo?
La verità è che dal West Bank sta nascendo una abile e nuova strategia che lavora nel cuore delle istituzioni internazionali, lavora sui nuovi equilibri e umori mondiali. E Stati Uniti e Israele farebbero bene a riconoscerne l’intelligenza, e a misurarvisi con altrettanta.

Corriere della Sera 1.11.11
«Un voto ostaggio della politica Quei luoghi sono di tutti»
Amos Gitai: «Sbagliato vietarli a loro ma anche a noi»
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — «Fare la pace è come fare l'amore. Bisogna essere in due...». Al regista israeliano Amos Gitai — il piede sull'aereo per l'Italia, «al Museo del cinema di Torino mi dedicano una retrospettiva» — non è che questo voto per la Palestina nell'Unesco faccia tanta sensazione. Voce controcorrente, spesso criticatissima in patria: «Parliamo di pace? E allora la pace si fa insieme — non si smentisce —. E bisogna tenere conto anche dei diritti culturali dei palestinesi. E prendere atto della cultura che producono. La considero una cosa positiva. Ogni israeliano dovrebbe essere felice, se questo voto aprisse ai due Stati e a un dialogo migliore anche fra uomini di cultura. Certo, poi bisogna vedere come andrà nel concreto...».
Che cosa intende dire?
«Che la cultura da queste parti è una battaglia politica. E non so che cosa succederà in luoghi per i quali israeliani e palestinesi si scannano da sempre. Molti di quei monumenti finora sono rimasti chiusi ai palestinesi: ora magari accadrà il contrario, a noi israeliani verrà impedito d'andarci. Ci sono due ordini di problemi. Primo, i luoghi dov'è nato l'ebraismo sono gli stessi dov'è nata la storia del cristianesimo e dell'Islam. Secondo, molti di questi luoghi si trovano perlopiù nei territori palestinesi o in zone contese...».
Che cosa pensa di questo scontro sulla cultura?
«Fa ridere l'idea che questo voto comporti chissà che cosa. Non capisco che cosa possa esserci di pericoloso o di strepitoso».
Per Israele l'Unesco è la più politicizzata, e non certo amichevole, delle agenzie Onu...
«Questa è una battaglia politica, sicuramente. I palestinesi hanno vinto non perché improvvisamente il mondo si sia accorto del loro peso culturale: hanno vinto perché in quell'assemblea ha pesato la maggioranza dei Paesi musulmani».
Non è surreale che l'Unesco promuova misconosciuti «patrimoni culturali» del Congo o delle Barbados e non abbia mai potuto occuparsi di Betlemme?
«Certo che lo è. I luoghi appartenenti alle tre grandi religioni dovrebbero appartenere all'esperienza religiosa, non agli Stati».
Da ebreo, la turba che le ricchezze di Gerusalemme possano un giorno finire sotto tutela internazionale?
«Io devo porre domande di tipo etico, universale, cui la gente e i politici possono dare risposte».
Quindi anche la questione del riconoscimento Onu della Palestina...
«In astratto, sono favorevole. Ma non per ragioni politiche. Lo sono perché voglio la coesistenza pacifica, l'esistere gli uni accanto agli altri senza ucciderci. Poi non lo so se un voto all'Onu, o all'Unesco, possa servire».
Che cosa invidia alla cultura palestinese?
«Nulla. Credo nelle differenze, non nel copiarsi. La coesistenza è vivere vicini nella diversità. Imparare a non essere d'accordo senza sparare».
Ma ci sarà un regista palestinese che ammira...
«Non mi piace la parola "ammirare". Ognuno ha un'identità ed è bravo se la esprime, comunque la pensi».

Corriere della Sera 1.11.11
«Adesso siamo su una mappa Almeno su quella della Cultura»
Suad Amiry: «Ora tocca a noi conservare questi tesori»
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — I palestinesi esultano, il governo israeliano s'arrabbia. Ma da oggi che cosa cambia, per una donna di cultura palestinese? «Che smetto di chiedermi perché Israele poteva stare nell'Unesco e noi no. Non dite tutti che volete la soluzione dei due Stati? E perché Obama prima vuole i due Stati e poi taglia i fondi all'Unesco, appena arriviamo noi? Sono arrabbiatissima anche con l'Italia. Perché s'è astenuta? Non crede più in quel che ha sempre sostenuto? E i tedeschi che hanno votato contro? Che cos'è, il solito senso di colpa verso Israele che dobbiamo pagare noi? Questo voto ci dice che la Palestina è stata accettata dal mondo. E che è stata accettata nella sua forma più alta: come centro di cultura».
La quadrupla felicità di Suad Amiry — palestinese che da trent'anni vive a Ramallah; donna impegnata nei negoziati di pace; intellettuale tradotta in undici lingue (in Italia, molti hanno letto Sharon e mia suocera); architetto che cura il patrimonio culturale palestinese — è in un brindisi col caffè del pomeriggio. Lei che ammira «da sempre il multiculturalismo degl'israeliani, la loro capacità d'unire culture mondiali diverse», o «il coraggio d'israeliane come Amira Hass, un'intellettuale che sa vedere oltre gli schemi e le bugie del suo governo», oggi si bea della sua cultura palestinese nel consesso mondiale: «C'è sempre una doppia misura: se il mondo ammira gli scrittori israeliani, è cultura; se veniamo accettati noi, è politica. Ma la cultura è speranza. E per chi vive qui, la disperazione è tutto. Questo voto migliora un po' le cose. Adesso siamo sulla mappa, almeno quella culturale».
Quali saranno i benefici?
«Da architetto, penso che finalmente si sbloccheranno molte cose a Betlemme, Hebron, Nablus. Abbiamo sempre problemi a proporre iniziative internazionali, perché manca un riconoscimento ufficiale di quel che facciamo. Il timbro dell'Unesco aiuterà a convincere ospiti, convogliare soldi, promuovere attività. Questi luoghi appartengono all'umanità, è giusto che l'umanità se ne occupi. Anche se ora tocca a noi palestinesi imparare a conservarli, a valorizzarli meglio».
Si parla di cultura: in realtà, si punta all'Onu.
«È quel che spero. Fin dal 1947, perché Israele ha avuto benefici dall'Onu che noi non possiamo nemmeno sognare? Siamo l'ultimo Paese al mondo sotto occupazione. Abu Mazen ha provato tutto, raccogliendo solo insulti. L'Onu è l'ultima chance».
Ci sono luoghi contesi, come la Tomba di Rachele, che non sarà certo l'Unesco a rendere universali: un voto «politico» come questo non crea più problemi?
«Non è un voto politico. Lo dice Israele, ma un Paese che ne occupa un altro non può chiedere amore per i suoi luoghi. La cosa unica di quei siti è che hanno significato per ebrei, musulmani, cristiani e che prima d'Israele tutti potevano visitarli. Ora, io non posso andarci. E un israeliano non può venire a vederli».
E i tesori di Gerusalemme?
«Gerusalemme per me è la capitale della Palestina. Ma siccome noi siamo la parte debole, possiamo anche accettare che diventi un patrimonio neutrale gestito dall'Unesco. Sempre meglio che lasciarla tutta a Israele».

Repubblica 1.11.11
Lo storico statunitense Juan Cole: "Sul Medio Oriente l´opinione del mondo è cambiata"
"America e Stato ebraico isolati questo voto è segno di una svolta"
Si avverte l´irrilevanza crescente degli Stati Uniti nell´area, per Washington questa è stata una sconfitta
di Alix Van Buren


«La conquista di un seggio palestinese all´Unesco ha un valore simbolico. Quel riconoscimento, però, è anche un segnale importante: rivela un cambiamento profondo nell´opinione mondiale, l´isolamento crescente di Stati Uniti e Israele». Juan Cole, storico del Medio Oriente all´Università del Michigan, invita a calcolare i voti espressi ieri dall´assemblea di Parigi per distillarne il significato politico. «L´ingresso della Palestina all´Unesco è stato approvato dalla stragrande maggioranza: 107 membri a favore, e soltanto 14 contrari. Siamo di fronte a un´inversione di rotta, anche rispetto a pochi anni fa».
Professore Cole, la Francia ha rotto i ranghi. Italia e Gran Bretagna si sono astenute. Lei come lo interpreta?
«È la dimostrazione che il fronte del rifiuto contro la nascita di uno Stato palestinese va sfaldandosi. Ieri si sono viste diserzioni significative, in particolare della Francia. Tutto questo annuncia due novità: la prima è la debolezza crescente, l´irrilevanza dell´America nelle questioni del mondo arabo. Per Washington, si è trattato di una sconfitta. La seconda novità è la percezione diversa di Israele da parte della comunità internazionale».
Che cos´è cambiato?
«Sono cambiate molte cose nell´ultimo decennio: ci sono state la guerra del Libano nel 2006, di Gaza nel 2008-2009, il blocco della Striscia, poi l´affare della Mavi Marmara con l´assalto alla nave turca della Freedom Flotilla nel 2010. Sono episodi che hanno modificato l´immagine di Israele, nel trattamento dei palestinesi. Il voto all´Unesco manifesta l´opposizione dell´America Latina, l´Africa, l´Asia, e anche parte dell´Occidente, alla politica della destra al governo in Israele».
Ma l´accesso all´Unesco non garantirà ai palestinesi uno Stato. La loro, è una diplomazia vincente?
«Intanto, il risultato di ieri ha ramificazioni legali: se alcuni siti storici e religiosi verranno designati patrimonio dell´umanità sotto la bandiera palestinese, questi saranno in qualche misura protetti dall´espansione delle colonie israeliane. Quanto alla strategia diplomatica, l´efficacia si vedrà nel lungo termine. Del resto, dopo le promesse inevase di Oslo, dopo l´inconsistenza del processo di pace, una nuova generazione colta di avvocati palestinesi vuole rompere l´isolamento indirizzandosi alla comunità internazionale».
E che risultato otterrà, secondo lei, quando il Consiglio di sicurezza voterà il riconoscimento di uno Stato palestinese?
«Probabilmente, otterrà niente. Servono 9 voti per una maggioranza, e i palestinesi ne hanno soltanto 8. Washington non dovrà nemmeno opporre il veto. È una faccenda tutta simbolica. Però si capisce che il vento è cambiato. Il mondo si muove in una nuova direzione».

il Fatto 1.11.11
Sette mesi di rivolta e repressione
Siria, dall’inizio del terrore alla fine della paura
di Diego Caserio


Giorni fa, cercavo di spiegare a un amico come i maggiori intellettuali dissidenti siriani abbiano poca voce in capitolo nelle strade in cui avvengono le proteste, e mi è stato risposto che, in fondo, non saranno i manifestanti ad avere “voce in capitolo” nella ricostruzione di una Si-ria post-rivoluzionaria. È difficile confutare l'evidenza storica di una simile affermazione. Basti pensare a Khomeini, Guida Suprema dell'Iran post-rivoluzionario, che guidò la resistenza allo Shah da Parigi. Detto ciò, i giovani manifestanti rimangono potenzialmente in grado di influenzare il corso del cambiamento, quanto meno nella fase iniziale: è il caso dell'Egitto, dove folle di dimostranti continuano a scendere in piazza, affinché la rivoluzione giunga a compimento, al di là della deposizione del satrapo. La differenza è che al Cairo il rovesciamento del regime è avvenuto in un mese circa, in Siria sono ormai oltre 7 mesi che i manifestanti pagano con il sangue la loro determinazione. Il rischio, sempre più concreto, è che i comitati organizzativi perdano il controllo del movimento pacifico, a favore di una lunga militarizzazione del confronto, al termine della quale, i ruoli decisionali verrebbero occupati dai leader delle milizie. “Noi un'idea di rappresentazione democratica ce l'abbiamo pure”, mi confida Hamza, uno dei ragazzi di Duma, il sobborgo di Damasco più devastato dalla repressione, “abbiamo scelto un paio di persone conosciute da tutti nel quartiere, preferisco che mi rappresenti un uomo di 50 anni che manifesta insieme a me a uno che qui non si è mai visto”.
LA RIVOLTA siriana è stata innanzitutto sovvertimento delle certezze più radicate per i locali. Quando si è iniziato a comprendere che il tutto non si sarebbe risolto in un paio di settimane, amici e negozianti siriani hanno iniziato a chiedermi: “E tu come pensi che vada a finire? Il punto di vista di uno straniero é diverso , forse hai anche delle risposte differenti, no?”. Un connubio di umiltà intellettuale e sincero spaesamento .
Ahmad era uno studente universitario di Damasco. Sull'onda dell'entusiasmo generato dalla rivoluzione tunisina e da quella egiziana, confidava in un rovesciamento del regime in qualche settimana. Con il passare delle settimane, affioravano le incertezze: “È probabile sia necessario passare alla lotta armata... le armi ci sono”. Quindi i primi tentativi nel suo vicinato, Dummar, un gigantesco sobborgo dove si trovano i quartieri generali della IV Divisione dell'esercito, guidata dal fratello del presidente, Maher al-Assad, e rinomata per la sua brutalità. A Dummar la gente aveva ancora paura a maggio, rimaneva inchiodata dal terrore davanti a Ahmad e i suoi amici, quando questi gridavano “hurria!” (libertà) uscendo dalla moschea, dopo la preghiera del venerdì. Di conseguenza, Ahmad preferiva partecipare alle proteste in programma in centro, nel quartiere di Midan, dove affluiva gente da tutta Damasco.
Spesso non esistevano vere e proprie strutture organizzative. “Se io ti incontro in una protesta, so di poter contare su di te e ci teniamo in contatto”, mi fa notare Tareq, un amico di Ahmad che abitava nel quartiere popolare di Rukneddin, “è tutto molto spontaneo”.
Nei mesi estivi, però, sono state tradite molte delle aspettative. Il mese sacro islamico di Ramadan (agosto) era stato preannunciato come un passaggio decisivo: “Vedrai, ogni giorno sarà come un venerdì di protesta... la gente lavora meno, si creano più opportunità di assembramento nelle moschee... e quelli religiosi vorranno avere l'onore di morire da martiri in una manifestazione”. I martiri non erano mancati, come aveva previsto Hamza, ma nulla era mutato nell'equilibrio delle forze in campo, rimasto a favore del regime.
In parallelo all'evoluzione delle aspettative dei manifestanti, ho assistito alla reazione propagandistica del regime, disposto a tutto pur di recuperare il controllo dell'opinione pubblica. Così le compagnie telefoniche statali iniziavano a convocare in piazza via sms i cittadini siriani, perché dimostrassero il loro amore patrio (per il regime). I vari mezzi di trasporto trasmettevano a ripetizione canzoni nazionaliste, che si sentivano molto di rado all'inizio dell'insurrezione. Manifesti apocalittici facevano la loro comparsa sui lampioni, “no al conflitto confessionale, sì alle riforme”, e il logo di Al Jazeera, accusata d’aver distorto gli eventi, veniva raffigurato sui cestini della spazzatura.
A livello generale, il fenomeno più sorprendente era la scomparsa graduale della paura. Ancora mi ricordo un agente immobiliare, che a mala pena accennava alla sua rabbia nei confronti del regime, tenendo d'occhio che nessuno origliasse dalla porta del suo ufficio. Qualche mese dopo, mi è capitato di prendere un taxi e trovarmi di fianco a un autista desideroso di sfogarsi, di raccontarmi tutto d'un fiato dei suoi amici arrestati. Questo forse, di tutti i cambiamenti, è quello più irreversibile e fondamentale, poiché la fine dell'era del terrore riguardava tutti, non solo i manifestanti.

Repubblica 1.11.11
L’occasione storica delle primavere arabe
di Ferdinando Salleo


La fine della guerra civile in Libia, le elezioni in Tunisia e quelle vicine in Egitto impongono alla comunità euro-atlantica (all´Europa e all´Italia in particolare) una urgente riflessione politico-strategica per affrontare lo svolgimento della crisi diffusa e non ancora assestata che ha cambiato i paradigmi di una regione a noi contigua. Le "primavere arabe" hanno fatto saltare il "sistema dei raìs" che per decenni ha mantenuto l´ordine col pugno di ferro; le monarchie arabe annunciano generiche riforme per prevenire il contagio che ha già invaso la Siria; l´antico conflitto tra sunniti e sciiti rimette in causa l´assetto politico dell´Iraq e minaccia l´equilibrio interno saudita e quello del Golfo. Mentre procede con l´arricchimento dell´uranio, Teheran cerca uno spazio politico nel mondo arabo giocando la carta anti-occidentale e anti-israeliana. La politica neo-ottomana della Turchia, rimasta astutamente a guardare durante la guerra libica, adombra un disegno sub-egemonico regionale.
Dopo aver snobbato il rinnovato impegno americano per il processo di pace e umiliato lo stesso Obama, Israele ha una minore sicurezza, sia per le ambiguità del nuovo Egitto che non controlla più il Sinai e mette in forse il Trattato di amicizia, sia politicamente per le vicende della richiesta di ammissione alle Nazioni Unite della Palestina. In realtà, se il fattore anti-israeliano è assente dalle rivolte arabe, la questione palestinese potrebbe riacquistare un ruolo malgrado la scarsa sensibilità sin qui mostrata al riguardo dai giovani ribelli del Mediterraneo. A Washington, dopo gli insuccessi diplomatici infertigli da Netanyahu sul negoziato con i palestinesi, Obama è costretto a giocare in difesa nell´anno pre-elettorale dove rischia già molto, mentre nel governo israeliano sono determinanti gli oltranzisti "russi" di Lieberman e i partiti religiosi. È difficile immaginare progressi su questo versante, almeno nel breve termine, né purtroppo un ruolo per l´Europa perché, malgrado i velleitarismi da un lato e, dall´altro, le assicurazioni pro forma di associarla, il teatro degli auspicati progressi resta quello americano-israeliano dominato dalla politica interna.
Di fatto, più che al Mediterraneo maghrebino-libico Washington ha mostrato di attribuire valore strategico alla regione medio-orientale, da Israele all´Asia Mediana, con l´Egitto già perno del sistema di sicurezza di Israele e antemurale del Golfo dove la monarchia saudita, preoccupata e umiliata dall´abbandono americano del fido Mubarak, teme per sé e guarda attivamente ad una propria politica estera nazionale.
Per l´Europa la sfida sono le "primavere arabe". Il corso che prenderanno i Paesi mediterranei non è inevitabile - islamico o democratico - perché, pur nel carattere endogeno e specifico delle rivolte, non poco dipenderà dalla capacità nostra (degli europei e anche degli americani, malgrado un certo disimpegno) di accompagnarne l´evoluzione. Lo smottamento del sistema ha avuto in ciascun Paese caratteristiche proprie e non sembra finito: il malgoverno e il nepotismo, la negazione dei diritti civili, la mancanza di ricambio politico e generazionale, la prosperità promessa e non mantenuta hanno fatto esplodere la rivolta giovanile il cui cemento è stata l´antica protesta politica, non solo sociale, il mezzo di coesione è stata la moderna comunicazione interattiva che ha riempito le "piazze Tahrir": i ribelli non si richiamavano alla moschea, meno ancora al khomeinismo, ma inconsapevolmente ai principi del 1789, libertà, giustizia, buon governo, prosperità. I giovani egiziani e tunisini hanno "arruolato" i ceti medi, in Tunisia le classi professionali, in Egitto la piccola-media imprenditoria e strati dei militari. La "fratellanza" e le associazioni islamiche si sono poi inserite con cautela senza riuscire, come si è visto in Tunisia, ad egemonizzare i movimenti popolari ancora magmatici. La cultura islamica si farà certamente sentire nella formazione del quadro politico secondo le tradizioni e le culture locali - molto diverse tra loro - ma nell´ambito di una società variamente influenzata anche dal soft power europeo trasmesso dalla televisione e da Internet. L´Occidente ha appoggiato per decenni i "raìs amici" chiudendo più di un occhio in nome della stabilità, ma ha subito preso posizione per le "primavere", aiutato i ribelli, stabilito contatti e riconosciuto i nuovi governi. In Libia è intervenuto militarmente. Tutto ciò ci viene riconosciuto: occorrerà adesso costruire su questa base.
Bisognerà fare attenzione però a non cadere nell´errore di pretendere l´applicazione meccanica dei nostri sistemi politici democratici, come fu fatto in Iraq con le conseguenze che vediamo ancora: elezioni generali a bassa intensità e partiti che si formano su base etnica o religiosa, frammentazione, milizie di parte. Occorrerà invece sostenere lo Stato di diritto, premessa di ogni riforma, lasciando che ciascuna comunità scelga le forme della propria tradizione per attuarlo. Molto complesso è il problema dell´aiuto economico e sociale. Anzitutto, manca o è corrotta e inaffidabile l´amministrazione pubblica ereditata dai "raìs": l´aiuto infrastrutturale da Stato a Stato è quindi prematuro. Invece, più dell´aiuto umanitario, è evidente la necessità di raggiungere rapidamente la piccola-media imprenditoria per creare occupazione e reddito, sopperire anche visibilmente alla stabilità e alla ripresa. Il microcredito e le formule impiegate dalla Bers in Europa Orientale possono essere molto utili, mentre le organizzazioni di cooperazione dell´Unione Europea e quelle finanziarie di Bretton Woods possono già intervenire sul territorio a favore delle popolazioni. Il volet educativo, l´unico moderatamente attivo nell´ambito dello sfortunato "processo di Barcellona", può essere rilanciato con l´accento sulla formazione.
Fondamentale è l´elemento temporale: il rapido deterioramento della situazione economica, interna e internazionale, e i rischi dell´instabilità regionale consigliano di aiutare a concludere la transizione in tempi brevi per scongiurare forme di restaurazione dominate da spezzoni di ancien régime e alimentate dal populismo. In ogni caso, occorre una politica attiva da parte dell´Europa e degli Stati Uniti - da parte nostra è necessaria al più presto data la prossimità e i problemi migratori - e una stretta consultazione occidentale per non perdere un´occasione storica.

Corriere della Sera 1.11.11
La Navicella Divina verso Tiangong-1
Voleranno agganciati 12 giorni. A bordo test scientifici tedeschi
di prima volta sul laboratorio Tiangong-1. E l'Occidente sta a guardare.
Giovanni Caprara


La Cina compie un altro balzo spaziale. Nella notte (salvo sorprese dell'ultimo momento) dal poligono di Jiuquan, nella Mongolia interna, è partita Shenzhou-8, la «navicella divina» che dovrà dimostrare la capacità di inseguire e poi di agganciare il laboratorio orbitale Tiangong-1, il «palazzo celeste», in maniera automatica. Per aiutare l'operazione anche il vettore spaziale Lunga Marcia 2F/Y8 con cui è stata lanciata ha subito dei perfezionamenti nel sistema di guida al fine di raggiungere un'orbita più precisa.
La navicella di solito usata per far volare i taikonauti, come è accaduto nelle passate tre spedizioni, questa volta non è abitata. Il motivo è duplice. Il primo è dimostrare che Shenzhou, opportunamente modificata, può effettuare spedizioni in totale autonomia. La seconda ragione è che si tratta di un test ad alto rischio mai affrontato dagli ingegneri di Pechino.
Dopo due giorni di viaggio, orientandosi con le stelle, la «navicella divina» inquadrerà nei suoi sensori la sagoma del «palazzo celeste», si avvicinerà lentamente e infine si accosterà unendosi al sistema di aggancio mai collaudato finora. La fase più critica si presenterà quando il veicolo sarà a 52 chilometri dall'obiettivo perché entrerà in una fase complessa di manovre nelle quali non sono ammessi errori.
Se l'operazione di «rendez vous e docking», come la chiamano gli specialisti, si svolgerà senza ostacoli, il «cervello» del laboratorio prenderà il governo del nuovo treno cosmico per 12 giorni nei quali saranno effettuati numerosi test riguardanti soprattutto i sistemi di ambientazione dai quali dipenderà il futuro impiego. Ma essendo il sistema di aggancio di nuova concezione, gli ingegneri cinesi lo sottoporranno ad una seconda prova. Al dodicesimo giorno, infatti, Shenzhou-8 si staccherà allontanandosi di 140 metri per riagganciarsi poi di nuovo. Riuniti, voleranno per un paio di giorni ancora e infine la «navicella divina» si libererà questa volta definitivamente dall'abbraccio del «palazzo celeste» e scenderà a terra per essere recuperata.
Ma c'è un'altra novità importante. Per la prima volta ci sono a bordo 40 esperimenti scientifici ideati da ricercatori tedeschi e cinesi. Raggruppati nel progetto «Simbox» sono soprattutto rivolti a studi di biologi. I microorganismi impiegati servono a valutare le reazioni dei sistemi immunitari ma si sperimentano pure proteine ed enzimi che possono essere preziosi nel miglioramento di alcuni farmaci. Preparati dall'agenzia spaziale tedesca Dlr in collaborazione con sette università e realizzati da Eads-Astrium, non a caso sono finanziati dal ministero federale dell'Economia e della Tecnologia. Se la missione avrà successo, nei primi mesi del 2012 partirà Shenzhou-9 e a bordo avrà due (o tre) taikonauti che soggiorneranno per la

Corriere della Sera 1.11.11
La carica dei cinesi per l'auto. A Torino
di Milena Vercellino


Un nuovo avamposto a Torino per la Cina dell'auto che guarda sempre più all'arena globale. Mentre si preparano a scavalcare i confini del mercato interno, diventato ormai il primo al mondo ma da più parti ritenuto insufficiente a soddisfare le ambizioni di un sistema produttivo in crescita a doppia cifra, i costruttori automobilistici cinesi guardano ai luoghi dell'eccellenza del settore. Come la città italiana dell'auto, che, pur alle prese con le turbolenze del presente, conserva un tessuto produttivo intriso di know how ad alto livello nel design e nella progettazione.
Proprio per attingere alle competenze maturate nella tradizione automobilistica piemontese è sbarcata ieri a Torino la Baic, una delle «cinque sorelle» dell'industria automobilistica della Repubblica Popolare. Un milione e mezzo di vetture vendute nell'ultimo anno, diverse collaborazioni all'attivo con Hyundai e Daimler, Baic ha recentemente lanciato la produzione di vetture con marchio proprio e sta lavorando al rafforzamento di quest'ultimo.
Nella città della Fiat la casa asiatica è arrivata per cercare collaborazioni «nel design e nella ricerca e sviluppo, anche per interpretare il gusto europeo», ha spiegato il presidente Xu Heyi. Con le eccellenze torinesi dell'auto Baic ha già collaborato in passato — in particolare, con Bertone, Pininfarina e Fioravanti — ma ora la liaison con la città della Mole si avvia a diventare una relazione stabile.
L'azienda ha infatti inaugurato ieri una base a Torino, ospite del Centro estero per l'internazionalizzazione (Ceipiemonte) nell'ambito del progetto «From Concept to Car». Per un anno, un team di ingegneri della casa cinese sarà di stanza in città per verificare le opportunità di coinvolgimento nei nuovi progetti delle aziende di stile e ingegneria piemontese e valutare l'insediamento futuro di un proprio centro tecnologico.
L'arrivo degli ingegneri di Baic rafforza la recente presenza cinese nella Torino dell'auto: già cinque anni fa, infatti, la Jac ha fondato un centro ricerche presso il Politecnico, e più recentemente il colosso Chang'an, partner di Suzuki e Ford, ha messo in piedi una struttura analoga nell'hinterland cittadino. E a Baic, Jac e Chang'an si aggiungerà presto un quarto ospite sotto la Mole: a metà novembre approderà in città la Sokon, produttrice di veicoli commerciali con lo sguardo al mercato dell'auto.

Repubblica 1.11.11
Pechino: la Ue può superare la crisi, ma prima deve bere una medicina. E Tokyo si allinea
Hu Jintao sbarca in Europa da "padrone del mondo" ma la Cina frena sugli aiuti
Il leader cinese: "Neanche noi possiamo permetterci di perdere soldi"
Anche il Giappone non si fida degli impegni del Vecchio continente al risanamento
di Giampaolo Visetti


PECHINO - Hu Jintao sbarca a Vienna con quattro giorni di anticipo sul G20 di Cannes ed è la prima volta che un leader cinese viene accolto in Europa da nuovo padrone del mondo. Nessuno dei Grandi lo ammette, ma il vertice francese ha un solo punto in agenda: convincere la Cina, e con essa Giappone e Russia, a salvare economia e banche dell´Occidente. Il nodo cruciale è la Cina, ma dopo l´euforia della scorsa settimana i dubbi su un sostegno concreto al fondo salva-Stati della Ue, aumentano ogni giorno. Nemmeno in Austria Hu Jintao si è sbilanciato. «La Cina è convinta – ha detto – che l´Europa ha la forza per superare le attuali difficoltà». Il ministro del commercio, Chen Deming, ha però aggiunto che Pechino «è disposta ad un aiuto attivo perché tutti i Paesi sono sulla stessa barca e hanno bisogno che l´Europa torni in salute». Cancellerie e mercati del continente hanno espresso delusione. Alla vigilia del G20 speravano in qualcosa di più, mentre hanno dovuto prendere atto che Pechino non ha cambiato orientamento «Prima l´Europa deve bere la medicina – ha detto il vice ministro degli esteri, Fu Ying – poi la Cina può valutare se è il medico giusto».
Pechino aspetta e scommette che, con il tempo, investire sull´Europa renderà sempre di più. Anche Tokyo si è infine allineata alla posizione cinese: «Prima di decidere cosa fare – ha comunicato il governo giapponese – abbiamo bisogno di studiare i documenti, conoscere i dettagli e ottenere chiarimenti tecnici sul fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf). L´inviato Ue Klaus Regling, capo del fondo, rientra dall´Oriente a mani vuote e con un dubbio in più sulle richieste dei primi creditori della zona euro. Pechino e Tokyo continueranno ad acquistare i bond Efsf, ma il capo Efsf teme che la Cina abbia interesse a salvare il suo primo partner commerciale solo dopo il default «dei Paesi viziosi dell´Unione». E´ la minaccia cinese di un «euro-spezzatino», per imporre all´Occidente le condizioni Bric per il salvataggio. In Cina i media di Stato martellano sul fatto che Pechino «non sarà il cavaliere bianco, né il buon samaritano di chi non tiene i conti in ordine». Chiaro il messaggio di Hu Jintao al G20: «Nemmeno la seconda potenza economica del mondo può permettersi di perdere soldi in Europa».
Una doccia gelata che fa partire il summit in salita: Cina e Giappone non si fidano degli impegni europei al risanamento, a cui guardano con un approccio esclusivamente di mercato. Se a Cannes si troverà un´intesa, per la zona euro sarà dura. Pechino potrebbe contribuire al Efsf direttamente, fornendo un back-stop su richiesta, oppure finanziando un nuovo fondo all´interno del Fmi, stanziando tra i 50 e 100 miliardi di dollari. I cinesi pretendono però che parte del contributo sia denominato in yuan, vendendo per la prima volta la propria valuta all´Europa e apprestandosi a lanciarla come nuova moneta di riserva internazionale. La Cina pone anche clausole politiche: anticipo del riconoscimento Ue della propria economia di mercato, smantellamento delle barriere commerciali anti-Pechino, sblocco dei trasferimenti di tecnologia, rivoluzione del sistema monetario internazionale e rilancio del commercio mondiale attraverso lo stop ad ogni forma di protezionismo. Partita cruciale: un´Europa in ginocchio induce la Cina a dubitare del piano di salvataggio Ue, ma un pacchetto «economia in cambio di politica» fa temere ai leader europei che il soccorso finanziario si riveli dannoso.

Repubblica 1.11.11
Auto, i cinesi di Baic sbarcano a Torino
Sarà la loro piattaforma europea, accordi con i designer Pininfarina e Bertone
"Abbiamo scelto il capoluogo piemontese per imparare il mestiere"
di Stefano Parola


TORINO - La Baic, il quinto gruppo automobilistico cinese, lo dice apertamente: «Vogliamo migliorare il design delle nostre vetture». Perché in Cina hanno capito alla perfezione come si producono le auto, ma ancora non riescono benissimo a inventarle dal nulla. Così scelgono Torino per imparare il mestiere. Nel giro di due anni il colosso cinese aprirà un centro ricerca proprio nella città della Fiat. E nel frattempo ha creato sotto la Mole un ufficio per ospitare un team di manager che in 12 mesi tesserà il maggior numero di rapporti possibile con le società di ingegneria e design, piemontesi e no.
«Torino è la culla del design, difficile trovare un altro luogo con una cultura e un talento simili. Ecco perché l´abbiamo scelta per il nostro ufficio, che diventerà una piattaforma fondamentale per gli scambi tra Italia e Cina nel settore automotive», spiega il presidente di Baic, Xu Heyi. Il big cinese poteva optare per la Germania, che l´aveva corteggiato a lungo. Invece sono stati più convincenti gli operatori di From concept to car, il progetto della Camera di commercio di Torino gestito dal Centro estero per l´internazionalizzazione del Piemonte che aiuta le aziende torinesi dell´auto a fare affari al di fuori dei confini nazionali.
Dunque è da Torino che la Baic lancerà la sua ambiziosa scalata al mercato mondiale dell´auto. Lo scorso anno ha prodotto 1,5 milioni di vetture e nel 2011 fatturerà più di 22 miliardi di euro, ma ha un piano industriale che prevede di raddoppiare il proprio giro d´affari entro il 2015 e di diventare tra quindici anni uno dei dieci maggiori costruttori del globo. Per farlo ha già messo in piedi partnership con Daimler, Mitsubishi e Hyundai e nel 2009 si è comprata i modelli e le tecnologie dei motori della svedese Saab.
Ora però il colosso di Pechino ha bisogno dei designer torinesi, a partire da Pininfarina e Bertone, cui ha già affidato la progettazione di alcuni modelli. «Attraverso la collaborazione con aziende locali eccellenti i nostri designer impareranno molto», dice Dean Gu Lei, vicepresidente di Batc, il centro tecnologico del gruppo Baic. E i maestri dello stile, in un periodo di scarsi o nulli rapporti con Fiat, non vedono l´ora di ottenere altre commesse targate Cina. Per questo il presidente della Camera di commercio di Torino, Alessandro Barberis, dice che «l´apertura di questo spazio dedicato al team di Baic è un risultato di assoluto rilievo ed è l´esito di un dialogo costante, avviato da tempo». Del resto, aggiunge il direttore del Centro estero, Giuliano Lengo, «le nostre imprese stanno cogliendo importanti opportunità in Cina, come dimostrano i numeri di From concept to car: 36 negoziazioni in corso e almeno sei contratti acquisiti».
Insomma, tra Torino e la Cina il legame è già solido. E lo diventerà ancora di più: «Posso già anticipare – dice Barberis – che a novembre avvieremo una collaborazione analoga con un altro importante costruttore cinese, la Sokon, che ha individuato questo territorio come centro di eccellenza nel quale insediare in futuro una propria unità di ricerca e sviluppo».

Repubblica 1.11.11
Poche medicine per le malattie più letali. Colpa delle multinazionali che non ne producono abbastanza E in questo modo alzano i prezzi. Ma il presidente americano non ci sta e decide di intervenire con un decreto
Farmaci salvavita la sfida finale di Obama a Big Pharma
di Angelo Aquaro


La destra non gli lascia passare le riforme, la sinistra lo ostacola. E Barack alza la voce
Un prodotto contro la leucemia da 12 dollari venduto a 990 dollari: 80 volte tanto

L´uomo che vide morire sua madre di cancro lottando per l´assistenza sanitaria non vuole lasciare morire l´America per l´ingordigia di Big Pharma. Barack Obama ci riprova. Paralizzato dalla destra che non gli lascia passare una riforma - e punzecchiato dalla sinistra che lo accusa di troppi compromessi - il presidente alza la voce e decide a modo suo: incominciando a impartire ordini. Proprio così: un ordine esecutivo per ovviare alla vergogna della mancanza di farmaci salvavita che sta piegando la prima potenza mondiale come nemmeno un Paese in via di sviluppo.
Chiedetelo a Jay Cuetara di San Francisco. Il poveraccio ha dovuto rimandare la chemio perché in ospedale avevano finito il farmaco: «Com´è possibile che succeda negli Stati Uniti?». Il suo presidente un sospetto ce l´ha. E lo mette nero su bianco sull´ordine con cui chiede alla Food and Drugs Administration di darsi una mossa: «Nel mercato qualcuno potrebbe utilizzare questa carenza come un´opportunità per accumulare le medicine che scarseggiano o metterle in vendita a prezzi esorbitanti».
L´accusa è dettagliata. Al punto da chiedere all´ente sanitario di riportare al ministero della giustizia ogni ipotesi di abuso. Che ormai non è più un´ipotesi. Nelle carte della Fda si legge di un farmaco antileucemia da 12 dollari al flacone finito in vendita a 990 dollari: 80 volte tanto. Sono numeri che si definirebbero da capogiro se non facessero girare soltanto la testa: la gente muore per davvero. Il caso più tristemente conosciuto è quello dell´Alabama. Nove vittime e più di dieci contaminati da un batterio: colpa di una soluzione chimica "fatta ad hoc" utilizzata al posto di una medicina introvabile.
La scarsità non ha ovviamente - e ci mancherebbe - solo un´origine criminale. Il presidente riconosce «l´aumento della domanda che eccede la capacità di produzione». Un deficit da supplire muovendosi dunque in tre direzioni. La prima: ampliare i rapporti sulla produzione in modo da avere segnali d´allarme con un anticipo di almeno sei mesi. La seconda: accelerare i tempi per l´autorizzazione di nuovi medicinali. Ma è nella terza area d´intervento che il presidente mostra davvero i muscoli: invitando il governo all´indagine sui prezzi. E´ nella zona d´ombra tra produzione e distribuzione che bisogna fare luce. «La scarsità dei medicinali pone una seria e crescente minaccia alla salute pubblica», dice: sottolineando che le emergenze sono triplicate dal 2005 al 2010.
Lo scherzetto dell´industria - produzione e distribuzione - sembra anche una crudele vendetta. Barack Obama è l´uomo della più importante riforma sanitaria approvata negli Usa: quella che col tempo consentirà a 40 milioni di americani finora senza assicurazione di potere essere trattati come essere umani. Peccato che intanto i colossi della sanità abbiano aumentato i costi delle polizze: giusto per portarsi avanti per quando non potranno più fare la cresta. Facendo già pesare sui cittadini i costi di quella riforma che infatti il 51 per cento degli americani vorrebbe abolire.
Che triste ironia. Proprio un malato eccellente negli ultimi mesi aveva messo in guardia Barack: non riesci a pubblicizzare le cose buone che hai fatto. Era Steve Jobs. Che pur non risparmiando il presidente di critiche si era poi offerto di disegnarli comunque un nuovo logo. Ma tanta generosità è sconosciuta a Washington in tempo di elezioni. Prendete sempre la vergogna della scarsità di medicinali: è sotto gli occhi di tutti. E infatti al Congresso giace una proposta di legge che sviluppa le linee guida dell´ordine di Barack. Inizialmente aveva avuto un sostegno bipartisan. Inizialmente: perché ora non si deve muovere foglia che possa ricondursi al vento di Obama.
Così il presidente ha deciso di uscire dall´angolo: con questo e altri ordini esecutivi. Una prova di forza rilanciata con lo slogan "We can´t wait". Non possiamo più aspettare. L´ha fatto nei giorni scorsi con un ordine esecutivo che permette di rifinanziare i mutui strozzarisparmi a tassi più bassi. E poi con un ordine esecutivo che abbassa i tassi dei prestiti scolastici.
Piccoli passi. Mentre al Congresso giace il suo piano da mezzo miliardo per il rilancio dell´occupazione. Ma una svolta che s´è meritata l´applauso perfino di un ex consigliere di Ronald Reagan oggi a capo del Center for the Study of the Presidency «L´uso di questi ordini esecutivi mette in luce un presidente forte e vigoroso» spiega David Abshire a Usa Today. Peccato solo che tutta questa forza la stia mettendo fuori soltanto a un anno dalla rielezione. Nei primi tre forse ha un po´ scarseggiato: come le medicine che adesso Barack vuol far ricomparire con un ordine.

La Stampa 1.11.11
Il vizio medievale del Principe Carlo Il veto sulle leggi
Una norma del 1337 glielo consente: l’ha usato dodici volte per proteggere i propri interessi
di Andrea Malaguti


Quel che resta del medioevo. Spinti da una soffiata della House of Lords, i giornalisti del «Guardian» hanno fatto ricorso al Freedom Information Act per accedere ad alcuni atti parlamentari che generalmente non finiscono in mano al pubblico. Spulciando tra i documenti archiviati nelle secolari stanze di Westminster hanno scoperto quello che in effetti stavano cercando. Negli ultimi sei anni, dal 2005 a oggi, il Principe Carlo, figlio maggiore di Sua Maestà la Regina, è intervenuto per condizionare l’iter delle leggi britanniche in almeno dodici occasioni. Il gesto bizzarro di un nobiluomo disinformato dello scorrere del tempo che ha ostinatamente trascinato il pianeta nel terzo millennio o uno sconsiderato abuso da aristocratico gangster? Nessuna delle due cose. Semplicemente l’esercizio di un diritto, quello di veto, consegnato da Eduardo III al proprio figlio ed utilizzato dai Duchi di Cornovaglia a partire dal 1337. Una norma apparentemente surreale che nessuno si è preso la briga di cancellare. «E tanto meno abbiamo intenzione di farlo adesso», si è affrettato a sottolineare il portavoce di Downing Street appena la notizia si è trasformata in polemica. «Il Principe ha diritto a questo trattamento in quanto un giorno sarà Re». Semplice no?
L’Erskine May, la bibbia delle relazioni parlamentari che contiene il protocollo in questione, prevede che il Duca di Cornovaglia debba essere informato «ogniqualvolta una legge in discussione possa confliggere con i suoi interessi privati. In particolare quelli del Ducato». I suoi interessi privati, testualmente, nel Paese che si picca di avere la democrazia più avanzata e consolidata del globo terracqueo. E in cui il nobile ombelico di un singolo conta più di quello di 650 parlamentari, di 826 pari e di 60 milioni di inglesi qualunque.
Secondo il costituzionalista Daniel Greenberg il diritto di veto concesso a Carlo «è una specie di pulsante nucleare. Nessuno è in grado di sapere se lui lo utilizzerà mai, ma intanto fa da deterrente». Metafora affascinante, se non fosse che il Principe quel bottone lo usa eccome. Lo ha fatto per proposte di legge legate al trasporto marittimo, all’urbanistica, alle Olimpiadi e alle energie alternative. Ma anche all’agricoltura e alle amministrazioni locali. Impossibile sapere quali siano state le richieste specifiche, perché il carteggio tra l’erede al trono e i ministeri è assolutamente privato. Impossibile anche sapere se le norme siano state cambiate a causa delle sue pressioni.
Un’opacità che ha fatto uscire dai gangheri il solitamente posato Lord Berkeley, un ex etoniano schierato con i liberaldemocratici. «Non è pensabile che il Parlamento non sappia quando, e soprattutto per quale motivo, il Principe decide di esercitare il diritto di veto. E poi qual è la ratio di questo privilegio? La proprietà delle terre? Allora dovrebbe valere per tutti». Più duro il commento di Adam Tomkins, professore di diritto costituzionale all’Università di Glasgow. «Tra associazioni benefiche, azione di lobby sui ministri e diritto di veto, ancora una volta viene il sospetto che il Principe voglia influenzare il governo».
La titolarità del Ducato di Cornovaglia in effetti garantisce a Carlo entrate per 18 milioni di sterline l’anno e il fondo che lo gestisce ha attraversato indenne questi anni di turbolenza finanziaria aumentando il proprio valore dai 628 milioni del 2006 agli oltre 700 di oggi. Della proprietà fanno parte la cittadina di Poundbury nel Dorset, i palazzi che ospitano il King’s College a Londra, più di duemila ettari di boschi, villaggi vacanza in Cornovaglia e anche un campo da cricket.
Improvvisamente convinto di non essere più solo nella sua malinconica battaglia per un Capo di Stato eletto dal popolo anche Graham Smith, leader del partito repubblicano, ha voluto far sentire la propria voce. «Questa storia è un affronto ai valori democratici. Carlo vive da milionario mentre il Paese fa la fame». Come direbbero in Francia, basterà distribuire un po’ di brioches.

il Fatto 1.11.11
“La caccia ai nazisti non è finita”
Mr Zuroff cerca ancora i “figli” di Hitler
di Marco Dolcetta


Di questi tempi la caccia ai nazisti viene vista dal cinema come una sorta di caricatura tragicomica. Il recente film di Sorrentino This must be the place racconta di una depressa rockstar, Sean Penn, che vaneggia di nazisti e vittime ritenute ancora attuali e che invece il corso del tempo ha rilegato per ragioni oggettive alla storia del passato.
Ma per altri la caccia ai nazisti non è solo una burla per creare incassi: Efraim Zuroff è nato il 5 agosto 1948 a New York. È uno storico israelo-americano di origine, che ha avuto un ruolo negli sforzi per portare nazisti accusati di crimini di guerra in giudizio, guadagnandosi il titolo di “L’ultimo cacciatore di nazisti”. Zuroff è il direttore del Centro Simon Wiesenthal, ufficio a Gerusalemme, è il coordinatore della ricerca ai nazisti crimini di guerra in tutto il mondo e l’autore del suo annuale “Rapporto sullo stato” delle indagini. I suoi sforzi hanno aiutato nella preparazione dei casi contro numerosi criminali di guerra nazisti che vivono negli Stati Uniti. Dal 1992 al 1999, ha servito nel Corpo Istruzione delle Forze di difesa israeliane e tenuto conferenze a migliaia di soldati sul suo lavoro come cacciatore di nazisti. Iniziamo il nostro colloquio dopo che lui si è complimentato con me per il mio libro Gli spettri del IV Reich.
Quando e come è stato fondato il Centro Wiesenthal?
È stato fondato nel 1977 dal rabbino Marvin Hier, che ha ottenuto da Simon Wiesenthal il permesso di utilizzare il suo nome.
Di fatto, considerando le dichiarazioni dello stesso Wiesenthal, si può affermare che il Centro ha di fatto acquistato il suo nome, diventando suo “erede ” nell’opera di caccia  agli ex criminali di guerra nazisti. Per anni l’attività principale del Centro Wiesenthal è consistita nella caccia agli ex-nazisti. È ancora questa la sua attività principale?
La caccia ai nazisti non è mai stata l’attività principale del Centro. Non lo è stata soprattutto all’inizio, quando il signor Wiesenthal era ancora attivo e si occupava della caccia in prima persona, e non lo è nemmeno oggi, periodo in cui l’attività prevalente è quella della lotta contro l’antisemitismo e contro la delegittimazione di Israele. Soltanto in una fase intermedia, a metà degli anni Ottanta, quando alcuni criminali nazisti sono stati scoperti in determinati Paesi anglosassoni (Canada, Australia e Regno Unito), il Centro ha svolto un ruolo importante nell’ottenere che quei Paesi prendessero misure legali contro quei criminali, e poi ha aperto un ufficio in Israele, ufficio che ho fondato e che dirigo fino a oggi.
E oggi? Quali sono le vostre altre attività?
Il mio ufficio in Israele è responsabile di tutte le ricerche sui crimini di guerra nazisti; questa è la nostra funzione principale, come lo è lottare contro l’antisemitismo e la distorsione dell’Olocausto nell’Europa post–comunista.
Chi sono gli ultimi nazisti sopravvissuti e che ancora debbono essere giudicati?
Consulti pure il nostro sito web, dov’è pubblicata la nostra lista dei criminali ricercati: www.operationlastchan  ce.org  . L’obiettivo oggi della ricerca dei cacciatori di nazisti è concentrata su Aribert Heim il cosiddetto medico della morte, austriaco, classe 1914 che fu dato per morto più volte al Cairo, ma che da nostre ricerche con-giunte si troverebbe nelle campagne vicino a Puerto Montt alle pendici delle Ande cilene.
Qual è il significato del Giorno della Memoria?
È una giornata per ricordare le vittime dell’Olocausto, chi li ha uccisi e come ciò sia potuto avvenire. Serve da monito affinché una tragedia del genere non debba mai ripetersi.
La domanda si riferisce non alla Giornata della Memoria celebrata in Italia il 27 gennaio in memoria della liberazione dei deportati da Auschwitz, ma all’omonima festività israeliana, che invece si festeggia il 21 Aprile nel ricordo dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia, nel 1944.
Pensa che l’esperienza nazista in Europa e nel-l’Europa Orientale abbia modificato l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti degli ebrei?
L’ostilità verso gli ebrei è senz’altro diminuita in Europa, ma l’antisemitismo purtroppo esiste ancora, e cresce in modo particolare nel mondo arabo.
Perché l’antisemitismo degli occidentali è considerato più grave di quello dei musulmani e degli arabi?
Non comprendo proprio la ragione di questo atteggiamento. Penso anzi che, guardando alla situazione del mondo contemporaneo, sia vero l’esatto contrario: l’antisemitismo islamico è molto più letale e pericoloso di quello occidentale.

il  Riformista 1.11.11
Se il Corsera dimentica Gramsci

Gentile Direttore,
francamente un po’ singolare la scelta compiuta dal Corriere del- la Sera nell’allestire, come com- plemento settimanale del quoti- diano, una serie di quindici volu- metti dedicati a saggi dei “maestri del pensiero democratico”. Sono così definiti, e giustamente, Cro- ce ed Einaudi (due volte presenti nella collana), Foa e Sturzo, Dos- setti e Gobetti, Einaudi, Bobbio, Giovanni Amendola, Calogero, De Gasperi, Salvemini, Del Noce e Ugo La Malfa. Ci son tutti i grandi nomi del ‘900. Tranne uno, considerato dai più uno dei più importanti pensatori europei, oltre che uomo politico di primis- simo piano. L’escluso è tale An- tonio Gramsci: il suo saggio sulla Questione meridionale sarebbe andato a fagiolo tra quei volu- metti. Già, niente Gramsci tra i “maestri del pensiero democrati- co”. Delle tre, una: o è dimenti- canza enorme, o è enorme censu- ra o quello di Gramsci non è con- siderato “pensiero democratico”. Piacerebbe conoscere quale del- le tre è la risposta esatta.
di Daniele Luciani

il  Riformista 1.11.11
Alcol e droga, il male dei giovani alienati
di Carla Collicelli

qui

Repubblica 1.11.11
Il movimento del 99 per cento può cambiare il mondo
di Ulrick Beck


Com´è possibile che un caldo autunno americano, sul modello della primavera araba, distrugga il credo dell´Occidente, cioè la visione economica dell´american way? Com´è possibile che il grido "Occupy Wall Street" raggiunga e trascini nelle piazze non soltanto i ragazzi di altre città americane, ma anche quelli di Londra, Vancouver, Bruxelles, Roma, Francoforte e Tokio? I contestatori non sono andati soltanto a far sentire la loro voce contro una cattiva legge o a sostenere qualche causa particolare: sono scesi in piazza a protestare contro "il sistema". Ciò che fino a non molto tempo fa veniva chiamato "libera economia di mercato" e che ora ricomincia a essere chiamato "capitalismo" viene portato sul banco degli accusati e sottoposto a una critica radicale. Perché il mondo è improvvisamente disposto a prestare ascolto, quando Occupy Wall Street rivendica di parlare a nome del 99% dei travolti contro l´1% dei profittatori?
Sul sito web "WeAreThe99Percent" si possono leggere le esperienze personali di quel 99%: quelli che hanno perduto la casa nella crisi del settore immobiliare; quelli che costituiscono il nuovo precariato; quelli che non possono permettersi nessuna assicurazione contro le malattie; quelli che devono indebitarsi per poter studiare. Non i "superflui" (Zygmunt Bauman), non gli esclusi, non il proletariato, ma il centro della società protesta nelle pubbliche piazze. Questo delegittima e destabilizza "il sistema".
Certo, il rischio finanziario globale non è (ancora) una catastrofe finanziaria globale. Ma potrebbe diventarlo. Questo condizionale catastrofico è l´uragano abbattutosi nel mezzo delle istituzioni sociali e della vita quotidiana delle persone sotto forma di crisi finanziaria. È irregolare, non si muove sul terreno della costituzione e della democrazia, reca in sé la carica esplosiva di un fenomeno ancora in gran parte sconosciuto, anche se stentiamo ad ammetterlo, e che spazza via le nostre consuete coordinate orientative. Nello stesso tempo, in questo modo una sorta di comunità di destino diventa un´esperienza condivisa dal 99%. Ne possiamo cogliere il segno nei saliscendi repentini delle curve finanziarie, che con le loro montagne russe rendono immediatamente percepibile il legame tra i mondi. Se la Grecia affonda, è un nuovo segnale del fatto che la mia pensione in Germania non è più sicura? Cosa significa "bancarotta di Stato", per me? Chi avrebbe immaginato che proprio le banche, così altezzose, avrebbero chiesto aiuto agli Stati squattrinati e che questi Stati dalle casse cronicamente vuote avrebbero messo in un batter d´occhio somme astronomiche a disposizione delle cattedrali del capitalismo? Oggi tutti pensano più o meno così. Ma questo non significa che qualcuno lo capisca.
Questa anticipazione del rischio finanziario globale, che si fa sentire fin nei capillari della vita quotidiana, è una delle grandi forme di mobilitazione del XXI secolo. Infatti, questo genere di minaccia è ovunque percepito localmente come un evento cosmopolitico che produce un cortocircuito esistenziale tra la propria vita e la vita di tutti. Simili eventi collidono con la cornice concettuale e istituzionale entro cui abbiamo finora pensato la società e la politica, mettono in questione questa cornice dall´interno, ma nello stesso tempo chiamano in causa sfondi e presupposti culturali, economici e politici assai differenti; analogamente, la protesta globale si differenzia a livello locale.
Sotto il diktat dell´emergenza le persone fanno una specie di corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo finanziario nella società mondiale del rischio. I resoconti dei media fanno emergere la separazione radicale tra coloro che generano i rischi e ne traggono profitto e coloro che ne devono scontare le conseguenze.
Nel Paese del capitalismo da predoni, gli Stati Uniti, sta prendendo forma un movimento di critica del capitalismo - ancora una volta, si tratta di un evento imprevedibile. Abbiamo detto "follia" quando è crollato il muro di Berlino. Abbiamo detto "follia" quando, il 9 settembre del 2001, le Twin Towers di New York si sono disfatte nella polvere. E abbiamo detto "follia" quando, con il fallimento di Lehman Brothers, è scoppiata la crisi finanziaria globale. Cosa significa "follia"? Anzitutto una conversione spettacolare: banchieri e manager, i fondamentalisti del mercato per antonomasia, fanno appello allo Stato. I politici, come in Germania Angela Merkel e Peer Steinbrück, che fino a non molto tempo fa esaltavano il capitalismo deregolato, dal giorno alla notte cambiano opinione e bandiera, e diventano fautori di una sorta di socialismo di Stato per ricchi. E ovunque regna il non-sapere. Nessuno sa cosa sia e quali effetti possa realmente produrre la terapia prescritta nella vertigine degli zeri. Tutti noi - vale a dire il 99% - siamo parte di un esperimento economico in grande, che da un lato si muove nello spazio fittizio di un non-sapere più o meno inconfessato (si sa solo che, quali che siano i mezzi adottati e gli obiettivi perseguiti, bisogna impedire qualcosa che non deve in nessun modo accadere), ma, dall´altro, ha conseguenze durissime per tutti.
Si possono distinguere diverse forme di rivoluzione: colpo di Stato, lotta di classe, resistenza civile ecc. I pericoli finanziari globali non sono nulla di tutto ciò, ma incarnano in modo politicamente esplosivo gli errori del capitalismo finanziario neoliberista che è stato ritenuto valido fino a ieri e che, con la violenza del suo trionfo e della catastrofe ora incombente, esige la loro presa d´atto e la loro correzione. Essi sono una sorta di ritorno collettivo del rimosso: alla sicurezza di sé neoliberista vengono rinfacciati i suoi errori di partenza.
Le crisi finanziarie globali, che minacciano in tutto il mondo le condizioni di vita delle persone, producono un nuovo genere di politicizzazioni "involontarie". Qui sta il loro bello - in senso politico e intellettuale. Globalità significa che tutti sono colpiti da questi rischi, e tutti si ritengono colpiti. Non si può dire che ciò abbia già dato origine a un agire comunitario; sarebbe una conclusione affrettata. Ma c´è qualcosa come una coscienza della crisi, che si nutre del rischio e rappresenta proprio questo tipo di minaccia comune, un nuovo genere di destino comune. La società mondale del rischio - questo mostra il grido del "99%" - può acquisire una consapevolezza matura di sé in un impulso cosmopolitico. Ciò sarebbe possibile se si riuscisse a trasformare la dimostrazione oggettiva di condizioni che si rivolgono contro sé stesse in un impegno politico, in un movimento Occupy globale, nel quale i travolti, i frustrati e gli affascinati, ossia tendenzialmente tutti, scendono in piazza, virtualmente o effettivamente.
Ma da dove nasce la forza o l´impotenza del movimento Occupy? Non può trattarsi soltanto del fatto che perfino gli squali di Borsa si dichiarano solidali. Il rischio finanziario globale e le sue conseguenze politiche e sociali hanno tolto legittimità al capitalismo neoliberista. La conseguenza è che c´è un paradosso tra potere e legittimità. Grande potere e scarsa legittimità da parte del capitale e degli Stati, e scarso potere ed alta legittimità da parte di quelli che protestano in modo pittoresco. È uno squilibrio che il movimento Occupy potrebbe sfruttare per avanzare alcune richieste basilari - come ad esempio una tassa globale sulle transazioni finanziarie - nell´interesse correttamente inteso degli Stati nazionali e contro le loro ottusità. Per applicare questa "Robin Hood Tax" si dovrebbe dar vita in modo esemplare ad un´alleanza legittima e potente tra i movimenti di protesta globali e la politica nazional-statale. Quest´ultima potrebbe così compiere il salto quantico consistente nella capacità degli attori statali di agire in una dimensione trans-statale, cioè al di qua e al di là delle frontiere nazionali. Se questa esigenza viene espressa perfino dalla cancelliera federale tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Sarkozy perlomeno nella forma di un bello slogan, allora si può senz´altro accreditare a questo obiettivo una possibilità di realizzazione.
In termini generali, nella consapevolezza globale del rischio, nell´anticipazione della catastrofe che occorre impedire ad ogni costo, si apre un nuovo spazio politico. Nell´alleanza tra i movimenti di protesta globali e la politica nazional-statale ora si potrebbe ottenere, alla lunga, che non sia l´economia a dominare la democrazia, ma sia, al contrario, la democrazia a dominare l´economia.
Contro la percezione - che sta diffondendosi rapidamente - di una mancanza di prospettive forse può aiutare la consapevolezza del fatto che i principali avversari dell´economia finanziaria globale non sono quelli che ora piantano le loro tende nelle pubbliche piazze di tutto il mondo, davanti alle cattedrali bancarie (per quanto importanti, anzi indispensabili siano le iniziative di questi contestatori); l´avversario più convincente e tenace dell´economia finanziaria globale è la stessa economia finanziaria globale.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Repubblica 1.11.11
L’idea è superare il capitalismo senza utopie totalitarie, con produzioni ecosostenibili e rapporti interni senza conflitti Nel mondo hanno aderito 400 aziende. Il fondatore: "Proponiamo il ritorno ai valori costitutivi del genere umano"
Equa, solidale e felice a Vienna ritorna la Comune
È prioritario il benessere dei dipendenti. E niente rapporti con chi sfrutta i minori
di Andrea Tarquini


Goettin des Gluecks, la dèa della fortuna, si chiama l´elegante boutique a Operngasse 32 nel cuore di Vienna. Moda giovanile, sfilate frequenti, luminosi locali postmoderni. Devi entrare e parlare con le signore che ti ricevono per sapere che non c´è un capo. O che una consegna di stoffe è stata rispedita al mittente, perché prodotta in condizioni di lavoro disumane. A Bauman Glas, fabbrica ipertecnologica come mille altre, forniscono vetro high tech per aeroporti e grattacieli, ma consumando meno energia possibile. E il dialogo continuo tra sindacati e capi sul benessere sul lavoro ha la priorità sul resto. Due luoghi diversissimi, uniti da un´idea, la comune dell´economia sociale e solidale: niente caccia al profitto né ai dividendi, ci si giudica in base a quanta cogestione e gioia dipendenti e capi hanno vissuto insieme. Cominciò un anno fa, in una serata tra amici engagé e disillusi nel bell´autunno viennese. L´idea non era nuova: superare il capitalismo senza utopie totalitarie, costruire nel quotidiano un´economia solidale. Gemeinwohl-Oekonomie, economia per il bene comune, si chiama il movimento che cresce qui in Mitteleuropa.
«Indignados, occupy, sono un motivo in più per andare oltre», dice Christian Felber, 38 anni, biondo-rossiccio, fondatore del movimento. Sono un collettivo sparso nel Mitteleuropa, qualcuno già li chiama "comune zero" o internettianamente "comune 2.0", ricordando la Comune n.1 dell´amore libero anti-imperialista che con Rainer Langhans e Uschi Obermeier fu simbolo del ‘68 di Berlino Ovest. Ma le comuni sessantottine avevano un luogo solo, l´appartamento, in quel mondo con miti e lotte ma senza Internet e cellulari. La "comune 2.0" vive ovunque: a casa di Christian a Brechergasse come online, nei talkshow e ai dibattiti in pubblico. Cresce: 400 aziende la sostengono, il paese reale è incuriosito.
Dalla dèa della fortuna come a Baumann Glas, l´imprenditore non si comporta come capo e non è temuto come tale: il codice della comune gli impone di cercare la gioia dei dipendenti. Non esiste un vertice o un consiglio d´amministrazione, ma un "Beistand", che vuol dire un organo decisionale posto a fianco di chi lavora.
«Qualcuno mi bolla come comunista, io sono per l´evoluzione, non mi credo rivoluzionario», spiega Felber. «Il capitalismo non funziona, ma non chiediamo né lotta di classe né odio, vogliamo tornare all´homo socialis, contrapposto all´homo oeconomicus», dice. I militanti a tempo pieno sono almeno 150, simpatizzanti e volontari molti di più. «Siamo divisi in "Energiefelder", campi d´energia, sottolinea Christian sorridente. «Venti Energiefelder, numero in aumento, attualmente 15 in Germania, 3 in Austria, 1 in Svizzera, 1 nel nordest italiano. Collaboriamo con l´università di Trento. Accettiamo inviti, organizziamo incontri pubblici con studenti o imprenditori, comunità religiose o economisti, dibattiamo sui media e online. Proponiamo il ritorno ai valori costitutivi del genere umano: fiducia, sincerità, solidarietà, liberiamoci da tensioni e conflitti della concorrenza».
Le modiste e i vetrai della comune viennese vigilano severi sui fornitori. Ok solo al fair trade e a comuni come in Sudamerica, niente acquisti da chi sfrutta minori o fa lavorare in condizioni disumane, o sarai espulso. «È un sistema a punti, un anti-rating».
Andiamo a vederne alcune, nel breve viaggio tra i tanti luoghi della comune insieme virtuale e reale. La Kwb nella Stiria, dà lavoro a 300 persone e vende con successo impianti per ricavare l´energia dalle biomasse: mostriamo insieme che vivere bene senza l´atomo è possibile, dicono da anni operai e il "padrone" che non si fa più chiamare così. A tre ore di volo, in Egitto, l´avamposto della "comune 2.0" è la Sekem, 1800 dipendenti. Agricoltori e operai pagati e trattati bene secondo le norme del fair trade. Esporta alimentari biologici di alta qualità. Nella ricca Baviera tecnoconservatrice c´è persino un istituto di credito, la Sparda Bank: anche qui consulto permanente con dipendenti singoli e sindacati, e crediti concessi non dimenticando la solidarietà sociale. Entro il 2013, narra Christian, «fonderemo una banca solidale ed etica: basta che diecimila persone contribuiscano, ognuna con una somma tra mille e diecimila euro». Catacomba alla luce del sole, la comune 2.0 costruisce il suo postcapitalismo conquistando ogni giorno nuovi luoghi.

Repubblica 1.11.11
Dal Brasile alla Germania, le idee per cambiare la politica
Non bisogna aver paura di "mutare il gioco" per evitare che continui l´egemonia culturale della destra anti-Stato
Fuori dall´Occidente si scoprono prospettive diverse: i paesi emergenti inventano modi di crescere ecologicamente compatibili
Il nuovo saggio di Rampini è uno sguardo cosmopolita sui modelli alternativi per superare la crisi
di Barbara Spinelli


Già da molti anni Federico Rampini ci ha abituati a nomadizzare, con i libri su Cina, India, America. Ma questa volta si ferma, mescola le cose viste, ed estrae una sua sintesi. Questa volta il giornalista errante vuole influire sulla pòlis, e specialmente sulla provincia della pòlis che gli è vicina: la sinistra. Il suo ultimo libro è una lettera (Alla mia sinistra, Mondadori) e il nomade si trasforma in pedagogo, che insegna l´arte preziosa che ha appreso: lo sguardo cosmopolita.
Il suo cosmopolitismo non nasce da una dottrina, da cui viene dedotta l´apertura, curiosa, al diverso. Nel suo cammino verso la condizione di cittadino del mondo, Rampini adotta il metodo induttivo. È esplorando realtà e fatti lontani che le lenti cosmopolite si impongono, come unico metodo per capire il presente: grazie a esse scopriamo che Italia, Europa, Occidente, sono frammenti d´un mosaico più vasto, e sorprendente. Chiusi nei recinti nazionali, crederemo di vedere, ma non vedremo. È una delle lezioni del libro. Il lettore sarà impressionato dalla mole di notizie sul miracolo economico di India, Cina, Brasile, o sulla globalizzazione che si fa caos cruento ai confini tra Messico e Stati Uniti (viene in mente l´atroce serie di morti in 2666 di Roberto Bolaño). La sua Cindia (Cina+India), il suo Brasile, la sua America, ci pare di conoscerli un po´ anche noi, quando chiudiamo il libro: di penetrarne splendori e miserie.
Vediamo un capitalismo che secerne al tempo stesso prodigi e degradi inauditi, in incessante movimento. Vediamo meglio noi stessi, e come tuttora ci illudiamo di essere centro del mondo. Il bello del libro è che ne esci lettore in metamorfosi: una strana condizione, non dissimile dalla scoperta, nella pittura pre-rinascimentale, della prospettiva.
È fatta di antinomie la prospettiva: di spazi scoperchiati. Siamo abituati a parlare di recessione, dopo il collasso del 2007-2008, ma non tutti la vivono così. Per un´enorme parte della terra (i Bric, cioè Brasile, Russia, India, Cina) la crisi non è Grande Contrazione. È nuovo inizio, promesso a milioni di reietti. È una formidabile «redistribuzione della speranza», scrive l´autore. Si accompagna a svolte geopolitiche di cui appena ci rendiamo conto: non si contraggono solo i nostri consumi, il nostro welfare. Si raggrinza l´America del Nord, come l´Europa dopo le guerre del ´900. Sono passati appena dieci anni, da quando Washington si autoproclamò nuova Roma imperiale: la malinconia cattura ora anche lei, come catturò l´Europa. Gli spiriti animali del capitalismo, euforici, hanno traslocato in Brasile, Cina, India. Lì la Storia ricomincia.
C´è un interrogativo cruciale posto da Rampini: «Poteva andare altrimenti?» Erano fatali, in Occidente, il naufragio delle speranze e della politica, il predominio di anonimi poteri finanziari cui per decenni è stata concessa la sregolatezza, la frode degli impuniti, il baratro infine che ha risucchiato il nostro capitalismo? Non era affatto ineluttabile, tutto poteva andare diversamente se avessero prevalso la legge, l´etica pubblica. Chi ha visto il terribile film di Charles Ferguson sulla crisi, Inside Job, sa di che parliamo. Non era fatale che la sinistra s´insabbiasse nel mimetismo, cedesse al caos del mercato: soprattutto l´osannata sinistra  di Clinton, Blair, che facilitò l´egemonia della destra e la sua letale deregolamentazione.
Rampini non esita a parlare di plutocrazia: un termine forse troppo incandescente (fu usato dai fascismi contro la democrazia). Quel che è osceno, nel potere della ricchezza, è l´uso che se ne fa: la disuguaglianza patologica che ha prodotto, l´arroganza imperiale, l´assenza di limiti, dunque di morale. La crisi ha rivelato una corruzione mentale profonda delle élite, e il declino della morale occidentale è l´evento del secolo. Il 29 gennaio 2002, poco dopo l´11 settembre, Paul Krugman scrisse un memorabile articolo sul New York Times (The great divide): non era stato l´11 settembre a «cambiare ogni cosa». Il punto di svolta che smascherò il nostro marciume, lo ricorda anche Rampini, fu lo scandalo Enron, la gloriosa società legata a Bush e Dick Cheney, travolta il 2 dicembre 2001 dal falso in bilancio.
Tutto poteva andare diversamente: da quest´analisi autocritica urge partire. La storia non si fa con i se ma la coscienza storica sì. L´Europa sarebbe diversa, se fosse stato attuato il piano Delors su comuni investimenti, finanziati da euro-obbligazioni. Se l´euro non fosse restato senza Stato. Se qualcuno avesse voluto davvero «cambiare il gioco». Rampini riserva parole dure a quel che disse Tommaso Padoa-Schioppa, quand´era ministro dell´economia: «La tasse sono una cosa bellissima». Forse dimentica che bellissima per lui non era l´azione del pagare, ma l´idea che il consumatore si sentisse contribuente a beni comuni (strade, scuole, trasporti): frasi del genere, eretiche, «cambiano il gioco». Rampini stesso denuncia la rivolta americana del Tea Party contro statalismo e fisco. È la conferma che spesso votiamo contro noi stessi: «Per un´illusione ottica sconcertante, o un miraggio collettivo, il 16 per cento degli americani è persuaso di appartenere all´1 per cento dei più ricchi (...). L´idea che qualunque intralcio alla libertà di mercato ci rende tutti un po´ più poveri, e prigionieri di uno Stato oppressivo, ha una forza irresistibile nella cultura di massa americana».
Se le cose potevano andare diversamente ieri, tanto più oggi. La scoperta della prospettiva (di un pianeta non più dominato dall´occidente) aiuta a escogitare modi di vivere diversi, adatti alla Grande Contrazione. Modi cui Rampini dedica il bel capitolo finale: basati sulla sottrazione, non sull´addizione del superfluo. Sono vie percorribili e non tristi, contrariamente a quel che si disse quando Berlinguer o Carter parlarono (nel ´77 e ´79) di austerità. Proprio i paesi emergenti inventano oggi crescite ecologicamente vigili. Il Brasile escogita l´automobile di biofibre, o il bioetanolo ricavato da canna da zucchero. Per scoprire nuove idee basta guardare dove la speranza rinasce. Basta inforcare gli occhiali cosmopoliti.
Di una cosa l´autore è convinto: l´egemonia culturale, dopo la crisi petrolifera del ´73, è la destra anti-Stato a conquistarla. E il fallimento non sembra intaccarla. È la vera sfida che la sinistra ha di fronte. Ma come nell´800 e ´900, la socialdemocrazia è forse la soluzione. È socialdemocratico il Brasile di Lula. È socialdemocratico il modello tedesco, austero custode dello Stato sociale anche quando governano i democristiani: unica alternativa alla Cina, secondo Rampini.
Tutto questo, Rampini lo scrive alla sinistra, perché non abbia paura di «cambiare il gioco». Perché apprenda la prospettiva. Perché non viva anch´essa, come i populisti, nella «menzogna permanente». Perché non diventi, come Obama, un soldato missing in action, che non dà più segno di vita: o perché morto in battaglia, o perché caduto in mano nemica, o perché disertore.

La Stampa 1.11.11
La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi
L’economia a rotoli rilancia il bisogno di religiosità e gli italiani non dimenticano di essere cattolici. Una ricerca pubblicata dal Mulino
di Franco Garelli


Il bisogno diffuso di religiosità porta anche a momenti di preghiera pubblica
LA VOGLIA DI SACRO
Sempre più frequente la sensazione che Dio faccia capolino nella nostra vita
Il fenomeno fa parlare gli studiosi di un «reincantamento del mondo»

Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso. La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione, anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un'Italia in cui l'appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni religiose.
In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l’esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta nell’avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell’idea di far parte di un mondo di spiriti e di mistero che trascende l’esperienza terrena.
Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano percepiti e ricercati più all’esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un’eco attuale (o di un restyling) della religiosità popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata. Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un’immagine che contrasta l’idea che l’epoca attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo - parafrasando Peter Berger - non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta» che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale.
L'immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l'80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l’appartenenza cattolica ha una funzione rassicurante per la nazione? Perché molti continuano a identificarsi - pur in modo ambivalente - con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di salvezza?
L’idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero, per confinarlo nell’oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi dell'esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un'immagine del cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come muschio stanno attaccati solo esteriormente all'albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come criterio di vita, più per l'educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali.
Nella società dell’insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si conciliano con la propria cultura e abitudini. Parallelamente, l’adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un’identità nostrana in un’Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul territorio e enfatizzato dai mass media.
Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell'adesione di molti italiani alla fede della tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell'epoca attuale. L’avvento del pluralismo culturale e religioso non produce necessariamente l’abbandonodei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l'espressione. Si può essere convinti che non c’è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive dell'esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa di attribuire un' anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall'altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.

Corriere della Sera 1.11.11
Cervello più denso per ricordare gli amici su Facebook
Ma la memoria diventa molto labile
di Giuseppe Remuzzi


P rovate a chiedere a cento ragazzi che abbiano tra i 14 e i 24 anni quanti amici hanno su Facebook — il network più popolare con 750 milioni di utilizzatori — o in Myspace. E poi a mettere in ordine queste risposte. Vedrete che il numero di amici dipende da quanto tempo ciascun ragazzo passa in internet, dall'età e poi dal tipo di computer o di telefono cellulare. A quel punto lì potreste voler sapere anche se la diffusione di internet e dei social network stia cambiando il nostro modo di affrontare i rapporti sociali e che cosa succede nel cervello di questi ragazzi.
La risposta a queste domande viene da un gruppo di neuroscienziati di Londra (il lavoro è pubblicato su Proceedings of the Royal Society) che ha sottoposto gli studenti a numerosi esami, inclusa la risonanza magnetica, chiedendo loro di rispondere a domande sulle loro abitudini in internet, sul tipo di amici di Facebook e quanti, e su quelli della vita reale.
Così i ricercatori hanno potuto stabilire che il volume della parte superiore del solco temporale e del lobo temporale medio del cervello e certe loro funzioni influenzano il numero di amici che uno ha in Facebook. C'è un'altra struttura, l'amigdala, che conferisce ai ragazzi la capacità di avere tanti amici o di non averne affatto. Incrociando questi dati con le risposte ai questionari, gli scienziati di Londra hanno anche visto che il mondo virtuale e quello reale in qualche modo si integrano.
Quanti più amici uno ha in Facebook tanti più ne ha anche nella vita reale. Si è confermato, inoltre, che molti di quelli che spendono tanto tempo in internet utilizzano questi strumenti per rafforzare e mantenere relazioni nate «off-line», come qualcuno adesso definisce quelle della vita reale.
Ma c'è un altro problema, gli amici della vita reale ce li ricordiamo tutti, qualcuno ricorda persino il numero di telefono di tutti, ma per ricordarci quelli di Facebook, che possono essere diverse centinaia, al cervello non basta più solo l'amigdala, quella del ricordo degli amici «off-line». Per Facebook il cervello ricorre ad altre aree dove, secondo i dati dei ricercatori londinesi, aumenta la densità della sostanza grigia. Lo studio della Royal Society più in là non è arrivato. Sapere come il nostro cervello si adatta alle nuove tecniche di comunicazione però è di grande interesse e qui ci viene in aiuto un lavoro pubblicato di recente su Science da scienziati di Boston. Loro hanno dimostrato che quello che è disponibile in rete lo dimentichiamo subito mentre ricordiamo più facilmente quello che sappiamo non troveremo mai sull'iPad.
Questo suggerisce che più si va avanti più il cervello si specializzerà a ricordare «dove» potremo trovare una certa informazione più che sull'informazione in sé. E' come se i nostri processi mentali si stessero adattando pian piano alla tecnologia che cambia ed è molto probabile che il nostro cervello evolverà in rapporto ai nuovi strumenti.
Non che il cervello cambi, s'intende. Il nostro cervello è uguale a quello di 40.000 anni fa, ma lo usiamo in modo diverso. Queste cose sono già successe in passato. E' così che siamo arrivati al «cervello capace di leggere». Nemmeno allora fu facile. Socrate, per esempio, pensava che leggere e scrivere fossero attività che denigravano l'intelletto. Lui non scrisse mai nulla e chiedeva ai suoi allievi di fare lo stesso perché è solo ricordando che ciascuno di noi contribuisce alla memoria collettiva.
Ma Socrate non aveva fatto in tempo ad apprezzare quanto lo scrivere aiuti a scoprire nuove strade. Fosse vissuto altri 50 anni forse avrebbe cambiato idea. Man mano che si diffondeva l'alfabeto, in Grecia si diffondevano l'arte, la filosofia, la scienza. Oggi il cervello si confronta con un'altra rivoluzione, i ragazzi si parlano per sms, si incontrano su Facebook e dialogano attraverso altri network ancora.
Non c'è più bisogno di scrivere, si potrebbe arrivare a un cervello digitale senza che ci sia stato il tempo di imparare a leggere, a organizzare, e interiorizzare il linguaggio. E presto saremo simbiotici con i nostri computer, quello che ricordano loro (ed è molto di più di quello che chiunque di noi potrebbe mai ricordare) non servirà che lo ricordiamo noi. Via web possiamo avere tutti gli amici che vogliamo e accedere a un'enorme mole di informazioni. Presto nessuno di noi potrà più stare senza Facebook o senza sapere quello che sa Google. Con un problema però di dover essere sempre «wired»: persa la connessione si perde tutto, amici e conoscenze.

Corriere della Sera 1.11.11
Salviamo le biblioteche dalla notte della civiltà
di Paolo Di Stefano


Ci sono istituzioni e attività che in un periodo di crisi economica dovrebbero essere protette e rimanere al riparo dai tagli e dalle riduzioni finanziarie, perché la loro saldezza aiuta a resistere alle intemperie. Se una casa sta per crollare, un bravo ingegnere dovrebbe sapere che, per salvarla, i muri portanti dell'edificio non andrebbero snelliti, anzi sarebbero da rinforzare. Bisogna intendersi, certo, su quali siano i pilastri di un Paese democratico, ma anche per i meno idealisti è difficile escludere che tra questi pilastri ci debbano essere l'istruzione, la cultura, la ricerca. Dunque: scuola, università, biblioteche. Curiosamente, invece, in Italia i primi settori penalizzati sono proprio questi, segno di una miopia politica sconfortante. Prendiamo le biblioteche. Pochi giorni fa, Ida Bozzi segnalava sul Corriere l'appello «La notte delle biblioteche» lanciato in rete dall'Aib (Associazione italiana biblioteche), Forum del Libro e Generazione TQ. L'allarme non è affatto ingiustificato se negli ultimi cinque anni i finanziamenti delle biblioteche statali sono passati da 30 a 17 milioni: il che significa riduzione del personale, diminuzione delle acquisizioni di nuovi libri, limitazione degli orari d'apertura. Il confronto con i Paesi stranieri è deprimente, considerando che la sola Bibliothèque Nationale di Parigi gode di un budget di 254 milioni di euro, la British Library di 160 milioni e la Nacional di Madrid di 52 milioni. Bisognerebbe confrontare anche il numero di Maserati messe a disposizione dai ministeri ai loro dirigenti per valutare meglio quali sono le vere priorità nel nostro Paese.
Ci sono poi le biblioteche locali. Negli ultimi anni sono cresciute iniziative straordinarie anche da noi: basti leggere Le piazze del sapere, un libro di Antonella Agnoli (Laterza), per capire quel che è stato fatto e quel che si può fare per aprire spazi che vengono sempre più sentiti, in Italia come all'estero, quali centri di condivisione sociale e di animazione culturale per giovani. Restano però dei buchi clamorosi e insensibilità inspiegabili. Vorrei fare l'esempio del mio paese, Avola (Siracusa), dove c'è una biblioteca comunale con pregevoli fondi di interesse non solo locale. Ora, un suo cittadino, Sebastiano Burgaretta, intellettuale noto a livello nazionale per i suoi studi etnografici, offre alla città il proprio patrimonio librario (circa 15 mila titoli tra opere di linguistica ed etnoantropologia, testi letterari e critici, riviste), riservandosi di aggiungere più in là un prezioso archivio di documenti e lettere (tra cui quelle di Sciascia). Unica, elementare, condizione: che il materiale venga conservato e schedato in un apposito fondo. A tale scopo, il 7 aprile scorso, Burgaretta invia una lettera al sindaco, all'assessore e al direttore della Biblioteca. Nessuno reagisce. Stesso risultato ottiene la seconda lettera, inviata esattamente dopo sei mesi. Il silenzio più cupo. Spesso la Notte delle biblioteche è solo il paragrafo di un capitolo più ampio intitolato Notte della civiltà.

Corriere della Sera 1.11.11
Che bella la vita spiegata dai classici
di Nuccio Ordine


«È veramente propria del filosofo questa situazione, il provar meraviglia, né altra che questa è l'origine della filosofia»: la celebre immagine di Socrate nel Teeteto di Platone — fondata sulla genealogia di Esiodo: Iride (la filosofia) figlia di Taumante (lo stupore) — sembra riecheggiare implicitamente in quasi tutte le pagine dell'ultimo libro di Jean d'Ormesson, Che cosa strana è il mondo (Barbès Editore, pp. 292, 16): «Ammirazione per un ordine di cose così evidentemente immutabile e così evidentemente passeggero. Ammirazione per gli uomini e per il loro genio. Ammirazione per questa bellezza piena di mistero che ha fatto scorrere fiumi di parole e di inchiostro e di cui è quasi impossibile dire alcunché di appena sicuro».
Meraviglia, stupore, ammirazione, sono infatti i termini che ricorrono più frequentemente in questo testo ibrido, difficile da collocare tra i generi conosciuti: non un saggio, non un romanzo, non un diario intimo. Ma, a metà strada tra autobiografia e riflessione filosofica, un racconto poetico delle grandi domande che dalla nascita dell'umanità hanno accompagnato la storia degli uomini. Jean d'Ormesson — 86 anni, autorevole membro dell'Académie française e promotore dell'elezione di Marguerite Yourcenar, prima donna tra gli «immortali» della Coupole — si interroga sulla vita, sul senso, sulla morte, sul niente, su Dio, sulla fede, sulla scienza, sull'universo, analizzando le risposte che filosofi e letterati, scienziati e teologici, hanno dato nel corso dei secoli all'affascinante mistero dell'esistenza.
Non a caso il titolo stesso del libro coincide con il primo verso di una famosa poesia di Louis Aragon: «C'est une chose étrange à la fin que le monde» (in italiano tradotto omettendo «à la fin», «alla fin fine»).
Proprio la singolarità e lo stupore di ciò che esiste, assieme all'impossibilità di fornire risposte definitive, costituiscono l'essenza misteriosa dello spettacolo cosmico e della vita: «La vita è bella — scrive d'Ormesson, rievocando anche l'ultimo verso dello stesso componimento d'Aragon: "Je dirai malgré tout que cette vie fut belle" — Le accade di essere crudele. Ma, alla fine, è bella». Ma la vita deve essere rispettata: «Preferisco che gli uomini non siano torturati, che non siano massacrati, che non siano disprezzati, che non siano distrutti, che non siano umiliati». Ed è un paradosso che gli esseri umani abbiano spesso ucciso in nome di Dio («Dio è un grande procacciatore di guerre e di delitti di ogni sorta. Più ancora della sete di potere o della passione del denaro con cui gli accade di confondersi»). L'intolleranza affonda le sue radici proprio nel presunto possesso di una verità assoluta: «Gli uomini trovano in Dio, o nell'idea che si fanno di lui, una verità assoluta che deve essere usata e diffusa col ferro e col fuoco».
Jean d'Ormesson ripercorre le tappe delle conquiste umane nei vari campi del sapere all'insegna dell'incertezza. Mostra come ogni scoperta e ogni legge abbiano messo in discussione le conoscenze precedenti. E che nessuna «risposta» possibile potrà mai essere considerata definitiva e in grado di fermare la sete di sapere che anima la ricerca o cambiare la nostra condizione di esseri destinati a morire. I dubbi e i misteri, però, non impediscono di coltivare la speranza. Non solo in un'altra vita. I classici, per esempio, sono capaci di provocare profonde metamorfosi: «I bei libri sono quelli che cambiano un po' i loro lettori». Ma anche chi scrive può trarne beneficio: «Questo libro ha cambiato me. Mi ha dato felicità. Mi ha ridato speranza».