mercoledì 2 novembre 2011

l’Unità 2.11.11
Il leader Pd chiama il Quirinale. «Al G20 l’Italia si presenti in modo diverso»
Linea comune tra le opposizioni. Il Terzo polo: premier subito in Aula
Bersani: «Siamo pronti al governo d’emergenza ma i tempi sono stretti»
Bersani assicura a Napolitano la disponibilità del suo partito a sostenere un governo di transizione. D’accordo anche Di Pietro. Casini, Fini e Rutelli chiedono a Berlusconi di riferire in Aula prima del G20
di Simone Collini


«È una delle più drammatiche giornate che l’Italia abbia mai vissuto in questa crisi finanziaria». Pier Luigi Bersani non aspetta neanche la chiusura della Borsa di Milano. Il quadro gli sembra chiaro fin dalle prime ore della mattina, quando chiama Giorgio Napolitano. Il leader del Pd esprime la sua preoccupazione al Capo dello Stato e gli assicura che anche contro i propri interessi (gli ultimi sondaggi danno il Pd al 28% e il centrosinistra avanti di 10 punti) il suo partito è disponibile a sostenere un governo di emergenza guidato da una personalità che abbia credibilità in Italia e all’estero, purché «il cambio politico» arrivi in tempi rapidi: per Bersani sarebbe necessario che già al G20 di domani l’Italia si presenti in modo diverso.
Un ragionamento analogo a quello fatto con il Presidente della Repubblica da Pier Ferdinando Casini, al netto di un passaggio preliminare: il leader dell’Udc che insieme a Gianfranco Fini e a Francesco Rutelli ha scritto una nota per chiedere al presidente del Consiglio di illustrare in Parlamento prima del G20 «le decisioni concrete che assumerà nelle prossime ore» dice a Napolitano che è disponibile ad ascoltare Berlusconi, dopodiché se il capo del governo saprà convincere tutti e incassare il sostegno di un’ampia maggioranza è la sintesi del ragionamento di Casini bene, altrimenti si vada oltre e si verifichi se c’è un’alternativa pronta.
Il fatto che Berlusconi, stando a quanto fatto trapelare ieri sera da Palazzo Chigi, non riferisca in Parlamento prima dell’inizio della prossima settimana è già un primo segnale che la dice lunga sulla volontà del premier di cercare il confronto con le opposizioni nel piano anti-crisi. Ma se la disponibilità all’ascolto di Casini è reale, altrettanto concreta è la convinzione del leader Udc (tra i leader dei gruppi di opposizione, quello che maggiormente ha tenuto i contatti con i malpancisti della maggioranza) che sia pronta un’alternativa. Che potrebbe venire alla luce, si ragiona nel fronte dell’attuale minoranza parlamentare, forse già in una votazione che seguirebbe il discorso di Berlusconi in Aula.
L’ALTERNATIVA
Che Pd, Terzo polo e anche Idv siano disponibili a sostenere un governo di transizione, lo ha riferito a Napolitano anche Bersani, che ha sentito anche Antonio Di Pietro e poi i vertici del Pd, che riunirà oggi per discutere la strategia dei prossimi giorni. Con i capigruppo di Camera e Senato Franceschini e Finocchiaro, con la presidente Bindi e il vicesegretario Letta, Bersani pianificherà la road map che dovrebbe portare a quella «discontinuità politica» necessaria ad uscire dalla crisi «perchè il tasso di credibilità in questo momento dell’azione di governo è pari a zero» e quindi«è necessario un cambio così come è successo in tutti quei Paesi che sono finiti nei guai». Portogallo, Irlanda, Spagna, Grecia, fa notare Bersani in serata dopo che è stata diramata la nota del Quirinale, «hanno cambiato governo o hanno anticipato le elezioni, quindi mi si deve dimostrare che l’Italia è un’eccezione per le virtù taumaturgiche di Berlusconi»: «Per mettere mano a serie misure economiche serve un passaggio di fase con delle personalità che siano credibili su scala internazionale e possano rispondere con efficacia alla crisi». Le misure da fare subito, per Bersani, devono riguardare la lotta all’evasione, le liberalizzazioni, la pubblica amministrazione, ma soprattutto dovrebbero essere accompagnate «da un gesto che crei una psicologia di fiducia e alzi il tasso di credibilità delle misure italiane».
Per questo, spiega il leader del Pd, ha ribadito al Capo dello Stato la disponibilità del suo partito e anche dell’Idv, dopo aver parlato con Di Pietro, «a dare una mano con nostre proposte e nostro sostegno a fronte di una situazione divenuta drammatica». Spiega però Bersani che questo deve avvenire in un quadro di netto cambiamento. Il che esclude il sostegno a governi guidati da personalità come Gianni Letta o Renato Schifani, mentre il nome che continua a circolare con insistenza nell’opposizione è quello di Mario Monti. «Noi non vogliamo ribaltoni e non vogliamo neppure metterci in coda in situazioni definite da altri e che non hanno credibilità spiega Bersani perché se accettassimo di metterci in coda, bruceremmo davvero anche le ultime possibilità rimaste per il nostro Paese».
Le prossime ore saranno decisive e un appello a fare presto arriva anche da un testo firmato da Giuliano Amato, Romano Prodi, Alberto Quadrio Curzio e Paolo Savona. «Il momento è drammatico ed esige l’adozione di provvedimenti immediati e quantitativamente adeguati a fronteggiare l'emergenza», scrivono i due ex premier insieme ai due economisti in un appello che sarà oggi sul “Sole 24 Ore”. «Ogni ritardo può avere conseguenze irreversibili per l’intero Paese e le nostre banche per prime potrebbero uscirne depauperate e paralizzate nella loro essenziale funzione di finanziamento delle imprese produttive. Nel giro di ore l’Italia deve risultare credibile tanto ai suoi partner istituzionali quanto al mercato. È responsabilità ineludibile di tutte le forze politiche, e in primo luogo della maggioranza creare le condizioni perché tale credibilità sia assicurata».

La Stampa 2.11.11
Da Bersani nessuna sponda “Subito un altro governo”
Il leader Pd esclude l’appoggio ad altri esecutivi a guida Pdl
di Carlo Bertini


Protesta I vertici del partito, anche se chiedono le dimissioni del governo con manifestazioni di piazza, escludono che si possa andare alle urne in questa situazione di crisi

Nessun tentennamento, nessuna divisione, in un momento di massima emergenza tutto il Pd, con in testa il suo leader, è pronto ad assumersi «le sue responsabilità» per un governo guidato da una figura «credibile in campo internazionale», senza subordinate, cioè senza invocare le elezioni. Mentre le Borse sprofondano, Pierluigi Bersani, dopo aver parlato con Casini e Di Pietro, sente il bisogno di recapitare questo messaggio urgente al Colle per confermare che l’opposizione è compatta su questa linea. E per sgombrare il campo dalla vulgata che il segretario del Pd voglia correre al voto per passare all’incasso sfruttando il calo di consensi del governo. Ben sapendo, spiega uno dei massimi dirigenti del partito, che «il Quirinale può solo esercitare una moral suasion e quindi i margini sono scarsi», ma anche che «il governo di emergenza è ormai l’unica soluzione, perché se cade Berlusconi ora non si va a votare certo il primo gennaio, si deve formare di corsa un nuovo esecutivo».
A questa disponibilità senza se e senza ma, Bersani non ha sommato un’analoga apertura ad appoggiare le misure proposte dal premier. Lo stato maggiore del Pd entra in fibrillazione quando alle sette di sera esce la nota del Quirinale in cui si sottolinea «la necessità di una nuova prospettiva di larga condivisione delle scelte» che l’Italia deve fare. C’è chi, leggendovi un appello alle opposizioni a votare le misure del governo, si interroga su quanto sia stato opportuno adempiere fin qui alle prove di responsabilità sollecitate più volte dal Colle, consentendo tempi veloci e niente ostruzionismo sulle manovre anti-crisi. E chi piuttosto mette l’accento sulla frase finale in cui «il Capo dello Stato ritiene suo dovere verificare le condizioni per il concretizzarsi di tale prospettiva». Tanto che il vicesegretario Enrico Letta definisce «necessaria e opportuna l’iniziativa del Quirinale di una verifica delle condizioni per l’assunzione di responsabilità italiana rispetto all’Ue. Verifica da cui crediamo possano rapidamente emergere le condizioni perché un nuovo e più forte quadro politico guidi l’Italia in questo drammatico momento».
Fatto sta che per chiarire bene la sostanza del colloquio con Napolitano, dopo la nota serale del Quirinale Bersani si fa intervistare in diretta su Sky per chiarire di non volere «né ribaltoni, né dare sostegno a situazioni non credibili»: tradotto, il Pd non appoggerebbe governi istituzionali guidati da esponenti del Pdl, ma solo governi tecnici. Perché «ci vuole un cambio di fase con personalità credibili su scala internazionale e con una larghissima condivisione parlamentare che possa dare l’idea che siamo un paese che reagisce». E dando la sua ricetta, con la premessa che «se fossi premier non ci troveremo in questa situazione», composta da misure antievasione, patrimoniale sugli immobili, norme sul lavoro, pacchetti di liberalizzazioni, interventi sulla pubblica amministrazione. «Ma qualunque misura non diventa efficace il giorno dopo, quindi deve essere accompagnata da un gesto che alzi il tasso di credibilità delle operazioni italiane, che francamente non credo sia rimontabile con l’approvazione di questa o quella misura».
Insomma, nessuna condivisione bipartisan, senza le dimissioni del premier. Per dirla con Veltroni, «serve un governo nuovo ad horas per evitare la catastrofe».
E mentre Civati e la Serracchiani chiedono come mai Bersani non convochi d’urgenza una direzione, c’è chi si interroga sottovoce se sia opportuno in questo clima scendere in piazza sabato, trasmettendo all’esterno l’immagine di un paese diviso. Nessuno ha voglia di creare difficoltà a Bersani, «certo il problema me lo porrei, ma evitiamo tensioni interne», dice Gentiloni; e anche i veltroniani come Verini sono convinti che «molto dipende dal messaggio che si vuole dare: se è un appello alle forze migliori del paese per un governo di salvezza nazionale, anche questa manifestazione può essere positiva. Insomma, tutta la forza del Pd va messa al servizio di questo obiettivo».

Repubblica 2.11.11
Bersani: "C´è una finestra per un altro governo"
E Casini spiega: spazzata via l´ipotesi del voto. Il Pd riflette sulla piazza di sabato
Dopo i contatti col Colle opposizioni unite: nessun soccorso in Parlamento, fuori Berlusconi, sì al governo-ponte
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Si è aperta una finestra» per la fine del governo Berlusconi e il Partito democratico non vuole commettere errori che possano provocarne una repentina chiusura. Pier Luigi Bersani descrive così il momento drammatico dell´Italia sotto il tiro dei mercati. Ne ha parlato con Giorgio Napolitano. Poi ha spiegato a grandi linee il suo colloquio ai leader dell´opposizione in Parlamento. «Nell´orizzonte del segretario del Pd - racconta Pier Ferdinando Casini - c´è solo il governo di emergenza. La prospettiva delle elezioni anticipate è stata spazzata via».
Dunque, niente errori. Per questo Bersani ha convocato stamattina una riunione dei massimi dirigenti del partito. A sorpresa sul tavolo ci sarà anche la manifestazione di sabato a Piazza San Giovanni, per la quale Roma è tappezzata di manifesti da settimane. Napolitano ha chiesto informazioni sull´appuntamento del week end. Voleva capire quale fosse lo slogan. Se è "Berlusconi a casa", bene. Se è del tipo "elezioni subito", meno bene perché non si concilia con una strategia del dopo Berlusconi che passi da un esecutivo tecnico. Allora, i vertici democratici verificheranno se la piazza è ancora uno strumento utile alla «discontinuità» invocata ieri dal segretario. Naturalmente, per il momento la manifestazione è confermata. Ma secondo alcuni dirigenti va seguito l´andamento dei mercati, il pericolo di un contagio greco a brevissimo, la fotografia di un crollo finanziario che sembra dietro l´angolo. In questo caso, e solo in questo caso, anche un gesto clamoroso come l´annullamento di piazza San Giovanni va messo nel conto.
I grandi tifosi del governo di transizione dentro il Pd vedono le condizioni per arrivare al traguardo. Napolitano ha chiesto espressamente a Bersani la posizione ufficiale del partito. «Devo sapere come si comporterebbe il principale partito dell´opposizione». Bersani ha confermato la linea della responsabilità, la disponibilità a sostenere un esecutivo ponte. E il pressing di Vendola e Di Pietro per il voto anticipato? Esiste, è ancora forte. Ma Bersani da alcuni giorni ha portato sulle sue posizioni il leader dell´Idv. «Non so cosa farà dopo - spiega il vicesegretario Enrico Letta - ma so che Di Pietro darebbe almeno il via libera a un governo di transizione». L´ex pm conferma con una dichiarazione pubblica: «Ci saranno i nostri voti per una nuova fase». Ora che il presidente della Repubblica ha aperto in maniera netta a una «larga condivisione», i dirigenti del Pd stanno bene attenti a misurare le parole. «La situazione è drammatica e come dice il presidente della Repubblica bisogna fare qualcosa; questo qualcosa dovrebbe essere un gesto politico, cioè l´annuncio di un cambiamento perchè il tasso di credibilità in questo momento dell´azione di governo è pari a zero», dice Bersani a SkyTg24. Fuori Berlusconi, questa è la precondizione. Per tutti, senza distinguo: Casini, Bersani, Di Pietro. Poi ci saranno le forze, i numeri e le condizioni per un altro esecutivo. La responsabilità è legata all´addio del Cavaliere. Non vedremo soccorsi bianchi o rossi sulla manovra come in agosto. No a ribaltoni, no a mettersi in coda a situazioni «poco credibili», aggiunge Bersani. E no a Berlusconi premier. Sul resto si può discutere.
Questo fronte compatto, l´abbandono da parte del leader democratico della tentazione elettorale consente al capo dello Stato di continuare su basi più solide le sue "consultazioni". Se Berlusconi non molla, martedì può essere l´occasione giusta per dimostrare, alla Camera, che non ha più neanche i numeri della maggioranza. Ma il timore è di un precipizio ancora più rapido. Per questo l´Udc gli chiede di parlare a Montecitorio prima del G20 di giovedì e venerdì. Cioè oggi e domani mattina.

Corriere della Sera 2.11.11
Le opposizioni:
un governo di salvezza nazionale.
In campo anche le imprese
Confindustria, Abi e coop: situazione insostenibile
di Alessandro Trocino


ROMA — Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro, in piena sintonia, chiedono «il passo indietro» di Silvio Berlusconi e un governo di «solidarietà nazionale». Il terzo polo invita il Cavaliere in Parlamento per «decisioni concrete e non rassicurazioni di rito». Ma fanno sentire la loro voce anche le imprese. In una dichiarazione — firmata da Abi, Ania, Alleanza delle cooperative, Confindustria e Rete Imprese Italia — si definisce l'attuale situazione «insostenibile» e si chiedono misure «immediatamente»: in caso contrario il governo «ne tragga le conseguenze e lo faccia rapidamente, nell'interesse dell'Italia». Il pressing dell'opposizione, sia pure da punti di vista non identici, si fa forte. Perché l'approdo finale, la fine del governo Berlusconi, sembra avvicinarsi e anche per questo Bersani, anche a nome di Di Pietro, in un colloquio telefonico con il Quirinale, ha annunciato la disponibilità dei due partiti ad «assumersi ogni responsabilità», ovvero a provare a mettere in piedi un governo di responsabilità nazionale. A confortare questa ipotesi, nella prospettiva di Bersani e Di Pietro, anche le parole serali del Colle che chiede «l'assunzione di decisioni efficaci», ma parla anche di «una nuova prospettiva di larga condivisione».
Il precipitare della crisi sembra restringere le opzioni. Difficile immaginare una campagna elettorale ora, anche se l'ipotesi non viene del tutto esclusa. Bersani chiede «un gesto di discontinuità»: «È necessario un cambio, così come è successo in tutti quei Paesi che sono finiti nei guai». Bersani vorrebbe un «passaggio di fase con personalità credibili su scala internazionale» e «una larghissima condivisione parlamentare». Il leader del Pd tiene a specificare che non è il momento di immaginare soluzioni di parte: «Non voglio ribaltoni o mettermi in coda a situazioni non credibili. Non da oggi ho consegnato a nome del Pd, e oggi ho fatto anche il nome di Di Pietro, la disponibilità del mio partito a dare una mano». Il crinale è sottile, insomma, e non si può ipotizzare un governo delle opposizioni rinforzato da qualche fuoriuscito. Lo scenario è piuttosto quello di un governo di emergenza composto dall'opposizione ma anche da un'ampia parte della maggioranza. Il terzo polo parla con una nota congiunta di Casini (Udc), Fini (Fli) e Rutelli (Api), che chiedono la presenza del premier in Aula prima del G20 di Cannes di domani. E l'appello di banche e imprese colpisce per la sua durezza: «L'attuale condizione è insostenibile. Non possiamo correre il rischio di perdere in poche settimane ciò che abbiamo costruito in decenni di lavoro».

Corriere della Sera 2.11.11
Pd, ancora «fuoco amico» su Renzi Bersani: ricostruire, non rottamare. L'ipotesi di un passo indietro a favore di Zingaretti
di Mo. Gu.


ROMA — Spente le luci della stazione Leopolda, il centrosinistra si interroga sul «fattore Renzi». Dal Pd continua il fuoco amico sul sindaco di Firenze, protagonista del «Big Bang» di idee che per tre giorni ha portato alla ribalta cento giovani e cento proposte per cambiare l'Italia. Rosy Bindi, presidente del Pd, stronca il «tardo blairismo in salsa populista» di Renzi e Pier Luigi Bersani prova a contrastare lo sfidante opponendo ai «rottamatori» del sindaco i suoi giovani «ricostruttori». Il sito ufficiale del Pd si apre con una enfatica esortazione pronunciata dal segretario a Napoli, sabato scorso: «Giovani, voi siate i ricostruttori!».
Chi vincerà, i ricostruttori o i rottamatori? Il problema è che il Pd non è unito e il centrosinistra, in caso di elezioni anticipate, rischia di presentarsi alle urne più frammentato che mai, con l'inevitabile conseguenza di favorire ancora una volta il fronte berlusconiano. Ad agitare il fantasma della sconfitta è Antonio Di Pietro, che a L'Unità si dice disposto «a fare un passo indietro e a sostenere Bersani nelle primarie di coalizione». Forse è solo una suggestione, ma intanto il leader dell'Idv coglie nel segno quando dice che «il Pd diviso è un danno per tutti» e svela il suo incubo: «L'effetto Molise».
Già, se si fanno le primarie di coalizione — e scendono in campo, oltre a Bersani, anche Zingaretti, Renzi e magari altri candidati — il rischio è la frantumazione e la dispersione dei voti, da cui potrebbe trarre vantaggio Nichi Vendola. A che serve, si chiede Di Pietro, «l'ennesimo scannamento»? Per lui Renzi è una risorsa e va accolto come «un pungolo», non va criminalizzato. Il fantasma che agita l'ex pm di Mani Pulite preoccupa anche il sindaco di Firenze, il quale comincia a temere il seguente scenario: sull'onda della richiesta di ricambio generazionale Bersani rinuncia alla sfida per la premiership e lancia Nicola Zingaretti, costringendo a quel punto Renzi a fare a sua volta un passo indietro per non spaccare il Pd. Potrebbe sembrare pura fantapolitica, ma intanto, sarà un caso, Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd e fedelissimo di Bersani, attacca proprio sulla capacità di Renzi di «fare il gioco di squadra».
La «squadra» di Renzi intanto, dopo il Big Bang, fa il pieno di contatti su Internet. Tra i più cliccati i video con gli interventi di Alessandro Baricco, Sergio Chiamparino, Arturo Parisi e Riccardo Luna.

il Fatto 2.11.11
È un riciclato di lusso il guru di Renzi
Da Canale 5 alla casa di produzione Magnolia alla regia della Leopolda: “Matteo, io ci sono”
di Luca Telese


Vorrei provare a dirvi perché sono qui. Io non sono un politico né un amministratore, l’ultimo discorso pubblico l’ho fatto al liceo Sarpi nel 1979...”. Ecco, se vuoi capire il Giorgio Gori del 2011, quello che rompe un riserbo pubblico trentennale per prendere la parola alla Leopolda e partecipare al Big Bang, quello che scrive il manifesto del nuovo movimento che sta nascendo intorno al sindaco di Firenze (lasciando la sua firma digitale nel Pdf per la gioia del popolo di internet), devi partire da quello del 1978.
 Gori nasce a Bergamo nel 1960, fa lo studente, ma è già attraversato dalla passione per il giornalismo. A 18 anni si ritrova a Radio Bergamo, animato da fervori giovanili e simpatie movimentiste, con un superiore che si chiama Vittorio Feltri. Gori è impegnato, di sinistra, appassionato di antimafia. Feltri è la quintessenza del giornalismo di provincia affamato di notizie, attento al sodo, infastidito dai grandi proclami. Ricorda l’editorialista de Il Giornale: “Era bravissimo, davvero: ma anche un po’ presuntuosetto. Un giorno gli faccio: ‘Sai che ti dico? Chissenefrega della mafia, se vuoi parlare di qualcosa di importante metti su l’elenco delle farmacie aperte’”.
 Il bello è che dopo soli tre anni i due si rincontrano, e finisce ancora peggio. Feltri diventa direttore di Bergamo Oggi e si trova a dare battaglia a L’eco di Bergamo. Riesce nel suo obiettivo e porta il giornale concorrente alla chiusura. E fra i redattori che arrivano da quel quotidiano chi c’è? Un giovane praticante che si chiama Giorgio Gori. Con il neodirettore si arriva subito alla collisione: “Io gli dicevo quello che volevo e lui regolarmente se ne fregava. Glielo dicevo una, due o tre volte, macché, nulla. Arrivati al decimo incidente chiamai l’editore e gli dissi: basta, di questo Gori mi sono rotto le scatole, licenzialo”.
 ANCHE GORI , questo passaggio cruciale della sua vita non se lo è scordato: “Mi licenziò raccontandomi un sacco di balle, dicendomi che aveva il cuore che gli sanguinava nel perdermi. Ma io lo devo ringraziare perché fui costretto a cercarmi qualcos’altro”.
 Chiedo a Feltri, oggi, se non ci fosse un conflitto politico, fra loro: “Mah, sai... io ero socialista. Lui era, se mi passi il termine, uno di quelli che io chiamo fighettini di sinistra. Ma molto, molto intelligente. Guarda che abbiamo continuato a giocare a pallone insieme!”.
 Pallone o non pallone, il trauma di Bergamo oggi proietta Gori verso la ribalta nazionale. Si laurea in Architettura. E nel 1984 riesce a entrare a Retequattro, spinto da Lorenzo Pellicioli che all’epoca era l’amministratore delegato del canale mondadoriano (prima della scalata di Silvio Berlusconi), nonché vecchio compagno di assemblee studentesche. Diventa assistente del capo del palinsesto della rete. È un altro giovane di sicuro avvenire, si chiama Carlo Freccero. Dopo l’arrivo del Cavaliere, entrambi si ritrovano con uno scatolone in mano. E tutti e due vengono subito ripresi.
 A “ripescare” il giovane Gori è Roberto Giovalli, che dopo aver letto una sua relazione su di un telefilm decide immediatamente di riassumerlo. Il resto è storia recente. Gori diventa il direttore di Canale 5, il miglior interprete di una televisione politicamente corretta, formalmente impeccabile, a tratti persino calligrafica: “Io – dirà – volevo solo lavorare in un’azienda che non si collocasse né a destra né a sinistra”. I suoi principali sponsor, dentro Mediaset sono due: Maurizio Costanzo ed Enrico Mentana. In una stagione, quella della discesa in campo, in cui l’ombra del conflitto di interessi fa saltare l’equilibrio. Gori ha ricostruito questo passaggio di fase così: “Berlusconi tende a creare rapporti filiali, ma io un papà ce l’ho già. In realtà il grande freddo nasce quando lui scende in campo. Non è stato facile, perché in azienda c’era una sorta di chiamata alle armi. Per fortuna ero spalleggiato da gente più forte di me come Mentana e Costanzo”.
 GORI ESCE da Mediaset e si mette in proprio fondando Magnolia, una delle più grandi società di produzione italiane. Nel 2007 ne cede la maggioranza al gruppo De Agostini, pur mantenendo il controllo. Visto che l’azienda aveva un giro di affari di 64 milioni di euro, il produttore diventa ricco. Ogni tanto il suo nome appare sui giornali, molto più per la cronaca rosa (visto che è sposato con la conduttrice Cristina Parodi) che per la politica. La sua società spazia dall’intrattenimento puro di X Factor all’informazione con Exit (il programma di inchiesta di Ilaria D’Amico) e – quest’anno – Piazzapulita, il talk di Corrado Formigli. Però, in questo ultimo anno, chi lo conosce bene racconta che qualcosa dentro di lui cambia. Si risveglia la passione politica degli anni giovanili, il senso di angoscia per la crisi italiana. Qualcuno in rete – considerandolo ancora un “uomo Mediaset” – ha fantasticato sulla sua presenza alla Leopolda, immaginandolo come una fantomatica longa manus del Cavaliere. È vero il contrario. È proprio il crepuscolo del berlusconismo che fa venire in mente a Gori che si possa aprire uno spazio per una nuova avventura politica.
 Nell’organizzazione del Big bang, il
 produttore mette cuore, cervello, passione, un know how televisivo di cui si possono notare i segni visibili. E poi, naturalmente, anche soldi. Dal palco, nei suoi cinque minuti tratteggia una proposta di riforma della Rai sul modello britannico, con due reti privatizzate e manager nominati dal presidente della Repubblica. Quindi dice: “Siamo in una serissima difficoltà, e proprio perché la situazione è questa, io credo che sia necessario che ognuno smetta di fare esclusivamente i fatti suoi. Se vogliamo provare a cambiarlo questo nostro benedetto, amato paese è ora che chi può cominci a darsi da fare, e ci metta anche la faccia”. Nel grande clamore dell’effetto Renzi molti osservatori non hanno ponderato con attenzione il peso di queste parole: “Ho deciso di tirare fuori dal baule, come direbbe Parisi il pronome io. Io ci sono, caro Matteo”. Anche questo è l’annuncio di una discesa in campo.

il Fatto 2.11.10
Renzismo senza limiti
di Oliviero Beha


Mentre Bisignani patteggia, la Borsa annega e perfino Montezemolo diventa p.p. (papabile premier), nel campo di Agramante dedito all’opposizione ferve il dibattito sulla questione-Renzi. Proviamo a tirar via un po' di polvere dalle radici di una pianta all’apparenza pensile, come usa nella politica mediatica di oggidì nella quale galoppa un effettivo campione di istantaneismo, come Matteo Renzi, perfetto contemporaneo senza essere passato per le forche caudine della modernità. Di lui si dice che incarni berlusconianamente l’alternativa a Berlusconi, condividendone perfettamente il leaderismo mediatico. È vero, o almeno può essere. Soprattutto se si congettura sulla ignobile tesi di chi scrive secondo la quale Berlusconi non sarebbe all’origine del berlusconismo, bensì ne costituirebbe il frutto avvelenato e preparato nel tempo, frutto marcito urbi et orbi. Ma questo per Renzi potrebbe essere un vantaggio sull’apparatniki che dice di voler rottamare. Nei lustri di Berlusconi politico, infatti, una lettura incisiva ed esplicativa del perché abbia quasi sempre vinto Silvio sarebbe la seguente: D’Alema ha sempre voluto essere Berlusconi, mentre al Caimano di essere D’Alema proprio non gli è mai passato per la mente. Quindi un Renzi dichiaratamente leaderista di stampo berlusconiano avrebbe il vantaggio della trasparenza sui suoi penati (minuscolo). Certo, questo imporrebbe a Renzi più nettezza nel candidarsi pubblicamente a partecipare alle primarie per vincerle e sostituire la veterocrazia di partito. Tutto ruota comunque intorno al perno anagrafico: di qualsiasi cosa si parli, Matteo Renzi mette avanti la giovane età come cavalli alla briglia per una carrozza ferma. La versione, ufficiale e ufficiosa, superficiale e profonda che il gruppo “rottamatore” guidato da Renzi dà di questa lettura anagrafica, è molto interessante: dicono che su qualunque altro versante la rimonta dei quarantenni o dei trentenni è oggi assai improbabile, resa difficile ai limiti della impraticabilità da quella stessa casta di partito che vorrebbero sbolognare. O è lo statuto del partito, o ci sono consolidate realtà di intreccio politico-finanziario (cfr. le cronache pressoché quotidiane), o ci sono baratti/scambi di voti che ricompattano la generazione dei padri o tra poco dei nonni così da creare cavalli di Frisia per qualunque Renzi in circolazione. Quindi la giovane età sarebbe la condizione inevadibile per contrastare il monopolio. Condizione necessaria, ma non sufficiente, come vien fatto di osservare a chiunque, in senso critico da parte di chi difende la nomenklatura, in senso dubbioso da parte di chi però vorrebbe vedere facce nuove visto quel che è successo al Paese con le vecchie. Dunque una pre-condizione strumentale usata come fine e come mezzo insieme. Davvero interessante. Sarebbe opportuno ma per tutti, vecchi e giovani non soltanto a sinistra, in questo disgraziatissimo momento per il Paese, riempire di altri contenuti la questione anagrafica: così che la giovane età continui a rappresentare un fine e un mezzo, così come la mediaticità ne rappresenta per ora un segnale di riconoscibilità, ma mirata su degli obiettivi e quindi non destinata a “invecchiare” invano. Detto da osteria, il ricambio in quanto ricambio non può essere l’unico story-board pur in una politica tutta pubblicitaria. Per esempio se tra le 100 proposte per rinnovare l’Italia Renzi non avesse infilato l’amnistia “condizionata per politici corrotti” ma avesse battuto forte e chiaro sul tasto della proposta di legge languente in Parlamento per inasprire le sanzioni sul tema accentuandone la volontà di non far sconti per nessuno, tantomeno a sinistra e per membri del Pd, avrebbe dato un segnale diverso. Invece così... Eh sì, ce n’è di strada per il renzismo senza limitismo.

La Stampa 2.11.11
La sfida. Nuovi politici in campo
Renzi e Alfano, i gemelli diversi battezzati Dc
Il rottamatore del Pd e il segretario del Pdl sono cresciuti entrambi nei giovani popolari
di Francesca Schianchi


Angelino Alfano Nato ad Agrigento il 31 ottobre 1970, ha cominciato a frequentare le sedute del consiglio comunale a 14 anni seguendo le orme del padre, già assessore e vicesindaco per lo scudo crociato. Laureato in giurisprudenza alla Cattolica di Milano con la tesi «Associazioni non riconosciute: i partiti politici», è stato segretario provinciale di Agrigento del Movimento giovanile Dc. Nel 1994 al Ppi preferì Forza Italia
Matteo Renzi Nato a Firenze l’11 gennaio 1975, figlio di un dirigente della Dc Toscana, si è laureato in giurisprudenza con una tesi dedicata alla prima esperienza di Giorgio La Pira come sindaco di Firenze. Ex capo scout, e direttore del mensile «Camminiamo Insieme» dell’Agesci, nel 1996 si è iscritto al Partito Popolare Italiano e tre anni dopo ne è diventato il segretario provinciale
Matteo è un combattente, pronto a correre grandi rischi. O vincere o morire, in ogni sfida. Angelino invece è sempre stato un leader carismatico, ma diverso, uno che mai correrebbe un rischio “mortale”». Matteo e Angelino, Renzi e Alfano. Li ricorda entrambi il giornalista Mario Adinolfi, oggi neo fuoriuscito del Pd, negli Anni 80 e 90 giovane popolare, di cui è stato anche presidente. Proprio lì, a cavallo fra Dc e Ppi, nel solco di quella tradizione hanno mosso i primi passi quelli che potrebbero diventare i leader del futuro. Approdi opposti, radici comuni.
Alfano da Agrigento fa parte dei giovani della Dc fin da ragazzino: il deputato Udc Renzo Lusetti, allora responsabile nazionale degli “juniores”, ricorda che partecipò, nel 1986, alla crociera che organizzò per un migliaio di ragazzi, tutti sulla “Achille Lauro” un anno dopo il dirottamento, da Genova a Palermo, ospite d’onore il segretario De Mita. Alto, insospettabili capelli ricci, appena sedicenne, l’attuale segretario del Pdl «era già un emergente, un animatore», lo definisce Lusetti, qualcuno mi disse “questo ragazzo crescerà”, aveva ragione...».
Il passaggio dalla Dc al Ppi è destinato però ad allontanare Angelino. «A volte mi superava a sinistra. Ricordo una discussione che facemmo a Firenze, era fine 93 o inizio 94: il nodo era se continuare a fare una battaglia di rinnovamento dentro la Dc, stando dalla parte di quelli che oggi chiameremmo rottamatori, o aderire a un movimento nuovo: lui era molto tentato dalla Rete di Leoluca Orlando», racconta Francesco Sanna, oggi senatore Pd, allora responsabile nazionale del movimento giovanile del partito. Alla fine questo giovanotto «meno ruspante di molti di noi, con tratti eleganti non per censo ma per educazione», vide alla tv un i m p r e n d i t o r e brianzolo pronto a scendere in campo «che aveva il sole in tasca», come ha spiegato lo stesso Alfano: è il passaggio a Forza Italia, che non abbandonerà più. «Noi ex compagni di strada lo trattammo da traditore - svela Adinolfi - avevamo vissuto insieme la fase difficilissima del 92-93, passare con Berlusconi era il massimo tradimento: ci incontrammo per un caffè a Roma, gliene dissi di tutti i colori».
Alfano esce e Renzi entra: l’attuale sindaco di Firenze, cresciuto a Rignano sull’Arno, papà Tiziano consigliere comunale Dc, si appassiona ai Comitati Prodi, è il 95-96. Si iscrive ai giovani popolari, diventa segretario provinciale di Firenze nel 1999. E subito si fa notare: «Se oggi è dirompente, si può immaginare com’era quindici anni fa», ride Antonio Iannamorelli, oggi consigliere comunale del Pd a Sulmona, nel 95 responsabile scuola dei giovani popolari. «Molti di noi non lo vedevano di buon occhio: noi eravamo identitari e conservatori, lui era un modernista», lo descrive. «Un opinion leader, ma già allora uno che spaccava. E, a differenza di quello che dicono oggi, un gran lavoratore: ricordiamo tutti quanto ci ruppe le scatole con la storia degli strilloni, settore dell’azienda di famiglia che gestiva lui e voleva ampliare». La rivincita su chi allora lo criticava
è che «molti di noi, di quelli che allora lo contestavano, sabato e domenica sedevano alla Leopolda. Oggi o si fa qualcosa con Renzi, o niente».
Sveglio, «un grande mobilitatore, un capo, molto rapido», descrive il sindaco di Firenze il Pd Pierluigi Castagnetti. Una volta andò in città per un serioso dibattito sulla crescita demografica, Renzi organizzò tutto, sala inaspettatamente piena («e che sala: era il Palazzo dello Sport!») e clima rilassato. «Intelligente, brillante, capace di lanciare ponti tra cose diverse, come il suo libro: Da De Gasperi agli U2», insiste Adinolfi.
«Cavalli di razza», Matteo e Angelino, una scuola comune. Che potrebbe portarli a essere diretti avversari. E chissà se le cose sarebbero potute andare diversamente: «Nel 1993 io ero a capo della segreteria di Martinazzoli, Alfano venne a proporsi come candidato a sindaco di Agrigento», rivela Castagnetti. «Fui molto prudente. Recentemente mi ha detto che la mia freddezza di allora ha avuto un ruolo nel suo allontanamento dalla Dc...».ARTITO «Da ragazzo Matteo era fissato con gli strilloni Era un modernista»

Repubblica 2.11.11
Il “governatore della Toscana
Alla Leopolda ho visto la sinistra conservatrice"
Rossi: da Matteo nessuna risposta alla crisi
Il Pd deve indicare un "suo" candidato Se Renzi lo sfida deve sapere che rischia di indebolirlo
di Sandro Bertuccelli


FIRENZE - Presidente Rossi che ne pensa della Leopolda post-ideologica del sindaco Renzi?
«Chi ha detto che non c´era ideologia? La sinistra conservatrice, le pensioni che tolgono risorse ai giovani, più dinamismo economico, più mercato per avere più giustizia sociale: questo è il Blair del ´99».
E perciò lei la stronca.
«La Caritas ha detto che i poveri in Italia sono 8.3 milioni, con un aumento del 7% rispetto al 2010 e soprattutto tra i giovani. Ecco il risultato del liberismo. Il Collegio pontificio della giustizia e della pace sostiene che è responsabilità di quel liberismo senza regole e controlli se le diseguaglianze sociali sono cresciute. Alla Leopolda si è riproposto quello che è all´origine della crisi, in un mondo profondamente cambiato. Sul banco degli imputati non può finire la sinistra ma i cedimenti che ha avuto verso quel liberismo».
Non negherà che alla Leopolda c´era del fermento.
«Facebook, Twitter, 5 minuti per parlare di Europa, il WikiPd, il frigo sul palco, la libreria finta. Per carità, va tutto bene, ho visto molto impegno. Però c´era un´estetica del potere iniziata in forme diverse con il Panseca di Craxi e proseguita con Berlusconi. Il potere ha bisogno di sobrietà e semplicità».
Però oltre 500mila utenti hanno seguito la diretta streaming.
«In questo Matteo è bravissimo, sa interpretare il bisogno di partecipazione a cui il Pd non ha saputo dare risposte. Ma in politica non può bastare un post, non si può sostituire un partito: servono organizzazione e approfondimento».
Eppure ne sono uscite 100 idee che dovrebbero diventare un programma.
«Ma si elude il nodo fondamentale di questo momento. Il Paese affonda: lo spread è al 4,59, gli interessi sui Btp al 6,20, non siano così lontani dal default. Lì c´era un clima inconsapevole del dramma. I conti col berlusconismo vanno fatti fino in fondo e oggi può vincere chi riesce a indicare il modo più giusto per aggredire il debito pubblico ricreando prospettive di sviluppo e chiedendo sacrifici equamente distribuiti. Bisogna bonificare gli sprechi, introdurre una patrimoniale e tasse progressive se vogliamo tutelare i più deboli. E in questo contesto si può anche parlare di pensioni. Populismo e riformismo sono inconciliabili, e qui si vuol piacere a troppi».
Cosa l´ha convinta di meno del Big Bang?
«L´amnistia condizionata per i politici accusati di corruzione. Somiglia a un colpo di spugna per salvare i corrotti».
Ma qualcosa che l´ha convinta ci sarà pure?
«Si è parlato molto di precariato. Anche se non ho visto proposte adeguate».
Presidente, il Pd non ha niente da rimproverarsi?
«Il Pd deve avere una posizione più critica verso lo sviluppo che si è avuto in questi anni».
E non sarebbe utile una nuova classe dirigente?
«Sì, purché venga fuori dal dibattito politico: Renzi sta perdendo un´occasione».
Farà così per accattivarsi elettori. Secondo lei dove pesca?
«Tra i moderati di centrodestra. Invece bisogna saper parlare anche a sinistra e fare proposte per uscire dalla crisi che siano chiare a tutto il Paese».
Lei è favorevole alle primarie?
«Vanno fatte quanto prima, anche per i parlamentari. Devono essere aperte, magari in due turni. Ma il Pd deve avere il diritto di indicare un "suo" candidato. E chi lo sfida deve sapere che rischia di indebolire quella candidatura. Renzi abbia il coraggio di decidere se candidarsi o no».

Repubblica 2.11.11
Bindi: Renzi è un falso nuovo. Parisi lo difende
La presidente del Pd: idee da tardo-blairismo. E i Radicali aprono al "rottamatore"
Bordata di Vendola: "La sua innova-zione maschera la continuità con il liberismo"
di Giovanna Casadio


ROMA - Su Facebook i commenti al Wiki-Pd e al Big Bang della Leopolda continuano a crescere sfiorando quota 900. Matteo Renzi posta: «Bingo». L´obiettivo è centrato: le cento idee per il rinnovamento italiano fanno discutere. Ma dal Pd partono nuove bordate, mentre i Radicali a congresso gli offrono una inattesa apertura di credito. Rosy Bindi, la presidente del partito - che con il sindaco di Firenze ha incrociato le spade un´infinità di volte - ora ne liquida le proposte: «Sono tardo blairismo in salsa populista». Un finto nuovista. Su twitter, Dario Franceschini, il capogruppo democratico - che venerdì scorso ha salutato l´inaugurazione della convention di Renzi come «energie che arricchiscono» - bacchetta: «Guardo a tutti quelli che pensano a se stessi per il "dopo Berlusconi" e penso: e prima, dare una mano per arrivarci a questo "dopo Berlusconi", no?».
Nichi Vendola, il leader di Sel, ha sfogliato il cento punti di Wiki-Pd: «Ci sono seduzioni, molte proposte condivisibili e neanche nuove. Ma dobbiamo avere il coraggio di rompere con gli ultimi trent´anni e con il liberismo. L´innovazione di Renzi è solo la maschera per la continuità». Nel giorno da incubo delle Borse, avverte Vendola, il bene prioritario è «tutelare la coalizione di centrosinistra. Però l´Ulivo è un cantiere aperto non soltanto ai soliti noti, cioè ai moderati e al sistema di imprese (che è il discorso di Renzi), ma ai movimenti, agli indignati, alle donne, a chi ha costruito una critica sociale». Sulle primarie nessun passo indietro del leader della sinistra. Se Antonio Di Pietro annuncia che potrebbe non candidarsi e appoggiare alle primarie Bersani, Vendola non ci pensa affatto. Non bisogna avere paura delle elezioni (la Spagna non ce l´ha), né delle primarie (la Francia le ha appena fatte), spiega. «E alle primarie del centrosinistra io sono in campo. Contro chi? Non sono io a scegliere gli altri competitors, l´importante è che sia un confronto dentro un patto di lealtà in un cantiere che offra all´Italia un´alternativa».
Oggi Bersani riunisce il vice segretario Enrico Letta, la presidente Rosy Bindi, i capigruppo Franceschini e Anna Finocchiaro. Convocazione sulla drammatica crisi economica e le scelte da fare, ma sarà deciso quando convocare la direzione (e prima, un "caminetto" del big). Ieri pressing perché sia riunita la direzione. Lo chiedono Debora Serracchiani e Pippo Civati: attivare subito il partito. Anche l´area democratica di Ignazio Marino, Michele Meta e Paola Concia la vuole, e oggi si riunisce. Il confronto sarà poi su tutto, inclusa la novità del "renzismo". Il sindaco rottamatore è lodato da Arturo Parisi (che alla Leopolda c´era): «Nel Pd c´è un vuoto preoccupante, e in questo vuoto Renzi è una risorsa. Non si sta costruendo l´alternativa». Apprezzato a metà da Beppe Fioroni, il leader dei Popolari, che riconosce: «Renzi è una risorsa, ma le idee vanno condivise con chi, insieme a noi, può dare vita a una alternativa di governo». Insomma, si parli di alleanze.
I Radicali - che hanno tenuto a Chianciano quattro giorni di congresso - attaccano il Pd di Bersani ma non sposano la linea del leader storico Marco Pannella che ha elogiato il «leale rapporto nel ´94 con Berlusconi». Guardano alle novità che si muovono in casa democratica: a Renzi e alla linea liberista (lo stop al finanziamento pubblico dei partiti è uno dei cavalli di battaglia dei Radicali, così come la flexsecurity); e anche a Nicola Zingaretti che ha ribadito spesso di avere a cuore il federalismo europeo (tratto costitutivo del radicalismo democratico). Mario Staderini è stato confermato segretario, presidente Silvio Viale e tesoriere Michele De Lucia. Pannella polemizza con i compagni: «Vado alle Maldive per un lungo periodo». Il filo rosso del dibattito congressuale è quello che Emma Bonino, l´altra leader radicale, definisce «la distruzione dello Stato di diritto senza il quale non ci sono diritti».

il Riformista 2.11.11
Fenomenologia Renzi, ma qual è il progetto?
di Corrado Ocone

qui
http://www.scribd.com/doc/71262977

l’Unità 2.11.11
Intervista a Nichi Vendola
«La crisi è strutturale. il governo tecnico è la soluzione sbagliata»
Il leader di Sel: «Non basta la caduta di Berlusconi se a succedergli
intervista di Andrea Carugati


Di fronte al precipitare della crisi finanziaria e al prepotente riemergere dell’ipotesi di un governo di emergenza, che trova robusti consensi nelle file del Pd e dell’Idv, Nichi Vendola ribadisce il suo no. «L’idea del governo tecnico, di una risposta emergenziale, non risolve il problema: siamo di fronte ad una crisi lunga, strutturale, direi di modello. Quelle che vengono apparecchiate come proposte tecniche sono in assoluta continuità con le politiche economico-sociali che hanno generato la crisi. Il governo di emergenza è una strada strategicamente sbagliata e politicamente poco fondata negli attuali rapporti di forza parlamentari».
Eppure l’Italia è a un passo dal baratro...
«Se per rispondere all’attacco speculativo si chiude a tenaglia la stretta sul welfare, se si prosegue con la retorica dell’austerità la politica della miseria, se non si mette in piedi un’idea di politica industriale e di crescita, noi continueremo a produrre tagli su tagli senza effetti virtuosi sul debito pubblico. Il Paese, nel frattempo, salta. E rischia di saltare la coesione sociale, l’architrave del patto che tiene insieme gli italiani».
Se un governo di emergenza dovesse vedere la luce, quale sarà il vostro atteggiamento?
«Negativo. Non esistono ricette neutre, se le medicine rischiano di uccidere l’ammalato, non è che se le acquisto in una farmacia più grande gli effetti sono meno nefasti. Quello che ci rende così vulnerabili agli speculatori è l’opacità della politica, l’autoreferenzialità di una classe dirigente barricata nei suoi fortini».
Secondo lei, insomma, se Berlusconi cadesse per il Paese non sarebbe comunque un balsamo?
«No. Per me il rischio è che si confondano le responsabilità e si rende ancora più torbida l’acqua in cui nuota l’opinione pubblica. C’è il rischio che si operi una sorta di sterilizzazione della coscienza critica nei confronti del berlusconismo, che la crisi venga addebitata alla politica tout court e non a al governo della destra, con tutte le conseguenze del caso sul piano della tenuta democratica. E poi guardiamo al caso greco: il referendum proposto dal premier Papandreou dimostra che il re è nudo e pone un tema ineludibile: qual è la legittimazione democratica di chi detta legge a parlamenti e governi? La drammaticità della crisi richiede un ingresso potente della politica, questa non è l’ora della “tecnica”».
Di Pietro propone una “controlettera” all’Ue. È praticabile?
«Ci si può ragionare. La nostra lettera, se ci sarà, dovrà contenere il capovolgimento dell’impianto di Berlusconi. Non si può non partire da una geografia sociale così segnata da elementi pesantissimi di iniquità. Nel paese è maturata una questione sociale dirompente, che non si può affrontare con l’artificiosa contrapposizione tra i nonni con 500 euro di pensione e i nipoti precari. Dobbiamo partire da una patrimoniale pesante, e da una significativa redistribuzione della ricchezza».
Negli ultimi giorni sembra allontanarsi l’ipotesi di un’alleanza tra centrosinistra e Udc alle prossime politiche... «Sarebbe la presa d’atto di un’intenzione più volte manifestata dal Terzo polo: correre da solo. Nel Pd qualcuno ha iniziato a riflettere anche sul caso Molise, per quello che ci insegna. Lì abbiamo scelto un candidato che veniva dal blocco avversario, con l’idea che avrebbe attratto voti moderati .È finita che l’Udc ha sostenuto il centrodestra e noi abbiamo perso per pochi voti, regalando molti consensi di sinistra ai grillini. L’”alleanzismo“ disinvolto, senza un’idea comune dell’Italia che vogliamo, rischia di sostituire l‘algebra alla politica. Ma non funziona».
Nel Pd sono stati i giorni di Renzi e della sua convention fiorentina. Lei cosa ne pensa?
«Rispetto Renzi, e spero che il confronto tra noi resti sempre sulla politica, senza degenerare mai. Lui ha fatto da destra un’operazione simile a quella che ho fatto io da sinistra». In che senso?
«Propone il tema di un’innovazione radicale, di un’offerta politica che rompe le regole, rimescola le carte, e decostruisce il partito».
Perché gli appiccica l’etichetta di ”destra”?
«Accanto ad alcune idee di buon senso ma non molto nuove, Renzi propone in forme comunicativamente suadenti un rilancio dell’ipotesi neoliberista. Ma quello è il piano su cui ricostruire l’Italia o l’inizio della cata-
strofe? A questo si aggiunge la rimozione di alcune questioni aperte, a partire dal modello di sviluppo, e l’ambiguità sul peso del lavoro nella scena sociale. Si finge di non vedere quanto tutto il mondo del lavoro sia stato succhiato nel vortice della precarizzazione, e si costruisce una giustapposizione artificiale tra garantiti e non garantiti. Non si capisce come mai gli standard di vita dei garantiti debbano peggiorare per poter garantire gli altri. Insomma, vedo una forte continuità con le culture che da Reagan in poi hanno impregnato il mondo occidentale».
Una bocciatura senza appello?
«Renzi ha un merito: disvela qualcosa che esiste nel Pd, un’ipoteca non moderata ma liberista sul futuro. E invece oggi c’è bisogno di un riformismo radicale, che si ponga come obiettivo la “conversione” del modello di sviluppo».
Ritiene che il sindaco di Firenze esprima un pensiero radicato nel Pd? «Sta cercando di rompere il giocattolo, per costruire una nuova alleanza tra poteri forti e comunicazione mediatica, come dimostra la scelta dei suoi testimonial, tutti con una cultura politica di destra».
Come la vedrebbe una sfida tra lei e Renzi alle primarie?
«Intanto il nodo della sua candidatura non è sciolto. Il dibattito fa bene, purché nessuno giochi a nascondino. Le carte vanno messe sul tavolo: per me un modello sociale che usa la crisi per rendere ancora più selvaggia la jungla del mercato del lavoro è il passato. E non si può danzare genericamente su temi come lavoro e pensioni».
Ieri Di Pietro in un’intervista all’Unità ha ipotizzato di non correre alle primarie per sostenere Bersani e rafforzare così la coalizione.
«È un bel gesto, che dal suo punto di vista aiuta la semplificazione della contesa. Ciascuno di noi sta pensando insieme alla propria idea di programma e a come irrobustire il centrosinistra. Io lo faccio da tempo, concentrandomi sui ragionamenti politici, senza inseguire nessuno sul terreno delle polemiche. La mia presenza renderà le primarie un fatto vero, e questo è un bene».

l’Unità 2.11.11
Dopo il Papa straniero ecco il martire interno
I media vogliono costruire artificialmente una leadership tutta contro i partiti Il sindaco piace non per le simpatie neo-liberiste ma per la ricetta anti-politica
di Michele Prospero


Un aspetto inquietante dell’odierna crisi della politica è l’inaudita pretesa dei media di costruire artificialmente la leadership, di colonizzare cioè i partiti impedendo una loro ripresa funzionale. Dopo il papa straniero e il podestà forestiero, ora i media puntano sul nemico interno descritto come un martire inerme umiliato dagli apparati prepotenti e perciò invocato come il santo castigatore di un partito che dà fastidio solo perché vuole rivitalizzare i suoi riti, precisare le regole condivise, tracciare un’identità definita senza più riconoscere l’eterodirezione di gruppi editoriali influenti.
I media sono una componente essenziale della crisi organica della democrazia per la loro sorda ostilità verso i partiti, le sole ancore di stabilizzazione di un paese ormai alla deriva. Ogni scalpitante amministratore che si scaglia contro il quartier generale del partito, per i giornali mostra ben impressi i segni di un uomo della provvidenza. I processi politici però sono più complessi delle narrazioni di gesta eroiche di capi che afferrano lo scettro senza alcuna considerazione del loro peso effettivo entro organizzazioni e processi politici gelatinosi.
Con un berlusconismo ormai interiorizzato, i media ostacolano così la correzione dei guasti sistemici emersi nel ventennio del bileaderismo asimmetrico che sul cadavere dei partiti celebrava la singolar contesa tra due capi indicati sulla scheda. I costi immensi del populismo costituzionale, come l’ha definito Sartori, sono ben tangibili dinanzi alla tragedia di un premier al crepuscolo che però non cede il potere e anzi trasporta il paese verso la catastrofe perché rivendica una fantomatica investitura diretta che lo rende intoccabile.
La richiesta principale emersa a Firenze, le primarie aperte di coalizione, ha una carica fortemente conservatrice. È tutta dentro il ciclo che ha violentato la democrazia rappresentativa dinanzi ai capricci di un capo. I media sono immersi nel pantano della crisi quando celebrano con trasporto modesti capi che recitano e offrono il microfono ai passanti dal volto noto per far vivere a chiunque l’ebbrezza di occupare per 5 minuti Palazzo Chigi. Un programma di governo di un paese vicino alla paralisi richiede però analisi rigorosa, coraggio di scelte difficili, capacità di far accogliere al paese smarrito delle decisioni ardue, insomma grandi classi dirigenti e non certo l’estemporanea trovata di un passante spacciata per democrazia deliberativa.
A Firenze, con la furia finto giovanilistica della rottamazione dei dinosauri, si sono celebrati i fasti inquietanti di un nuovo populismo travestito da illusionismo efficientista e sprezzante volontà di ricambio. I rottamatori piacciono però non già per le simpatie neoliberiste (da sempre minoritarie) ma per la ricetta antipolitica giocata con cinismo sulla polarità vecchio-nuovo, giovane-anziano, apparato-società civile. I rottamatori in realtà sono i conservatori di questo brutto presente populista che loro vorrebbero ripulito proprio dai partiti, dai sindacati che coltivano il conflitto sociale, dalla rappresentanza.
Dalla crisi di sistema non si esce in positivo senza una ritrovata autonomia culturale dei partiti profondamente rinnovati dai poteri economici e mediatici. La ricostruzione del partito si è rivelato un obiettivo più arduo da raggiungere che non sperimentare l’alternanza al governo. E però dopo aver conquistato Palazzo Chigi la coalizione eterogenea si sfaldava d’incanto. Le anarchiche primarie aperte di coalizione che note così struggenti ha ispirato sull’Arno allontanano da una cura incisiva al malessere della politica che non può prescindere, come sull’Unità di ieri ha riconosciuto anche Di Pietro, dalla fisiologica attribuzione della leadership al partito maggioritario al lavoro per favorire l’assestamento del sistema politico.
La proposta di Bersani parte proprio da questa consapevolezza dei guasti della democrazia del capo carismatico. L’annuncio di una conferenza sul partito può valere come occasione per la ricostruzione di un anello storico mancante e per offrire una manutenzione dell’organizzazione, per indicare un percorso collettivo per la selezione dei nuovi gruppi dirigenti di un partito della coesione in un tempo di incertezza.
Il più grande partito deve rivendicare con forza per il suo leader, e proprio in quanto leader del partito, la naturale guida della coalizione. O democrazia con partiti rinnovati o plebiscitarismo sfrenato attorno a leader appassiti. Tertium non datur.

l’Unità 2.11.11
I radicali chiudono, il congresso, in bilico la rottura col Pd


È stato il congresso dei continui attacchi all’alleato del Pd, ma anche quello della polemica interna di Marco Pannella che ha minacciato i suoi compagni di «andare alle Maldive per un lungo periodo di tempo». Alla maratona oratoria del decimo congresso dei Radicali italiani è successo di tutto, fatta eccezione per la scontata rielezione del segretario uscente Mario Staderini. Chi non è stato invece confermato come alleato è stato Pier Luigi Bersani: il filo che regge la difficile alleanza si è ulteriormente teso, anche se non si è ancora spezzato. Pannella si è esibito in un lungo elogio del leale rapporto nel '94 con Berlusconi, mentre quello di oggi con il Pd sarebbe di gran lunga peggiore. Anche Staderini, fin dal giorno dell’inaugurazione dell’assise aveva fatto un duro attacco ai democratici accusandoli di lavorare per l’espulsione della delegazione Radicale dai gruppi parlamentari per «biechi interessi elettorali». Ma alla fine la scelta di campo è rimasta in bilico. Il pianeta Radicale non sa se e come si ricandiderà alle prossime elezioni politiche. Per ora si limita a chiedere a tutti di collaborare con le riforme liberali da anni proposte dal Pr, amnistia in primo luogo. Neppure con Verdi e Socialisti, anche loro alle prese con una scommessa elettorale, c’è stato nessun passo avanti. Anzi, si è registrata una rottura con il Psi di Riccardo Nencini, fischiato dalla platea congressuale.


Repubblica 2.11.11
Israele e Palestina due popoli, due Patrie
di Abraham Yehoshua


Non c´è nell´identità ebraica concetto più problematico di «patria». «Vattene dalla tua terra, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò». È la prima frase che viene detta ad Abramo, il primo ebreo. Nel corso di tutta la storia ebraica, la frase è stata adottata da molti ebrei tanto come comandamento teologico, quanto come possibilità esistenziale e ideologica. Lo stesso Abramo non abbandonò solo la propria patria e la casa paterna, ma perfino la nuova Terra che gli era stata destinata, e discese verso l´Egitto. Il popolo d´Israele non si è formato nella propria patria e anche la Torah, il nucleo essenziale della Bibbia ebraica, non gli è stata consegnata in patria ma nel deserto, zona intermedia fra la diaspora e la patria cui erano diretti.
Sono pochi i popoli che hanno consolidato la propria identità fisica e spirituale in un luogo diverso dalla patria. Gli esiliati condotti in Babilonia dopo la distruzione del primo Santuario di Gerusalemme, cantavano con emozione: «Sui fiumi di Babilonia sedevamo e piangevamo ricordando Sion». Ma quando, dopo soli 40 anni il re di Persia li chiamò per tornare alla loro terra e riedificare il Santuario, solo una parte di loro accettò di tornare nella Terra d´Israele. Per i 600 anni del periodo del Secondo Santuario di Gerusalemme, circa la metà del popolo d´Israele aveva già iniziato a vagare nel mondo antico, contribuendo al progressivo indebolimento del legame fisico con la Terra d´Israele. L´identità nazionale e religiosa ebraica non rinunciò alla patria, ma riuscì a trasformarla da concreta in virtuale.
I romani non esiliarono gli ebrei dalla Terra d´Israele dopo la distruzione del Secondo Santuario di Gerusalemme. Qualsiasi storico di quel periodo può offrirne le prove. E nei 1500 anni seguiti allo sfaldamento dell´impero romano, non c´era alcun presidio di aguzzini sui confini della Terra d´Israele, ad impedire il ritorno degli ebrei alla loro terra. Il falso mito dell´esilio degli ebrei da parte dei romani, profondamente radicato nelle ragioni che ci fanno pretendere il diritto storico sulla Terra, non ha il sostegno neppure della secolare preghiera ebraica, in cui si dice: «A causa dei nostri peccati siamo esiliati dalla nostra terra» e non «siamo stati esiliati». E così, i circa due milioni di ebrei che, secondo le stime più accettate vivevano in tutta la terra d´Israele al momento della distruzione del Secondo Santuario di Gerusalemme, non vennero ammassati su navi romane e forzosamente esiliati (dove poi?), bensì lasciarono pian piano la loro patria (in particolare dopo la rivolta di Bar Kochbà nel 135) e andarono ad unirsi al gran numero di ebrei già sparsi nei Paesi del mondo antico.
Una dispersione che è viva e dinamica anche ai nostri giorni. Dall´Afghanistan all´Iran, da Bukhara all´Uzbekistan, dall´Ucraina alla Romania, alla Turchia, all´Irak, allo Yemen, al Nordafrica e a tutto il bacino Mediterraneo, alla Russia in tutte le sue varianti etnico-regionali, all´Europa occidentale e orientale e in tutto il Nuovo Mondo, e anche le lontanissime Australia e Nuova Zelanda. Dagli inizi del XIX secolo (quando in Terra d´Israele risiedevano secondo fonti storiche solo 5000 ebrei su una popolazione ebraica globale stimata in 2,5 milioni) fino ad oggi, l´80% della popolazione ebraica ha cambiato la propria nazione di residenza. Il massimo dell´orrore può essere rappresentato dal fatto che perfino una gran parte delle vittime della Shoah non è stata eliminata nei luoghi dove risiedeva ma è stata trasportata all´annientamento con la forza, in una non-patria, in campi di sterminio alienati, privi di qualsiasi carattere nazionale.
La «patria virtuale» nella quale gli ebrei si sono specializzati , non è mai piaciuta agli altri popoli. Nelle composizioni filosofiche gordoniane sul rinnovato legame con il lavoro agricolo, nelle ideologie morali brenneriane sulla totale responsabilità verso la realtà, nelle utopie herzliane e nelle ammonizioni di Jabotinsky del genere «se non eliminerete la diaspora, la diaspora eliminerà voi» - i vari padri del sionismo tentarono di convincere gli ebrei agli inizi del XX secolo a restaurare il concetto di patria che tanto si era indebolito con il passare delle generazioni. Urgeva però trovare risposta a un´altra domanda: c´era un territorio libero per realizzare questo programma?
L´unico luogo nel quale sarebbe stato possibile convincere gli ebrei a rinunciare alla propria patria virtuale per identificarsi in una patria reale, fisica, era la Terra d´Israele. Ma la Terra d´Israele era già la patria degli abitanti che vi vivevano. Potevano gli ebrei mantenere con un comando a distanza un diritto storico sulla Terra d´Israele dopo centinaia di anni in cui ne erano stati assenti? Per questo l´unico diritto morale in virtù del quale il popolo ebraico ha potuto rendere la Terra d´Israele patria ebraica reale, gli è derivato dalle tragiche necessità di un popolo che altrimenti sarebbe stato condannato a morte. E così fu. La vecchia-nuova patria salvò di fatto dai campi di sterminio centinaia di migliaia di ebrei europei.
Quindi, dato che la patria non è solo territorio ma anche un elemento primario nella identità individuale e nazionale, la divisione della Terra d´Israele in due Stati non è solo l´unica soluzione politica, ma è anche un imperativo morale. E chi si impossessa di parti di territori palestinesi come fa quotidianamente lo Stato d´Israele al di là della Linea verde, deruba e ferisce la parte più delicata dell´identità dei suoi abitanti.
L´identità patriottica dei palestinesi è quasi opposta alla nostra, e anch´essa ha bisogno di revisione. Di fronte a un popolo che ha cambiato continuamente Paesi di residenza, il concetto di patria dei palestinesi si restringe talvolta al villaggio e alla casa. I palestinesi nei campi profughi a Gaza o in Cisgiordania sono rimasti a vivere a pochi chilometri di distanza dalle case e dai villaggi dai quali sono fuggiti o sono stati allontanati dalla guerra del 1948, e di fatto si trovano ancora nella patria palestinese. Nella loro percezione non sono stati solo esiliati dal villaggio o dalla casa, ma dalla patria stessa, e per questo da 64 anni abitano nelle condizioni umilianti e paralizzanti dei campi profughi. E il diritto al ritorno alla propria patria - una richiesta legittima - si è trasformato nel diritto a tornare nella propria casa dentro Israele - che è una richiesta impossibile e non indispensabile ai fini di una soluzione pacifica.
In giorni di sconforto politico, non vale forse la pena di cercare una nuova strada per la pace, rivedendo nelle due parti concetti antiquati?
(Traduzione di Cesare Pavoncello)

l’Unità 2.11.11
Il governo dello Stato ebraico decide l’accelerazione nella costruzione di 2mila abitazioni
Ramallah reagisce con durezza: «In questo modo si distrugge ogni possibilità di negoziato»
Israele punisce l’Anp per il voto dell’Unesco Colonie e niente fondi
Duemila nuove abitazioni a Gerusalemme Est e negli insediamenti in Cisgiordania. Blocco temporaneo del trasferimento di fondi all'Autorità nazionale palestinese. Israele reagisce duramente al voto dell’Unesco
di Umberto De Giovannangeli


La «rappresaglia» è iniziata. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di accelerare la costruzione di insediamenti in varie parti della Cisgiordania. Non solo. Israele fermerà temporaneamente il trasferimento di fondi all'Autorità nazionale palestinese dopo l'adesione all'Unesco. La decisione giunge al termine di una riunione straordinaria del Gabinetto ministeriale convocata per rispondere alla «provocazione» di Ginevra. Nel comunicato diffuso dopo la riunione del governo si specifica che Netanyahu intende accelerare sulla costruzione di circa duemila alloggi in Cisgiordania e nell'area di Gerusalemme. n particolare, 1.650 alloggi verranno costruiti a Gerusalemme Est mentre il rimanente negli insediamenti di Maale Adunim e di Efrat, secondo quanto reso noto da fonti governative. Per ora nessuna decisione sull'ipotesi di annullamento dei benefici concessi ad alcuni vip palestinesi di passare i checkpoint con lo Stato ebraico. Durissima la reazione palestinese: l’accelerazione impressa da Israele alla costruzione di insediamenti «e una decisione che accelera la distruzione del processo di pace», dichiara Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L’Anp, aggiunge Abu Rudeinah, considera «disumana» la decisione del governo israeliano di congelare il trasferimento di fondi ai palestinesi.
CONTROMISURE
«Non resteremo con le braccia conserte», aveva avvertito l’altro ieri in Parlamento Netanyahu, che ieri ha convocato a Gerusalemme i sette ministri principali del governo per definire una linea di azione nei confronti sia dell'Unesco sia dell'Anp. Alla Knesset, Netanyahu aveva sostenuto che questo insieme di attività del presidente Abu Mazen rappresenta una infrazione degli accordi di Oslo, in quanto sono tutte ispirate da un carattere unilaterale. Prima della seduta ristretta del governo, il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman ha ribadito che è giunto il momento di troncare i rapporti con l'Anp. Il ministro delle Finanze, Yuval Steinitz, ha proposto di congelare i versamenti che Israele fa di norma sia all' Unesco che all'Anp. E se l'Autorità palestinese crollasse, o forse smantellata dallo stesso Abu Mazen? La risposta, in forma anonima, è giunta da un ministro citato dalla radio militare: Abu Mazen, a suo giudizio, sembra puntare verso uno Stato palestinese indipendente, ostile ad Israele e non vincolato da legami di reciprocità. «E se questa è la situazione, non ci rattristeremmo troppo per la sua caduta», ha concluso. Ma a quanto pare Netanyahu preferisce muoversi con cautela. Una delle idee sottopostegli è il rilancio di progetti edili ebraici a Gerusalemme est. Per quanto riguarda l'Unesco, Israele secondo la stampa potrebbe negare il permesso d'ingresso a future delegazioni.
VENTI DI GUERRA
Dal «fronte-Unesco» a quello di Gaza. Il governo israeliano ha autorizzato l’esercito a intraprendere i passi necessari per fermare il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza, tra cui un'operazione di terra. Lo ha fatto sapere un ufficiale delle forze armate dello Stato ebraico in seguito a un incontro del Gabinetto in cui i ministri hanno discusso del recente aumento di lanci di razzi da Gaza. Il governo, ha spiegato l’ufficiale, ha approvato operazioni militari che vanno da attacchi chirurgici contro militanti palestinesi fino a un'ampia offensiva di terra. I ministri non hanno ordinato un attacco di terra, ma hanno autorizzato i militari ad agire a seconda dell'intensità degli attacchi dei militanti palestinesi. L’ufficiale ha parlato a condizione di anonimato perché non era autorizzato a diffondere la notizia. Ieri mattina Israele aveva acconsentito a ritardare le operazioni militari contro la Striscia di Gaza e dato tempo all' Egitto fino alla mezzanotte di ieri per provare a raggiungere un accordo di cessate il fuoco informale fra le parti. L'obiettivo della mediazione egiziana sarebbe quello di convincere i militanti palestinesi a fermare i lanci di razzi verso il sud di Israele.

il Fatto 2.11.11
La Palestina all’Unesco: l’Ue si squaglia e l’Italia fa Pilato
di Giampiero Gramaglia


A SETTEMBRE, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la frittata era stata evitata solo perché, in extremis, s’era trovato un pateracchio diplomatico che evitasse un voto, in plenaria e nel Consiglio di Sicurezza, sull’adesione della Palestina all’Onu: alle urne, l’Unione europea avrebbe sciorinato tutte le proprie divisioni. Sette settimane dopo, all’Unesco, l’Ue è invece andata a sbattere il naso contro il voto con cui l’organizzazione dell’Onu per la cultura ha riconosciuto la Palestina come membro a parte intera. Fra i 27, c’è chi vota a favore – Francia e altri -, chi vota contro –Germania e altri- e chi si astiene – Italia e altri. La scelta pilatesca non è estemporanea: l’Italia “s’attiva” – il termine è della Farnesina - per giungere “a una posizione coesa e unita dell’Europa”, naturalmente non ci riesce e, in mancanza di una posizione europea, opta per non averne una neppure lei e si astiene. Intendiamoci: trovare una posizione europea unitaria non era affatto facile, anzi era probabilmente impossibile. Non perché non c’è riuscita quell’acqua cheta di Lady Ashton, che, da quando è ‘ministro degli Esteri’ europeo, invece di buttare giù i ponti fa macerie di quel che c’era di politica estera comune, ma perché le differenze di posizione dei 27 verso Israele sono datate e profonde. L’Italia riconosce i progressi fatti dall’autorità palestinese del premier Salam Fayyad, ma ritiene che non fosse il momento di porre la candidatura all’Unesco, come non lo era per quella all’Onu, “in una fase in cui si sta cercando di creare le condizioni per la ripresa del negoziato tra israeliani e palestinesi”. Ma, con la scusa di facilitare quelle trattative, Israele cerca di tenere tutto fermo, tranne i suoi insediamenti, che non s’arrestano mai.

il Fatto 2.11.11
L’eroe di Treblinka che tifa per i palestinesi
“Senza un loro Stato sarà la catastrofe”
di Roberta Zunini


All'ultimo piano di una bella palazzina bianca, tardo Deco, su viale Ben Gurion, nel cuore di Tel Aviv, abita Samuel Willerberg, l'ultimo ebreo sopravvissuto alle persecuzioni naziste nel lager di Treblinka. È un eroe nazionale, avendo preso parte alla rivolta del ghetto di Varsavia e a quella del campo di sterminio polacco. “Purtroppo sono anche molto vecchio ormai”, dice sorridendo sul terrazzo dove la moglie Ada annaffia le piante. Nonostante l'età ha 88 anni Willenberg ha una memoria sorprendente: la sua mente è lucidissima, la sua parola ironicamente tagliente e il suo sguardo è preoccupato.
 “LA SITUAZIONE non è per nulla rosea, né internamente né per quanto riguarda il conflitto con i palestinesi, per non parlare dell'isolamento internazionale in cui siamo finiti dopo l'esplosione della primavera araba”. È questo voto a favore dell'ingresso della Palestina nell'Unesco (che ieri Israele ha punito bloccando il trasferimento dei fondi all'Autorità nazionale palestinese, ndr) che la preoccupa? “Non è che la logica conseguenza del cambiamento in atto negli equilibri internazionali e dell'inazione intransigente di Israele. Però le vorrei far vedere si alza di scatto e con passo deciso si avvia verso il corridoio quindi entra in una grande stanza piena delle sue sculture – le mappe su cui ho lavorato quando arrivai in Israele dopo essere scampato al genocidio”. Willenberg nacque in Polonia nel 1923, figlio di un insegnante ebreo polacco e di una madre molto devota. “Ma non sono credente: dopo l'Olocausto non ci credo più e non riesco a tornare indietro, a quando ero un giovane fedele praticante che frequentava la sinagoga. Comunque ora parliamo della spartizione di Israele e dei Territori”.
 Stendendo la mappa inizia a tracciare con un dito una ipotetica dorsale, al confine tra l'attuale Israele e la Cisgiordania dove secondo lui ci sarebbe stato modo di modificare i confini. “Ho lavorato per tanti anni presso la municipalità e lo Stato israeliano come addetto allo studio delle mappature e non sono d'accordo su come è stato suddiviso il territorio. Avremmo dovuto creare una continuità diversa tra le zone a prevalenza araba, ora ci sarebbero molti meno problemi. Perché, anche se nessuno lo grida, i coloni israeliani e i palestinesi di nazionalità israeliana che vivono a Jaffa, Nazareth, Haifa, (città israeliane a maggioranza araba palestinese, ndr) sono sempre più ai ferri corti: pensi ai coloni estremisti religiosi ebrei che hanno distrutto tombe islamiche e cattoliche nel cimitero di Jaffa”.
 Mentre i razzi degli estremisti islamici di Gaza cominciavano a piovere attorno alla capitale amministrativa israeliana, difesa da un potente scudo satellitare. “La situazione si complica, oltre all'imminente voto del Consiglio di Sicurezza Onu che scatenerà il putiferio visto il veto già annunciato di Obama, bisogna vedere se la fratellanza musulmana vincerà le elezioni in Egitto”.
 Insomma questo mese sarà cruciale per il Medio Oriente? “Sì, lo sarà, sul fronte diplomatico e arabo, non certo da parte del governo Netanyahu a cui non interessa uscire da questo stallo. È ovvio che i palestinesi cerchino di ottenere ciò che vogliono. Se nessuno risponde fanno bene a chiederlo per via diplomatica.. Siamo noi che non agiamo per biechi scopi elettorali. E non è solo colpa di Netanyahu – che ieri ha deciso di accelerare la costruzione di nuove colonie a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, ndr ma anche della coalizione al governo, fondata sull'ortodossia religiosa più esasperata. Ma non c'è nulla da fare, per sbloccare la situazione, bisogna dare ai palestinesi un Stato indipendente e finirla con l'espansione delle colonie”.

l’Unità 2.11.11
«La nostra memoria non vale meno di altre»
Scrittori, archeologi, accademici e attivisti palestinesi spiegano a l’Unità cosa significa il riconoscimento all’Unesco. «Ora anche la nostra cultura
e identità nazionale fanno parte a pieno titolo del Patrimonio dell’umanità»
di U.D.G.


In una terra che si nutre di simboli, l’ingresso della Palestina nell’Unesco acquista una valenza che va oltre la sfera della politica. «Quel voto è il riconoscimento di una identità culturale che nei decenni di occupazione abbiamo curato come un figlio, sapendo che quell’identità è parte fondamentale della lotta per l’autodeterminazione», dice a l’Unità Hanan Ashrawi i, portavoce palestinese ai negoziati di Washington, più volte ministra, la prima donna portavoce della Lega Araba. «Quel voto aggiunge Ashrawi è un trionfo dello spirito umano di fronte alle intimidazioni». L’orgoglio nazionale. È il filo rosso che unisce le considerazioni di politici e intellettuali palestinesi il giorno dopo il riconoscimento della Palestina da parte dell’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura.
Orgoglio e identità. «Sono sempre stato convinto che la pace non è solo una questione di territori da restituire ma è anche riconoscimento dell’identità nazionale dell’altro da sé. Il popolo palestinese ha una storia, una cultura, e luoghi che l’identificano. L’Unesco lo ha riconosciuto, e questo è un fatto di straordinaria significanza», rimarca Sari Nusseibeh, presidente dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est, tra i più affermati intellettuali palestinesi. «In attesa di avere un posto nella “mappa” degli Stati indipendenti, abbiamo ottenuto un posto nella “mappa” culturale del mondo. Per noi è una grande conquista», gli fa eco Suad Amiry, scrittrice e architetta palestinese, che divide il suo tempo tra romanzi di successo («Sharon mia suocera», e «Murad, Murad», editi in Italia da Feltrinelli) e l’insegnamento di architettura all’Università cisgiordana di Birzeit). «Israele aggiunge Amiry sembra divorato da una bramosia di possesso assoluto che si rivolge non solo verso i territori palestinesi ma si estende a quei siti archeologici che invece sono patrimonio dell’umanità, e di questa umanità noi palestinesi siamo parte viva». «Ora però dobbiamo dimostrare di avere amore per quei siti archeologici che racchiudono una storia millenaria. Su amore e competenza non ho dubbi, ma abbiamo anche bisogno di fondi necessari per poter far vivere quei luoghi della memoria», rimarca Osama Hamdan, architetto e allievo di padre Michele Piccirillo, archeologo e biblista, scomparso nell’ottobre del 2008, a cui si devono alcune delle più importanti scoperte archeologiche in Giordania e Palestina. «Siamo impegnati nel recupero del nostro patrimonio archeologico, e il riconoscimento dell’Unesco rafforza e dà credito al nostro lavoro», rileva il professor Nazmi Jubeb, Co-Dodirettore del centro Riwaq di architettura all’Università di Birzeit.
L’Unesco e non solo. Dopo l'ingresso all'Unesco, i palestinesi potrebbero chiedere l'adesione della Palestina ad altre agenzie dell'Onu e organizzazioni internazionali. «Ci stiamo preparando e stiamo studiando gli aspetti legali per ogni organizzazione specializzata dell' Onu, le altre organizzazioni internazionali e gli organi di trattati internazionali», afferma da Ginevra Ibrahim Khraishi, ambasciatore della missione permamente della Palestina presso le Nazioni Unite a Ginevra. Nessuna azione è prevista nei prossimi giorni, la «questione principale è quello che succederà a New York», spiega. La candidatura della Palestina all'Onu è stata formalmente presentata dal presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e dovrebbe essere esaminata il prossimo 11 novembre dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ginevra è sede di numerose agenzie specializzate dell'Onu, come l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) o l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr). Il voto dell’Unesco, «rappresenta per noi uno dei pilastri nella nostra lotta per l’indipendenza, penso che siamo più che mai vicini a raggiungerla», sostiene Sabri Saidam, consigliere del presidente Abbas aggiungendo che il voto è un «grande messaggio» per chi, in seno al Consiglio di Sicurezza, si oppone alla richiesta palestinese di adesione all’Onu. Il messaggio è rivolto soprattutto agli Stati Uniti e al presidente Barack Obama: «Il “Nuovo Inizio” evocato da Obama annota l’ex ministro degli Esteri dell’Anp, Nabil Shaath passa per il riconoscimento dello Stato di Palestina».

Repubblica 2.11.11
Palestina
Prove tecniche di Stato

A Ramallah si festeggia per l´ingresso nell´Unesco e si lavora alla costruzione dello Stato. Mentre in Israele si protesta. Ma c´è chi va controcorrente
di Fabio Scuto


"Siamo una nazione da tempo, qualcuno deve solo capirlo" Il giorno dopo la vittoria all´Unesco a Ramallah, capitale "de facto", si respira orgoglio. Cantieri ovunque, lavori nel palazzo presidenziale, hotel di lusso, centri commerciali E se la battaglia all´Onu è ancora tutta da giocare, qui c´è già un Paese in costruzione
Il tasso di violenza è crollato e la disoccupazione è scesa dal 25 al 15 per cento
Su un maxischermo su un lato di piazza Manara scorrono i titoli della Borsa di Nablus
L´Anp ha investito una gran quantità di denaro per ristrutturare scuole e aprirne di nuove

«Abbiamo una patria che è fatta solo di parole», scriveva Mahmoud Darwish, il grande poeta palestinese scomparso un paio di anni fa. Oggi forse quelle parole amare, tristi e senza una speranza nel futuro se non l´ostinazione estrema, non sarebbero più scritte. Fra i marosi della diplomazia internazionale, passo dopo passo, sta prendendo lentamente forma la Palestina, ormai più che un cantiere politico o una speranza appesa a un angolo del cuore per quattro milioni di palestinesi. Prima la richiesta all´Onu di Abu Mazen per il riconoscimento dello Stato lo scorso 23 settembre, su cui a fine mese si pronuncerà il Consiglio di Sicurezza dell´Onu.
Poi lunedì la battaglia vinta all´Unesco che ha votato a stragrande maggioranza l´ingresso della Palestina come Stato membro, ora l´annuncio che entro qualche settimana ci sarà richiesta di adesione ad altre 16 agenzie delle Nazioni Unite, prima fra tutte l´Oms, dove i palestinesi vorrebbero sedere a pieno diritto.
Certo agli americani e agli israeliani "la scorciatoia dell´Onu" non è piaciuta e vi si sono opposti con ogni mezzo. Ieri sera il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato dure ritorsioni contro l´Anp come il blocco del trasferimento delle tasse pagate per le merci destinate ai palestinesi (60 milioni di dollari al mese) e l´intensificazione nella costruzione di insediamenti ebraici nei Territori occupati con 2000 nuove case sui terreni oggetto della (ormai ex) trattativa di pace sostenuta da Stati Uniti e Europa. I palestinesi erano coscienti che lo "smacco dell´Unesco" non sarebbe rimasto senza risposta ma sembrano decisi ad andare avanti, la strada del riconoscimento all´Onu come Stato è considerata quella giusta. «Forse non siamo ancora davvero uno Stato, ma possiamo dire che i lavori sono in corso», dice convinto Salah Khalil, il libraio che sta nel centro di Ramallah , «potremmo chiamarle prove tecniche per uno Stato, basta guardarsi attorno per vedere come in questi ultimi cinque anni la situazione sia completamente cambiata».
L´atmosfera ieri nella Muqata, il palazzo presidenziale che era la sede del governatorato britannico ai tempi della Palestina mandataria, era colma d´orgoglio «Gli israeliani dovevano essere i primi a congratularsi con noi, invece…», dice Saeb Erekat, il capo dei negoziatori palestinesi, mentre infila in una cartella i telegrammi di complimenti arrivati a Ramallah dai quattro angoli del mondo.
«Quella all´Unesco è stata la prova del riconoscimento internazionale del diritto del nostro popolo a uno Stato indipendente», osserva nel suo ufficio al secondo piano Nabil Shaath, ex premier e ex ministro degli Esteri, ora consigliere del presidente Abu Mazen. Poi si alza e chiude la finestra per allontanare il fragore dei caterpillar che lavorano sulla collina davanti alla Muqata perché la capitale de facto della Palestina è un cantiere incessante, una frenesia edilizia sta completamente trasformando la skyline della città. Anche perché Ramallah è parte di quel 40 per cento della Cisgiordania dove i palestinesi possono costruire senza bisogno dei permessi israeliani. Spuntano grattacieli avveniristici in vetro e cemento destinati alle Banche arabe che hanno aperto qui sedi di "primo livello", magazzini, centri commerciali e centinaia di nuovi palazzi destinati ad abitazioni. Fervono lavori anche nella Muqata che ha perso quell´aria di fortino sotto assedio e sta per diventare un vero e proprio palazzo presidenziale con giardini e fontane. Il complesso è stato ampliato e ospiterà presto sette ministeri e l´ufficio del primo ministro. Già completato invece il grattacielo per Banca centrale palestinese. Nuove strade, una circonvallazione per aggirare il centro sempre assediato dalle auto. Guardando i titoli della Borsa di Nablus che scorrono sul maxi schermo su un lato di Piazza Manara si direbbe che la Borsa palestinese ha più successo di quelle in altre parti del mondo arabo. Ramallah sta assumendo sempre di più il ruolo destinato a Gerusalemme Est nei piani e nel cuore dei leader palestinesi. Per ora è la capitale futura della Palestina.
Questo boom edilizio e economico è uno dei segni più evidenti della crescita economica della Cisgiordania che è oltre l´8 per cento, la disoccupazione è scesa cento, grazie alla generosità dei Paesi donatori ma anche alla stabilità di questi ultimi cinque anni. Il tasso di violenza è crollato e le autorità israeliane hanno aumentato le tipologie e le quantità di merci che è possibile importare, ma le decine di check point di "sicurezza" sono ancora l´ostacolo maggiore a un vero sviluppo economico. Ma la questione scottante resta: l´Anp è in grado di gestire la transizione verso uno Stato reale?
Molto è stato detto e scritto sulla crescita economica, meno sulla effettiva capacità di governare. Prendiamo i cambiamenti nel sistema giudiziario. A differenza di quando c´era Yasser Arafat, la polizia palestinese non può più effettuare fermi arbitrari, detenere una persona senza portarla davanti a un giudice che ne convalidi l´arresto. E il numero dei giudici - grazie a un programma sostenuto dall´Unione Europea - è in aumento. I sondaggi di opinione indicano che il senso di sicurezza nelle grandi città è cresciuto e il miglioramento è sensibile anche nelle strade al visitatore distratto. Si esprime nella forte diminuzione della criminalità e nelle chiamate dei cittadini alla polizia palestinese. I civili armati, che erano una presenza regolare quasi a ogni angolo di strada, sono per la maggior parte scomparsi, alcuni arrestati dall´esercito israeliano, altri dalla sicurezza palestinese.
L´Onu, la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno annunciato all´inizio di quest´anno che l´Anp è in grado di gestire uno Stato, con strutture moderne e dinamiche. Certo tutte queste istituzioni hanno esaminato solo la Cisgiordania, dove l´Autorità nazionale palestinese mantiene uno stretto controllo grazie ai 45mila membri delle sue varie forze di sicurezza. Diversa la situazione a Gaza, dove Hamas controlla tutto dal 2007 e dove proliferano gruppi e gruppetti estremisti sempre ben armati. Anche a un livello superficiale l´Anp non sembra in grado di governare la Striscia, né Hamas è disposto a cedere i suoi poteri e rinunciare alle sue forze di sicurezza. Il destino di Gaza è una delle grandi incognite.
Lo sforzo principale del premier dell´Anp Salam Fayyad - ex dirigente della Banca Mondiale - si è concentrato sulla Cisgiordania, con infrastrutture e sanità al primo posto. L´Anp, il cui bilancio di quest´anno è di quattro miliardi di dollari (di cui uno di aiuti esteri), ha investito una grande quantità di denaro per ristrutturare scuole e aprirne di nuove, oltre a pavimentare di tutte le città. Ramallah oggi può vantare un centro di cardiologia di primo livello, un ospedale pediatrico e una banca del sangue, che prima non esisteva. C´è anche la Palestine Football Association, ospitata in un palazzetto moderno non distante dal Parlamento che riunisce le 12 squadre che partecipano alla Premier League della Palestina. Il suo presidente? Un ex guerrigliero che è stato anche capo dei servizi segreti palestinesi ma che ora si è convertito alla "non violenza". «Abbiamo una terra che è nostra e un presidente», mi spiega convinto il gestore dello "Stars&Bucks Café" che si affaccia su Piazza Manara, «istituzioni, strutture, scuole, università, una nazionale di calcio, il nostro inno nazionale. Uno Stato lo siamo già da tempo, solo qualcuno non l´ha ancora capito».

il Riformista 2.11.11
Ormai è guerra aperta tra il governo Usa e i vescovi d’America
di Dario Fabbri

qui
http://www.scribd.com/doc/71262986

l’Unità 2.11.11
Il dono della morte: la vita
Un’inchiesta in prima persona su un tema «scomodo» come il morire Nel suo nuovo libro Concita De Gregorio ci regala un vibrante catalogo di esperienze, amicizie, incontri, letture: un intreccio che è un inno al vivere
di Stefania Scateni


Siccome si vive, si cresce, si invecchia e si muore: la morte è parte stessa della vita. Osservazione di una inaudita semplicità, e proprio per questo inaccettabile per gli umani. Le cose più evidenti sono quelle più difficili da vedere... Per dirla in altri termini, «Sono sempre gli altri che muoiono», come fece beffardamente scrivere sulla propria tomba il geniale Marcel Duchamp.
Ce ne raccontiamo tante di «favole» quando si tratta di guardare ne gli occhi la morte. La «dimentichiamo» e la «nascondiamo» a noi stessi e ai nostri figli. Le virgolette di cui sopra sono d’obbligo, perché mai come in questa contemporaneità la morte è esibita, interpretata e agita dai media. La fiction della morte viene di pari passo alla fiction dei sentimenti e del pensiero: qualsiasi schermo è il filtro magico che ci permette di interpretare i nostri sentimenti, la nostra vita e la nostra scomparsa come se non ci appartenessero. Il tabù della morte si alza come un muro invalicabile quando ci lasciano a morire soli, lontano dalla vista dei viventi. Quando la morte viene spersonalizzata, esiliata e rimossa. E viene recisa con violenza dal flusso della vita. Non c’è l’una senza l’altra. E quindi non ci appartiene più neanche il corpo, costretto in una astratta e anoressica idealità, né la vecchiaia, inammissibile, oscena, vergognosa.
È la vita, con il suo scorrere naturale, a essere sconveniente.
«La morte è qui per amare la vita», scrive Concita De Gregorio in Così è la vita. Imparare a dirsi addio, catalogo di esperienze, amicizie, incontri e letture sul tema del morire. E quindi del vivere. Un’«inchiesta» calda e appassionata, non a caso scritta in prima persona, su tutto quello che per fortuna si muove da anni, almeno un decennio, per rimuovere il tabù della morte. A partire dai numerosi libri che parlano ai piccoli del morire, per passare ai film, alla letteratura, ai ritratti di persone (dalla figura della psicoanalista e pedagogista Dolto, alla storia di Alberto, che si occupa di accompagnare le persone alla fine), all’impegno di gruppi di persone e di singoli. A cucire questo denso e appassionato quilt, le esperienze personali dell’autrice, i suoi incontri con la morte. «Le cose migliori che mi sono successe negli ultimi tre anni sono state a un funerale. Incontri, viaggi, emozioni, sorprese, scoperte e allegrie, riso nel pianto e luce nel lutto. Ho ritrovato amici e amori, ho sentito cantare bambini muti e ragazzi sordi suonare il violoncello, ho scoperto semi di albero preziosi come l’oro. Ho visto gente fidanzarsi e bambini parlare come filosofi»... E va a finire che a forza di parlare di morte, è la vita ad acquistare valore. In fondo, il libro di Concita De Gregorio è un inno alla vita, e un invito a mettere in pratica le cose per cui vale la pena vivere. E non si può fare a meno di pensare a quello che ha detto sapendo di avere ormai finito il suo tempo in questo mondo, James Hillman «Quando la morte è così vicina, la vita cresce, si esalta»
LE RISPOSTE DEI GRANDI
Concita De Gregorio entra nel tema dalla porta principale, i bambini. Perché i bambini non danno nulla per scontato e sono esigenti in merito di chiarezza e verità. Non sottovalutiamoli, chiunque abbia avuto a che fare con loro sa che sono capaci di formulare domande che sconvolgerebbero filosofi navigati e professori di teologia. («Ma Dio esiste di proposito?», ha chiesto tempo fa il piccolo Alessio, 5 anni, alla mamma, un’amica di chi scrive). I bambini che esiste la morte lo sanno benissimo. A dispetto dei molti tentativi dei «grandi» per edulcorarla, ci sono infinite situazioni reali della quotidianità nelle quali i bambini si trovano a doverci fare i conti: possono incontrarla nel pesciolino rosso che una mattina lo trovi galleggiare a pancia in su nell’acquario o nella scomparsa di una persona cara. E a parlare con loro della morte ci sono le fiabe, i cartoni, i videogiochi e i libri scritti per loro. In Così è la vita se ne conoscono tanti di bambini, ce n’è persino un’orchestra intera, e un coro, quello delle mani bianche, bambini sordomuti che hanno cantato e suonato in un teatro di Roma riempiendo di musica il vuoto lasciato da un caro amico.
«A vacanza conclusa dal treno vedere / chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna/ la loro vacanza non è ancora finita: / sarà così sarà così lasciare la vita?», ha scritto Vivian Lamarque. In Così è la vita la risposta alla domanda che la poetessa si sussurra, è affidata a un ragazzo di nove anni, Angelo. È il racconto che chiude il libro. Leggetelo.

Repubblica 2.11.11
Concita De Gregorio. Happy End
Quel libro che parla della morte senza tabù


Una polemica diretta contro la società di oggi che cancella la vecchiaia e il passato per concentrarsi esclusivamente sul presente
Nelle storie raccontate da Concita De Gregorio il momento della fine diventa fondamentale per comprendere e apprezzare il valore della vita
Nessun impedimento psicologico impedisce di affrontare questo argomento con i bambini
Non c´è il confine tra piacere e dolore tra lutto e allegria ma solo quello tra autentico e fasullo

Per riuscire a censurare la morte – nasconderla a noi stessi, agli altri, a una società intera – è necessario, prima, censurare la vita. Levando, dalla vita, le tracce della fragilità, della malattia e della vecchiezza: le tracce del tempo. Ma questa sorta di sterilizzazione della vita – questo prosciugarne umori, lacrime, cicatrici, rughe, malattie, dolore – la dissecca, la immiserisce. E finisce per toglierci, a conti fatti, molto di più di quanto la morte ci leva.
Questo, in estrema sintesi, è il succo del nuovo libro di Concita De Gregorio, che si chiama Così è la vita (esce per Einaudi Stile libero). È un libro breve e potente, ma soprattutto è un libro contagioso. Perché la sua forma aperta (un elenco disordinato, febbrile, intenso di funerali, di morti, di libri e di film sulla morte) è così coinvolgente da costringere il lettore (almeno, a me è accaduto) a riaprire i suoi cassetti e a rifare i suoi bilanci, in tema di morte e di morti. A rivedere volti e case, a ricordare cerimonie e gruppi umani raccolti a salutare qualcuno, a levare i sigilli a quell´urna invisibile nella quale – ha ragione Concita – la morte è stata rinchiusa a costo di rinchiudere, e dimenticare, e perdere, anche le tante vite che la morte racconta.
Perché la morte racconta. Non solo il dolore. Non solo la fine. Racconta la vita delle persone morte: l´amore dato e ricevuto, le tracce forti e inconfondibili lasciate da ciascun essere umano, le parole spese, l´ordine seminato perché attecchisse. Come nel capitolo dedicato a Elvira Sellerio, la cui forte personalità sopravvive anche nei dettagli, tanto da impedire al figlio, mesi dopo la sua scomparsa, di sovvertire le abitudini domestiche in materia di saponette: così la madre faceva, così andrebbe per sempre fatto...
Donne e bambini sono, nel libro, la materia umana dominante, quella più prossima al mistero della fine, quella meno refrattaria. E se per le donne questa prossimità è conclamata, dimostrata da secoli di assistenza, cure, disponibilità al pianto, al lutto, a lasciarsi attraversare dal dolore fino a incarnarlo (e fino a incarnare la morte stessa, che in quasi tutte le sue raffigurazioni è femmina), per i bambini l´accostamento può sembrare a suo modo "scandaloso", contrario al nostro istinto di protezione. Ma l´autrice, più volte madre, dedica il libro "ai nostri ragazzi" e nega, fortemente nega, che esista un impedimento psicologico o etico o pedagogico, in materia di bambini e di morte.
Anzi: nel libro alcune delle parole più profonde e libere in tema di morte sono pronunciate da bambini; alcuni dei libri che l´autrice segnala con maggiore slancio sono libri per l´infanzia dedicati alla morte; e la traboccante presenza di bambini e ragazzini, vivace per natura, allegra per natura, non solo non stona con un tema così esiziale, ma lo penetra e lo completa, come se tra l´inizio e la fine della vita esistesse un vincolo naturale. Simile a quello che ha sempre coinvolto nonni e nipoti, vecchi e bambini, almeno fino a quando i vecchi – con il loro corollario di rughe, lentezza, diversità – non erano ancora stati rimpiazzati da un esercito di falsi giovani.
La polemica – dura, precisa – contro la contraffazione del tempo, dunque contro la chirurgia estetica, l´ossessione della giovinezza, il terrore della malattia e dell´imperfezione, costituisce l´ossatura "politica" del libro. «La scomparsa della vecchiaia è un fatto etico e non estetico», scrive Concita. Che vede, e descrive benissimo, una società strutturalmente costretta a vivere schiacciata nel presente, comprimendo tutte le età della vita (che è lunghissima, di suo, e varia come sono varie le stagioni) in una sola età immobile, una giovinezza multistrato dagli effetti insieme tristi e ridicoli, mostruosi come le maschere del lifting, falsi come uno specchio deformante.
Dal racconto frastagliato, multiplo di Concita, i maschi non sono assenti e a volte – perfino – non sfigurano... Ma emerge, non so quanto coscientemente, una specie di simbiosi salva-vita tra donne e bambini, che va dalla accabadora di Michela Murgia, "ultima madre" che cerca di ristabilire pace nell´animo degli agonizzanti, al bimbo Bernardo che guarda di nascosto un libro con la figura della morte («mi piace molto») come se stesse violando un tabù; dalle badanti, ploranti, assistenti alla morte fino ai bambini malati terminali, cresciuti a video-game, che immaginano e descrivono il viaggio del dopo-vita come un´avventura vittoriosa.
Il confine tra il dolore e il piacere di vivere, tra il lutto e l´allegria in questo libro non va mai cercato, semplicemente perché non esiste. Lo preannuncia quasi sfrontatamente Concita nell´incipit: «Le cose migliori che mi sono successe negli ultimi tre anni sono state a un funerale». Programmaticamente, direi ideologicamente l´autrice cerca (e trova) tutt´altro discrimine, che è quello tra l´autentico e il fasullo, tra ciò che svela e ciò che cela. E dell´autentico la morte è regina, e la sua cacciata dall´immaginario, dal discorso pubblico, perfino dall´esperienza di molti, è la più insopportabile delle censure. Il passaggio più folgorante del libro, a questo proposito, riguarda anche la società mediatica, il lavoro di Concita e quello di chi scrive, e lo prende di petto: «In televisione la morte naturale non esiste più, esistono solo la morte violenta e il delitto». In questo, almeno in questo, la morte è vittima quanto lo siamo noi viventi: esiste solo quando fa spettacolo, dunque quando è in vendita. Altrimenti no, neppure la morte, in quanto semplice evento umano, può sperare di esistere.
PS. Noto, rileggendo quanto ho scritto, che la parola "morte" ricorre molte, forse troppe volte. Mi rendo conto di non avere cercato, in alcun caso, sinonimi o eufemismi per dirlo. Credo sia un effetto (magari dagli esiti un po´ compulsivi...) del libro di Concita: trasmette la coscienza che occultare la morte sia un tradimento e una viltà.

Repubblica 2.11.11
L’atlante dei volti perduti che Pasolini ci ha lasciato
Nell´intervento per il Premio Napoli, il filosofo francese confronta l´opera dell´autore di "Accattone" con quella dell´antropologo Ernesto De Martino
di Georges Didi-Huberman


Etnologo e cineasta sono accomunati dalla cultura visiva tra documentario e neorealismo

Lo stesso anno, il 1961, in cui Pasolini girava Accattone – seguito, qualche mese dopo, da quel furioso montaggio poetico-apocalittico che fu La Rabbia – il grande etnologo italiano Ernesto De Martino intraprendeva un lavoro colossale, rimasto incompiuto alla sua morte, riguardo alla questione delle "apocalissi culturali". Sarebbe forse molto utile analizzare con precisione le analogie, i parallelismi, le convergenze fra l´opera del poeta e quella dell´antropologo. Come Pasolini farà tutta la vita, così Ernesto De Martino non esita a diagnosticare delle "fini del mondo" in vari fenomeni storici: la decolonizzazione, la lotta rivoluzionaria, i problemi culturali – o addirittura psicopatologici – legati, per esempio, alla minaccia nucleare.
È dunque attraverso l´osservazione fenomenologica dei corpi e dei loro gesti che Ernesto De Martino – erede in questo senso dei lavori di Aby Warburg o di Marcel Mauss – trova la materia prima per la sua analisi: movimenti, affetti, tecniche corporee messe in atto nei saluti, nei giochi, nelle danze o nelle processioni religiose; tutto ciò costituiva il veicolo, sempre singolare, di un rapporto generale con il mondo. E tale rapporto – come in Pasolini – si formula sempre sotto forma di critica, ossia come consapevolezza di una crisi: quella "crisi della presenza" di cui Ernesto De Martino fa un concetto centrale dell´intero suo approccio etnologico delle "sopravvivenzepagane" nel cattolicesimo: pratiche magiche, trance e danze del tarantismo, lamenti rituali... La sua opera Furore simbolo valore potrebbe quasi essere il titolo – e anche il contenuto – di un poema di Pasolini. La sua ipotesi sui rapporti fra storia e "metastoria" potrebbe giustificare un´estetica uguale a quella del regista di Edipo re, legittimando una certa posizione epistemica nell´osservazione etnografica.
Pasolini incontrò Ernesto De Martino nel 1959, il 6 novembre precisamente: avevano ricevuto ex aequo il premio letterario della città di Crotone; il primo per il suo racconto Una vita violenta, il secondo per la sua inchiesta Sud e magia. Se la Mater dolorosa filmata dal cineasta per Il Vangelo secondo Matteo – ruolo interpretato da Susanna, madre di Pasolini – ha profonde affinità con la contadina italiana immortalata dall´etnologo, o meglio dal suo collaboratore Franco Pinna, in pieno pianto di Maria, non è solo perché i due artisti sono accomunati dalla stessa cultura visiva, attraverso il realismo fotografico degli anni Trenta e il neorealismo cinematografico degli anni Cinquanta, ma anche perché l´arte visiva di Pasolini era espressa sotto forma di documentario, mentre la scienza etnografica di De Martino era permeata di un certo lirismo visivo.
Ernesto De Martino, com´è noto, non si accontentava di prendere appunti e misure sul luogo delle inchieste: egli creava atlanti fotografici e archivi sonori per l´oggetto di studio principale, la "crisi della presenza", soprattutto con l´aiuto del suo assistente Diego Carpitella. Non c´è da meravigliarsi, quindi, se tale dimensione "audio-visiva" sia sfociata, per esempio, in quel capolavoro dell´arte documentaria rappresentato da Taranta, un film girato in Puglia nel 1961 da Gianfranco Mingozzi, su temi musicali scelti da Carpitella e commentario del poeta Salvatore Quasimodo, direttamente ispirato dallo studio sul tarantismo di Ernesto De Martino e pubblicato nella sua opera La Terra del rimorso. Allo stesso modo, ci colpisce la dimensione essenzialmente documentaria del lirismo pasoliniano: non soltanto perché i suoi film-documentario non rinunciano mai a una forma poetica – e penso soprattutto ai diversi Appunti, sull´India nel 1968 o sull´Africa nel 1969 – ma anche perché i film di fantasia, a cominciare da Accattone o da Mamma Roma, possono essere guardati localmente, nel dettaglio delle inquadrature, come osservazioni etnografiche sui corpi della popolazione. L´arte di Pasolini rivelerebbe, in questo senso, una tipologia estetica ossessionata, come ha detto Hal Foster, dal "ritorno del vero" e che, da Robert Smithson ad Allan Sekula, avrebbe fatto dell´artista un etnografo dell´alterità, sebbene il campo sia, in verità, ben più vasto di quello proposto dalla visione estremamente "americano-centrata" di Hal Foster. Ecco perché il cinema etnografico attraversa l´intera opera di Pasolini: c´è un po´ di Robert Flaherty fino in Uccellacci e uccellini così come c´è, in maniera indubbiamente più visibile, un po´ di Jean Rouch in Edipo re. Ogni volta, infatti, si nota l´approccio ai gesti umani, ai comportamenti fondamentali; ogni volta l´alterità è resa – nell´Oriente, per esempio – in tutta la sua crudezza, la sua prossimità e, di conseguenza, in tutto il suo valore inquietante.
La sfidasta nel dare forma all´inquietante prossimità di un tempo complesso che, mantenendosi a fior di gesto, di ogni gesto presente, non si riduce tuttavia mai alla sua attualità storica. È per questo che Pasolini ha concepito la questione delle popolazioni al di là di un´antropologia strutturale e si è diretto – attraverso De Martino, fra gli altri – verso qualcosa di più simile a un´antropologia delle sopravvivenze: «Bisognerebbe riportare il memoriale, egli dice, al di là delle lingue» in quanto semplici sistemi di segni disposti in sincronia, non fosse altro che per capire, ad esempio, il perché Ninetto sia, al tempo stesso, nostro contemporaneo e nostro "preellenico". Ecco perché bisogna creare degli "atlanti linguistici", scavare nella profondità dei dialetti, osservare questo "patrimonio comune dei segni" che attraversano la storia nel corpo dei nostri contemporanei sotto forma di "segni mimici" (...). È in questo senso che la miseria dei popoli è sfida del dolore: essa protesta oggi contro uno stato di fatto che le è imposto, ma lo fa attraverso gesti che appartengono innanzitutto alla sua cultura, una cultura della quale lo stato di fatto in questione ha pronunciato l´obsolescenza e la sparizione. Tale sarebbe, dunque, il gesto critico dell´antichità, il suo valore diagnostico e politico. Tale sarebbe la necessità rivoluzionaria dal punto di vista archeologico: «La miseria stratifica: come in una vecchia casa abbandonata, basta poggiare appena il piede per sollevare una nube di polvere soffocante».
La memoria in sé non è né buona né cattiva: né intrinsecamente rivoluzionaria né intrinsecamente passatista. Il punto sta nel suo valore d´uso: da un lato può soffocare i movimenti del desiderio, dall´altro può sovvertire l´apatia del presente, poiché è anche attraverso la loro memoria che i corpi resistono alla storia che li aliena. Ogni primo piano sul viso o sul gesto di un figurante diviene quindi una dichiarazione di sfida – libera ma "isolata", potente ma locale – del corpo dei popoli contro il loro essere esposti alla scomparsa.
(Traduzione di Valeria Cacace)

La Stampa TuttoScienze 2.11.11
La provocazione di un antropologo evoluzionista inglese ospite al Festival della Scienza di Genova
“Pochi amici possono bastare”
“Attenti alla sindrome Facebook: ecco la prova che il massimo è 150”
di Gabriele Beccaria


Robin Dunbar Antropologo RUOLO: E’ PROFESSORE DI ANTROPOLOGIA EVOLUZIONISTICA ALL’UNIVERSITÀ DI OXFORD IL LIBRO: «DI QUANTI AMICI ABBIAMO BISOGNO?» - RAFFAELLO CORTINA EDITORE

Pochi vantano un numero intitolato a se stessi. Robin Dunbar è uno dei privilegiati. Antropologo evoluzionista a Oxford, cerca di capire come siamo diventati umani e all’avventura che facciamo risalire a 200 mila anni fa attribuisce una cifra a effetto: 150.
Centocinquanta è il limite massimo di parenti, amici e conoscenti che possiamo gestire in un’intera esistenza (compresa la quantità, decisamente variabile, degli amori). Chi pensa, da bulimico di Facebook, di riuscire ad ammucchiarne molti di più sbaglia. Dal 151˚ l’elenco comprenderà solo pallide figure, fino a patetiche caricature di pseudo-amici che appaiono e scompaiono senza lasciare traccia.
Siamo esseri sociali prima di tutto, con una corteccia cerebrale ipertrofica che rivela le nostre inclinazioni primordiali di cacciatori-raccoglitori e non a caso dedichiamo una quantità spropositata dell’energia con cui funzioniamo il 20% - al benessere dei neuroni. Se siamo unici in natura, la prova è in questa anomalia di comunicatori iperattivi e pettegoli seriali.
Professore, lei è l’autore del saggio «Di quanti amici abbiamo bisogno?» e al Festival della Scienza di Genova, sabato scorso, l’ha raccontato: come è arrivato all’ormai famoso numero 150?
«Dalla relazione matematica ottenuta studiando le dimensioni dei gruppi sociali e quelle del cervello nei primati e poi estrapolando l’equazione per gli esseri umani. Abbiamo quindi cercato una serie di prove per testarla».
Qual è invece il numero massimo tra le scimmie antropomorfe?
«Cinquanta».
Molti fanatici dei social networks giurano di poterla smentire: sono convinti che i nostri limiti biologici vadano molto oltre. Che cosa risponde?
«Che al momento non c’è una sola prova che la tecnologia possa aumentare questa soglia. Più interessante è il fatto che ci può rivelare perché questi limiti esistono».
E qual è la risposta?
«Riguarda il tempo richiesto per costruire un rapporto, un rapporto intenso e solido: è vero che la tecnologia ci permette di velocizzare i contatti e di sapere più velocemente che cosa stanno facendo i nostri amici, realizzando una sorta di memoria esterna. Ma tutti i processi di conoscenza reciproca si fondano sulla capacità di comunicare, e di parlare in particolare, e non possono violare due elementi insuperabili».
Ce li spieghi.
«Nel cervello abbiamo un numero determinato di “scatole” e, una volta che le abbiamo riempite, non ce ne sono altre a disposizione. Il secondo aspetto è il tempo investito in un rapporto: tanto più a lungo non si incontra un amico e tanto più la qualità emozionale del rapporto tende a decadere. Facebook, quindi, come tutti i social networks, ha solo l’effetto di rallentare il processo di declino, esattamente come è accaduto in passato con il telefono e con i cellulari. Alla fine gli amici bisogna comunque vederli. Si deve stare insieme. Non basta scambiarsi emails».
Quali sono le differenze tra uomini e donne?
«Sono evidenti. Ciò che mantiene viva una relazione per le donne si basa sulla parola e sulla conversazione. Per gli uomini si fonda sul fare. Praticare sport, condividere degli hobby o più semplicemente bersi un drink insieme. Internet è perfettamente “disegnata” sulle femmine, ma non aiuta granché i maschi».
Internet è la Grande Sorella più che un Grande Fratello?
«Esattamente. E’ così».
Numeri a parte, 150 contro 50, che cosa rende diversi i rapporti tra noi umani rispetto a quelli tra le grandi scimmie?
«Mi piacerebbe conoscere la risposta. Il problema è che non sappiamo neanche con precisione che cosa sia un rapporto. Di sicuro è più un evento emozionale che intellettuale e anche per questo motivo non abbiamo un modo efficace per descriverlo con il linguaggio. Ecco perché - credo - ricorriamo ai poeti. Sono loro a rivelarci aspetti che sentiamo in noi, ma che non riusciamo a esprimere se non imperfettamente».
Qual è allora la sua idea di linguaggio? E’ uno strumento così imperfetto?
«Il linguaggio è fondamentale quando si devono creare gruppi super-grandi, oltre il livello 150: villaggi, città, nazioni, continenti... Ed è essenziale, com’è evidente, per trasmettere la cultura e cementare molti tipi di relazioni. Abbiamo osservato diverse prove su come sia alla base della loro qualità, anche nell’ambito dei 150. Questi, infatti, dipendono da ciò che si condivide».
E qui lei ha elaborato un altro numero, giusto?
«E’ il 6. Si tratta di 6 elementibase: tanto più sono condivisi e tanto più un rapporto è forte. La lingua, appunto, e poi le origini comuni, il background dei saperi, le idee politiche e quelle religiose, il “sense of humor”. E questi elementi si rafforzano in rapporto alla quantità di tempo trascorso insieme».
Che idea si è fatto della nostra intelligenza: è più sociale che intellettuale? O è vero che ce ne sono tanti tipi diversi, come sostiene Daniel Goleman?
«Non credo che si possa stabilire un ordine gerarchico tra tipi diversi di intelligenza: di sicuro ne esiste una antica, di tipo ecologico, che ci ha permesso di trovare il cibo e sopravvivere. Ma poi, come si vede nei primati, è emersa quella sociale e il cervello si è via via affinato come un computer. Una volta elaborate specifiche abilità cognitive, è stato sempre più facile trasferirle in altri domini e così il software mentale ha realizzato sempre nuove invenzioni, dalla scienza e dalla tecnologia fino ai sistemi politici, anche se in quest’ultimo caso la loro affidabilità non è affatto così ovvia!».

La Stampa TuttoScienze 2.11.11
Intervista
“L’Universo che non avete ancora visto”
Ecco le nuove sfide, dalla materia all’energia oscura E la matematica anticipa osservazioni ed esperimenti
di Felice Cimatti


Amedeo Balbi Astrofisico RUOLO: E’ RICERCATORE ALL'UNIVERSITÀ DI TOR VERGATA IL LIBRO: «IL BUIO OLTRE LE STELLE. L'ESPLORAZIONE DEI LATI OSCURI DELL'UNIVERSO» - CODICE EDIZIONI
Qual è la differenza fra il modo di pensare - e di vedere di uno scienziato e di chi non lo è? Una risposta banale è che lo scienziato cerca le cause dei fenomeni, mentre agli altri bastano i fenomeni, i fatti così come sono. Ma questa è, appunto, una risposta banale, perché non c'è bisogno di essere uno scienziato per cercare la causa di un evento. Una risposta diversa è quella che si trova nel saggio di Amedeo Balbi, astrofisico che insegna all'Università di Tor Vergata a Roma e che ha scritto «Il buio oltre le stelle. L'esplorazione dei lati oscuri dell'Universo».
Lo scienziato cerca quello che non si vede e problemi che non si sono ancora posti, problemi oscuri, appunto. Forse anche per questo molti politici non capiscono che cosa sia la scienza, perché non hanno abbastanza immaginazione. Balbi, invece, di immaginazione ne ha molta, oltre alla capacità di farci vedere quello che altrimenti sfugge al nostro sguardo.
I «lati oscuri dell'Universo» sono tanti, dall’energia oscura alla materia oscura. Se sono oscuri, come li si cerca e li studia?
«È vero, è una faccenda che merita un chiarimento. Quando parliamo di componenti oscure, in astronomia, ci riferiamo al fatto che non emettono luce visibile o, più in generale, radiazione elettromagnetica. Ma ciò non significa che non lascino tracce della loro presenza. Qualsiasi forma di materia o di energia esercita una forza gravitazionale e quindi anche le componenti oscure devono far sentire il proprio influsso sul resto dell'Universo».
Un esempio?
«Se il Sole fosse invisibile, si potrebbe dedurre la sua presenza e misurarne la massa studiando le orbite dei pianeti del Sistema solare. Allo stesso modo, grazie all'effetto che le componenti oscure hanno sulla materia che si riesce a osservare, gli astronomi sono riusciti a stanarle, e a capire qualcosa della loro natura».
Se l'Universo è davvero infinito dovrebbero esserci anche infinite stelle e, quindi, il buio non dovrebbe esserci. Eppure di notte il buio c'è. Come si spiega questo che sembra un paradosso?
«Bisogna avere le idee chiare sulla struttura complessiva del cosmo e per questo motivo la domanda ha confuso per secoli anche le menti più brillanti. Oggi sappiamo che la s p i e g a z i o n e corretta sta nel fatto che l'Universo ha avuto un'origine. Dato che la luce viaggia a velocità finita, quando guardiamo lontano nello spazio guardiamo anche indietro nel tempo. E, guardando lontano, e quindi molto indietro nel tempo, non troviamo più stelle o galassie semplicemente perché non si erano ancora formate. Questo spiega come mai il cielo notturno non brilla tutto come una stella. Nel buio del cielo è scritta la risposta a una delle più antiche curiosità dell'umanità, quella sull'origine di tutto».
Nel libro si racconta la storia dell' astronomia come un’impresa in cui sempre più spesso le scoperte sono anticipate da un ragionamento matematico. Com'è possibile che un calcolo, cioè un'operazione mentale, anticipi qualcosa che si trova là fuori nel mondo?
«Le due cose, osservazione e interpretazione matematica dei fenomeni, dovrebbero procedere di pari passo: ma spesso accade che l'intuizione matematica anticipi qualcosa che poi si rivela far parte della natura del mondo. Il caso più eclatante è quello della Relatività generale di Einstein che, pur partendo da solidi argomenti fisici, giungeva, sulla base di deduzioni geometricomatematiche, a conclusioni apparentemente contrarie a qualsiasi senso comune. Conclusioni che, però, si sono rivelate esatte. È quella che il fisico Eugene Wigner ha definito "l'irragionevole efficacia della matematica": perché mai una deduzione logica, interna al nostro cervello, dovrebbe farci scoprire fenomeni del mondo reale che non avevamo mai osservato prima? È una questione interessantissima, che è stata molto dibattuta, ma non ha mai trovato una risposta del tutto soddisfacente. Va detto anche che oggi la fisica teorica si trova di fronte a una crisi legata, per certi versi, anche a questa irragionevole efficacia delle matematica: la teoria delle stringhe è una splendida costruzione formale, talmente elegante che chiunque l'abbia studiata ritiene impossibile che non sia anche vera, almeno in parte. Ma dal punto di vista sperimentale non ci sono al momento speranze di metterla alla prova. Ci fidiamo della matematica o dell'esperimento? Sta diventando un problema».
Un altro enigma è ciò che gli studiosi chiamano «luce fossile»: che cos’è?
«È ciò che resta dell'enorme calore che pervadeva l'Universo nelle fasi successive al Big Bang. All'inizio la temperatura nel cosmo era altissima. Quando si sono formati i primi atomi di idrogeno, 380 mila anni dopo il Big Bang, lo spazio brillava come la superficie di una stella. Oggi, dopo miliardi di anni di espansione, l'Universo è diventato freddo e il bagliore iniziale si è trasformato in un debolissimo segnale radio, la “radiazione cosmica di fondo”. Usando strumenti abbastanza sensibili, la si può osservare, ricostruendo un'immagine primordiale. Una testimonianza fossile, appunto».
Può esistere qualcosa al di là dell'orizzonte cosmologico? E come si fa a studiare qualcosa oltre i limiti fisici di ciò che si può esplorare?
«Ci basiamo su un'estrapolazione di modelli matematici di cui conosciamo la validità solo in un ambito più ristretto, quello dell'Universo osservabile. Di queste estrapolazioni la cosmologia è costretta a farne molte: il fatto sorprendente, semmai, è che spesso si rivelano corrette. Ma, a rigore, che cosa ci sia fuori dell'orizzonte non possiamo e non potremo mai saperlo direttamente».
Che cos'è, invece, l'«epoca oscura» di cui parlano gli astronomi?
«Parlando del paradosso del cielo buio, dicevo che c'è stata un'epoca, nella storia dell'Universo, in cui non si erano ancora formate stelle e galassie: quel periodo è stato ribattezzato “epoca oscura”. E credo che l'uso di una terminologia con assonanze mitologiche sia stato intenzionale. È un periodo su cui è difficile avere informazioni dirette, ma, al contrario di ciò che si trova fuori dell'orizzonte, ci sono buone speranze di indagare meglio quell'era nel prossimo futuro grazie ai progressi delle tecniche di osservazione».
Tra le tracce che i cosmologi cercano ce ne sono anche di sonore: l’armonia delle sfere, di cui parlava Pitagora più di 2500 anni fa, era un’intuizione giusta?
«In un certo senso la corrispondenza tra fenomeni fisici e sonori si ritrova un po' ovunque in natura: è una conseguenza del fatto, scoperto da Fourier, che ogni funzione matematica si può scomporre in una serie di onde. Ma se tutto o quasi si può tradurre in un suono, non è detto che questi suoni siano armonici. In cosmologia, attraverso lo studio della radiazione di fondo, si è scoperto che l'Universo primordiale era attraversato da onde di pressione che si propagavano nella materia densa esattamente come le onde sonore si propagano nell' aria e che c'erano precise relazioni matematiche tra queste onde, simili a quelle tra le armoniche di uno strumento musicale. La tentazione di vederci una sorta di armonia pitagorica, o il grande “Om”, la vibrazione delle religioni orientali, è forte, ma non mi lascerei prendere la mano. In realtà quelle relazioni matematiche si traducono in un suono sgradevole.