giovedì 3 novembre 2011

«Ci sono dei momenti nei quali bisogna alzarsi in piedi, far sentire la propria voce e dire basta. Questo avviene quando sono messi in discussione i comuni fondamenti del vivere civile e si apre una situazione che può mettere in questione l’esistenza stessa di un Paese, come organismo autonomo e indipendente» Michele Ciliberto
l’Unità 3.11.11
Il segretario Pd lancia la manifestazione a San Giovanni: una festa di popolo per il cambiamento
Navi, pullman e treni E sul palco i leader dei socialisti francesi e tedeschi, Hollande e Gabriel
Bersani e la piazza del 5: «Ridiamo fiducia all’Italia»
Sabato 5 tutti in piazza San Giovanni a Roma per la manifestazione indetta dal Pd. Pier Luigi Bersani invita a partecipare come «segno di fiducia» nel cambiamento. Ci saranno i Moderati del centrosinistra, Follini no.
di Virginia Lori


ROMA. Essere in piazza San Giovanni sabato con lo spirito di una festa popolare: un appello a «tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro paese per avviare insieme una ricostruzione democratica, sociale ed economica dell’Italia». Dopo il vertice del Pd nella sede di via del Nazareno sulla crisi, il segretario Pier Luigi Bersani lancia la manifestazione del 5. Che vede come una «festa di popolo, aperta alle donne e agli uomini che desiderano manifestare il proprio impegno». Una festa con i concerti, tra gli altri, di Roberto Vecchioni, dei Marlene Kuntz, di Ziggy, apre, anche prima delle 14,30, la Med Free Orkestra.
L’intento, spiega Bersani, è quello di imprimere «fiducia» più che come manifestazione di partito l’invito è a «venire in nome del popolo italiano, con le bandiere italiane, per dire che con il cambiamento, l’Italia ce la fa». In un momento così difficile il segretario Pd anticipa che indicherà «alla nostra gente», alle centinaia di associazioni, la strada che va percorsa. E proprio la «presenza di massa» cercherà di rispondere «a un’esigenza di rassicurazione rispetto alla gravità della situazione che stiamo vivendo e che si annuncia difficile».
L’organizzazione della manifestazione va avanti da giorni, in mano a Lino Paganelli, macchina umana delle feste democratiche e dell’Unità, e Nico Stumpo, responsabile organizzativo del partito: già prenotati 14 treni, due navi dalla Sardegna, oltre 700 pullman.
Sarà un’occasione anche per restituire a Piazza San Giovanni «il posto che merita nella storia dell’Italia repubblicana, come luogo simbolo delle grandi manifestazioni democratiche», ha spiegato Bersani. «Abbiamo le risorse per riprendere il cammino che ci spetta, per riconquistare la dignità che meritiamo, per riprenderci il nostro futuro di donne e uomini, di persone libere, serie, capaci». Le donne, soprattutto, che, «come sta accadendo anche in altre aree del mondo, a cominciare dalla sponda Sud del Mediterraneo» con la loro mobilitazione sono «uno dei pilastri fondamentali del cambiamento della società. A loro si rivolge il Pd e così pure a tutti gli uomini che hanno a cuore il futuro nazionale».
Sul palco ci saranno anche il candidato alle presidenziali francesi François Hollande e il presidente della Spd tedesca Sigmar Gabriel, come testimoni di un cammino comune dei progressisti europei in vista delle elezioni che impegneranno diversi
paesi e «che potranno riportare l’Europa fuori dalle secche dove è stata condotta dai governi delle destre, contro i vari governi delle destre», ha proseguito Bersani.
Anche Massimo D’Alema invita alla partecipazione: «L’emergenza è la drammatica crisi del paese e il fatto che tante persone scendano in piazza per dare un segno di speranza e di fiducia nell’Italia è un messaggio positivo. Se ci barricassimo in casa sarebbe un messaggio di disperazione».
Non la pensa così, evidentemente, Marco Follini, che sabato non sarà in piazza. Il senatore Pd, ex segretario Udc, ha chiesto al Pd di ripensare la manifestazione di sabato a Roma: «Non siamo in campagna elettorale».
I MODERATI DEL CENTROSINISTRA
Resta isolata, perché i Moderati per il centrosinistra ci saranno, il corposo drappello piemontese guidato dal leader movimento, Giacomo Portas. Ben duemila moderati arriveranno a Roma in treno da Torino e con 19 pullman anche dalla Lombardia, dall’Emilia e dal Veneto, con mele e prodotti tipici del Piemonte da regalare ai romani per dimostrare gratitudine nei confronti della città che ospita la manifestazione. «Parteciperemo convintamente alla manifestazione spiega Portas contro un governo ormai imbarazzante e inadeguato sia dal punto di vista politico che economico».

l’Unità on line 3.11.11
Leader Pd: «In piazza per riunire
chi ha a cuore il futuro dell'Italia»

qui

l’Unità 3.11.11
Cambiare o crollare
di Michele Ciliberto


Ci sono dei momenti nei quali bisogna alzarsi in piedi, far sentire la propria voce e dire basta. Questo avviene quando sono messi in discussione i comuni fondamenti del vivere civile e si apre una situazione che può mettere in questione l’esistenza stessa di un Paese, come organismo autonomo e indipendente.
Senza alcun dubbio noi siamo arrivati a uno snodo di questo tipo: l’Italia oggi sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia, da cui il suo ruolo può uscire profondamente limitato e deformato, e non in bene.
Alcuni per cercare di spiegare la situazione nella quale ci troviamo evocano la crisi mondiale. Non c’è dubbio che essa abbia avuto una funzione molto forte, e non solo per quanto riguarda il nostro Paese. Ma sarebbe sbagliato, in tutti i sensi, non avere chiaro quanto e profondamente il berlusconismo abbia inciso nell’indebolire la costruzione interiore dell’Italia, rendendola più fragile ed esposta ai pericoli. E volutamente uso questo termine berlusconismo che comprende, e oltrepassa, la stessa figura di Berlusconi.
È una intera classe dirigente che sta cadendo nel modo più catastrofico in questi giorni; se anche si vuole utilizzare un termine così impegnativo per coloro che hanno guidato in questi anni l’Italia. Essi hanno introdotto il coltello della divisione, senza mai riuscire a porsi il problema di un governo dell’Italia che non si risolvesse nel dominio di una parte sugli altri, di un ceto sugli altri. Mai si sono diffuse come in questi ultimi anni le diseguaglianze; mai sono stati più separati i destini del Nord e del Sud; mai hanno assunto posizioni di responsabilità uomini e donne preoccupati solamente del loro “particulare” e chiusi in una logica di clientela, di fedeltà al capo di tipo feudale almeno fino a quando quest’ultimo è stato in grado di garantire loro onori e prebende.
Credo che la responsabilità più grave del berlusconismo consista precisamente nella perdita di una visione generale del Paese e del nostro destino in un mondo in profonda trasformazione: il successo del berlusconismo ha coinciso con l’affermazione di dinamiche corporative e individualistiche, attraverso cui si è potenziata ed è diventata una forza di governo nazionale perfino un partito come la Lega, che lavora coscientemente per la distruzione dell’unità e dell’autonomia dello Stato italiano.
Non si tratta di esprimere giudizi di tipo moralistico. Il berlusconismo è qualcosa che affonda le sue radici nelle vicende e nei mutamenti della destra europea, e più in generale, esso ci interroga sulle derive dispotiche della stessa democrazia, quando la politica perde peso e l’antipolitica diventa un senso comune diffuso quotidianamente.
Ma non è ora il momento dell’analisi: si tratta di alzarsi in piedi e di assumersi le proprie responsabilità. E oggi questo significa fare i conti con la realtà fino in fondo, senza infingimenti, avendo ben presente che questo non è un tempo di normale amministrazione, nel quale il ricorso a strumenti come governi tecnici o di transizione possa essere fatto a cuor leggero. Bisogna ritornare alle fonti della sovranità e chiedere a ogni italiano di assumersi la responsabilità di un giudizio; e ciò si può fare innanzitutto attraverso l’esercizio del voto. Come è necessario nei momenti di più grande travaglio occorre operare una svolta, una cesura se si vuole uscire dalla palude nella quale siamo precipitati, rimettendo in sintonia “politica” e “vita”. È necessario che oggi ciascuno si assuma le proprie responsabilità. Lo so bene: questa è una sfida per tutti oggi, nessuno escluso; ma è questa la strada maestra da percorrere senza inutili trasformismi, sempre ricorrenti nella nostra storia. Perfino il bipolarismo è diventato da noi una reincarnazione del trasformismo, anche se si fa finta di parlare di dinamiche bipolari. Ma come si sa, uno dei segni dei tempi di crisi è la perdita di peso delle parole.
È giusto dunque replicare con durezza a coloro che per ridurre le loro responsabilità citano la crisi mondiale, o addirittura, come ha fatto il presidente del Consiglio, arrivano a criticare l’euro, come l’asino che portava senza saperlo i sacramenti. Ma certo è un fatto che questa crisi deve costringerci a riflettere a fondo sull’Europa, sui rapporti fra comunità europea e Stati nazionali, sulle relazioni tra politica e finanza. E deve spingerci anche a riflettere sulle profondissime diseguaglianze che si stanno imponendo nelle società europee, individuandone le ragioni materiali per avviarsi su strade diverse. Ma anche per questo serve la politica, perché e gli avvenimenti di questi giorni lo stanno confermando a tutti, anche a quelli che non vogliono capire senza politica democratica non può esserci libertà.

Corriere della Sera 3.11.11
Napolitano vede Pd e Terzo polo. Sotto esame «un'altra prospettiva»
I dubbi del capo dello Stato sul decreto del governo, che alla fine rientra
di Marzio Breda


ROMA — Ancorare tutti alle responsabilità imposte dall'aggravarsi della crisi economica e dai continui raid della speculazione internazionale. Verificare la disponibilità a una «larga condivisione delle scelte» concrete e credibili che l'Europa si attende con urgenza dall'Italia. Saggiare la reale tenuta della maggioranza di governo, dopo le tensioni e i dissidi interni affiorati negli ultimi tempi: dallo scontro tra il premier e Tremonti alle spinte verso la diserzione dei cosiddetti «malpancisti» del Pdl. E nel contempo esplorare la consistenza parlamentare di quella «nuova prospettiva» invocata da un ampio arco di forze politiche e sociali.
Era questa la griglia di lavoro che ha guidato le consultazioni informali avviate ieri con ritmo serrato dal presidente della Repubblica al Quirinale. Una griglia in qualche modo anticipata dalla nota scritta di proprio pugno da Giorgio Napolitano l'altra sera, in cui si rivolgeva a entrambi gli schieramenti chiedendo loro di esprimersi chiaramente in nome di un'emergenza ormai al limite della sostenibilità.
Ciò che il capo dello Stato ha raccolto alla fine del primo sondaggio con le delegazioni del Terzo polo (Casini, Cesa, Bocchino e Rutelli), del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, e dello stato maggiore del Partito democratico (Bersani, Finocchiaro, Bindi, Franceschini, Enrico Letta), non gli consente di mettere a verbale le novità che forse si augurava. Siamo ancora al muro contro muro già certificato dalle cronache dei giorni scorsi. Cioè a una paralizzante, e per il momento insuperabile, guerra di posizione.
Da un lato ci sono le forze del centrodestra, che ripetono (anche se meno graniticamente) l'eterno mantra del «o Berlusconi o morte», cioè le urne.
Dall'altro ci sono le opposizioni, che si dichiarano disponibili ad assumersi la loro parte di «responsabilità», ma che insistono per un atto di «discontinuità». Ossia l'immediato cambio della guardia a Palazzo Chigi e il varo di un governo di emergenza nazionale, magari pure con dentro il Popolo della libertà, ma guidato da un tecnico che, per la sua personalità, goda di un elevato standing sul piano internazionale (un identikit che, anche se sul Colle nessuno ha fatto nomi, coincide con la gettonatissima candidatura di Mario Monti).
«Non ci prestiamo a furberie o a sacrifici inutili su misure decise in maniera unilaterale da Palazzo Chigi... Il problema ormai è la credibilità di Silvio Berlusconi, che rende inutile ogni misura». Questo hanno detto (in perfetta sinergia e a conferma di un forte asse) al capo dello Stato sia Casini che Bersani, ponendo la precondizione del fatidico passo indietro del Cavaliere.
Una pretesa sulla quale il capo dello Stato non può non riflettere. Infatti, un conto è l'ebbrezza affannata di chi percepisce come imminente la caduta del premier e in tale spirito si proclama disposto a tutto pur di vederla realizzata, un altro conto è la capacità di costruire una solida prospettiva di governo post berlusconiana.
Dunque il punto politico che il Quirinale dovrà fatalmente soppesare e sciogliere è: nell'ipotesi di una caduta dell'esecutivo, le opposizioni euforicamente unite di oggi sapranno domani approvare con la stessa coesione le misure imposte dalla crisi? Davvero i vari Di Pietro o Vendola o le altre anime inquiete del Pd (i cui voti pesano parecchio), già esplicitamente malmostosi verso «il governo tecnocratico che piace all'Europa», appoggeranno con coerenza un gabinetto di transizione che mettesse in cantiere il severo pacchetto di interventi che Bruxelles e la Banca centrale ci hanno intimato di prendere sin dallo scorso agosto?
Scenari futuribili, ma forse non troppo lontani, oramai. Intanto il presidente ha dovuto registrare l'assoluta indisponibilità delle opposizioni a sostenere in Parlamento provvedimenti decisi in modo unilaterale da Berlusconi. Non concederemo alcuna corsia preferenziale all'esecutivo, come abbiamo fatto per carità di patria quest'estate: questa la risposta secca di Casini e Bersani, che fa sfumare le speranze di larghe intese.
L'ultima verifica, stavolta mirata al governo, il capo dello Stato la farà stamane, quando riceverà sul Colle le delegazioni del Pdl e della Lega. Poi tirerà le somme e farà conoscere le conclusioni della sua azione di vigilanza e di pressing verso Palazzo Chigi sulla linea del rigore e della tempestività.
Un pressing che ieri si è riflesso nella seduta notturna del Consiglio dei ministri, dove il premier si riproponeva di approvare un decreto legge con le misure attese dall'Europa, così da presentarsi oggi al G20 di Cannes con i provvedimenti già in tasca. Un piano che Berlusconi ha dovuto riconsiderare in extremis, dopo lunghe e complesse trattative, per certi dubbi del capo dello Stato: dubbi sull'efficacia di un «pacchetto» concepito e scritto in chiave unilaterale, tale da rendere vani gli sforzi di Napolitano per un largo consenso.

Corriere della Sera 3.11.11
Le opposizioni sul Colle: esecutivo d'emergenza
«Berlusconi lasci». L'Idv: no a macelleria sociale
di Al. T.


ROMA — Un governo d'emergenza, senza Berlusconi, ma «anche con il Pdl», come spiega Massimo D'Alema. Arrivate sul Colle, per colloqui con il capo dello Stato, le opposizioni parlano la stessa lingua. Pd, Idv e Terzo Polo non sono disposti a dare una mano all'attuale governo e sono pronti invece ad appoggiare un esecutivo tecnico. La lingua comincia a diventare diversa, e a ingarbugliarsi, quando si passa dal piano astratto a quello concreto: quello di un governo tecnico che imponga i sacrifici chiesti dall'Europa. Non è un caso che Antonio Di Pietro ponga subito una pregiudiziale: «No a misure di macelleria sociale».
Durante il colloquio con Giorgio Napolitano, Bersani ha confermato la disponibilità del Pd «ad assumere la propria responsabilità in un governo di transizione e di emergenza». L'uscita di scena di Berlusconi, però, è indispensabile: «Altrimenti ogni sacrificio sarà inutile». Di certo, sia Pd che Idv sono indisponibili a sostenere qualunque misura proposta da Berlusconi, diversamente dal recente passato. La «scossa» chiesta da Bersani però può arrivare solo dai «malpancisti» del Pdl. Nell'attesa, il Pd prepara la manifestazione di sabato, criticata da Marco Follini. Anche per questo, arrivano nuove parole d'ordine, positive: «Siamo in piazza per dire che l'Italia ce la farà» dice Bersani. Di Pietro sarà al suo fianco, ma comincia ad avere dubbi sul governo d'emergenza: «No a misure di macelleria sociale: bisogna conciliare equità e sviluppo». Non a caso in serata, dice «no a un berluschino» e fa capire che la soluzione migliore sarebbero le elezioni. Opzione preferita da Nichi Vendola e non sgradita a molti nel Pd, che temono di doversi accollare misure drastiche e pagarne poi il fio alle elezioni.

Corriere della Sera 3.11.11
Le condizioni del Pd: nuove misure e nessun soccorso al centrodestra
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Un governo di responsabilità nazionale? Diciamo che lo darei al 20 per cento, se dovessi fare una scommessa». Terminato il colloquio con Giorgio Napolitano, il segretario del Partito democratico si lascia andare ai pronostici con un ristretto gruppo di compagni del Pd.
Pier Luigi Bersani ha dato tutta la sua disponibilità, formalmente e pubblicamente almeno, alla creazione di un esecutivo d'emergenza. E ha promesso al capo dello Stato di non pronunciare più la parola «elezioni». Il presidente era — ed è — preoccupato per la piega che potrebbe prendere la manifestazione del Pd di sabato prossimo. Non vorrebbe che si trasformasse in un'iniziativa in cui si inneggia al voto anticipato: su questo Bersani ha fornito le garanzie che poteva fornire.
La dirigenza del Pd, a san Giovanni, eviterà toni accesi e richieste di scioglimento della legislatura. Ma il leader del Partito democratico non è stato in grado di dare altre rassicurazioni a Napolitano. O, meglio, non ha voluto darle. Su questo è stato chiaro: nessun soccorso rosso al governo Berlusconi o a un altro governo del centrodestra, chiunque sia a presiederlo, Gianni Letta o Renato Schifani. E non solo: se il premier dovesse cadere, il Partito democratico potrebbe dare il via libera a un nuovo esecutivo solo nel caso in cui gli spazi di manovra rispetto alle misure economiche da prendere non siano rinchiusi nel recinto stretto della lettera di Berlusconi all'unione europea. Il Pd non potrebbe mai — e poi mai — sostenere un governo nato con l'obiettivo di mandare in porto la manovra delineata dall'attuale presidente del Consiglio.
Raccontano che Napolitano si aspettasse di più dal suo partito d'origine. Ma il clima nel Pd è quello che è, e la maggior parte dei vertici non è disposta a fare troppe concessioni, benché la strada del governo di larghe intese appaia in questo momento la più probabile. «Napolitano non può volere altro da noi», è stata l'affermazione secca con cui Rosy Bindi ha chiuso il ponte levatoio e ha bloccato ogni tentativo di condizionare le mosse future del Pd. A largo del Nazareno nessuno — o quasi — ritiene che sia opportuno sostenere una politica di lacrime e sangue. E per convincere Bersani a dire di sì a un governo di transizione ce n'è voluto.
Il segretario all'inizio, nonostante il pressing del Colle, continuava a fare resistenza passiva rispetto a questa ipotesi. E infatti il Partito democratico aveva già acquistato gli spazi elettorali in vista di un possibile scioglimento anticipato della legislatura. Del resto, Berlusconi aveva già fatto altrettanto, e a largo del Nazareno non volevano farsi trovare impreparati di fronte a ogni evenienza. Ma allora che cosa — o chi — ha fatto cambiare idea al segretario, spingendolo a prendere in considerazione sul serio l'idea di coinvolgere il suo partito nell'avventura governativa? Che cosa lo ha distolto da suo piano principale: elezioni subito, in alleanza con Antonio Di Pietro e Nichi Vendola?
Non è stato un qualcosa ma un chi a far mutare opinione al segretario. E la svolta è maturata in una riunione ristretta con tutti i big del partito che si è tenuta qualche giorno fa. In quella sede il segretario si è trovato solo a difendere l'ipotesi delle elezioni anticipate. Già, perché contro la sua posizione non si sono espressi solo i leader della minoranza interna, favorevolissimi a un governo di transizione e contrarissimi al voto: Walter Veltroni, Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni su questo punto sono uniti più che mai. Contro Bersani è sceso in campo uno dei maggiori sponsor della sua segreteria, cioè Massimo D'Alema. È stato il presidente del Copasir a costringere il leader del Pd a fare dietrofront: senza troppe diplomazie e infingimenti l'ex premier ha smontato pezzo per pezzo l'ipotesi bersaniana di elezioni anticipate e ha spiegato per quale motivo il Partito democratico deve puntare alla creazione di un governo di larghe coalizioni, presieduto sì da un tecnico come Mario Monti, ma appoggiato da una solida maggioranza in Parlamento, perché, come ha sottolineato D'Alema, «i governi sono sempre politici». E tanto più deve esserlo un esecutivo che nella mente dell'ex presidente del Consiglio dovrebbe arrivare fino al 2013.

il Riformista 3.11.11
Dopo Cav? Le soluzioni in campo
di Emanuele Macaluso

qui

il Fatto 3.11.11
Romano Prodi. Per un esecutivo non politico l’ostacolo dei numeri parlamentari
“B. è morto, Grecia pugnalata da Merkel e Sarkò”
di Giampiero Calapà


Romano Prodi suona le campane a morto del governo Berlusconi: “Questo esecutivo è finito, non sono previsti i tempi supplementari”. Utilizza una metafora calcistica per far più male all’uomo di Arcore che nel ’94 “scese in campo”. Proprio lui, l’unico capace di batterlo, due volte su due, alle elezioni politiche in questi diciassette anni. Le bastonate all’arci-nemico di sempre, Prodi, ieri comincia a darle di prima mattina, sul Sole 24 Ore fresco di stampa, con una lettera firmata insieme a Giuliano Amato e agli economisti Alberto Quadrio Curzio e Paolo Savona: “Il momento è drammatico ed esige l’adozione di provvedimenti immediati e quantitativamente adeguati a fronteggiare l’emergenza. Ogni ritardo può avere conseguenze irreversibili per l’intero Paese”.
Presidente Prodi, quali sono i provvedimenti che il governo dovrebbe avere la forza di prendere?
Non sarò certo io a suggerirli al governo, lo chieda a Berlusconi casomai, ma...
Ma c’è un problema?
Enorme. Questo governo non è all’altezza. Anzi, è morto e non ci sono tempi supplementari da giocare. La verità è che il governo Berlusconi non può fare assolutamente nulla.
Perché?
Intanto per l’irritazione e la sfiducia degli organismi internazionali. Sfiducia totale. Con questo scenario come può Berlusconi prendere quei provvedimenti gravi e urgenti che servirebbero al Paese subito?
Nella lettera al Sole avete scritto: “Nel giro di poche ore l’Italia deve risultare credibile tanto ai suoi partner istituzionali quanto al mercato”.
Servirebbe un messaggio di fatti, fino a oggi abbiamo sentito solo parole, parole e parole. Vuote.
Lei è uno dei protagonisti della stagione europeista che portò alla moneta unica. Gli interpreti attuali, Italia a parte, sono Merkel e Sarkozy...
Francia e Germania perseguono una politica incredibile. La questione greca poteva già essere sistemata, ma Berlino e Parigi dovevano pensare a compiacere i loro populismi interni, chiedendo poi alla Grecia misure durissime... Adesso Papandreou chiede il referendum sugli aiuti dell’Ue, ma cosa devono fare i greci? Suicidarsi?
Tornando all’Italia: la soluzione è il governo tecnico?
Solo se ampiamente sostenuto dai partiti per decreti legge urgenti. Senza il sostegno dei partiti sarebbe un disastro.
Mario Monti potrebbe essere il nome giusto?
Avevamo due personalità che potevano essere spese a livello internazionale. Una era Mario Draghi, che ora ha assunto un ruolo importantissimo alla Bce. Monti potrebbe essere, ma non lo si può mandare allo sbaraglio. Per fare il governo tecnico c’è l’ostacolo dei numeri in Parlamento.
Ammettiamo che l’ostacolo venga superato, cosa dovrebbe fare questo nuovo governo?
Le ho già detto che non sarò certo io a suggerire i provvedimenti giusti. Non ho nulla da insegnare a nessuno.
E se a chiedergli una mano fossero di nuovo i suoi vecchi amici del Pd?
Figuriamoci, quando uno è fuori è fuori. In questi giorni, anzi, ho già parlato anche troppo.
Appunto...
A Bologna si parla d’altro, mi creda.

il Fatto 3.11.11
Auto blu: Italia-Gran Bretagna 72mila a 200
di Chiara Paolin


II Formez, organismo preposto all’ammodernamento della macchina statale, anche per quest’anno ha fatto il suo dovere. Anzi, ha pensato pure a come evolvere la specie: signore e signori, è arrivata la Blue Car Application, una finestra capace di dialogare col vostro telefonino per monitorare in tempo reale la dura sorte delle auto blu italiane. Leggiamo sul sito: “AutoBlu è l'applicazione che mette a disposizione dei cittadino i dati relativi al parco auto della Pubblica amministrazione. I dati raccolti riguardano il parco auto della Pa e distinguono tra le seguenti tipologie: auto blu blu di rappresentanza (utilizzate dalle alte cariche dello Stato, delle magistrature e delle Autorità indipendenti o assegnate agli organi di governo di regioni e amministrazioni locali, e ai vertici istituzionali degli enti pubblici centrali e locali) ; auto blu utilizzate dalla dirigenza apicale; auto grigie a disposizione degli uffici (ad inclusione delle auto della polizia locale) ”.
ALTRO CHE tamagochi e SuperMario, il giochino dell’inverno sarà seguire la rottamazione del parco auto multicor, 72mila pezzi attualmente in servizio e teoricamente destinati a una drastica fine secondo le promesse di Renato Brunetta. Il questionario distribuito agli enti monitorati (tanti, ma non tutti: basti citare l’esercito) lo scorso luglio ha fornito una risposta chiara: crisi o non crisi, un’auto di servizio non si nega a nessuno. Perché 2mila sono quelle in uso a ministri, ministeri, sottosegretari (e a volte semplici segretarie), ben 10mila quelle dei dirigenti apicali (incluse Regioni, Provincie, Comuni) mentre quelle davvero operative sarebbero 60mila. Proprio su quest’ultima categoria s’è abbattuta la mannaia nel 2010: Roma Capitale ha tagliato “62 auto grigie non Polizia e 137 di Polizia" acquisendo in cambio una nuova blu blu (parco totale: 988). Idem per Brescia (-18 auto di Polizia, +1 auto blu) e nobile compromesso per Bari (+2 auto blu con +17 auto Polizia). Scorrendo la lista degli enti considerati (solo il 61 per cento ha risposto al questionario Formez), si evince la regola base secondo cui le auto di servizio vengono tagliate a decine (record la Asl di Napoli, -100 in un colpo solo) mentre sulle blu/blu blu si lavora di cesello
Eppure proprio lì sta la spesa più alta con 14mila autisti in servizio, mentre complessivamente gli addetti al parco mobile sono quasi 36mila e costano 1,2 miliardi di euro l’anno. “Un pessimo segnale questo esubero di mezzi, un atteggiamento che spinge il cittadino a provare sempre maggior insoddisfazione davanti all’amministrazione pubblica. E, quindi, a ritenere giustificabile un comportamento poco civico, oltre che illegale, come l’evasione fiscale” sottolinea Antonella Di Benedetto di Contribuen  ti.it , associazione che informa e tutela il cittadino pagatore. Ovvero l’uomo della strada che ieri sera, passando in piazza San Silvestro a Roma, avrebbe visto la seguente scena: un lato della piazza in ricostruzione lastricato di auto bluissime in doppia fila (posto disabili incluso), l’altro lato battuto vetro a vetro dai vigili urbani (con relative multe ai parcheggiatori illegittimi). Erano in corso i febbrili incontri sulla tenuta del governo, e tutto il centro città pullulava di cofani lucenti: Roma è probabilmente la capitale più blu blu del mondo calcolando che a Londra le auto pubbliche sono meno di 200 (più 8 della Regina, che però paga lei) e che in tutti gli Stati Uniti d’America ce ne sono 75mila.

La Stampa 3.11.11
La crisi e il vertice del G20
“Tocca a Berlino salvare l’Europa”
Pressing di Obama su Merkel per tenere lontana la Cina
di Maurizio Molinari


Il Pil è fiacco La Federal Reserve ha tagliato di un punto percentuale le stime di crescita del Pil per il 2011. Aumentano invece, da 9% a 9,01, i disoccupati. Per l’anno prossimo numeri appena migliori, ma anche qui le stime sono state ridimensionate: il peso della crisi si fa sentire più di quanto non si pensasse La missione Barack Obama vuole spingere la Germania a fare di più per salvare l’Europa riducendo al minimo possibile un intervento cinese. Lo scopo è evitare che cresca l’influenza di Pechino sull’economia del Vecchio Continente
Convincere Angela Merkel ad accettare un ruolo maggiore della Bce a sostegno della moneta unica per scongiurare il rischio di un’Europa salvata dai cinesi e sostenere la debole crescita globale: è questa l’intenzione con cui il presidente Barack Obama sbarca oggi sulla Costa Azzurra, puntando a far coincidere il summit del G20 con un patto sull’euro capace di avere effetti positivi anche sulla precaria ripresa americana.
A tratteggiare i contorni della missione dell’inquilino della Casa Bianca sono le dichiarazioni convergenti di alcuni suoi stretti collaboratori e di più fonti diplomatiche a Washington. «Il piano d’azione concordato dai leader europei la scorsa settimana contiene tutti gli elementi giusti ed ora aspettiamo di sapere come e quando sarà messo in pratica» dice il sottosegretario al Tesoro Lael Brainard, sottolineando l’importanza del fattore tempo. «Ci sono due strade per agire in fretta spiega, dal canto suo, un alto funzionario europeo a Washington il potenziamento del fondo europeo Efsf oppure un maggiore impegno della Bce» e poiché quanto avvenuto da luglio ha dimostrato che lo stanziamento di fondi da parte dei partner dell’Eurozona prende troppo tempo ciò spinge Washington alla convinzione che la soluzione si trovi a Francoforte.
Quando a inizio ottobre la Francia ha proposto di far agire il fondo Efsf come una banca attingendo ai fondi della Bce la Casa Bianca era d’accordo ma il veto della Merkel ha bloccato quella strada. Dunque nell’incontro di oggi a Cannes Obama tenterà di convincere la cancelliera a dare luce verde ad altri due possibili passi della Bce: il massiccio acquisto di titoli di Stato dei Paesi in difficoltà e l’abbassamento dei tassi di interesse. La Bce in realtà sta già acquistando titoli italiani e spagnoli ma Washington ritiene che l’operazione dovrebbe essere comunicata ai mercati con maggiore vigore, sull’esempio di quanto fatto dalla Federal Reserve di Ben Bernake in risposta alla crisi nell’autunno del 2008. Mike Froman, consigliere economico internazionale della Casa Bianca, è esplicito nel tracciare un parallelo fra il 2008 e l’attuale situazione sottolineando come «il G20 di Londra del 2009 vide il mondo unirsi nel concordare massicce contromisure ed ora ci troviamo con una analoga necessità»con la differenza che allora il maggior sforzo venne dagli Stati Uniti ed ora tocca all’Ue.
Se questa mattina Obama, subito dopo l’atterraggio, vede in rapida successione Sarkozy e Merkel prima dell’inizio dei lavori del G20 è nel tentativo di esercitare, d’intesa con l’Eliseo, la massima pressione su Berlino affinché accetti di assegnare alla Bce un ruolo simile a quello avuto dalla Fed nella crisi innescata dai subprime. Fred Bergsten, direttore del Peterson institute di Washington molto vicino alla Casa Bianca, lo spiega così: «L’unico modo per affrontare con decisione i pericoli finanziari è agire sull’Efsf attraverso la Bce, che rimane la risorsa decisiva per i salvataggi dell’area euro, con qualsiasi tecnica politicamente possibile, per creare una riserva fra 2 e 4 trilioni di euro capace di affrontare ogni situazione, inclusi i default di Italia e Spagna».
E’ questa la ricetta per quello che Brainard definisce il «salvataggio europeo dell’Europa» che l’amministrazione Obama preferisce allo scenario di un massiccio intervento di sostegno da parte della Cina destinato a creare una condizione di dipendenza dell’Eurozona nei confronti dello yuan, mutando ai danni del dollaro l’attuale equilibrio fra le maggiori valute. Ciò non toglie che, come osserva Froman, «è positivo avere la Cina e le maggiori economie emergenti attorno al tavolo del G20» per contribuire a fronteggiare la crisi dell’euro ma lo scenario preferito di un tale intervento di Pechino non è bilaterale bensì all’interno del Fmi.
Brainard sottolinea a più riprese che «nel Fmi ci siamo tutti» per suggerire che potrebbe essere questo il foro finanziario per coordinare gli interventi a sostegno dell’euro da parte del resto del G20. Anche se ciò comporterebbe per il governo Usa approvare un incremento di fondi per il Fmi destinato a scontrarsi con l’opposizione dei repubblicani al Congresso. Ma proprio le divisioni politiche in patria spingono Obama a moltiplicare gli sforzi a Cannes per poter trasmettere agli americani l’immagine di un presidente determinato a sostenere la debole ripresa globale per fronteggiare quella che ieri Bernanke ha descritto al Congresso come «una crescita americana talmente lenta da essere frustrante». Ha dato cifre pesanti, Bernanke: la crescita 2011 è rivista al ribasso, tra 1,6 e 1,7% (un punto meno che a giugno) e l’occupazione in crescita: arriva a 9,1%.

l’Unità 3.11.11
Intervista a Ettore Martinelli
«Renzi? Rappresenta una destra moderna»
L’esponente della segreteria Pd, area Marino: «Dalla Leopolda nessun progetto alternativo»
di Maria Zegarelli


Avvocato, 41 anni, docente universitario, membro della segreteria nazionale, mozione congressuale Ignazio Marino, «diffusore de l’Unità, il sabato nei mercati fiorentini». Ettore Martinelli non si appassiona al fenomeno Renzi, non si lascia trascinare dentro la polemica “vecchia” e “nuova” genera-
zione, racconta che non ne può più di chi «sapendo bene cosa “fa notizia”, non ci pensa un attimo a parlare male del segretario così lo spazio in pagina è garantito».
Martinelli, accetti di entrare nella discussione del momento. È stato o no un Big bang la Leopolda?
«Intanto diciamo che sono andato a Firenze due weekend di seguito per incontrare la gente al mercato, parlare con le persone comuni e distribuire l’Unità. Alla Leopolda non sono andato perché penso che le iniziative di ottobre, che sono legittime dal momento che vogliono dare in contributo, in realtà disorientano il nostro elettorato».
Sta dicendo che non aggiungono linfa vitale al Pd?
«Sto dicendo che non ci vedo progetti alternativi, soprattutto se penso alla Leopolda. Mi sembra assurdo che il sindaco di una città come Firenze, iscritto al Pd, dica che oggi non ha più senso essere di destra o di sinistra. A mio avviso una persona della nostra età deve sforzarsi di riempire queste “categorie” di contenuti diversi rispetto a quelli che hanno caratterizzato il Novecento, ma non si può banalizzare».
Ma ci sarà qualcosa che ha colpito la sua attenzione fra tutte quelle che si sono dette alla Leopolda.
«Non dico che da lì non siano venute fuori proposte in parte condivisibili, ma non le ritengo un contributo per il partito».
Renzi non è una risorsa? Sta dicendo questo?
«Renzi sarebbe un candidato perfetto in una coalizione alternativa al centrosinistra dentro una destra moderna. Ma a lei sembra normale che ogni giorno gli elettori di destra ci debbano dire quanto è bravo Renzi? E a Renzi chiedo come mai non è mai venuto a dire in direzione, di cui fa parte, cosa vorrebbe fare. Sa cosa penso?».
No, cosa pensa?
«Che Renzi faccia parte di una carovana che gira il Paese mantenendo perennemente aperto un congresso che in realtà si è chiuso da diverso tempo, con primarie che hanno coinvolto quasi quattro milioni di elettori che hanno detto quale segretario e quale candidato premier volevano. Ignazio Marino ha partecipato alle primarie, ha preso il 14% di preferenze, da quel momento siamo entrati nella gestione unitaria del partito, cercando
di portare un contributo. L’Italia è in crisi, ce ne vogliamo rendere conto? Non mi piace il gioco che da qualche mese si sta facendo nel partito: ci sono le sedi designate a dire la propria opinione, a partecipare al dibattito». Altro tema che scalda: voto subito e governo di transizione? Il Pd è orientato per la seconda ipotesi.
«Non credo che il governo di transizione possa risolvere la grave crisi non solo economica ma anche politica in cui siamo precipitati. Detto questo, penso che sia legittimo da parte di un grande partito come il Pd porsi la questione e provare anche questa strada, cercando di adottare le misure più urgenti per il Paese e cambiare questa legge elettorale. Anche perché è il Presidente della Repubblica a chiedere che ci sia una larga convergenza per le riforme ormai non più rinviabili».
Martinelli, Renzi direbbe che lei rientra più nella categoria dei “dinosauri” che non dei rinnovatori.
«Non c’è niente di più vecchio di ciò che si definisce nuovo. È nuovo ciò che si percepisce come tale e non ciò che si spaccia per nuovo».

il Fatto 3.11.11
Renzinvest
di Marco Travaglio


Tutti (si fa per dire) si domandano perché Renzi abbia scelto proprio Giorgio Gori come regista dell’operazione Leopolda ed estensore delle sue Cento Idee e perché abbia scelto proprio Martina Mondadori per dire “Matteo tocca a te, ti vogliamo presidente del Consiglio”. Ma forse la domanda va rovesciata: perché Gori e la Mondadori hanno scelto proprio Renzi? Evidentemente perché lo sentono familiare. E per capire il motivo basta leggere le biografie dei due ex berluschini folgorati sulla via di Firenze (che presto, visto il super-ego del suo sindaco, verrà ribattezzata “Firenzi”). Giorgio Gori viene da Bergamo. Da giovane bazzicava gruppi di destra, poi negli anni 80 fu adocchiato da Craxi e divenne craxiano. Dunque dirigente del gruppo Fininvest, dove se non eri craxiano non ti si filava nessuno. Carriera folgorante: nel 1989, a 29 anni, è capo dei palinsesti di tutte e tre le reti del Biscione, mobilitate l’anno seguente nella campagna pro legge Mammì; e nel '91, a 31 anni, è direttore dell’ammiraglia Canale5, dove rimane fino al 2001, salvo una parentesi di due anni a Italia1. Il che significa che nel '93 è roba sua la campagna “Vietato Vietare” contro la regolamentazione degli spot in tv. E nel '94, mentre B. entra in politica cacciando subito Montanelli dal Giornale, è lui il comandante della portaerei Fininvest che in tre mesi lancia Forza Italia nel firmamento della telepolitica (ricordate gli spottini di Mike, Vianello, Zanicchi & C.?) e fa vincere le elezioni al padrone. Ed è ancora lui a mettere la sua faccina efebica e la sua firma su programmi-manganello come Sgarbi quotidiani e Fatti e Misfatti di Liguori, specializzati nel killeraggio dei “nemici” del padrone. Mai un dubbio, una presa di distanze, un moto di disgusto, un sopracciglio inarcato. Nel '95 è la sua Canale5 a capitanare la campagna elettorale contro i referendum che tentano di porre un argine agli spot e un tetto antitrust al gruppo Fininvest, come stabilito l’anno prima dalla Consulta. Ora, al fianco di Renzi, Gori dice di voler “liberare la Rai dai partiti”. Cos’è, una battuta? Che altro erano la Fininvest e poi Mediaset, Canale5 e Italia1, dal '94 in poi se non il braccio armato di un partito, con Gori sulla tolda di comando? Sarà un caso, ma Gori vuole departitizzare solo la Rai: su Mediaset manco una parola. Sarà un caso, ma l’indomani Renzi è subito ospite di Matrix, da cui Mentana fu cacciato appena ospitò Di Pietro. E sarà un caso, ma l’unico tema trascurato alla Leopolda, assieme alla giustizia e alla mafia, è stato proprio il conflitto d’interessi televisivo. Dal 2001 Gori è fondatore, presidente e azionista di Magnolia, casa di produzione di format televisivi. Ieri s’è dimesso da presidente per dedicarsi a “nuove sfide” (Renzi), ma rimane azionista di una società fornitrice negli anni di Rai, Mediaset, La7 e Sky. Una mossa che ricorda tanto quella di un altro signore che nel '94, con la morte nel cuore, annunciò che lasciava la Fininvest, restandone azionista e passandola al suo prestanome Confalonieri. Una mossa che certamente lo toglierà d’imbarazzo la prossima volta che Renzi sarà ospite di Piazza pulita, l’ottimo programma di La7 prodotto da Magnolia. Martina Mondadori, classe 1981, figlia di Leonardo alleato di B. nella guerra di Segrate vinta da B. grazie a una sentenza comprata, siede nel Cda della casa editrice che fu della sua famiglia e che ha appena rimborsato a De Benedetti 560 milioni di danni per quella mega-corruzione. Alla convention di Renzi ha detto: “La nostra generazione vuole impegnarsi per cambiare l’Italia e la politica”. Evviva. Ma forse dimettersi dal Cda di una società rubata potrebbe essere un buon inizio. Ps. No, non ci siamo dimenticati la domanda d’esordio: perché Renzi piace a tanti berluschini. Una possibile risposta, davvero strepitosa, la dà Billy Costacurta come potete leggere qui a fianco.

il Fatto 3.11.11
Intervista. L’ex calciatore del Milan volta le spalle al vecchio padrone: “Deve dimettersi”
Costacurta: “Renzi è il nuovo Silvio”
“Il sindaco vuole lavorare per il bene del Paese, come accadde a Berlusconi. I due si sono conosciuti. Forse anche piaciuti”
“Marina alle primarie del Pdl? Me ne andrei al parco”
di Malcom Pagani


Alessandro Costacurta, 45 anni, 662 partite con il Milan. Se la caduta di un sistema inizia dai dubbi di chi fu colonna del palazzo, Billy è la fotografia di un crollo. Martina Colombari, sua moglie “da sette anni, ma stiamo assieme da 17” lo ha convinto all’ascolto di Matteo Renzi. Costacurta è andato e adesso, mentre si scalda al sole di Dubai, in testa, ha un’idea meravigliosa.
Costacurta come è andata?
Benissimo. Secondo me Renzi è il nuovo Berlusconi.
Scherza?
Neanche un po’. Renzi vuole lavorare per il bene del Paese, come un tempo accadde a Berlusconi. I due si sono conosciuti. Incontrati. Piaciuti credo.
Se le dico rottamatori a cosa pensa?
All’aria nuova. Ce n’è un bisogno folle.
Berlusconi deve andarsene?
È un mio amico, ma credo sia il momento.
Non teme di essere annoverato tra gli ingrati?
In Italia c’è libertà di pensiero, di parola e di ironia. Io cerco solo di dare un consiglio a una persona a cui voglio bene. Adesso Berlusconi non è in grado di fare il suo bene, quello della sua famiglia e soprattutto dell’Italia. Subisce attacchi continui, non so dire se giusti o sbagliati. Forse è meglio che si dimetta.
Lei lo fece.
Ero a Mantova e allenavo, in una situazione difficile con gli stipendi non pagati e il morale dei calciatori a terra. I risultati erano buoni, ma pensai che dimettermi fosse la soluzione più dignitosa. Berlusconi potrebbe fare, senza vergogna, lo stesso.
Lei voterà a sinistra?
Mai detto. Anche se nel 2008, al Senato, scelsi Veronesi del Pd. Lo conoscevo, mi fidavo. Io sono un moderato e al comune di Milano ho optato per Letizia Moratti.
È preoccupato?
Neanche per idea. Non sono triste né preoccupato per la vittoria di Pisapia. È una bella persona, Giuliano. Farà bene.
Lei non voterà per il Pd ma non andrà neanche alle primarie del Pdl.
Demonizzare non mi piace. Se ci saranno le primarie del Pd voterò Renzi, il giorno di quelle del Pdl, visti i nomi che girano, andrò al parco con mio figlio.
Perché?
Non mi convincono le candidature. Quando ho sentito il nome di Marina Berlusconi ho pensato si trattasse di uno scherzo.
Marina non la entusiasma.
Non la conosco e non la potrei mai votare, ma ripeto, il suo nome e quello di Formigoni non mi sembravano adatti. Così ho sospirato e poi ho deciso: ‘Billy, è meglio se ne stai lontano’.
Ma l’avversione per Marina?
Non l’ho mai ascoltata dire: ‘Faccio qualcosa per l’Italia’. Si devono tenere fuori i propri interessi quando si va a fare qualcosa di pubblico.
E se domani la chiamasse a collaborare Renzi?
Non andrei. Nel centrosinistra sei costretto ad accompagnarti a individui come Vendola e Di Pietro. A quel punto, meglio la Santanchè.
Qualcuno insinua che sua moglie l’abbia trascinata da Renzi perché il polo televisivo di domani, l’ha scelto come candidato.
È ridicolo. Ho un amico in Magnolia, ma non si chiama Giorgio Gori che tra l’altro, ha appena lasciato la carica. Sono serio e non ho mai invaso la spazio professionale di mia moglie.
Qualche proposta renziana che l’ha persuasa?
Una sola Camera e la drastica riduzione delle leggi. Nonostante Berlusconi abbia fatto qualche casino, ha qualche giustificazione. Governare è complicato.
Lei ha detto di essersi trovato d’accordo con oltre la metà delle argomentazioni affrontate alla Leopolda.
Non è che l’altra metà mi sia parsa inutile. Non ho capito di cosa parlassero. (Ride)
A proposito di Berlusconi. La sua vita privata in copertina l’ha indignata?
Neanche un po’. Io non giudico, però mi piacerebbe che quelli che ci governano non fossero sui giornali per queste cose, che si comportassero in altro modo.
In quale modo?
Nello stesso modo in cui mi comporto io.

il Fatto 3.11.11
La conversione di Giorgio Gori: “Basta tv, pronto a nuovi percorsi”


Dalla tv alla politica, al fianco di Matteo Renzi? Il presidente di Magnolia, Giorgio Gori ha rassegnato le dimissioni dalla guida del gruppo televisivo da lui fondato, lasciando tutte le cariche operative di Zodiak Media Group, Magnolia e Zodiak Active. Sembra una discesa in campo in politica a tutti gli effetti, anche vista la partecipazione in veste di protagonista alla convention dello scorso fine settimana del sindaco di Firenze alla Stazione Leopolda. Nella lettera di commiato si legge: “Cosa farò? Non un altro business, di questo sono abbastanza sicuro. La situazione che stiamo vivendo fa sì che non sia più tempo, a mio avviso, per chi può farlo, di perseguire solo i propri privati interessi”. In ogni caso Gori rimarrà nel board di Zodiak Media Group come consigliere e resterà azionista della società.

Corriere della Sera 3.11.11
Grandi ideologie al tramonto, con Renzi Nasce il «Partito Format»
di Aldo Grasso


L'anomalia Matteo Renzi: niente da fare, alla sinistra storica il Big Bang della Leopolda non è piaciuto. Nonostante l'indubbio successo.
Nonostante il sindaco di Firenze possa attrarre un elettorato di centro e di destra. Anzi, gli si rimprovera proprio questo. E giù insulti: il Pd che piace a destra, il populista di centro, l'unto di Arcore, il Blair dei poveri, il Pieraccioni della politica, il Berlusconi di centrosinistra. È stata messa persino in discussione la sua non risolta identità (politica) di genere, quasi fosse non un trasversale ma un transessuale della politica. I più duri sono stati i vertici del Pd, Rosy Bindi e Pier Luigi Bersani: le idee di Renzi risalgono agli anni Ottanta, quelli della Milano da bere.
Al di là delle idiosincrasie personali (che già tanti danni hanno fatto alla sinistra italiana, e all'Italia), cerchiamo di capire questo paradosso: come mai viene osteggiato un leader in grado di raccogliere consensi anche al di fuori della sua parrocchia? Incomprensione o tafazzismo? La vera novità della Leopolda è che Renzi si è presentato al suo pubblico con un format: una scenografia essenziale, molti personaggi sul palco (alcuni noti, altri sconosciuti, come si usa nei reality), cinque minuti a testa (secondo le sacre regole di «Zelig») per dire che cosa fare una volta al Governo. Ma c'è di più: la stessa proposta politica di Renzi è un format. Non perché alle sue spalle ci sia Giorgio Gori, noto produttore tv e regista della manifestazione (ieri ha lasciato la presidenza di Magnolia), ma perché oggi la comunicazione politica funziona così. Un format è un'idea, è la struttura base del programma (televisivo o politico, non importa), è una serie di suggerimenti relativi alla sua realizzazione. In gergo, i suggerimenti si chiamano «bibbia», nel format Leopolda «cento idee per l'Italia». Un format da tv convergente, con una ricchissima interazione con la Rete (come ha fatto Obama).
Bindi e Bersani sono figli delle grandi ideologie ormai tramontate, Berlusconi è l'inventore del partito azienda. Con Renzi, cresciuto a pane e game-show, nasce il partito format. Che sia lo spazio nuovo della politica?

il Riformista 3.11.11
Il sindaco Renzi, i polli e il voto anticipato
di Felice Besostri


Qualcuno ha deciso di pompare Renzi della Leopolda come fu pompato il Veltroni del Lingotto, allora c’era dietro soltanto un pezzo di finanza (CiR Debenedetti) ora anche il Vaticano. Vi immaginate il bello di una competizione tra Formigoni per il centrodestra, Casini per il centro e Renzi per il centrosinistra? Tutti per liberalizzazioni, privatizzazioni e supini alla Bce? Mi ricorda quella pubblicità troppo facile vincere così. Se lo vediamo da Santoro e da Lerner, dall’Annunziata e dalla Gruber e a “C’è posta per Te” o “Uno Mattina” oltre che da Fazio i giochi son fatti. Tanto più che non avrà problemi a sostituire sulle reti Mediaset il Bertinotti d’antan. L’accento fiorentino è più simpatico di quello irpino di De Mita, potrebbe attirare anche voti padani. Il tragico è che per contrastare Renzi ora ci si deve alleare con Bersani o Vendola, allo stato ancora lontani dal socialismo europeo.
La candidatura di Renzi ha gettato scompiglio, oltre che nel Pd, nella sinistra, in cui allignano suoi tifosi per opposte ragioni, come grimaldello per scardinare il Pd: con un’immagine di una vignetta “i polli di Renzi”, di non manzoniana memoria. Sarebbe interessante sapere di quando è la nomina a dirigente del Renzi nella società di famiglia. Se cioè è in rapporto temporale con l’assunzione di una carica elettiva pubblica perché consente di moltiplicare l’indennità e di rimborsare l’azienda degli oneri previdenziali.
Come è noto, il diavolo si annida nei dettagli e sarebbe importante sapere se il Renzi è un vero riformatore o uno dei tanti scrocconi(per quanto simpatico) della “casta”. L’unico modo di sventare il pericolo è non votare subito con questa porcata di legge elettorale incostituzionale (la Corte d’appello di Milano dovrebbe pronunciarsi sul punto il 22 marzo 2012), ma anche questa è una prospettiva da brivido per le reazioni dei mercati. Il tempo è comunque galantuomo, e scoprire il bluff sarebbe possibile. Le elezioni a primavera con questa legge elettorale sono un toccasana per molti: l’ultima occasione per nominare il Parlamento, eliminando gli oppositori interni. E citando De Gasperi in Italia siamo pieni di politici “che pensano al prossimo governo” e invece poveri di statisti “che pensano alla prossima generazione” o come ammonisce il Presidente Napolitano alle Istituzioni e all’interesse della Nazione.

l’Avanti della Domenica 2.11.11
Dal veltronismo al renzismo
di Bobo Craxi

qui

Repubblica 3.11.11
Banalizzare. Il partito di Twitter
Quando si prende come unico parametro la velocità di comunicazione, c´è il rischio di banalizzare E quello che funziona per ribaltare le vecchie regole non è detto che sia lo strumento per un salto in avanti
Come i media influenzano il cambiamento
di Michela Marzano


Barack Obama è stato il pioniere. Conosciuto e riconosciuto da tutti, ancor prima di vincere le elezioni, grazie all´uso massiccio di Internet, Facebook e Twitter per diffondere idee, costruire contenuti multimediali e dialogare direttamente con i cittadini senza passare attraverso il filtro dei media tradizionali. Una lezione messa in pratica dagli indignados del mondo intero, che hanno perfettamente capito che la comunicazione dipende quasi sempre dai criteri con cui viene organizzata. Come spiegava McLuhan: il medium è il messaggio. Perché allora le cose dovrebbero essere diverse nella politica italiana?
Per tutti coloro che hanno assistito alla riunione della Leopolda di Firenze con Matteo Renzi, vuoi perché fisicamente presenti, vuoi perché connessi al web in streaming, una cosa è certa: ormai anche in Italia, non solo il medium è il messaggio, ma il medium è la politica. E cioè: anche i contenuti politici diventano il mezzo che li trasmette. Soprattutto se il mezzo di oggi, rispetto alla tv di ieri, dà l´illusione di un´interazione in diretta con il mondo. Così bisogna chiedersi cosa diventa la politica se viene riassunta in cento punti nel Wiki-Pd, oggi consultabile online. Perché, al di là dei meriti dell´iniziativa, quando si sintetizza un programma, quando si prende la velocità di comunicazione come parametro, il rischio, evidente, è quello di banalizzare tutto. Il leader comunica e liofilizza, in 180 caratteri. Così il sospetto è che quello che funziona per ribaltare le regole di un vecchio modello non sia propriamente lo strumento per arrivare al nuovo. Perché l´arte della politica si esercita nella complessità. Così l´idea del Wiki-Pd è soprattutto una forma immediata, ad effetto: dove i contenuti, più o meno condivisibili da tutti per quanto sono riassunti, valgono perché si presentano come il frutto di un´interazione tra eletti ed elettori, politici e rappresentanti del mondo socio-economico, scrittori e internauti. Sono stati partoriti mentre il sindaco di Firenze, seduto sul palco accanto ad un frigorifero e ad un cesto di frutta, non la smetteva più di chattare su Facebook e di utilizzare Twitter. Una piccola narrazione costruita strada facendo, tessendosi intorno ad interpretazioni minime della realtà. Come se ormai la sola condivisione politica possibile fosse questa. Una forma, appunto.
Per molto tempo la politica si è basata sulla possibilità da parte degli eletti di influenzare le menti degli elettori attraverso i mass media. Oggi, forse anche in assenza di contenuti certi, i media non sono più solo i depositari del potere ma un luogo in cui il potere viene "deliberato". In Francia, le ultime primarie del PS sono state anche questo: il trionfo dell´idea lanciata nel 2007 da Ségolène Royal, e ripresa poi anche dall´ormai celebre Arnaud Montebourg, della democrazia partecipativa. Una democrazia che si appassiona sul web e non la smette più di mandare tweet. Messaggi talvolta un po´ sgrammaticati e che partono troppo in fretta. Ma che, d´altra parte, contribuiscono alla creazione di una nuova maniera di raccontare il mondo e di credere, in questo modo, di poterlo cambiare. È come se d´improvviso stessero tutti dando ragione a Jean-François Lyotard quando spiegava che la narrazione di cui oggi la gente ha bisogno non può più essere astratta, prescrittiva e verticale, ma orizzontale e relazionale.
Eppure, se è vero che i contenuti strutturati e condivisi quasi non esistono più (dall´etica alle riforme economiche), bisognerà porsi il problema di che cosa facciamo quando facciamo politica. Perché la forma, anche quando è molto più sexy delle precedenti, non diventi un format.

l’Unità 3.11.11
Una buona notizia: La Palestina nell’0Unesco
di Margherita Hack


Fra gli avvenimenti internazionali di questi ultimi giorni va ricordata l’annessione all’Unesco l’agenzia delle Nazioni Unite per l’educazione, la cultura e la scienza della Palestina. Una decisione che si può leggere come, finalmente, un riconoscimento internazionale al diritto di questo popolo ad avere una sua nazione e una sua terra. Meraviglia l’accanimento di Israele, anche in questa occasione: un popolo che ha una lunga storia di sofferenze ed esclusione dovrebbe aver imparato a non applicare ad altri le stesse sofferenze. Dispiace anche l’atteggiamento degli Stati Uniti che hanno deciso di dimezzare i fondi all’Unesco in seguito all’ingresso della Palestina: da Obama mi sarei aspettata un comportamento più coraggioso. Mai come in questa occasione è evidente che le religioni, invece di affratellare, dividono.
Per il resto, in primo piano su tutti i mass media c’è ancora l’economia. Siamo veramente sull’orlo del baratro. Il fatto è che in economia conta enormemente la fiducia e l’Italia soffre di mancanza di credibilità. Anche se il debito pubblico non è tutta colpa dell’attuale governo (che però, va ricordato, ha contribuito a farlo crescere), la mancanza di credibilità internazionale del nostro Paese è dovuta in primo luogo alla persona del premier che ormai tutti conoscono per quello che è: un abilissimo venditore di fumo. Perciò vorremmo fare ancora un appello: se ha ancora un residuo di amor proprio e di amor di patria, Berlusconi lasci il campo libero a un governo serio, fatto da persone serie che abbiano capacità e esperienza politica.
In questo frangente l’opposizione sia unita, il giovane Renzi contribuisca a questa unità e non crei ulteriori divisioni. Perché non basta essere giovani per salvare la politica, a volte serve anche l’esperienza.

Repubblica 3.11.11
Una nuova Flottiglia in rotta verso Gaza Lo Stato ebraico: "Pronti a fermare le navi"


ISTANBUL Due navi che battono bandiera irlandese e canadese sono salpate dalla Turchia, in rotta verso la Striscia di Gaza per forzare il blocco imposto da Israele. Fanno parte della Freedom Flotilla II. Cariche di medicinali, navigano in acque internazionali. L´arrivo è previsto venerdì. A bordo ci sono 27 persone: giornalisti e attivisti australiani, canadesi, irlandesi, americani, palestinesi. Il ministero degli Esteri di Ankara conferma la notizia. Stavolta nessun cittadino turco partecipa all´operazione. Il primo tentativo della Freedom Fotilla è del 2010: il raid israeliano per fermare la Mavi Marmara finì con l´uccisione di nove attivisti e innescò una delle più gravi crisi diplomatiche fra Israele e Turchia. Il governo israeliano già preannuncia il ricorso «a ogni misura necessaria» per impedire che «il blocco di Gaza sia violato».

l’Unità 3.11.11
Foto Onu del pianeta: ricchi più ricchi poveri più poveri
Studio sullo sviluppo umano: Norvegia prima in classifica
Il Congo ultimo, Italia 24esima. Amentano le disuguaglianze all’interno dei Paesi avanzati. E sul futuro l’ipoteca del clima
di Marina Mastroluca


Gli occupanti di Wall Street troverano più di una conferma nel nuovo rapporto Onu sullo sviluppo umano. Due parole prese come bussola, per sondare quegli indici che non rientrano nel Pil, ma fanno la qualità vera della vita: distribuzione e sostenibilità. Ecco misurati sulla prima, anche i ricchi Stati Uniti finiscono per scivolare nelle classifiche mondiali: quarti per
i risultati in materia di istruzione, salute e reddito a livello nazionale, precipitano al 23 ̊ posto quando si ragiona di ineguaglianze interne. Il succo è quello che da metà settembre vanno ripetendo i manifestanti di Zuccotti Park: tra i redditi più alti e quelli più bassi la forbice continua a dilatarsi.
Centottantasette paesi presi in esame, tra la Norvegia al primo posto e la Repubblica democratica del Congo c’è tutto il ventaglio della condizione umana. In testa alla classifica, per dirla a spanne, c’è l’Occidente in senso lato seconda l’Australia, a seguire Olanda, Usa e Nuova Zelanda, Italia 24esima in fondo l’Africa specialmente quella sub-sahariana, con Niger, Burundi e Mozambico. La fotografia del rapporto 2011 conferma una realtà polarizzata, dove i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri, con l’America Latina a guidare la classifica della diseguaglianza, malgrado gli sforzi fatti dal Brasile, soprattutto, e anche dal Cile. In termini assoluti, però, sommando alle disparità di reddito anche l’accesso all’istruzione e la speranza di vita, le maggiori disuglianze si contano inAsia del sud e Africa sub-sahariana, dove si continua a morire di malattie prevenibili o curabili come malaria e Aids. Dove l’accesso all’acqua potabile, ai servizi sanitari, a case decenti è più difficile, se non impossibile.
Un mondo globalizzato che marcia a velocità troppo differenti, anche se dal 1970 a oggi il 25% dei Paesi in fondo alla lista ha migliorato dell’82% i propri standard. Oggi le persone che vivono in condizioni di «povertà multidimensionale», come la definisce il rapporto, sono ancora 1,7 miliardi, 1,3 quelle che campano con meno 1,25 dollari al giorno. Si allontanano gli obiettivi del millennio di sradicare la povertà estrema entro il 2015. Con questi trend, la maggior parte dei Paesi potrebbe raggiungere gli stessi livelli dei primi 25 della lista entro il 2050, se non fosse per il grave deterioramento ambientale e i cambiamenti climatici che rischiano di cancellare tutto quello che si è ottenuto finora. La Thailandia sott’acqua di queste settimane, il Bangladesh che non riesce nemmeno a far notizia con i milioni di sfollati per le inondazioni sono un segno del futuro prossimo venturo.
«I Paesi ricchi hanno fallito in modo significativo nel soddisfare gli impegni presi», scrive il rapporto. Dei 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2020, promessi da G8 e Ue per combattere l’impatto dei cambiamenti climatici nei Paesi più poveri, ben pochi sono arrivati a destinazione: nel 2010 meno dell’8%. Eppure metà della malnutrizione mondiale è provocata da fattori ambientali: siccità, inondazioni, inquinamento sono tutte facce della stessa medaglia. L’alternativa insiste Helen Clark, amministratrice del Programma Onu per lo sviluppo non ha che un nome ed è sostenibilità: dalle fonti energetiche, all’uso delle risorse. È l’ora, sostiene, che si cominci a parlare di una tassa sulle transazioni finanziarie da destinare allo sviluppo sostenibile nei Paesi più poveri. Una tassa sui ricchi, in fondo, un po’ come dicono quelli di Occupy Wall Street.

La Stampa 3.11.11
Cina - India, uguaglianza impossibile
di Jaswant Singh


NEW DELHI. Anche in un’era di notizie globali 24 ore su 24, ci sono eventi che salgono alla ribalta ben dopo il fatto. Qualcosa del genere è accaduto alcuni mesi fa nel Mar Cinese Meridionale e può diventare il modello per le relazioni future tra i due Paesi più popolosi del mondo, la Cina e l’India, da sviluppare negli anni a venire.
Di ritorno, a fine luglio, da una visita di cortesia in Vietnam in acque riconosciute come internazionali, una nave della Marina indiana è stata «avvisata» via radio e consigliata di «abbandonare» il Mar Cinese Meridionale. Anche se gli incidenti navali tra la Cina e i Paesi più vicini in particolare Vietnam, Giappone e Filippine non sono insoliti, questo è il primo a coinvolgere l’India.
Perché la Cina ha tentato di interferire con una nave che si trovava in mare aperto? E’ stato «solo» un altro episodio delle ingiustificate pretese di sovranità della Cina su tutto il Mar Cinese Meridionale, o nasconde qualcosa di più malevolo?
Al ministero degli Esteri cinese, un portavoce ha spiegato: «Contrastiamo qualsiasi Paese che ingaggi attività di ricerca di petrolio e gas e sviluppi attività nelle acque sotto la giurisdizione della Cina». Poi, per inciso, ha aggiunto: «Speriamo che i Paesi fuori della regione rispettino e sostengano i Paesi dell’area "nei loro sforzi" per risolvere le controversie attraverso canali bilaterali».
Il governo indiano ha ribattuto prontamente: «La nostra cooperazione con il Vietnam o con qualsiasi altro Paese avviene sempre secondo le leggi, le norme e le convenzioni internazionali», rilevando che la «cooperazione con il Vietnam in materia di energia è molto importante». In effetti le aziende indiane hanno già investito molto lì, e stanno cercando di ampliare le loro attività.
Sebbene le dichiarazioni dell’India siano abbastanza esplicite, i dubbi restano. La disputa tra i due Paesi verte solo su chi svilupperà le intatte risorse energetiche del Mar Cinese Meridionale, o abbiamo a che fare con l’inizio di un confronto per le sfere d’influenza?
Per trovare una risposta è necessario confrontarsi con le norme di civiltà, che si riflettono nei giochi intellettuali che le due nazioni prediligono. L’India ha tradizionalmente coltivato il gioco del «chaupad» (quattro i lati), o lo «shatranj» (scacchi), che si basano sul confronto, la conquista e il soggiogamento. La Cina, d’altra parte, ha il «qui wei» (conosciuto in Giappone come «go»), che si impernia sull’accerchiamento strategico. Come consigliò Sun Tzu molti secoli fa, «eccellenza ultima non sta nel vincere ogni battaglia ma nello sconfiggere il nemico senza mai combattere».
Un recente documento del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sull’«Evoluzione della Cina in tema di forze armate e sicurezza 2011», sostiene che «la politica cinese “del mare di casa” ha preoccupato seriamente non solo l’India, ma anche il Giappone, l’Australia, gli Stati Uniti, e i Paesi dell'Asean". In risposta, il ministero della Difesa cinese ha proclamato che «Cina e India non sono nemici né avversari, ma vicini e partner».
Allora, come stanno le cose? E’ chiaro che l’India, stante la cooperazione pluriennale con il Vietnam su petrolio e gas, non intende accettare le rivendicazioni cinesi sul Mar Cinese Meridionale. Inoltre, con l’inizio dello sfruttamento dell’energia è in programma un nuovo protocollo d’intesa tra India e Vietnam che sarà firmato entro la fine dell’anno. La Cina ha probabilmente reagito a questi sviluppi accusando l’India di violare le acque territoriali.
In India sta diventando sempre più precisa la sensazione che sia in atto una lotta per il dominio sulla regione. Le attività cinesi in Pakistan e Myanmar, l’espansione degli accordi portuali della Cina porta nell’Oceano Indiano (il cosiddetto «filo di perle»), e le accresciute attività navali cinesi nell’Oceano Indiano hanno fatto drizzare le antenne ai servizi di sicurezza indiani. Infatti, l’organo di stampa ufficiale cinese «Global Times», modificando il suo atteggiamento precedente, ha recentemente chiesto di porre fine a piani energetici dell’India nella regione. «Bisogna prima usare la forza di persuasione, ma se l’India persevera, la Cina dovrebbe tentare tutti i mezzi possibili per fermarla».
Lo stesso articolo poi gettava il Tibet nel calderone delle accuse. «La società cinese», proseguiva, «è ... indignata per l'intervento dell’India nel problema del Dalai [LAMA]», avvertendo l’India di «tenere a mente» che «le sue azioni nel Mar Cinese Meridionale spingeranno la Cina al limite». Secondo il «Global Times», «la Cina è felice dell’amicizia sino-indiana, ma questo non significa che la ponga sopra ogni altra cosa».
C’era anche un messaggio di più ampia portata e più inquietante che smentisce la retorica ufficiale cinese dell’armonia: «Non dobbiamo lasciare il mondo con l’impressione che la Cina sia concentrata solo sullo sviluppo economico, né inseguire la fama» di essere una «potenza tranquilla, perché potrebbe costarci caro».
E’ questa la politica estera «trionfalistica», come la definisce Henry Kissinger, con cui l’India deve fare i conti. «L'approccio cinese all’ordine mondiale», scrive Kissinger nel suo nuovo libro «Sulla Cina», è dissimile dal sistema occidentale basato sull’ «equilibrio diplomatico del potere», soprattutto perché la Cina non ha «mai avuto contatti prolungati con un altro Stato» basati sul concetto di «uguaglianza sovrana dei popoli». Come sottolinea Kissinger, autorevole amico della Cina: «Che l’Impero cinese dovrebbe avere una posizione di preminenza sulla sua sfera geografica era considerata in pratica una legge di natura, espressione del mandato del Cielo».
Forse l’India e gli altri dovrebbero combattere l’assertività della Cina seguendo i consigli di Sun Tzu: «Contenere l’avversario attraverso la leva della trasformazione dei vicini di quell’avversario in forze ostili». Così come la Cina si è coltivata il Pakistan, la crescente intesa dell’India con il Vietnam potrebbe essere una contromossa sulla scacchiera strategica dell’Asia?
Può essere. Dopo tutto, poiché l’India riconosce gli interessi vitali della Cina in Tibet e a Taiwan, è doverosa la reciprocità verso gli interessi nazionali dell’India. La Cina deve accettare la neutralizzazione di ogni sforzo di accerchiamento strategico dell’India. Questo è un imperativo per la sicurezza nazionale dell’India. Così come la moderazione e la reciproca collaborazione, ma questo vale anche per la Cina.
Copyright: Project Syndicate, 2011. *Jaswant Singh, è stato ministro delle Finanze, degli Esteri e della Difesa dell’India. Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 3.11.11
Cina
Un milione di bambini obbedienti
di Giampaolo Visetti


Un esercito di un milione di bambini obbedienti. L´ultimo piano quinquennale di Pechino, dalla cultura, ripiega sulla morale. In Cina si è sempre cominciato presto a riconoscere l´autorità. Anche in Oriente però la famiglia è in crisi e il governo teme di allevare una generazione non abbastanza allenata a dire sì. Dove non arriva la mamma arriva il compagno segretario. Ci penserà l´Associazione nazionale per gli studi di etica, supportata dallo Stato. La campagna educativa investe i bambini tra i quattro e i sei anni, selezionati in tutte le regioni. Dopo la scuola studieranno «pietà filiale», «rispetto dei genitori e degli antenati», «aiuto nei lavori domestici» e «scienza della crescita armoniosa». Haibin Wang, capo del progetto, ha spiegato che i corsi saranno ispirati a tradizione, galateo e buona educazione, secondo le regole di Confucio e degli antichi filosofi imperiali. Gli allievi che supereranno cento ore di prova, accederanno a tre anni di specializzazione, preludio al diploma di «bambino cinese rispettoso». Uno studio rivela che gli studenti modello sono anche quelli con maggiore senso del dovere famigliare e predisposizione alla premura. Credere e obbedire: alla Cina, per ora, combattere non serve. Meglio stare buoni: nel nome del padre e del partito.

l’Unità 3.11.11
I miei durissimi 11 anni nei campi di concentramento
«Il veterano» Da oggi in libreria il diario del commerciante svizzero Carl Schrade, rimasto sepolto per 70 anni: un documento incredibile sulle atrocità subite dai prigionieri. Anticipiamo ampi stralci dal capitolo «Medicina illegale»
di Carl Schrade


L’ospedale dei detenuti è diretto da un medico civile «convenzionato» dalle SS, il dottor Heinz Schmitz. All’inizio, era sotto gli ordini del comandante medico SS Schnabel, ma in brevissimo tempo, grazie a intrighi e manovre di ogni tipo, il dottor Schmitz ha ottenuto da parte del comando del campo piena libertà di azione: non migliorando la sorte dei malati che gli erano affidati, ma esasperando i metodi più criminali di distruzione all’interno delle baracche dell’infermeria, e trascurando completamente l’igiene del campo, già così scarsa e penosa.
Al dottor Schnabel piaceva bere.
Quanto al dottor Schmitz, egli è un ubriacone raffinato, un esteta dell’alcol, un maniaco di tutto quello che inebria ed eccita. Mentre Schnabel rimaneva inoffensivo, Schmitz è estremamente pericoloso. Il suo vizio non lo indebolisce. Lo infiamma, lo stimola, e allora ogni cosa è permessa: chirurgo dotato di un vero talento, quest’uomo privo di ogni senso morale, che si avvale di un’intelligenza pronta e vivace, farà regnare nel Revier un clima di terrore e di follia. Si è sostenuto che lui stesso fosse un anormale; ci resta difficile crederlo, poiché la sua lucidità di spirito era notevole. Ingannarlo era un gioco pericoloso: vedeva tutto, sentiva tutto, indovinava prontamente e sapeva comandare.
(...) Nelle mie nuove funzioni, lavoro dalle sedici alle diciotto ore al giorno. Si comincia alle 4.30 del mattino. Si presentano i primi malati: hanno tutti la febbre alta, soffrono di dolori al ventre, ai reni, di reumatismi, di piaghe suppuranti, di mille altri mali acuti e gravi. Alcuni sono stanchi di camminare. I loro cantieri sono situati a 4 chilometri dal campo, e fanno questo tragitto ogni giorno da mesi. Tutti sono sfibrati e vorrebbero riposarsi, anche un solo giorno. Non posso rilasciare loro che un modulo con l’autorizzazione a presentarsi alla visita medica. Con questo pezzo di carta, i compagni malati si presentano ai loro capi di Block che li cancellano dal Kommando in cui lavorano. Poi aspettano il medico, all’aperto, con qualsiasi tempo: un uomo che lavora non ha diritto a nessun riguardo.
LE MEDICAZIONI
(...) Due volte a settimana, il mercoledì e il sabato, ci sono le sedute di «ambulanza» esterna, vale a dire le medicazioni. Solo due volte a settimana sfila in riga per cinque l’immenso corteo degli appestati e dei lebbrosi che vengono a farsi rinnovare sulle piaghe purulente la superficiale fasciatura... di carta. Ulcere varicose, flemmoni diffusi agli arti, ascessi, foruncoli, e quelle abominevoli piaghe di ogni tipo la cui bruttezza e il cui fetore ricordano le più antiche putrefazioni dei secoli andati. Spaventosa coorte d’uomini, che vengono a centinaia a battere come una fiumana gemente gli scalini dell’infermeria. L’estate possiamo effettuare queste sedute di medicazione all’aperto. Ma durante la cattiva stagione, bisogna lavorare in una saletta di trenta metri quadrati, dove si accalcano sessanta persone: i medici e gli infermieri, dieci in tutto, lavorano senza sosta per più di due ore. Dispongono di un’irrisoria quantità di prodotti, niente garze, nessuno strumento adeguato. Si calcola che se si vogliono far passare tutti, la medicazione di un malato può durare al massimo tre minuti. Le fasciature di carta ovviamente non hanno alcuna resistenza. Il pus e gli umori le trapassano in poco tempo. La pioggia, il fango, il sudore le rompono facilmente. È una presa in giro, uno scandalo far fasciare persone così infettate con un materiale di scarto.
È per questo che prendo l’iniziativa clandestina di far venire presto ogni sera i malati alla medicazione, in modo tale da poter lavare per bene le loro piaghe e da sostituire i bendaggi, che così tengono un po’ meglio. Insomma, ognuno alle spalle di Schmitz s’ingegna per fare un lavoro il più possibile appropriato e serio. Il consumo di bende di carta raggiunge ovviamente un livello elevato, ma grazie a Dio questo genere non ci viene contingentato.
Chi ha visto ogni sera queste penose colonne d’uomini sofferenti e claudicanti trascinarsi, sostenersi e portarsi l’uno con l’altro, tremanti in attesa davanti alla stretta porta dell’ambulatorio, supplicando che li si faccia entrare al più presto, a volte ahimè perfino picchiandosi per essere primi, chi ha disfatto quelle fasciature imbrattate e putride, pulito quel marciume, chi per ore e ore, giorno dopo giorno, mese dopo mese, ha tentato di arginare questo flusso di martiri e di moribondi pensando semplicemente che con un po’ di buona volontà, qualche medicamento supplementare, qualche misura umana, questo torrente di dolore e di lacrime poteva cessare, chi ha fatto questo non può guarire il proprio animo da un terribile sconforto, da un’amara disperazione. Sì, ho speso undici anni della mia vita, undici anni della mia giovinezza e delle mie forze fisiche e mentali in questi crogiuoli di abietta miseria, ma le prove e le sofferenze che ho sopportato personalmente non sono niente di fronte a questo infinito numero di morti, a questa piramide iniqua e mostruosa che precipita nelle fiamme, morti cinicamente voluti dal più criminale dei tiranni contemporanei e dal suo regime diabolico, la cui bestialità non conosce limiti...
Arriva la sera, sono sfinito nel corpo e nell’anima. L’orribile film della giornata scorre ancora davanti ai miei occhi. Mi stendo tutto vestito sulla mia cuccetta. Ascolto il rumore immenso, l’eco irreale dei lamenti e dei gemiti che si è appena spenta. Interrogo la mia coscienza: ho fatto tutto quello che occorreva? Ho dato tutto quello che era in mio potere? Abbiamo salvato esistenze che sono venute a trascinare le loro ultime forze ai nostri piedi? Non abbiamo lasciato scappare l’ultimo uomo esangue e afono che stanotte uscirà dal suo Block, titubante e perduto, per andarsi a buttare sul filo spinato, sulla corrente ad alta tensione, sotto le mitragliatrici delle torrette? È impossibile dormire, è impossibile anche mangiare. Passa la sentinella, fa scorrere la lama di luce della sua lampada sul mio viso, scuote la testa tristemente, mi augura qualcosa e se ne va: fantasma, ombra, nuvola d’uomo un tempo felice e libero. Sapremo un giorno ritrovare la gioia di vivere?

l’Unità 3.11.11
Gli invisibili della stazione di Milano
«Almanacco Guanda 2011» Pubblichiamo l’incipit di un racconto di Gianni Biondillo, da oggi in libreria con tanti altri testi scritti da Camilleri a Fois. Il tema di questo numero: «L’Italia è razzista? Dove porta la politica della paura»
di Gianni Biondillo


L’appuntamento è di fronte a una edicola che vende materiale pornografico a due passi dalla stazione. Non abito lontano da qui, se passa qualcuno che conosco mi sono giocato definitivamente ogni briciolo di credibilità. Tutta colpa di Cesare, un fotografo che da un po’ di tempo porta avanti un progetto semplice e geniale assieme: una mostra di fotografia sui senzatetto, i clochard della Stazione Centrale. Foto, pero, non fatte con l’occhio un po’ paternalista del professionista, ma scattate direttamente da loro, i senza fissa dimora. I barboni, insomma. Una volta tanto non solo soggetti ma anche autori di se stessi. Come si vedono, loro, «gli invisibili»? «Sono bravi» mi dice Cesare, ora che mi porta via dall’edicola e mi fa attraversare la strada, «bravi davvero» E pronti a dare lezione di dignità. La prima preoccupazione di Cesare era che non si vendessero le macchine fotografiche. Invece e andata a finire che ha dovuto trovare altre digitali perché la cosa ha talmente preso piede che ora c’è la fila. Tutti vogliono guardarsi attraverso l’obiettivo, dare una forma alle loro giornate infinite.
Entriamo nel sottopassaggio ferroviario di via Tonale. Le automobili ci sfrecciano accanto indifferenti, l’odore di smog chiude lo stomaco. Dalla galleria, quasi di nascosto dagli occhi dei bravi cittadini, entriamo nella sede di Sos Stazione Centrale, dove tutto è incominciato, grazie a Maurizio, un uomo che ha avuto più di una vita, più di un passato: musicista, tossicodipendente, simpatizzante di Prima Linea, mistico, carcerato. Da vent’anni è l’anima di questo centro di accoglienza. «In realtà è un club esclusivo» mi dice scherzando Maurizio. «Ce ne sono di tutti i tipi in città, non ne possono avere uno anche i barba di Milano?» Solo che sono generosi in questo club. Non chiedono tessere d’iscrizione, non chiedono carte d’identità. Non chiedono nulla, in realtà. Chiunque può entrare, sedersi, giocare a carte, senza dare spiegazioni. Sono solo in due, lui e Elisa, a gestire 120 persone al giorno che vengono qui, spesso senza alcun motivo apparente. Magari solo per sedersi, ché trovare un posto dove passare la giornata e sempre più difficile in città. Oppure vengono per ricaricare il cellulare, per fare il bucato, per consultare internet o per una partita a carte. Per non sentirsi soli. «Piano piano si crea un rapporto di fiducia, così si può parlare anche di cose più importanti, dal bisogno di un paio di scarpe a cercare, con calma, di dirimere i loro problemi: dalla perdita del lavoro alla perdita del senno dell’esistere».
E infatti alla spicciolata li vedo arrivare, ridono, scherzano, salutano, si siedono dove trovano posto. «Vieni con me» mi dice Maurizio. Attraversiamo un corridoio e mi porta in una piccola sala concerti dove chi vuole sale sul palchetto e suona. Appese al muro ci sono le foto fatte dai barboni. «Ho spiegato solo qualche dettaglio tecnico» mi dice Cesare. «Qualche trucco estetico, ma il resto è farina del loro sacco. Le guardo. Inquadrature mai banali, composizioni di qualità, per nulla amatoriali. Questi danno filo da torcere, gli dico, sfottendolo.
Nel frattempo Maurizio ha imbracciato una chitarra elettrica, alla batteria c’è Simon, un ragazzo bulgaro. Elisa prende in mano il microfono. Stanno provando un nuovo pezzo. Sulla loro testa una scritta: Bar Boon Band. Anche cantare, anche suonare fa parte del progetto di recupero a una vita normale, qualunque cosa significhi la normalità, qui, in questa stanza. In questa città, anzi. Con orgoglio Maurizio mi spiega che hanno già fatto concerti in giro, al teatro di Casale, ad esempio, un piccolo gioiello architettonico. Con loro suonano Abdul, un marocchino che dorme sui treni, poi Armando, il percussionista, e Irina, una tastierista ucraina. E il basso?, chiedo io. «Niente basso, lo stiamo cercando». Potrei propormi, in fondo non avevo voglia di tornare a suonare? «Una volta li ho portati sul palco di piazza Duomo, al concerto di Gigi D’Alessio». Me lo dice ridendo. «Abbiamo fatto una figuraccia, per inadeguatezza, certo, e anche perché eravamo un po’ puzzolenti, sai c’erano anche alcuni barba che erano settimane che non si lavavano...ma alla fine abbiamo strappato l’applauso».
Ad ascoltarli ora ci sono anche Antonello e Ina. Il primo e un piccoletto tutto nervi, abbronzatissimo. Ha un’aria simpatica, chiacchierando scopro che è di Carbonia. «Sono a Milano dal 2000 circa» mi dice «era settembre. Prima vivevo a Mandello del Lario». Ha una moglie, un figlio, un lavoro in una officina meccanica. E poi? «E poi mi sono separato, circa quindici anni fa. Il divorzio per me è stato liberatorio, la nostra storia era finita. La mia settimana lavorativa continuava, ma da venerdì sera a lunedì mattina ero senza fissa dimora. Lunedì tornavo, conciato da sbatter via, al lavoro. E così che ha conosciuto gli altri clochard della Stazione. Ha trovato una sua, impossibile ma coerente, dimensione. «Ho detto a mia moglie: tieniti la casa, il conto in banca, me ne vado. Mio figlio ora ha ventiquattro anni, ha la sua vita, ogni tanto lo sento, mi racconta le novità. Oppure mi chiama lui, sul cellulare, quando ha litigato con la madre...». Lasciamo Maurizio alle sue prove e andiamo a prenderci un caffè al bar del dopolavoro ferroviario. Sembra uscito da un film poliziottesco degli anni Settanta, anche i prezzi, in effetti, sono fermi a quella data. A parlare ora e Ina. «Con Antonello ci siamo conosciuti qua sopra» alza un dito proprio mentre sento lo sferragliare di un treno che ci passa sopra la testa. Mi racconta il loro incontro: lei seduta sulla panchina, sperduta, impaurita. Lui che passa e ripassa. «Poi si avvicina e mi dice: “Che ci fai qui? Non è vita per te questa” e mi ha portato giù al centro aiuto, per trovare un posto nel dormitorio di piazzale Lodi. La sera, accompagnandomi, mi ha raccontato tutta la sua vita».
Ina lavora in un ospedale. In strada e arrivata nel 2005, dopo una separazione difficile, un ex marito volatilizzato, cinque figli da mantenere, una depressione che l’ha piegata in due. «Ora sto bene. La strada, per assurdo, mi ha aiutato a tirar fuori gli artigli. Ero la prima a giudicare, da fuori non si riesce a capire che c’è un altro mondo, non è quello del ricco o del povero, e un’altra cosa: bisognerebbe provarlo, cosi si puo davvero capire».

l’Unità 3.11.11
Dieci anni senza lo spirito critico di Lucio Colletti
La parabola del filosofo dal marxismo eterodosso all’approdo in Forza Italia. L’ultima produzione segnata dal disincanto
di Gianni Borgna


Dieci anni fa moriva Lucio Colletti. Allievo di Galvano Della Volpe, aveva ereditato dal maestro il rifiuto di ogni provvidenzialismo. Anche il suo era un marxismo eterodosso, depurato da ogni idealismo e riconciliato con la scienza. L’esatto contrario di quello fin lì prevalente nella tradizione italiana (riassumibile nel famoso asse De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci). Fondamentali, al riguardo, restano opere come Il marxismo e Hegel (1969) e Ideologia e società (1969), quest’ultima contenente tra l’altro una confutazione radicale del pensiero di Herbert Marcuse, allora mito indiscusso di quel movimento del ’68 che egli non amò e da cui non fu amato.
Quando però Colletti si accorse che la dialettica, hegeliana come marxiana, si fondava non già su quelle che Kant aveva definito «opposizioni reali» (e ancor prima Aristotele «contrarietà») quanto sulle «contraddizioni» (che dovrebbero appartenere alla sola sfera della logica), anche il «suo» marxismo entrò in crisi. Fu nel saggio su Marxismo e dialettica che Colletti giunse a queste conclusioni, che mostravano come anche in Marx convivessero un lato scientifico e uno filosofico e speculativo. Detto altrimenti, anche il socialismo di Marx era tutt’altro che rigorosamente «scientifico». Il saggio uscì nel 1974 come appendice all’edizione italiana della celebre Intervista politico-filosofica, con la quale Laterza diede avvio a una fortunata collana editoriale. Le reazioni a sinistra non si fecero attendere.
INTELLETTUALI IN ITALIA
Il libro oltretutto usciva in un momento in cui, particolarmente in Italia, il marxismo manteneva una forte presa sugli intellettuali e il Partito Comunista (in cui lui aveva militato fino al 1964) era in grande ascesa. Ma Colletti aveva dalla sua più d’una ragione. Semmai si potrebbe affermare che la sua caratteristica, e forse paradossalmente il suo limite, fu di prendere Marx fin troppo alla lettera. Marx si riprometteva di far passare il socialismo dall’utopia alla scienza in polemica con i socialisti «utopisti», ma la sua era più che altro una dichiarazione programmatica. Colletti invece lavorò a espungere dal marxismo ogni tratto non scientifico, ma presto si avvide che anche in Marx convivevano scienza (le analisi di molte parti del Capitale) e ideologia (la previsione della fine del capitalismo e dell’avvento della società senza classi). Fu così che, come ha osservato Mario Tronti, il fallimento del «suo» marxismo portò Colletti a abbandonare anche il socialismo e a cambiare parte politica, fino all’approdo finale in Forza Italia.
IL RAPPORTO CON GRAMSCI
Ma il problema non era che Marx auspicasse la fine dello sfruttamento capitalistico, quanto che pensasse che si trattava di un obiettivo ineluttabile. Chi più di tutti lo aveva lucidamente compreso fu Antonio Gramsci, il Gramsci ancora imbevuto di filosofia idealistica che nel 1917 parlò della rivoluzione russa come di una rivoluzione contro il Capitale di Marx; la quale, contrariamente alle previsioni e agli auspici dei marxisti, aveva vinto proprio nel Paese europeo meno capitalisticamente sviluppato. Questo perché, come sempre Gramsci chiarì, in politica non si può prevedere «scientificamente» nulla, l’unica cosa che si può prevedere è la lotta, l’azione orientata a realizzare determinati fini.
L’attività rivoluzionaria non può pretendere di appoggiarsi alla scienza, così come nei conflitti di classe non è iscritto a priori alcun esito positivo. I comportamenti umani, aggiungo, sono imprevedibili e largamente irrazionali: l’uomo, prima e più che «faber» e «sapiens», è «demens» (nel senso che produce fantasmi, miti, credenze, ideologie, e vive largamente di questo).
Tronti, però, sbagliava ad affermare che «Lucio Colletti è stato un filosofo marxista, e poi più niente». In realtà Colletti continuò a scrivere e a produrre molti studi importanti, fino a quel Fine della filosofia (1996) che parve preludere a una nuova stagione del suo pensiero incentrata su Popper e sugli studi di filosofia della scienza e improntata a un lucido disincanto, che molto doveva a due autori da lui particolarmente amati, David Hume e Giacomo Leopardi

Repubblica 3.11.11
Intervista
Elisabeth Badinter
"Così il mito della modernità ha tolto potere alle donne"
La filosofa spiega perché anche il femminismo ha perso i suoi punti di riferimento
"Ha prevalso un naturalismo alla Rousseau rispetto alla politica e alla cultura"
"Siamo alla fine della rivoluzione del ´68, ma il progressivo trionfo del desiderio è giunto a una soglia pericolosa"


PARIGI. Saggista e filosofa francese, Elisabeth Badinter è una femminista sui generis, quanto mai libera nei giudizi. Spesso e volentieri controcorrente. Ha combattuto le sue battaglie sulla scia delle posizioni di Simone de Beauvoir, ma con altrettanto vigore ha polemizzato con un certo femminismo di matrice americana, sorto negli anni Ottanta del secolo scorso e poi trapiantato in Francia, che abbandonando l´universalismo e la rivendicazione di pari diritti, si è rinserrato in una posizione sessista, separatista e "naturalista". In cui la diversità femminile si rappresenta nella figura della madre.
Autrice di non meno importanti studi sull´Illuminismo, la Badinter può sicuramente offrirci un "altro sguardo" sulla figura dell´autorità. Mi accoglie nel salotto della sua bellissima casa affacciata sul Jardin de Luxembourg, offrendomi una bottiglietta di Perrier, che con le sue bollicine farà da discreto basso continuo alla nostra conversazione.
«Viviamo ancora nell´onda lunga del Sessantotto, che ha portato un formidabile attacco all´idea di autorità, e di legge. A tutto vantaggio della soddisfazione del desiderio e della pulsione, declinati nelle più diverse forme. Ora siamo alla fine di quella rivoluzione, di cui non sottovaluto affatto i benefici effetti. Abbiamo aperto porte e finestre ed è andata bene così. Tra parentesi, mi sono via via convinta che questo attacco frontale all´autoritarismo sia tra le cause dell´allungamento medio della vita. Assieme, è ovvio, agli enormi progressi in ambito medico, scientifico, igienico, alimentare. Lo penso perché ha determinato una sorta di liberazione psicologica: tanto per le donne, che non dovevano più attenersi ai modelli tradizionali di femminilità, quanto per i maschi, che non dovevano più conformarsi ai vecchi modelli di virilità. Per contro, è altrettanto evidente che questo progressivo trionfo del desiderio, ha raggiunto ormai una soglia molto pericolosa. È arrivato il momento di porre dei limiti, di tornare al rispetto della legge. Siamo davvero ai bordi della barbarie».
Ma il rispetto della legge non si ottiene proprio quando si riconosce l´autorità?
«E qui cominciano i guai. Vede, i nostri genitori esercitavano un´autorità, come dire, "naturale"; la loro parola non era messa in discussione. Poi è successo quel che successo, con il ´68 per l´appunto. E i genitori si sono trovati disarmati di fronte ai loro figli. I padri e le madri si sono trasformati in fratelli e sorelle. Di più. Identificandosi con i figli, non hanno avuto più cuore di punirli, perché è come se punissero se stessi. E in tutto questo ha giocato un ruolo quanto mai negativo una certa pedagogia e una certa volgarizzazione della psicoanalisi, che hanno insistito talmente tanto sui traumi infantili e sui rischi nevrotici della frustrazione, da rendere ripugnante l´idea della punizione e della sanzione. Sia in ambito familiare che in ambito scolastico. Il risultato è che molti bambini e adolescenti di oggi sono diventati dei piccoli selvaggi».
Lei come definirebbe la figura dell´autorità?
«Le posso parlare dalla mia esperienza personale. Ho insegnato per trentotto anni. E so che un buon docente deve avere personalità, un briciolo di carisma, ma anche polso. Perché c´è un momento in cui la discussione cessa e le cose vanno fatte: punto e basta. Dunque, potremmo anche provare a definire l´autorità in negativo, quando viene a mancare. Perché se non ci si sottomette più di buon grado alla norma, prima o poi si arriva necessariamente a forme di costrizione. E si affaccia il rischio della violenza autoritaria. Questo è il passaggio stretto che stiamo attraversando».
Il punto di vista femminile, in quanto tale, ci può aiutare a ridefinire un nuovo modello di autorità?
«Sin qui no, perché i modelli culturali femminili sono stati improntati al sentimento, alla fusione, alla vicinanza. Mentre le caratteristiche proprie dell´autorità sono la distanza e il ritegno».
E il femminismo, in tal senso, che ruolo ha giocato?
«Ha sempre attaccato l´autorità, come emblema della dominazione maschile. Non senza buone ragioni storiche, naturalmente. Poi le cose si sono ulteriormente complicate con il neo-femminismo americano di marca naturalista, che mette la donna a fianco del bambino e contro il padre. La donna, in questa accezione, viene presentata come una vittima, disarmata al pari di un infante di fronte alla violenza maschile».
Lei è molto dura contro queste posizioni teoriche.
«Lo sono perché mi sembrano reazionarie e oggettivamente regressive, tutte tese a cancellare le battaglie universaliste di un tempo. Se la donna diventa uguale all´uomo, sostengono le esponenti di questa tendenza, si tradisce la femminilità. E invece è proprio dall´esaltazione della femminilità, dalla sua costitutiva differenza, che bisogna partire. Da qui la nuova centralità attribuita alla figura della madre, perché è la capacità di procreare che conferisce alla donna la sua generosità e superiorità morale. Si ripropone così una separatezza naturale che da un lato vede un uomo immancabilmente aggressivo, violento, sopraffattore, e dall´altro una donna sempre fragile, attenta, accogliente. Ma la generalizzazione in due blocchi contrapposti, gli uomini e le donne, non porta da nessuna parte. Riconduce nella trappola dell´essenzialismo e non risponde a verità».
E in Francia, questo nuovo femminismo, ha finito per prevalere?
«Non è facile rispondere. Sicuramente ha conquistato molte posizioni. Siamo nel pieno di una gravissima crisi economica e tanto per cambiare le donne sono le prime a pagare, con l´estromissione dal mondo del lavoro. Ma come reagiscono tante giovani di fronte a tutto questo? Legando il loro destino al mito dell´istinto materno. Quasi che la loro partita si giochi unicamente su quel terreno».
Se ho ben capito, il paradosso di questo neofemminismo è che, per quanto mosso da intenti radicali, finisce per ricondurre le donne negli antichi ghetti.
«Proprio così. Non so quante di queste femministe ne siano consapevoli, ma ripropongono tal quale il modello di Rousseau. Fino alla pubblicazione dell´Émile, le donne francesi erano molto libere riguardo alla maternità. Anche in provincia, o nelle classi sociali più umili. Poi arriva Rousseau e afferma che bisogna tornare alla natura, perché lì sta la saggezza. E la gloria della donna dove si manifesta? Nella maternità, naturalmente. L´adesione femminile a quel modello si fa immediata, impressionante. Con il bel risultato che gli uomini della Rivoluzione francese penseranno bene di recludere in casa le donne. A vivere la loro gloria, solo e soltanto in quanto mamme».
A ben vedere, questo neo-naturalismo è un modo ulteriore di eludere la questione dell´autorità.
«Certo che sì. Perché privilegia la legge della natura rispetto a quelle della politica e della cultura. Diventa una sorta di religione, e partorisce una rappresentazione della donna che rischia di portarci molto indietro».
Si potrebbe obiettare che proprio l´estraneità ultrasecolare delle donne dai luoghi di potere, le investa di una capacità diversa e migliore di esercitarlo. E analogo discorso si potrebbe fare a proposito dell´autorità.
«Sa perché non ho mai creduto alla logica delle quote? Perché le donne che ho visto all´opera nei luoghi di potere sono esattamente come gli uomini. Per una semplicissima ragione: il potere non ha sesso. Così come non ha sesso l´autorità, sulla cui figura vorrei spendere un´ultima parola. Forse oggi è tanto più difficile individuarla, perché l´autorità ha bisogno di segreto e distanza. E oggi sono scomparsi sia l´uno che l´altra. Senza contare che una persona autorevole, per essere tale, deve essere capace di dire no. Ma quanto è diventato difficile pronunciare quella paroletta, in un mondo come il nostro, letteralmente ossessionato dal consenso».

Corriere della Sera 3.11.11
Quelle archistar alla corte dei dittatori
Palazzi faraonici in Kazakhstan, ad Abu Dhabi e Pechino: arte o puro business?
di Paolo Valentino


Il nuovissimo quartier generale della televisione di Stato cinese domina e nobilita lo skyline di Pechino. Il grattacielo sghembo, torto e ripiegato su se stesso, disegnato dall'olandese Ole Scheeren, partner dell'architetto cult Rem Koolhaas nello studio Oma, è già entrato di diritto tra i grandi edifici del Terzo Millennio.
Ad Astana, capitale del Kazakhstan, la città costruita dal nulla nella steppa asiatica, a marchiare il paesaggio urbano è la forma piramidale che Lord Norman Foster, già ideatore della cupola del Reichstag di Berlino, ha dato al Palazzo della Pace e della Riconciliazione.
Entro il 2012, verrà completato il Louvre di Abu Dhabi, un progetto pensato dal francese Jean Nouvel, parte del complesso culturale di Saadiyat Island, dove saranno impegnati anche l'americano Frank Gehry, padre del Guggenheim di Bilbao, e l'anglo-irachena Zaha Hadid, celebre in Italia per il Maxxi di Roma.
Cosa lega queste opere architettoniche, oltre a essere firmate ognuna da altrettante stelle della disciplina, o come vuole il neologismo da archistar? Sono tutte costruite in Paesi autoritari o nel migliore dei casi autocratici. Sono tutte cioè frutto della volontà di auto-rappresentazione di un regime o di un leader, che con la democrazia hanno poco o nulla a che fare. E non sono eccezioni, ma gli esempi più emblematici di una sorta di corsa all'Est, che negli ultimi anni ha visto schiere di studi d'architettura occidentali gettarsi a capofitto nei cantieri delle arrembanti potenze economiche d'Oriente.
Proprio per questa ragione si trovano al centro di polemiche e controversie, corni di un dibattito antico e millenario, ma in questi mesi riacceso da nuovo vigore e punte inedite di virulenza polemica.
È giusto progettare il tempio dell'informazione televisiva, per conto di un Paese che trova nella censura uno dei pilastri della sua stabilità? O edificare un luogo dedicato alla «pace e alla convivenza tra i popoli» a maggior gloria di Nursultan Nazarbayev, cacicco dell'ultimo Politburo dell'Urss, presidente che viene eletto col 92% dei voti e guida un Parlamento composto di soli deputati del suo partito? E ancora, non sarebbe il caso di porsi un problema etico, di fronte all'abuso di migliaia di lavoratori immigrati, sottopagati e tenuti in condizioni subumane, che è pratica comune nei cantieri edili degli Emirati del Golfo?
Francesco Dal Co, direttore di Casabella, non nega l'«esistenza di un problema morale», ma allarga il campo. «Da Giustiniano ai Papi, ai principi del Rinascimento, tutta la storia dell'architettura è stata scritta da opere edificate a maggior gloria del committente. Leon Battista Alberti diceva che ogni lavoro architettonico è "figlio di un padre e di una madre". Appunto, l'architetto e il principe». Con una differenza sostanziale, che gli edifici sfidano i secoli e gli autocrati passano: «Il problema per un architetto è concepire cose in grado di sopravvivere alla celebrazione di un potere contingente: nel rapporto critico col grande committente, un grande artista cerca la sua vera libertà. Quello che non avviene nel caso di Albert Speer e Hitler, dove l'architetto annulla ogni ricerca di libertà e accetta con la sua opera di dover rendere eterno il regime». Detto questo, Dal Co ammette che avrebbe «molti dubbi a progettare per un dittatore».
«L'architettura racconta una storia, è rappresentazione di una civiltà e di una comunità — dice Renzo Piano — e dove c'è un regime autoritario non c'è civiltà». Probabilmente il più cosmopolita dei grandi architetti contemporanei, Piano rifiuta ogni facile moralismo, ma dice semplicemente: «Avrei serie difficoltà ad accettare di raccontare una storia che non mi piace».
Alcuni architetti si sono dati una carta dei princìpi. È il caso di Richard Rogers, che proprio con Piano firmò negli anni settanta il Centre Pompidou a Parigi, ormai un'icona culturale della capitale francese. Il suo studio, Rogers Stirk Harbour + Partners, accetta solo lavori che portino un beneficio alla società, rifiuta ogni incarico da istituzioni militari o collegato a potenziali danni all'ambiente, come una centrale nucleare e valuta preventivamente le condizioni democratiche del Paese dove dovrebbe lavorare. Di recente ha declinato un'offerta per costruire un Tribunale in Arabia Saudita.
Certo, c'è progetto e progetto. «Progettare una scuola in Cina è probabilmente diverso che progettarvi il ministero della Propaganda», dice l'architetto newyorkese Michael Sorkin. «È una differenza sottile, che può mettere a posto la coscienza personale», chiosa Vittorio Gregotti, che in Cina ha lavorato per molti anni, ma mai per opere celebrative. «La cosa fondamentale però — dice il decano del modernismo italiano — è avere un rapporto critico con la realtà, una distanza dallo stato delle cose. Quello che purtroppo spesso manca proprio a tante archistar, impegnate a inseguire le mode, celebrare il marketing, teorizzare l'anti-città».
Il punto è se esista un'architettura impermeabile all'autoritarismo, dal momento che ogni edilizia pubblica celebra un uso collettivo e inevitabilmente chi lo realizza. Dopotutto, l'architettura pubblica in un regime autoritario è l'espressione fisica di una particolare nozione d'ordine, il messaggio più chiaro di come quel potere intende essere percepito.
Con voluto intento provocatorio, l'architetto milanese Mauro Galantino risponde positivamente, indicando ad esempio della possibilità di fare architettura anche in assenza di democrazia, la Casa del Fascio di Como, «opera del fascistissimo» Giuseppe Terragni: «L'architettura anti-autoritaria trasfigura la tradizione rendendola non manipolabile per la propaganda. Nella casa di Terragni, luogo, tradizione e spazio collettivo sono talmente equilibrati ed espressi con uno stile anti-figurativo da poter passare senza colpo ferire da un regime a una democrazia ed essere difesi, come fu il caso, da Bruno Zevi, esponente del Cln, che salvò l'edificio per il suo assoluto valore artistico».
Refrattaria al totalitarismo è insomma «l'architettura, che costruisce le sedi del potere con gli stessi mezzi espressivi con cui fa le case popolari». E qui Galantino rovescia l'onere della prova, con un altro genere di j'accuse alle archistar. Non tanto colpevoli di lavorare per i dittatori, quanto di «costruire cattedrali al nulla per clienti democratici, usando un'architettura dittatoriale, enfatica e celebrativa, basata sul gigantismo immotivato, che non può essere ripetuta per una casa popolare, un asilo, una chiesa di quartiere». Colpevoli, detto altrimenti, di «sostituire lo stupore all'emozione».

Repubblica 3.11.11
Aperta, leggera, gioiosa: io sogno la città-piazza
intervista a Renzo Piano


Renzo Piano, nella primavera del 2006 ci siamo visti all´inaugurazione dei cantieri per il progetto sull´ex area Falck di Sesto San Giovanni. Sono passati duemila giorni, in questo tempo lei ha quasi finito a Londra nell´area dismessa della Ferrovia a London Bridge Station la più alta torre d´Europa, ricostruito un pezzo di New York intorno alla nuova sede della Columbia University, e lavorato a un´altra mezza dozzina di progetti in giro per il mondo. Il cantiere di Sesto è rimasto fermo a quel giorno, bloccato da scandali, inchieste e fallimenti. Non è questa una vicenda esemplare del declino italiano?
«Lo è di sicuro. Lavorare in Italia significa anche questo, è spesso frustrante, difficile e perfino pericoloso. Ma d´altra parte è esaltante, perché l´Italia è l´Italia, le nostre città sono straordinarie. Ora che finalmente il progetto di Sesto riparte, l´entusiasmo, il fascino della scommessa di poter costruire qualcosa di diverso alle porte di Milano vince su tutto».
Il progetto era ed è molto bello, una città sostenibile e leggera, in qualche modo la smentita alla pessima ricostruzione delle aree industriali fatta intorno a Milano in questi anni. Ma non ha paura di inciampare in altre brutte storie? Insomma, a uno come Renzo Piano chi glielo fa fare di correre il rischio italiano?
«Mi fido del sindaco di Sesto, Giorgio Oldrini, che ha deciso la riapertura dei cantieri. Certo, ti fa male sentir parlare di un "sistema Sesto" come sinonimo di corruzione politica e speculazione edilizia. Leggere quelle intercettazioni orribili. Io ho fatto l´università a Milano intorno al fatidico ´68 e per noi Sesto San Giovanni era un mito, la Stalingrado d´Italia, la cittadella della classe operaia, il primo grande insediamento industriale della nostra storia. è un luogo che ho nel cuore. Sono ripartito dall´idea di Sesto come laboratorio sociale e della modernità, dove sono partite le grandi lotte operaie, dove si costruivano aerei meravigliosi quando l´aeronautica italiana era all´avanguardia nel mondo. La nuova Sesto dovrebbe essere una piccola utopia, trasparente, sostenibile, aperta, immersa in un parco grande come il parco Sempione, a impatto zero, anche grazie alla consulenza scientifica di Carlo Rubbia. La prima città concepita per il Ventunesimo secolo, così come la vecchia Sesto era stata la prima vera città novecentesca. Senza per questo stravolgere una storia gloriosa, anzi. Con l´Unesco stiamo discutendo di trasformare parte delle vecchie fabbriche di Sesto in patrimonio dell´umanità».
Ma, in generale, è possibile mettere mano alle nostre città? Si ha l´impressione che tutta la spinta si esaurisca nel momento dell´annuncio. Che fine hanno fatto i meravigliosi progetti di cui abbiamo sentito parlare in questi anni e dove i politici di turno hanno speso il nome di Renzo Piano? Parlo dei parchi di Milano, il quartiere Flaminio a Roma, il nuovo fronte del porto a Genova… Dobbiamo aspettare una vigilia elettorale?
«Il progetto del Waterfront a Genova era un regalo fatto alla mia città, quasi un sogno. Costruire sull´acqua è una mia vecchia idea e ora comincia a essere piuttosto di moda. Il nuovo centro culturale Botin di Santander, per esempio, ha i piedi nell´acqua. Aprire verso il mare sarebbe l´unica soluzione per liberare la mia città, farla respirare, ma non mi illudo sui tempi. A Milano l´idea dei novantamila alberi non era neppure mia, ma di Claudio Abbado. Le città hanno bisogno disperato di verde e piantare alberi a Milano è facilissimo, crescono in fretta. Ma c´è sempre qualcuno pronto a spiegarti che non si può fare. è andata male con i novantamila alberi di Milano, speriamo nei novemila alberi di Sesto San Giovanni».
E il progetto del Flaminio, vicino all´Auditorium di Roma?
«è una bella scommessa anche quella. Il successo dell´Auditorium permette di ripensare tutto il quartiere. In fondo per me è un tornare alle origini, al Beaubourg. è la stessa cosa, animare un pezzo di città dimenticato a partire da un luogo di cultura. Naturalmente bisogna vedere se esiste davvero la volontà di farlo. Diciamo che parlare con Pompidou o con il sindaco Bloomberg è meno complicato che capire le reali intenzioni dei nostri politici».
I suoi lavori nelle grandi città, dal Beaubourg all´Auditorium, dal porto antico di Genova a Potsdamer Platz, sono diversi per tecniche, ma ispirano lo stesso sentimento, una specie di allegria urbana, che è la chiave del successo popolare. Come la si ottiene?
«Penso sempre che questo sia lo scopo, far stare bene la gente, e non lasciare solo un segno, una griffe su un luogo. Uno dei problemi delle nostre città, non soltanto le italiane, non è tanto la bellezza quanto appunto la gioiosità. Non si sono imbruttite poi tanto, ma si sono intristite. Esistono alcuni modi, certo, a partire dall´uso dei materiali, dei colori, delle trasparenze. è fondamentale l´acqua, rende le città più belle, raddoppia le immagini. Venezia è bella perché è unica e perché c´è l´acqua. Ma alla fine il tratto più importante non è estetico, piuttosto etico. Bisogna costruire per far incontrare e non per dividere. La felicità di un luogo, di una città, sta nel creare incontri, nell´aprirsi agli altri. Quello che ha intristito le città e la società in generale è l´uso politico della paura. Questo è deprimente ovunque, ma in particolare in Italia. Siamo il Paese che ha inventato la piazza, la città aperta. è in quest´arte di mischiare esperienze diverse la vera natura italiana».

La Stampa 3.11.11
Quei due Picasso che nessuno vuole
Il flop dell’asta di martedì sera di Christie’s Il 40 per cento delle opere rispedito al mittente
di Paolo Mastrolilli


Invenduto «Tête de Femme au Chapeau Mauve» di Picasso
La scultura di Degas «Petite danseuse de quatorze ans»

Quando anche Picasso, Degas, Giacometti e Matisse restano invenduti, viene naturale chiedersi se pure il mercato dell’arte sta crollando. La risposta degli specialisti è duplice: è vero che Christie’s ha commesso i suoi errori, nella deludente asta di martedì sera a New York, ma è anche vero che la crisi economica sta rendendo molto più prudenti i collezionisti.
Quella del Rockfeller Center era stata presentata come una serata eccezionale, forse anche troppo. Andavano all’asta 82 opere, che secondo le stime fatte in estate da Christie’s dovevano portare tra i 211,9 e i 304,4 milioni di dollari. Nel catalogo, tra gli altri, c’erano Picasso, Degas, Giacometti, Matisse, Magritte, Modigliani, Brancusi: quasi un museo, in poche parole. Era lecito, dunque, aspettarsi dei risultati all’altezza.
Alla fine della serata, però, 31 opere, cioè il 38% di quelle presentate, non avevano trovato un proprietario, consentendo a Christie’s di incassare «solo» 140,8 milioni di dollari. Peggio di così, in tempi recenti, era andata solo con l’asta del 6 novembre del 2008, sette settimane dopo il fallimento di Lehman Brothers, quando l’inizio della grande crisi economica aveva lasciato invenduto il 44% delle opere.
La principale delusione è venuta proprio dal pezzo più pregiato, almeno secondo le stime di Christie’s, cioé la «Petite danseuse de quatorze ans» di Edgar Degas, una scultura in bronzo da cui la casa pensava di poter ricavare fino a 35 milioni di dollari. È stata ritirata dopo un paio di offerte che non erano andate sopra i 18 milioni. Nessuno poi ha voluto la «Femme de Venise VII» di Giacometti, così come due dipinti di Picasso, «Tête de Femme au Chapeau Mauve» e «Femme Endormie», che ritraggono due amanti dell’artista spagnolo e dovevano costare tra 12 e 18 milioni di dollari. Anche «La robe violette» di Matisse e «La Lecon» di Renoir sono rimasti sul tavolo.
Un’eccezione positiva è stata l’asta per «The Stolen Mirror» del surrealista Max Ernst, che con 16,3 milioni è andato ben oltre le aspettative, mentre «La Femme qui Pleure» di Picasso è stata venduta per il doppio delle stime della vigilia. L’unico vero momento drammatico, però, c’è stato quando il gallerista Larry Gagosian e la rappresentante a Mosca di Christie’s, Sandra Nedvetskaia si sono litigati un bronzo di Brancusi, «Le premier cri», finito poi in Russia per 14,8 milioni di dollari.
Stiamo parlando di cifre che fanno uscire gli occhi alle persone normali, costrette a centellinare le uscite per mangiare una pizza ai tempi della crisi. Mettendo le cose in prospettiva, però, per il mondo dell’arte la serata di martedì è stata una specie di disastro. Christie’s si è assunta una parte di responsabilità, ammettendo che le stime di partenza erano «troppo aggressive». Qualche pezzo poi, come una scultura di Giacometti, aveva già girato troppo nel mercato privato senza trovare acquirenti. Infine il successo di Ernst, come quello dell’altro surrealista Paul Delvaux con «The Hands», dimostra che c’è anche un problema di gusti: si riesce ancora a vendere bene, se vengono offerte le cose giuste nel modo giusto.
Non c’è dubbio, però, che tanta prudenza viene anche dalla crisi: «Questa ha commentato il dealer londinese James Roundell era un’asta troppo grande perché il mercato la potesse digerire. L’incertezza economica ha avuto sicuramente un effetto». Anche i ricchi, di questi tempi, sono costretti a farsi i conti in tasca, quando vogliono investire o semplicemente togliersi uno sfizio.

Repubblica 3.11.11
In Italia il 50% degli adulti non possiede un computer, né sa usare le mail. Ecco la fotografia di un Paese che non conosce la grammatica del futuro
di Maria Novella De Luca


Quasi il 50 per cento degli adulti non possiede un pc né utilizza la Rete, non sa mandare una mail o pagare un bollettino online. Un dato enorme se paragonato agli Stati Uniti e al resto d´Europa. Ma per fortuna tra i ragazzi sotto i 20 anni le proporzioni si invertono, e i "nativi digitali" sono perfettamente in linea con le competenze tecnologiche dei loro coetanei stranieri
"Scontiamo un forte ritardo nelle infrastrutture, ma anche resistenze culturali"
Problema non solo generazionale: la categoria meno "connessa" è quella delle donne
I più giovani svolgono un ruolo di supplenza: sono loro a insegnare a padri e nonni

Non sanno mandare una e-mail, né fare una ricerca su Google, non prenotano viaggi né tantomeno utilizzano l´home banking. Non sanno scaricare un modulo né riempirlo online, non frequentano l´e-commerce né i siti degli enti e degli uffici, ignorano Skype e Wikipedia, e se proprio devono consultare Internet (o magari compilare il Censimento) chiedono aiuto ai figli adolescenti o addirittura bambini. C´è un pezzo d´Italia adulta, over 40, trasversale alle regioni e alla geografia, agli studi e alle professioni, più femminile che maschile, che non sa più "né leggere né scrivere". Non conosce cioè il nuovo alfabeto digitale della vita quotidiana, e rischia in pochi anni (cinque, dieci al massimo, dicono gli esperti di nuovi linguaggi e nuovi media) di essere espulsa non solo dall´universo del sapere, quanto dall´accesso ormai sempre più online delle funzioni di ogni giorno.
Si chiama "analfabetismo digitale", ed è uno dei tre analfabetismi censiti dall´Ocse per descrivere chi oggi, nel primo come nel quarto mondo, è a rischio di emarginazione per mancanza di competenze. Un rischio ben presente nel nostro paese, dove gli analfabeti "totali" ormai non sono più dell´1,5% della popolazione, ma dove quasi il 50% degli italiani adulti non possiede un computer né utilizza Internet. Un dato enorme se paragonato al resto d´Europa e soprattutto agli Stati Uniti. Se però i genitori e i nonni arrancano, e ci pongono agli ultimi posti per "connessioni" alla Rete, è invece dai piccoli e piccolissimi che arriva la spinta opposta, in avanti, con ritmi quasi travolgenti: i digital kids made in Italy ma anche immigrati, nella fascia d´età che va dai 6 ai 10 anni, e soprattutto dagli 11 ai 17 anni, corrono velocissimi, apprendono da soli, sperimentano, conoscono e governano Internet esattamente come gli adolescenti di tutto il mondo cablato, stesse opportunità e stessi rischi inclusi. Una rivoluzione al contrario, dal basso verso l´alto, ma così accelerata da far temere che tra breve nella stessa famiglia e tra più generazioni si parleranno linguaggi sideralmente lontani.
Un po´ come avvenne negli anni del primo dopoguerra e dell´alfabetizzazione di massa, in cui furono i bambini che imparavano l´italiano a scuola ad insegnare a leggere e a scrivere ai nonni, i quali parlavano dialetti ormai incomprensibili ai nipoti, come ha ricordato un recente convegno a Torino dedicato ai nuovi analfabetismi e al maestro Manzi di "Non è mai troppo tardi". E infatti la presenza di pc è sensibilmente più alta nelle famiglie dove ci sono bambini e ragazzi, il 68,1% contro il 54,9%.
«Ma rispetto ad allora spiega Paolo Ferri, docente di Teorie e tecniche dei Nuovi Media all´università Bicocca di Milano e autore del saggio "Nativi digitali" il tempo dell´apprendere per non restare tagliati fuori dalla vita di tutti i giorni, si è drasticamente accorciato. Nel giro di 5, al massimo 10 anni, non avere la connessione ad Internet, non saperlo usare, porterà ad una frattura radicale tra chi potrà avere accesso al lavoro e chi no, ai concorsi, all´università, ma anche al semplice destreggiarsi tra un bollettino da pagare e una visita medica da prenotare. E se sono diversi i tempi e i modi, oggi come ieri ci troviamo di fronte al problema di alfabetizzare una popolazione adulta, nell´assenza totale, da parte delle istituzioni, di una agenda digitale». In una fascia d´età strategica, quella tra i 45 e i 54 anni in cui si è nel pieno della vita produttiva, nel nostro paese soltanto il 53,0% degli italiani (dati Istat 2010) afferma di conoscere la Rete, e soltanto il 55,9% possiede un computer a casa. E il problema è più femminile che maschile, sono soprattutto le donne che non lavorano ad avere pochissime conoscenze tecnologiche. Nella stessa classe anagrafica negli Stati Uniti la connessione è invece dell´83%, e anche salendo con gli anni verso quella terza età dove i nipoti insegnano ai nonni i giochi e i trucchi del web, le connessioni Usa degli over 70 raggiungono il 45% contro il 12% dell´Italia.
«Ho imparato ad usare il computer grazie a mia nipote e ad un corso in parrocchia confessa Adele, 74 anni per poter leggere le mail di mio figlio che vive in Brasile e vedere sempre aggiornate le foto della sua famiglia. Poi però ho utilizzato queste nuove competenze per navigare, come dicono i ragazzi, e adesso partecipo a diversi forum e leggo le notizie».
«Noi scontiamo un forte ritardo nelle infrastrutture, nella diffusione della banda larga, ma anche una resistenza culturale. Quegli stessi adulti così restii ad usare un pc vivono invece incollati al telefonino aggiunge Ferri basti pensare che in Italia ci sono 150 milioni di sim card attive. Certo, c´è anche chi pensa che questa dipendenza dalla Rete sia dannosa, che se ne possa fare a meno, che comprima le capacità di apprendimento dei bambini. In realtà i digital kids hanno imparato perfettamente a far convivere il mondo analogico con quello digitale, e i dati Ocse-Pisa dimostrano come i bambini con accesso alle tecnologie siano 50 punti più avanti, nel rendimento scolastico, dei coetanei che non le utilizzano». E l´elemento da sottolineare è che il divario tecnologico riguarda le generazioni e non le "razze", come si legge nel saggio "Profilo degli adolescenti immigrati di seconda generazione", pubblicato dal Cnel nella primavera scorsa. Tra i 15 e i 17 anni circa il 90% di questi adolescenti arrivati in Italia nella primissima infanzia, utilizza Internet con percentuali identiche a quelle dei ragazzi italiani. Ed è bella la testimonianza di Roxana, 40 anni, peruviana, badante e madre di una teenager: «Mia figlia adesso è in Italia, siamo state dieci anni lontane. È venuta per studiare: la prima cosa che ho fatto mettendo insieme due stipendi è stata quella di comprarle un computer. Così adesso mi insegnerà anche a parlare via Internet con i nostri parenti in Perù».
Certo, si può diventare schiavi del mezzo, come avverte con severità Benedetto Vertecchi, e il primo linguaggio «deve essere sempre e solo quello alfabetico, simbolico, concettuale, altrimenti non si impara a pensare, altrimenti avremo una generazione che usa più le dita che la testa». Che senso ha, si chiede Benedetto Vertecchi, «mettere le lavagne interattive nelle classi e poi smantellare i laboratori di fisica e di chimica, o regalare un computer ad un bambino di 5 anni e poi non digitalizzare le biblioteche?». La discussione è aperta. Ed è giusto non enfatizzare i presunti saperi tecnologici, se poi, come scrive il fisico Paolo Magrassi nel divertente libro "Digitalmente confusi", (FrancoAngeli), buona parte di quei saperi servono per «scaricare filmati da youtube, youporn o redtube», o magari per connettersi e cercare amici su Facebook, insomma per pura evasione, andando poi a far la fila alla posta per pagare i bollettini o le tasse, ignorando quindi i vantaggi della vita online.
Tutto vero, ma in realtà, aggiunge Massimo Arcangeli, direttore dell´Osservatorio della lingua italiana Zanichelli, «il problema per una volta non è dei giovani che stanno riorganizzandosi su modelli cognitivi nuovi, con una trasformazione inarrestabile, una grammatica nuova, ma degli adulti, della loro fatica ad imparare, della loro resistenza ai nuovi linguaggi». Perché se il rischio dei digital kids è quello di strutturare menti «più sintetiche che analitiche, e di avere una memoria troppo breve e immediata, è vero anche che il loro approccio al sapere oggi viaggia su connessioni diverse, inedite, e non è più possibile parlare di queste competenze come di una cultura di serie B». Ma al di là del giudizio sulla "conoscenza", il tema è assai più concreto. Per coloro che oggi sono fuori dal world-wide web, per quel 47% di over cinquantenni che non frequenta né utilizza la Rete, dice Arcangeli «se non si trova un canale di alfabetizzazione di massa, attraverso la televisione, attraverso i corsi serali, proprio sul modello di quel famoso "Non è mai troppo tardi", il rischio concreto è quello di ritrovarsi in una manciata di anni ai margini della società».

Repubblica 3.11.11
Federico Morello, studente di 16 anni, sta per lanciare il progetto "Panedigitale"
"È la grammatica del futuro chi non la conosce sarà escluso"
di Riccardo Luna


A tredici anni Federico Morello ha scritto la prima lettera al sindaco del suo paese, Lestans, una frazione di Sequals, e gli ha chiesto la banda larga. A quattordici le lettere al sindaco erano ormai una mezza dozzina, la banda per navigare Internet era sempre stretta e lui ha fondato l´associazione Friuli Anti Digital Divide. A quindici il sindaco ha capitolato e Morello ha suggerito un modo (l´hyperlan) per collegare alla rete il suo paese e alcuni limitrofi con un costo irrisorio (meno di diecimila euro in tutto). Ora Federico Morello ha sedici anni, la mattina va a scuola al liceo scientifico Marinelli di Udine e il pomeriggio si occupa di "Panedigitale", l´iniziativa che sta per lanciare.
Come hai scoperto la Rete?
«Quasi per caso. Avevo sei anni. C´era un computer di mio zio, a casa dei nonni, dove trafficavo: lì c´erano le impostazioni per connettersi con un modem. Ma non c´era la rete. Appena ho realizzato che il portatile di mamma si poteva collegare al telefono mi sono collegato».
Perché per te il digitale è importante come il pane?
«Mi piace l´idea del pane quotidiano, che ricorda la preghiera del Padre Nostro. Dacci il pane quotidiano e una connessione a banda larga veloce. Sono convinto della necessità che ha questo paese di far diventare Internet e il digitale in genere una abitudine quotidiana e non una cosa per una nicchia. C´è un problema di banda larga che manca in certe aree del paese: e poi ci sono quelli che non hanno mai usato Internet pur potendo».
Perché?
«Chi sceglie di non usare la Rete è un sottogruppo del digital divide culturale che è la vera bestia nera di questo paese. Cosa si perdono? Tanto. La possibilità di fare. Qualcuno ha detto che Internet è la più grande arma di costruzione di massa. Lo sottoscrivo. Serve a fare tante cose. Certo, chi ci rinuncia vive lo stesso. Non muore, non è l´ossigeno. Ma rinunciare alle Rete vuol dire escludersi dal futuro».
In questo, vedi una differenza generazionale fra i nativi digitali e gli altri?
«Attenzione. Solo il tema del mancato accesso può essere ridotto alla differenza generazionale, il resto no. I veri nativi digitali non sono quelli come me: è mia sorella che ha un anno e mezzo e zooma sull´iPad. Io sono un ibrido digitale, sono cresciuto con l´arrivo del Web. E infatti ho compagni di classe che non sanno la differenza fra la barra di ricerca e la barra di indirizzo e che per andare su Facebook scrivono su Google invece che scrivere direttamente l´indirizzo. È molto triste che per loro spesso Internet si riduca solo al cazzeggio, vuol dire perdersi la forza innovativa della Rete».
Cosa ti proponi di fare con Panedigitale?
«L´obiettivo principale è fare una mappa del digital divide e trovare di volta in volta soluzioni economiche e semplici da offrire agli amministratori locali che spesso non hanno idea di cosa fare. E poi vorrei promuovere la cultura della Rete: convincere i tardivi digitali ad usarla di più e meglio».

... e riecco il plagiaro
Repubblica 3.11.11
Voglia di luce
Reagire al farsi buio
di Umberto Galimberti


La luce. Se ne è servito Dio prima della creazione del mondo, apparso grazie a un Fiat lux. E, dopo la sua comparsa prima della creazione del mondo, la luce s´è fatta generatrice di mondi, come l´Occidente per esempio: "Terra della sera" dove la luce tramonta. E già sul far del crepuscolo si colloca la crisi che stiamo attraversando, che forse non è solo economica, o che, peggio, noi recintiamo nel solo ambito economico, per non assistere a quel farsi buio della nostra civiltà, che probabilmente non è una notte che annuncia un nuovo giorno. Fedele alla luce è stata la cultura greca, a differenza di quella giudaico-cristiana che è stata civiltà dell´ascolto della Parola.
La cultura greca ha inaugurato quella ricerca sul "mondo visibile" che ha generato d´un colpo: filosofia, matematica, geometria, architettura, fisica, medicina, politica, i saperi che hanno reso grande l´Occidente. Finché un generatore simbolico di tutti i valori, l´oro, sotto il riflesso della luce, non ha preso a luccicare al punto da oscurare tutti gli altri valori.
Prese allora a diffondersi quella "luce nera", come la definisce Derrida, che genera intorno a noi quel non-vedere, quel non-capire che obnubila lo sguardo sul futuro e rende il presente troppo assolato di cattivi presagi. Abitanti come siamo della terra della sera (Abends-land dice anche la lingua tedesca per nominare l´Occidente), vorremmo, come Giosuè, fermare il sole. Ma se questo lo concede il mito, non lo concede la storia. Senza più riconoscere le nostre ombre, che solo la luce concede, non siamo capaci neppure di un atteggiamento critico sul modo con cui abbiamo dato avvio alla nostra civiltà e alla nostra crescita. E perciò il declino della luce, già scritto nella parola "Occidente", non ci fa discernere quali tra le strade possibili sono quelle da percorrere.
E allora ci muoviamo tra le luci artificiali che illuminano le notti delle nostre città, senza avvertire quanto sono flebili rispetto alla luce del sole, che ormai abbiamo confinato nella meteorologia e depotenziato della valenza simbolica che Platone le aveva assegnato, quando aveva eretto il sole a metafora della verità, perché rendeva visibili tutte le cose. Così la luce non è solo un fenomeno fisico, ma la metafora di quel "far luce" sulla nostra condizione individuale e collettiva, affinché il "sole spento" o la "luce nera", come titolano diversi libri sulla depressione, non si impossessino delle nostre anime, rendendole opache e buie, e soprattutto, in mancanza di luce, incapaci di discernere.

Repubblica Firenze 3.11.11
Musicus Concentus: Enrico Pierannunzi
"Scarlatti e il jazz così improvviso sui grandi classici"
di Paolo Russo


Ero consapevole che prendevo un rischio: ho risolto con la scelta del piano solo che mi ha permesso di ricomporre in tempo reale
Bach, Paganini, Chopin: tutti i veri maestri hanno sempre suonato in assoluta libertà Liszt si faceva dare temi d´opera dal pubblico e si lanciava in prodigiose parafrasi che poi sono state anche trascritte

Ci sono musicisti così devoti alla loro arte che i miracoli li fanno in silenzio. Per vocazione e passione. Enrico Pieranunzi, domani al Musicus per una Piano Hour col già luminoso talento del 28enne Claudio Filippini, è uno di quei pochi. Pianista jazz fra i più stimati al mondo, in 35 anni il 62enne romano ha suonato con molti dei migliori (dal bop con Griffin e Farmer al magico incontro con Chet, dai preziosi trio billevansiani con Haden, Motian, Baron e Marc Johnson, Van De Gey e Ceccarelli, a Jim Hall, Konitz, Wheeler, Rava, Tonolo, Phil Woods, Potter, Gatto, per citarne solo alcuni) ed esplorato il piano jazz con lirismo e swing inarrivabili quanto la tecnica. L´ultimo suo prodigio è la sconvolgente fluidità, l´osmosi cangiante con cui ha suonato Scarlatti, Bach e Haendel. Classica e jazz, da sempre, a dir poco, un campo minato: Pieranunzi ne esce non solo vivo ma trionfante. «Prima di tutto classica e jazz spiega l´ex docente, per 25 anni, di pianoforte principale al Conservatorio di Roma sono sempre state per me una cosa sola, non sono mai passato dalla prima al secondo: la classica mi appartiene per formazione e perché sono europeo, il jazz è passione di sempre. Prima di metter mano a Scarlatti ci ho pensato molto perché ero ben consapevole dei rischi che correvo, a partire dal grande equivoco del ritmo. Se avessi affrontato queste pagine con un trio o un quartetto avrei dovuto pensare e arrangiare troppo: la scelta del piano solo è stata quindi decisiva, mi ha permesso di improvvisare in piena libertà, come in una ricomposizione in tempo reale, i materiali tematici classici lavorando sulle cellule. In questo, credo, sta la novità del mio lavoro ed è questo che mi permette di passare da una sarabanda di Haendel a una corale country.
«È stata prosegue Pieranunzi una grande opportunità di ricerca e di unire due dimensioni per me fondamentali. E il punto d´incontro è stata proprio l´improvvisazione, una pratica storicamente interna alla classica: Bach, Chopin, Paganini, tutti i grandi hanno sempre improvvisato, per non parlare di Liszt che nel 1840 si faceva dare temi d´opera dalla gente in sala per poi lanciarsi, lui virtuoso straordinario, in lunghissime parafrasi, molte delle quali sono anche state scritte. In Italia credo che questo atteggiamento si sia perso a causa della lirica e della pretesa del pubblico di volere la replica esatta di quel che aveva già sentito. Di fatto, è l´eterna, grande battaglia fra cultura orale, ritenuta bassa, e quella scritta, alta per definizione: nasce così la condanna dell´improvvisazione di cui i conservatori si sono fatti depositari, anche se i ragazzi di oggi sono molto più disponibili. Ma la musica, come la poesia, basta pensare ai poemi omerici, nasce orale e improvvisata: puoi scriverla solo dopo averla inventata».
Per la Piano Hour di venerdì il nome di Filippini l´ha scelto Pieranunzi: «Era un ragazzo quando lo conobbi a un mio seminario ed era già bravo. Ho molta stima di lui per le sue doti di narratore, il suo coraggio e la sua profonda onestà intellettuale: la sua è pura passione per la musica, le etichette e l´aspetto mediatico che ormai tutto regola non gli interessano per nulla».

L’Osservatore Romano 3.11.11
Il dibattito su metodo scientifico e fede religiosa da "L'interpretazione dei sogni" a Benedetto XVI
Freud e l'ebraismo un rapporto da psicanalizzare
Anticipiamo integralmente uno dei saggi pubblicati sul numero in uscita di "Vita e Pensiero".
di Lucetta Scaraffia


Il rapporto fra scienza e religione ha una lunga storia e una complessità che spesso non viene riconosciuta dai molti che insistono nel separarle, per quello che ritengono il bene della ricerca scientifica. "La religione è una cattiva scienza", scrive Richard Dawkins, riproponendo una ostilità che caratterizza da secoli gli atei scientisti. Proprio per questo scienziati, filosofi e scrittori hanno molto riflettuto al proposito nel corso del Novecento, con risultati diversi ma sempre stimolanti. In particolare, negli ultimi anni ci sono stati dei significativi ritorni sul tema, centrati intorno alla figura emblematica di Sigmund Freud. Nel 1899 esce uno dei libri che avranno più importanza nella trasformazione della cultura contemporanea, L'interpretazione dei sogni di Freud, e da questa data si fa iniziare la psicanalisi. Ma non è stato tutto semplice e immediato: la storia del testo è complessa (come rivelano le otto edizioni fra il 1899 e il 1930) e attesta un interscambio ininterrotto tra l'autore e i lettori (colleghi, pazienti, critici, seguaci) che ne trasforma decisamente il carattere iniziale, attutendone in parte la potenzialità rivoluzionaria. La prima edizione dell'opera, infatti, si presentava come un evento irripetibile: l'autoanalisi di Freud, che analizzava i propri sogni per spiegare il suo nuovo metodo di cura, proponendo così il coinvolgimento diretto del medico curante come fattore fondamentale per garantire la riuscita della terapia. Lyda Marinelli e Andreas Mayer (Sognare a libro aperto. L'interpretazione dei sogni di Freud e la storia del movimento psicoanalitico, 2010) ricostruiscono la galassia di rapporti che si crearono intorno a Freud dopo l'uscita del libro: molti intervennero per suggerire modifiche o aggiunte nelle edizioni successive, fino a divenire coautori, come Otto Rank e Sandor Ferenczi. Discussioni che con Adler, Stekel e Jung si trasformarono in furiose polemiche. In una prima fase (1899-1909) il libro venne utilizzato soprattutto come un manuale di metodologia psicanalitica, e i lettori spesso descrissero a Freud i propri sogni per avviare analisi epistolari. Fu subito evidente, però, che non bastava la sola lettura del libro a garantire una buona autoanalisi, ma era indispensabile un contatto personale con l'autore. Ciò non impedì comunque il diffondersi di una cultura interpretativa estranea alla medicina, fatta di psicologia spicciola e chiacchiere da salotto, che portò anche a interpretazioni scherzose.
La seconda fase (1909-1918) coincise con la nascita dell'Associazione psicoanalitica internazionale, quando (con un lavoro collettivo che si rivelò laboratorio di gravi conflittualità) Freud cercò di rafforzare la tesi del libro integrandolo con un repertorio di simboli. Al materiale analitico del medico e dei pazienti si aggiunse quindi materiale "impersonale" che avrebbe dovuto spostare la discussione su un nuovo terreno, quello del mito, della storia, della letteratura. Fra il 1909 e il 1914 l'interpretazione dei sogni divenne la sede del confronto critico fra il maestro e i suoi allievi, portando a laceranti rotture, ma anche alla definizione di concetti base della psicanalisi: come il complesso di Edipo e la rimozione, che sottobanco incoraggiò la tendenza a vedere ogni forma di critica alla psicoanalisi come una resistenza.
Infine, nella terza fase (1919-1930) il libro assunse il ruolo di documento storico, di cui Freud cercò di riprendere il controllo: nel 1925 ripropose, infatti, una ristampa della prima edizione, cioè solo il testo scritto da lui e relativo alla sua autoanalisi.
Rimase aperta la questione delle radici religiose del metodo psicanalitico, problema che nasceva dall'analisi del sistema di simboli di riferimento a cui attingevano i sogni esaminati. Su questo si aprì il conflitto con Jung e la scuola di Zurigo, che tendeva ad attribuire importanza all'appartenenza religiosa del sognatore, inducendo così a una presa di posizione morale e religiosa dell'interprete del sogno. Il confronto serrato fra il gruppo di Zurigo e quello di Vienna prese quindi la forma non solo di due stili analitici diversi, ma di confronto fra cultura ebraica e cultura cristiana.
Freud, che pure era circondato da seguaci ebrei e aveva pazienti quasi solo ebrei, preferiva negare ogni parentela fra cultura ebraica e psicanalisi, preoccupato di fare di questa nuova disciplina una scienza universale valida per tutti. "Volete farmi passare per un volgare kabbalista?" risponde al collega Sandor Ferenczi, che vorrebbe fargli interpretare un sogno dal carattere marcatamente ebraico, nel libro di Tom Keve Triad (tradotto in italiano nel 2005).
Il tema del profondo legame intellettuale tra Freud e la sua cultura originaria è uno dei fili portanti di questo romanzo filosofico complesso e fascinoso. Il libro inizia con il viaggio che Freud, Jung e Ferenzci fanno nel 1909 negli Stati Uniti e pone subito il problema del rapporto del maestro con il discepolo cristiano, il delfino designato Jung, e con il correligionario Ferenzci. Davanti a Freud, che rifiuta ogni contaminazione della psicanalisi con la tradizione religiosa, sia Ferenczi, da parte ebraica, sia Jung, da quella cristiana, si rendono conto che questa rimozione è impossibile: "I sogni e la loro interpretazione sono la più antica forma di comunione con Dio. E questa comunione con Dio a immagine di quale uomo è fatta? È guardare nella profondità di se stessi. Introspezione. Investigazione dell'anima umana, niente altro. L'importanza dei numeri, della gematria, i giochi di parole, la Temurah, la libera associazione, tutto è là". Così pensa Ferenczi, convinto che Jung abbia ragione, cioè che la psicanalisi affondi le sue radici nella mistica ebraica, a cui - sostiene - abbiamo aggiunto i protocolli razionali di osservazione e analisi, gli studi clinici e le misure, facendone una scienza.
Che la cultura ebraica fosse un insegnamento a viaggiare nel profondo lo spiegava già il rabbino di Presburgo, Chatam Sofer, protagonista di una sorta di flashback nel passato della tradizione chassidica: i mezzi per viaggiare nel profondo sono il digiuno, la meditazione e il sogno, cioè i mezzi della kabbalah. Ne era convinto Ferenczi che, a differenza di Freud, accoglieva le sue radici ebraiche come materiale fertile e così anche - secondo Keve sulla base di ricerche storiche e fonti coeve come lettere e articoli - i grandi fisici e matematici di origine ebraica, che in quegli stessi anni cambiarono il modo di osservare e spiegare l'universo.
Soprattutto il Nobel Niels Bohr, per il quale la fisica era una guida che conduceva alle porte dell'universo: "Tutta la questione è sapere ciò che noi possiamo dire della natura, e non ciò che la natura è realmente, cosa che sarebbe un'ambizione illusoria". Anche perché, secondo lo scienziato, "l'osservatore è co-creatore del fenomeno", posizione che si avvicina molto a quella del terapeuta nella psicanalisi freudiana ed è in netto contrasto con la teoria di Einstein, basata sull'ipotesi che esista un universo oggettivo, indipendente dall'esistenza umana e al di là di essa. A differenza di Freud e di Rutheford - il fisico inglese che, nella scuola di Manchester, aveva accolto come allievi i più promettenti scienziati del tempo - condivisero con Bohr questa teoria quasi mistica di metodo scientifico il fisico Wolfang Pauli, originario dell'antica famiglia ebraica di librai praghesi Pascheles (il cambio di nome e la conversione del padre erano stati un tentativo radicale di assimilazione), il chimico Gyuri Hevesy, aristocratico ungherese di origine ebraica, e il matematico John Neumann, figlio di un banchiere ebreo ungherese e da ragazzo paziente di Ferenczi.
Questo gruppo di scienziati, tutti insigniti del Nobel, pensavano fosse impossibile per l'uomo conoscere se stesso, così come era impossibile conoscere il mondo esterno, nella misura in cui il primo faceva parte di quest'ultimo. Nelle loro ricerche risulta evidente, secondo Keve, l'ispirazione di origine ebraica, nella cui tradizione per capire i pensieri di Dio si studiava l'interiorità dell'essere umano, creato a sua immagine e somiglianza, e con lo stesso atteggiamento la natura, perché "la natura e Dio sono la stessa cosa" afferma Hevesy nel romanzo. Tutte le nuove discipline scientifiche (fisica teorica, logica matematica, psicanalisi) a cui si dedicano intensamente questi intellettuali ebrei - discendenti diretti dagli allievi di Chatam Sofer a Presburgo, finalmente liberi di aprirsi al mondo esterno grazie all'emancipazione - in realtà somigliano dunque da vicino agli antichi studi rabbinici, di cui l'interpretazione dei sogni faceva parte. In ambito cattolico, anche Joseph Ratzinger fece tesoro della teoria della complementarità di Bohr - come fece del resto anche Yves Congar - nell'ambito del discorso teologico nel suo celebre Introduzione al cristianesimo.
Il paziente e affascinante lavoro di Keve su due generazioni di scienziati europei - che riporta con chiarezza alla luce questa comune radice nella tradizione religiosa - aiuta a guardare con occhio diverso la storia della cultura europea del Novecento e soprattutto mette in crisi il dogma più rigido del pensiero contemporaneo, cioè la separazione fra scienza e religione. Il conflitto che scoppiò su L'interpretazione dei sogni di Freud aveva subito reso evidente che si trattava di una questione scottante. Che è ancora aperta ai nostri giorni, non solo affrontata da scienziati e filosofi, ma sempre presente anche nella riflessione dei Papi moderni, in particolare di due Papi che facevano parte della Pontificia Accademia delle Scienze - Pio XII e Benedetto XVI - e di Giovanni Paolo II.
Se sono numerosi i filosofi che hanno affrontato il rapporto fra fede e scienza, e così pure i teologi, particolarmente nuovo e interessante è stato nel secolo scorso l'apporto di due grandi scienziati mistici, Teilhard de Chardin e Pavel A. Florenskij, il cui pensiero creativo e intensamente spirituale si può accostare a quello degli scienziati di matrice culturale ebraica di cui narra Keve. Entrambi ben consapevoli che la conoscenza scientifica - che amavano appassionatamente e a cui avevano dedicato la vita - "non è l'unica conoscenza degna di questo nome (come ingannevolmente sostenuto dal scientismo), ci sono altri tipi di sapere, modi di conoscere che hanno una grande rilevanza per il vivere umano, ai quali riconoscere dignità epistemologica e veritativa" come scrive Umberto Casale nella lunga introduzione a Fede e scienza. Un dialogo necessario (2010), antologia degli scritti su fede e scienza di Benedetto XVI. Del resto oggi la teoria scientista per cui soltanto la conoscenza scientifica/naturale si baserebbe su fatti accertati e condurrebbe a risposte soddisfacenti, mentre le altre - e naturalmente fra queste soprattutto la conoscenza religiosa - si fonderebbero su opinioni e non condurrebbero al "vero", è molto criticata anche in ambito laico. La scienza, infatti, ci dice una parte della verità sul mondo fisico, ma non tutta la verità.
Giovanni Paolo II, nella lettera scritta nel 1988 al direttore della Specola Vaticana George Coyne, scrive che "la teologia (...) deve attuare ogni scambio vitale con la scienza proprio come c'era sempre stato con la filosofia e le altre forme del sapere", ribadendo, dall'altra parte, l'importanza della scienza per il pensiero teologico. È questo un tema di riflessione più volte ripreso dal cardinale Ratzinger e poi da Papa Benedetto XVI, in particolare nel discorso tenuto nel 2008 ai Bernardins di Parigi: "La scienza naturale, che ha foggiato il nuovo mondo, poggia su un fondamento filosofico, che in ultima analisi va cercato in Platone. Copernico, Galileo e anche Newton erano platonici. Fondamentalmente si basavano sul presupposto della strutturazione matematica, spirituale del mondo e, di conseguenza, a partire da tale presupposto, sulla possibilità di decifrarne l'enigma e, nell'esperimento, di renderlo comprensibile e insieme utilizzabile. L'esperimento si basa su un'idea interpretativa previa a esso, che poi nel tentativo pratico viene saggiata, corretta e ulteriormente approfondita. Solo questa base matematica permette poi generalizzazioni e la scoperta di leggi che rendono possibile operare in modo adeguato. Tutto il pensiero scientifico e ogni applicazione tecnica sono basati sul presupposto che il mondo sia ordinato secondo leggi spirituali, che abbia con sé spirito, che può essere imitato dal nostro spirito. Ma al medesimo tempo la sua percezione è collegata al controllo mediante l'esperienza. Ogni pensare che pretendesse di scavalcare questo collegamento contraddirebbe la disciplina del mondo scientifico, e perciò sarebbe messa al bando come prescientifico o non scientifico". Ratzinger presuppone quindi che la caratteristica fondamentale della conoscenza scientifica sia la sinergia fra matematica ed esperienza, in cui la matematica è creazione della nostra intelligenza: "Questo implica che l'universo stesso sia strutturato in modo razionale, così che esiste una corrispondenza profonda tra la nostra ragione umana che scopre la natura e la ragione o la razionalità che l'essere umano trova nella natura". Conclusioni che avrebbero probabilmente condiviso Nils Bohr, Wolfang Pauli e John Neumann