venerdì 4 novembre 2011

l’Unità 4.11.11
Il segretario del Pd «Domani tutti in piazza per riprenderci il nostro futuro di persone libere»
A San Giovanni «Una festa di popolo». Politica e tanta musica, con Vecchioni e Marlene Kuntz
L’appello di Bersani «Uno sforzo unitario per ricostruire l’Italia»
di Virginia Lori

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Repubblica 4.11.11
Bersani: "In piazza con noi chi ha a cuore l´Italia"
Domani il Pd a San Giovanni: "Via Berlusconi, ricostruiamo il Paese". Di Pietro ci sarà
Attesi 14 treni, 2 navi, oltre 700 pullman. Vendola: "Guardo con grande simpatia"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il Partito democratico "riapre" Piazza San Giovanni alle grandi manifestazioni dopo il sabato nero degli scontri, tre settimane fa. Lo fa per un appuntamento che sarà sicuramente pacifico, ma ha tutte le intenzioni di mandare un chiaro messaggio agli italiani: Berlusconi deve andare a casa. Domani la grande piazza di Roma sarà invasa dal popolo democratico con il caldo suggerimento del segretario Pier Luigi Bersani di sventolare soprattutto bandiere tricolori. «Il nostro intento è di riunire tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro paese per avviare insieme una ricostruzione democratica, sociale ed economica», dice il leader del Pd. Non verranno invocate elezioni, si dirà che c´è bisogno di un cambio a Palazzo Chigi. Subito.
La manifestazione scatta alle 12,30 con la musica, altra protagonista della kermesse. Si comincia con le note dell´ensemble multietnico Med free Orkestra e con Ziggy. Più tardi sul palco saliranno Marlene Kuntz e Roberto Vecchioni. Ma il clou scatta alle 14,30 quando Bersani e gli ospiti daranno un senso politico alla giornata. Sono stati invitati a parlare il leader della Spd Sigmar Gabriel, il candidato alle presidenziali francesi, il socialista François Hollande e il vicepresidente della Dc cilena Jorge Burgos. Sono stati Beppe Fioroni e Lucio D´Ubaldo a organizzare l´arrivo del dirigente sudamericano. In qualche modo andava equilibrata la presenza dei socialisti con un esponente cattolico che desse il senso di un partito progressista, che è fuori dall´alveo del socialismo classico.
In piazza ci saranno banchetti per la raccolta di fondi in favore delle zone alluvionate della Liguria e della Toscana. A rompere le parole dei politici puri, Laura Boldrini, portavoce dell´Alto commissario per i rifugiati, parlerà degli immigrati, dei richiedenti asilo. «Per riprendere il posto che ci meritiamo nel mondo c´è bisogno di uno sforzo corale. Per questo chiediamo a tutti di venire in piazza con noi, alle diverse associazioni impegnate nella società, ai movimenti civili, a coloro che hanno a cuore il futuro degli italiani», dice ancora Bersani in un invito aperto. I militanti del Pd si sono già mossi. È prevista un´affluenza record con 14 treni, 2 navi, oltre 700 pullman già riempiti. Si spera nella clemenza del meteo.
La manifestazione verrà trasmessa in diretta sul sito del Pd (www.partitodemocratico.it), sul twitter di pdnetwork (con # cinque11), sul sito di Youdem, la televisione del partito (www. youdem.tv) e sul satellite (canale 808 della piattaforma di Sky), ma anche sul sito dell´Unità e di Europa, su repubblica.it e corriere.it, su Rainews24 e Skytg24.
Ci saranno l´Idv e il suo leader Antonio Di Pietro. Ci sarà anche Matteo Renzi, che partirà per Roma subito dopo la posa della prima pietra della tramvia a Firenze. Mancherà Nichi Vendola che quel giorno accoglie Napolitano in Puglia. Ma il capo di Sel guarda «con grandissima simpatia alla manifestazione». E tifa perché dal popolo Pd sorga un movimento per le elezioni anticipate, scavalcando l´idea di un governo di emergenza. «Auguro un successo a Bersani - spiega Vendola - perchè considero l´appuntamento del Pd un pezzo importante della costruzione di un cantiere comune». L´area Marino avrà una sua folta rappresentanza. «La manifestazione è certamente un passaggio importante per mandare a casa il governo Berlusconi», dice il coordinatore Michele Meta.

Repubblica 4.11.11
L’aggressione nella capitale. Gli attivisti attaccavano manifesti contro la mafia. Tra le vittime anche un consigliere di circoscrizione
"Comunisti vi uccidiamo", poi le sprangate quattro militanti Pd finiscono in ospedale
d Massimo Lugli


La condanna di Alemanno: violenza intollerabile E la Procura apre un´inchiesta
"Raid guidato da un leader di Casapound". Ma il centro sociale di estrema destra nega

ROMA - «Uccidiamo quei comunisti». Il grido di guerra e, subito dopo l´aggressione: quattro militanti del Pd che stavano affiggendo manifesti sui muri di Montesacro massacrati a sprangate da una squadraccia di almeno dieci teppisti. A terra, feriti e sanguinanti, sono rimasti in quattro tra cui il capogruppo del partito democratico al quarto municipio, Paolo Marchionne. Il più grave, Luca Quartu ha uno zigomo fratturato ed è ricoverato, un altro, Lorenzo Agostino ha un braccio rotto (15 giorni) e gli altri due se la caveranno in 8 e 7 giorni. Scambio di accuse e controaccuse con i militanti del centro sociale di estrema destra "Casapound" che ha occupato uno stabile a 200 metri di distanza dal luogo del pestaggio. Un episodio emblematico di un clima di violenza sempre più opprimente, nella capitale con aggressioni e scontri "politici" che ricordano gli anni 70.
È accaduto verso l´1 della notte tra mercoledì e giovedì quando, in via Valtournanche, il gruppo di militanti del Pd stava attaccando manifesti con la scritta «La conosci la mafia? È sotto casa tua». Un´iniziativa per protestare contro il fatto che uno stabile sequestrato alla criminalità organizzata non è stato ancora adibito a servizi sociali nella zona.
«Abbiamo sentito urlare: uccidiamo quei comunisti e poi ci sono saltati addosso come furie - racconta Paolo Marchionne, il capogruppo del partito in zona, un vistoso cerotto sulla fronte - erano una decina, armati di bastoni e tubi di ferro, col viso coperto da sciarpe, fazzoletti e caschi». Uno solo dei giovani di sinistra, tutti tra i 20 e i 25 anni, riesce a scappare, gli altri vengono abbattuti a sprangate nel giro di pochi minuti. Sulla strada, fortunatamente, passa una "gazzella" della compagnia di Montesacro in servizio di ronda e, alla vista dei carabinieri, gli aggressori si dileguano nel buio. Sull´asfalto i militari troveranno alcuni tubi di ferro pesanti come mazze.
«Uno di loro, dopo l´aggressione, si è scoperto il viso, si è avvicinato e mi ha detto: lo sai chi sono? - accusa Marchionne - gli ho risposto che lo conosco benissimo e infatti l´ho denunciato. Si chiama Alberto Palladini, detto Zippo, responsabile di zona di Casapound». Quasi immediata la replica del gruppo di destra: «Quanto avvenuto è l´ultimo atto di una chiara strategia per estrometterci dalla vita politica del municipio, portata avanti con la diffamazione e gli attentati come quello di alcuni mesi fa sotto casa di Palladino». Il sindaco Gianni Alemanno ha espresso solidarietà ai feriti e condanna del gesto di violenza («È intollerabile») mentre i deputati del Pd Enrico Gasbarra e Roberto Morassut hanno chiesto l´intervento del governo per accertare le responsabilità del pestaggio. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha telefonato ai quattro militanti picchiati mentre, sul pestaggio, stanno indagando i carabinieri. Nessuna denuncia, almeno per ora ma la procura indaga per lesioni.

l’Unità 4.11.11
L’intervista: Anna Finocchiaro
«Il governo è in agonia. Larghe intese? Difficili»
La presidente dei senatori Pd: «Un governo di transizione sarebbe la soluzione migliore per il Paese, noi siamo pronti, ma nel Pdl non vedo tante disponibilità»
di Maria Zegarelli

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il Fatto 4.11.11
Rita Bernardini. I cinque “pannelliani” in Parlamento
“Noi Radicali pronti a votare con il governo”


Torna la fiducia, e tornano in ballo, clamorosamente, con i boatos del Transatlantico, i voti dei Radicali. Secondo Radio Montecitorio, quando Denis Verdini dice “Abbiamo 320 voti”, già fa conto sul loro appoggio. “Berlusconi li ha già acquisiti”; sibila affilato Pasquale Laurito detto “velina rossa”, seduto su di un divanetto. Così intercettare Rita Bernardini, la pasionaria di Torre Argentina alla buvette è un modo per capire se si riprodurrà il thrilling sui voti dei Radicali. La Bernardini è dimagrita (“I digiuni aiutano”), è serena (“Ormai con tutte le balle che scrivete su di noi... ”), ma non smentisce. Anzi: “Se il governo si dovesse presentare con un emendamento che contiene la traduzione legislativa di tutti i punti contenuti nella lettera del governo all’Europa, la domanda è un’altra: perché mai non dovremmo votarlo? ”.
Magari perché i vostri elettori si potrebbero imbestialire, visto che vi hanno votato per fare opposizione nelle liste del Pd.
Ci sono tanti diversi problemi in quello che dici. Potremmo iniziare con il dire che gli elettori radicali si potrebbero imbestialire, visto quello che hanno dovuto mandare giù.
Ti riferisci al 2008?
(Sorride) Mi riferisco a una serie di fatti politici che si sono verificati a partire dal 1976 in poi, a dire il vero…
Parti da Adamo ed Eva?
Ma se vogliamo stare ai più recenti, ti ricordo che noi non abbiamo potuto presentare la nostra lista, come invece è stato consentito a Di Pietro.
Se vi foste presentati da soli quanto avreste preso?
Non è la domanda giusta. Saremmo stati eletti sicuramente, perché nella coalizione viene ammessa alla ripartizione dei seggi la prima lista che non supera il 4%. Dopo Di Pietro, che lo ha superato, c’eravamo noi.
Non mi dirai che dissentite ora perché vi hanno dato sei seggi nelle liste del Pd nel 2008!
Dico che la gente si dimentica tante cose.
Ad esempio?
Che i nostri elettori all’epoca hanno dovuto mandare giù un inspiegabile veto alla candidatura di Marco Pannella! Che subito dopo si è detto no anche a Sergio D’Elia!
Ma tutto questo precede l’inizio della legislatura. Lo sapevate quando vi siete “sposati” con Veltroni.
Non tutti sanno che c’era stato un patto, anche dopo il voto, con il Pd, per promuovere le nostre battaglie parlamentari. Solo un anno fa eravamo d’accordo con Bersani a presentare proposte di legge sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro e sui diritti civili.
E come è andata a finire?
Tutto dimenticato! Pensa che con Bersani non ci sono stati più contatti nemmeno dopo quello che è successo nell’ultima fiducia. Non ci ha chiamato!
Forse non voleva a litigare.
Bè, fa male. Quando siamo andati a cena da Berlusconi, pochi giorni fa...
Ahi, ahi!
Quando siamo andati a cena da lui, Marco ha parlato per mezz’ora elencando tutte le riforme liberali che lui ha promesso e non ha mai realizzato, in questi 17 anni. Sai cosa ha detto Berlusconi?
No, dimmelo tu.
Nulla. È rimasto in silenzio perché non c’era nulla da obiettare. Erano i punti su cui avevamo stretto l’alleanza elettorale fra il 1994 e il 1996, nella speranza di fare la rivoluzione liberale di cui questo paese ha bisogno.
Ma quindi perché mai Berlusconi dovrebbe essere credibile se le ripropone ora?
Appunto. Anzi, mi preoccupa di più sapere i numeri degli altri, i suoi ce li ha davvero.
Nulla è certo.
Tranne una cosa. Quello che è scritto nella lettera all’Europa, penso alla possibilità di licenziare e alla flessibilità del mercato del lavoro, o alle pensioni, è quello che noi inascoltati chiediamo da anni. Se fosse la volta buona non capisco perché, proprio noi che abbiamo fatto i referendum dieci anni fa per realizzare queste riforme, proprio noi dovremmo opporci.
Ma allora avete già deciso!
Non abbiamo deciso nulla. Prima vediamo il testo, poi decideremo cosa fare. Come sono abituati a fare i Radicali: sempre e solo nel merito. (lutel)

Repubblica 4.11.11
Il premier minaccia “Elezioni anticipate
"Resistere fino a dicembre, poi solo le urne" e il Cavaliere pensa al paracadute dei Radicali
di Francesco Bei


Resistere a tutti i costi, restare in sella almeno fino a metà dicembre. Solo quello importa, su questo unico obiettivo il premier sta mobilitando tutte le risorse disponibili. «Se riusciamo ad arrivare a dicembre con la legge di stabilità – ripete ai suoi in queste ore – allora è fatta. Anche se ci votano contro non c´è più spazio per un governo tecnico. Possiamo andare alle urne a fine gennaio, dobbiamo tenerci pronti».
Gli spazi pubblicitari per le affissioni sono già stati prenotati. Nella suite dell´hotel Carlton di Cannes, trasformata in una "war room", Berlusconi telefona a Roma e ascolta preoccupato il resoconto dei contatti di Denis Verdini e Angelino Alfano con i deputati ribelli.
I grandi della terra lo attendono per cena, Paolo Bonaiuti si affaccia sulla soglia ogni cinque minuti, ma le notizie da Montecitorio sono sempre più nere e impongono la massima attenzione: saltano pezzi del Pdl, una pedina dopo l´altra cade nella rete segreta tessuta in queste settimane da Casini con l´aiuto di Paolo Cirino Pomicino.
In certi momenti lo stesso Berlusconi ha la tentazione di gettare la spugna, si fa sopraffare dallo sconforto. «Questo potrebbe essere il mio ultimo G20», ha confidato ieri con una punta di amarezza. C´è persino un corrente di pensiero, tra i falchi del Pdl, che glielo consiglia apertamente.
L´idea, se dovesse avere successo la "trappola" preparata da Casini, sarebbe quella di mettersi all´opposizione di un governo tecnico comunque debole, cogliendo tutti i vantaggi della situazione. Gridando ogni giorno contro il «governo del ribaltone» Berlusconi potrebbe infatti provare a risalire dall´abisso del 23% di fiducia che gli accredita l´ultimo sondaggio riservato di Euromedia. Intanto però c´è da combattere la battaglia del peone. La maggioranza è sotto i 310 ma Verdini, al telefono, garantisce al premier di avere ancora dei «jolly» tenuti segreti «da giocarsi nelle emergenze». Nel mazzo ci sarebbe persino un deputato ex Margherita, mentre il corteggiamento si allarga alla pattuglia dei radicali, ormai in rotta con il Pd. «Se nel provvedimento del governo ci fossero le liberalizzazioni che chiediamo da 40 anni - si chiede sibillina la senatrice radicale Donatella Poretti - perchè non dovremmo essere contenti?».
«Dobbiamo resistere fino a dicembre», impone il Cavaliere. Il calendario, illustrato ieri nella riunione con Sarkozy e Merkel, dovrebbe portarlo dritto alla meta. È stato studiato a questo scopo. La fiducia sulla legge di stabilità, che conterrà le misure concordate con l´Europa, sarà votata al Senato nell´ultima settimana di novembre. Poi il ddl passerà alla Camera, dovrà essere calendarizzato, discusso e votato. Così da arrivare a metà dicembre. «A quel punto - ne è convinto Berlusconi - siamo a cavallo, i giochini finiranno. Anche l´ultimo dei deputati capirà che, se cadiamo noi, ci sono sole le urne». Il Cavaliere teme tuttavia che Napolitano possa avallare il disegno di un altro governo. Lo ha messo in grande allarme quella nota del Quirinale con cui ieri si ribadiva «la libertà» dei deputati in attesa dei prossimi voti in Parlamento. Prima della legge di stabilità c´è infatti da superare la boa del Rendiconto dello Stato, un altro voto ad altissimo rischio. «Stracquadanio che ti ha detto?», ha chiesto ieri Berlusconi da Cannes a Verdini. Il coordinatore del Pdl: «Mi ha giurato che loro il Rendiconto lo votano, come hanno fatto l´altra volta». E Berlusconi: «E tu ti fidi?».
La partita che il premier sta giocando è ad altissimo rischio. Per questo vengono valutate tutte le opzioni, contando anche sulle possibili divisioni fra le forze d´opposizione. Dopo la sfida lanciata da Renzi a Bersani, il segretario del Pd potrebbe anche convenire sul voto anticipato a fine gennaio, decretando la morte del governo tecnico. Almeno è quello che sperano nel Pdl.
«Con il governo tecnico - ragiona il ministro Gianfranco Rotondi - Renzi avrebbe un anno di tempo per organizzarsi mentre, se si andasse al voto a gennaio, il candidato premier non potrebbe che essere l´attuale segretario del Pd. Questi calcoli Bersani se li fa e magari, sul Rendiconto, qualche assenza nelle file del Pd ci potrebbe essere». Speranze.

il Riformista 4.11.11
Dare battaglia sulla legge elettorale
di Emanuele Macaluso

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il Fatto 4.11.11
Matteo Renzi
Il giovanilismo può far male
di Angelo d’Orsi


La “proposta politica” del Renzi, al di là, o al di qua, del contenuto – su cui si sono già espressi giudizi pertinenti, tirando in ballo gli anni Ottanta o, al più, il blairismo dei Novanta – è deprimente, non solo, ma anche per la sua insistita evocazione del valore della giovinezza. Il bamboccione fiorentino, un mirabile prodotto della schiatta dei “figli di papà”, che strepita e annuncia di non volersi candidare, che convoca alla sua americanata politici di lungo corso, e qualche nuovo guru (ah, Baricco!), propone come rivoluzionaria, anzi, addirittura eversiva, la sua ricetta: rinnovare il partito, che egli interpreta come fare, sic et simpliciter, il “ricambio generazionale”. Cambiano i simboli, cambiano le denominazioni, argomenta l’astro nascente della politica “democratica”: possibile che non debbano cambiare gli uomini? A chi come Renzi, che pure si presentò alla Ruota della fortuna di Mike Bongiorno nel lontano 1994 (toh, guarda! L’anno della discesa in campo...), appare piuttosto digiuno di storia, vale la pena ricordare che giunge buon ultimo, nella nobile apologetica giovanilista. Molti altri prima di lui hanno perorato, come valore politico in sé, la gioventù; e, diciamo la verità, non si direbbe che abbiano reso un buon servigio a questo Paese. All’inizio del secolo scorso i futuristi hanno minacciato sfracelli, chiedendo una rivoluzione generazionale; nel Manifesto di fondazione si legge “I più vecchi di noi hanno 30 anni... ”. Il giovanilismo fu la loro bandiera, che si fuse con le istanze politiche del nazionalismo imperialista. Volevano dare l’assalto alle stelle, distruggere città insopportabilmente vecchie quali Roma, Venezia e Firenze, animati dalla pura retorica della forza propria dei giovani che sentono di poter osare tutto e nulla temere, nemmeno la morte (sarà poi vero?). Ben presto, però, si accontentarono di qualche prebenda e un po’ di spazio nell’editoria, nel giornalismo, e nelle commesse pubbliche per ornare i palazzi del regime fascista. E da teppisti divennero uomini d’ordine. E cercarono casa a Roma, a cominciare dal loro leader Marinetti, sedotto dal potere mussoliniano.
IL FASCISMO, appunto: se lo ricorda, Renzi, l’inno delle camicie nere? “Giovinezza, giovinezza... ”, con quel che segue. Benito Mussolini usò, prima per salire ai vertici del Partito socialista, poi per imporsi sulla scena nazionale, proprio l’argomento dell’età. Fu il più giovane presidente del Consiglio, dopo esser stato il più giovane leader dei socialisti, ovviamente, vestendo i panni del capo della corrente dei “rivoluzionari”, contro la “gerontocrazia” del Psi. E la Marcia su Roma, che seguì a un biennio di violenze contro socialisti e comunisti (ecco, il frutto delle “audacie” giovanili), fu etichettata come rivoluzione dei giovani. Essere giovani significava esser portatori di un valore che gli altri, i “vecchi”, non avevano. I giovani hanno coraggio, disprezzano il pericolo, sono creatori, innovatori: e l’Italia, fu definita nazione giovane che aveva diritto al suo posto al sole, contro le vecchie Inghilterra e Francia... Sappiamo come finì.
Allora, siamo certi che il giovanilismo possa costituire un buon messaggio politico? V’è da dubitarne, invece; v’è da pensare che la polemica generazionale tradisca la pochezza di contenuti, e la carenza di senso di responsabilità. Ancora una volta Gramsci insegna. Ecco cosa leggiamo in un passaggio (provvidenziale) dei Quaderni del carcere: “Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi”. Nella politica italiana, dentro e fuori il Pd, non si vedono grandi uomini; pullulano invece i camerieri. O aspiranti tali.

Corriere della Sera 4.11.11
Le (non) terapie della sinistra europea
di Paolo Franchi


Curioso. Molto curioso. La guida politica, e qualcosa di più, dell'Europa è saldamente in mano all'autonominato direttorio franco-tedesco. Ma i due leader del direttorio in questione, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, hanno in comune un problema davvero non secondario. I sondaggi e le elezioni regionali e locali valgono quel che valgono, ci mancherebbe: a primavera in Francia, e nel 2013 in Germania, può succedere di tutto. Se si votasse oggi, però, Sarkozy dovrebbe con ogni probabilità cedere il passo al socialista François Hollande; e in Germania la coalizione tra i cristiano-democratici e i (quasi desaparecidos) liberali, guidata dalla Merkel, dovrebbe arrendersi a un'alleanza rosso-verde. O magari verde-rossa.
Curioso. Molto curioso. In Europa, la sinistra non sembra avere niente di particolarmente significativo da dire sulla crisi, salvo che questa ha parecchio da spartire con il falò delle vanità di un liberismo sino a ieri trionfante, che la Terza via di Tony Blair così come la Neue Mitte di Gerhard Schroeder non si sono rivelate strategie efficaci e che però non si può nemmeno ritornare, come se il mondo non fosse radicalmente cambiato, al modello socialdemocratico tradizionale. Parecchie banalità, poche analisi, ancor meno terapie. Sulla crisi pressoché permanente del socialismo francese del dopo Mitterrand, poi, così come su quella della Spd del dopo Schroeder, c'è una letteratura sconfinata. Eppure i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi, con tutti i loro guai, rischiano di tornare, magari più per i demeriti degli avversari che per meriti propri, ma questo in politica succede spesso, alla guida dei rispettivi Paesi.
Curioso. Molto curioso. È vero che viviamo in tempi calamitosi, in cui ogni giorno ha la sua croce e ragionare su cosa potrebbe succedere tra qualche mese sembra un lusso che non ci possiamo permettere. Ma forse guardare con un po' di attenzione a quello che sta succedendo in Francia e in Germania non sarebbe una perdita di tempo. Se domani a governarle fossero, come è possibile e anzi al momento probabile, i socialisti e, in coalizione con i Verdi, i socialdemocratici, cambierebbe qualcosa nel modo di affrontare la crisi dell'Europa? Per ora bisogna accontentarsi di indizi, o poco più. Nel primo turno delle primarie socialiste francesi, per esempio, la vera sorpresa è stato il diciassette per cento del «sinistro» Arnaud Montebourg, che vorrebbe lo Stato nei consigli di amministrazione delle banche nonché misure protezionistiche contro l'espansionismo cinese, ed è fautore di un «capitalismo cooperativo». È difficile credere che il realista Hollande, comprensibilmente in cerca di consensi moderati, possa fare proprie queste tesi: ma in qualche modo (tutto sta a vedere quale) dovrà tenerne conto, perché anche in Francia l'indignazione e il risentimento hanno una base sociale ampia, alla quale rischia di attingere a piene mani Marine Le Pen, l'unica antieuropeista dichiarata tra i candidati che contano per l'Eliseo. Quanto alla Spd e ai Verdi tedeschi, condividono con tutti i loro compatrioti l'orrore per il dilagare del debito pubblico, a cominciare, si capisce, da quello altrui. Ma hanno criticato aspramente la Merkel per le sue titubanze di fronte al populismo tedesco, e non è solo il sempiterno Martin Schulz a chiedersi polemico se il deficit democratico di cui soffrono le sue istituzioni non rappresenti per l'Europa un pericolo mortale. Tutto questo non basta, naturalmente, a far presagire terremoti prossimi venturi. Dovrebbe indurre, però, quanto meno a un supplemento di riflessione. Anche se è difficile fermarsi a riflettere quando la casa brucia.
Curioso. Molto curioso. Ci si aspetterebbe che la prima a farlo fosse la sinistra o, se si preferisce, il centrosinistra. Che invece sembra o non interessarsi troppo di quel che capita a un paio d'ore di volo da Roma o vivere la cosa più come un problema che come una finestra di opportunità: non per oggi, certo, perché oggi tocca mandar giù pane amaro, ma, quanto meno, per il futuro prossimo. Domani a piazza San Giovanni, alla manifestazione nazionale del Pd, ci saranno Hollande e il segretario della Spd, Sigmar Gabriel. Non saranno in gran forma, ma stanno benino. Fossimo in Pier Luigi Bersani, approfitteremmo della loro cortesia per chiedere qualche ragguaglio in più.

l’Unità 4.11.11
Intervista a Maurizio Landini
«Pagano sempre i soliti. Va cambiata la politica Ue»
Oggi il segretario Fiom sarà in corteo con i metalmeccanici della Lombardia che scioperano per otto ore contro l’assenza di politiche industriali
di Giuseppe Vespo

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il Fatto 4.11.11
A Roma prove di stato di polizia. Studenti schedati a scuola
Cariche contro chi tenta di violare il divieto di manifestare
di Chiara Paolin


Sono arrivata a scuola alle otto meno un quarto e ho visto una cosa incredibile. Davanti al marciapiede, dove di solito parcheggiamo i motorini, era tutto pieno di poliziotti. Tre camionette blu e due auto con agenti in borghese. Un mio compagno si è avvicinato e ha chiesto: ma che state facendo? Identifichiamo quelli che vanno alla manifestazione, hanno risposto. Poi è arrivata la preside e li ha cacciati, mica ci potevano stare qui”. Fulvia, ieri mattina, non è andata con gli altri. C’era una lezione di filosofia cui teneva, per quello è rimasta al Liceo Mamiani in viale Delle Milizie, quello della fiction tivù “I Liceali”. “Sennò ci andavo eccome – spiega mostrando sul cellulare le foto scattate al mattino –. Vedi, cinque classi sono andate via in blocco, più altri sparsi, circa 140 ragazzi in tutto. E la Polizia dietro, una scena ridicola: hanno detto che eravamo una scuola a rischio, ma quando mai”.
Identica scena in altri istituti del centro: Tasso, Giulio Cesare, Virgilio, Righi, licei ritenuti pericolosi per aver dichiarato – in anticipo – di voler partecipare al corteo che sfidava l’ordinanza Alemanno contro i raduni in centro dopo il disastro del 15 ottobre. E gli studenti hanno deciso di organizzare una manifestazione proprio contro il divieto, convergendo sulla stazione Tiburtina. Da lì, tutti insieme, si doveva arrivare alla Sapienza passando dal centro.
MA, DAVANTI alla stazione, i circa 300 manifestanti hanno trovato i poliziotti schierati in assetto antisommossa: hanno urlato slogan, mostrato i loro scudi di cartone e gommapiuma, gridato la voglia di futuro oltre le nubi del presente italiano. In risposta, niente autorizzazione al corteo. Gli studenti hanno tentato di forzare il cordone, gli agenti hanno caricato: spinte e manganellate su giovani in gran parte minorenni, del tutto disarmati. Dopo le botte, alcuni si sono spinti in un’area interna al piazzale per sfondare la rete del cantiere e tentare la fuga. Gli agenti hanno attaccato ancora: oltre alla manifestazione non autorizzata, c’era il danneggiamento. Altre manganellate, qualche ragazzino inseguito nelle vie laterali, e poi un cordone tutto intorno alla piazza. “Ci hanno sequestrato, non possiamo uscire di qua senza farci identificare – raccontava un ragazzo al telefono –. Adesso ci sediamo per terra e vediamo che succede”. Dopo una lunga mediazione, cui hanno partecipato diversi genitori e alcuni esponenti dell’opposizione, si è arrivati alla soluzione: si poteva lasciare la zona a gruppi di trenta per raggiungere la Sapienza, ma niente centro. Alla fine tutti si sono riuniti davanti all’università decidendo di riconvocarsi per il 17 novembre: con o senza il consenso di Alemanno.
Che ha commentato così: “Per fortuna non ci sono stati grandi incidenti, e mi dispiace sinceramente che la forza pubblica sia dovuta intervenire. Però ci sono delle regole che tutti devono rispettare. È chiaro che il Questore ha dovuto fare il suo mestiere, così come il sindaco che deve rispettare i diritti degli studenti ma anche quelli dei cittadini romani che non vogliono vedere la propria città messa sempre a dura prova da continue manifestazioni”. Dunque massima sintonia tra le istituzioni cittadine, e una certa soddisfazione per aver evitato noie al traffico. Peccato che la stazione sia rimasta chiusa per ore, i bus dirottati e le vie di accesso chiuse. Giuseppe, papà di uno studente 17enne, è stupito da tanta approssimazione: “Ho assistito a una gestione della piazza ridicola. Centinaia di agenti ed elicotteri per pochi studenti. Impediscono ai ragazzi di uscire dalla piazza. Ma con quale credibilità si agisce così? Perché dovrebbero identificare ragazzini minorenni che non rappresentano nessuna minaccia quando nel Paese ci sono rappresentanti in odore di crimini ben più gravi? ”.
SECONDO la Questura, tutto regolare. L’avviso rivolto alla popolazione sui rischi “civili, penali e amministrativi” del partecipare a un corteo non autorizzato era sufficiente a giustificare la richiesta di documenti a tutti quelli che apparivano in procinto di organizzare o seguire l’evento. Flavia scuote la testa: “C’era anche un fotografo davanti alla scuola, la mattina. Faceva strane foto, non credo fossero per i giornali”. Le identificazioni ieri sono state oltre 300, e ora verranno denunciate almeno dieci persone per “invasione di terreno”. Nei confronti degli altri si sta valutando l’ipotesi di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento.
Insomma Digos e agenti, tutti impegnati a perseguire pericolosi studenti liceali mentre ieri il Tribunale del Riesame ha deciso gli arresti domiciliari per sette tra gli arrestati di San Giovanni. Uno resta in carcere a Roma e un altro a Chieti (Leonardo Vecchiolla). Per altri due romani, tra cui Fabrizio Filippi detto er Pelliccia, si deciderà nei prossimi giorni.

La Stampa 4.11.11
Fecondazione, un diritto poco europeo
di Vladimiro Zagrebelsky


Il diritto ad avere figli, anche superando la propria incapacità, è oggetto di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Due coppie austriache, non in grado di generar figli se non ricorrendo alla procreazione medicalmente assistita, resa possibile dai progressi della scienza medica, non hanno potuto realizzare il loro desiderio per il divieto posto dalla legge. Per la prima coppia si trattava di procedere a una fecondazione «in vitro» con dono dello sperma da parte di un estraneo, per la seconda si sarebbe dovuto procedere alla fecondazione «in vitro» con dono di ovuli femminili. La legge austriaca esclude la fecondazione «in vitro» eterologa (cioè con dono di gameti femminili o maschili di persona estranea alla coppia) e permette solo quella «in vivo» con dono di sperma. In Europa la scienza e la legislazione in materia sono in rapida evoluzione e così la sensibilità sociale. Come sappiamo, in Italia a seguito della legge n. 40 del 2004 è vietato il ricorso a ogni tecnica di procreazione assistita di tipo eterologo, sia essa «in vitro» o «in vivo». Tra i Paesi del Consiglio d’Europa, la stessa restrizione generale è adottata solo dalla Lituania e dalla Turchia, mentre la Germania, la Croazia, la Norvegia e la Svizzera limitano la proibizione al dono di ovuli femminili. Negli altri Paesi la procreazione eterologa è permessa, rimanendo escluso soltanto il commercio dei gameti.
Le due coppie si rivolsero ai giudici del loro Paese, fino alla Corte costituzionale, che però ritenne giustificata l’esclusione imposta dalla legge nazionale. Contro questo risultato negativo esse hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ora reso la sua sentenza. La Corte ha sottolineato la complessità e delicatezza delle questioni legate alla filiazione, sul piano legale e sociale. Essa ha riconosciuto l’esistenza di una tendenza verso l’ammissione delle nuove tecniche di procreazione eterologa, ma ha ritenuto che ancora mancasse in Europa un approccio comune (per esempio in materia di diritto del nato a conoscere l’identità del donatore di gamete) e ha quindi concluso che le scelte operate dall’Austria rientrano nel margine di valutazione nazionale che in materia deve essere riconosciuto agli Stati. Diviene sempre più frequente da parte della Corte europea il ricorso (rifugio?) al criterio del margine di valutazione nazionale, che però, se troppo allargato, finisce con il contraddire il suo ruolo di difesa dei diritti individuali anche con l’armonizzazione in Europa delle linee essenziali dei diversi diritti nazionali. Ma è proprio questo ruolo europeo che è negli ultimi tempi negato da diversi Stati con critiche e attacchi, che mettono la Corte in difficoltà.
L’argomento fondamentale svolto dai ricorrenti davanti alla Corte era basato sull’irrazionalità del divieto, che finiva con il discriminare senza ragione coloro che si trovavano nelle loro condizioni rispetto non solo a chi aveva la fortuna di non aver bisogno di tecniche mediche ma anche a chi poteva ricorrere alla fecondazione «in vivo» con dono dello sperma di un uomo estraneo alla coppia. Questa ingiustificata e discriminatoria limitazione andava a incidere sul diritto fondamentale al rispetto della vita familiare garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E su questo punto - che si trattasse cioè di una limitazione di quel diritto fondamentale - la Corte europea ha condiviso l’opinione dei ricorrenti. Non si trattava per la verità di questione controversa, poiché c’erano precedenti della Corte nello stesso senso ed anche i giudici austriaci avevano ammesso che le scelte della coppia sul se e come avere figli sono un aspetto del diritto al rispetto della vita familiare. La questione quindi riguardava la legittimità e la proporzione dell’interferenza statale nel diritto dei ricorrenti.
Il governo austriaco - appoggiato dal governo italiano e in parte da quello tedesco - sosteneva che il divieto era giustificato, sia dalla preoccupazione di evitare il crearsi di legami «atipici» tra il figlio nato e la pluralità di genitori (più «padri» o più «madri»), sia dalla necessità di escludere possibili fenomeni di sfruttamento della donna nel caso di dono di ovuli femminili e di «affitto dell’utero», fino al rischio di permettere pratiche eugenetiche. Ma, come facevano valere le due coppie, gli eventuali abusi possono essere contrastati e anche nell’adozione talora sorgono difficoltà e si creano legami plurimi, con la famiglia originaria e con quella adottiva, senza per questo che l’adozione sia vietata. D’altra parte, le pratiche mediche che erano loro vietate, sono facilmente disponibili in altri Paesi europei (come dimostra una facile ricerca su Internet). In proposito il governo austriaco ha sostenuto che la possibilità pratica di sottrarsi al divieto ne dimostrava la scarsa incidenza sul diritto delle coppie ricorrenti, tanto più che è comunque assicurato l’ordinario stato di filiazione al figlio nato con quelle tecniche vietate. Vien da chiedere, allora, perché negare il diritto in patria e costringere le persone a cercar soluzione all’estero? In definitiva, a giustificazione del divieto restava l’atipicità o inusualità di quel tipo di filiazione, per come percepite in parti della società austriaca e forse anche in altre. Quale forza però può assegnarsi all’argomento che resiste all’inusuale, cioè al nuovo, quando si tratta di cogliere le possibilità oggi offerte dalla scienza per soddisfare legittimi desideri e fondamentali diritti delle persone?

Lo scontro sulla pedofilia
2006 IL RAPPORTO MURPHY
320 vittime accusano 46 sacerdoti per il periodo 1975-2004
2007 IL SEGRETO PONTIFICIO
La Santa Sede oppone il silenzio a ogni richiesta di informazione
2010 LA LETTERA DEL PAPA
Benedetto XVI accusa i preti colpevoli: avete tradito la fiducia
2011 IL RITIRO DEL NUNZIO
Dopo le critiche di Dublino, il Vaticano richiama il nunzio

La Stampa 4.11.11
“Divorzio” dalla Santa Sede Dublino chiude l’ambasciata
“È una scelta dettata da motivi economici”. Padre Lombardi: liberi di decidere
di Giacomo Galeazzi


Dublino «divorzia» dal Vaticano e, tra le proteste dei vescovi dell’isola, la cattolicissima Irlanda lascia la Curia Romana. Il governo chiude l’ambasciata presso la Santa Sede e assicura che è una scelta dettata da motivi economici legati alla crisi e non dal «grande freddo» nei rapporti diplomatici con la Santa Sede. Rapporti, però, che attraversano una fase molto difficile. Tre mesi fa sia il premier Enda Kenny sia il Parlamento avevano severamente censurato la Chiesa di Roma, tacciandola di «sabotare le inchieste sui preti pedofili». Non era mai successo che Dublino parlasse con tanta forza contro il Vaticano, accusandolo di mettere i propri interessi davanti a quelli delle vittime degli abusi.
La decisione dell’esecutivo irlandese (che ha chiuso anche le rappresentanze in Iran e a Timor Est) è stata presa «per rispondere agli obiettivi del programma dell’Ue e dell’Fmi e riportare la spesa pubblica a un livello accettabile». Replica il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi: «La Santa Sede prende atto della decisione dell’Irlanda. Naturalmente ogni Stato che ha relazioni diplomatiche con la Santa Sede è libero di decidere, in base alle sue possibilità e interessi, se avere un ambasciatore presso la Santa Sede residente a Roma oppure residente in un altro Paese». Ma «importanti sono i rapporti diplomatici fra la Santa Sede e gli Stati, e questi non sono in questione».
In seguito alle polemiche sullo scandalo-abusi, il 25 luglio la Santa Sede aveva richiamato a Roma il nunzio apostolico a Dublino «per consultazioni». Un fatto rarissimo, che ha fatto ancora più rumore perché coinvolge un Paese d’incrollabile tradizione cattolica. Al momento il posto di «ambasciatore del Papa» a Dublino è vacante in quanto il nunzio Giuseppe Leanza, prima richiamato in Vaticano, ha poi avuto un nuovo incarico a Praga. La nunziatura è comunque regolarmente aperta.
A settembre la Santa Sede ha inviato una lettera al governo di Dublino, riconoscendo la gravità degli abusi sui minori. Ma il Vaticano ha respinto seccamente, come infondata, l’accusa del governo irlandese di aver ostacolato le indagini e impedito all’episcopato nazionale di denunciare i preti pedofili alle autorità civili. Il governo irlandese ha riconosciuto «la serietà» della risposta vaticana, pur ribadendo che le sue passate posizioni «hanno dato il pretesto ad alcuni per non collaborare» con le autorità del Paese. Ieri, infine, la decisione di chiudere l’ambasciata romana.
«Profondo disappunto» per la «serrata» è stata espressa dal cardinale Sean Brady, arcivescovo di Armagh e Primate d’Irlanda, avvisato con una telefonata del ministero degli Esteri. Brady ha detto che «molti altri condividono questa delusione», ricordando che le relazioni tra i due Stati risalgono al 1929. «Questa decisione sembra mostrare poca considerazione per l’importante ruolo svolto dalla Santa Sede nelle relazioni internazionali e per i legami storici con il popolo irlandese», lamenta il porporato. «Spero che, nonostante questo passo deplorevole, la stretta e reciprocamente vantaggiosa collaborazione tra l’Irlanda e la Santa Sede nel mondo della diplomazia possa continuare» e che Dublino nomini al più presto «un nuovo ambasciatore residente presso la Santa Sede». Per la Segreteria di Stato la delicatezza dei rapporti che intercorrono in questo momento tra la cattolicissima Irlanda e il Vaticano «merita una particolare attenzione».

Repubblica 4.11.11
Irlanda
Dopo lo scontro sui preti pedofili chiude l´ambasciata presso la S. Sede


DUBLINO - Il governo irlandese ha annunciato la chiusura della sua ambasciata presso il Vaticano a Roma, una delle suoi sedi diplomatiche più antiche, aperta nel 1929. La motivazione ufficiale è la riduzione dei costi, ma le relazioni tra Irlanda e Santa Sede, un tempo solidi alleati, non sono mai state così tese dopo gli scandali di pedofilia esplosi nel Paese e le accuse di aver coperto gli abusi che il governo di Dublino aveva rivolto contro i vertici della Chiesa. Tanto che a luglio il Vaticano aveva richiamato "per consultazioni" il nunzio apostolico in Irlanda. Il ministro degli Esteri di Dublino, Eamon Gilmore, ha precisato che i due fatti non sono legati. «Per rispondere agli obiettivi del programma dell´Unione europea e del Fondo monetario internazionale e riportare la spesa pubblica a un livello accettabile, il governo è stato costretto a tagliare numerosi servizi pubblici» ha spiegato. Tra i tagli, c´è anche la chiusura delle ambasciate in Vaticano, in Iran e l´ufficio di rappresentanza in Timor Est. «La Santa Sede prende atto della decisione dell´Irlanda» ha commentato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. «Ciò che è importante sono i rapporti diplomatici fra la Santa Sede e gli Stati, e questi non sono in questione per quanto riguarda l´Irlanda».

La Stampa 4.11.11
La madre di Tornay scrive a Benedetto XVI
Duplice delitto e suicidio tra le guardie svizzere “Voglio sapere la verità”


«Voglio la verità su mio figlio», si appella al Papa, Muguette Baudat. Dopo «13 anni di silenzio del Vaticano», lettera aperta a Benedetto XVI per richiedere i documenti e contestare la versione ufficiale, secondo la quale il vicecaporale Cedric Tornay il 4 maggio ‘98 ha ucciso il comandante delle Guardie Svizzere Alois Estermann (sospetto ex agente della Stasi) e sua moglie Gladys in preda a un raptus per una mancata promozione e poi si è tolto la vita. La madre di Tornay ritiene falsa la ricostruzione della magistratura vaticana. Per lei sia Cedric sia il comandante e la moglie sarebbero stati vittime di una «messinscena orchestrata per eliminare Estermann e avere un assassino pazzo e morto». Muguette Baudat ritiene l’inchiesta della Santa Sede «piena di dissimulazioni,contraddizioni e menzogne nel tentativo di celare una verità inconfessabile». Il Vaticano «finora non ha mai risposto alle nostre richieste», ma ora «deve conformarsi alle regole del diritto internazionale» e, «come sulla pedofilia nel clero, è giunto il momento per una comunicazione più aperta su dossier scottanti».

Corriere della Sera 4.11.11
Infanzia, una Carta contro gli abusi

Otto milioni di bambini sono scomparsi nel mondo nel 2011. Tra il 10 e il 20% dei bambini europei ogni anno rischia di essere vittima di abuso sessuale. Ogni anno 80 mila persone in Italia partono per turismo sessuale. Per continuare a fare qualcosa, dice Ernesto Caffo di Telefono Azzurro, «per il tanto lavoro fatto i cui risultati non sempre sono all'altezza», ieri è stata sottoscritta la Carta di Roma contro gli abusi all'Infanzia, alla fine dei lavori organizzati da Telefono Azzurro e Icmec (International Centre Missing Exploited Children).

Papandreou rinuncia al referendum e sfida la destra
l’Unità 4.11.11
Intervista a Luciano Canfora
«È inaccettabile che si debbano cedere pezzi di sovranità»
Lo studioso: «Quest’Europa che detta legge
ai governi ricorda la “Santa Alleanza”: strutture sovranazionali con atteggiamenti semi-coloniali»
di Andrea Carugati

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La Stampa 4.11.11
Il gigante asiatico è diventato il primo fornitore militare della repubblica islamica
“Pechino viola l’embargo e vende armi a Teheran”
Gli Usa: “Sanzioni Onu ignorate, all’Iran tecnologia nucleare cinese”
di Paolo Mastrolilli


La Cina continua a vendere armi all’Iran. Di sicuro armi convenzionali, che molto probabilmente violano le sanzioni Onu, ma forse anche tecnologia utilizzabile nel settore nucleare. La denuncia è contenuta in un rapporto della «Us-China Economic and Security Review Commission», una commissione del Congresso, che verrà pubblicato il 16 novembre. Si tratta di una rivelazione che aumenta la pressione sul presidente Obama, proprio mentre da Israele e dalla Gran Bretagna arrivano voci di un possibile intervento militare a breve contro Teheran.
Il rapporto sostiene che Pechino ha venduto alla Repubblica islamica armi per 312 milioni di dollari, e questa cifra riguarda solo gli scambi ufficiali. Così ha scavalcato come primo fornitore la Russia, che ha rallentato i commerci dopo le sanzioni approvate all’Onu. La Cina ha sicuramente passato all’Iran missili per colpire le navi, tra cui i pericolosi C-802, che aveva promesso agli Stati Uniti di non cedere. Queste armi forse non violano l’«Iran, North Korea and Syria Nonproliferation Act» del 2006, perché non superano la gittata di 300 chilometri e non possono portare testate con 500 chili di esplosivo, però infrangono altre misure come il «Comprehensive Iran Sanctions, Accountability and Divestment Act» del 2010, che vietava l’esportazione nella Repubblica islamica di «armi convenzionali avanzate». Il rapporto, però, aggiunge anche un sospetto molto più grave: «Ci sono voci secondo cui la Cina, o entità cinesi, hanno continuato silenziosamente a fornire sostegno all’Iran nella ricerca di armi di distruzione di massa e missili balistici». Una chiara violazione delle sanzioni Onu.
L’ambasciata di Pechino a Washington ha smentito tutto, dicendo che rispetta alla lettera tutti i trattati di non proliferazione, e sollecitando il Congresso ad abbandonare questa mentalità da guerra fredda. Il rapporto, però, arriva in un momento delicato. Due giorni fa Israele ha provato con successo un missile balistico che potrebbe colpire l’Iran, mentre alcuni media scrivono che il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Barak stanno cercando di convincere i parlamentari della necessità di attaccare. E che l’ipotesi sia concreta è dimostrato anche dall’apertura di un’inchiesta per appurare il responsabile della fuga di notizie che ha portato i media ieri a rivelare le intenzioni del governo Netanyahu. E ieri in Israele c’è stata un’esercitazione ipotizzando attacchi missilistici iraniani su Tel Aviv.
Tutto questo aumenta la pressione su Obama. Parlando a margine del G20, il capo della Casa Bianca ha detto che il programma nucleare iraniano continua a rappresentare una minaccia e perciò la comunità internazionale deve mantenere alta l’attenzione. Molti analisti, però, sono convinti che Obama non ha alcun interesse a lanciarsi in un’altra guerra durante la campagna presidenziale, e infatti Washington ha usato il recente complotto contro l’ambasciatore saudita solo per chiedere più sanzioni. Il ministro degli Esteri iraniano Salehi ha comunque risposto alle voci, promettendo al giornale turco Hurriyet una «risposta brutale», se l’Iran verrà attaccato.

La Stampa 4.11.11
Addio ai paperoni di Pechino La Cina deve colpire i ricchi per fare il loro bene
di John Foley


Secondo un sondaggio di Hurun Report, metà dei cinesi ricchi vorrebbe emigrare. Vadano pure. Le misure di controllo sui capitali della Cina renderebbero molto difficile l’espatrio dei 2.700 miliardi di dollari in possesso della parte più abbiente della popolazione. Ciò che serve è creare le condizioni perché emerga una nuova generazione di ricchi, e ciò significa varare riforme sgradite o inaccettabili per gli attuali paperoni. Quasi tutti i paesi vantano un’élite scontenta. Anche in Gran Bretagna, secondo uno studio di Lloyds Tsb, un terzo dei cittadini ricchi vorrebbe emigrare. L’élite cinese avrebbe forse più motivi di altre per lasciare la madrepatria - ad esempio, le condizioni più svantaggiose in termini di inquinamento, assistenza sanitaria e istruzione, per non citare l’alta inflazione e l’instabilità sociale. La stella del basket Yao Ming è stato criticato per aver scelto la cittadinanza Usa per la figlia Amy. Tuttavia, diverse delle ragioni per cui molti cinesi vorrebbero emigrare sono le stesse che hanno permesso loro di arricchirsi. Per lunghi decenni, l’immissione di capitali a buon mercato nell’industria pesante ha creato eserciti di milionari, ma ha lasciato un paesaggio sfregiato e problemi ambientali.
La moneta sottovalutata ha consentito agli esportatori di accumulare ricchezze, ma ha creato una sottoclasse di lavoratori migranti che rappresentano una minaccia per l’ordine sociale. Anche la corruzione ha prodotto un grande numero di milionari. Credit Suisse calcola che gli introiti non dichiarati ammontino a 1.400 miliardi di dollari, e solo la Russia si classifica alle spalle della Cina nell’indice di corruzione di Transparency International. A tutto questo si sommano i mercati chiusi della Cina, che tagliano le ali ai ricchi ma alimentano le loro fortune proteggendoli dalla concorrenza estera. Il governo può fare molto per creare nelle nuove generazioni il desiderio di restare in patria. Può intervenire con più durezza sulle fonti di inquinamento e allentare il controllo del settore pubblico sul capitale a basso costo.

Corriere della Sera 4.11.11
I cinesi mandati a lezione di etica
Il gigante alla ricerca di coesione
di Matteo Del Corona

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Corriere della Sera 4.11.11
Il misterioso Lin Biao
Fra condanna e riabilitazione
risponde Sergio Romano


Anni fa, la prima volta che sono stato a Zhuzhou, i nostri ospiti ci hanno portato a visitare la casa natale di Mao Zhe Dong nel villaggio di Shao Shan, comprensibile meta d'obbligo per tutti i cinesi che hanno una venerazione per il loro «presidente Mao». Recentemente ho visitato una fabbrica nella città di Tuang Feng, vicino a Wuhan, e qui i nostri partner ci hanno portato a visitare la casa natale di Lin Biao nel villaggio di Lin Jia Da Wang (villaggio della famiglia Lin). Sono rimasto molto sorpreso perché ricordavo Lin Biao (allora si scriveva Piao) come ispiratore della Rivoluzione culturale e dissidente assieme alla banda dei quattro, abbattuto nei cieli della Mongolia mentre fuggiva dalla Cina dopo un tentativo di golpe fallito. Alla mia osservazione, la guida prontamente ha replicato che erano tutte calunnie messe in giro per discreditare agli occhi di Mao, il loro eroe «maresciallo Lin Biao». Corrisponde a realtà storica quanto riferito dai giornali dell'epoca? Come mai questa riabilitazione postuma?
Sante Bondioli

Caro Bondioli,
N ella storia del comunismo cinese e della Repubblica popolare, Lin Biao è uno dei personaggi più interessanti ed enigmatici. Durante l'ultima fase della guerra contro il Kuomintang, fu l'artefice della vittoria, il maresciallo che ruppe il fronte del nemico e aprì all'Armata popolare la strada di Pechino. Nel 1959, quando divenne ministro della Difesa, rivoluzionò le forze armate abolendo i simboli del grado sulle uniformi militari. Nel 1965 annunciò la rivoluzione mondiale e disse che sarebbe stata quella delle campagne contro le città, dei contadini in armi contro i ceti sociali corrotti delle aree urbane. Nei mesi seguenti, dopo l'inizio della rivoluzione culturale, schierò l'Armata popolare con gli iconoclasti che, ispirati dalle parole di Mao, stavano «bombardando il quartier generale», vale a dire lo stesso partito comunista cinese. Nel 1969, durante il nono congresso del Pcc, divenne il delfino di Mao. Agli occhi di coloro che cercavano di decrittare gli avvenimenti cinesi, sembrò che Lin Biao e l'esercito fossero allora schierati con il «Grande Timoniere» contro le vecchie nomenklature. Ma due anni dopo, nel settembre del 1971, Lin abbandonò precipitosamente la Cina, e il suo aereo, forse diretto verso l'Unione Sovietica, si schiantò al suolo mentre volava al di sopra della Mongolia.
Qualche tempo dopo Lin venne denunciato alla pubblica opinione come traditore, golpista, leader di quella «banda dei quattro» che aveva complottato contro il potere di Mao. Ma sulle ramificazioni del golpe e sugli obiettivi politici dei congiurati, la Cina ci ha dato soltanto notizie generiche e non verificabili. Chi sperava che qualcosa di più trasparisse dalla massa di libri, memorie e saggi storici apparsi recentemente in occasione dei festeggiamenti per il novantesimo anniversario della fondazione del partito, è andato deluso. Come ricorda David Shambaugh in un articolo apparso sul New York Times del 30 giugno, l'ultimo compendio di storia del partito arriva al 1978, ma gli eccessi della rivoluzione culturale vengono genericamente attribuiti agli «opportunisti di sinistra», fra cui Lin Biao continua a figurare in primo piano. È probabile tuttavia che qualche eccezione venga fatta per il suo ruolo nella guerra di liberazione. È questa forse la ragione per cui al suo villaggio è permesso di celebrarlo come gloria locale.

il Riformista 4.11.11
Perché Cina e India “devono”aiutare la vecchia Europa
Interessi. Hu Jintao: «Nessun miglioramento nell’economia globale senza una ripresa di quella europea». Singh: «Non possiamo permetterci una crisi che si diffonda in tutto il mondo»
di Andrea Pira

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Repubblica 4.11.11
Più veloce ed economico, si svolgerà sul web non bisognerà ricorrere a legali né andare in aula
In Gran Bretagna l'addio sarà fai-da-te
La proposta è stata messa a punto dal ministero della Giustizia dopo mesi di consultazioni
di Enrico Franceschini


Ci sono divorzi veloci, come quelli celebrati a Las Vegas (altrettanto rapidi dei matrimoni che si fanno da quelle parti), e divorzi lenti, come quelli a cui si arriva per esempio in Italia, dopo anni di separazioni legali, tribunali, carte bollate. Ma non s´era ancora mai sentito di un divorzio fai-da-te: negoziato, concluso e sottoscritto dai diretti interessati, ovvero da marito e moglie. Ex-marito ed ex-moglie, non appena apposta la firma in calce all´apposito documento, sebbene sia una firma per modo di dire perché l´intera procedura, per velocizzarla ancora di più, si svolge su Internet.
È un´idea del governo di David Cameron, che è un premier conservatore come appartenenza di partito e un certo tipo di valori, ma indubbiamente innovatore dal punto di vista delle novità che sforna da Downing Street al ritmo di un prestigiatore dal cappello. Non tutte magari vanno a compimento, vedi il suo progetto di una Grande Società di stampo kennediano in cui tutti si aiutano l´uno con l´altro e prendono l´iniziativa (senza chiedere un soldo allo stato - qui stava il punto debole, e un po´ sospetto in tempi di crisi, dell´iniziativa). Ma in assoluto non è certo brutta l´idea di dare più autonomia ai cittadini, ridurre la burocrazia e nel contempo fare risparmiare qualche soldo alle finanze pubbliche.
La proposta (perché di questo per ora si tratta) messa a punto da una commissione del ministero della Giustizia britannico prevede la creazione di un "divorce information hub", un network di informazioni sul divorzio, a cui i cittadini possono accedere gratuitamente attraverso il web. Il sito in questione darebbe alle coppie che hanno deciso di separarsi una guida passo per passo su come dissolvere il loro matrimonio, comprese istruzioni e consigli sull´ammontare degli alimenti e sulla custodia dei figli. Lo scopo più ampio della riforma, che include anche altri problemi normalmente amministrati dai tribunali, è incoraggiare la gente a fare da sola nel tentativo di risolvere le dispute meno gravi senza ricorrere alle corti di giustizia. La magistratura dovrebbe essere considerata, afferma il rapporto, come l´ultimo mezzo per portare al divorzio, spingendo le coppie a usare il sito Internet invece che giudici e avvocati. Soltanto nel caso in cui marito e moglie non riescano a mettersi d´accordo, ci sarebbe la necessità di fare intervenire il tribunale.
«Un sistema di questo tipo, se diventerà legge, porterebbe a una notevole riduzione dei tempi per arrivare a un divorzio, a un risparmio di denaro pubblico e privato e a un minore stress per i figli», dice l´autore del rapporto governativo, David Norgrove, al Times di Londra. Il progetto è il risultato di mesi di consultazioni e analisi. Non tutti sono contenti, però. L´organizzazione "Fathers for Justice" lo critica temendo che una giustizia fai-da-te privi i padri di un´informazione adeguata sui diritti di cui godono nell´assegnazione della custodia dei figli, notando in particolare che il rapporto respinge la proposta di dare "uguali diritti" sui figli a marito e moglie, limitandosi a parlare di "uguale accesso". E poi ci sono i dubbi degli avvocati divorzisti, non proprio entusiasti alla prospettiva di perdere migliaia di clienti.

Repubblica 4.11.11
La lunga marcia di Occupy Oakland così l'America riscopre lo sciopero
di Enrico Deaglio


Mercoledì la città sulla baia di San Francisco è stata bloccata. Chiusi il porto, gli uffici, i negozi, le scuole Ma la protesta è sfociata nella violenza: nella notte scontri tra anarchici e polizia, con 40 arresti e molti feriti

SAN FRANCISCO. Mercoledì milioni di americani seduti davanti alla televisione sono stati colpiti da una notizia inusuale. In collegamento in diretta da Oakland, la città portuale nella baia di San Francisco, i reporter davano conto - in diretta, eccitati e incredubili - di un corteo che si ingrossava sotto i loro occhi. Settemila persone, famiglie con carrozzelle, ciclisti, insegnanti, casalinghe, militanti sindacali - tutti convocati da Occupy Oakland - marciavano verso il grande porto della città, e ne bloccavano gli ingressi, fermando i porta container, formando picchetti, fino all´annuncio ufficiale che tutte le operazioni erano "shut down", bloccate, fino al giorno seguente. Era la vittoria dello "sciopero generale". Anche se poi, a margine della mobilitazione, ci sono stati violenti scontri tra la polizia e manifestanti con 40 arresti e diversi feriti.
"Sciopero generale" non appartiene più in America né al linguaggio sindacale, né tantomeno quello politico, perché evoca confusamente qualcosa di sinistro: la lotta di classe, il comunismo, la contestazione sistema di vita americano. E quindi, vedere normali persone sfilare con cartelli tipo "il capitalismo è disumano", o "ridistribuite l´abbondanza" e l´onnipresente "siamo il 99 per cento", costituisce se non altro, una ironia della storia, e un elemento nuovo del paesaggio.
Ecco la storia di una giornata particolare e di quello che l´ha preceduta.
Oakland, 400 mila abitanti, si specchia in San Francisco dall´altra parte della baia. Siamo nell´ultimo lembo dell´occidente, davanti c´è solo l´Oceano pacifico e nell´immenso porto entrano ed escono le maestose portacontainer cinesi, che hanno cambiato il paesaggio economico della California. La baia che ha costruito con il ferro il Golden Gate e la flotta navale della seconda guerra mondiale, oggi si affida all´acciaio di Pechino per rifare il suo ponte danneggiato dal terremoto di vent´anni fa. Cinese americana è anche il sindaco di Oakland, la signora Jean Kuan, sessantottina in gioventù, oggi prima donna asiatica a governare una grande città americana. Nel passato della città, la presenza di Jack London e un grande sindacato dei portuali; poi l´avventura politica delle Pantere Nere, un notevole grado di violenza, l´avanguardia musicale del rap.
Tutto comincia circa un mese fa, quando sull´onda di Occupy Wall Street a New York, anche ad Oakland e a San Francisco vengono montate tende davanti ai grandi edifici della finanza per testimoniare l´avidità e l´egoismo delle banche e delle grandi corporations. Non sono molte persone, però. Se c´è qualcosa che invece ha emozionato, nel reame del capitalismo, è stata la morte prematura di Steve Jobs. In migliaia si sono realmente commossi, portando fiori e bigliettini da appicciare sulle vetrine degli Apple Store.
E così viene il 25 Ottobre. Il sindaco Jean Kuan è a Washington per servizio, e in sua assenza il capo della polizia decide che le tende nel centro di Oakland vanno rimosse. Sporcano, circola droga. Gli agenti si vestono come se fossero a Bagdad e nella notte attaccano i dormienti. Scontri, si radunano mille persone. Sassaiola. Lacrimogeni. Un ragazzo biondo cade colpito alla testa, ha gli occhi sbarrati, non parla. Nessuno lo sapeva, ma è un marine. Si chiama Scott Olsen ed è appena tornato in patria dopo due turni in Iraq. Scampato ad Al Quaeda, ora ha danni cerebrali e il cranio fratturato in patria. A questo punto, gli avvenimenti precipitano. Le tende vengono rimontate, la polizia ritirata; il sindaco si scusa, ma ormai gli avvenimenti prendono una piega imprevista. L´assemblea del movimento vota lo "sciopero generale" del 99 per cento del popolo contro l´uno per cento dei ricchi che sta mettendo alla fame l´America. Sembra una velleità sull´onda dell´emozione, ma la decisione è presa: il 2 novembre tutta la città deve fermarsi: negozi, scuole, uffici. Tre cortei si incaricheranno di chiudere le banche e nel pomeriggio dovrà fermarsi anche il porto, circondato da un picchetto di massa. E qui continuano le cose strane ed impreviste: il movimento riceve aiuti inaspettati. Prima il sindacato dei portuali, poi gli insegnanti, poi le infermiere e infine - e questo è stato davvero clamoroso - dei poliziotti, che in una lettera aperta si sono dichiarati anche loro "facenti parte del 99 per cento", impossibilitati per legge a scioperare, ma per nulla entusiasti di fronteggiare i manifestanti.
E così è arrivato il giorno fatidico. Subito dopo Halloween, in cui tutti (il 99 e l´1) avevano circolato travestiti da gatti o con parrucche viola e nella ricorrenza del "dia de los muertos" della tradizione messicana, per cui i manifesti raffiguravano uno scheletro con sombrero che annunciava la huelga e l´embargo a los ricos.
È una splendida giornata di sole e all´appuntamento si presentano insegnanti, ragazzi, portuali, pensionati, buddisti, uomini di chiesa, domestiche, commessi. Cinquanta allievi di teatro formano un balletto sulle note di I will survive, in cui i ricchi hanno il cilindro e il sigaro, mentrei poverisobbano sui gomiti. Tutti applaudono (Bertolt Brecht si sarebbe sentito a casa). Il Grand Lake Theatre, monumento architettonico degli anni Venti, gloria della città, con mosaici, colonne dorate e un organista che suona prima della proiezione dei film, annuncia «siamo orgogliosi di sospendere le proiezioni in solidarietà con lo sciopero generale», come se fosse lo spettacolo più atteso. Le persone circolano, con estrema naturalezza, tra citazioni di Lenin e di Gandhi, invocazioni alla Comune di Parigi e appelli alla distruzione del capitale. Un uomo spiega con un cartello: "cammino come un egiziano". Una distinta professoressa universitaria dai capelli bianchi incita la folla: "Tutto il mondo ci sta guardando!": toh, è Angela Davis, la militante comunista che quarant´anni fa conturbò non poco i ragazzi di mezzo mondo con la sua minigonna rossa. I cortei si sistemano davanti a Wells Fargo, Citibank, Chase e le chiudono. Sfilano i professori: "el maestro luchando sta ensenando". Un cartello: "le corporations non sono esseri umani, altrimenti in Texas le avrebbero già messe a morte". Zaffate di marijuana nella brezza. Un uomo molto piccolo: "poeti per il popolo". Due ragazzi ben vestiti: "installate pannelli solari per uno sviluppo sostenibile". Liberate i prigionieri! Legalizzate la cannabis! Tassate i ricchi! Aumentate le paghe! Finanziate le scuole! Sospendete gli sfratti! Ritiriamo i soldi da Citibank! Capitalismo = game over.
E così è andato avanti tutto il giorno, fino alla fiumana di persone che ha bloccato il porto; a notte fonda, poi, un po´ di scontri tra cinquanta anarchici e altrettanti poliziotti.
Così è andato il primo sciopero generale in America nel ventunesimo secolo. Se ce ne saranno altri, non si sa. Ma certo chi ha inventato lo slogan del 99 per cento, deve essere un genio del marketing: ha capito che il terreno era fertile.

Repubblica 4.11.11
Daniel Dennett
“Ecco perché la cultura ha bisogno della scienza"
Il filosofo americano spiega la sua teoria della competenza senza comprensione
Come i computer possiamo fare una cosa anche se non sappiamo come funziona
di Maurizio Ferraris


Nel confronto tra realisti e antirealisti non è in questione l´esistenza della realtà, ma il ruolo di schemi concettuali e pratiche sociali nella costruzione della realtà. È per esempio evidente che le tasse e i matrimoni dipendono da schemi concettuali e da costruzioni sociali, ma questo vale anche per le montagne e i numeri? E – con ricadute politiche più complesse – per entità che sembrano oscillare tra natura e cultura come, ad esempio, il sesso o le malattie? Gli antirealisti, e in particolare i postmodernisti, tendono ad allungare la lista delle realtà costruite, muovendo dall´assunto che il mondo esterno è una realtà amorfa che riceve forma e senso soltanto dai nostri schemi e dalle nostre pratiche. Questo però presuppone che il nostro rapporto con il mondo (la competenza con cui ci rapportiamo all´ambiente) consista in una ininterrotta attività deliberata e cosciente (in una comprensione). Ne abbiamo parlato con Daniel Dennett, uno dei più autorevoli filosofi della mente contemporanei, che ha elaborato l´ipotesi di una "competenza senza comprensione".
Può illustrarci in breve la sua teoria?
«Per millenni, i filosofi e altri pensatori hanno preso per buona una prospettiva "dall´alto in basso", per cui – nella maggior parte dei casi se non in tutti – la comprensione è l´origine delle nostre competenze. Pensano cioè che noi siamo competenti perché comprendiamo. Quando viceversa è molto più ragionevole pensare che la comprensione sia il risultato di elementi che, a loro volta, non comprendono se stessi».
Forse, in questo caso, un esempio aiuterebbe la comprensione...
«Possiamo fare una cosa senza sapere come funziona. Il computer non conosce l´aritmetica ma sa calcolare. In altri termini: proprio come le cose viventi oggi sono comprese come composte da organismi non viventi – ad esempio dalle proteine – che sono altamente competenti (non sono semplicemente dei "mattoni"), così le cose accompagnate da coscienza possono venire spiegate come composte da elementi altamente competenti, ma non comprendenti. In nessuno dei due casi c´è un misterioso elemento extra. Non occorre un misterioso élan vital per far sì che qualcosa viva, né uno spirito immateriale o una res cogitans per far sì che da una competenza sempre più evoluta emerga la comprensione. La coscienza è il risultato di un gran numero di attività non coscienti».
Se le cose stanno in questi termini, l´iniziativa viene molto più dal mondo – dall´ambiente in quanto dotato di informazioni e di caratteri stabili – che non dalla mente.
«Anche se pensi che devi prendere quella cosiddetta realtà esterna e vederla come qualcosa di prodotto da ciò che è nella tua testa, ti accorgi che quella cosiddetta realtà dà forma e costrizioni a quello che è nella testa di chiunque altro. E allora perché la tua testa dovrebbe essere diversa? I nostri cervelli e organi di senso si sono modellati negli eoni per estrarre informazioni vere dall´ambiente e usarle per creare previsioni sul futuro. Avere ragione è sempre stata una cosa molto importante per la vita e la morte. E non ci siamo certo evoluti contro il nostro bisogno di verità. È certamente vero che il nostro senso soggettivo della realtà è "mentale o socialmente costruito", ma i vincoli sulla costruzione sono così forti che se mostri la stessa scena a mille persone diverse provenienti da tutto il mondo, saranno d´accordo su quasi tutte le caratteristiche principali della scena, persino su quelle che non capiscono. Il fatto che possiamo comprendere, e quindi manipolare, riconoscere e integrare le differenze residue, di percezione e di convinzione, dovute a caratteristiche idiosincratiche, non ci rende imperscrutabili gli uni agli altri e non ci immerge in mondi privati. Inoltre, uno dei più grandi risultati della cultura umana è l´invenzione di migliaia, letteralmente, di "protesi" volte a cancellare le differenze soggettive dovute a nazionalità, religione, genere, età, ricchezza e educazione. Queste protesi si chiamano "scienza", che è la stessa per tutti e raggiunge ogni angolo della nostra vita. Per fare un esempio banale, mettere una rete appesa al cerchio di un canestro rende più facile per tutti, che stiano in piedi o seduti, vedere se la palla è passata attraverso il canestro».
E i disaccordi che si producono su valori, scelte politiche, decisioni esistenziali?
«Grandi differenze politiche o religiose, se irrisolte, possono in effetti sollevare ciò che a prima vista pare un ostacolo insuperabile alla cooperazione e alla comunicazione. Spesso possono portare a scontri anche drammatici. Ma è evidente che in una comunità democratica persino queste possono venire comprese e discusse. Ad esempio, si può sostenere che nonostante le "benedizioni della tecnologia e della scienza" staremmo tutti meglio, vivremmo vite migliori, in un mondo pre-moderno. Non sono d´accordo, ma penso sia un´opinione che valga la pena di esplorare, e sono felice di dare un contributo alla catalogazione delle perdite e dei compromessi che tolleriamo per amore delle "convenienze della modernità". In una conversazione sui nostri diversi punti di vista sul significato della vita non ci sarà mai una vittoria definitiva, ma comunque saremo pur sempre d´accordo su cosa siano i computer, i cellulari, gli antibiotici. E la condivisione di questi fatti sta alla base di tutte le interazioni comunicative, anche le più accese».
Alcune forme di realismo possono ridurre la critica e lo spazio della libertà?
«Il realismo riduce la tua libertà allo stesso modo che la forza di gravità e l´atmosfera. La nostra libertà è meravigliosa ma non assoluta, e senza l´"impaccio" riconosciuto dal realismo saremmo degli idioti che fantasticano. Ma non a lungo. La natura sa come porre fine alle illusioni di quelli che sottovalutano il realismo. Ripensandoci, non riesco a credere che ci siano state persone convinte dai tentativi del postmodermismo di negare l´importanza della realtà e della differenza fra il vero e il falso. Comunque a quanto pare la moda del postmoderno è scomparsa, almeno in America. Sono parecchi anni che non ne scorgo traccia negli studenti, che solitamente ai corsi mi sommergevano di domande postmoderne».

Repubblica 4.11.11
Perdonare è giusto
Dubbi e critiche di un ex magistrato "punire non serve"
di Gherardo Colombo


La condanna, anziché creare responsabilità, la distrugge e così fa con la libertà
Si può retribuire il male con il male solo se si ritiene questa davvero una soluzione positiva
L´anticipazione/ Nel suo nuovo libro, Colombo analizza la possibilità di immaginare delle pene alternative, diverse dal carcere

La concezione filosofica secondo la quale chi trasgredisce deve essere sottoposto a una pena, e cioè deve soffrire, dipende, da una più generale convinzione sull´essenza della relazione tra esseri umani: se questa è basata sulla teoria del premio e del castigo, la conseguenza della violazione della regola non può essere che il castigo.
D´altra parte l´idea retribuzionista della pena è fondata a sua volta sull´idea che sia giusta l´esclusione. Si può retribuire il male con il male solamente se si ritiene che l´espulsione dalla relazione con l´altro sia umanamente (e metafisicamente e teologicamente) non solo ammissibile, ma anche positiva al verificarsi di certe condizioni. Questa idea appartiene a una cultura più ampia, che ha le proprie applicazioni anche in altri campi, primo tra tutti quello educativo. Il modello funziona, al di là delle parole, pressappoco così: poiché hai rotto la relazione affettiva con me (con la comunità, Dio), meriti che io (la comunità, Dio) rompa la relazione affettiva con te. E quanto più grave è stata la rottura, tanto più grave deve essere la frattura da parte mia (della comunità, di Dio). Se la rottura della relazione è consistita, per esempio, nell´eliminazione della fisicità altrui, anche la tua fisicità deve essere eliminata (e quindi la pena deve essere la morte, sia essa effettiva oppure figurata, come nella prigione a vita). Se la rottura non è esaustiva, devi subire un allontanamento, un´esclusione proporzionata all´esclusione dal rapporto affettivo che avevi causato tu. (...)
Ora, questa concezione può essere in sintonia con una visione strumentale dell´essere umano il quale, proprio perché «strumento» può essere escluso, allontanato, eliminato quando non serve o infastidisce. Non vale perché è umano, ma per quello che fa: se fa bene viene premiato, se fa male viene punito. Sicuramente è invece distonica con il principio proclamato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, e stabilito dalla Costituzione italiana, secondo il quale l´essere umano non è strumento ma ha (è) dignità. L´essere umano è degno perché è tale, non per quello che fa (...).
Quando, da magistrato, svolgevo le funzioni di giudice istruttore, succedeva che dovessi emettere mandati di cattura, provvedimenti con i quali disponevo che una persona, prevedendolo la legge, venisse rinchiusa in carcere in custodia cautelare (la prigione prima della condanna). Poniamo che avessi disposto l´arresto di una persona accusata di aver compiuto una rapina in banca minacciando un cassiere con un temperino: succedeva che qualche giorno dopo si presentasse nel mio ufficio a chiedere un permesso di colloquio la moglie, accompagnata da un bambino di pochi anni. La situazione mi poneva interrogativi insolubili, perché non ero in grado di trovare la giustificazione all´aver sottratto al bambino il papà. Quale responsabilità aveva, il bambino, perché subisse la sofferenza della privazione del padre? Se in una logica retributiva si potrebbe concepire che al (fino a quel punto presunto) trasgressore possano essere sottratti diritti fondamentali come quello alla relazione con i suoi cari, nemmeno in quella logica può essere compresa la compressione dei diritti fondamentali di terzi, come appunto il figlio. Non si può rispondere dicendo che il padre avrebbe dovuto pensarci prima, perché si tratta di un argomento che non riguarda il figlio, ma il padre (e credo sia ormai pacifico che non dovrebbe esser ammissibile che le colpe dei padri possano essere fatte ricadere sui figli). Né si può rispondere che è giusto sottrarre il padre al figlio perché gli sarebbe di cattivo esempio: l´osservazione prova troppo, perché non tiene conto, da una parte, che se così fosse il figlio dovrebbe essere escluso definitivamente dai contatti con il padre, e non dovrebbero esser consentite nemmeno le sei ore di colloquio mensili; dall´altra, che succede non raramente che persone commettano reati per necessità di altre persone che stanno loro intorno (per esempio per sopperire alle necessità della famiglia in caso di povertà). Il carcere, quindi, non solo non rispetta la dignità di chi lo subisce, ma non rispetta dignità e diritti di terzi estranei alla trasgressione (...).
Lo sviluppo del concetto di dignità, peraltro, porta a riconoscere come suo seguito quello di libertà: se le persone sono apprezzabili in quanto tali non possono essere sottomesse ma deve esser loro riconosciuta la libertà (perché la sottomissione ha senso soltanto se le persone sono incapaci, e devono perciò essere dirette da altri, e pertanto non libere). Ma se la libertà è attributo della dignità, non può essere limitata salvo che in un unico caso: quando ciò serve a consentire la libertà altrui. La libertà inoltre può essere limitata solo entro un determinato confine: che la limitazione serva esclusivamente allo scopo di consentire agli altri di esercitare la propria libertà. Con queste osservazioni è coerente che le regole pongano obblighi o divieti indirizzati a tutelare la libertà dei membri della comunità e a garantirne l´esercizio, ma è incoerente la conseguenza retributiva della violazione. È conforme al modello imporre «non uccidere», ma non è conforme far seguire «altrimenti ti uccido», perché è proprio questa seconda parte, la sanzione, a non essere in linea con dignità e tutela della libertà. Anche sotto il profilo educativo, perché fare male (pur nell´esercizio della funzione autoritativa della risposta alla trasgressione) non può che insegnare, irrimediabilmente, a fare male: non si può insegnare a non uccidere uccidendo; non si può insegnare a non privare gli altri della libertà togliendola. La sofferenza imposta non può, non è in grado di convincere, e semmai insegna a obbedire. Ma chi obbedisce non è psicologicamente, se non giuridicamente, responsabile delle proprie azioni (ne è responsabile chi dà l´ordine). La pena, quindi, anziché creare responsabilità la distrugge. Distruggendo la responsabilità incanala la società verso la compressione della libertà, perché questa è inscindibile dalla responsabilità.

il Fatto Saturno 4.11.11
Vespe
Sale lo spread tra Cacciari e l’italiano
di Riccardo Chiaberge


Sull'orlo del baratro finanziario, accerchiati da galli e teutoni di Eurolandia, verrebbe voglia di dar retta a Davide Rondoni e ritirarci in qualche monastero benedettino aspettando, come suggerisce il poeta sull'Avvenire, che passi 'a nuttata e i barbari se ne vadano. “Ora et labora”. O meglio, secondo i dettami della Compagnia delle Opere, “Ora et fattura”. E nel silenzio claustrale della nostra cella, cos'altro leggere se non il libretto del Mulino sul comandamento evangelico Ama il prossimo tuo? Intenso come sempre il sermone di Enzo Bianchi, ma ancor più illuminante quello del profeta nerobarbuto Massimo Cacciari (titolo: “Drammatica della prossimità”). Eccone alcuni gustosi assaggi: «Anche questo mandatum è pleroma, non katalysis della Legge, salvezza del nomos stesso nel suo radicale rinnovarsi». «Il Signore si ab-solve e si ad-prossima, senza mai che la relazione possa risolversi in astratta identità, in Unum est. L'Uno è Unus ed ek-siste, patibilis et patiens...Ma se il Sé non diventa capace di odiare la propria philautia (ed in ciò consiste il significato autentico di metanoia, di conversio) di fare esegesi di sé al prossimo...? ». «Il Figlio che è uomo, noi, i figli, nel cuore del Theós Agape. La sua sovrabbondanza, il suo essere Agathós, potremmo dire, custodisce in sé ab aeterno tutti i loro pathemata. Dio è proximus perché plesiosinsé–eperquestopuòesserevinto d'amore per il plesios che incontra e invocarne la philia».
Amen. Se è così che Cacciari ama il prossimo, preferiamo non essere amati. Ci dimettiamo da prossimi suoi. Sarà colpa della Crisi, anzi della cacciariana Krisis, ma lo spread linguistico tra noi e il prof è schizzato a livelli insostenibili. Metti che facciano lo stress test ai lettori: non lo passiamo di certo. Ci declassano tra i Pigs (Popoli Ignoranti,GrossolanieSuperficiali)insieme a Greci e Irlandesi. Ma forse a rischiare il Default, quanto meno sul piano sintattico, è proprio il filosofo veneziano. Tanto che da qualche giorno un gruppo di Indignados è accampato per protestadavantiallaFacoltàdiFilosofiaVita-Salute di don Verzé. «A' Massimo! – gridano i manifestanti – Rispetta il primo comandamento: fatti capire!»

il Fatto Saturno 4.11.11
Maestri del Novecento
Kojève: perché obbediamo al Capo
“La nozione di autorità” (1942) del filosofo russo, proposto da Adelphi, aiuta a capire le crisi politiche di oggi, da Obama a B.
di Andrea Tagliapietra


SE AL GIORNO d’oggi, come recita la sempreverde battuta di Woody Allen, “Dio è morto, Marx è morto e anch’io non mi sento tanto bene”, non c’è da meravigliarsi che la nozione di “autorità” ci appaia come un oggetto misterioso, che viene spesso confuso con il “potere” e finanche con la “legalità” dell’esercizio della forza da parte dello Stato, nonché con le pratiche retoriche persuasive che garantiscono ai governanti la conservazione del potere nel tempo. Infatti, la riflessione filosofico-politica sembra privilegiare un taglio genealogico, spiegandoci come l’autorità sorge e si trasmette, o analitico-descrittivo, isolando colui che la esercita e le sue qualità, ma non ne tematizza quasi mai l’essenza. Compito che viene svolto, invece, con iconica chiarezza, da Alexandre Kojève in un libro che, redatto nel 1942, come molti lavori del filosofo franco-russo giacerà a lungo in un cassetto, inedito, vedendo la luce in Francia solo nel 2004. La nozione di autorità ci viene proposto oggi dai tipi di Adelphi per la cura di Marco Filoni che, oltre ad accompagnare il testo con una pregevole postfazione, ha il merito di rendere nella nostra lingua la splendida sobrietà della scrittura di Kojève, che traspone l’hegeliana fatica del concetto, giocata in chiaroscuro sui limiti espressivi del tedesco, nella prosa geometrica e cristallina di Cartesio, dove, al contrario, tutto sembra essere dicibile con la massima efficacia e rigore. Ad Hegel, del resto, e alle ormai mitiche lezioni sulla Fenomenologia dello spirito, tenute da Kojève all’Ecole pratique des hautes études di Parigi dal 1933 al 1939, vera officina segreta del pensiero, non solo francese, del Novecento, rinvia anche il libro sull’autorità, perché è indubbiamente hegeliana la scoperta della sua essenza dialettica. L’autorità, spiega Kojève, è una forma di relazione attiva, anzi di azione e reazione, dove il tratto decisivo, che la distingue dal potere, dalla forza e dalla violenza, è dato dalla rinuncia libera, cosciente e volontaria all’opposizione e alla resistenza di chi le si sottomette. Non si può, quindi, comprendere l’autorità senza adottare il pensiero intrinsecamente sociale e storico della dialettica del reale. Per capire l’autorità bisogna descrivere non soltanto chi la detiene (infatti le teorie analitico-descrittive dell’autorità mancano il bersaglio), ma soprattutto coloro che la riconoscono. Chiarita l’essenza dell’autorità Kojève passa a distinguerne le quattro forme “semplici, pure o elementari” in corrispondenza con quattro capitali prestazioni teoriche del canone filosofico occidentale: la dottrina di Platone, che viene esemplificata dal “personaggio concettuale” del Giudice, che guarda all’autorità nello specchio eterno della giustizia; quella di Aristotele, espressa nella figura del Capo, che proietta l’autorità nel futuro del progetto (spesso rivoluzionario); quella detta genericamente teologico-scolastica, incarnata nella persona del Padre, che custodisce l’autorità nel passato ereditario e causale della tradizione e, infine, quella di Hegel, che si estrinseca nel ruolo del Signore, che afferma l’autorità nella tirannide esecutiva del presente. A partire da questo cristallo teorico, di rara trasparenza malgrado i continui richiami alla natura sommaria del suo lavoro, Kojève sviluppa prima un’analisi fenomenologica, metafisica e ontologica delle forme pure e/o miste, ossia combinate, con cui l’autorità si dà storicamente , e poi una serie di deduzioni che ne prendono in esame le applicazioni politiche, morali e psicologiche. Intessuta nell’esposizione, una filosofia della storia della nozione di autorità rimarca il senso decisivo della crisi e dell’eclisse moderna dell’autorità del Padre – è il tramonto della teologia politica, ma anche della forma più diffusa con cui l’autorità si dà nel mondo della vita, quella del “padre di famiglia”, ossia dei genitori nei confronti dei figli – che rende difficile ricomporre le altre tre forme di autorità in un’unità organica, che si intravede appena nella teoria della separazione dei poteri giudiziario (Giudice), esecutivo (Signore) e legislativo (Capo). Una divisione che sempre più spesso è un aperto conflitto, ossia, come insegnano vuoi le miserevoli cronache italiane, vuoi le notizie dei continui scontri tra Obama e il Congresso che ci giungono dall’altra sponda dell’Atlantico, tutt’altro che un esempio d’autorità. Non abbiamo qui lo spazio per seguire Kojève nella sua vertiginosa ars combinatoria dialettica: un esercizio di stile che riduce sapientemente a poche precise definizioni intere sezioni della storia politica occidentale e della corrispondente speculazione teorica. Del resto, come già osservava lapidario Jacob Taubes a proposito del modo geniale e aristocratico di trattare i problemi da parte del nostro filosofo, «alcuni scrivono libri interi su ciò che Kojève risolve, con eleganza, in una nota».
Alexandre Kojève, La nozione di autorità, a cura di Marco Filoni, Adelphi, pagg. 145, • 29,00

il Fatto Saturno 4.11.11
Isaac Newton. Un genio depresso
di Vittorio Pellegrini


RICORDO LA MIA prima volta all’Università di Cambridge. Ricordo il refettorio del Trinity College, uno dei collegi più prestigiosi dell’Università, la mia stanza con un pavimento di legno antico e il letto a baldacchino. Ricordo soprattutto quel cartello davanti al prato verdissimo del Trinity che diceva: “Vietato calpestare l’erba se non accompagnati da un membro anziano del College”. Un’atmosfera sobria e stimolante. E fu proprio questo il luogo che accolse nel 1660 un giovane di origini modeste, un campagnolo con la capigliatura rossa proveniente da una fattoria del Lincolnshire; un ragazzino, dicevano, dalla mente straordinariamente acuta. Isaac Newton varcò le soglie del Trinity nell’anno in cui Carlo II fu proclamato re d’Inghilterra. In pochi anni dimostrò qualità straordinarie diventando nel 1669 il secondo titolare della cattedra lucasiana di matematica (oggi occupata dal fisico matematico Stephen Hawkins) e in quelle mura identificò il vero scopo della sua vita. Distruggere Descartes e la sua fredda meccanica della materia e scoprire, attraverso la filosofia della natura, l’armonia dell’universo creato da Dio. Come poi ripeteva in vecchiaia, uscito vittorioso dalla scontro a distanza con Descartes: «Se ho visto più lontano degli altri è perché sono salito sulle spalle dei giganti». Ma non si riferiva a Galilei o Keplero, bensì a Mosè e Gesù Cristo. Perché lui, Isaac Newton, era venuto al mondo con una missione divina: formulare un modello matematico dell’universo in pieno accordo con le osservazioni sperimentali come quelle raccolte dall’astronomo John Flamsteed nell’osservatorio di Greenwitch, fatto costruire proprio da Carlo II. E Isaac Newton, la sua vita affascinante e contraddittoria, culminata con la stesura dei Principia e la spiegazione dei moti dei pianeti attraverso la legge della gravitazione universale, è il protagonista del romanzo La parrucca di Newton, scritto dall’astrofisico francese Jean-Pierre Luminet. Un romanzo che è innanzitutto bello, e che riesce a coinvolgere nella narrazione della storia di un uomo geniale ma allo stesso tempo ambizioso e invidioso, capace di dirigere con maestria la prestigiosa “Royal Society” e la zecca dello stato e allo stesso tempo preda di forti stati depressivi che lo portavano a isolarsi per mesi. Un uomo che è considerato il padre della scienza moderna, ma che passava gran parte del suo tempo a cercare di decifrare improbabili leggi nascoste nella Bibbia e a effettuare pericolosi esperimenti alchemici. Ma ciò che trasforma il libro di Luminet in un prezioso manuale storico e di divulgazione scientifica è l’attenzione ai personaggi incontrati da Newton nel corso della sua vita. Dal “nemico” Robert Hooke, noto in particolare per la legge sull’elasticità, a Edmund Halley di cui si ricorda oggi la cometa che porta il suo nome. Fino a John Locke, filosofo empirista, padre del pensiero liberale, che fu uno dei pochissimi amici sinceri di Isaac Newton al quale offrì il terreno filosofico su cui collocare la grande costruzione matematica dei Principia. Il libro di Luminet è il frutto di un serio lavoro di ricerca tradotto in una storia romanzata, avvincente e dai ritmi serrati. Avvincente quando Luminet ci porta dentro la casa del giovane Newton intento a risolvere la luce del sole nelle sue componenti fondamentali; interessante quando Luminet si sofferma sui dialoghi spigolosi tra Newton, Fatio, Halley e Hook durante le riunioni della “Royal Society” o su quelli a distanza con Leibniz sulla paternità del calcolo infinitesimale e inquietante quando Luminet ci descrive un Newton quasi folle nella convinzione di essere il migliore fra tutti. Rimane forte la tensione nel libro che culmina nell’immenso bagliore della legge della gravitazione universale: la mela che cade dall’albero. È emozione che si propaga al lettore fino alle ultime pagine, quando Luminet ci racconta il funerale di Isaac Newton e quando ci propone l’ultimo personaggio del suo libro, un giovanotto francese dalle idee un po’ strane, tale Voltaire.
Jean-Pierre Luminet, La parrucca Di Newton, La Lepre, pagg. 384, • 24,00

il Fatto Saturno 4.11.11
Erme
Sinistra triste? Leggete Benjamin
di Marco Filoni


PARLIAMO di sinistra. O meglio, degli intellettuali di sinistra. «La loro funzione, sotto il profilo politico, è di generare non partiti ma cricche, sotto il profilo letterario, non scuole ma mode, sotto il profilo economico, non produttori ma agenti. E questa intellettualità di sinistra da quindici anni è ininterrottamente l’agente di tutte le congiunture spirituali… Il suo significato politico però si è esaurito nel convertire i riflessi rivoluzionari, nella misura in cui comparivano nella borghesia, in oggetti di distrazione, di svago, riconducibili al consumo». Non sono parole di qualche giorno fa proclamate da sedicenti “rottamatori”. Sono parole scritte da Walter Benjamin, il grande filosofo tedesco, in un testo del 1930 intitolato Malinconia di sinistra. Si possono leggere, insieme a molto altro, in un libro davvero pregevole: gli Scritti politici. Pregevole per più d’una ragione: anzitutto la curatela, affidata a Massimo Palma, il quale sa restituire la prosa del tedesco spesso barocco di Benjamin in maniera superlativa come in passato non si era ancora riusciti a fare. Poi per i testi puntuali che vi sono acclusi: l’introduzione di Gabriele Pedullà sulla necessità di ripoliticizzare il pensatore che è diventato un’icona della filosofia del Novecento; e il testo dello stesso Palma che, insieme al ricco apparato di note, risulta una mappa fondamentale per la comprensione e la lettura di Benjamin scrittore politico. Infine, una doppia scelta. La prima, quella di riunire in questo libro tutti i testi di carattere politico (anche quelli apparentemente estranei: vi sono pure le arcinote tesi Sul concetto di storia) che abbracciano l’arco temporale dell’intera produzione benjaminiana. La seconda, quella di riproporre un’edizione delle Opere del filosofo – ci aveva provato Einaudi, ben due volte, l’ultima delle quali con volumoni esosi e la decisione di restituire i testi cronologicamente, scelta non sempre felice per un pensatore fuori dagli schemi classici quale è stato Benjamin. Insomma, ci auguriamo che gli Editori Internazionali Riuniti portino avanti sino alla fine questa meritoria impresa editoriale, assicurando anche ai futuri volumi la fortunata resa degli Scritti politici. Nei quali ritroviamo ben più d’una indicazione utile non soltanto agli studiosi. Questi sono scritti che parlano a noi e di noi. Perché sanno creare un terreno, quello appunto che l’intellettualità odierna – come quella contemporanea a Benjamin – non ha più sotto i suoi piedi. Perché il “carattere distruttivo” del filosofo equivale a una creazione: di spazio, di presente, di realtà sociale e naturale che, come annota Massimo Palma, si esprime nel tempo: «E se l’attenzione alla realtà è virtù benjaminiana per eccellenza, vero politico è chi lascia che la realtà di cui non dispone, ma che accompagna nel suo farsi significato, materia, sia il più possibile piena. Chi riesce a non parlare a(l) vuoto». È un insegnamento prezioso, da leggere e da tenere a mente. Anche perché, oggi, è un amichevole antidoto alla malinconia di sinistra.

Corriere della Sera 4.11.11
L'Homo sapiens in Europa Il primo nacque in Puglia
Trovati i resti di 45 mila anni fa in una grotta
di Giovanni Caprara


MILANO — Un bambino italiano è il più antico «uomo moderno» in Europa. Apparteneva all'Homo sapiens e i suoi resti sono stati trovati nella Grotta del Cavallo, nel Salento, in Puglia. Sono due piccoli denti e attorno ci sono conchiglie. Esaminando il tutto all'Unità Radiocarbonio di Oxford si è potuto stabilire che risalgono a 43 o 45 mila anni fa.
Contemporaneamente una mandibola proveniente dalla Kents Cavern, vicino a Torquay, nel Devon, è stata datata tra i 41 e 44 mila anni. I risultati sono stati ottenuti da due gruppi di ricercatori guidati rispettivamente da Thomas Higham dell'Università di Oxford e da Stefano Benazzi dell'Università di Vienna. Pubblicati sulla rivista britannica Nature, hanno messo a soqquadro le idee finora ritenute abbastanza consolidate circa la conquista dell'Europa da parte dell'Homo sapiens dopo la sua partenza dall'Africa 60 mila anni fa, anticipandola almeno di circa cinquemila anni.
Finora le tracce più remote della sua presenza erano state rinvenute a Pestera cu Oase, sui Carpazi in Romania, e risalivano a circa 38 mila anni fa e quelle trovate in Italia erano più recenti, tremila anni più tarde. Ora le cose sembrano essere andate diversamente e il colpo di scena arriva dalle due caverne nelle quali si lavorava da decenni.
I primi reperti nella Grotta del Cavallo venivano infatti scoperti ancora nei primi anni Sessanta del secolo scorso e gli studiosi li giudicavano appartenenti all'Uomo di Neanderthal, una specie differente abitante il Vecchio Continente tra 130 mila e 30 mila anni fa e poi estinto, forse per l'interazione proprio con il sapiens, forse per ragioni climatiche. Quelli della grotta pugliese erano valutati allora di 36 mila anni fa.
Invece analizzando le caratteristiche dei denti e il materiale circostante non solo le epoche sono cambiate ma anche l'identità dei protagonisti. Il risultato si deve, in particolare, all'utilizzo di nuove tecnologie che, ad esempio, hanno permesso di ricostruire in maniera tridimensionale i denti, le loro cavità interne, la forma delle radici cogliendo impercettibili differenze prima sfuggite appartenenti all'Homo sapiens e non al suo concorrente neanderthaliano. «E queste confermano — sottolinea Stefano Benazzi — che si tratta dei primi e più antichi europei sapiens finora conosciuti».
Tutto ciò, secondo i paleoantropologi, avvalorerebbe ulteriormente l'idea che tra le due specie oltre ad esserci stato un periodo di convivenza parallela sia avvenuta pure l'unione. Inoltre, che l'arrivo dall'Africa non si sia esaurito in una sola ondata ma che una seconda abbia avuto luogo. Infine, che i percorsi possano essere stati anche un po' differenti da quanto si era ipotizzato.
Come si può giustificare, altrimenti, un insediamento più antico nel Devon che è dall'altra parte dell'Europa rispetto alla Romania dove, si diceva, dovevano essere giunti prima? «Nella Grotta del Cavallo possiamo immaginare che siano arrivati via mare?» si chiede Camillo Facchini paleoantropologo dell'Università di Bologna.
«Il loro insediamento nell'area pone il problema — aggiunge — di possibili mescolanze culturali e etniche nell'Italia meridionale e quindi la necessità di nuovi modi di vedere il popolamento della regione. I dati raccolti su questo periodo della preistoria sono di grande interesse proprio perché aiutano a chiarire i rapporti tra culture e tra gruppi umani diversi».
La scoperta, comunque, oltre a riaccendere il dibattito sulle nostre origini, racconta con ragionevole certezza che la civiltà europea è ancora più antica.

giovedì 3 novembre 2011

«Ci sono dei momenti nei quali bisogna alzarsi in piedi, far sentire la propria voce e dire basta. Questo avviene quando sono messi in discussione i comuni fondamenti del vivere civile e si apre una situazione che può mettere in questione l’esistenza stessa di un Paese, come organismo autonomo e indipendente» Michele Ciliberto
l’Unità 3.11.11
Il segretario Pd lancia la manifestazione a San Giovanni: una festa di popolo per il cambiamento
Navi, pullman e treni E sul palco i leader dei socialisti francesi e tedeschi, Hollande e Gabriel
Bersani e la piazza del 5: «Ridiamo fiducia all’Italia»
Sabato 5 tutti in piazza San Giovanni a Roma per la manifestazione indetta dal Pd. Pier Luigi Bersani invita a partecipare come «segno di fiducia» nel cambiamento. Ci saranno i Moderati del centrosinistra, Follini no.
di Virginia Lori


ROMA. Essere in piazza San Giovanni sabato con lo spirito di una festa popolare: un appello a «tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro paese per avviare insieme una ricostruzione democratica, sociale ed economica dell’Italia». Dopo il vertice del Pd nella sede di via del Nazareno sulla crisi, il segretario Pier Luigi Bersani lancia la manifestazione del 5. Che vede come una «festa di popolo, aperta alle donne e agli uomini che desiderano manifestare il proprio impegno». Una festa con i concerti, tra gli altri, di Roberto Vecchioni, dei Marlene Kuntz, di Ziggy, apre, anche prima delle 14,30, la Med Free Orkestra.
L’intento, spiega Bersani, è quello di imprimere «fiducia» più che come manifestazione di partito l’invito è a «venire in nome del popolo italiano, con le bandiere italiane, per dire che con il cambiamento, l’Italia ce la fa». In un momento così difficile il segretario Pd anticipa che indicherà «alla nostra gente», alle centinaia di associazioni, la strada che va percorsa. E proprio la «presenza di massa» cercherà di rispondere «a un’esigenza di rassicurazione rispetto alla gravità della situazione che stiamo vivendo e che si annuncia difficile».
L’organizzazione della manifestazione va avanti da giorni, in mano a Lino Paganelli, macchina umana delle feste democratiche e dell’Unità, e Nico Stumpo, responsabile organizzativo del partito: già prenotati 14 treni, due navi dalla Sardegna, oltre 700 pullman.
Sarà un’occasione anche per restituire a Piazza San Giovanni «il posto che merita nella storia dell’Italia repubblicana, come luogo simbolo delle grandi manifestazioni democratiche», ha spiegato Bersani. «Abbiamo le risorse per riprendere il cammino che ci spetta, per riconquistare la dignità che meritiamo, per riprenderci il nostro futuro di donne e uomini, di persone libere, serie, capaci». Le donne, soprattutto, che, «come sta accadendo anche in altre aree del mondo, a cominciare dalla sponda Sud del Mediterraneo» con la loro mobilitazione sono «uno dei pilastri fondamentali del cambiamento della società. A loro si rivolge il Pd e così pure a tutti gli uomini che hanno a cuore il futuro nazionale».
Sul palco ci saranno anche il candidato alle presidenziali francesi François Hollande e il presidente della Spd tedesca Sigmar Gabriel, come testimoni di un cammino comune dei progressisti europei in vista delle elezioni che impegneranno diversi
paesi e «che potranno riportare l’Europa fuori dalle secche dove è stata condotta dai governi delle destre, contro i vari governi delle destre», ha proseguito Bersani.
Anche Massimo D’Alema invita alla partecipazione: «L’emergenza è la drammatica crisi del paese e il fatto che tante persone scendano in piazza per dare un segno di speranza e di fiducia nell’Italia è un messaggio positivo. Se ci barricassimo in casa sarebbe un messaggio di disperazione».
Non la pensa così, evidentemente, Marco Follini, che sabato non sarà in piazza. Il senatore Pd, ex segretario Udc, ha chiesto al Pd di ripensare la manifestazione di sabato a Roma: «Non siamo in campagna elettorale».
I MODERATI DEL CENTROSINISTRA
Resta isolata, perché i Moderati per il centrosinistra ci saranno, il corposo drappello piemontese guidato dal leader movimento, Giacomo Portas. Ben duemila moderati arriveranno a Roma in treno da Torino e con 19 pullman anche dalla Lombardia, dall’Emilia e dal Veneto, con mele e prodotti tipici del Piemonte da regalare ai romani per dimostrare gratitudine nei confronti della città che ospita la manifestazione. «Parteciperemo convintamente alla manifestazione spiega Portas contro un governo ormai imbarazzante e inadeguato sia dal punto di vista politico che economico».

l’Unità on line 3.11.11
Leader Pd: «In piazza per riunire
chi ha a cuore il futuro dell'Italia»

qui

l’Unità 3.11.11
Cambiare o crollare
di Michele Ciliberto


Ci sono dei momenti nei quali bisogna alzarsi in piedi, far sentire la propria voce e dire basta. Questo avviene quando sono messi in discussione i comuni fondamenti del vivere civile e si apre una situazione che può mettere in questione l’esistenza stessa di un Paese, come organismo autonomo e indipendente.
Senza alcun dubbio noi siamo arrivati a uno snodo di questo tipo: l’Italia oggi sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia, da cui il suo ruolo può uscire profondamente limitato e deformato, e non in bene.
Alcuni per cercare di spiegare la situazione nella quale ci troviamo evocano la crisi mondiale. Non c’è dubbio che essa abbia avuto una funzione molto forte, e non solo per quanto riguarda il nostro Paese. Ma sarebbe sbagliato, in tutti i sensi, non avere chiaro quanto e profondamente il berlusconismo abbia inciso nell’indebolire la costruzione interiore dell’Italia, rendendola più fragile ed esposta ai pericoli. E volutamente uso questo termine berlusconismo che comprende, e oltrepassa, la stessa figura di Berlusconi.
È una intera classe dirigente che sta cadendo nel modo più catastrofico in questi giorni; se anche si vuole utilizzare un termine così impegnativo per coloro che hanno guidato in questi anni l’Italia. Essi hanno introdotto il coltello della divisione, senza mai riuscire a porsi il problema di un governo dell’Italia che non si risolvesse nel dominio di una parte sugli altri, di un ceto sugli altri. Mai si sono diffuse come in questi ultimi anni le diseguaglianze; mai sono stati più separati i destini del Nord e del Sud; mai hanno assunto posizioni di responsabilità uomini e donne preoccupati solamente del loro “particulare” e chiusi in una logica di clientela, di fedeltà al capo di tipo feudale almeno fino a quando quest’ultimo è stato in grado di garantire loro onori e prebende.
Credo che la responsabilità più grave del berlusconismo consista precisamente nella perdita di una visione generale del Paese e del nostro destino in un mondo in profonda trasformazione: il successo del berlusconismo ha coinciso con l’affermazione di dinamiche corporative e individualistiche, attraverso cui si è potenziata ed è diventata una forza di governo nazionale perfino un partito come la Lega, che lavora coscientemente per la distruzione dell’unità e dell’autonomia dello Stato italiano.
Non si tratta di esprimere giudizi di tipo moralistico. Il berlusconismo è qualcosa che affonda le sue radici nelle vicende e nei mutamenti della destra europea, e più in generale, esso ci interroga sulle derive dispotiche della stessa democrazia, quando la politica perde peso e l’antipolitica diventa un senso comune diffuso quotidianamente.
Ma non è ora il momento dell’analisi: si tratta di alzarsi in piedi e di assumersi le proprie responsabilità. E oggi questo significa fare i conti con la realtà fino in fondo, senza infingimenti, avendo ben presente che questo non è un tempo di normale amministrazione, nel quale il ricorso a strumenti come governi tecnici o di transizione possa essere fatto a cuor leggero. Bisogna ritornare alle fonti della sovranità e chiedere a ogni italiano di assumersi la responsabilità di un giudizio; e ciò si può fare innanzitutto attraverso l’esercizio del voto. Come è necessario nei momenti di più grande travaglio occorre operare una svolta, una cesura se si vuole uscire dalla palude nella quale siamo precipitati, rimettendo in sintonia “politica” e “vita”. È necessario che oggi ciascuno si assuma le proprie responsabilità. Lo so bene: questa è una sfida per tutti oggi, nessuno escluso; ma è questa la strada maestra da percorrere senza inutili trasformismi, sempre ricorrenti nella nostra storia. Perfino il bipolarismo è diventato da noi una reincarnazione del trasformismo, anche se si fa finta di parlare di dinamiche bipolari. Ma come si sa, uno dei segni dei tempi di crisi è la perdita di peso delle parole.
È giusto dunque replicare con durezza a coloro che per ridurre le loro responsabilità citano la crisi mondiale, o addirittura, come ha fatto il presidente del Consiglio, arrivano a criticare l’euro, come l’asino che portava senza saperlo i sacramenti. Ma certo è un fatto che questa crisi deve costringerci a riflettere a fondo sull’Europa, sui rapporti fra comunità europea e Stati nazionali, sulle relazioni tra politica e finanza. E deve spingerci anche a riflettere sulle profondissime diseguaglianze che si stanno imponendo nelle società europee, individuandone le ragioni materiali per avviarsi su strade diverse. Ma anche per questo serve la politica, perché e gli avvenimenti di questi giorni lo stanno confermando a tutti, anche a quelli che non vogliono capire senza politica democratica non può esserci libertà.

Corriere della Sera 3.11.11
Napolitano vede Pd e Terzo polo. Sotto esame «un'altra prospettiva»
I dubbi del capo dello Stato sul decreto del governo, che alla fine rientra
di Marzio Breda


ROMA — Ancorare tutti alle responsabilità imposte dall'aggravarsi della crisi economica e dai continui raid della speculazione internazionale. Verificare la disponibilità a una «larga condivisione delle scelte» concrete e credibili che l'Europa si attende con urgenza dall'Italia. Saggiare la reale tenuta della maggioranza di governo, dopo le tensioni e i dissidi interni affiorati negli ultimi tempi: dallo scontro tra il premier e Tremonti alle spinte verso la diserzione dei cosiddetti «malpancisti» del Pdl. E nel contempo esplorare la consistenza parlamentare di quella «nuova prospettiva» invocata da un ampio arco di forze politiche e sociali.
Era questa la griglia di lavoro che ha guidato le consultazioni informali avviate ieri con ritmo serrato dal presidente della Repubblica al Quirinale. Una griglia in qualche modo anticipata dalla nota scritta di proprio pugno da Giorgio Napolitano l'altra sera, in cui si rivolgeva a entrambi gli schieramenti chiedendo loro di esprimersi chiaramente in nome di un'emergenza ormai al limite della sostenibilità.
Ciò che il capo dello Stato ha raccolto alla fine del primo sondaggio con le delegazioni del Terzo polo (Casini, Cesa, Bocchino e Rutelli), del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, e dello stato maggiore del Partito democratico (Bersani, Finocchiaro, Bindi, Franceschini, Enrico Letta), non gli consente di mettere a verbale le novità che forse si augurava. Siamo ancora al muro contro muro già certificato dalle cronache dei giorni scorsi. Cioè a una paralizzante, e per il momento insuperabile, guerra di posizione.
Da un lato ci sono le forze del centrodestra, che ripetono (anche se meno graniticamente) l'eterno mantra del «o Berlusconi o morte», cioè le urne.
Dall'altro ci sono le opposizioni, che si dichiarano disponibili ad assumersi la loro parte di «responsabilità», ma che insistono per un atto di «discontinuità». Ossia l'immediato cambio della guardia a Palazzo Chigi e il varo di un governo di emergenza nazionale, magari pure con dentro il Popolo della libertà, ma guidato da un tecnico che, per la sua personalità, goda di un elevato standing sul piano internazionale (un identikit che, anche se sul Colle nessuno ha fatto nomi, coincide con la gettonatissima candidatura di Mario Monti).
«Non ci prestiamo a furberie o a sacrifici inutili su misure decise in maniera unilaterale da Palazzo Chigi... Il problema ormai è la credibilità di Silvio Berlusconi, che rende inutile ogni misura». Questo hanno detto (in perfetta sinergia e a conferma di un forte asse) al capo dello Stato sia Casini che Bersani, ponendo la precondizione del fatidico passo indietro del Cavaliere.
Una pretesa sulla quale il capo dello Stato non può non riflettere. Infatti, un conto è l'ebbrezza affannata di chi percepisce come imminente la caduta del premier e in tale spirito si proclama disposto a tutto pur di vederla realizzata, un altro conto è la capacità di costruire una solida prospettiva di governo post berlusconiana.
Dunque il punto politico che il Quirinale dovrà fatalmente soppesare e sciogliere è: nell'ipotesi di una caduta dell'esecutivo, le opposizioni euforicamente unite di oggi sapranno domani approvare con la stessa coesione le misure imposte dalla crisi? Davvero i vari Di Pietro o Vendola o le altre anime inquiete del Pd (i cui voti pesano parecchio), già esplicitamente malmostosi verso «il governo tecnocratico che piace all'Europa», appoggeranno con coerenza un gabinetto di transizione che mettesse in cantiere il severo pacchetto di interventi che Bruxelles e la Banca centrale ci hanno intimato di prendere sin dallo scorso agosto?
Scenari futuribili, ma forse non troppo lontani, oramai. Intanto il presidente ha dovuto registrare l'assoluta indisponibilità delle opposizioni a sostenere in Parlamento provvedimenti decisi in modo unilaterale da Berlusconi. Non concederemo alcuna corsia preferenziale all'esecutivo, come abbiamo fatto per carità di patria quest'estate: questa la risposta secca di Casini e Bersani, che fa sfumare le speranze di larghe intese.
L'ultima verifica, stavolta mirata al governo, il capo dello Stato la farà stamane, quando riceverà sul Colle le delegazioni del Pdl e della Lega. Poi tirerà le somme e farà conoscere le conclusioni della sua azione di vigilanza e di pressing verso Palazzo Chigi sulla linea del rigore e della tempestività.
Un pressing che ieri si è riflesso nella seduta notturna del Consiglio dei ministri, dove il premier si riproponeva di approvare un decreto legge con le misure attese dall'Europa, così da presentarsi oggi al G20 di Cannes con i provvedimenti già in tasca. Un piano che Berlusconi ha dovuto riconsiderare in extremis, dopo lunghe e complesse trattative, per certi dubbi del capo dello Stato: dubbi sull'efficacia di un «pacchetto» concepito e scritto in chiave unilaterale, tale da rendere vani gli sforzi di Napolitano per un largo consenso.

Corriere della Sera 3.11.11
Le opposizioni sul Colle: esecutivo d'emergenza
«Berlusconi lasci». L'Idv: no a macelleria sociale
di Al. T.


ROMA — Un governo d'emergenza, senza Berlusconi, ma «anche con il Pdl», come spiega Massimo D'Alema. Arrivate sul Colle, per colloqui con il capo dello Stato, le opposizioni parlano la stessa lingua. Pd, Idv e Terzo Polo non sono disposti a dare una mano all'attuale governo e sono pronti invece ad appoggiare un esecutivo tecnico. La lingua comincia a diventare diversa, e a ingarbugliarsi, quando si passa dal piano astratto a quello concreto: quello di un governo tecnico che imponga i sacrifici chiesti dall'Europa. Non è un caso che Antonio Di Pietro ponga subito una pregiudiziale: «No a misure di macelleria sociale».
Durante il colloquio con Giorgio Napolitano, Bersani ha confermato la disponibilità del Pd «ad assumere la propria responsabilità in un governo di transizione e di emergenza». L'uscita di scena di Berlusconi, però, è indispensabile: «Altrimenti ogni sacrificio sarà inutile». Di certo, sia Pd che Idv sono indisponibili a sostenere qualunque misura proposta da Berlusconi, diversamente dal recente passato. La «scossa» chiesta da Bersani però può arrivare solo dai «malpancisti» del Pdl. Nell'attesa, il Pd prepara la manifestazione di sabato, criticata da Marco Follini. Anche per questo, arrivano nuove parole d'ordine, positive: «Siamo in piazza per dire che l'Italia ce la farà» dice Bersani. Di Pietro sarà al suo fianco, ma comincia ad avere dubbi sul governo d'emergenza: «No a misure di macelleria sociale: bisogna conciliare equità e sviluppo». Non a caso in serata, dice «no a un berluschino» e fa capire che la soluzione migliore sarebbero le elezioni. Opzione preferita da Nichi Vendola e non sgradita a molti nel Pd, che temono di doversi accollare misure drastiche e pagarne poi il fio alle elezioni.

Corriere della Sera 3.11.11
Le condizioni del Pd: nuove misure e nessun soccorso al centrodestra
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Un governo di responsabilità nazionale? Diciamo che lo darei al 20 per cento, se dovessi fare una scommessa». Terminato il colloquio con Giorgio Napolitano, il segretario del Partito democratico si lascia andare ai pronostici con un ristretto gruppo di compagni del Pd.
Pier Luigi Bersani ha dato tutta la sua disponibilità, formalmente e pubblicamente almeno, alla creazione di un esecutivo d'emergenza. E ha promesso al capo dello Stato di non pronunciare più la parola «elezioni». Il presidente era — ed è — preoccupato per la piega che potrebbe prendere la manifestazione del Pd di sabato prossimo. Non vorrebbe che si trasformasse in un'iniziativa in cui si inneggia al voto anticipato: su questo Bersani ha fornito le garanzie che poteva fornire.
La dirigenza del Pd, a san Giovanni, eviterà toni accesi e richieste di scioglimento della legislatura. Ma il leader del Partito democratico non è stato in grado di dare altre rassicurazioni a Napolitano. O, meglio, non ha voluto darle. Su questo è stato chiaro: nessun soccorso rosso al governo Berlusconi o a un altro governo del centrodestra, chiunque sia a presiederlo, Gianni Letta o Renato Schifani. E non solo: se il premier dovesse cadere, il Partito democratico potrebbe dare il via libera a un nuovo esecutivo solo nel caso in cui gli spazi di manovra rispetto alle misure economiche da prendere non siano rinchiusi nel recinto stretto della lettera di Berlusconi all'unione europea. Il Pd non potrebbe mai — e poi mai — sostenere un governo nato con l'obiettivo di mandare in porto la manovra delineata dall'attuale presidente del Consiglio.
Raccontano che Napolitano si aspettasse di più dal suo partito d'origine. Ma il clima nel Pd è quello che è, e la maggior parte dei vertici non è disposta a fare troppe concessioni, benché la strada del governo di larghe intese appaia in questo momento la più probabile. «Napolitano non può volere altro da noi», è stata l'affermazione secca con cui Rosy Bindi ha chiuso il ponte levatoio e ha bloccato ogni tentativo di condizionare le mosse future del Pd. A largo del Nazareno nessuno — o quasi — ritiene che sia opportuno sostenere una politica di lacrime e sangue. E per convincere Bersani a dire di sì a un governo di transizione ce n'è voluto.
Il segretario all'inizio, nonostante il pressing del Colle, continuava a fare resistenza passiva rispetto a questa ipotesi. E infatti il Partito democratico aveva già acquistato gli spazi elettorali in vista di un possibile scioglimento anticipato della legislatura. Del resto, Berlusconi aveva già fatto altrettanto, e a largo del Nazareno non volevano farsi trovare impreparati di fronte a ogni evenienza. Ma allora che cosa — o chi — ha fatto cambiare idea al segretario, spingendolo a prendere in considerazione sul serio l'idea di coinvolgere il suo partito nell'avventura governativa? Che cosa lo ha distolto da suo piano principale: elezioni subito, in alleanza con Antonio Di Pietro e Nichi Vendola?
Non è stato un qualcosa ma un chi a far mutare opinione al segretario. E la svolta è maturata in una riunione ristretta con tutti i big del partito che si è tenuta qualche giorno fa. In quella sede il segretario si è trovato solo a difendere l'ipotesi delle elezioni anticipate. Già, perché contro la sua posizione non si sono espressi solo i leader della minoranza interna, favorevolissimi a un governo di transizione e contrarissimi al voto: Walter Veltroni, Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni su questo punto sono uniti più che mai. Contro Bersani è sceso in campo uno dei maggiori sponsor della sua segreteria, cioè Massimo D'Alema. È stato il presidente del Copasir a costringere il leader del Pd a fare dietrofront: senza troppe diplomazie e infingimenti l'ex premier ha smontato pezzo per pezzo l'ipotesi bersaniana di elezioni anticipate e ha spiegato per quale motivo il Partito democratico deve puntare alla creazione di un governo di larghe coalizioni, presieduto sì da un tecnico come Mario Monti, ma appoggiato da una solida maggioranza in Parlamento, perché, come ha sottolineato D'Alema, «i governi sono sempre politici». E tanto più deve esserlo un esecutivo che nella mente dell'ex presidente del Consiglio dovrebbe arrivare fino al 2013.

il Riformista 3.11.11
Dopo Cav? Le soluzioni in campo
di Emanuele Macaluso

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il Fatto 3.11.11
Romano Prodi. Per un esecutivo non politico l’ostacolo dei numeri parlamentari
“B. è morto, Grecia pugnalata da Merkel e Sarkò”
di Giampiero Calapà


Romano Prodi suona le campane a morto del governo Berlusconi: “Questo esecutivo è finito, non sono previsti i tempi supplementari”. Utilizza una metafora calcistica per far più male all’uomo di Arcore che nel ’94 “scese in campo”. Proprio lui, l’unico capace di batterlo, due volte su due, alle elezioni politiche in questi diciassette anni. Le bastonate all’arci-nemico di sempre, Prodi, ieri comincia a darle di prima mattina, sul Sole 24 Ore fresco di stampa, con una lettera firmata insieme a Giuliano Amato e agli economisti Alberto Quadrio Curzio e Paolo Savona: “Il momento è drammatico ed esige l’adozione di provvedimenti immediati e quantitativamente adeguati a fronteggiare l’emergenza. Ogni ritardo può avere conseguenze irreversibili per l’intero Paese”.
Presidente Prodi, quali sono i provvedimenti che il governo dovrebbe avere la forza di prendere?
Non sarò certo io a suggerirli al governo, lo chieda a Berlusconi casomai, ma...
Ma c’è un problema?
Enorme. Questo governo non è all’altezza. Anzi, è morto e non ci sono tempi supplementari da giocare. La verità è che il governo Berlusconi non può fare assolutamente nulla.
Perché?
Intanto per l’irritazione e la sfiducia degli organismi internazionali. Sfiducia totale. Con questo scenario come può Berlusconi prendere quei provvedimenti gravi e urgenti che servirebbero al Paese subito?
Nella lettera al Sole avete scritto: “Nel giro di poche ore l’Italia deve risultare credibile tanto ai suoi partner istituzionali quanto al mercato”.
Servirebbe un messaggio di fatti, fino a oggi abbiamo sentito solo parole, parole e parole. Vuote.
Lei è uno dei protagonisti della stagione europeista che portò alla moneta unica. Gli interpreti attuali, Italia a parte, sono Merkel e Sarkozy...
Francia e Germania perseguono una politica incredibile. La questione greca poteva già essere sistemata, ma Berlino e Parigi dovevano pensare a compiacere i loro populismi interni, chiedendo poi alla Grecia misure durissime... Adesso Papandreou chiede il referendum sugli aiuti dell’Ue, ma cosa devono fare i greci? Suicidarsi?
Tornando all’Italia: la soluzione è il governo tecnico?
Solo se ampiamente sostenuto dai partiti per decreti legge urgenti. Senza il sostegno dei partiti sarebbe un disastro.
Mario Monti potrebbe essere il nome giusto?
Avevamo due personalità che potevano essere spese a livello internazionale. Una era Mario Draghi, che ora ha assunto un ruolo importantissimo alla Bce. Monti potrebbe essere, ma non lo si può mandare allo sbaraglio. Per fare il governo tecnico c’è l’ostacolo dei numeri in Parlamento.
Ammettiamo che l’ostacolo venga superato, cosa dovrebbe fare questo nuovo governo?
Le ho già detto che non sarò certo io a suggerire i provvedimenti giusti. Non ho nulla da insegnare a nessuno.
E se a chiedergli una mano fossero di nuovo i suoi vecchi amici del Pd?
Figuriamoci, quando uno è fuori è fuori. In questi giorni, anzi, ho già parlato anche troppo.
Appunto...
A Bologna si parla d’altro, mi creda.

il Fatto 3.11.11
Auto blu: Italia-Gran Bretagna 72mila a 200
di Chiara Paolin


II Formez, organismo preposto all’ammodernamento della macchina statale, anche per quest’anno ha fatto il suo dovere. Anzi, ha pensato pure a come evolvere la specie: signore e signori, è arrivata la Blue Car Application, una finestra capace di dialogare col vostro telefonino per monitorare in tempo reale la dura sorte delle auto blu italiane. Leggiamo sul sito: “AutoBlu è l'applicazione che mette a disposizione dei cittadino i dati relativi al parco auto della Pubblica amministrazione. I dati raccolti riguardano il parco auto della Pa e distinguono tra le seguenti tipologie: auto blu blu di rappresentanza (utilizzate dalle alte cariche dello Stato, delle magistrature e delle Autorità indipendenti o assegnate agli organi di governo di regioni e amministrazioni locali, e ai vertici istituzionali degli enti pubblici centrali e locali) ; auto blu utilizzate dalla dirigenza apicale; auto grigie a disposizione degli uffici (ad inclusione delle auto della polizia locale) ”.
ALTRO CHE tamagochi e SuperMario, il giochino dell’inverno sarà seguire la rottamazione del parco auto multicor, 72mila pezzi attualmente in servizio e teoricamente destinati a una drastica fine secondo le promesse di Renato Brunetta. Il questionario distribuito agli enti monitorati (tanti, ma non tutti: basti citare l’esercito) lo scorso luglio ha fornito una risposta chiara: crisi o non crisi, un’auto di servizio non si nega a nessuno. Perché 2mila sono quelle in uso a ministri, ministeri, sottosegretari (e a volte semplici segretarie), ben 10mila quelle dei dirigenti apicali (incluse Regioni, Provincie, Comuni) mentre quelle davvero operative sarebbero 60mila. Proprio su quest’ultima categoria s’è abbattuta la mannaia nel 2010: Roma Capitale ha tagliato “62 auto grigie non Polizia e 137 di Polizia" acquisendo in cambio una nuova blu blu (parco totale: 988). Idem per Brescia (-18 auto di Polizia, +1 auto blu) e nobile compromesso per Bari (+2 auto blu con +17 auto Polizia). Scorrendo la lista degli enti considerati (solo il 61 per cento ha risposto al questionario Formez), si evince la regola base secondo cui le auto di servizio vengono tagliate a decine (record la Asl di Napoli, -100 in un colpo solo) mentre sulle blu/blu blu si lavora di cesello
Eppure proprio lì sta la spesa più alta con 14mila autisti in servizio, mentre complessivamente gli addetti al parco mobile sono quasi 36mila e costano 1,2 miliardi di euro l’anno. “Un pessimo segnale questo esubero di mezzi, un atteggiamento che spinge il cittadino a provare sempre maggior insoddisfazione davanti all’amministrazione pubblica. E, quindi, a ritenere giustificabile un comportamento poco civico, oltre che illegale, come l’evasione fiscale” sottolinea Antonella Di Benedetto di Contribuen  ti.it , associazione che informa e tutela il cittadino pagatore. Ovvero l’uomo della strada che ieri sera, passando in piazza San Silvestro a Roma, avrebbe visto la seguente scena: un lato della piazza in ricostruzione lastricato di auto bluissime in doppia fila (posto disabili incluso), l’altro lato battuto vetro a vetro dai vigili urbani (con relative multe ai parcheggiatori illegittimi). Erano in corso i febbrili incontri sulla tenuta del governo, e tutto il centro città pullulava di cofani lucenti: Roma è probabilmente la capitale più blu blu del mondo calcolando che a Londra le auto pubbliche sono meno di 200 (più 8 della Regina, che però paga lei) e che in tutti gli Stati Uniti d’America ce ne sono 75mila.

La Stampa 3.11.11
La crisi e il vertice del G20
“Tocca a Berlino salvare l’Europa”
Pressing di Obama su Merkel per tenere lontana la Cina
di Maurizio Molinari


Il Pil è fiacco La Federal Reserve ha tagliato di un punto percentuale le stime di crescita del Pil per il 2011. Aumentano invece, da 9% a 9,01, i disoccupati. Per l’anno prossimo numeri appena migliori, ma anche qui le stime sono state ridimensionate: il peso della crisi si fa sentire più di quanto non si pensasse La missione Barack Obama vuole spingere la Germania a fare di più per salvare l’Europa riducendo al minimo possibile un intervento cinese. Lo scopo è evitare che cresca l’influenza di Pechino sull’economia del Vecchio Continente
Convincere Angela Merkel ad accettare un ruolo maggiore della Bce a sostegno della moneta unica per scongiurare il rischio di un’Europa salvata dai cinesi e sostenere la debole crescita globale: è questa l’intenzione con cui il presidente Barack Obama sbarca oggi sulla Costa Azzurra, puntando a far coincidere il summit del G20 con un patto sull’euro capace di avere effetti positivi anche sulla precaria ripresa americana.
A tratteggiare i contorni della missione dell’inquilino della Casa Bianca sono le dichiarazioni convergenti di alcuni suoi stretti collaboratori e di più fonti diplomatiche a Washington. «Il piano d’azione concordato dai leader europei la scorsa settimana contiene tutti gli elementi giusti ed ora aspettiamo di sapere come e quando sarà messo in pratica» dice il sottosegretario al Tesoro Lael Brainard, sottolineando l’importanza del fattore tempo. «Ci sono due strade per agire in fretta spiega, dal canto suo, un alto funzionario europeo a Washington il potenziamento del fondo europeo Efsf oppure un maggiore impegno della Bce» e poiché quanto avvenuto da luglio ha dimostrato che lo stanziamento di fondi da parte dei partner dell’Eurozona prende troppo tempo ciò spinge Washington alla convinzione che la soluzione si trovi a Francoforte.
Quando a inizio ottobre la Francia ha proposto di far agire il fondo Efsf come una banca attingendo ai fondi della Bce la Casa Bianca era d’accordo ma il veto della Merkel ha bloccato quella strada. Dunque nell’incontro di oggi a Cannes Obama tenterà di convincere la cancelliera a dare luce verde ad altri due possibili passi della Bce: il massiccio acquisto di titoli di Stato dei Paesi in difficoltà e l’abbassamento dei tassi di interesse. La Bce in realtà sta già acquistando titoli italiani e spagnoli ma Washington ritiene che l’operazione dovrebbe essere comunicata ai mercati con maggiore vigore, sull’esempio di quanto fatto dalla Federal Reserve di Ben Bernake in risposta alla crisi nell’autunno del 2008. Mike Froman, consigliere economico internazionale della Casa Bianca, è esplicito nel tracciare un parallelo fra il 2008 e l’attuale situazione sottolineando come «il G20 di Londra del 2009 vide il mondo unirsi nel concordare massicce contromisure ed ora ci troviamo con una analoga necessità»con la differenza che allora il maggior sforzo venne dagli Stati Uniti ed ora tocca all’Ue.
Se questa mattina Obama, subito dopo l’atterraggio, vede in rapida successione Sarkozy e Merkel prima dell’inizio dei lavori del G20 è nel tentativo di esercitare, d’intesa con l’Eliseo, la massima pressione su Berlino affinché accetti di assegnare alla Bce un ruolo simile a quello avuto dalla Fed nella crisi innescata dai subprime. Fred Bergsten, direttore del Peterson institute di Washington molto vicino alla Casa Bianca, lo spiega così: «L’unico modo per affrontare con decisione i pericoli finanziari è agire sull’Efsf attraverso la Bce, che rimane la risorsa decisiva per i salvataggi dell’area euro, con qualsiasi tecnica politicamente possibile, per creare una riserva fra 2 e 4 trilioni di euro capace di affrontare ogni situazione, inclusi i default di Italia e Spagna».
E’ questa la ricetta per quello che Brainard definisce il «salvataggio europeo dell’Europa» che l’amministrazione Obama preferisce allo scenario di un massiccio intervento di sostegno da parte della Cina destinato a creare una condizione di dipendenza dell’Eurozona nei confronti dello yuan, mutando ai danni del dollaro l’attuale equilibrio fra le maggiori valute. Ciò non toglie che, come osserva Froman, «è positivo avere la Cina e le maggiori economie emergenti attorno al tavolo del G20» per contribuire a fronteggiare la crisi dell’euro ma lo scenario preferito di un tale intervento di Pechino non è bilaterale bensì all’interno del Fmi.
Brainard sottolinea a più riprese che «nel Fmi ci siamo tutti» per suggerire che potrebbe essere questo il foro finanziario per coordinare gli interventi a sostegno dell’euro da parte del resto del G20. Anche se ciò comporterebbe per il governo Usa approvare un incremento di fondi per il Fmi destinato a scontrarsi con l’opposizione dei repubblicani al Congresso. Ma proprio le divisioni politiche in patria spingono Obama a moltiplicare gli sforzi a Cannes per poter trasmettere agli americani l’immagine di un presidente determinato a sostenere la debole ripresa globale per fronteggiare quella che ieri Bernanke ha descritto al Congresso come «una crescita americana talmente lenta da essere frustrante». Ha dato cifre pesanti, Bernanke: la crescita 2011 è rivista al ribasso, tra 1,6 e 1,7% (un punto meno che a giugno) e l’occupazione in crescita: arriva a 9,1%.

l’Unità 3.11.11
Intervista a Ettore Martinelli
«Renzi? Rappresenta una destra moderna»
L’esponente della segreteria Pd, area Marino: «Dalla Leopolda nessun progetto alternativo»
di Maria Zegarelli


Avvocato, 41 anni, docente universitario, membro della segreteria nazionale, mozione congressuale Ignazio Marino, «diffusore de l’Unità, il sabato nei mercati fiorentini». Ettore Martinelli non si appassiona al fenomeno Renzi, non si lascia trascinare dentro la polemica “vecchia” e “nuova” genera-
zione, racconta che non ne può più di chi «sapendo bene cosa “fa notizia”, non ci pensa un attimo a parlare male del segretario così lo spazio in pagina è garantito».
Martinelli, accetti di entrare nella discussione del momento. È stato o no un Big bang la Leopolda?
«Intanto diciamo che sono andato a Firenze due weekend di seguito per incontrare la gente al mercato, parlare con le persone comuni e distribuire l’Unità. Alla Leopolda non sono andato perché penso che le iniziative di ottobre, che sono legittime dal momento che vogliono dare in contributo, in realtà disorientano il nostro elettorato».
Sta dicendo che non aggiungono linfa vitale al Pd?
«Sto dicendo che non ci vedo progetti alternativi, soprattutto se penso alla Leopolda. Mi sembra assurdo che il sindaco di una città come Firenze, iscritto al Pd, dica che oggi non ha più senso essere di destra o di sinistra. A mio avviso una persona della nostra età deve sforzarsi di riempire queste “categorie” di contenuti diversi rispetto a quelli che hanno caratterizzato il Novecento, ma non si può banalizzare».
Ma ci sarà qualcosa che ha colpito la sua attenzione fra tutte quelle che si sono dette alla Leopolda.
«Non dico che da lì non siano venute fuori proposte in parte condivisibili, ma non le ritengo un contributo per il partito».
Renzi non è una risorsa? Sta dicendo questo?
«Renzi sarebbe un candidato perfetto in una coalizione alternativa al centrosinistra dentro una destra moderna. Ma a lei sembra normale che ogni giorno gli elettori di destra ci debbano dire quanto è bravo Renzi? E a Renzi chiedo come mai non è mai venuto a dire in direzione, di cui fa parte, cosa vorrebbe fare. Sa cosa penso?».
No, cosa pensa?
«Che Renzi faccia parte di una carovana che gira il Paese mantenendo perennemente aperto un congresso che in realtà si è chiuso da diverso tempo, con primarie che hanno coinvolto quasi quattro milioni di elettori che hanno detto quale segretario e quale candidato premier volevano. Ignazio Marino ha partecipato alle primarie, ha preso il 14% di preferenze, da quel momento siamo entrati nella gestione unitaria del partito, cercando
di portare un contributo. L’Italia è in crisi, ce ne vogliamo rendere conto? Non mi piace il gioco che da qualche mese si sta facendo nel partito: ci sono le sedi designate a dire la propria opinione, a partecipare al dibattito». Altro tema che scalda: voto subito e governo di transizione? Il Pd è orientato per la seconda ipotesi.
«Non credo che il governo di transizione possa risolvere la grave crisi non solo economica ma anche politica in cui siamo precipitati. Detto questo, penso che sia legittimo da parte di un grande partito come il Pd porsi la questione e provare anche questa strada, cercando di adottare le misure più urgenti per il Paese e cambiare questa legge elettorale. Anche perché è il Presidente della Repubblica a chiedere che ci sia una larga convergenza per le riforme ormai non più rinviabili».
Martinelli, Renzi direbbe che lei rientra più nella categoria dei “dinosauri” che non dei rinnovatori.
«Non c’è niente di più vecchio di ciò che si definisce nuovo. È nuovo ciò che si percepisce come tale e non ciò che si spaccia per nuovo».

il Fatto 3.11.11
Renzinvest
di Marco Travaglio


Tutti (si fa per dire) si domandano perché Renzi abbia scelto proprio Giorgio Gori come regista dell’operazione Leopolda ed estensore delle sue Cento Idee e perché abbia scelto proprio Martina Mondadori per dire “Matteo tocca a te, ti vogliamo presidente del Consiglio”. Ma forse la domanda va rovesciata: perché Gori e la Mondadori hanno scelto proprio Renzi? Evidentemente perché lo sentono familiare. E per capire il motivo basta leggere le biografie dei due ex berluschini folgorati sulla via di Firenze (che presto, visto il super-ego del suo sindaco, verrà ribattezzata “Firenzi”). Giorgio Gori viene da Bergamo. Da giovane bazzicava gruppi di destra, poi negli anni 80 fu adocchiato da Craxi e divenne craxiano. Dunque dirigente del gruppo Fininvest, dove se non eri craxiano non ti si filava nessuno. Carriera folgorante: nel 1989, a 29 anni, è capo dei palinsesti di tutte e tre le reti del Biscione, mobilitate l’anno seguente nella campagna pro legge Mammì; e nel '91, a 31 anni, è direttore dell’ammiraglia Canale5, dove rimane fino al 2001, salvo una parentesi di due anni a Italia1. Il che significa che nel '93 è roba sua la campagna “Vietato Vietare” contro la regolamentazione degli spot in tv. E nel '94, mentre B. entra in politica cacciando subito Montanelli dal Giornale, è lui il comandante della portaerei Fininvest che in tre mesi lancia Forza Italia nel firmamento della telepolitica (ricordate gli spottini di Mike, Vianello, Zanicchi & C.?) e fa vincere le elezioni al padrone. Ed è ancora lui a mettere la sua faccina efebica e la sua firma su programmi-manganello come Sgarbi quotidiani e Fatti e Misfatti di Liguori, specializzati nel killeraggio dei “nemici” del padrone. Mai un dubbio, una presa di distanze, un moto di disgusto, un sopracciglio inarcato. Nel '95 è la sua Canale5 a capitanare la campagna elettorale contro i referendum che tentano di porre un argine agli spot e un tetto antitrust al gruppo Fininvest, come stabilito l’anno prima dalla Consulta. Ora, al fianco di Renzi, Gori dice di voler “liberare la Rai dai partiti”. Cos’è, una battuta? Che altro erano la Fininvest e poi Mediaset, Canale5 e Italia1, dal '94 in poi se non il braccio armato di un partito, con Gori sulla tolda di comando? Sarà un caso, ma Gori vuole departitizzare solo la Rai: su Mediaset manco una parola. Sarà un caso, ma l’indomani Renzi è subito ospite di Matrix, da cui Mentana fu cacciato appena ospitò Di Pietro. E sarà un caso, ma l’unico tema trascurato alla Leopolda, assieme alla giustizia e alla mafia, è stato proprio il conflitto d’interessi televisivo. Dal 2001 Gori è fondatore, presidente e azionista di Magnolia, casa di produzione di format televisivi. Ieri s’è dimesso da presidente per dedicarsi a “nuove sfide” (Renzi), ma rimane azionista di una società fornitrice negli anni di Rai, Mediaset, La7 e Sky. Una mossa che ricorda tanto quella di un altro signore che nel '94, con la morte nel cuore, annunciò che lasciava la Fininvest, restandone azionista e passandola al suo prestanome Confalonieri. Una mossa che certamente lo toglierà d’imbarazzo la prossima volta che Renzi sarà ospite di Piazza pulita, l’ottimo programma di La7 prodotto da Magnolia. Martina Mondadori, classe 1981, figlia di Leonardo alleato di B. nella guerra di Segrate vinta da B. grazie a una sentenza comprata, siede nel Cda della casa editrice che fu della sua famiglia e che ha appena rimborsato a De Benedetti 560 milioni di danni per quella mega-corruzione. Alla convention di Renzi ha detto: “La nostra generazione vuole impegnarsi per cambiare l’Italia e la politica”. Evviva. Ma forse dimettersi dal Cda di una società rubata potrebbe essere un buon inizio. Ps. No, non ci siamo dimenticati la domanda d’esordio: perché Renzi piace a tanti berluschini. Una possibile risposta, davvero strepitosa, la dà Billy Costacurta come potete leggere qui a fianco.

il Fatto 3.11.11
Intervista. L’ex calciatore del Milan volta le spalle al vecchio padrone: “Deve dimettersi”
Costacurta: “Renzi è il nuovo Silvio”
“Il sindaco vuole lavorare per il bene del Paese, come accadde a Berlusconi. I due si sono conosciuti. Forse anche piaciuti”
“Marina alle primarie del Pdl? Me ne andrei al parco”
di Malcom Pagani


Alessandro Costacurta, 45 anni, 662 partite con il Milan. Se la caduta di un sistema inizia dai dubbi di chi fu colonna del palazzo, Billy è la fotografia di un crollo. Martina Colombari, sua moglie “da sette anni, ma stiamo assieme da 17” lo ha convinto all’ascolto di Matteo Renzi. Costacurta è andato e adesso, mentre si scalda al sole di Dubai, in testa, ha un’idea meravigliosa.
Costacurta come è andata?
Benissimo. Secondo me Renzi è il nuovo Berlusconi.
Scherza?
Neanche un po’. Renzi vuole lavorare per il bene del Paese, come un tempo accadde a Berlusconi. I due si sono conosciuti. Incontrati. Piaciuti credo.
Se le dico rottamatori a cosa pensa?
All’aria nuova. Ce n’è un bisogno folle.
Berlusconi deve andarsene?
È un mio amico, ma credo sia il momento.
Non teme di essere annoverato tra gli ingrati?
In Italia c’è libertà di pensiero, di parola e di ironia. Io cerco solo di dare un consiglio a una persona a cui voglio bene. Adesso Berlusconi non è in grado di fare il suo bene, quello della sua famiglia e soprattutto dell’Italia. Subisce attacchi continui, non so dire se giusti o sbagliati. Forse è meglio che si dimetta.
Lei lo fece.
Ero a Mantova e allenavo, in una situazione difficile con gli stipendi non pagati e il morale dei calciatori a terra. I risultati erano buoni, ma pensai che dimettermi fosse la soluzione più dignitosa. Berlusconi potrebbe fare, senza vergogna, lo stesso.
Lei voterà a sinistra?
Mai detto. Anche se nel 2008, al Senato, scelsi Veronesi del Pd. Lo conoscevo, mi fidavo. Io sono un moderato e al comune di Milano ho optato per Letizia Moratti.
È preoccupato?
Neanche per idea. Non sono triste né preoccupato per la vittoria di Pisapia. È una bella persona, Giuliano. Farà bene.
Lei non voterà per il Pd ma non andrà neanche alle primarie del Pdl.
Demonizzare non mi piace. Se ci saranno le primarie del Pd voterò Renzi, il giorno di quelle del Pdl, visti i nomi che girano, andrò al parco con mio figlio.
Perché?
Non mi convincono le candidature. Quando ho sentito il nome di Marina Berlusconi ho pensato si trattasse di uno scherzo.
Marina non la entusiasma.
Non la conosco e non la potrei mai votare, ma ripeto, il suo nome e quello di Formigoni non mi sembravano adatti. Così ho sospirato e poi ho deciso: ‘Billy, è meglio se ne stai lontano’.
Ma l’avversione per Marina?
Non l’ho mai ascoltata dire: ‘Faccio qualcosa per l’Italia’. Si devono tenere fuori i propri interessi quando si va a fare qualcosa di pubblico.
E se domani la chiamasse a collaborare Renzi?
Non andrei. Nel centrosinistra sei costretto ad accompagnarti a individui come Vendola e Di Pietro. A quel punto, meglio la Santanchè.
Qualcuno insinua che sua moglie l’abbia trascinata da Renzi perché il polo televisivo di domani, l’ha scelto come candidato.
È ridicolo. Ho un amico in Magnolia, ma non si chiama Giorgio Gori che tra l’altro, ha appena lasciato la carica. Sono serio e non ho mai invaso la spazio professionale di mia moglie.
Qualche proposta renziana che l’ha persuasa?
Una sola Camera e la drastica riduzione delle leggi. Nonostante Berlusconi abbia fatto qualche casino, ha qualche giustificazione. Governare è complicato.
Lei ha detto di essersi trovato d’accordo con oltre la metà delle argomentazioni affrontate alla Leopolda.
Non è che l’altra metà mi sia parsa inutile. Non ho capito di cosa parlassero. (Ride)
A proposito di Berlusconi. La sua vita privata in copertina l’ha indignata?
Neanche un po’. Io non giudico, però mi piacerebbe che quelli che ci governano non fossero sui giornali per queste cose, che si comportassero in altro modo.
In quale modo?
Nello stesso modo in cui mi comporto io.

il Fatto 3.11.11
La conversione di Giorgio Gori: “Basta tv, pronto a nuovi percorsi”


Dalla tv alla politica, al fianco di Matteo Renzi? Il presidente di Magnolia, Giorgio Gori ha rassegnato le dimissioni dalla guida del gruppo televisivo da lui fondato, lasciando tutte le cariche operative di Zodiak Media Group, Magnolia e Zodiak Active. Sembra una discesa in campo in politica a tutti gli effetti, anche vista la partecipazione in veste di protagonista alla convention dello scorso fine settimana del sindaco di Firenze alla Stazione Leopolda. Nella lettera di commiato si legge: “Cosa farò? Non un altro business, di questo sono abbastanza sicuro. La situazione che stiamo vivendo fa sì che non sia più tempo, a mio avviso, per chi può farlo, di perseguire solo i propri privati interessi”. In ogni caso Gori rimarrà nel board di Zodiak Media Group come consigliere e resterà azionista della società.

Corriere della Sera 3.11.11
Grandi ideologie al tramonto, con Renzi Nasce il «Partito Format»
di Aldo Grasso


L'anomalia Matteo Renzi: niente da fare, alla sinistra storica il Big Bang della Leopolda non è piaciuto. Nonostante l'indubbio successo.
Nonostante il sindaco di Firenze possa attrarre un elettorato di centro e di destra. Anzi, gli si rimprovera proprio questo. E giù insulti: il Pd che piace a destra, il populista di centro, l'unto di Arcore, il Blair dei poveri, il Pieraccioni della politica, il Berlusconi di centrosinistra. È stata messa persino in discussione la sua non risolta identità (politica) di genere, quasi fosse non un trasversale ma un transessuale della politica. I più duri sono stati i vertici del Pd, Rosy Bindi e Pier Luigi Bersani: le idee di Renzi risalgono agli anni Ottanta, quelli della Milano da bere.
Al di là delle idiosincrasie personali (che già tanti danni hanno fatto alla sinistra italiana, e all'Italia), cerchiamo di capire questo paradosso: come mai viene osteggiato un leader in grado di raccogliere consensi anche al di fuori della sua parrocchia? Incomprensione o tafazzismo? La vera novità della Leopolda è che Renzi si è presentato al suo pubblico con un format: una scenografia essenziale, molti personaggi sul palco (alcuni noti, altri sconosciuti, come si usa nei reality), cinque minuti a testa (secondo le sacre regole di «Zelig») per dire che cosa fare una volta al Governo. Ma c'è di più: la stessa proposta politica di Renzi è un format. Non perché alle sue spalle ci sia Giorgio Gori, noto produttore tv e regista della manifestazione (ieri ha lasciato la presidenza di Magnolia), ma perché oggi la comunicazione politica funziona così. Un format è un'idea, è la struttura base del programma (televisivo o politico, non importa), è una serie di suggerimenti relativi alla sua realizzazione. In gergo, i suggerimenti si chiamano «bibbia», nel format Leopolda «cento idee per l'Italia». Un format da tv convergente, con una ricchissima interazione con la Rete (come ha fatto Obama).
Bindi e Bersani sono figli delle grandi ideologie ormai tramontate, Berlusconi è l'inventore del partito azienda. Con Renzi, cresciuto a pane e game-show, nasce il partito format. Che sia lo spazio nuovo della politica?

il Riformista 3.11.11
Il sindaco Renzi, i polli e il voto anticipato
di Felice Besostri


Qualcuno ha deciso di pompare Renzi della Leopolda come fu pompato il Veltroni del Lingotto, allora c’era dietro soltanto un pezzo di finanza (CiR Debenedetti) ora anche il Vaticano. Vi immaginate il bello di una competizione tra Formigoni per il centrodestra, Casini per il centro e Renzi per il centrosinistra? Tutti per liberalizzazioni, privatizzazioni e supini alla Bce? Mi ricorda quella pubblicità troppo facile vincere così. Se lo vediamo da Santoro e da Lerner, dall’Annunziata e dalla Gruber e a “C’è posta per Te” o “Uno Mattina” oltre che da Fazio i giochi son fatti. Tanto più che non avrà problemi a sostituire sulle reti Mediaset il Bertinotti d’antan. L’accento fiorentino è più simpatico di quello irpino di De Mita, potrebbe attirare anche voti padani. Il tragico è che per contrastare Renzi ora ci si deve alleare con Bersani o Vendola, allo stato ancora lontani dal socialismo europeo.
La candidatura di Renzi ha gettato scompiglio, oltre che nel Pd, nella sinistra, in cui allignano suoi tifosi per opposte ragioni, come grimaldello per scardinare il Pd: con un’immagine di una vignetta “i polli di Renzi”, di non manzoniana memoria. Sarebbe interessante sapere di quando è la nomina a dirigente del Renzi nella società di famiglia. Se cioè è in rapporto temporale con l’assunzione di una carica elettiva pubblica perché consente di moltiplicare l’indennità e di rimborsare l’azienda degli oneri previdenziali.
Come è noto, il diavolo si annida nei dettagli e sarebbe importante sapere se il Renzi è un vero riformatore o uno dei tanti scrocconi(per quanto simpatico) della “casta”. L’unico modo di sventare il pericolo è non votare subito con questa porcata di legge elettorale incostituzionale (la Corte d’appello di Milano dovrebbe pronunciarsi sul punto il 22 marzo 2012), ma anche questa è una prospettiva da brivido per le reazioni dei mercati. Il tempo è comunque galantuomo, e scoprire il bluff sarebbe possibile. Le elezioni a primavera con questa legge elettorale sono un toccasana per molti: l’ultima occasione per nominare il Parlamento, eliminando gli oppositori interni. E citando De Gasperi in Italia siamo pieni di politici “che pensano al prossimo governo” e invece poveri di statisti “che pensano alla prossima generazione” o come ammonisce il Presidente Napolitano alle Istituzioni e all’interesse della Nazione.

l’Avanti della Domenica 2.11.11
Dal veltronismo al renzismo
di Bobo Craxi

qui

Repubblica 3.11.11
Banalizzare. Il partito di Twitter
Quando si prende come unico parametro la velocità di comunicazione, c´è il rischio di banalizzare E quello che funziona per ribaltare le vecchie regole non è detto che sia lo strumento per un salto in avanti
Come i media influenzano il cambiamento
di Michela Marzano


Barack Obama è stato il pioniere. Conosciuto e riconosciuto da tutti, ancor prima di vincere le elezioni, grazie all´uso massiccio di Internet, Facebook e Twitter per diffondere idee, costruire contenuti multimediali e dialogare direttamente con i cittadini senza passare attraverso il filtro dei media tradizionali. Una lezione messa in pratica dagli indignados del mondo intero, che hanno perfettamente capito che la comunicazione dipende quasi sempre dai criteri con cui viene organizzata. Come spiegava McLuhan: il medium è il messaggio. Perché allora le cose dovrebbero essere diverse nella politica italiana?
Per tutti coloro che hanno assistito alla riunione della Leopolda di Firenze con Matteo Renzi, vuoi perché fisicamente presenti, vuoi perché connessi al web in streaming, una cosa è certa: ormai anche in Italia, non solo il medium è il messaggio, ma il medium è la politica. E cioè: anche i contenuti politici diventano il mezzo che li trasmette. Soprattutto se il mezzo di oggi, rispetto alla tv di ieri, dà l´illusione di un´interazione in diretta con il mondo. Così bisogna chiedersi cosa diventa la politica se viene riassunta in cento punti nel Wiki-Pd, oggi consultabile online. Perché, al di là dei meriti dell´iniziativa, quando si sintetizza un programma, quando si prende la velocità di comunicazione come parametro, il rischio, evidente, è quello di banalizzare tutto. Il leader comunica e liofilizza, in 180 caratteri. Così il sospetto è che quello che funziona per ribaltare le regole di un vecchio modello non sia propriamente lo strumento per arrivare al nuovo. Perché l´arte della politica si esercita nella complessità. Così l´idea del Wiki-Pd è soprattutto una forma immediata, ad effetto: dove i contenuti, più o meno condivisibili da tutti per quanto sono riassunti, valgono perché si presentano come il frutto di un´interazione tra eletti ed elettori, politici e rappresentanti del mondo socio-economico, scrittori e internauti. Sono stati partoriti mentre il sindaco di Firenze, seduto sul palco accanto ad un frigorifero e ad un cesto di frutta, non la smetteva più di chattare su Facebook e di utilizzare Twitter. Una piccola narrazione costruita strada facendo, tessendosi intorno ad interpretazioni minime della realtà. Come se ormai la sola condivisione politica possibile fosse questa. Una forma, appunto.
Per molto tempo la politica si è basata sulla possibilità da parte degli eletti di influenzare le menti degli elettori attraverso i mass media. Oggi, forse anche in assenza di contenuti certi, i media non sono più solo i depositari del potere ma un luogo in cui il potere viene "deliberato". In Francia, le ultime primarie del PS sono state anche questo: il trionfo dell´idea lanciata nel 2007 da Ségolène Royal, e ripresa poi anche dall´ormai celebre Arnaud Montebourg, della democrazia partecipativa. Una democrazia che si appassiona sul web e non la smette più di mandare tweet. Messaggi talvolta un po´ sgrammaticati e che partono troppo in fretta. Ma che, d´altra parte, contribuiscono alla creazione di una nuova maniera di raccontare il mondo e di credere, in questo modo, di poterlo cambiare. È come se d´improvviso stessero tutti dando ragione a Jean-François Lyotard quando spiegava che la narrazione di cui oggi la gente ha bisogno non può più essere astratta, prescrittiva e verticale, ma orizzontale e relazionale.
Eppure, se è vero che i contenuti strutturati e condivisi quasi non esistono più (dall´etica alle riforme economiche), bisognerà porsi il problema di che cosa facciamo quando facciamo politica. Perché la forma, anche quando è molto più sexy delle precedenti, non diventi un format.

l’Unità 3.11.11
Una buona notizia: La Palestina nell’0Unesco
di Margherita Hack


Fra gli avvenimenti internazionali di questi ultimi giorni va ricordata l’annessione all’Unesco l’agenzia delle Nazioni Unite per l’educazione, la cultura e la scienza della Palestina. Una decisione che si può leggere come, finalmente, un riconoscimento internazionale al diritto di questo popolo ad avere una sua nazione e una sua terra. Meraviglia l’accanimento di Israele, anche in questa occasione: un popolo che ha una lunga storia di sofferenze ed esclusione dovrebbe aver imparato a non applicare ad altri le stesse sofferenze. Dispiace anche l’atteggiamento degli Stati Uniti che hanno deciso di dimezzare i fondi all’Unesco in seguito all’ingresso della Palestina: da Obama mi sarei aspettata un comportamento più coraggioso. Mai come in questa occasione è evidente che le religioni, invece di affratellare, dividono.
Per il resto, in primo piano su tutti i mass media c’è ancora l’economia. Siamo veramente sull’orlo del baratro. Il fatto è che in economia conta enormemente la fiducia e l’Italia soffre di mancanza di credibilità. Anche se il debito pubblico non è tutta colpa dell’attuale governo (che però, va ricordato, ha contribuito a farlo crescere), la mancanza di credibilità internazionale del nostro Paese è dovuta in primo luogo alla persona del premier che ormai tutti conoscono per quello che è: un abilissimo venditore di fumo. Perciò vorremmo fare ancora un appello: se ha ancora un residuo di amor proprio e di amor di patria, Berlusconi lasci il campo libero a un governo serio, fatto da persone serie che abbiano capacità e esperienza politica.
In questo frangente l’opposizione sia unita, il giovane Renzi contribuisca a questa unità e non crei ulteriori divisioni. Perché non basta essere giovani per salvare la politica, a volte serve anche l’esperienza.

Repubblica 3.11.11
Una nuova Flottiglia in rotta verso Gaza Lo Stato ebraico: "Pronti a fermare le navi"


ISTANBUL Due navi che battono bandiera irlandese e canadese sono salpate dalla Turchia, in rotta verso la Striscia di Gaza per forzare il blocco imposto da Israele. Fanno parte della Freedom Flotilla II. Cariche di medicinali, navigano in acque internazionali. L´arrivo è previsto venerdì. A bordo ci sono 27 persone: giornalisti e attivisti australiani, canadesi, irlandesi, americani, palestinesi. Il ministero degli Esteri di Ankara conferma la notizia. Stavolta nessun cittadino turco partecipa all´operazione. Il primo tentativo della Freedom Fotilla è del 2010: il raid israeliano per fermare la Mavi Marmara finì con l´uccisione di nove attivisti e innescò una delle più gravi crisi diplomatiche fra Israele e Turchia. Il governo israeliano già preannuncia il ricorso «a ogni misura necessaria» per impedire che «il blocco di Gaza sia violato».

l’Unità 3.11.11
Foto Onu del pianeta: ricchi più ricchi poveri più poveri
Studio sullo sviluppo umano: Norvegia prima in classifica
Il Congo ultimo, Italia 24esima. Amentano le disuguaglianze all’interno dei Paesi avanzati. E sul futuro l’ipoteca del clima
di Marina Mastroluca


Gli occupanti di Wall Street troverano più di una conferma nel nuovo rapporto Onu sullo sviluppo umano. Due parole prese come bussola, per sondare quegli indici che non rientrano nel Pil, ma fanno la qualità vera della vita: distribuzione e sostenibilità. Ecco misurati sulla prima, anche i ricchi Stati Uniti finiscono per scivolare nelle classifiche mondiali: quarti per
i risultati in materia di istruzione, salute e reddito a livello nazionale, precipitano al 23 ̊ posto quando si ragiona di ineguaglianze interne. Il succo è quello che da metà settembre vanno ripetendo i manifestanti di Zuccotti Park: tra i redditi più alti e quelli più bassi la forbice continua a dilatarsi.
Centottantasette paesi presi in esame, tra la Norvegia al primo posto e la Repubblica democratica del Congo c’è tutto il ventaglio della condizione umana. In testa alla classifica, per dirla a spanne, c’è l’Occidente in senso lato seconda l’Australia, a seguire Olanda, Usa e Nuova Zelanda, Italia 24esima in fondo l’Africa specialmente quella sub-sahariana, con Niger, Burundi e Mozambico. La fotografia del rapporto 2011 conferma una realtà polarizzata, dove i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri, con l’America Latina a guidare la classifica della diseguaglianza, malgrado gli sforzi fatti dal Brasile, soprattutto, e anche dal Cile. In termini assoluti, però, sommando alle disparità di reddito anche l’accesso all’istruzione e la speranza di vita, le maggiori disuglianze si contano inAsia del sud e Africa sub-sahariana, dove si continua a morire di malattie prevenibili o curabili come malaria e Aids. Dove l’accesso all’acqua potabile, ai servizi sanitari, a case decenti è più difficile, se non impossibile.
Un mondo globalizzato che marcia a velocità troppo differenti, anche se dal 1970 a oggi il 25% dei Paesi in fondo alla lista ha migliorato dell’82% i propri standard. Oggi le persone che vivono in condizioni di «povertà multidimensionale», come la definisce il rapporto, sono ancora 1,7 miliardi, 1,3 quelle che campano con meno 1,25 dollari al giorno. Si allontanano gli obiettivi del millennio di sradicare la povertà estrema entro il 2015. Con questi trend, la maggior parte dei Paesi potrebbe raggiungere gli stessi livelli dei primi 25 della lista entro il 2050, se non fosse per il grave deterioramento ambientale e i cambiamenti climatici che rischiano di cancellare tutto quello che si è ottenuto finora. La Thailandia sott’acqua di queste settimane, il Bangladesh che non riesce nemmeno a far notizia con i milioni di sfollati per le inondazioni sono un segno del futuro prossimo venturo.
«I Paesi ricchi hanno fallito in modo significativo nel soddisfare gli impegni presi», scrive il rapporto. Dei 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2020, promessi da G8 e Ue per combattere l’impatto dei cambiamenti climatici nei Paesi più poveri, ben pochi sono arrivati a destinazione: nel 2010 meno dell’8%. Eppure metà della malnutrizione mondiale è provocata da fattori ambientali: siccità, inondazioni, inquinamento sono tutte facce della stessa medaglia. L’alternativa insiste Helen Clark, amministratrice del Programma Onu per lo sviluppo non ha che un nome ed è sostenibilità: dalle fonti energetiche, all’uso delle risorse. È l’ora, sostiene, che si cominci a parlare di una tassa sulle transazioni finanziarie da destinare allo sviluppo sostenibile nei Paesi più poveri. Una tassa sui ricchi, in fondo, un po’ come dicono quelli di Occupy Wall Street.

La Stampa 3.11.11
Cina - India, uguaglianza impossibile
di Jaswant Singh


NEW DELHI. Anche in un’era di notizie globali 24 ore su 24, ci sono eventi che salgono alla ribalta ben dopo il fatto. Qualcosa del genere è accaduto alcuni mesi fa nel Mar Cinese Meridionale e può diventare il modello per le relazioni future tra i due Paesi più popolosi del mondo, la Cina e l’India, da sviluppare negli anni a venire.
Di ritorno, a fine luglio, da una visita di cortesia in Vietnam in acque riconosciute come internazionali, una nave della Marina indiana è stata «avvisata» via radio e consigliata di «abbandonare» il Mar Cinese Meridionale. Anche se gli incidenti navali tra la Cina e i Paesi più vicini in particolare Vietnam, Giappone e Filippine non sono insoliti, questo è il primo a coinvolgere l’India.
Perché la Cina ha tentato di interferire con una nave che si trovava in mare aperto? E’ stato «solo» un altro episodio delle ingiustificate pretese di sovranità della Cina su tutto il Mar Cinese Meridionale, o nasconde qualcosa di più malevolo?
Al ministero degli Esteri cinese, un portavoce ha spiegato: «Contrastiamo qualsiasi Paese che ingaggi attività di ricerca di petrolio e gas e sviluppi attività nelle acque sotto la giurisdizione della Cina». Poi, per inciso, ha aggiunto: «Speriamo che i Paesi fuori della regione rispettino e sostengano i Paesi dell’area "nei loro sforzi" per risolvere le controversie attraverso canali bilaterali».
Il governo indiano ha ribattuto prontamente: «La nostra cooperazione con il Vietnam o con qualsiasi altro Paese avviene sempre secondo le leggi, le norme e le convenzioni internazionali», rilevando che la «cooperazione con il Vietnam in materia di energia è molto importante». In effetti le aziende indiane hanno già investito molto lì, e stanno cercando di ampliare le loro attività.
Sebbene le dichiarazioni dell’India siano abbastanza esplicite, i dubbi restano. La disputa tra i due Paesi verte solo su chi svilupperà le intatte risorse energetiche del Mar Cinese Meridionale, o abbiamo a che fare con l’inizio di un confronto per le sfere d’influenza?
Per trovare una risposta è necessario confrontarsi con le norme di civiltà, che si riflettono nei giochi intellettuali che le due nazioni prediligono. L’India ha tradizionalmente coltivato il gioco del «chaupad» (quattro i lati), o lo «shatranj» (scacchi), che si basano sul confronto, la conquista e il soggiogamento. La Cina, d’altra parte, ha il «qui wei» (conosciuto in Giappone come «go»), che si impernia sull’accerchiamento strategico. Come consigliò Sun Tzu molti secoli fa, «eccellenza ultima non sta nel vincere ogni battaglia ma nello sconfiggere il nemico senza mai combattere».
Un recente documento del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sull’«Evoluzione della Cina in tema di forze armate e sicurezza 2011», sostiene che «la politica cinese “del mare di casa” ha preoccupato seriamente non solo l’India, ma anche il Giappone, l’Australia, gli Stati Uniti, e i Paesi dell'Asean". In risposta, il ministero della Difesa cinese ha proclamato che «Cina e India non sono nemici né avversari, ma vicini e partner».
Allora, come stanno le cose? E’ chiaro che l’India, stante la cooperazione pluriennale con il Vietnam su petrolio e gas, non intende accettare le rivendicazioni cinesi sul Mar Cinese Meridionale. Inoltre, con l’inizio dello sfruttamento dell’energia è in programma un nuovo protocollo d’intesa tra India e Vietnam che sarà firmato entro la fine dell’anno. La Cina ha probabilmente reagito a questi sviluppi accusando l’India di violare le acque territoriali.
In India sta diventando sempre più precisa la sensazione che sia in atto una lotta per il dominio sulla regione. Le attività cinesi in Pakistan e Myanmar, l’espansione degli accordi portuali della Cina porta nell’Oceano Indiano (il cosiddetto «filo di perle»), e le accresciute attività navali cinesi nell’Oceano Indiano hanno fatto drizzare le antenne ai servizi di sicurezza indiani. Infatti, l’organo di stampa ufficiale cinese «Global Times», modificando il suo atteggiamento precedente, ha recentemente chiesto di porre fine a piani energetici dell’India nella regione. «Bisogna prima usare la forza di persuasione, ma se l’India persevera, la Cina dovrebbe tentare tutti i mezzi possibili per fermarla».
Lo stesso articolo poi gettava il Tibet nel calderone delle accuse. «La società cinese», proseguiva, «è ... indignata per l'intervento dell’India nel problema del Dalai [LAMA]», avvertendo l’India di «tenere a mente» che «le sue azioni nel Mar Cinese Meridionale spingeranno la Cina al limite». Secondo il «Global Times», «la Cina è felice dell’amicizia sino-indiana, ma questo non significa che la ponga sopra ogni altra cosa».
C’era anche un messaggio di più ampia portata e più inquietante che smentisce la retorica ufficiale cinese dell’armonia: «Non dobbiamo lasciare il mondo con l’impressione che la Cina sia concentrata solo sullo sviluppo economico, né inseguire la fama» di essere una «potenza tranquilla, perché potrebbe costarci caro».
E’ questa la politica estera «trionfalistica», come la definisce Henry Kissinger, con cui l’India deve fare i conti. «L'approccio cinese all’ordine mondiale», scrive Kissinger nel suo nuovo libro «Sulla Cina», è dissimile dal sistema occidentale basato sull’ «equilibrio diplomatico del potere», soprattutto perché la Cina non ha «mai avuto contatti prolungati con un altro Stato» basati sul concetto di «uguaglianza sovrana dei popoli». Come sottolinea Kissinger, autorevole amico della Cina: «Che l’Impero cinese dovrebbe avere una posizione di preminenza sulla sua sfera geografica era considerata in pratica una legge di natura, espressione del mandato del Cielo».
Forse l’India e gli altri dovrebbero combattere l’assertività della Cina seguendo i consigli di Sun Tzu: «Contenere l’avversario attraverso la leva della trasformazione dei vicini di quell’avversario in forze ostili». Così come la Cina si è coltivata il Pakistan, la crescente intesa dell’India con il Vietnam potrebbe essere una contromossa sulla scacchiera strategica dell’Asia?
Può essere. Dopo tutto, poiché l’India riconosce gli interessi vitali della Cina in Tibet e a Taiwan, è doverosa la reciprocità verso gli interessi nazionali dell’India. La Cina deve accettare la neutralizzazione di ogni sforzo di accerchiamento strategico dell’India. Questo è un imperativo per la sicurezza nazionale dell’India. Così come la moderazione e la reciproca collaborazione, ma questo vale anche per la Cina.
Copyright: Project Syndicate, 2011. *Jaswant Singh, è stato ministro delle Finanze, degli Esteri e della Difesa dell’India. Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 3.11.11
Cina
Un milione di bambini obbedienti
di Giampaolo Visetti


Un esercito di un milione di bambini obbedienti. L´ultimo piano quinquennale di Pechino, dalla cultura, ripiega sulla morale. In Cina si è sempre cominciato presto a riconoscere l´autorità. Anche in Oriente però la famiglia è in crisi e il governo teme di allevare una generazione non abbastanza allenata a dire sì. Dove non arriva la mamma arriva il compagno segretario. Ci penserà l´Associazione nazionale per gli studi di etica, supportata dallo Stato. La campagna educativa investe i bambini tra i quattro e i sei anni, selezionati in tutte le regioni. Dopo la scuola studieranno «pietà filiale», «rispetto dei genitori e degli antenati», «aiuto nei lavori domestici» e «scienza della crescita armoniosa». Haibin Wang, capo del progetto, ha spiegato che i corsi saranno ispirati a tradizione, galateo e buona educazione, secondo le regole di Confucio e degli antichi filosofi imperiali. Gli allievi che supereranno cento ore di prova, accederanno a tre anni di specializzazione, preludio al diploma di «bambino cinese rispettoso». Uno studio rivela che gli studenti modello sono anche quelli con maggiore senso del dovere famigliare e predisposizione alla premura. Credere e obbedire: alla Cina, per ora, combattere non serve. Meglio stare buoni: nel nome del padre e del partito.

l’Unità 3.11.11
I miei durissimi 11 anni nei campi di concentramento
«Il veterano» Da oggi in libreria il diario del commerciante svizzero Carl Schrade, rimasto sepolto per 70 anni: un documento incredibile sulle atrocità subite dai prigionieri. Anticipiamo ampi stralci dal capitolo «Medicina illegale»
di Carl Schrade


L’ospedale dei detenuti è diretto da un medico civile «convenzionato» dalle SS, il dottor Heinz Schmitz. All’inizio, era sotto gli ordini del comandante medico SS Schnabel, ma in brevissimo tempo, grazie a intrighi e manovre di ogni tipo, il dottor Schmitz ha ottenuto da parte del comando del campo piena libertà di azione: non migliorando la sorte dei malati che gli erano affidati, ma esasperando i metodi più criminali di distruzione all’interno delle baracche dell’infermeria, e trascurando completamente l’igiene del campo, già così scarsa e penosa.
Al dottor Schnabel piaceva bere.
Quanto al dottor Schmitz, egli è un ubriacone raffinato, un esteta dell’alcol, un maniaco di tutto quello che inebria ed eccita. Mentre Schnabel rimaneva inoffensivo, Schmitz è estremamente pericoloso. Il suo vizio non lo indebolisce. Lo infiamma, lo stimola, e allora ogni cosa è permessa: chirurgo dotato di un vero talento, quest’uomo privo di ogni senso morale, che si avvale di un’intelligenza pronta e vivace, farà regnare nel Revier un clima di terrore e di follia. Si è sostenuto che lui stesso fosse un anormale; ci resta difficile crederlo, poiché la sua lucidità di spirito era notevole. Ingannarlo era un gioco pericoloso: vedeva tutto, sentiva tutto, indovinava prontamente e sapeva comandare.
(...) Nelle mie nuove funzioni, lavoro dalle sedici alle diciotto ore al giorno. Si comincia alle 4.30 del mattino. Si presentano i primi malati: hanno tutti la febbre alta, soffrono di dolori al ventre, ai reni, di reumatismi, di piaghe suppuranti, di mille altri mali acuti e gravi. Alcuni sono stanchi di camminare. I loro cantieri sono situati a 4 chilometri dal campo, e fanno questo tragitto ogni giorno da mesi. Tutti sono sfibrati e vorrebbero riposarsi, anche un solo giorno. Non posso rilasciare loro che un modulo con l’autorizzazione a presentarsi alla visita medica. Con questo pezzo di carta, i compagni malati si presentano ai loro capi di Block che li cancellano dal Kommando in cui lavorano. Poi aspettano il medico, all’aperto, con qualsiasi tempo: un uomo che lavora non ha diritto a nessun riguardo.
LE MEDICAZIONI
(...) Due volte a settimana, il mercoledì e il sabato, ci sono le sedute di «ambulanza» esterna, vale a dire le medicazioni. Solo due volte a settimana sfila in riga per cinque l’immenso corteo degli appestati e dei lebbrosi che vengono a farsi rinnovare sulle piaghe purulente la superficiale fasciatura... di carta. Ulcere varicose, flemmoni diffusi agli arti, ascessi, foruncoli, e quelle abominevoli piaghe di ogni tipo la cui bruttezza e il cui fetore ricordano le più antiche putrefazioni dei secoli andati. Spaventosa coorte d’uomini, che vengono a centinaia a battere come una fiumana gemente gli scalini dell’infermeria. L’estate possiamo effettuare queste sedute di medicazione all’aperto. Ma durante la cattiva stagione, bisogna lavorare in una saletta di trenta metri quadrati, dove si accalcano sessanta persone: i medici e gli infermieri, dieci in tutto, lavorano senza sosta per più di due ore. Dispongono di un’irrisoria quantità di prodotti, niente garze, nessuno strumento adeguato. Si calcola che se si vogliono far passare tutti, la medicazione di un malato può durare al massimo tre minuti. Le fasciature di carta ovviamente non hanno alcuna resistenza. Il pus e gli umori le trapassano in poco tempo. La pioggia, il fango, il sudore le rompono facilmente. È una presa in giro, uno scandalo far fasciare persone così infettate con un materiale di scarto.
È per questo che prendo l’iniziativa clandestina di far venire presto ogni sera i malati alla medicazione, in modo tale da poter lavare per bene le loro piaghe e da sostituire i bendaggi, che così tengono un po’ meglio. Insomma, ognuno alle spalle di Schmitz s’ingegna per fare un lavoro il più possibile appropriato e serio. Il consumo di bende di carta raggiunge ovviamente un livello elevato, ma grazie a Dio questo genere non ci viene contingentato.
Chi ha visto ogni sera queste penose colonne d’uomini sofferenti e claudicanti trascinarsi, sostenersi e portarsi l’uno con l’altro, tremanti in attesa davanti alla stretta porta dell’ambulatorio, supplicando che li si faccia entrare al più presto, a volte ahimè perfino picchiandosi per essere primi, chi ha disfatto quelle fasciature imbrattate e putride, pulito quel marciume, chi per ore e ore, giorno dopo giorno, mese dopo mese, ha tentato di arginare questo flusso di martiri e di moribondi pensando semplicemente che con un po’ di buona volontà, qualche medicamento supplementare, qualche misura umana, questo torrente di dolore e di lacrime poteva cessare, chi ha fatto questo non può guarire il proprio animo da un terribile sconforto, da un’amara disperazione. Sì, ho speso undici anni della mia vita, undici anni della mia giovinezza e delle mie forze fisiche e mentali in questi crogiuoli di abietta miseria, ma le prove e le sofferenze che ho sopportato personalmente non sono niente di fronte a questo infinito numero di morti, a questa piramide iniqua e mostruosa che precipita nelle fiamme, morti cinicamente voluti dal più criminale dei tiranni contemporanei e dal suo regime diabolico, la cui bestialità non conosce limiti...
Arriva la sera, sono sfinito nel corpo e nell’anima. L’orribile film della giornata scorre ancora davanti ai miei occhi. Mi stendo tutto vestito sulla mia cuccetta. Ascolto il rumore immenso, l’eco irreale dei lamenti e dei gemiti che si è appena spenta. Interrogo la mia coscienza: ho fatto tutto quello che occorreva? Ho dato tutto quello che era in mio potere? Abbiamo salvato esistenze che sono venute a trascinare le loro ultime forze ai nostri piedi? Non abbiamo lasciato scappare l’ultimo uomo esangue e afono che stanotte uscirà dal suo Block, titubante e perduto, per andarsi a buttare sul filo spinato, sulla corrente ad alta tensione, sotto le mitragliatrici delle torrette? È impossibile dormire, è impossibile anche mangiare. Passa la sentinella, fa scorrere la lama di luce della sua lampada sul mio viso, scuote la testa tristemente, mi augura qualcosa e se ne va: fantasma, ombra, nuvola d’uomo un tempo felice e libero. Sapremo un giorno ritrovare la gioia di vivere?

l’Unità 3.11.11
Gli invisibili della stazione di Milano
«Almanacco Guanda 2011» Pubblichiamo l’incipit di un racconto di Gianni Biondillo, da oggi in libreria con tanti altri testi scritti da Camilleri a Fois. Il tema di questo numero: «L’Italia è razzista? Dove porta la politica della paura»
di Gianni Biondillo


L’appuntamento è di fronte a una edicola che vende materiale pornografico a due passi dalla stazione. Non abito lontano da qui, se passa qualcuno che conosco mi sono giocato definitivamente ogni briciolo di credibilità. Tutta colpa di Cesare, un fotografo che da un po’ di tempo porta avanti un progetto semplice e geniale assieme: una mostra di fotografia sui senzatetto, i clochard della Stazione Centrale. Foto, pero, non fatte con l’occhio un po’ paternalista del professionista, ma scattate direttamente da loro, i senza fissa dimora. I barboni, insomma. Una volta tanto non solo soggetti ma anche autori di se stessi. Come si vedono, loro, «gli invisibili»? «Sono bravi» mi dice Cesare, ora che mi porta via dall’edicola e mi fa attraversare la strada, «bravi davvero» E pronti a dare lezione di dignità. La prima preoccupazione di Cesare era che non si vendessero le macchine fotografiche. Invece e andata a finire che ha dovuto trovare altre digitali perché la cosa ha talmente preso piede che ora c’è la fila. Tutti vogliono guardarsi attraverso l’obiettivo, dare una forma alle loro giornate infinite.
Entriamo nel sottopassaggio ferroviario di via Tonale. Le automobili ci sfrecciano accanto indifferenti, l’odore di smog chiude lo stomaco. Dalla galleria, quasi di nascosto dagli occhi dei bravi cittadini, entriamo nella sede di Sos Stazione Centrale, dove tutto è incominciato, grazie a Maurizio, un uomo che ha avuto più di una vita, più di un passato: musicista, tossicodipendente, simpatizzante di Prima Linea, mistico, carcerato. Da vent’anni è l’anima di questo centro di accoglienza. «In realtà è un club esclusivo» mi dice scherzando Maurizio. «Ce ne sono di tutti i tipi in città, non ne possono avere uno anche i barba di Milano?» Solo che sono generosi in questo club. Non chiedono tessere d’iscrizione, non chiedono carte d’identità. Non chiedono nulla, in realtà. Chiunque può entrare, sedersi, giocare a carte, senza dare spiegazioni. Sono solo in due, lui e Elisa, a gestire 120 persone al giorno che vengono qui, spesso senza alcun motivo apparente. Magari solo per sedersi, ché trovare un posto dove passare la giornata e sempre più difficile in città. Oppure vengono per ricaricare il cellulare, per fare il bucato, per consultare internet o per una partita a carte. Per non sentirsi soli. «Piano piano si crea un rapporto di fiducia, così si può parlare anche di cose più importanti, dal bisogno di un paio di scarpe a cercare, con calma, di dirimere i loro problemi: dalla perdita del lavoro alla perdita del senno dell’esistere».
E infatti alla spicciolata li vedo arrivare, ridono, scherzano, salutano, si siedono dove trovano posto. «Vieni con me» mi dice Maurizio. Attraversiamo un corridoio e mi porta in una piccola sala concerti dove chi vuole sale sul palchetto e suona. Appese al muro ci sono le foto fatte dai barboni. «Ho spiegato solo qualche dettaglio tecnico» mi dice Cesare. «Qualche trucco estetico, ma il resto è farina del loro sacco. Le guardo. Inquadrature mai banali, composizioni di qualità, per nulla amatoriali. Questi danno filo da torcere, gli dico, sfottendolo.
Nel frattempo Maurizio ha imbracciato una chitarra elettrica, alla batteria c’è Simon, un ragazzo bulgaro. Elisa prende in mano il microfono. Stanno provando un nuovo pezzo. Sulla loro testa una scritta: Bar Boon Band. Anche cantare, anche suonare fa parte del progetto di recupero a una vita normale, qualunque cosa significhi la normalità, qui, in questa stanza. In questa città, anzi. Con orgoglio Maurizio mi spiega che hanno già fatto concerti in giro, al teatro di Casale, ad esempio, un piccolo gioiello architettonico. Con loro suonano Abdul, un marocchino che dorme sui treni, poi Armando, il percussionista, e Irina, una tastierista ucraina. E il basso?, chiedo io. «Niente basso, lo stiamo cercando». Potrei propormi, in fondo non avevo voglia di tornare a suonare? «Una volta li ho portati sul palco di piazza Duomo, al concerto di Gigi D’Alessio». Me lo dice ridendo. «Abbiamo fatto una figuraccia, per inadeguatezza, certo, e anche perché eravamo un po’ puzzolenti, sai c’erano anche alcuni barba che erano settimane che non si lavavano...ma alla fine abbiamo strappato l’applauso».
Ad ascoltarli ora ci sono anche Antonello e Ina. Il primo e un piccoletto tutto nervi, abbronzatissimo. Ha un’aria simpatica, chiacchierando scopro che è di Carbonia. «Sono a Milano dal 2000 circa» mi dice «era settembre. Prima vivevo a Mandello del Lario». Ha una moglie, un figlio, un lavoro in una officina meccanica. E poi? «E poi mi sono separato, circa quindici anni fa. Il divorzio per me è stato liberatorio, la nostra storia era finita. La mia settimana lavorativa continuava, ma da venerdì sera a lunedì mattina ero senza fissa dimora. Lunedì tornavo, conciato da sbatter via, al lavoro. E così che ha conosciuto gli altri clochard della Stazione. Ha trovato una sua, impossibile ma coerente, dimensione. «Ho detto a mia moglie: tieniti la casa, il conto in banca, me ne vado. Mio figlio ora ha ventiquattro anni, ha la sua vita, ogni tanto lo sento, mi racconta le novità. Oppure mi chiama lui, sul cellulare, quando ha litigato con la madre...». Lasciamo Maurizio alle sue prove e andiamo a prenderci un caffè al bar del dopolavoro ferroviario. Sembra uscito da un film poliziottesco degli anni Settanta, anche i prezzi, in effetti, sono fermi a quella data. A parlare ora e Ina. «Con Antonello ci siamo conosciuti qua sopra» alza un dito proprio mentre sento lo sferragliare di un treno che ci passa sopra la testa. Mi racconta il loro incontro: lei seduta sulla panchina, sperduta, impaurita. Lui che passa e ripassa. «Poi si avvicina e mi dice: “Che ci fai qui? Non è vita per te questa” e mi ha portato giù al centro aiuto, per trovare un posto nel dormitorio di piazzale Lodi. La sera, accompagnandomi, mi ha raccontato tutta la sua vita».
Ina lavora in un ospedale. In strada e arrivata nel 2005, dopo una separazione difficile, un ex marito volatilizzato, cinque figli da mantenere, una depressione che l’ha piegata in due. «Ora sto bene. La strada, per assurdo, mi ha aiutato a tirar fuori gli artigli. Ero la prima a giudicare, da fuori non si riesce a capire che c’è un altro mondo, non è quello del ricco o del povero, e un’altra cosa: bisognerebbe provarlo, cosi si puo davvero capire».

l’Unità 3.11.11
Dieci anni senza lo spirito critico di Lucio Colletti
La parabola del filosofo dal marxismo eterodosso all’approdo in Forza Italia. L’ultima produzione segnata dal disincanto
di Gianni Borgna


Dieci anni fa moriva Lucio Colletti. Allievo di Galvano Della Volpe, aveva ereditato dal maestro il rifiuto di ogni provvidenzialismo. Anche il suo era un marxismo eterodosso, depurato da ogni idealismo e riconciliato con la scienza. L’esatto contrario di quello fin lì prevalente nella tradizione italiana (riassumibile nel famoso asse De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci). Fondamentali, al riguardo, restano opere come Il marxismo e Hegel (1969) e Ideologia e società (1969), quest’ultima contenente tra l’altro una confutazione radicale del pensiero di Herbert Marcuse, allora mito indiscusso di quel movimento del ’68 che egli non amò e da cui non fu amato.
Quando però Colletti si accorse che la dialettica, hegeliana come marxiana, si fondava non già su quelle che Kant aveva definito «opposizioni reali» (e ancor prima Aristotele «contrarietà») quanto sulle «contraddizioni» (che dovrebbero appartenere alla sola sfera della logica), anche il «suo» marxismo entrò in crisi. Fu nel saggio su Marxismo e dialettica che Colletti giunse a queste conclusioni, che mostravano come anche in Marx convivessero un lato scientifico e uno filosofico e speculativo. Detto altrimenti, anche il socialismo di Marx era tutt’altro che rigorosamente «scientifico». Il saggio uscì nel 1974 come appendice all’edizione italiana della celebre Intervista politico-filosofica, con la quale Laterza diede avvio a una fortunata collana editoriale. Le reazioni a sinistra non si fecero attendere.
INTELLETTUALI IN ITALIA
Il libro oltretutto usciva in un momento in cui, particolarmente in Italia, il marxismo manteneva una forte presa sugli intellettuali e il Partito Comunista (in cui lui aveva militato fino al 1964) era in grande ascesa. Ma Colletti aveva dalla sua più d’una ragione. Semmai si potrebbe affermare che la sua caratteristica, e forse paradossalmente il suo limite, fu di prendere Marx fin troppo alla lettera. Marx si riprometteva di far passare il socialismo dall’utopia alla scienza in polemica con i socialisti «utopisti», ma la sua era più che altro una dichiarazione programmatica. Colletti invece lavorò a espungere dal marxismo ogni tratto non scientifico, ma presto si avvide che anche in Marx convivevano scienza (le analisi di molte parti del Capitale) e ideologia (la previsione della fine del capitalismo e dell’avvento della società senza classi). Fu così che, come ha osservato Mario Tronti, il fallimento del «suo» marxismo portò Colletti a abbandonare anche il socialismo e a cambiare parte politica, fino all’approdo finale in Forza Italia.
IL RAPPORTO CON GRAMSCI
Ma il problema non era che Marx auspicasse la fine dello sfruttamento capitalistico, quanto che pensasse che si trattava di un obiettivo ineluttabile. Chi più di tutti lo aveva lucidamente compreso fu Antonio Gramsci, il Gramsci ancora imbevuto di filosofia idealistica che nel 1917 parlò della rivoluzione russa come di una rivoluzione contro il Capitale di Marx; la quale, contrariamente alle previsioni e agli auspici dei marxisti, aveva vinto proprio nel Paese europeo meno capitalisticamente sviluppato. Questo perché, come sempre Gramsci chiarì, in politica non si può prevedere «scientificamente» nulla, l’unica cosa che si può prevedere è la lotta, l’azione orientata a realizzare determinati fini.
L’attività rivoluzionaria non può pretendere di appoggiarsi alla scienza, così come nei conflitti di classe non è iscritto a priori alcun esito positivo. I comportamenti umani, aggiungo, sono imprevedibili e largamente irrazionali: l’uomo, prima e più che «faber» e «sapiens», è «demens» (nel senso che produce fantasmi, miti, credenze, ideologie, e vive largamente di questo).
Tronti, però, sbagliava ad affermare che «Lucio Colletti è stato un filosofo marxista, e poi più niente». In realtà Colletti continuò a scrivere e a produrre molti studi importanti, fino a quel Fine della filosofia (1996) che parve preludere a una nuova stagione del suo pensiero incentrata su Popper e sugli studi di filosofia della scienza e improntata a un lucido disincanto, che molto doveva a due autori da lui particolarmente amati, David Hume e Giacomo Leopardi

Repubblica 3.11.11
Intervista
Elisabeth Badinter
"Così il mito della modernità ha tolto potere alle donne"
La filosofa spiega perché anche il femminismo ha perso i suoi punti di riferimento
"Ha prevalso un naturalismo alla Rousseau rispetto alla politica e alla cultura"
"Siamo alla fine della rivoluzione del ´68, ma il progressivo trionfo del desiderio è giunto a una soglia pericolosa"


PARIGI. Saggista e filosofa francese, Elisabeth Badinter è una femminista sui generis, quanto mai libera nei giudizi. Spesso e volentieri controcorrente. Ha combattuto le sue battaglie sulla scia delle posizioni di Simone de Beauvoir, ma con altrettanto vigore ha polemizzato con un certo femminismo di matrice americana, sorto negli anni Ottanta del secolo scorso e poi trapiantato in Francia, che abbandonando l´universalismo e la rivendicazione di pari diritti, si è rinserrato in una posizione sessista, separatista e "naturalista". In cui la diversità femminile si rappresenta nella figura della madre.
Autrice di non meno importanti studi sull´Illuminismo, la Badinter può sicuramente offrirci un "altro sguardo" sulla figura dell´autorità. Mi accoglie nel salotto della sua bellissima casa affacciata sul Jardin de Luxembourg, offrendomi una bottiglietta di Perrier, che con le sue bollicine farà da discreto basso continuo alla nostra conversazione.
«Viviamo ancora nell´onda lunga del Sessantotto, che ha portato un formidabile attacco all´idea di autorità, e di legge. A tutto vantaggio della soddisfazione del desiderio e della pulsione, declinati nelle più diverse forme. Ora siamo alla fine di quella rivoluzione, di cui non sottovaluto affatto i benefici effetti. Abbiamo aperto porte e finestre ed è andata bene così. Tra parentesi, mi sono via via convinta che questo attacco frontale all´autoritarismo sia tra le cause dell´allungamento medio della vita. Assieme, è ovvio, agli enormi progressi in ambito medico, scientifico, igienico, alimentare. Lo penso perché ha determinato una sorta di liberazione psicologica: tanto per le donne, che non dovevano più attenersi ai modelli tradizionali di femminilità, quanto per i maschi, che non dovevano più conformarsi ai vecchi modelli di virilità. Per contro, è altrettanto evidente che questo progressivo trionfo del desiderio, ha raggiunto ormai una soglia molto pericolosa. È arrivato il momento di porre dei limiti, di tornare al rispetto della legge. Siamo davvero ai bordi della barbarie».
Ma il rispetto della legge non si ottiene proprio quando si riconosce l´autorità?
«E qui cominciano i guai. Vede, i nostri genitori esercitavano un´autorità, come dire, "naturale"; la loro parola non era messa in discussione. Poi è successo quel che successo, con il ´68 per l´appunto. E i genitori si sono trovati disarmati di fronte ai loro figli. I padri e le madri si sono trasformati in fratelli e sorelle. Di più. Identificandosi con i figli, non hanno avuto più cuore di punirli, perché è come se punissero se stessi. E in tutto questo ha giocato un ruolo quanto mai negativo una certa pedagogia e una certa volgarizzazione della psicoanalisi, che hanno insistito talmente tanto sui traumi infantili e sui rischi nevrotici della frustrazione, da rendere ripugnante l´idea della punizione e della sanzione. Sia in ambito familiare che in ambito scolastico. Il risultato è che molti bambini e adolescenti di oggi sono diventati dei piccoli selvaggi».
Lei come definirebbe la figura dell´autorità?
«Le posso parlare dalla mia esperienza personale. Ho insegnato per trentotto anni. E so che un buon docente deve avere personalità, un briciolo di carisma, ma anche polso. Perché c´è un momento in cui la discussione cessa e le cose vanno fatte: punto e basta. Dunque, potremmo anche provare a definire l´autorità in negativo, quando viene a mancare. Perché se non ci si sottomette più di buon grado alla norma, prima o poi si arriva necessariamente a forme di costrizione. E si affaccia il rischio della violenza autoritaria. Questo è il passaggio stretto che stiamo attraversando».
Il punto di vista femminile, in quanto tale, ci può aiutare a ridefinire un nuovo modello di autorità?
«Sin qui no, perché i modelli culturali femminili sono stati improntati al sentimento, alla fusione, alla vicinanza. Mentre le caratteristiche proprie dell´autorità sono la distanza e il ritegno».
E il femminismo, in tal senso, che ruolo ha giocato?
«Ha sempre attaccato l´autorità, come emblema della dominazione maschile. Non senza buone ragioni storiche, naturalmente. Poi le cose si sono ulteriormente complicate con il neo-femminismo americano di marca naturalista, che mette la donna a fianco del bambino e contro il padre. La donna, in questa accezione, viene presentata come una vittima, disarmata al pari di un infante di fronte alla violenza maschile».
Lei è molto dura contro queste posizioni teoriche.
«Lo sono perché mi sembrano reazionarie e oggettivamente regressive, tutte tese a cancellare le battaglie universaliste di un tempo. Se la donna diventa uguale all´uomo, sostengono le esponenti di questa tendenza, si tradisce la femminilità. E invece è proprio dall´esaltazione della femminilità, dalla sua costitutiva differenza, che bisogna partire. Da qui la nuova centralità attribuita alla figura della madre, perché è la capacità di procreare che conferisce alla donna la sua generosità e superiorità morale. Si ripropone così una separatezza naturale che da un lato vede un uomo immancabilmente aggressivo, violento, sopraffattore, e dall´altro una donna sempre fragile, attenta, accogliente. Ma la generalizzazione in due blocchi contrapposti, gli uomini e le donne, non porta da nessuna parte. Riconduce nella trappola dell´essenzialismo e non risponde a verità».
E in Francia, questo nuovo femminismo, ha finito per prevalere?
«Non è facile rispondere. Sicuramente ha conquistato molte posizioni. Siamo nel pieno di una gravissima crisi economica e tanto per cambiare le donne sono le prime a pagare, con l´estromissione dal mondo del lavoro. Ma come reagiscono tante giovani di fronte a tutto questo? Legando il loro destino al mito dell´istinto materno. Quasi che la loro partita si giochi unicamente su quel terreno».
Se ho ben capito, il paradosso di questo neofemminismo è che, per quanto mosso da intenti radicali, finisce per ricondurre le donne negli antichi ghetti.
«Proprio così. Non so quante di queste femministe ne siano consapevoli, ma ripropongono tal quale il modello di Rousseau. Fino alla pubblicazione dell´Émile, le donne francesi erano molto libere riguardo alla maternità. Anche in provincia, o nelle classi sociali più umili. Poi arriva Rousseau e afferma che bisogna tornare alla natura, perché lì sta la saggezza. E la gloria della donna dove si manifesta? Nella maternità, naturalmente. L´adesione femminile a quel modello si fa immediata, impressionante. Con il bel risultato che gli uomini della Rivoluzione francese penseranno bene di recludere in casa le donne. A vivere la loro gloria, solo e soltanto in quanto mamme».
A ben vedere, questo neo-naturalismo è un modo ulteriore di eludere la questione dell´autorità.
«Certo che sì. Perché privilegia la legge della natura rispetto a quelle della politica e della cultura. Diventa una sorta di religione, e partorisce una rappresentazione della donna che rischia di portarci molto indietro».
Si potrebbe obiettare che proprio l´estraneità ultrasecolare delle donne dai luoghi di potere, le investa di una capacità diversa e migliore di esercitarlo. E analogo discorso si potrebbe fare a proposito dell´autorità.
«Sa perché non ho mai creduto alla logica delle quote? Perché le donne che ho visto all´opera nei luoghi di potere sono esattamente come gli uomini. Per una semplicissima ragione: il potere non ha sesso. Così come non ha sesso l´autorità, sulla cui figura vorrei spendere un´ultima parola. Forse oggi è tanto più difficile individuarla, perché l´autorità ha bisogno di segreto e distanza. E oggi sono scomparsi sia l´uno che l´altra. Senza contare che una persona autorevole, per essere tale, deve essere capace di dire no. Ma quanto è diventato difficile pronunciare quella paroletta, in un mondo come il nostro, letteralmente ossessionato dal consenso».

Corriere della Sera 3.11.11
Quelle archistar alla corte dei dittatori
Palazzi faraonici in Kazakhstan, ad Abu Dhabi e Pechino: arte o puro business?
di Paolo Valentino


Il nuovissimo quartier generale della televisione di Stato cinese domina e nobilita lo skyline di Pechino. Il grattacielo sghembo, torto e ripiegato su se stesso, disegnato dall'olandese Ole Scheeren, partner dell'architetto cult Rem Koolhaas nello studio Oma, è già entrato di diritto tra i grandi edifici del Terzo Millennio.
Ad Astana, capitale del Kazakhstan, la città costruita dal nulla nella steppa asiatica, a marchiare il paesaggio urbano è la forma piramidale che Lord Norman Foster, già ideatore della cupola del Reichstag di Berlino, ha dato al Palazzo della Pace e della Riconciliazione.
Entro il 2012, verrà completato il Louvre di Abu Dhabi, un progetto pensato dal francese Jean Nouvel, parte del complesso culturale di Saadiyat Island, dove saranno impegnati anche l'americano Frank Gehry, padre del Guggenheim di Bilbao, e l'anglo-irachena Zaha Hadid, celebre in Italia per il Maxxi di Roma.
Cosa lega queste opere architettoniche, oltre a essere firmate ognuna da altrettante stelle della disciplina, o come vuole il neologismo da archistar? Sono tutte costruite in Paesi autoritari o nel migliore dei casi autocratici. Sono tutte cioè frutto della volontà di auto-rappresentazione di un regime o di un leader, che con la democrazia hanno poco o nulla a che fare. E non sono eccezioni, ma gli esempi più emblematici di una sorta di corsa all'Est, che negli ultimi anni ha visto schiere di studi d'architettura occidentali gettarsi a capofitto nei cantieri delle arrembanti potenze economiche d'Oriente.
Proprio per questa ragione si trovano al centro di polemiche e controversie, corni di un dibattito antico e millenario, ma in questi mesi riacceso da nuovo vigore e punte inedite di virulenza polemica.
È giusto progettare il tempio dell'informazione televisiva, per conto di un Paese che trova nella censura uno dei pilastri della sua stabilità? O edificare un luogo dedicato alla «pace e alla convivenza tra i popoli» a maggior gloria di Nursultan Nazarbayev, cacicco dell'ultimo Politburo dell'Urss, presidente che viene eletto col 92% dei voti e guida un Parlamento composto di soli deputati del suo partito? E ancora, non sarebbe il caso di porsi un problema etico, di fronte all'abuso di migliaia di lavoratori immigrati, sottopagati e tenuti in condizioni subumane, che è pratica comune nei cantieri edili degli Emirati del Golfo?
Francesco Dal Co, direttore di Casabella, non nega l'«esistenza di un problema morale», ma allarga il campo. «Da Giustiniano ai Papi, ai principi del Rinascimento, tutta la storia dell'architettura è stata scritta da opere edificate a maggior gloria del committente. Leon Battista Alberti diceva che ogni lavoro architettonico è "figlio di un padre e di una madre". Appunto, l'architetto e il principe». Con una differenza sostanziale, che gli edifici sfidano i secoli e gli autocrati passano: «Il problema per un architetto è concepire cose in grado di sopravvivere alla celebrazione di un potere contingente: nel rapporto critico col grande committente, un grande artista cerca la sua vera libertà. Quello che non avviene nel caso di Albert Speer e Hitler, dove l'architetto annulla ogni ricerca di libertà e accetta con la sua opera di dover rendere eterno il regime». Detto questo, Dal Co ammette che avrebbe «molti dubbi a progettare per un dittatore».
«L'architettura racconta una storia, è rappresentazione di una civiltà e di una comunità — dice Renzo Piano — e dove c'è un regime autoritario non c'è civiltà». Probabilmente il più cosmopolita dei grandi architetti contemporanei, Piano rifiuta ogni facile moralismo, ma dice semplicemente: «Avrei serie difficoltà ad accettare di raccontare una storia che non mi piace».
Alcuni architetti si sono dati una carta dei princìpi. È il caso di Richard Rogers, che proprio con Piano firmò negli anni settanta il Centre Pompidou a Parigi, ormai un'icona culturale della capitale francese. Il suo studio, Rogers Stirk Harbour + Partners, accetta solo lavori che portino un beneficio alla società, rifiuta ogni incarico da istituzioni militari o collegato a potenziali danni all'ambiente, come una centrale nucleare e valuta preventivamente le condizioni democratiche del Paese dove dovrebbe lavorare. Di recente ha declinato un'offerta per costruire un Tribunale in Arabia Saudita.
Certo, c'è progetto e progetto. «Progettare una scuola in Cina è probabilmente diverso che progettarvi il ministero della Propaganda», dice l'architetto newyorkese Michael Sorkin. «È una differenza sottile, che può mettere a posto la coscienza personale», chiosa Vittorio Gregotti, che in Cina ha lavorato per molti anni, ma mai per opere celebrative. «La cosa fondamentale però — dice il decano del modernismo italiano — è avere un rapporto critico con la realtà, una distanza dallo stato delle cose. Quello che purtroppo spesso manca proprio a tante archistar, impegnate a inseguire le mode, celebrare il marketing, teorizzare l'anti-città».
Il punto è se esista un'architettura impermeabile all'autoritarismo, dal momento che ogni edilizia pubblica celebra un uso collettivo e inevitabilmente chi lo realizza. Dopotutto, l'architettura pubblica in un regime autoritario è l'espressione fisica di una particolare nozione d'ordine, il messaggio più chiaro di come quel potere intende essere percepito.
Con voluto intento provocatorio, l'architetto milanese Mauro Galantino risponde positivamente, indicando ad esempio della possibilità di fare architettura anche in assenza di democrazia, la Casa del Fascio di Como, «opera del fascistissimo» Giuseppe Terragni: «L'architettura anti-autoritaria trasfigura la tradizione rendendola non manipolabile per la propaganda. Nella casa di Terragni, luogo, tradizione e spazio collettivo sono talmente equilibrati ed espressi con uno stile anti-figurativo da poter passare senza colpo ferire da un regime a una democrazia ed essere difesi, come fu il caso, da Bruno Zevi, esponente del Cln, che salvò l'edificio per il suo assoluto valore artistico».
Refrattaria al totalitarismo è insomma «l'architettura, che costruisce le sedi del potere con gli stessi mezzi espressivi con cui fa le case popolari». E qui Galantino rovescia l'onere della prova, con un altro genere di j'accuse alle archistar. Non tanto colpevoli di lavorare per i dittatori, quanto di «costruire cattedrali al nulla per clienti democratici, usando un'architettura dittatoriale, enfatica e celebrativa, basata sul gigantismo immotivato, che non può essere ripetuta per una casa popolare, un asilo, una chiesa di quartiere». Colpevoli, detto altrimenti, di «sostituire lo stupore all'emozione».

Repubblica 3.11.11
Aperta, leggera, gioiosa: io sogno la città-piazza
intervista a Renzo Piano


Renzo Piano, nella primavera del 2006 ci siamo visti all´inaugurazione dei cantieri per il progetto sull´ex area Falck di Sesto San Giovanni. Sono passati duemila giorni, in questo tempo lei ha quasi finito a Londra nell´area dismessa della Ferrovia a London Bridge Station la più alta torre d´Europa, ricostruito un pezzo di New York intorno alla nuova sede della Columbia University, e lavorato a un´altra mezza dozzina di progetti in giro per il mondo. Il cantiere di Sesto è rimasto fermo a quel giorno, bloccato da scandali, inchieste e fallimenti. Non è questa una vicenda esemplare del declino italiano?
«Lo è di sicuro. Lavorare in Italia significa anche questo, è spesso frustrante, difficile e perfino pericoloso. Ma d´altra parte è esaltante, perché l´Italia è l´Italia, le nostre città sono straordinarie. Ora che finalmente il progetto di Sesto riparte, l´entusiasmo, il fascino della scommessa di poter costruire qualcosa di diverso alle porte di Milano vince su tutto».
Il progetto era ed è molto bello, una città sostenibile e leggera, in qualche modo la smentita alla pessima ricostruzione delle aree industriali fatta intorno a Milano in questi anni. Ma non ha paura di inciampare in altre brutte storie? Insomma, a uno come Renzo Piano chi glielo fa fare di correre il rischio italiano?
«Mi fido del sindaco di Sesto, Giorgio Oldrini, che ha deciso la riapertura dei cantieri. Certo, ti fa male sentir parlare di un "sistema Sesto" come sinonimo di corruzione politica e speculazione edilizia. Leggere quelle intercettazioni orribili. Io ho fatto l´università a Milano intorno al fatidico ´68 e per noi Sesto San Giovanni era un mito, la Stalingrado d´Italia, la cittadella della classe operaia, il primo grande insediamento industriale della nostra storia. è un luogo che ho nel cuore. Sono ripartito dall´idea di Sesto come laboratorio sociale e della modernità, dove sono partite le grandi lotte operaie, dove si costruivano aerei meravigliosi quando l´aeronautica italiana era all´avanguardia nel mondo. La nuova Sesto dovrebbe essere una piccola utopia, trasparente, sostenibile, aperta, immersa in un parco grande come il parco Sempione, a impatto zero, anche grazie alla consulenza scientifica di Carlo Rubbia. La prima città concepita per il Ventunesimo secolo, così come la vecchia Sesto era stata la prima vera città novecentesca. Senza per questo stravolgere una storia gloriosa, anzi. Con l´Unesco stiamo discutendo di trasformare parte delle vecchie fabbriche di Sesto in patrimonio dell´umanità».
Ma, in generale, è possibile mettere mano alle nostre città? Si ha l´impressione che tutta la spinta si esaurisca nel momento dell´annuncio. Che fine hanno fatto i meravigliosi progetti di cui abbiamo sentito parlare in questi anni e dove i politici di turno hanno speso il nome di Renzo Piano? Parlo dei parchi di Milano, il quartiere Flaminio a Roma, il nuovo fronte del porto a Genova… Dobbiamo aspettare una vigilia elettorale?
«Il progetto del Waterfront a Genova era un regalo fatto alla mia città, quasi un sogno. Costruire sull´acqua è una mia vecchia idea e ora comincia a essere piuttosto di moda. Il nuovo centro culturale Botin di Santander, per esempio, ha i piedi nell´acqua. Aprire verso il mare sarebbe l´unica soluzione per liberare la mia città, farla respirare, ma non mi illudo sui tempi. A Milano l´idea dei novantamila alberi non era neppure mia, ma di Claudio Abbado. Le città hanno bisogno disperato di verde e piantare alberi a Milano è facilissimo, crescono in fretta. Ma c´è sempre qualcuno pronto a spiegarti che non si può fare. è andata male con i novantamila alberi di Milano, speriamo nei novemila alberi di Sesto San Giovanni».
E il progetto del Flaminio, vicino all´Auditorium di Roma?
«è una bella scommessa anche quella. Il successo dell´Auditorium permette di ripensare tutto il quartiere. In fondo per me è un tornare alle origini, al Beaubourg. è la stessa cosa, animare un pezzo di città dimenticato a partire da un luogo di cultura. Naturalmente bisogna vedere se esiste davvero la volontà di farlo. Diciamo che parlare con Pompidou o con il sindaco Bloomberg è meno complicato che capire le reali intenzioni dei nostri politici».
I suoi lavori nelle grandi città, dal Beaubourg all´Auditorium, dal porto antico di Genova a Potsdamer Platz, sono diversi per tecniche, ma ispirano lo stesso sentimento, una specie di allegria urbana, che è la chiave del successo popolare. Come la si ottiene?
«Penso sempre che questo sia lo scopo, far stare bene la gente, e non lasciare solo un segno, una griffe su un luogo. Uno dei problemi delle nostre città, non soltanto le italiane, non è tanto la bellezza quanto appunto la gioiosità. Non si sono imbruttite poi tanto, ma si sono intristite. Esistono alcuni modi, certo, a partire dall´uso dei materiali, dei colori, delle trasparenze. è fondamentale l´acqua, rende le città più belle, raddoppia le immagini. Venezia è bella perché è unica e perché c´è l´acqua. Ma alla fine il tratto più importante non è estetico, piuttosto etico. Bisogna costruire per far incontrare e non per dividere. La felicità di un luogo, di una città, sta nel creare incontri, nell´aprirsi agli altri. Quello che ha intristito le città e la società in generale è l´uso politico della paura. Questo è deprimente ovunque, ma in particolare in Italia. Siamo il Paese che ha inventato la piazza, la città aperta. è in quest´arte di mischiare esperienze diverse la vera natura italiana».

La Stampa 3.11.11
Quei due Picasso che nessuno vuole
Il flop dell’asta di martedì sera di Christie’s Il 40 per cento delle opere rispedito al mittente
di Paolo Mastrolilli


Invenduto «Tête de Femme au Chapeau Mauve» di Picasso
La scultura di Degas «Petite danseuse de quatorze ans»

Quando anche Picasso, Degas, Giacometti e Matisse restano invenduti, viene naturale chiedersi se pure il mercato dell’arte sta crollando. La risposta degli specialisti è duplice: è vero che Christie’s ha commesso i suoi errori, nella deludente asta di martedì sera a New York, ma è anche vero che la crisi economica sta rendendo molto più prudenti i collezionisti.
Quella del Rockfeller Center era stata presentata come una serata eccezionale, forse anche troppo. Andavano all’asta 82 opere, che secondo le stime fatte in estate da Christie’s dovevano portare tra i 211,9 e i 304,4 milioni di dollari. Nel catalogo, tra gli altri, c’erano Picasso, Degas, Giacometti, Matisse, Magritte, Modigliani, Brancusi: quasi un museo, in poche parole. Era lecito, dunque, aspettarsi dei risultati all’altezza.
Alla fine della serata, però, 31 opere, cioè il 38% di quelle presentate, non avevano trovato un proprietario, consentendo a Christie’s di incassare «solo» 140,8 milioni di dollari. Peggio di così, in tempi recenti, era andata solo con l’asta del 6 novembre del 2008, sette settimane dopo il fallimento di Lehman Brothers, quando l’inizio della grande crisi economica aveva lasciato invenduto il 44% delle opere.
La principale delusione è venuta proprio dal pezzo più pregiato, almeno secondo le stime di Christie’s, cioé la «Petite danseuse de quatorze ans» di Edgar Degas, una scultura in bronzo da cui la casa pensava di poter ricavare fino a 35 milioni di dollari. È stata ritirata dopo un paio di offerte che non erano andate sopra i 18 milioni. Nessuno poi ha voluto la «Femme de Venise VII» di Giacometti, così come due dipinti di Picasso, «Tête de Femme au Chapeau Mauve» e «Femme Endormie», che ritraggono due amanti dell’artista spagnolo e dovevano costare tra 12 e 18 milioni di dollari. Anche «La robe violette» di Matisse e «La Lecon» di Renoir sono rimasti sul tavolo.
Un’eccezione positiva è stata l’asta per «The Stolen Mirror» del surrealista Max Ernst, che con 16,3 milioni è andato ben oltre le aspettative, mentre «La Femme qui Pleure» di Picasso è stata venduta per il doppio delle stime della vigilia. L’unico vero momento drammatico, però, c’è stato quando il gallerista Larry Gagosian e la rappresentante a Mosca di Christie’s, Sandra Nedvetskaia si sono litigati un bronzo di Brancusi, «Le premier cri», finito poi in Russia per 14,8 milioni di dollari.
Stiamo parlando di cifre che fanno uscire gli occhi alle persone normali, costrette a centellinare le uscite per mangiare una pizza ai tempi della crisi. Mettendo le cose in prospettiva, però, per il mondo dell’arte la serata di martedì è stata una specie di disastro. Christie’s si è assunta una parte di responsabilità, ammettendo che le stime di partenza erano «troppo aggressive». Qualche pezzo poi, come una scultura di Giacometti, aveva già girato troppo nel mercato privato senza trovare acquirenti. Infine il successo di Ernst, come quello dell’altro surrealista Paul Delvaux con «The Hands», dimostra che c’è anche un problema di gusti: si riesce ancora a vendere bene, se vengono offerte le cose giuste nel modo giusto.
Non c’è dubbio, però, che tanta prudenza viene anche dalla crisi: «Questa ha commentato il dealer londinese James Roundell era un’asta troppo grande perché il mercato la potesse digerire. L’incertezza economica ha avuto sicuramente un effetto». Anche i ricchi, di questi tempi, sono costretti a farsi i conti in tasca, quando vogliono investire o semplicemente togliersi uno sfizio.

Repubblica 3.11.11
In Italia il 50% degli adulti non possiede un computer, né sa usare le mail. Ecco la fotografia di un Paese che non conosce la grammatica del futuro
di Maria Novella De Luca


Quasi il 50 per cento degli adulti non possiede un pc né utilizza la Rete, non sa mandare una mail o pagare un bollettino online. Un dato enorme se paragonato agli Stati Uniti e al resto d´Europa. Ma per fortuna tra i ragazzi sotto i 20 anni le proporzioni si invertono, e i "nativi digitali" sono perfettamente in linea con le competenze tecnologiche dei loro coetanei stranieri
"Scontiamo un forte ritardo nelle infrastrutture, ma anche resistenze culturali"
Problema non solo generazionale: la categoria meno "connessa" è quella delle donne
I più giovani svolgono un ruolo di supplenza: sono loro a insegnare a padri e nonni

Non sanno mandare una e-mail, né fare una ricerca su Google, non prenotano viaggi né tantomeno utilizzano l´home banking. Non sanno scaricare un modulo né riempirlo online, non frequentano l´e-commerce né i siti degli enti e degli uffici, ignorano Skype e Wikipedia, e se proprio devono consultare Internet (o magari compilare il Censimento) chiedono aiuto ai figli adolescenti o addirittura bambini. C´è un pezzo d´Italia adulta, over 40, trasversale alle regioni e alla geografia, agli studi e alle professioni, più femminile che maschile, che non sa più "né leggere né scrivere". Non conosce cioè il nuovo alfabeto digitale della vita quotidiana, e rischia in pochi anni (cinque, dieci al massimo, dicono gli esperti di nuovi linguaggi e nuovi media) di essere espulsa non solo dall´universo del sapere, quanto dall´accesso ormai sempre più online delle funzioni di ogni giorno.
Si chiama "analfabetismo digitale", ed è uno dei tre analfabetismi censiti dall´Ocse per descrivere chi oggi, nel primo come nel quarto mondo, è a rischio di emarginazione per mancanza di competenze. Un rischio ben presente nel nostro paese, dove gli analfabeti "totali" ormai non sono più dell´1,5% della popolazione, ma dove quasi il 50% degli italiani adulti non possiede un computer né utilizza Internet. Un dato enorme se paragonato al resto d´Europa e soprattutto agli Stati Uniti. Se però i genitori e i nonni arrancano, e ci pongono agli ultimi posti per "connessioni" alla Rete, è invece dai piccoli e piccolissimi che arriva la spinta opposta, in avanti, con ritmi quasi travolgenti: i digital kids made in Italy ma anche immigrati, nella fascia d´età che va dai 6 ai 10 anni, e soprattutto dagli 11 ai 17 anni, corrono velocissimi, apprendono da soli, sperimentano, conoscono e governano Internet esattamente come gli adolescenti di tutto il mondo cablato, stesse opportunità e stessi rischi inclusi. Una rivoluzione al contrario, dal basso verso l´alto, ma così accelerata da far temere che tra breve nella stessa famiglia e tra più generazioni si parleranno linguaggi sideralmente lontani.
Un po´ come avvenne negli anni del primo dopoguerra e dell´alfabetizzazione di massa, in cui furono i bambini che imparavano l´italiano a scuola ad insegnare a leggere e a scrivere ai nonni, i quali parlavano dialetti ormai incomprensibili ai nipoti, come ha ricordato un recente convegno a Torino dedicato ai nuovi analfabetismi e al maestro Manzi di "Non è mai troppo tardi". E infatti la presenza di pc è sensibilmente più alta nelle famiglie dove ci sono bambini e ragazzi, il 68,1% contro il 54,9%.
«Ma rispetto ad allora spiega Paolo Ferri, docente di Teorie e tecniche dei Nuovi Media all´università Bicocca di Milano e autore del saggio "Nativi digitali" il tempo dell´apprendere per non restare tagliati fuori dalla vita di tutti i giorni, si è drasticamente accorciato. Nel giro di 5, al massimo 10 anni, non avere la connessione ad Internet, non saperlo usare, porterà ad una frattura radicale tra chi potrà avere accesso al lavoro e chi no, ai concorsi, all´università, ma anche al semplice destreggiarsi tra un bollettino da pagare e una visita medica da prenotare. E se sono diversi i tempi e i modi, oggi come ieri ci troviamo di fronte al problema di alfabetizzare una popolazione adulta, nell´assenza totale, da parte delle istituzioni, di una agenda digitale». In una fascia d´età strategica, quella tra i 45 e i 54 anni in cui si è nel pieno della vita produttiva, nel nostro paese soltanto il 53,0% degli italiani (dati Istat 2010) afferma di conoscere la Rete, e soltanto il 55,9% possiede un computer a casa. E il problema è più femminile che maschile, sono soprattutto le donne che non lavorano ad avere pochissime conoscenze tecnologiche. Nella stessa classe anagrafica negli Stati Uniti la connessione è invece dell´83%, e anche salendo con gli anni verso quella terza età dove i nipoti insegnano ai nonni i giochi e i trucchi del web, le connessioni Usa degli over 70 raggiungono il 45% contro il 12% dell´Italia.
«Ho imparato ad usare il computer grazie a mia nipote e ad un corso in parrocchia confessa Adele, 74 anni per poter leggere le mail di mio figlio che vive in Brasile e vedere sempre aggiornate le foto della sua famiglia. Poi però ho utilizzato queste nuove competenze per navigare, come dicono i ragazzi, e adesso partecipo a diversi forum e leggo le notizie».
«Noi scontiamo un forte ritardo nelle infrastrutture, nella diffusione della banda larga, ma anche una resistenza culturale. Quegli stessi adulti così restii ad usare un pc vivono invece incollati al telefonino aggiunge Ferri basti pensare che in Italia ci sono 150 milioni di sim card attive. Certo, c´è anche chi pensa che questa dipendenza dalla Rete sia dannosa, che se ne possa fare a meno, che comprima le capacità di apprendimento dei bambini. In realtà i digital kids hanno imparato perfettamente a far convivere il mondo analogico con quello digitale, e i dati Ocse-Pisa dimostrano come i bambini con accesso alle tecnologie siano 50 punti più avanti, nel rendimento scolastico, dei coetanei che non le utilizzano». E l´elemento da sottolineare è che il divario tecnologico riguarda le generazioni e non le "razze", come si legge nel saggio "Profilo degli adolescenti immigrati di seconda generazione", pubblicato dal Cnel nella primavera scorsa. Tra i 15 e i 17 anni circa il 90% di questi adolescenti arrivati in Italia nella primissima infanzia, utilizza Internet con percentuali identiche a quelle dei ragazzi italiani. Ed è bella la testimonianza di Roxana, 40 anni, peruviana, badante e madre di una teenager: «Mia figlia adesso è in Italia, siamo state dieci anni lontane. È venuta per studiare: la prima cosa che ho fatto mettendo insieme due stipendi è stata quella di comprarle un computer. Così adesso mi insegnerà anche a parlare via Internet con i nostri parenti in Perù».
Certo, si può diventare schiavi del mezzo, come avverte con severità Benedetto Vertecchi, e il primo linguaggio «deve essere sempre e solo quello alfabetico, simbolico, concettuale, altrimenti non si impara a pensare, altrimenti avremo una generazione che usa più le dita che la testa». Che senso ha, si chiede Benedetto Vertecchi, «mettere le lavagne interattive nelle classi e poi smantellare i laboratori di fisica e di chimica, o regalare un computer ad un bambino di 5 anni e poi non digitalizzare le biblioteche?». La discussione è aperta. Ed è giusto non enfatizzare i presunti saperi tecnologici, se poi, come scrive il fisico Paolo Magrassi nel divertente libro "Digitalmente confusi", (FrancoAngeli), buona parte di quei saperi servono per «scaricare filmati da youtube, youporn o redtube», o magari per connettersi e cercare amici su Facebook, insomma per pura evasione, andando poi a far la fila alla posta per pagare i bollettini o le tasse, ignorando quindi i vantaggi della vita online.
Tutto vero, ma in realtà, aggiunge Massimo Arcangeli, direttore dell´Osservatorio della lingua italiana Zanichelli, «il problema per una volta non è dei giovani che stanno riorganizzandosi su modelli cognitivi nuovi, con una trasformazione inarrestabile, una grammatica nuova, ma degli adulti, della loro fatica ad imparare, della loro resistenza ai nuovi linguaggi». Perché se il rischio dei digital kids è quello di strutturare menti «più sintetiche che analitiche, e di avere una memoria troppo breve e immediata, è vero anche che il loro approccio al sapere oggi viaggia su connessioni diverse, inedite, e non è più possibile parlare di queste competenze come di una cultura di serie B». Ma al di là del giudizio sulla "conoscenza", il tema è assai più concreto. Per coloro che oggi sono fuori dal world-wide web, per quel 47% di over cinquantenni che non frequenta né utilizza la Rete, dice Arcangeli «se non si trova un canale di alfabetizzazione di massa, attraverso la televisione, attraverso i corsi serali, proprio sul modello di quel famoso "Non è mai troppo tardi", il rischio concreto è quello di ritrovarsi in una manciata di anni ai margini della società».

Repubblica 3.11.11
Federico Morello, studente di 16 anni, sta per lanciare il progetto "Panedigitale"
"È la grammatica del futuro chi non la conosce sarà escluso"
di Riccardo Luna


A tredici anni Federico Morello ha scritto la prima lettera al sindaco del suo paese, Lestans, una frazione di Sequals, e gli ha chiesto la banda larga. A quattordici le lettere al sindaco erano ormai una mezza dozzina, la banda per navigare Internet era sempre stretta e lui ha fondato l´associazione Friuli Anti Digital Divide. A quindici il sindaco ha capitolato e Morello ha suggerito un modo (l´hyperlan) per collegare alla rete il suo paese e alcuni limitrofi con un costo irrisorio (meno di diecimila euro in tutto). Ora Federico Morello ha sedici anni, la mattina va a scuola al liceo scientifico Marinelli di Udine e il pomeriggio si occupa di "Panedigitale", l´iniziativa che sta per lanciare.
Come hai scoperto la Rete?
«Quasi per caso. Avevo sei anni. C´era un computer di mio zio, a casa dei nonni, dove trafficavo: lì c´erano le impostazioni per connettersi con un modem. Ma non c´era la rete. Appena ho realizzato che il portatile di mamma si poteva collegare al telefono mi sono collegato».
Perché per te il digitale è importante come il pane?
«Mi piace l´idea del pane quotidiano, che ricorda la preghiera del Padre Nostro. Dacci il pane quotidiano e una connessione a banda larga veloce. Sono convinto della necessità che ha questo paese di far diventare Internet e il digitale in genere una abitudine quotidiana e non una cosa per una nicchia. C´è un problema di banda larga che manca in certe aree del paese: e poi ci sono quelli che non hanno mai usato Internet pur potendo».
Perché?
«Chi sceglie di non usare la Rete è un sottogruppo del digital divide culturale che è la vera bestia nera di questo paese. Cosa si perdono? Tanto. La possibilità di fare. Qualcuno ha detto che Internet è la più grande arma di costruzione di massa. Lo sottoscrivo. Serve a fare tante cose. Certo, chi ci rinuncia vive lo stesso. Non muore, non è l´ossigeno. Ma rinunciare alle Rete vuol dire escludersi dal futuro».
In questo, vedi una differenza generazionale fra i nativi digitali e gli altri?
«Attenzione. Solo il tema del mancato accesso può essere ridotto alla differenza generazionale, il resto no. I veri nativi digitali non sono quelli come me: è mia sorella che ha un anno e mezzo e zooma sull´iPad. Io sono un ibrido digitale, sono cresciuto con l´arrivo del Web. E infatti ho compagni di classe che non sanno la differenza fra la barra di ricerca e la barra di indirizzo e che per andare su Facebook scrivono su Google invece che scrivere direttamente l´indirizzo. È molto triste che per loro spesso Internet si riduca solo al cazzeggio, vuol dire perdersi la forza innovativa della Rete».
Cosa ti proponi di fare con Panedigitale?
«L´obiettivo principale è fare una mappa del digital divide e trovare di volta in volta soluzioni economiche e semplici da offrire agli amministratori locali che spesso non hanno idea di cosa fare. E poi vorrei promuovere la cultura della Rete: convincere i tardivi digitali ad usarla di più e meglio».

... e riecco il plagiaro
Repubblica 3.11.11
Voglia di luce
Reagire al farsi buio
di Umberto Galimberti


La luce. Se ne è servito Dio prima della creazione del mondo, apparso grazie a un Fiat lux. E, dopo la sua comparsa prima della creazione del mondo, la luce s´è fatta generatrice di mondi, come l´Occidente per esempio: "Terra della sera" dove la luce tramonta. E già sul far del crepuscolo si colloca la crisi che stiamo attraversando, che forse non è solo economica, o che, peggio, noi recintiamo nel solo ambito economico, per non assistere a quel farsi buio della nostra civiltà, che probabilmente non è una notte che annuncia un nuovo giorno. Fedele alla luce è stata la cultura greca, a differenza di quella giudaico-cristiana che è stata civiltà dell´ascolto della Parola.
La cultura greca ha inaugurato quella ricerca sul "mondo visibile" che ha generato d´un colpo: filosofia, matematica, geometria, architettura, fisica, medicina, politica, i saperi che hanno reso grande l´Occidente. Finché un generatore simbolico di tutti i valori, l´oro, sotto il riflesso della luce, non ha preso a luccicare al punto da oscurare tutti gli altri valori.
Prese allora a diffondersi quella "luce nera", come la definisce Derrida, che genera intorno a noi quel non-vedere, quel non-capire che obnubila lo sguardo sul futuro e rende il presente troppo assolato di cattivi presagi. Abitanti come siamo della terra della sera (Abends-land dice anche la lingua tedesca per nominare l´Occidente), vorremmo, come Giosuè, fermare il sole. Ma se questo lo concede il mito, non lo concede la storia. Senza più riconoscere le nostre ombre, che solo la luce concede, non siamo capaci neppure di un atteggiamento critico sul modo con cui abbiamo dato avvio alla nostra civiltà e alla nostra crescita. E perciò il declino della luce, già scritto nella parola "Occidente", non ci fa discernere quali tra le strade possibili sono quelle da percorrere.
E allora ci muoviamo tra le luci artificiali che illuminano le notti delle nostre città, senza avvertire quanto sono flebili rispetto alla luce del sole, che ormai abbiamo confinato nella meteorologia e depotenziato della valenza simbolica che Platone le aveva assegnato, quando aveva eretto il sole a metafora della verità, perché rendeva visibili tutte le cose. Così la luce non è solo un fenomeno fisico, ma la metafora di quel "far luce" sulla nostra condizione individuale e collettiva, affinché il "sole spento" o la "luce nera", come titolano diversi libri sulla depressione, non si impossessino delle nostre anime, rendendole opache e buie, e soprattutto, in mancanza di luce, incapaci di discernere.

Repubblica Firenze 3.11.11
Musicus Concentus: Enrico Pierannunzi
"Scarlatti e il jazz così improvviso sui grandi classici"
di Paolo Russo


Ero consapevole che prendevo un rischio: ho risolto con la scelta del piano solo che mi ha permesso di ricomporre in tempo reale
Bach, Paganini, Chopin: tutti i veri maestri hanno sempre suonato in assoluta libertà Liszt si faceva dare temi d´opera dal pubblico e si lanciava in prodigiose parafrasi che poi sono state anche trascritte

Ci sono musicisti così devoti alla loro arte che i miracoli li fanno in silenzio. Per vocazione e passione. Enrico Pieranunzi, domani al Musicus per una Piano Hour col già luminoso talento del 28enne Claudio Filippini, è uno di quei pochi. Pianista jazz fra i più stimati al mondo, in 35 anni il 62enne romano ha suonato con molti dei migliori (dal bop con Griffin e Farmer al magico incontro con Chet, dai preziosi trio billevansiani con Haden, Motian, Baron e Marc Johnson, Van De Gey e Ceccarelli, a Jim Hall, Konitz, Wheeler, Rava, Tonolo, Phil Woods, Potter, Gatto, per citarne solo alcuni) ed esplorato il piano jazz con lirismo e swing inarrivabili quanto la tecnica. L´ultimo suo prodigio è la sconvolgente fluidità, l´osmosi cangiante con cui ha suonato Scarlatti, Bach e Haendel. Classica e jazz, da sempre, a dir poco, un campo minato: Pieranunzi ne esce non solo vivo ma trionfante. «Prima di tutto classica e jazz spiega l´ex docente, per 25 anni, di pianoforte principale al Conservatorio di Roma sono sempre state per me una cosa sola, non sono mai passato dalla prima al secondo: la classica mi appartiene per formazione e perché sono europeo, il jazz è passione di sempre. Prima di metter mano a Scarlatti ci ho pensato molto perché ero ben consapevole dei rischi che correvo, a partire dal grande equivoco del ritmo. Se avessi affrontato queste pagine con un trio o un quartetto avrei dovuto pensare e arrangiare troppo: la scelta del piano solo è stata quindi decisiva, mi ha permesso di improvvisare in piena libertà, come in una ricomposizione in tempo reale, i materiali tematici classici lavorando sulle cellule. In questo, credo, sta la novità del mio lavoro ed è questo che mi permette di passare da una sarabanda di Haendel a una corale country.
«È stata prosegue Pieranunzi una grande opportunità di ricerca e di unire due dimensioni per me fondamentali. E il punto d´incontro è stata proprio l´improvvisazione, una pratica storicamente interna alla classica: Bach, Chopin, Paganini, tutti i grandi hanno sempre improvvisato, per non parlare di Liszt che nel 1840 si faceva dare temi d´opera dalla gente in sala per poi lanciarsi, lui virtuoso straordinario, in lunghissime parafrasi, molte delle quali sono anche state scritte. In Italia credo che questo atteggiamento si sia perso a causa della lirica e della pretesa del pubblico di volere la replica esatta di quel che aveva già sentito. Di fatto, è l´eterna, grande battaglia fra cultura orale, ritenuta bassa, e quella scritta, alta per definizione: nasce così la condanna dell´improvvisazione di cui i conservatori si sono fatti depositari, anche se i ragazzi di oggi sono molto più disponibili. Ma la musica, come la poesia, basta pensare ai poemi omerici, nasce orale e improvvisata: puoi scriverla solo dopo averla inventata».
Per la Piano Hour di venerdì il nome di Filippini l´ha scelto Pieranunzi: «Era un ragazzo quando lo conobbi a un mio seminario ed era già bravo. Ho molta stima di lui per le sue doti di narratore, il suo coraggio e la sua profonda onestà intellettuale: la sua è pura passione per la musica, le etichette e l´aspetto mediatico che ormai tutto regola non gli interessano per nulla».

L’Osservatore Romano 3.11.11
Il dibattito su metodo scientifico e fede religiosa da "L'interpretazione dei sogni" a Benedetto XVI
Freud e l'ebraismo un rapporto da psicanalizzare
Anticipiamo integralmente uno dei saggi pubblicati sul numero in uscita di "Vita e Pensiero".
di Lucetta Scaraffia


Il rapporto fra scienza e religione ha una lunga storia e una complessità che spesso non viene riconosciuta dai molti che insistono nel separarle, per quello che ritengono il bene della ricerca scientifica. "La religione è una cattiva scienza", scrive Richard Dawkins, riproponendo una ostilità che caratterizza da secoli gli atei scientisti. Proprio per questo scienziati, filosofi e scrittori hanno molto riflettuto al proposito nel corso del Novecento, con risultati diversi ma sempre stimolanti. In particolare, negli ultimi anni ci sono stati dei significativi ritorni sul tema, centrati intorno alla figura emblematica di Sigmund Freud. Nel 1899 esce uno dei libri che avranno più importanza nella trasformazione della cultura contemporanea, L'interpretazione dei sogni di Freud, e da questa data si fa iniziare la psicanalisi. Ma non è stato tutto semplice e immediato: la storia del testo è complessa (come rivelano le otto edizioni fra il 1899 e il 1930) e attesta un interscambio ininterrotto tra l'autore e i lettori (colleghi, pazienti, critici, seguaci) che ne trasforma decisamente il carattere iniziale, attutendone in parte la potenzialità rivoluzionaria. La prima edizione dell'opera, infatti, si presentava come un evento irripetibile: l'autoanalisi di Freud, che analizzava i propri sogni per spiegare il suo nuovo metodo di cura, proponendo così il coinvolgimento diretto del medico curante come fattore fondamentale per garantire la riuscita della terapia. Lyda Marinelli e Andreas Mayer (Sognare a libro aperto. L'interpretazione dei sogni di Freud e la storia del movimento psicoanalitico, 2010) ricostruiscono la galassia di rapporti che si crearono intorno a Freud dopo l'uscita del libro: molti intervennero per suggerire modifiche o aggiunte nelle edizioni successive, fino a divenire coautori, come Otto Rank e Sandor Ferenczi. Discussioni che con Adler, Stekel e Jung si trasformarono in furiose polemiche. In una prima fase (1899-1909) il libro venne utilizzato soprattutto come un manuale di metodologia psicanalitica, e i lettori spesso descrissero a Freud i propri sogni per avviare analisi epistolari. Fu subito evidente, però, che non bastava la sola lettura del libro a garantire una buona autoanalisi, ma era indispensabile un contatto personale con l'autore. Ciò non impedì comunque il diffondersi di una cultura interpretativa estranea alla medicina, fatta di psicologia spicciola e chiacchiere da salotto, che portò anche a interpretazioni scherzose.
La seconda fase (1909-1918) coincise con la nascita dell'Associazione psicoanalitica internazionale, quando (con un lavoro collettivo che si rivelò laboratorio di gravi conflittualità) Freud cercò di rafforzare la tesi del libro integrandolo con un repertorio di simboli. Al materiale analitico del medico e dei pazienti si aggiunse quindi materiale "impersonale" che avrebbe dovuto spostare la discussione su un nuovo terreno, quello del mito, della storia, della letteratura. Fra il 1909 e il 1914 l'interpretazione dei sogni divenne la sede del confronto critico fra il maestro e i suoi allievi, portando a laceranti rotture, ma anche alla definizione di concetti base della psicanalisi: come il complesso di Edipo e la rimozione, che sottobanco incoraggiò la tendenza a vedere ogni forma di critica alla psicoanalisi come una resistenza.
Infine, nella terza fase (1919-1930) il libro assunse il ruolo di documento storico, di cui Freud cercò di riprendere il controllo: nel 1925 ripropose, infatti, una ristampa della prima edizione, cioè solo il testo scritto da lui e relativo alla sua autoanalisi.
Rimase aperta la questione delle radici religiose del metodo psicanalitico, problema che nasceva dall'analisi del sistema di simboli di riferimento a cui attingevano i sogni esaminati. Su questo si aprì il conflitto con Jung e la scuola di Zurigo, che tendeva ad attribuire importanza all'appartenenza religiosa del sognatore, inducendo così a una presa di posizione morale e religiosa dell'interprete del sogno. Il confronto serrato fra il gruppo di Zurigo e quello di Vienna prese quindi la forma non solo di due stili analitici diversi, ma di confronto fra cultura ebraica e cultura cristiana.
Freud, che pure era circondato da seguaci ebrei e aveva pazienti quasi solo ebrei, preferiva negare ogni parentela fra cultura ebraica e psicanalisi, preoccupato di fare di questa nuova disciplina una scienza universale valida per tutti. "Volete farmi passare per un volgare kabbalista?" risponde al collega Sandor Ferenczi, che vorrebbe fargli interpretare un sogno dal carattere marcatamente ebraico, nel libro di Tom Keve Triad (tradotto in italiano nel 2005).
Il tema del profondo legame intellettuale tra Freud e la sua cultura originaria è uno dei fili portanti di questo romanzo filosofico complesso e fascinoso. Il libro inizia con il viaggio che Freud, Jung e Ferenzci fanno nel 1909 negli Stati Uniti e pone subito il problema del rapporto del maestro con il discepolo cristiano, il delfino designato Jung, e con il correligionario Ferenzci. Davanti a Freud, che rifiuta ogni contaminazione della psicanalisi con la tradizione religiosa, sia Ferenczi, da parte ebraica, sia Jung, da quella cristiana, si rendono conto che questa rimozione è impossibile: "I sogni e la loro interpretazione sono la più antica forma di comunione con Dio. E questa comunione con Dio a immagine di quale uomo è fatta? È guardare nella profondità di se stessi. Introspezione. Investigazione dell'anima umana, niente altro. L'importanza dei numeri, della gematria, i giochi di parole, la Temurah, la libera associazione, tutto è là". Così pensa Ferenczi, convinto che Jung abbia ragione, cioè che la psicanalisi affondi le sue radici nella mistica ebraica, a cui - sostiene - abbiamo aggiunto i protocolli razionali di osservazione e analisi, gli studi clinici e le misure, facendone una scienza.
Che la cultura ebraica fosse un insegnamento a viaggiare nel profondo lo spiegava già il rabbino di Presburgo, Chatam Sofer, protagonista di una sorta di flashback nel passato della tradizione chassidica: i mezzi per viaggiare nel profondo sono il digiuno, la meditazione e il sogno, cioè i mezzi della kabbalah. Ne era convinto Ferenczi che, a differenza di Freud, accoglieva le sue radici ebraiche come materiale fertile e così anche - secondo Keve sulla base di ricerche storiche e fonti coeve come lettere e articoli - i grandi fisici e matematici di origine ebraica, che in quegli stessi anni cambiarono il modo di osservare e spiegare l'universo.
Soprattutto il Nobel Niels Bohr, per il quale la fisica era una guida che conduceva alle porte dell'universo: "Tutta la questione è sapere ciò che noi possiamo dire della natura, e non ciò che la natura è realmente, cosa che sarebbe un'ambizione illusoria". Anche perché, secondo lo scienziato, "l'osservatore è co-creatore del fenomeno", posizione che si avvicina molto a quella del terapeuta nella psicanalisi freudiana ed è in netto contrasto con la teoria di Einstein, basata sull'ipotesi che esista un universo oggettivo, indipendente dall'esistenza umana e al di là di essa. A differenza di Freud e di Rutheford - il fisico inglese che, nella scuola di Manchester, aveva accolto come allievi i più promettenti scienziati del tempo - condivisero con Bohr questa teoria quasi mistica di metodo scientifico il fisico Wolfang Pauli, originario dell'antica famiglia ebraica di librai praghesi Pascheles (il cambio di nome e la conversione del padre erano stati un tentativo radicale di assimilazione), il chimico Gyuri Hevesy, aristocratico ungherese di origine ebraica, e il matematico John Neumann, figlio di un banchiere ebreo ungherese e da ragazzo paziente di Ferenczi.
Questo gruppo di scienziati, tutti insigniti del Nobel, pensavano fosse impossibile per l'uomo conoscere se stesso, così come era impossibile conoscere il mondo esterno, nella misura in cui il primo faceva parte di quest'ultimo. Nelle loro ricerche risulta evidente, secondo Keve, l'ispirazione di origine ebraica, nella cui tradizione per capire i pensieri di Dio si studiava l'interiorità dell'essere umano, creato a sua immagine e somiglianza, e con lo stesso atteggiamento la natura, perché "la natura e Dio sono la stessa cosa" afferma Hevesy nel romanzo. Tutte le nuove discipline scientifiche (fisica teorica, logica matematica, psicanalisi) a cui si dedicano intensamente questi intellettuali ebrei - discendenti diretti dagli allievi di Chatam Sofer a Presburgo, finalmente liberi di aprirsi al mondo esterno grazie all'emancipazione - in realtà somigliano dunque da vicino agli antichi studi rabbinici, di cui l'interpretazione dei sogni faceva parte. In ambito cattolico, anche Joseph Ratzinger fece tesoro della teoria della complementarità di Bohr - come fece del resto anche Yves Congar - nell'ambito del discorso teologico nel suo celebre Introduzione al cristianesimo.
Il paziente e affascinante lavoro di Keve su due generazioni di scienziati europei - che riporta con chiarezza alla luce questa comune radice nella tradizione religiosa - aiuta a guardare con occhio diverso la storia della cultura europea del Novecento e soprattutto mette in crisi il dogma più rigido del pensiero contemporaneo, cioè la separazione fra scienza e religione. Il conflitto che scoppiò su L'interpretazione dei sogni di Freud aveva subito reso evidente che si trattava di una questione scottante. Che è ancora aperta ai nostri giorni, non solo affrontata da scienziati e filosofi, ma sempre presente anche nella riflessione dei Papi moderni, in particolare di due Papi che facevano parte della Pontificia Accademia delle Scienze - Pio XII e Benedetto XVI - e di Giovanni Paolo II.
Se sono numerosi i filosofi che hanno affrontato il rapporto fra fede e scienza, e così pure i teologi, particolarmente nuovo e interessante è stato nel secolo scorso l'apporto di due grandi scienziati mistici, Teilhard de Chardin e Pavel A. Florenskij, il cui pensiero creativo e intensamente spirituale si può accostare a quello degli scienziati di matrice culturale ebraica di cui narra Keve. Entrambi ben consapevoli che la conoscenza scientifica - che amavano appassionatamente e a cui avevano dedicato la vita - "non è l'unica conoscenza degna di questo nome (come ingannevolmente sostenuto dal scientismo), ci sono altri tipi di sapere, modi di conoscere che hanno una grande rilevanza per il vivere umano, ai quali riconoscere dignità epistemologica e veritativa" come scrive Umberto Casale nella lunga introduzione a Fede e scienza. Un dialogo necessario (2010), antologia degli scritti su fede e scienza di Benedetto XVI. Del resto oggi la teoria scientista per cui soltanto la conoscenza scientifica/naturale si baserebbe su fatti accertati e condurrebbe a risposte soddisfacenti, mentre le altre - e naturalmente fra queste soprattutto la conoscenza religiosa - si fonderebbero su opinioni e non condurrebbero al "vero", è molto criticata anche in ambito laico. La scienza, infatti, ci dice una parte della verità sul mondo fisico, ma non tutta la verità.
Giovanni Paolo II, nella lettera scritta nel 1988 al direttore della Specola Vaticana George Coyne, scrive che "la teologia (...) deve attuare ogni scambio vitale con la scienza proprio come c'era sempre stato con la filosofia e le altre forme del sapere", ribadendo, dall'altra parte, l'importanza della scienza per il pensiero teologico. È questo un tema di riflessione più volte ripreso dal cardinale Ratzinger e poi da Papa Benedetto XVI, in particolare nel discorso tenuto nel 2008 ai Bernardins di Parigi: "La scienza naturale, che ha foggiato il nuovo mondo, poggia su un fondamento filosofico, che in ultima analisi va cercato in Platone. Copernico, Galileo e anche Newton erano platonici. Fondamentalmente si basavano sul presupposto della strutturazione matematica, spirituale del mondo e, di conseguenza, a partire da tale presupposto, sulla possibilità di decifrarne l'enigma e, nell'esperimento, di renderlo comprensibile e insieme utilizzabile. L'esperimento si basa su un'idea interpretativa previa a esso, che poi nel tentativo pratico viene saggiata, corretta e ulteriormente approfondita. Solo questa base matematica permette poi generalizzazioni e la scoperta di leggi che rendono possibile operare in modo adeguato. Tutto il pensiero scientifico e ogni applicazione tecnica sono basati sul presupposto che il mondo sia ordinato secondo leggi spirituali, che abbia con sé spirito, che può essere imitato dal nostro spirito. Ma al medesimo tempo la sua percezione è collegata al controllo mediante l'esperienza. Ogni pensare che pretendesse di scavalcare questo collegamento contraddirebbe la disciplina del mondo scientifico, e perciò sarebbe messa al bando come prescientifico o non scientifico". Ratzinger presuppone quindi che la caratteristica fondamentale della conoscenza scientifica sia la sinergia fra matematica ed esperienza, in cui la matematica è creazione della nostra intelligenza: "Questo implica che l'universo stesso sia strutturato in modo razionale, così che esiste una corrispondenza profonda tra la nostra ragione umana che scopre la natura e la ragione o la razionalità che l'essere umano trova nella natura". Conclusioni che avrebbero probabilmente condiviso Nils Bohr, Wolfang Pauli e John Neumann