lunedì 7 novembre 2011

l’Unità 7.11.11
Da Bersani no a un governo Schifani o Letta: «Sarebbero di centrodestra»
Il leader del Pd su Renzi: «Discutiamo dell’Italia, non di destini personali»
Opposizioni al premier: dimissioni o sfiducia Pronta la mozione
Le opposizioni al premier: o ti dimetti o sfiducia. Nel Pd si valuta se presentare già stasera la mozione. Bersani chiude a un governo Schifani o Letta. «Renzi? Discutiamo pure, ma dell’Italia, non di destini personali».
di S. C.


ROMA. Il Pd ha pronta la mozione di sfiducia al premier, ma calerà la carta solo al momento opportuno. Domani la Camera dovrà infatti votare il rendiconto dello Stato, dopo la bocciatura di tre settimane fa. E per l’opposizione sarà questo il primo passaggio in cui dimostrare che il governo non ha più la maggioranza. I deputati di Pd, Udc e Idv stanno infatti ragionando sull’ipotesi di astenersi, per consentire l’approvazione di questo fondamentale provvedimento ma al tempo stesso far vedere che i loro voti, insieme a quelli dei malpancisti del Pdl, costituiscono una maggioranza alternativa. Potrebbe bastare perché il Quirinale si impegni in un ulteriore accertamento sulla capacità di tenuta dell’asse Pdl-Lega-Responsabili, ma potrebbe non essere ancora sufficiente a far compiere a Berlusconi il necessario passo indietro per lavorare poi al governo di transizione auspicato da Pd e Udc (e accettato a precise condizioni da Idv e Sel).
Pier Luigi Bersani in pubblico frena sulla tempistica, e alla domanda diretta di Lucia Annunziata nel corso di “In 1/2h” risponde che il suo partito sta «ragionando» sull’ipotesi di una mozione di sfiducia. In realtà il leader del Pd, che in queste ore è in continuo contatto con Pier Ferdinando Casini e con Antonio Di Pietro, sta valutando se far depositare alla Camera già stasera la mozione, visto che il regolamento di Montecitorio prevede che tra la presentazione e il voto debbano passare almeno tre giorni, e che i rischi che corre il Paese sono troppo gravi per permettersi di aspettare la prossima settimana prima di un «cambio politico».
Quel che è certo è che la carta verrà calata, anche se le votazioni di domani saranno per il premier meno negative di quanto previsto alla vigilia. Dario Franceschini è convinto che Berlusconi «stia bluffando» quando sostiene di avere i numeri per andare avanti, e avvisa: «O si dimette o presto i parlamentari che vogliono un governo di emergenza per salvare il Paese voteranno la sfiducia per poterlo far nascere». Di Pietro dice che «prima dobbiamo avere i numeri e poi presentare la mozione di sfiducia». Ma per Bersani comunque vada il voto del rendiconto dello Stato la mozione andrà presentata: «Sceglieremo la strada che metterà meno in difficoltà il Paese. Se verrà votato il rendiconto ci sarà una ragione in più per la sfiducia». Per il leader del Pd solo con un passo indietro del premier e un governo che segni una «discontinuità» e sia guidato da una personalità credibile all’estero l’Italia può risalire la china.
Condizioni che aprirebbero all’ipotesi di un governo Monti, anche se Bersani sottolinea che spetta al Quirinale fare i nomi, e che invece escludono il sostegno a ipotetici governi guidati da Renato Schifani o Gianni Letta, che sarebbero comunque «di centrodestra».
I FISCHI A RENZI E LE PAROLE DI PRODI
Bersani, che non esclude di andare al voto in ogni caso prima del 2013, è soddisfatto della prova data dal suo partito con la manifestazione di San Giovanni. In tv smorza, circa la giornata di sabato, la vicenda delle contestazioni a Matteo Renzi: «Fischi? Ma in piazza c’erano centinaia di migliaia di persone, c'è stato solo un battibecco. Sì, certo, è stata una cosa spiacevole. Ma vorrei ricordarecheRenzièunodelPdeiosono anche il suo segretario». Dice poi Bersani che discussioni tra dirigenti possono anche esserci, «ma ognuno in questo momento si deve assumere le sue responsabilità, ora dobbiamo occuparci dell'Italia, no dei destini personali».
Quanto alle parole di Romano Prodi («non è confortante leggere, con quel che succede, che nei sondaggi il Pd non riesce a crescere come ci si aspetterebbe», ha detto in un’intervista), che pure non gli hanno fatto piacere, dice Bersani in tv con un sorriso che non c’è «problema»: «Rispondo alle sue osservazioni dicendo che siamo partiti da condizioni difficili e certamente facile non è. Abbiamo solo quattro anni e siamo già il primo partito del Paese. Noi siamo stati ben peggio di oggi. Siamo migliorati, sondaggi compresi. E questo ci fa dire che possiamo ancora migliorare. E miglioreremo, con l’aiuto generoso di tutti. Il nostro servizio è al Paese e non è guardarci la punta delle scarpe».

l’Unità 7.11.11
Intervista a Ignazio Marino
«Riforma elettorale e poi si vada al voto»
Il senatore critico: «Prodi ha ragione. Bersani dovrebbe coinvolgere di più il suo popolo e uscire da una visione novecentesca del partito aiuterebbe»
di Ma. Ze.


La manifestazione è stata un momento importante per il popolo democratico ma anche per il segretario. Per Bersani è stata l’occasione per essere chiaro sulla sua visione politica». E non tutto di questa visione convince il senatore Ignazio Marino, sfidante di Bersani alle primarie, convinto sostenitore della necessità di andare al voto subito, ma consapevole che alla fine possa anche andare diversamente.
Senatore, partiamo dai passaggi del discorso del segretario che l’hanno convinta di più, se ce ne sono.
«Ho condiviso molto il fatto che sia più volte tornato sulla fiducia che il Pd vuole trasmettere agli italiani. È lo stesso atteggiamento che colgo durante i miei viaggi all’estero, dove di fronte alla gravità della crisi globale c’è la volontà di dare segnali di speranza ai cittadini, di indicare una via d’uscita e la certezza che è possibile farcela».
Si fermano qui le condivisioni?
«No, ma credo sia importante anche dire cosa non mi ha convinto. Ed è il senso del partito che ha, ma evidentemente è una scelta del segretario e in quanto tale va rispettata. Nel momento in cui Bersani si rivolge al suo popolo e vuole entrarci in comunione, dicendo di sapere bene quale sia lo stato d’animo davanti alla crisi economica e politica, decide di far salire sul palco i rappresentati di altri partiti europei. Mi chiedo: perché non un’insegnante o una madre alle prese con la mancanza di lavoro e senza una rete di servizi intorno a lei? A me sarebbe piaciuto far salire il nostro popolo sul palco».
Prodi ha detto che Bersani è bravo ma non riesce a “uscire”. Condivide? «Prodi ha ragione. Forse coinvolgere di più il suo popolo lo aiuterebbe. Dovrebbe uscire da una visione novecentesca del partito».
Il governo potrebbe avere le ore contae. Bersani ha indicato il governo di transizione come possibile svolta, ma non esclude il voto anticipato. Vendola ha aperto. Lei, che ha sempre invocato le urne, apre uno spiraglio?
«Intanto non credo a questo movimento di transfughi che dalla maggioranza passano all’opposizione. Se anche Scilipoti non dovesse votare la fiducia, perché nel frattempo sono cambiati i suoi interessi, l’Idv che fa? Se lo riprende?».
Lei non crede che alla fine qualcuno staccherà la spina?
«Credo spetti all’opposizione essere sempre in Parlamento, soprattutto ora che la maggioranza è confusa e sfilacciata, perché in una serie di votazioni possiamo mandarla sotto. La crisi si può aprire anche senza cercare di attrarre transfughi».
E se cade? Casini ha chiuso all’ipotesi di un governo Letta e ritiene da irresponsabili farne uno senza di voi.
«La decisione spetta al Capo dello Stato, che ha il diritto-dovere di verificare se c’è una nuova maggioranza prima di sciogliere le Camere. Ho grande stima di Napolitano e mi sembra evidente che c’è l’intenzione di creare un governo di transizione. L’ideale sarebbe cambiare la legge elettorale e poi andare al voto con un programma chiaro. In caso di esecutivo di emergenza mi piacerebbe però che anziché far prevalere le logiche partitiche si desse spazio alle competenze e intelligenze che ci sono nel Paese. Così si darebbe un messaggio di fiducia e di ricostruzione, come dice Bersani. Il Pd però, prima dovrebbe chiarire come la pensa su due o tre questioni».
Tipo?
«Penso alla riforma sul mercato del lavoro. Capisco la proiezione della segreteria del Pd, ma mi chiedo se un giovane preferisce passare di contratto a scadenza in contratto a scadenza oppure averne uno a tempo indeterminato con flessibilità variabile».
Le piace la riforma Ichino dunque?
«Ho firmato il suo ddl».
Seconda questione.
«Vorrei fare una raccomandazione a Bersani sulle pensioni di anzianità: il partito deve dire con chiarezza e quanto prima come la pensa. Non può solo prendere atto che l’attuale sistema non regge più».
C’è chi rimprovera al segretario di non aver preso le distanze dai fischi a Matteo Renzi.
«Sarebbe stato fuori luogo farne cenno dal palco, ma certamente il segretario non deve essere indulgente con chi gli va a parlare male di Matteo, perché il segretario deve dare a tutti la libertà di pensiero e discussione all’interno di un partito che si chiama democratico».

l’Unità 7.11.11
Intervista a Pierluigi Castagnetti
«Il Pd è in campo ma guai se chiude la porta ai Renzi»
«Non condivido le proposte del sindaco di Firenze qui però si misura l’apertura e la tolleranza del partito Molti cattolici si sentono ospiti: è un problema serio»
di Simone Collini


Siamo alle battute finali», dice Pierluigi Castagnetti riferendosi al governo.
Cosa glielo fa pensare? «Finalmente anche all’interno della maggioranza si sono resi conto che così non si può andare avanti». Berlusconi dice di avere i numeri. «Berlusconi ha trasformato Palazzo Chigi in un bunker. Ne uscirà solo con un voto parlamentare». Presenterete una mozione di sfiducia? «Non sarebbe neppure necessaria se ci fosse un numero cospicuo di parlamentari che sottoscriva un documento tale da indurre il presidente del Consiglio a prendere atto che non ha più la maggioranza. Altrimenti servirà una mozione di sfiducia, non c’è dubbio».
Ammettiamo si apra la crisi: e poi?
«C’è bisogno di un governo sostenuto da tutte le maggiori forze del Paese, che coinvolga le migliori energie perché solo così può essere recuperata la credibilità sul piano internazionale. E poi nel 2013 ognuno giocherà la propria parte, e noi con le nostre proposte andremo in competizione con la destra».
C’è chi sostiene che non siano ancora chiare le vostre proposte.
«Lo può dire solo chi non ha seguito il lavoro che abbiamo compiuto fin qui, e comunque Bersani a San Giovanni ha risposto alle accuse stucchevoli di assenza di un’alternativa e ha delineato i nostri contributi molto solidi per una praticabile alternativa di governo».
Non è che le vostre proposte non arrivano perché c’è un coro di voci che non sempre sono in sintonia?
«Il problema è semmai che va riconquistata una unità vera. Oggi diamo per scontata una unità che in effetti non c’è e questo mi fa paura, sia per quando avremo responsabilità di governo sia per quando dovremo affrontare le elezioni».
Cosa intende dire?
«Ho l’impressione che il processo di costruzione del partito si sia come arrestato. La vicenda di Renzi può essere assunta come paradigma della possibilità che nel partito si realizzi un pluralismo interno vero. Non condivido il discorso di Renzi, rabbrividisco quando gli sento dire che berlusconismo e antiberlusconismo sono la stessa cosa perché non coglie il male rappresentato per il Paese da questa stagione berlusconiana. Però sta ponendo la questione di un dibattito più largo, vero e tollerante». Cuperlo, in un intervento sull’Unità, ha fatto notare che non è normale tentare di scalare un partito dall’esterno.
«Ho apprezzato l’intervento, anche perché Cuperlo non ha demonizzato Renzi. Però il punto non è il tentativo di scalata alla leadership del Pd per vie esterne. La vera domanda che il Pd ha di fronte è un’altra: è scalabile solo per vie interne da uno che può avere anche le migliori idee ma che non viene da una storia di sinistra?».
Lei dice di no?
«Tanti dirigenti del Pd sui territori mi parlano di cose che vanno aggiustate, sono preoccupati perché come cattolici si sentono nei fatti regrediti allo stadio di ospiti e non di padroni di casa. Non si tratta solo della carriera di qualcuno, ma di capire che il Pd deve essere intriso di culture diverse, che devono tutte avere lo spazio che loro compete. Stiamo attrezzandoci per una campagna elettorale ed è bene che non sottovalutiamo problemi che hanno una loro consistenza».
A quella campagna elettorale andrete dopo aver scelto con le primarie il candidato del centrosinistra e con il Pd che sostiene Bersani?
«È prematuro oggi un discorso su primarie e candidati premier se dovremo allargarci anche al Terzo polo. Non precluderei la possibilità di alleanze larghe facendo prima del tempo delle scelte che devono invece essere condivise da tutti i protagonisti».

Paolo Gentiloni: Renzi contestato
«Non stupisce che la piazza lo fischi quando ci sono dirigenti che lo definiscono come un reaganiano, uno di destra e via dicendo, segnalo che nel corso delle settimane scorse c’è stato un susseguirsi di epiteti contro il sindaco di Firenze che mi hanno lasciato allibito. Poi non dobbiamo stupirci se la piazza lo fischia, dal momento che i nostri dirigenti lo definiscono un reganiano, uno di destra e via di seguito. Vedo una preoccupante tentazione da buttafuori nel Pd e questo non va affatto bene».


Su La Stampa un’intervista a Renzi: “Il Pdl è travolto dalla crisi ma noi non cresciamo”
Renzi: per vincere dobbiamo uscire dal nostro recinto, di Fabio Martini, sul Corsera un’intervista a Giorgio Gori, sempre a sostegno di Renzi

Repubblica 7.11.11
Radicali a rischio strappo Pierluigi ora corre ai ripari
Vertice con Pannella e Bonino dopo due anni
Ripresa dei contatti dopo gli scontri con il Pd. Sul tavolo legge elettorale, carceri e giustizia
di Goffredo De Marchis


ROMA - Non possono fare tutto Casini, Pisanu o personaggi come Pomicino. Anche il Pd decide di mettersi in moto per assestare il colpo parlamentare del ko a Berlusconi. Domani mattina, prima del voto sul Rendiconto, Pier Luigi Bersani, con i capigruppo Franceschini e Finocchiaro, incontra una delegazione radicale guidata da Marco Pannella e Emma Bonino. Non accadeva da quasi due anni. Nel frattempo si è arrivati al limite dell´espulsione. È una piccola svolta politica. Ma la posta in gioco adesso è davvero alta, nessun voto va disperso e con i radicali è obbligatorio riallacciare un filo.
Alla riunione non ci sarà Rosy Bindi. Scelta inevitabile dopo le parolacce rivolte dal presidente del Pd alla pattuglia dei sei radicali in Parlamento durante l´ultimo voto di fiducia. Pure Bersani deve aver avuto un ripensamento. Dopo che i pannelliani avevano mandato in frantumi la tattica della minoranza sul numero legale, il segretario aveva pronunciato la sua condanna definitiva: «Ognuno per la sua strada». Mettendo una bella pietra sopra all’alleanza con Pannella siglata per le elezioni del 2008. Il gelo artico aveva origini comunque più remote. 24 mesi di incomunicabilità, il solito movimentismo del leader radicale lo aveva portato ad annunciare sostegni al premier. Due settimane fa è andato addirittura a cena a Palazzo Grazioli. Questa tensione era culminata nella vergognosa ccontestazione a Pannella durante la manifestazione degli indignados (sputi, insulti, minacce).
Ora si riavvolge il nastro. O si prova a farlo. Domani Bersani e i radicali ricominciano dal voto sul Rendiconto. Secondo Pannella va approvato, anche con le astensioni. Rita Bernardini ne ha già parlato con il capogruppo del Pd Franceschini. E le parole di Bersani pronunciate ieri fanno capire che i democratici sono pronti a dare il via libera al bilancio consuntivo dello Stato prima dello show down finale. «Nel Pd - è la spiegazione data da Franceschini alla deputata radicale - ci sono due posizioni: il voto contro e un´astensione che renda comunque evidente la fine della maggioranza». I democratici sono ormai orientati verso la seconda ipotesi. Visti i precedenti però (e con possibili elezioni alle porte) l´incontro avrà altri punti sul tavolo. L´ultimo faccia a faccia ebbe un esito positivo. Poi è successo di tutto.
Sul tavolo i radicali metteranno legge elettorale, giustizia, carceri, liberalizzazioni. Non è sfuggito a Pannella che nel discorso di Piazza San Giovanni Bersani ha fatto un vago accenno alle «culture radicali» parlando degli alleati futuri. Un piccolo passo avanti rispetto alla "dimenticanza" dell´intervento finale alla festa democratica di Pesaro. Con il voto alle porte può esserci un interesse reciproco a riannodare i fili. Per il Pd i radicali vogliono dire due punti percentuali in più. Per Pannella significa cercare un´intesa per riportare suoi parlamentari alle Camere sotto un ombrello più grande, la scelta che nel 2008 impose Emma Bonino. Molta acqua è passata sotto i ponti da allora. E domani potrebbe finire anche in maniera traumatica. Ex popolari, cattolici, la Bindi, tanti ex diessini e una parte del popolo di centrosinistra non sopportano oltre le mosse di Pannella. Allora l´occasione diventerebbe quella di un addio.
Resta ancora da risolvere la "pratica Berlusconi". Se il premier decidesse di andare avanti, Franceschini e Bersani prevedono una loro mozione di sfiducia. I radicali come si comporterebbero? Niente scherzi, assicurano. Come sempre. «Abbiamo votato 51 volte no alla fiducia, in questi tre anni - ricorda Rita Bernardini - . Non c´è motivo per non fare lo stesso la 52esima volta». Anche di questo si parlerà domani. Sempre che non ci si debba occupare subito del futuro prossimo. Quello senza Cavaliere.

Repubblica 7.11.11
Il disincanto della democrazia
Anche la democrazia colpita dalla crisi a livello record chi non ha più fiducia
Il 23% la equipara ai sistemi autoritari. Tra le cause il governo in tilt
Ormai solo per 2 elettori su 10 Berlusconi merita la sufficienza. Pesano poi i diktat europei di istituzioni non elettive
Tre anni fa il dato era inferiore di ben sette punti. Tra giovani, elettori di Pdl e Lega lo scetticismo più marcato
di Ilvo Diamanti


Nel Paese si percepisce un diffuso disincanto politico. Investe non solo i partiti e i loro leader, ma anche le istituzioni dello Stato.
Ad eccezione del Presidente Napolitano, com´è noto, la sfiducia dei cittadini non risparmia nessun soggetto e nessun attore pubblico. Non sorprende che questo sentimento stia erodendo il consenso nei confronti delle istituzioni rappresentative. Verso la stessa "democrazia". È ciò che sta capitando, secondo un sondaggio di Demos di alcuni giorni fa. Certo, la gran parte degli intervistati (oltre due terzi) resta convinta che "la democrazia è preferibile a qualsiasi altra forma di governo". Se ne desume, però, che circa un italiano su tre la pensa diversamente. In particolare, il 23% del campione accetta l´idea che: "autoritario o democratico non c´è differenza". Si tratta del dato più alto registrato negli ultimi dieci anni. Nel 2001 questa posizione era, infatti, condivisa dal 16% degli intervistati. La stessa percentuale rilevata nel 2008. Il disincanto democratico sembra, dunque, essere cresciuto sensibilmente negli ultimi anni. In particolare, si è diffuso fra i più giovani (18-29 anni). Ma risulta condiviso, soprattutto, nell´elettorato di centrodestra: il 31% tra gli elettori del Pdl, addirittura il 34% tra i leghisti.
Difficile sorprendersi. La democrazia rappresentativa non sta offrendo grande prova di sé, in questa fase. In Italia, ma non solo.
Basti pensare a come è stata affrontata la crisi economica e finanziaria. L´agenda: dettata dalla Ue, in particolare dalla Bce e dal Fmi. Cioè: da istituzioni finanziarie e monetarie, non elettive. Nell´ambito della Ue, peraltro, le scelte comunitarie - in particolare, le nostre - sono state imposte da due Paesi su tutti: Francia e Germania. Da due leader su tutti: Sarkozy e Merkel. Eletti dai cittadini dei loro Paesi, non dagli europei, nel loro insieme. Tanto meno dagli italiani. Peraltro, mentre i mercati dettano le regole e i vincoli ai governi, il rapporto tra mercato e democrazia non appare più stretto e automatico come un tempo. Leonardo Morlino, sull´ultimo numero dell´Espresso, mostra come il tasso di crescita del Pil nei regimi autoritari (4,9%) sia decisamente superiore a quello dei Paesi democratici e liberi (2,3%). Questa tendenza si spiega, in parte, con il basso punto di partenza dei regimi autoritari. Tuttavia, non sorprende troppo, vista l´influenza esercitata sulle economie occidentali da Cina e Russia (sistemi peraltro molto diversi). Visto il peso della Libia (e della famiglia) di Gheddafi nell´economia italiana fino a un anno fa. Prima dell´intervento armato, deciso e guidato da Usa, Gb e, anzitutto, dalla Francia (di nuovo). A nome e per conto della Comunità Internazionale (Italia compresa).
Il disincanto democratico degli italiani, però, è condizionato, in misura rilevante, dalle vicende interne. La sfiducia nel governo eletto nel 2008, in un´altra epoca: oggi solo il 20% degli elettori lo considera adeguato al compito. Stesso giudizio nei confronti dell´opposizione. Ma il consenso verso il governo è crollato in breve tempo.
Il Presidente del Consiglio ottiene, a sua volta, una valutazione sufficiente da due soli elettori su dieci. D´altra parte, un governo e un Presidente del Consiglio che, per sopravvivere, ricorrono alla fiducia una volta alla settimana, non possono che ri-produrre la sfiducia. Tanto più se si assiste a passaggi continui di parlamentari, tra uno schieramento e l´altro. In queste ore, ad esempio, Berlusconi sta contattando, ad uno ad uno, i "dissidenti" del Pdl. Per ricomporre, una volta di più, la maggioranza, in vista del voto di domani. Allargando ancora, se necessario, il numero dei sottosegretari e dei vice-ministri (se ne è perso il conto, oramai). Difficile riconoscere il marchio della "volontà popolare" a una maggioranza sempre in bilico, tenuta insieme e rattoppata mediante incentivi personali continui. Anche perché non è per "sanare" i problemi giudiziari né i conflitti di interesse di Berlusconi che gli elettori, nel 2008, avevano garantito al Centrodestra una maggioranza parlamentare larga come mai prima, nella Seconda Repubblica.
Le preoccupazioni degli italiani, ormai segnate dalla crisi economica, hanno reso insopportabili i costi della politica. I privilegi di cui godono i parlamentari e gli amministratori pubblici. E hanno alimentato un clima "antipolitico", sostanzialmente diverso da quello dei primi anni Novanta. Perché allora rifletteva la rottura con il "vecchio" sistema politico. Evocava una domanda di cambiamento, proiettata nel futuro. Mentre oggi l´antipolitica riflette la frustrazione suscitata da un sistema politico esausto, prigioniero del presente - e del passato. Anche per questo la "fiducia" nella democrazia, in Italia, appare in declino. Tanto più fra coloro che diffidano dei partiti. D´altra parte, a fidarsi dei partiti, ormai, è una quota residua: il 5% degli italiani. Non a caso i soggetti che raccolgono maggiore consenso fra i cittadini sono "esterni" ai partiti. Non solo il Presidente, Napolitano. Ma anche imprenditori, finanzieri, leader di organizzazioni economiche, tecnici. Gli stessi ai quali fanno riferimento quanti vedono in un governo di unità nazionale l´unica soluzione a questa crisi - politica ed economica.
Ma Berlusconi e gli altri leader della maggioranza, in caso di sfiducia parlamentare, invocano il ritorno alle urne. Ogni diversa soluzione sarebbe "un golpe", ha denunciato, sabato scorso, il ministro Calderoli. Responsabile della legge elettorale attualmente in vigore, in base alla quale è stato eletto questo Parlamento. Secondo lo stesso Calderoli: una "porcata", che impedisce ogni controllo sugli eletti da parte degli elettori. Contro questa legge elettorale sono state raccolte, in un mese e mezzo, oltre 1 milione e 200 mila firme. Per promuovere un referendum abrogativo, che riscuote il consenso di gran parte degli elettori (come ha mostrato la "Mappa" della scorsa settimana). Questa legge elettorale - ogni legge elettorale - è, per definizione, principio e fondamento della nostra democrazia rappresentativa. Visto che la "rappresentanza" democratica è realizzata mediante le elezioni. Per questo occorre prendere sul serio il disincanto della società italiana. Perché mina la "legittimità" della nostra democrazia. Alla radice.

Repubblica 7.11.11
Se sull’Italia pesano 39 milioni di ignoranti
di Mario Pirani


Un pedagogo di alto valore, il professor Saverio Avveduto, mi ha fatto pervenire un dossier di testi, corredati da dati e statistiche, sia suoi che di Tullio De Mauro, già ministro della Pubblica istruzione, sullo stato del nostro panorama educativo. Val la pena di cogliere, non da fiore a fiore, ma da rovo a rovo, alcuni grovigli spinosi del nostro sistema. Il dato più sconfortante è la distanza abissale tra le oasi di alto sapere (che comprendono premi Nobel e grandi chirurghi, scienziati e letterati, ricercatori industriali contesi a livello internazionale) e i vasti deserti di una popolazione priva delle conoscenze essenziali per orientarsi nella complessità del mondo d´oggi. Da una scheda dell´Ocse risulta che nella classifica sulla condizione educativa (tale da permettere all´individuo di capire il titolo di un giornale, un semplice questionario, un pubblico avviso) l´Italia occupa il penultimo posto fra una trentina di paesi industrializzati, seguita solo dal Portogallo. A questa situazione soggiace il 68,2% della popolazione, pari a 39.146.400 unità, una cifra da paura che necessita, peraltro, di una spiegazione. Essa comprende, infatti, gli analfabeti totali, i cittadini privi di qualsiasi titolo di studio ma anche quelli che hanno ottenuto la licenza elementare e quella media inferiore.
La valutazione di questo assieme che scardina il significato dei parametri dell´Istat (l´Istituto qualifica come analfabeti solo coloro che si autodefiniscono tali, senza nessuna verifica obbiettiva sulla validità dell´autodichiarazione) si basa, come ricorda Tullio De Mauro nel saggio-intervista La cultura degli italiani (a cura di Francesco Erbani, ed. Laterza), su una regola che gli studiosi di pedagogia sperimentale chiamano del "meno cinque". Secondo questo principio in età adulta regrediamo di cinque anni rispetto ai livelli massimi delle competenze cui siamo giunti nell´istruzione scolastica formale. Alla fine del liceo, ad esempio, si è arrivati a studiare derivate e integrali e altre operazioni matematiche complesse ma se non si fanno professioni collegate a statistica o economia, se non si è bancari, commercialisti o ingegneri che ne rimane in età adulta? Nozioni, se va bene, da terza media. Ma non è solo la matematica a subire il "meno cinque". Quanti hanno studiato il greco al liceo e poi, in età adulta, guardano una pagina di greco come se fosse scritta in ideogrammi cinesi? Avveduto ha perciò suggerito di considerare regrediti di cinque anni in materia di competenze alfabetiche tutti quelli che hanno soltanto la licenza elementare. Cinque meno cinque fa zero. Chi ha la sola licenza elementare, tolto chi esercita particolari mestieri che lo portino a leggere e scrivere, come ad esempio i tipografi, in età adulta torna in condizioni di analfabetismo. Gli analfabeti effettivi, secondo Avveduto, sono da stimare a un terzo della popolazione e sfiorano i venti milioni. Una cifra assai lontana da quell´1% che alla domanda scritta dell´Istat ha il coraggio di rispondere sinceramente di "non sapere né leggere né scrivere".
Se riflettiamo su questo dato assai più reale delle statistiche ufficiali ci si rende conto di quanto incida la pochezza culturale e il basso livello del capitale umano. Impressiona in proposito la classifica Ocse sugli investimenti in conoscenza: tra i sei ultimi Paesi figurano Portogallo, Grecia, Italia (terzultima), Irlanda e Spagna. Gli stessi messi sotto sorveglianza da Fmi e Ue per l´indebitamento schiacciante e l´incapacità di farvi fronte. Eppure non c´è segno di resipiscenza che indichi una qualche attenzione alla cultura. Indicative e inedite sono in proposito le ore dei programmi culturali sui vari canali (fonte Istat): Rai Uno ore/anno 4,3%, Rai Due 10,6%, Rai Tre 13,2%, La 7 20,3%, Canale 5 0,3%, Italia1 0%, Rete4 1,9%. Per quanto riguarda la radio le risultanze sono simili, tranne che per Rai Tre che riserva il 32,8% delle sue ore al sapere degli ascoltatori. Le sia dato merito.

La Stampa 7.11.11
Atene e Roma i due tramonti
di Hugo Dixon

Direttore del colosso d’informazione Reuters Breakingviews

Caos, crisi, dramma sono tutte parole greche. Come catarsi. L’Europa è in bilico tra caos e catarsi, nel momento in cui la crisi politica ad Atene e Roma ha raggiunto il suo punto critico. Una via porta alla distruzione, l’altra alla rinascita. Nonostante ci siano segnali di speranza, ancora pochi passi falsi condurranno nell’abisso.
I drammi in due delle culle della civiltà europea sono simili e, in maniera bizzarra, legati. La decisione di Georges Papandreou, la scorsa settimana, di indire un referendum sull’ultimo pacchetto di misure per salvare il Paese ha dato il via a una reazione a catena che sta portando alla caduta non solo del suo governo ma anche a quella dell’esecutivo di Silvio Berlusconi.
Il folle piano per un referendum, che adesso è stato ritirato, ha scioccato a tal punto la Germania di Angela Merkel e la Francia di Nicolas Sarkozy che hanno minacciato di ritirare gli aiuti finanziari alla Grecia a meno che non avesse ritrovato credibilità, una mossa che l’avrebbe portata fuori dall’euro. Ma era probabilmente una vuota minaccia, almeno a breve termine, perché Atene è legata a Roma. Se la Grecia è spinta ai margini, anche l’Italia potrebbe essere trascinata con essa e l’intera moneta unica collasserebbe. Così, ironicamente, Atene viene salvata dalle conseguenze immediate del suo cattivo comportamento dalla paura di un ben più grande disastro al di là del mar Ionio.
I tassi di interesse sui titoli italiani, che erano già pericolosamente alti, sono schizzati dopo il pasticcio del referendum greco. Berlusconi è stato costretto a far tranquillizzare Merkel e Sarkozy al G20 di Cannes accettando di porre il voto di fiducia sul suo scialbo programma di riforme, e il monitoraggio da parte dell’Fmi. L’umiliazione a Cannes, dove il ministro delle Finanze Giulio Tremonti ha apposta evitato di appoggiarlo, potrebbe essere l’ultimo chiodo sulla bara del governo Berlusconi. La fine dell’era Papandreou e Berlusconi dovrebbe essere, in teoria, motivo di gioia. Benché il comportamento del premier italiano sia stato scandaloso, mentre non lo è stato quello del greco, entrambi hanno condotto i loro Paesi a un indebitamento più profondo. E sono tutte e due membri di caste politiche che hanno indebolito le loro nazioni per molti anni. Liberarsi di loro potrebbe essere l’inizio di un processo di rinnovamento.
L’intoppo è che non è certo che quello che verrà dopo sarà meglio. In tutte e due i Paesi, dove ho passato gran parte delle ultime due settimane, la soluzione migliore sarebbe un governo di unità nazionale con lo scopo di sradicare la corruzione e tagliare il troppo generoso welfare state. Potrebbe accadere sia prima che dopo elezioni anticipate. Sfortunatamente, le vecchie caste politiche sono dure a morire. Potrebbero stare lì a battibeccare su chi soffre di più e chi deve avere l’incarico finché avranno gli occhi fissi nell’abisso, o ci saranno caduti dentro.
Molti nel resto dell’Europa, nel frattempo, sarebbero tentati di spingerli giù dal bordo, se fossero abbastanza forti da reggere l’impatto. Ma Merkel, Sarkozy e tutti gli altri sono stati criminali nella loro mancanza di preparazione. Il cosiddetto piano approvato al vertice del 26 ottobre è stato un altro caso di troppo poco, troppo tardi. Non solo il piano per ricapitalizzare le banche era la metà di quello necessario ma è stato stoltamente rimandato fino al prossimo giugno, mentre lo schema per applicare una leva finanziaria alla rete di sicurezza regionale, l’European Financial Stability Facility (Efsf), è pieno di buchi. E’ apparso chiaro a Cannes, quando Merkel ha ammesso che poche altre nazioni del G20 erano pronte a investire in esso.
Per l’intera Europa adesso è una corsa contro il tempo. I greci debbono ritrovare l’efficacia nelle loro azioni prima che il resto dell’Ue li tagli fuori. Gli italiani debbono ricostruire la loro credibilità prima di essere risucchiati in un vortice dal quale non potranno uscire. E gli altri hanno bisogno di mettere in campo un piano d’emergenza veramente efficace nel caso Atene e Roma continuino a deluderli. Se tutti cominciano a correre molto velocemente, il weekend appena passato potrebbe essere l’inizio della catarsi. Se no, il caos busserà alla porta.

La Stampa 7.11.11
Migliaia di donne rapite e vendute agli scapoli cinesi
La polizia libera 3500 “mogli” nell’Hebei
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG. Dopo trent’anni di politica del figlio unico, che vede la maggior parte delle famiglie cinesi autorizzate ad avere un solo figlio (eccezioni solo in alcune zone di campagne se la prima gravidanza ha prodotto una femmina o nei matrimoni fra due figli unici), la Cina si ritrova ad affrontare le impreviste conseguenze del modo in cui ha scelto di ridurre la popolazione. La nota scarsità di donne sta portando all’aumento di agenzie matrimoniali che procurano mogli straniere a scapoli disposti a pagare. Si tratta di agenzie che agiscono in modo legale e aperto e che offrono in particolare donne vietnamite a uomini delle campagne cinesi, promettendone la verginità e docilità e la sostituzione con altre ragazze se dovessero fuggire. A questo si accompagnano però frequenti casi di tratta di donne, prelevate sia nella stessa Cina che nei Paesi confinanti.
Ora la stampa cinese annuncia che la polizia dello Hebei, nel Nord della Cina, ha liberato 3500 donne e bambini rapiti da trafficanti negli ultimi due anni. Fra le donne costrette a unioni clandestine per assicurare una progenie a scapoli che pagano migliaia di euro, ce n’erano 206 straniere, portate in Cina da reti criminali che operano alle frontiere con la Mongolia, la Corea del Nord, la Birmania e il Vietnam. Sui giornali cinesi non è raro leggere storie angoscianti di donne rapite per strada o ingannate con la promessa di un lavoro, che si ritrovano in cattività in aree rurali lontane, tenute prigioniere per scongiurarne la fuga. I casi che finiscono sulla stampa però sono esclusivamente quelli che si concludono con la liberazione delle donne, lasciando dunque in ombra la reale entità del problema.
Le statistiche ufficiali riferiscono che nel 2010 sono nate 100 bambine ogni 118 bambini: conseguenza in parte degli aborti selettivi – illegali ma ugualmente molto diffusi – e in parte dell’infanticidio femminile, che negli ultimi tempi però è in significativo calo, grazie alle tecnologie capaci di accertare presto il sesso del nascituro.
L’attuale campagna contro il traffico di persone, iniziata nel 2009, ha portato la polizia a sgominare 429 gruppi criminali e ad arrestare 556 persone, secondo le dichiarazioni di Yang Zeli, membro della pubblica sicurezza della provincia dell’Hebei, riportate dalla stampa cinese.
Lo stesso giorno la polizia nello Shandong ha dichiarato di aver arrestato un’altra gang che imprigionava donne per avere figli per conto di altri, disposti a pagare per l’adozione di un bambino. I maschietti erano valutati fino a 50.000 yuan (quasi 6000 euro), mentre le bambine arrivavano al massimo a 30.000 yuan (circa 3500 euro).

Corriere della Sera 7.11.11
Una colletta per pagare la multa di Ai Weiwei
di Marco Del Corona


PECHINO — Nelle intenzioni delle autorità poteva essere l'atto finale del caso Ai Weiwei, ovvero la sua resa: l'artista avrebbe dovuto pagare entro il 16 novembre i 15,22 milioni di renminbi (oltre 1,6 milioni di euro) in tasse arretrate, interessi e multe. Così Ai avrebbe chiuso quietamente un opaco contenzioso in cui accuse di «crimini economici» mai formalizzate gli sono costate una detenzione extragiudiziale di 81 giorni. Ma l'artista sembra riuscito a trasformare anche questo diktat in una mobilitazione irridente contro quella che considera l'ottusità di un potere autoritario: migliaia di simpatizzanti stanno contribuendo a raccogliere la cifra. Una sorta di colletta sostenuta da un vigoroso tamtam in rete.
La cifra messa insieme finora sembrerebbe sui 2 milioni di renminbi. Sui diversi account Internet che Ai utilizza per comunicare con la composita galassia di chi lo segue, erano stati indicati i metodi di pagamento: la posta, un conto bancario, il sistema online PayPal, il suo omologo cinese Alipay. «È diventata una grande manifestazione online», ha dichiarato l'artista al Financial Times, aggiungendo che «per ora tengo il denaro ma lo restituirò». Un prestito: «Ogni centesimo sarà reso. Per favore, lasciate un numero di telefono o un indirizzo email», ha scritto su Google+.
La scorsa settimana, Ai aveva replicato all'ingiunzione dell'ufficio fiscale di Pechino ricordando che tutta la documentazione della Fake, la sua società, era stata portata via in occasione del suo arresto. Della Fake, peraltro, è rappresentante legale non Ai Weiwei ma la moglie Lu Qing, mentre la contabile Hu Mingfen era stata a sua volta detenuta per un paio di mesi. Secondo la stampa di Hong Kong, la madre e il fratello di Ai Weiwei sarebbero pronti a offrire come garanzia per circa metà della cifra chiesta all'artista la casa appartenuta al padre, il poeta Ai Qing.
Mobilitazione e pratica artistica si combinano spesso nel percorso di Ai, che sia un happening anti-censura o un party a base di granchi di fiume contro la demolizione del suo studio di Shanghai. Stavolta però si temono ripercussioni su di lui. Dopo essere stato rilasciato in giugno, aveva spiegato di non poter parlare della sua vicenda. Tuttavia i suoi tweet acri e beffardi sono ripresi, mentre tre sue opere sono state esposte in una galleria del distretto artistico 798. Tre anni fa, conversando col critico Hans Ulrich Obrist, l'artista sosteneva — lo si legge nel libro Ai Weiwei Speaks — che «fondamentalmente, gli esseri umani sono mostri; si comportano con spietatezza». Adesso, osservando cosa sta succedendo in suo favore, sembra addolcirsi: «Non conta la cifra» che viene raccolta «ma il numero delle persone coinvolte», perché «il senso della parola popolo è evidente».

Corriere della Sera 7.11.11
Machiavelli cerca 10 mila euro
Esce il sesto volume dell'Edizione nazionale. Ma per l'ultimo mancano i fondi
di Dino Messina


Non si riesce a capire e ad apprezzare il Machiavelli del Principe, dei Discorsi e dell'Arte della guerra se non si tiene presente il lungo e faticoso apprendistato diplomatico del Machiavelli uomo di governo. Dal 1498 al 1512 messer Niccolò fu al servizio della Repubblica fiorentina, come raccontano le migliaia di lettere scritte di suo pugno, a volte messaggi brevi, pratici, altre veri e propri saggi capaci di fotografare in poche righe la situazione contemporanea. Di tale attività frenetica (e modernissima), su cui si basa tutto o quasi il «Machiavelli maggiore», quello dei capolavori che scriverà dopo essere stato escluso violentemente dal governo della città, danno conto i volumi delle Legazioni. Commissarie. Scritti di governo nell'ambito dell'Edizione Nazionale. In questi giorni, per la Salerno Editrice vede la luce il sesto volume, a cura di Emanuele Cutinelli Rendina e di Denis Fachard (pagine 650, 60). Per il settimo (e ultimo) bisognerà aspettare e contare nella buona volontà degli studiosi che vi lavorano a titolo completamente gratuito, oltre che nei finanziamenti privati provenienti dall'estero.
Perché la verità è questa: lo Stato italiano non ha trovato i dieci-quindicimila euro occorrenti per pubblicare il sesto volume degli scritti diplomatici, che è stato stampato grazie a un piccolo contributo della Fondazione Margherita di Sion, la città del Vallese, in Svizzera, e alla donazione di uno studioso straniero che vuol mantenere l'anonimato. «Sono in imbarazzo a rispondere ai miei colleghi francesi o tedeschi quando mi chiedono notizie sull'uscita del teatro di Machiavelli o dell'epistolario privato — confessa Cutinelli Rendina, professore di letteratura italiana a Strasburgo —. Che cosa devo dire? Che il Paese che garantisce due milioni e mezzo annui all'"Avanti!" di Valter Lavitola non trova pochi soldi per l'edizione nazionale di uno dei suoi classici?».
Il discorso su come maltrattiamo i nostri autori è lungo (alcuni nostri umanisti hanno, per esempio, splendide edizioni critiche presso la Harvard University Press ma da noi sono ignorati) e ci distoglierebbe da questo nuovo volume che merita una certa attenzione per un paio di motivi. Il primo è che contiene una sessantina di scritti totalmente inediti, il secondo è che comprende il periodo di maggior fortuna politica del «segretario fiorentino». Parliamo degli anni dal 1507 al 1510, quando Machiavelli è uomo di fiducia del gonfaloniere perpetuo Pier Soderini e quindi viene affiancato agli ambasciatori «ufficiali» spesso espressione del partito degli ottimati (gli oligarchi) per portare la vera voce del governo cittadino. Si tratti della missione alla corte di Massimiliano I d'Asburgo, per decidere se finanziare l'imperatore nella guerra che lo opponeva a Luigi XII e alla repubblica veneziana, del terzo viaggio alla corte francese dove Machiavelli si lancia in una requisitoria contro lo strapotere dei papi, o semplicemente dell'incarico per seguire l'ultima fase della guerra contro la ribelle Pisa.
Messer Niccolò fu inviato in Germania ad affiancare l'ambasciatore Francesco Vettori, esponente degli ottimati filoasburgici, per sostenere le ragioni di Pier Soderini, che invece era favorevole all'alleanza con la Francia. Quel che forse più interessa di questo viaggio alla corte imperiale, allora in Bolzano dove Massimiliano I era acquartierato per seguire la guerra contro Venezia, non è tanto l'esito politico-diplomatico quanto l'influenza che esso ebbe poi nella stesura delle opere maggiori. Machiavelli, poiché la pianura padana era bloccata, arrivò a Bolzano passando dal Piemonte, dalla Savoia e dalla Svizzera. Qui ebbe modo di notare l'organizzazione militare dell'unico popolo che viveva come «gli antiqui», con una milizia civica più efficiente degli eserciti mercenari. In Germania si rese conto di quanto fragile fosse lo Stato sovranazionale, al di là della retorica sul Sacro Romano Impero: la modernità al tempo di Machiavelli era rappresentata dallo Stato nazionale. Alcune di queste riflessioni sul campo le ritroviamo elaborate in vari capitoli del Principe e dei Discorsi. Inoltre, spiega Cutinelli, di particolare «esplicitezza e durezza» sono alcuni giudizi contro il papato e Giulio II durante la missione in Francia. «Che Dio lasci seguire quello che sia el meglio e cavi di corpo al Papa quello spirito diabolico che costoro (i Francesi) dicono li è entrato addosso», scriveva il segretario fiorentino in una lettera del 18 agosto 1510. E il 10 agosto si era augurato che i francesi tornassero ai metodi di Filippo il Bello, ai tempi dello «schiaffo di Anagni» a Bonifacio VIII.
Per comprendere la personalità del Machiavelli, uomo del fare più che teorico puro, questo volume degli scritti diplomatici contiene vere chicche. Come la confessione, non inedita ma leggibile soltanto in un'irreperibile edizione di Giuseppe Canestrini del 1857, in cui Niccolò il 16 aprile 1509 implora dal «campo» di Pisa di non essere richiamato in sede: «So che la stanza sarebbe meno pericolosa e meno faticosa: ma se io non volessi né periculo né fatica, io non sarei uscito da Firenze, sì che lascinmi vostre Signorie stare infra questi campi e travagliare tra questi Commissari delle cose che corrono, dove io potrò essere buono a qualcosa, perché io non sarei quivi buono a nulla e morre' disperato». È davvero una bella confessione per un grande scrittore diventato grazie alle opere scritte dopo la «cacciata» il fondatore della scienza politica moderna.

Corriere della Sera 7.11.11
Trappole e scherzi (anche osceni) nelle lettere inedite
di D. M.


I dispacci diplomatici che Machiavelli mandava alla Cancelleria fiorentina erano spesso firmati con il nome del primo ambasciatore (Francesco Vettori per le corrispondenze dalla Germania) ed erano
per lo più cifrati. A volte, spiega Cutinelli Rendina, i messaggi erano in chiaro perché fossero intercettati dai nemici. Altre volte erano mandati al solo scopo di gettare fumo negli occhi delle cancellerie straniere. Machiavelli componeva delle lettere senza avere nulla da dire di sostanziale. Questo tipo di messaggi cominciava in chiaro con una frase del tipo «l'ultima mia fu a dì del XVII del presente», poi proseguivano in codice con l'ammissione che non c'erano novità, quindi la pagina era riempita di lettere cifrate senza senso.
Così i decrittatori dell'Ottocento, analizzando questo tipo di missive, si erano sempre fermati alle prime righe. Emanuele Cutinelli Rendina e Denis Fachard in queste «lettere che non dicono nulla» hanno invece trovato un piccolo tesoro di battute, lazzi, divertimenti, ad uso dei colleghi della Cancelleria. Ecco qualche esempio che conferma la vocazione di Machiavelli per il comico, come dimostra tutta la successiva produzione teatrale,
a cominciare dalla Mandragola e la vera
e propria passione per l'osceno, come
ci dicono alcune lettere arcinote del segretario fiorentino, a cominciare da quella dell'incontro con una prostituta a Verona. «Questa è una cazzelleria: che menato sia la fava a chi crede che in questo mondo sia virtù veruna» scrive con divertito cinismo Niccolò nella lettera già citata dalla Germania. E in una successiva, rivolgendosi probabilmente a un collega, annota: «Ser Giovanni de' Poppi è uno zugo». Parola che si trova anche nella Mandragola e che significa stupido, fesso. Decisamente osceno è poi un brano in cui Machiavelli descrive certi attributi germanici: «Io vi dico
ed io credo in ogni modo per uno che doverebbe congetturare la impossibilità della natura che fa le maggiori cose
in questi paesi che in alcuno altro
del mondo. È ci sono certi rubaldoni (ribaldi, ndr) grande come asini che hanno cazzi come io la coscia che vanno infilzando queste povere fantesche, talmente che vostre Signorie si meraviglierebbero
ed appena chi non li tocca con mano lo crederebbe». Firmato Francesco Vettori, scritto da Niccolò Machiavelli. (d. m.)

Corriere della Sera 7.11.11
Cantine, dacie e spie Fantasmi comunisti per le strade di Mosca
Dal palazzo del Kgb al rifugio di Stalin
di Armando Torno


MOSCA — Accanto al Cistye Prudy, il Lago Pulito, c'è la casa di Abakumov, capo della temibile Smersh — acronimo di «Smert Shpionam», ovvero «Morte alle spie» — che venne fucilato gli ultimi giorni del 1954. La zona, però, è amena e sembra concepita per i sospiri dei fidanzatini; quando è sole, se non gela, diventa luogo di appuntamenti. Non distante si scorge il teatro Sovremennik, il Contemporaneo, dove l'avanguardia al tempo di Kruscev rappresentò opere marxiste destalinizzate e, dopo il crollo dell'Urss, drammi visceralmente anticomunisti. Qui incontriamo Anton Antonov, autore di Prospettiva Lenin. Dopo l'edizione italiana uscita da Feltrinelli il suo libro, tradotto in russo, è il successo di questi mesi.
Le storie incrociate di Ivan e Salvatore, con le quali ammicca e celia Antonov nell'opera, ci portano a visitare alcuni luoghi del vecchio potere comunista per tentare un confronto con le destinazioni di oggi. Il primo appuntamento non poteva che essere la casa di Abakumov, definita dai sovietici doc — per l'esagerato lusso in essa accumulato — «Luogo delle torture». Diventò sinonimo di ricchezza, vergogna, iattanza e, per l'etica dell'Urss, tormento delle coscienze. Qualcuno, come lo stesso Abakumov, nelle cantine subì le fantasie dei carnefici, ma tali crudeltà si consumarono dopo lo scoppio dello scandalo. Sino all'arresto del padrone di casa essa rappresentava la tortura delle coscienze dei compagni causata dallo sfarzo. Cosa accadde tra queste mura?
Diremo innanzitutto che la dimora fu, prima di essere espropriata all'inizio degli anni Trenta da Abakumov, una komunalka, ovvero in essa vivevano diciotto famiglie con camere separate e servizi in comune. Poi piacque all'influente uomo del controspionaggio e, in pochissimo tempo, gli inquilini furono cacciati e lui se ne appropriò, trasformandola in una residenza esclusiva.
Il suo potere crebbe dopo i fatti del 6 novembre 1931, quando un tale Ogarev, già ufficiale bianco e poi agente segreto dell'Intelligence britannica, cercò di uccidere Stalin. Lo attese alcuni giorni sulla centralissima via Iljinka, che porta dal Politburo al Cremlino, e quando lo vide voltare l'angolo mise mano alla pistola. Viktor Abakumov, giovane ufficiale dei servizi segreti, spinse con forza l'attentatore e riuscì a salvare il Piccolo Padre. Da quel momento diventò un eroe in carne e ossa; poi, soffocato dal successo, perse la testa. In quella casa sperperò oltre un milione di rubli pubblici per renderla insuperabile. Ma dopo la guerra i mormorii non gli concessero tregua: nel 1951 fu arrestato, subì tre anni di processo, ai quali seguì la condanna. La magione tornò allo Stato e, sino alla fine dell'Urss, ospitò capi dei servizi segreti dei Paesi fratelli. Oggi vi accoglie un portiere in divisa, cordiale, rubicondo. Nel cortile sono posteggiate macchine di alta cilindrata. Oligarchi, servizi, altro? La risposta: «Uffici». Di certo lusso e «torture» sono ricordi. Comunque, qui si lavora e le lampade al neon che si vedono dal cortile testimoniano il cambiamento.
Antonov, poi, ci invita in una stradina accanto al giardino di Abakumov e, dopo un pertugio tra alberi secolari, ci mostra l'anonimo palazzo della Dezinformatsija. In esso non si entrava mai dalla porta principale, ma sempre da una delle tante di servizio. Era il luogo dove si costruivano testi, poi firmati da giornalisti occidentali amici e ben retribuiti, per influenzare l'opinione pubblica straniera. Il lavoro era svolto da diversi settori: accordi commerciali, economia, politica, cultura eccetera. Il suo fine, a differenza della propaganda comunista o di agenzie come la Tass, consisteva nel combattere la disinformazione capitalista facendo circolare le verità del Cremlino. Questa casa «normale» ebbe un ruolo notevole dagli anni Trenta al tempo della Guerra fredda. Oggi? È ancora grigia, con nuove finestre (di plastica), mancante di pezzi di intonaco. C'è ancora qualcuno che entra furtivamente, occhieggiando intorno. «Scusi, chi abita qui?», chiediamo a un signore che ha premuto un campanello lontano dai citofoni. «Impiegati e operai», è la rassicurante risposta.
Dopo una trentina di minuti, sfidando il traffico caotico di Mosca, si arriva alla Lubjanka. Al tempo degli zar qui c'era una piazza dove si vendevano libri e stampe (forse da «Lubok», incisione su legno), ma dal 1918 il luogo è diventato quello leggendario dei servizi segreti. Certo, c'era una volta anche la casa di Majakovskij, ma è stata inghiottita dagli edifici prima dell'Nkvd, poi dell'Mgb, quindi del Kgb e infine dell'Fsb, tutte sigle che indicano la medesima cosa. Si narra che qui abbia passeggiato non poco Ian Fleming prima di dar vita a James Bond, l'agente segreto che in codice divenne il celebre 007 (numero che fu il prefisso telefonico dell'Urss e ora lo è della Russia). Antonov ricorda che il suo Ivan, brillante agente del Kgb, in questo possente edificio lasciò molti sogni. Ai quali c'è ben poco da aggiungere: qui c'erano servizi segreti e qui ci sono servizi segreti. Anche se ora è possibile camminare nella zona — non è il caso di farlo davanti al portone principale della Lubjanka — senza essere subito fermati. Qualche occhio vi osserva sempre ma, come si suol dire, discretamente.
Per mostrare invece un certo cambiamento occorre recarsi al palazzo che fu del Politburo. Ex banca dell'impero zarista, poi centro politico del comunismo sovietico, ora ospita gli uffici del presidente della Federazione russa. Stanno recintando il luogo, forse per scoraggiare i curiosi. Il mito dell'Urss vi aleggia: si decisero, tra l'altro, l'invasione dell'Ungheria, della Cecoslovacchia e dell'Afghanistan; oggi si sbrigano pratiche. Stalin e Lenin, Kruscev e Breznev, Andropov e Gorbaciov sono stati sostituiti da grigi burocrati, noiosi come le loro liturgie. E i giardini che stanno davanti, un tempo blindati dalla polizia, ora sono diventati il ritrovo degli omosessuali di Mosca. È successo a questo palazzo il contrario di quanto è capitato alla cattedrale di Cristo Redentore: dopo che nel 1934 Lazar Kaganovich ordinò di farla esplodere con la dinamite, si costruì al suo posto una piscina scoperta con acqua calda. La colonna di fumo che si elevava nei mesi freddi cessò al tempo di Eltsin, quando la più grande chiesa di Russia fu ricostruita (senza i marmi pregiati degli zar). Ora è la sede del patriarca di Mosca. Antonov osserva lo scranno dove si siede «sua beatitudine» e sussurra: «Oggi il potere, abbandonato il Politburo, prega e trova requie sopra o attorno a questo sedile rosso».
Chiudiamo l'itinerario recandoci alla dacia di Kuntsevo-Volynskoe, nella quale Stalin morì, dove sovente dormiva e in cui ricevette non pochi capi comunisti (Togliatti la conosceva, anche Mao). Rinunciamo a soffermarci in quella di Kruscev — non fu un vero centro di potere e il segretario silurato vi trascorse la quiescenza — perché si trova in completa rovina e solo a vederla si stringe il cuore. L'ultima dimora del Piccolo Padre, invece, è viva, rutilante. Dista una ventina di chilometri dal Cremlino e ormai si confonde con la periferia di Mosca. Palazzi diseguali e arroganti la stringono; in uno di essi si vendono appartamenti con la scritta: «Dacia di Stalin». L'edificio, perfettamente conservato, si trova nell'ultimo bosco rimasto, protetto da un recinto verde con il filo spinato. Un cartello segnala una scuola militare e alla porta d'ingresso vi bloccano, intimandovi di non scattare foto. Occorrono permessi, giorni di attesa. Non c'è gentilezza. Poi qualcosa riusciamo a raccogliere e a fare. Forse perché la sentinella non sa rispondere alla nostra domanda in russo sgangherato: «Ma è vero che Stalin cantava i Salmi mentre viaggiava in auto per raggiungere questa dacia?».

Repubblica 7.11.11
Il bancomat delle preghiere
di Andrea Tarquini

Senti il bisogno di pregare, ma sei solo e magari hai dimenticato le preghiere? La tecnologia in nome della fede ti soccorre. L´idea debutta nelle laicissime Berlino e Francoforte. Si chiama Gebetomat (macchina automatica per le preghiere). Quasi un "Bancomat" del Padre Nostro, aperto a ogni religione. Sembra una macchina automatica per le foto, entri, ti siedi, chiudi la tendina. Sullo schermo scegli prima tra le religioni - cioè cristiani di varie confessioni, musulmani, ebrei, buddisti, induisti, o altre. Poi la lingua, poi tutte le preghiere disponibili, dal Padre Nostro in lèttone a inni dei sufi fino a lodi di Krishna. Almeno 300 preghiere in 65 lingue, scelta ampliabile grazie all´elettronica. Oliver Sturm, l´inventore del bancomat della fede, si è fatto aiutare da avventisti del Ghana residenti qui, dalle moschee del quartiere turco di Neukoelln, dai musei etnologici per l´invocazione degli spiriti dei Mari del Sud. Nella Germania del Papa, in cui la Chiesa cattolica è colpita da una grave crisi di vocazioni, chi sa in quanti la macchina delle preghiere, impersonale ma pratica, risveglierà quale fede.

Repubblica 7.11.11
Brainstorming
Contrordine colleghi pensare da soli funziona meglio
di Angelo Aquaro


Sessant´anni dopo il libro che la teorizzava, uno studio americano rivela che la riunione di gruppo è un flop Il confronto collettivo costa ed è inefficace. Molto meglio ragionare individualmente. È la fine di un mito

NEW YORK. Che qualcosa non tornasse doveva averlo sospettato il suo stesso creatore. Alex Faickney Osborn ci mise 14 anni a trasferire dalla pratica alla teoria la tecnica del brainstorming: un tempo un po´ troppo lungo per partorire un´idea - e per giunta di gruppo. La sentenza arriva ora a quasi 60 anni dal suo libro "Applied Imagination", 1953: il brainstorming non funziona. La condanna è emessa da due scienziati dell´università del Texas: che sono riusciti a dimostrare come le soluzioni migliori sono quelle partorite singolarmente. Mettere insieme un gruppo di creativi a "scatenare i propri cervelli" - questa la traduzione letterale di brainstorming - non solo costa tempo: è molto meno efficace.
La conclusione dei professori Nicholas Khon e Steven Smith - applaudita dalla British Psicology Society - viene rilanciata con un pizzico di soddisfazione dal blog "Sulla Leadership" del Washington Post. Chi non si è mai trovato coinvolto in qualche estenuante riunione sotto lo sguardo supplicante ma severo del capo di turno che apre il dibattito con quella minacciosa promessa: «Non si esce da questa stanza se non troviamo la soluzione»? I due texani hanno finalmente dimostrato che queste estenuanti riunioni servono a poco. Quando gli studenti coinvolti nell´esperimento sono stati lasciati a lavorare da soli hanno prodotto meglio che in gruppo. E meno input - cioè possibili soluzioni - venivano suggeriti e più velocemente si arrivava alla risoluzione effettiva. Il brainstorming insomma non funzionerebbe per colpa di quel fenomeno che gli studiosi hanno etichettato come "fissazione della conoscenza". Se ai membri di un gruppo di lavoro vengono esposte delle idee, questi tendono a concentrarsi su quelle. Bloccando la ricerca di soluzioni potenzialmente migliori: che non vengono più espresse.
Per la verità alcuni limiti erano noti già al suo inventore. Osborn elencò quattro regole base. La prima: focalizzarsi sulla quantità invece che sulle qualità delle idee in base al principio che "quantità produce qualità". La seconda: stimolare le idee più inusuali perché le soluzioni più creative sono spesso più efficaci. La terza: combinare le singole idee in una complessiva che ne colga e amplifichi la portata, secondo l´ottimistico principio per cui "uno più uno fa tre". Ma era soprattutto la quarta regola a stargli più a cuore: non criticate. Perché un brainstorming funzioni davvero ognuno deve sentirsi libero di esprimersi: mentre spesso in questo tipo di riunioni c´è sempre qualcuno pronto ad alzare il ditino e a bocciare la sparata di turno.
Insomma sembra quasi che il povero Osborn - un giornalista fallito, licenziato dal Buffalo Express per scarso rendimento, riciclato con successo nella pubblicità - avesse lui stesso previsto quella "cognitive fixation" che gli rimproverano mezzo secolo dopo i due psicologi. Forse un po´ troppo severi. In fondo il vero problema del brainstorming, si sa, non è tanto che la "tempesta di cervelli" non funzioni: è che troppo spesso scarseggia la materia prima.

Repubblica 7.11.11
Ecco la "fabbrica di neuroni" dalle staminali un cervello nuovo
Entro tre anni si potrebbero avere i primi test clinici su pazienti umani
di Giuliano Aluffi


Su "Nature" l’ultima scoperta: così le cellule embrionali sostituiscono quelle distrutte dal morbo di Parkinson I test sulle scimmie sono incoraggianti, nel giro di pochi mesi gli animali hanno recuperato l´attività motoria

Ostacolate in Europa, in America curano il Parkinson: nuovo successo sperimentale per le staminali embrionali. Oggi non è più un sogno, almeno per quanto riguarda topi e scimmie, ma la speranza per l´uomo è molto concreta grazie ad un innovativo processo che Lorenz Studer del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York ha appena pubblicato su Nature.
«Finora tutti i neuroni prodotti da staminali per rimpiazzare i neuroni dopaminergici che, morendo, provocano il Parkinson, non funzionavano una volta trapiantati su modelli animali. Il nostro studio risolve questo problema: abbiamo scoperto che una molecola, detta CHIR99021, attiva un segnale specifico, detto WNT, che fa sì che i neuroni sviluppati dalle staminali siano perfettamente funzionanti anche dopo il trapianto nel cervello» spiega Studer. «Abbiamo capito l´importanza del segnale WNT riproducendo in provetta tutti i segnali che i neuroni ricevono durante il normale sviluppo embrionale».
È come aggiungere cartelli segnaletici per facilitare un percorso stradale: in questo caso il "cartello" che guida le embrionali è la molecola CHIR99021. Così nessuna cellula può "perdersi per strada". Nella sperimentazione precedente, succedeva spesso che dopo il trapianto nel cervello non tutte le staminali si specializzassero in neuroni: quelle residue continuavano a proliferare senza freni. «La nostra tecnica si differenzia da ogni tentativo passato perché i neuroni non si formano dai precursori neurali altamente proliferativi che si usavano una volta (cellule staminali a metà percorso, per così dire). Noi li otteniamo da cellule staminali arrivate ad uno stadio in cui non proliferano più» sottolinea Studer.
Le ricadute positive della scoperta vanno oltre il solo Parkinson: il nuovo processo per trasformare le staminali in neuroni sarà – con ogni probabilità – applicabile anche ad altre malattie neurodegenerative, come la corea di Huntington, dove sono i neuroni striatali a venire distrutti. Per ricrearli in provetta si stanno già studiando – presso il laboratorio di biologia delle cellule staminali dell´Università di Milano – molecole candidate per riprodurre in vitro lo sviluppo naturale di questo tipo specifico di neuroni. «E non solo: studiare lo sviluppo naturale delle cellule per progettare strategie di riconversione delle staminali potrà essere utile anche per ottenere cellule sanguigne: fino ad oggi i globuli ottenuti dalle staminali non funzionano bene una volta inseriti nell´organismo» aggiunge Studer.
Quando si passerà alla fase clinica? «Il prossimo passo è assicurarci che anche sul lungo termine i neuroni trapiantati funzionino bene e non diano luogo ad effetti collaterali. Per ora si è visto che fino a 5 mesi dopo il trapianto topi e scimmie non mostrano più i sintomi del Parkinson, ma una durata ancora più indicativa è un anno completo. Se tutto procede secondo le previsioni, dovremmo avere una banca di cellule usabili in test clinici su pazienti umani entro 3 anni. Le cellule possono essere inserite nel cervello con un intervento neurochirurgico. Una volta trapiantate prediciamo che sapranno adattarsi al meglio e capire cosa fare» auspica Studer. «Il problema principale, quello biologico, è risolto: i neuroni sopravvivono e funzionano. Rimane ora il problema ingegneristico: come produrre le cellule nella giusta scala e nel giusto formato».
Determinante per il successo di Studer è stata la ricerca sulle staminali embrionali, che in alcuni Paesi, tra cui il nostro, pur essendo riconosciuta come legale è spesso esclusa dai bandi pubblici, come quello del ministero della Salute contro cui Elena Cattaneo insieme ad Elisabetta Cerbai e Silvia Garagna hanno fatto ricorso nel 2009 ritenendo l´esclusione immotivata.

Repubblica 7.11.11
La ricercatrice Elena Cattaneo critica il verdetto della Corte europea
"Un risultato davvero straordinario ma senza brevetto niente terapia"


Elena Cattaneo dirige il laboratorio di biologia delle cellule staminali dell´Università di Milano e coordina il consorzio europeo NeuroStemcell, che finanzia anche il laboratorio Usa di Studer.
Come giudica la scoperta?
«È il migliore risultato anti Parkinson mai raggiunto dalla ricerca sulle staminali. Le cellule neuronali ricavate in passato dalle staminali embrionali avevano qualche caratteristica dei neuroni del Parkinson, ma non la "carta d´identità" completa dei neuroni veri e propri: la loro sopravvivenza dopo trapianto era bassa e a volte accompagnata da crescite simil-tumorali»
Cosa ci dice questo risultato sullo stato della ricerca sulle staminali?
«Che le embrionali sono le uniche staminali utili a generare questi neuroni. Qualsiasi altra cellula staminale non ha mai risposto ai trattamenti di questo tipo. E questo acuisce un paradosso. Il recente verdetto della Corte di giustizia europea nega la possibilità di brevettare i risultati del lavoro su queste cellule».
Perché ritenete i brevetti indispensabili?
«Sono l´unico modo che la ricerca ha per attirare l´industria farmaceutica ad investire. Nessun laboratorio universitario potrà mai portare quella scoperta a livello clinico. I brevetti in questo caso non sono una forma di arricchimento personale, ma sociale».
(g. aluf.)

l’Unità 7.11.11
Dove sono finiti i nostri antenati?
Tutti a Burgos
La città castigliana in bilico tra passato e futuro con i suoi monumenti gotici e il modernissimo Museo dell’evoluzione umana che conserva
i fossili di una nuova specie, l’«Homo antecessor», scoperta ad Atapuerca
di Francesca De Sanctis

qui

Repubblica 7.11.11
Quell’aggiunta all’articolo 21
Nella Costituzione l’accesso in rete un diritto per tutti
di Stefano Rodotà


La proposta è stata appoggiata dalla rivista Wired. Ma soprattutto firmata da 28 senatoriche l´hanno trasformata in un disegno di legge
Le "primavere arabe" hanno prodotto richieste corali di diritti su internet Punti fondamentalirestano la neutralità,la parità, la censura

Si può ben dire che l´accesso è la premessa ineludibile d´ogni riflessione sui diritti in rete. Bisogna, allora, definire in che cosa consista, accompagnarlo con garanzie adeguate, dunque facendo di esso un diritto per certi versi fondativo di tutti gli altri. Riflettendo su questo tema, proprio un anno fa, nell´edizione precedente dell´Igf Italia, ho avanzato la proposta di una costituzionalizzazione del diritto di accesso, accompagnando all´attuale articolo 21 della Costituzione un articolo 21bis così formulato: "Tutti hanno diritto di accedere alla rete Internet in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico sociale".
La proposta ha ricevuto attenzione anche fuori d´Italia, ha suscitato una discussione anche critica, che ha beneficamente reso possibile una riflessione più approfondita. Proprio questa discussione mi ha convinto dell´inopportunità di intervenire sulla Costituzione con un articolo aggiuntivo, e della maggior correttezza ed efficacia della considerazione di quella proposta come un emendamento da collocare dopo il primo comma dell´attuale articolo 21, della cui logica si presenterebbe così come un coerente svolgimento. La proposta, comunque, è stata oggetto di attenzione da parte della rivista Wired, che ha sollecitato i lettori ad aderire ad essa. E, soprattutto, è stata raccolta da ventotto senatori che, primo firmatario Roberto Di Giovan Paolo, l´hanno trasformata in un disegno di legge costituzionale.
Accanto a questa cronaca, vale la pena di sottolineare vicende di carattere più generale che hanno confermato l´opportunità, direi ormai la necessità, dell´iniziativa, se non altro per avviare una discussione pubblica su un tema che la forza delle cose ha mostrato essere ormai ineludibile. È significativo che le "primavere arabe" abbiano prodotto appunto una richiesta corale di diritti su internet, primo tra tutti quello di accesso, poiché proprio a questo mezzo, insieme ad altri strumenti di comunicazione, è stato attribuito, pur con qualche forzatura, un ruolo determinante nel fare della partecipazione politica dei cittadini la via maestra per la caduta di regimi autoritari.
Il riconoscimento dell´accesso a internet come diritto fondamentale della persona, infatti, risponde ad almeno tre esigenze, rese esplicite già nel momento in cui la proposta venne presentata e confermate da una serie di vicende successive. Si rafforza, in primo luogo, il principio di neutralità della rete, violando il quale verrebbe anche negata l´eguaglianza tra le persone, che la proposta mette al centro dell´attenzione con un palese rinvio all´articolo 3 della Costituzione e alle parole che lì si ritrovano. La rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, infatti, è stata prevista per ribadire una responsabilità pubblica nel garantire quella che deve ormai essere considerata una precondizione della cittadinanza, dunque della stessa democrazia. Inoltre, l´esplicito riferimento all´accesso in condizioni di parità e con modalità tecnologicamente adeguate si presenta come una indicazione per impedire, ad esempio, che la banda larga venga messa a disposizione degli utenti con modalità selettive, introducendo così un ben più drammatico digital divide, che muterebbe il carattere stesso della società, dominata in uno dei suoi snodi fondamentali da logiche discriminatorie e gerarchizzanti.
La considerazione come diritto fondamentale, inoltre, mette in evidenza la funzione strumentale dell´accesso. Non un semplice ingresso tecnologico alla rete, ma ai suoi contenuti, alla conoscenza in rete, di cui deve essere garantito in via di principio il carattere di bene comune. Altrimenti, se l´accesso apre la strada soprattutto a contenuti a pagamento, in sé considerato rischia di divenire una chiave che apre una stanza vuota.
Vi è, infine, il tema capitale della censura, sempre attuale, come dimostrano gli interventi repressivi, oltre che nei tradizionali paesi autoritari, proprio nei luoghi delle "primavere arabe" (e il nostro paese è stato lambito da questa deriva, con le proposte censorie di blog e siti infilate in provvedimenti economici). La garanzia offerta da un diritto fondamentale può, in questi casi, rivelarsi decisiva.

Repubblica 7.11.11
Il sociologo Alain Touraine
"È venuta meno l´idea di una legge assoluta"


"Le regole sono uguali e comuni Ma va rispettata la differenza. Ciascun ha la propria storia
"L´unico assunto è che ognuno deve vedere riconosciuti i propri diritti fondamentali"
"I nostri principi sono in perenne trasformazione" dice il sociologo francese. "Siamo in un mondo secolarizzato, fondato su scienza e tecnica"

MILANO. Nella ricerca dell´autorità perduta ci stiamo facendo guidare dall´autorevolezza dei nostri compagni di viaggio. Che sarà anche difficile da definire, ma è immediatamente percepibile, quando ad esempio ti trovi vis-à-vis con Alain Touraine, stella di prima grandezza della sociologia contemporanea, un imponente ottuagenario con due bellissimi occhi azzurri e un volto grifagno, vagamente beckettiano.
«Mi lasci dire: parlare di scomparsa dell´autorità, sic et simpliciter, è molto vago e confuso. È invece molto più chiaro e preciso dire che è scomparsa quell´autorità, esercitata nelle scuole o nei tribunali, nelle imprese o nella vita politica, sulla base di una legge assoluta. Di natura religiosa. Quella legge, che si conforma alla parola di Dio o alla legge naturale intesa come prolungamento della religione, non funziona più. Dunque sono le basi trascendenti dell´autorità a non fare più presa. E questo per la semplicissima ragione che viviamo in un mondo che non è più governato da principi assoluti, ma mobili, in trasformazione: come avviene nella scienza, nella tecnologia, nella comunicazione».
Però ogni autorità, per essere tale, ha bisogno di un suo fondamento.
«Ci arrivo subito. Vivendo in un mondo retto dai principi della secolarizzazione, della razionalizazione, della laicizzazione, i fondamenti non positivi dell´autorità e del potere sono in via di sparizione. E ciò che resta sul fronte del diritto naturale è piuttosto vago. Potremmo dire che con l´ingresso nella modernità il novanta per cento dell´esperienza umana è legato alle invenzioni umane, mentre solo il restante dieci per cento discende dalla natura. Ed è esattamente per questo che il ritorno ad un´autorità tradizionale non ha alcun senso. Con ciò non sottovaluto affatto l´influenza religiosa. Semplicemente osservo che siamo calati irreversibilmente in un mondo secolarizzato, fondato sulla scienza e la tecnica. E, almeno in una certa misura, sulla pluralità delle culture. Dunque, sull´impossibilità di regole morali, e prima ancora religiose, valide per tutti. I cattolici la pensano in un modo, i protestanti in un altro, i musulmani in un altro ancora. Quindi, togliamo di mezzo il primo equivoco: la nostalgia per un surplus di autorità, o peggio di repressione».
Ma autorità non è sinonimo di autoritarismo.
«Certo, però è pur vero che nell´idea tradizionale c´è sempre un fondamento trascendente: di ordine politico, religioso. O di filosofia della storia, come nel caso del progresso predicato in epoca sovietica».
Restano però le lacune crescenti dell´autorità secolarizzata e democratica. Basterebbe osservare la politica.
«Forse non li applichiamo con la necessaria costanza, ma noi disponiamo di due principi fondamentali. Il primo è la scienza, la ragione: non si può dire che un litro d´acqua pesa cinquanta grammi. Non lo si può dire, perché non è vero. E il principio razionale e scientifico ha immediate ricadute sulla moralità e sulla politica: pensi alla questione della razza, di cui non ha neppure più senso parlare visto che non ha una base scientifica. Il secondo, e ancor più importante principio che abbiamo ereditato al medesimo tempo dal cristianesimo e dal secolo dei lumi, è quello dei diritti fondamentali dell´uomo. Questo è l´unico, vero fondamento dell´autorità moderna. Ciascuno ha il diritto di essere un individuo riconosciuto come tale, al pari di tutti gli altri. E nelle situazioni politiche, economiche, sociali ed educative date, beneficia al medesimo tempo di diritti assieme individuali e collettivi. L´autorità, pertanto, non discende più dall´alto, ma matura in basso, in ogni individuo».
Proviamo a vedere, in questo schema, come si concretizza l´esercizio dell´autorità da parte di un magistrato, un insegnante, un padre di famiglia.
«L´autorità di ciascuna di queste figure si legherà alla sua capacità di combinare leggi, codici e norme, con i diritti individuali. Nel mondo del lavoro, ad esempio, consisterà nel combinare le regole generali dell´organizzazione con le condizioni di accettabilità che queste regole hanno per chi, individualmente, le deve poi mettere in atto. Oppure, venendo alla scuola: un insegnante risulterà autorevole nella misura in cui riuscirà a ottenere con la persuasione il rispetto delle regole anche da parte di chi si dimostra refrattario».
Il caso della scuola è uno di quelli che più frequentemente vengono portati ad esempio da chi lamenta una crisi dell´autorità.
«È noto che la riuscita scolare ha molto a che fare con l´origine sociale. Ma alcune ricerche sociologiche hanno mostrato che è ancora più importante la qualità della relazione insegnante- allievo. Diciamo che l´origine sociale influisce per il trenta per cento, l´altro settanta rimanda a quella relazione. A mio avviso un buon insegnante è quello che riesce a rapportarsi sia alla classe, intesa come gruppo, quanto alla somma dei singoli casi individuali. Mentre un cattivo insegnante è quello che si preoccupa soltanto della propria disciplina: sono un professore di storia, di chimica o di fisica. Punto e basta. Già, ma quelle diverse discipline vanno insegnate in condizioni date. Insegnare una certa materia a un ragazzo immigrato che non padroneggia bene la lingua del paese di accoglienza, implica un riconoscimento del suo caso specifico, a meno che non lo si voglia ritrovare, vent´anni dopo, in un ospedale psichiatrico. Questo è un caso tipico in cui si affacciano sia la differenza tra le culture quanto il tema dei diritti universali. Il buon insegnante, l´insegnante autorevole, deve essere capace di compiere questo piccolo miracolo: le regole sono uguali e comuni, ma va rispettata la differenza, perché ciascuno ha la propria storia».
Un altro problema legato alla scomparsa della vecchia autorità è il rapporto con il passato: sempre più labile, sempre più flebile.
«Di formazione sono uno storico e dunque capisce da sé quanto io sia sensibile alla questione. Mi piange il cuore quando vedo persone che non sanno se sia venuto prima Napoleone o Giovanna d´Arco. Si potrebbe dire che oggi alla storia si è sostituita la geografia. Si ignora sempre di più il passato, mentre grazie ad internet e a spostamenti sempre più frequenti, si ha una diversa dimestichezza con quanto accade su scala planetaria».
Il passato, però, non è soltanto storia pubblica: è anche storia privata.
«E qui le cose vanno meglio di quanto si pensi. Ad esempio se paragoniamo l´Europa agli Stati Uniti. C´è un test quanto mai semplice: la vitalità dei nostri cimiteri, il rapporto con i nostri morti. Magari ci sarà un sottofondo animista, ma è comunque indicativo di relazioni forti, di legami profondi. Bisognerebbe semmai ragionare su come mai il legame tra passato a futuro sia molto più intenso sul piano privato rispetto a quello pubblico».
La tendenza che lei vede è verso l´interiorizzazione dell´autorità?
«Tutto ciò che interiorizza l´autorità è positivo, tutto ciò che la esteriorizza è condannabile. Un individuo che non riconosca alcuna autorità è totalmente disorientato, incapace di distinguere il bene dal male. Ma come affermava proprio la Arendt, ciò che definisce l´essere umano è il diritto di avere diritti. E questo corrisponde, per l´appunto, all´assoluta interiorizzazione dell´autorità».

Corriere della Sera 7.11.11
Dalle pillole all'infuso di oleandro Le mille ricette dell'odio di coppia
di Donato Carrisi


L'arma prescelta è un succo di mela, perché il colore del frutto celi quello della benzina verde con cui lo ha allungato. Prepara il veleno con gesti da brava massaia, a un tavolino del bar dell'ospedale di Locri, circondata da avventori che non si accorgono di nulla. A raccontarcelo è l'occhio invisibile di una videocamera di sicurezza, che ha ripreso tutta la scena. Ma non è stato questo a salvare la vita al destinatario della miscela. Mentre il nastro custodisce una verità che rivelerà soltanto in un secondo momento, come prova schiacciante, la donna sale tranquillamente le scale del nosocomio per raggiungere la stanza in cui è ricoverato il convivente, convinta a portare a termine il proprio piano di morte.
Sembra una di quelle torbide storie di nera che, oltre ai soliti ingredienti e all'odio rancido in cui sono state cucinate, hanno in comune una qualità. Sono senza tempo. È successo solo l'altro ieri, ma potrebbe essere accaduto, per esempio, negli anni settanta, o perfino nell'ottocento. È sufficiente correggere qualche piccolo anacronismo, ma la ricetta rimane uguale.
Annunziata Iannizzi potrà così essere ribattezzata «l'avvelenatrice di Locri», e in futuro basterà il nome per evocare la sua oscura leggenda.
Ma il suo non è un caso isolato, solo quest'anno è già il terzo. A Piazza Armerina, in provincia di Enna, una casalinga ha preparato una pozione mettendo insieme medicinali raccattati per casa, per castigare il marito reo di averla ripetutamente tradita in trent'anni di matrimonio con donne sempre più giovani di lei. Per testare la mistura, la fa bere con l'inganno a un'ignara vicina di casa, scelta solo perché aveva ventisei anni. La ragazza ravvisa un retrogusto amaro e l'improvvisata fattucchiera, forse colta dal panico, fugge a confessare tutto al più vicino commissariato. La vicina, interdetta, se ne torna a casa. Poco dopo riceve la visita dei poliziotti che, pur trovandola in perfetta salute, la conducono al pronto soccorso. Sta bene.
Altra storia arriva dal Ferrarese. Un uomo è ricoverato in ospedale da alcuni giorni per una patologia che i medici pensano di poter curare. Invece, inspiegabilmente, il paziente peggiora. La moglie viene a trovarlo tutti i giorni, gli porta delle bottigliette d'acqua e si assicura che le beva. I carabinieri si fingono degenti e la incastrano. Nell'acqua la donna diluiva poche gocce di estratto di oleandro. Ma il suo scopo non era uccidere, bensì far sperimentare al consorte, che l'aveva sempre maltrattata, ciò che lei aveva provato per anni in silenzio.
Casi del genere sembrano la trama di una sit-com coniugale con battibecchi e ripicche. Poveri mariti perseguitati e casalinghe disperate che si trasformano in assassine maldestre. Vicende che potrebbero strapparci un sorriso, se non fosse per il dramma che nascondono. Silenziose violenze domestiche, vissute nell'omertà di vicini e parenti. Situazioni di sudditanza morale subite da donne che, per paura o vergogna, non sono in grado di emanciparsi da un matrimonio fallito.
In passato si affidavano ad altre donne, personaggi come Giulia Tofana o Giovanna Bonanno, che nel Seicento e nel Settecento furono messe a morte come streghe per aver fornito alle loro clienti pozioni inodori e insapori per sbarazzarsi di mariti violenti o oppressivi. In epoche in cui per un uomo la moglie valeva meno delle proprie bestie, il veleno era l'unico modo per sciogliere matrimoni altrimenti insolubili.
Ma nel caso dell'avvelenatrice di Locri manca del tutto il dramma sullo sfondo. A covare il gesto non è stato un lungo e tormentato matrimonio, un esasperante stillicidio di piccoli rancori, sedimentati nel tempo, oppure la trasmutazione di un sentimento d'amore che, giorno dopo giorno, diventa prima insofferenza poi disprezzo, avversione. Perché i protagonisti non solo non erano sposati, ma il loro menage durava da cinque miseri mesi.
Qual era allora lo scopo di questa donna? Perché tanto accanimento nel portare a termine il proposito assassino? La risposta più plausibile sarebbe legata a un interesse economico, ma per il momento non ci è dato sapere.
La morale, però, spetta a noi uomini. Le donne uccidono raramente e spesso la loro violenza è indotta da comportamenti maschili. Impariamo a trattarle meglio, perché sono anche gli assassini meno sospettabili. Per tre che falliscono, chissà quante riescono a conseguire lo scopo e a farla franca.

l’Unità 7.11.11
Chi ha ucciso i Maya? Il gap sociale
Un nuovo studio rivela che la fine della grande civiltà è dipesa non solo dai mutamenti climatici ma anche dalle diseguaglianze economiche
di Pietro Greco


Ma, infine, perché sono scomparsi i Maya? Perché alla fine del Periodo Classico tra l’anno 850 e l’anno 1.050 secondo il nostro calendario europeo una fiorente civiltà millenaria insediata nel Centro America sulle alture meridionali della penisola dello Yucatan e nelle foreste del Guatemala e del Belize, fin giù in El Salvador e nel nord del Venezuela è collassata?
Le risposte a queste domande sono state diverse, nel corso degli ultimi decenni, via, via che la nostra conoscenza sull’antico popolo è venuta aumentando. La risposta più recente e sempre più dettagliata è: a causa dei cambiamenti climatici. I Maya sono stati spazzati via, in particolare, dalla siccità. Anzi, da una «megasiccità». Come ricorda David Hodell ricercatore in forze al Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Università di Cambridge, in Gran Bretagna sull’ultimo numero della rivista Nature, i più recenti dati ci offrono una mappa dettagliata dei cambiamenti del clima nell’area occupata dai Maya tra l’VIII e il X secolo.
Nel Venezuela settentrionale si sono verificati lunghi periodi di siccità intorno agli anni 760, 810, 860 e 910. Nello Yucatan meridionale si sono verificati ben otto cicli di siccità, tra l’anno 800 e l’anno 950. Recentissime misure consentono di affermare che in quest’area c’è stata una vera e propria «megasiccità» tra gli anni 897 e 922, con due altri periodi di intensa penuria di piogge intorno agli anni 810 e 860.
Sebbene lo stesso David Hodell ritenga che nulla di conclusivo si possa affermare e che la questione va ulteriormente indagata, molti sostengono che questi cicli serrati di siccità siano la causa principale della fine dei Maya.
SOSTIENE «NATURE»
In realtà, sostiene sempre su Nature l’americano James Aimers, del Dipartimento di Antropologia della State University of New York di Geneseo, il processo che ha portato alla «fine dei Maya» è molto più complesso, si è consumato tra diversi cicli di declini e riprese in un arco di tempo più lungo e ha avuto, probabilmente, molte cause. Dai rilievi archeologici, infatti, risulta che alcuni siti tra lo Yucatan e le foreste guatemalteche sono stati abbandonati dai Maya nel corso dell’VIII secolo, ma altri molto dopo, nell’XI secolo. In alcune insediamenti i Maya sono rimasti fino al XIII secolo e ci sono evidenze di una loro presenza persino nel XVII secolo.
Il percorso della civiltà Maya è stato attraversato e, con molta probabilità, deviato dai cicli di siccità. Ma non è stato interrotto da questi cambiamenti climatici. I Maya si sono più volte adattati e più volte ripresi, anche dopo la «megasiccità».
E allora perché la civiltà dei Maya è finita? Le cause, sostiene Aimers, sono state diverse. Ai fattori climatici si sono aggiunte cause sociali. Ci sono evidenze che ad accelerare il tramonto della straordinaria civiltà dei Maya ci sono stati cambiamenti economici, che hanno portato a enormi accumuli di ricchezza da parte di pochi, alla crescita di profonde disuguaglianze sociali e, infine, a vere e proprie rivoluzioni. È l’insieme articolato di una serie di cause fisiche e sociali che probabilmente hanno portato più che alla fine improvvisa al lento sfilacciamento di una straordinaria civiltà. In altri termini, i Maya hanno saputo assorbire, adattarsi e reagire ai cambiamenti climatici e ai periodi lunghi e intensi di siccità quando hanno avuto una società forte e coesa. Ne sono stati probabilmente sopraffatti, invece, quando le loro società sono diventate fragili e hanno perso compattezza a causa di un male evidentemente insopportabile: la disuguaglianza.

Repubblica 7.11.11
Un uomo, una donna e uno psichiatra nell´ultimo romanzo dello scrittore
E Carofiglio scelse il giallo analitico
"Il silenzio dell´onda" è un libro che mescola vari generi formando un puzzle letterario. Al centro l´analisi del vuoto che prende quando si è sul crinale di un abisso
di Luciana sica


Gianrico Carofiglio ha messo da parte le malinconie, le accensioni ironiche, le allegre inquietudini dell´avvocato Guerrieri, quel personaggio che - a torto o a ragione - tutti considerano un alter ego letterario. Il suo nuovo romanzo, decisamente discontinuo, si misura con un tema più radicale e ambizioso come il vuoto che abita la vita quando è sul crinale dell´abisso. Con un titolo - Il silenzio dell´onda (Rizzoli, pagg. 300, euro 19) - che rimanda al surf, a una passione perduta e infine ritrovata, quasi un simbolo - così legato al mare - per indicare il percorso inconscio dall´insignificanza del vivere alla possibilità di rientrare poco alla volta in contatto con le emozioni, con quella gioia primitiva di stare al mondo. Un romanzo che mescola i generi e a tratti ha senz´altro del noir, in un complicato puzzle letterario che non lesina i colpi di scena: giocando d´azzardo con le definizioni, si potrebbe dire un «giallo analitico».
Un uomo, una donna, il figlio di lei e «il dottore», uno psichiatra che somiglia a un analista (ma proprio non lo è). Il protagonista è Roberto, sotto i cinquant´anni, ex cacciatore di delinquenti eppure sedotto dal mondo criminale, divorato dall´ambiguità. Perderà tutto: quel lavoro vissuto pericolosamente, la donna amata e il figlio che aspettava da lei, se stesso. Da bambino Roberto viveva in California, a otto anni faceva surf a Dana Point con il padre, un detective e però - guarda caso - anche un estorsore. «Una mattina presto bussarono alla porta di casa dei colleghi di mio padre e se lo portarono via. Era una giornata bellissima, un sabato. Ci aspettavano onde magnifiche per quella mattina. Pochi giorni dopo lui si suicidò in carcere». Sei mesi dopo la madre di Roberto si trasferisce con suo figlio in Italia. Lei non mette più piede all´estero, lui non mette più piede su una tavola da surf. Un giorno un collega lo troverà con la canna di una pistola in bocca, in bilico tra la vita e la morte. Si salva per un soffio, ma arranca senza più nessuna identità. Andrà da un «dottore» che sa dosare i farmaci e anche le parole.
Lei invece è Emma, un´ex attrice non troppo talentuosa con una vaga somiglianza con Audrey Hepburn e un´esistenza alla deriva. Ha sposato uno sceneggiatore per una gravidanza affrettata, ma lo tradisce e lui se ne va e non si fa più sentire per un paio di settimane, fino a quando non ha un incidente con un motorino e muore. Il danno è devastante, perché «hai voglia a dire che era una storia finita, hai voglia a dire che non c´è nessuna relazione tra quello che hai fatto e quello che è successo». Nel profondo c´è una voce che non lascia scampo. «Questa voce dice una cosa molto semplice, e micidiale: è colpa tua...». Anche Emma andrà dal «dottore», sperando che possa aiutarla ad «attraversare il fuoco e a sopravvivere».
Pazienti dello stesso psichiatra, un uomo e una donna si riconoscono nelle loro fragilità, provano goffamente a proteggersi dai traumi che paralizzano ogni flusso vitale. Il loro incontro è una vistosa messa in scena dell´inconscio, come anche le immagini oniriche mescolate alle miserie quotidiane, i cumuli di memorie dietro ogni ricordo, i pensieri che messi in parole cambiano di significato, le frustrazioni e i sollievi, quell´intreccio tra padri mancati e figli deprivati: tutta la pasta - questa sì davvero «analitica» - che riempie le pagine del romanzo di Gianrico Carofiglio.
C´è anche un quarto personaggio, e con un ruolo nient´affatto secondario. È poco più di un bambino il figlio introverso di Emma che - come Roberto - ha perso tragicamente il padre. Giacomo ha quasi dodici anni e nei suoi sogni bizzarri può contare su un amico di nome Scott, un cane magico che gli parla e ne argina il sentimento dell´abbandono - un po´ come la coperta di Linus, l´«oggetto transizionale» di Winnicott. Il piccolo sognatore è innamorato e quando la «sua» Ginevra sarà coinvolta in un giro di ragazzi più grandi e di abusi sessuali, sarà proprio lui a salvarla. Ma con l´aiuto decisivo di uno sbirro finalmente buono, di un eroe positivo, o anche di un adulto che soccorre un preadolescente senza padre: il suo doppio, il suo bambino interno. È così che Roberto - nell´imprevedibile danza dell´inconscio - rimedia ai danni del passato e alla fine solca di nuovo le onde su una tavola da surf, giusto per sentire che odore può avere ancora la vita.

domenica 6 novembre 2011

l’Unità 6.11.11
Il segretario del Pd lancia un patto di legislatura con i moderati per sconfiggere la destra
E promette: «Siamo qui per la ricostruzione, riporteremo l’Italia dove merita di stare»
Bersani a piazza San Giovanni
«Ridaremo dignità al Paese»
Bersani a San Giovanni rilancia il «patto di legislatura» tra progressisti e moderati e gioca la carta dell’orgoglio: «Vedo bene le operazioni in corso, ma si illude chi pensa di ridurre il primo partito a ruota di scorta»
di Simone Collini


Inizia a parlare dopo l’Inno di Mameli e chiude sventolando il Tricolore, giocando un po’ la parte del De Niro-Al Capone contro la «destra tutta chiacchiere e distintivo» e un po’ mettendo sul piatto le proposte per l’alternativa, suonando la carica ai suoi perché il difficile arriva ora e avvertendo tutti quelli che giocano a «dividere» o parlano di un Pd dalle posizioni «ondivaghe» che per quanti sforzi possano fare non riusciranno a relegare il primo partito italiano al ruolo di semplice «ruota di scorta». Pier Luigi Bersani chiude la manifestazione del Pd facendo vedere da San Giovanni la «forza enorme» di cui dispone il suo partito.
Forza programmatica e anche organizzativa, perché riempire da soli questa piazza non è impresa in cui si siano cimentati molti partiti. Ma forza soprattutto in termini di capitale umano e di patrimonio valoriale, perché poi basta fare qualche chiacchierata qua e là per capire che le migliaia di persone stipate davanti alla Basilica non sono “truppe cammellate”, e poi basta far caso a quali siano i passaggi del discorso di Bersani più applauditi per rendersi conto che tra gruppo dirigente del Pd e base elettorale ci sia piena sintonia sulla necessità di assumersi precise «responsabilità» in questa complicata fase di crisi, lavorando per ottenere maggiore «equità», per garantire una vera «uguaglianza», per far «pagare» chi fin qui ha escogitato metodi per non farlo, per «creare lavoro e non facilitare i licenziamenti».
Per far sì è il senso del discorso di Bersani che la piazza dimostra con gli applausi di apprezzare che dalla crisi si esca avendo come faro valori fin qui giudicati superati o di ostacolo a crescita e sviluppo, quando invece la «verità, che finalmente deve darsi la mano con la fiducia» è tutta l’opposto.
Per Bersani la manifestazione di San Giovanni è il primo passo verso la «ricostruzione» sulle macerie del berlusconismo. «La nostra promessa è che riporteremo l’Italia là dove deve stare, riporteremo l’Italia alla sua dignità, al suo buon nome, alla vocazione europeista che fu di Spinelli, di De gasperi, di Prodi».
Dell’attuale governo ne parla quasi al passato, anche se sa che la battaglia in Parlamento è ancora tutta da giocare. «Prima di tutto c’è una vecchia pratica da sbrigare dice Berlusconi deve andare a casa, e o ci va da solo o ce lo manderemo noi, o in Parlamento o alle elezioni». E anche quando ne parla, è per marcare la differenza con quel che è e quel che dovrà essere: «L’Italia è un grande Paese e ha un popolo che ha sempre avuto la forza di rialzarsi e partire. Anche per questo tra le cose che ci indignano di più è vedere il nostro Paese sbeffeggiato, vedere che all’estero dell’Italia si ride. Non era mai accaduto e non lasceremo che accadrà mai più». Perché poi è il futuro ciò che interessa a Bersani, ciò a cui sta lavorando ora.
PATTO DI LEGISLATURA
Da San Giovanni, dove sono arrivati il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, esponenti di Sel, il segretario dei Socialisti Riccardo Nencini e insomma tutte le forze che dovrebbero dar vita al Nuovo Ulivo, il leader del Pd rilancia l’alleanza tra progressisti e moderati. Nell’immediato, dà la disponibilità del suo partito a sostenere un nuovo governo, «se c’è discontinuità e cambiamento, se c’è una credibilità internazionale e interna e se si muove nel senso di un nuovo patto sociale». Ma Bersani sa bene che questo in ogni caso sarebbe «un passaggio di transizione» e che il vero cambiamento «potrà avvenire solo con il concorso attivo e l’assunzione di responsabilità e condivisione dei cittadini elettori». A quel passaggio il leader del Pd vuole arrivarci insieme alle forze di centro, alle quali propone «un patto di legislatura», avvertendo chi di dovere che la prossima volta l’alternativa sarà tra chi continua a credere nel populismo e chi invece vuole ricostruire il tessuto democratico e sociale.
IL PD NON SARÀ RUOTA DI SCORTA
Ma c’è anche un altro messaggio che Bersani lancia da San Giovanni, mentre l’applauso si alza potente. È rivolto a «chi si è illuso che Berlusconi fosse comunque preferibile al centrosinistra», a quanti oggi «perdono tempo a pensare che si possa oltrepassare Berlusconi escludendo il Pd o indebolendolo, o dividendolo»: «Vediamo bene le operazioni in corso. Vediamo la ricerca confusa di soluzioni che possano prescindere dal Pd o ridurlo a una ruota di scorta. No. Il primo partito del Paese non può essere e non sarà mai una ruota di scorta. Abbandonate questa idea, è una illusione. E’ un’idea distruttiva, non per noi ma per l’Italia». Gioca la carta dell’orgoglio, Bersani, prima di chiudere e sventolare il Tricolore con tutto il gruppo dirigente del Pd schierato accanto a lui sul palco.
E a giudicare da San Giovanni e da tutto il resto che si muove attorno sembra possa permetterselo.

Repubblica Roma 6.11.11
Bersani: "A Roma fascisti coccolati e impuniti"
È polemica sull'aggressione ai militanti pd. Alemanno: "Mobilitarsi contro la violenza"
Zingaretti accusa "È assurdo che non si trovino gli autori del raid. Tutti sanno chi sono"
di Mauro Favale


«A Roma i fascisti aggrediscono e girano coccolati e impuniti. È una vergogna che non intendiamo più tollerare». La denuncia di Pierluigi Bersani arriva dal palco di piazza San Giovanni, davanti a centinaia di migliaia di persone che applaudono. Un passaggio breve, quello che il segretario del Pd dedica nel suo discorso all´aggressione avvenuta giovedì notte a Montesacro, durante la quale 4 militanti del Pd sono stati colpiti a sprangate al grido di «uccidiamo quei comunisti», mentre stavano affiggendo alcuni manifesti. A loro, Bersani (che venerdì aveva telefonato ai quattro ragazzi), manda «un saluto affettuoso».
Quel riferimento ai «fascisti» in città, però, diventa anche la miccia per accendere una nuova polemica. Perché se da una parte, secondo i giovani del Pd bersaglio dell´agguato di tre giorni fa, il raid porta la firma di CasaPound, sui due aggettivi usati da Bersani, «coccolati e impuniti», interviene il sindaco Gianni Alemanno. «A Roma non c´è nessun estremista e nessun violento - sostiene il primo cittadino - né di destra né di sinistra, che viene coccolato». E però è un fatto che, come segnala anche il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, «l´aggressione sia rimasta finora impunita». «Trovo scandaloso - aggiunge - che tre giorni fa dei ragazzi che attaccavano manifesti siano stati picchiati rischiando la vita. È assurdo che non si riescano a trovare gli aggressori, anche se tutti sanno chi sono».
Gli aggrediti, infatti, hanno fatto anche il nome di uno degli aggressori: «Alberto Palladini, responsabile di zona di CasaPound». L´associazione di destra, però, che a Montesacro gestisce anche l´occupazione di uno stabile, ha negato da subito qualsiasi coinvolgimento. La tensione, insomma, nel IV municipio resta alta. «Mi appello a chi di dovere - aggiunge Zingaretti - affinché i responsabili dell´aggressione siano garantiti alla giustizia e che non ci sia nessuna impunità». Poi, il presidente della Provincia torna sul corteo degli studenti a Tiburtina di venerdì: «Mentre non si riesce a trovare chi picchia le persone per strada, sento che si vogliono denunciare ragazzi di 17 anni che hanno fatto i cortei. È giusto chiedere la notifica dei cortei, però non si assuma un atteggiamento che invece di spingere alla collaborazione, crea solchi tra cittadini e stato».
Alemanno, da parte sua, puntualizza: «Dobbiamo mobilitarci tutti contro ogni forma di violenza in maniera tale che, sia contro chi aggredisce esponenti del Pd che contro chi aggredisce Roma, ci sia un´unione delle forze che credono nella democrazia e nella città».

l’Unità 6.11.11
Centinaia di migliaia in piazza sin dalle prime ore del pomeriggio, da tutte le regioni d’Italia
La bandiera del cambiamento
«Da qui parte un’Italia nuova»
Un fiume di gente in piazza che ha una sola richiesta al premier: «Dimissioni». Applausi quando Roberto Vecchioni richiama all’unità e consapevolezza che stavolta si può davvero voltare pagina
di Maria Zegarelli


Eccola qui piazza San Giovanni restituita a se stessa e alla sua storia. Si riempie via via di una folla immensa, di bandiere tricolore che si incrociano con quelle del Pd, ovunque bianco rosso e verde, interrotto soltanto dal giallo delle bandiere dei giovani democratici. Uomini e donne, padri e figli, giovani e anziani, che in questo pomeriggio di cielo incerto spazzano via il ricordo delle immagini di guerriglia urbana del 15 ottobre scorso e si impongono con una pacifica ma inamovibile richiesta al Presidente del Consiglio: «Dimettiti».
Arrivano già alle undici del mattino, piccoli gruppi, i panini nello zaino, «perché sai, con il rischio di trovare tutti i ristoranti prenotati come dice Berlusconi, è meglio arrivare organizzati», ironia amara di Alessandro, sbarcato a Roma in pullman da Arezzo. Alice è seduta a terra, capelli lunghi, è qui, racconta, perché adesso «quello che conta è superare questo momento. Berlusconi deve dimettersi, siamo qui per chiedergli di andare via non per il Pd per il paese».
Dalle strade laterali confluiscono tanti mini cortei al posto di quello grande che non si è potuto fare su disposizione del sindaco di Roma Gianni Alemanno. Dall’Emilia Romagna arrivano con le bandiere con su scritto «Basta. In nome del popolo italiano». Vanno a ruba. All’una approda il gruppone cagliaritano, tutti insieme dietro ad uno striscione: «Corta, populos, est s’ora d’estirpare sos abusos: a terra su dispotismu». Poco più avanti le maschere più fotograte, Berlusconi con un cartello al collo: «Forza gnocca, cerco fiducia, pagamento in contanti». Al suo fianco Bossi: «Silvio, cambiami il pannolone». Sventolano le bandiere dei Moderati, e spiccano i camici bianchi dei farmacisti. Tiziana Menoliti parla a nome di tutti i suoi colleghi: «Siamo qui perché vogliamo che si facciano liberalizzazioni vere, quelle iniziate da Bersani e poi bloccate da 5 anni». I romani scendono in piazza in tantissimi, si mescolano ai militanti arrivati dalla Toscana, dall’Umbria, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Lombardia. Ci sono militanti Idv e Sel, sono tanti anche loro, mescolati tra i democratici, in gruppi.
Dal palco le note e le parole di Roberto Vecchioni che invita i dirigenti Pd all’unità e a smetterla con i distinguo e raccoglie ovazioni, poi l’appello per la sottoscrizione per le zone alluvionate. Ricostruire l’Italia, la politica, l’etica e il suo territorio devastato dalle piogge torrenziali e dalla mancanza di fondi per la tutela, dai condoni edilizi e dall’incuria.
Alle tre del pomeriggio la piazza è piena, la folla arriva fin laggiù, il punto dove se lo raggiungi allora sì che puoi dire che è andata bene. Lo indica Maurizio Migliavacca salendo sul palco: è la statua di San Francesco il riferimento. Superata di centinaia di metri e il fiume di bandiere continua ad affluire. Nico Stumpo, responsabile dell’organizzazione è molto più che soddisfatto. Racconta che venerdì davanti alla notizie drammatiche che arrivavano dalla Liguria ci si è chiesti come il Pd avrebbe dovuto rivedere la scaletta. «Alla fine abbiamo deciso di accorciare i tempi destinati alla musica e di dare ampio spazio alle iniziative di raccolta dei fondi per la ricostruzione delle zone alluvionate».
All’improvviso si sentono dei fischi. Che succede? Arriva Matteo Renzi. Manuela, vent’anni, commenta: «Non dice tutte cose sbagliate il Renzi, ma noi abbiamo bisogno di altro». Di cosa? «Della saggezza dei più grandi e dell’entusiasmo dei giovani».
E così tra saggezza e entusiasmo si balla sulle note di Bella Ciao e l’Inno alla Gioia, si canta ad una sola voce l’Inno di Mameli e si applaude più forte quando Bersani dice che da qui oggi parte un messaggio di fiducia e di speranza. Questa gente è stanca della rassegnazione, che pure per un certo periodo è serpeggiata nel centrosinistra, si sente già nel dopo Berlusconi e basta farsi un giro per scoprire che la domanda più ricorrente è se «è vero che sta per dimettersi». Neanche più il nome citano, non ce n’è bisogno. Matteo, arrivato dalla Sicilia dice che no, il governo di transizione non è la soluzione, Claudio gli sta affianco e gli risponde che se serve questo passaggio «per far sì che l’Europa la smetta di riderci dietro, allora a me sta bene anche un governo di transizione».
Il grande schermo sul palco, posto a lato della basilica, è un gigantesco tricolore con pannelli e luci in tono che interagisce con la piazza. Il dialogo scorre tra i tweet del canale pdnetwork, attraverso «Hastag#cinque11» ci si scrive e ci si legge tutti insieme. C’è chi sta per arrivare con il treno e manda un messaggio, chi imbuca il suo pensiero in questa bottiglia immaginaria lanciata in questo mare immenso di gente.
Fischi ad oltranza quando appaiono le immagini del premier, immancabile un «Chi non salta Berlusconi è». Ovazione quando il segretario dice che il Pd è pronto. Che il Paese è pronto a rialzarsi e uscire fuori «dal pozzo». Qui in piazza San Giovanni molti vorrebbero il voto subito, ma sanno che potrebbe essere necessario un passaggio ulteriore. Sanno bene che non c’è più spazio per le favole.

l’Unità 6.11.11
Intervista a Susanna Camusso
«Possiamo farcela. Ma vanno cambiate le politiche della Ue»
Il segretario Cgil in piazza: «Ho sentito proposte concrete per il Paese: ora paghino evasori e grandi patrimoni. Bersani ha rimesso al centro il lavoro»
di Andrea Carugati


Sul palco della festa Pd, Susanna Camusso se ne sta un passo indietro, lontana dai riflettori. Stefano Fassina l’abbraccia, Letta e Franceschini si avvicinano per uno scambio di battute. Lei, la leader Cgil, arriva a San Giovanni abbracciata alla figlia 20enne Alice, studentessa a Pisa, e si concede a sobrie strette di mano con i militanti. «Sono qui perchè “ricostruire il Paese”, lo slogan di questa piazza, è esattamente quello che la Cgil sostiene da tempo», spiega Susanna Camusso, in versione militante Pd. «E la premessa per poter iniziare a ricostruire è sgombrare le macerie. Il Paese rischia di affondare, e bisogna combattere l’idea che governo e opposizione siano sullo stesso piano, che ci sia bisogno di un altro salvatore della Patria. Mi pare che abbiamo pagato un prezzo sufficiente... Ora c’è bisogno di una proposta che parli di futuro, speranza, possibilità di cambiare».
Qui a San Giovanni ha visto questa proposta?
«Il centrosinistra ha una tendenza ad acuire le divisioni e i personalismi, in questa manifestazione invece si è finalmente detto cosa si vuole fare per il Paese. Hanno prevalso le idee. Mi auguro che la gravità della situazione suggerisca a tutti che è necessario uno sforzo collettivo, che il punto non è l’emersione di un singolo...». L’Italia è sostanzialmente commissariata dall’Ue e dalla Bce, sorvegliata dal Fondo monetario. Che spazio c’è per una ricostruzione riformista, di sinistra?
«L’Europa deve cambiare registro. Così come la finanza da sola non porta un avvenire radioso, lo stesso discorso vale per la moneta unica. C’è bisogno di un’Europa politica che governi l’economia, è questa la battaglia che come Cgil stiamo conducendo con la Confederazione europea dei sindacati, e che il Pd porta avanti con le altre forze progressiste. L’idea che l’unica strada sia applicare alla lettera le ricette della Bce e del Fmi è sbagliata. Il risanamento è obbligatorio, ma non c’è nessun obbligo su come realizzarlo. Non è un caso che nelle proposte del governo e dalla Bce non si parli mai della questione fiscale. E invece è dalla lotta all’evasione che bisogna partire, colpendo chi in questi anni è stato lasciato in pace. E poi bisogna tassare i grandi patrimoni e le rendite».
Anche la Grecia ha un governo di sinistra, eppure è stato commissariato dall’Europa e dalla Bce. «L’Europa si è mossa con grave ritardo, e c’è stato un vulnus alla sovranità della Grecia. Io credo che la condizione dell’Italia sia migliore: noi possiamo rispettare gli impegni sul debito anche con ricette differenti. Se puntiamo sul lavoro e sull’equità fiscale, siamo in grado di ripartire». Bisogna toccare le pensioni di anzianità?
«Si può discutere di un sistema più equo verso i giovani, ma non certo tagliare le pensioni per fare cassa. Prima cominci a pagare qualcun’altro, poi ci si ragiona. Ma sapendo che l’età effettiva della pensione degli italiani è in linea con la media europea».
Il governo cadrà in tempi rapidi?
«La cosa migliore era che cadesse ieri, e non solo Berlusconi ma tutto il governo che ci ha portato al disastro. Di fronte alla crisi, è sbagliato puntare su un governo tecnico o di larghe intese per applicare le stesse ricette. Per cambiare serve un mandato elettorale. Bisogna fare come la Spagna, ma in tempi molto più rapidi: il Paese è lacerato, c’è una crisi istituzionale gravissima, un parlamento che non rispetta più il mandato del 2008, pieno di transfughi». Lei nel 2009 è stata eletta nell’assemblea nazionale del Pd nelle liste di Bersani. Qual è il suo bilancio dopo 2 anni?
«Non mi ricandiderei, ma solo per il ruolo che ricopro oggi. Bersani ha incontrato delle difficoltà straordinarie, ma ha un grande merito: con la conferenza di Genova ha rimesso al centro la questione del lavoro. Dopo tante incertezze, ora il Pd ha un’idea netta sui diritti, sulla precarietà e su come uscirne».
Renzi direbbe che questo Pd ha fatto passi indietro, che è schiacciato sulla Cgil...
«Non inseguo i personalismi, guardo ai contenuti. E se qualcuno dice che il lavoro è il passato, mi chiedo: dove ci porta? Forse in un mondo che non esiste...».

l’Unità 6.11.11
Tutte le opposizioni
si compattano: «Pronti a nuovo esecutivo»
La battaglia parlamentare è il principale argomento discusso nel retropalco. Da Casini parole di stima per il Pd. D’Alema: «Disponibili a un governo di responsabilità, se ci sono le condizioni, altrimenti si andrà a votare».
di S. C.


«Da lunedì si vedrà...». Pier Luigi Bersani lascia piazza San Giovanni soddisfatto per la «giornata meravigliosa». Ma il leader del Pd sa bene non solo che «la pratica» di mandare a casa il governo si giocherà in Parlamento nei prossimi giorni, ma anche che a seconda di come si aprirà la crisi si capirà che direzione prenderà il dopo Berlusconi.
COL PALLOTTOLIERE IN MANO
L’argomento principale dei capannelli di dirigenti del Pd che si formano dietro il palco per tutta la giornata è uno solo: cosa succederà tra lunedì e mercoledì alla Camera e su quanti voti possa contare ciascuno dei due schieramenti. Con Dario Franceschini che mostra ai colleghi parlamentari un fogliettino pieno di numeri che a giudicare dalle cancellature e dalle freccette deve essere aggiornato di continuo.
Il voto sul rendiconto dello Stato è a rischio, per la maggioranza. E le forze di opposizione stanno ragionando se astenersi per dimostrare che, insieme ai malpancisti del Pdl, c’è a Montecitorio una maggioranza alternativa o se presentare una mozione di sfiducia costruttiva. Ipotesi su cui però non ci sarà il via libera prima che ci sia chiarezza sulle intenzioni dei suddetti malpancisti.
Chi sta tenendo i contatti con loro, nel fronte opposizione, è soprattutto Pier Ferdinando Casini. Ed ora è sul leader dell’Udc che tutti gli occhi sono puntati. Il centrodestra lo accusa di portare avanti una «compravendita». Il centrosinistra vuole capire se sarebbe tentato di sostenere un eventuale governo guidato da Gianni Letta. I contatti con Bersani sono ormai all’ordine del giorno, e tra i dirigenti Pd la convinzione è che non convenga a Casini entrare in un governo di centrodestra mandando in fumo il lavoro di tre anni.
Una tesi che trova conferma nelle parole che arrivano in diretta dal leader dell’Udc, che durante un’iniziativa a Torino dice di San Giovanni: «È una grande manifestazione democratica di testimonianza politica, di un grande partito come il Pd. E come tale va rispettata e guardata con attenzione. Oltretutto, devo dire che i contenuti che il Pd in quest'ultimo periodo ha posto all'attenzione, anche nella vita parlamentare, sono di grande ragionevolezza». Non sono solo le parole di stima a rassicurare il Pd che l’Udc non intenda passare dall’altra parte in una fase di transizione a cui poi sarebbe più complicato far seguire un’alleanza elettorale tra progressisti e moderati. C’è anche il fatto che Casini si dica non interessato a meccanismi tipo «aggiungi un posto a tavola». E che anche Gianfranco Fini si dica contrario a «ribaltoni perché si continuerebbe a governare con una differenza di pochi voti».
Per il Pd come per il Terzo polo e per l’Idv, e ora anche per Sel, visto che Nichi Vendola si è detto favorevole a «un governo di scopo» che vari una patrimoniale pesante, serve un governo sostenuto da una maggioranza molto ampia, che segni una netta discontinuità. Altrimenti? Dice Massimo D’Alema: «Noi siamo disponibili a un governo di responsabilità nazionale con tutte le forze politiche e affidato ad una personalità autorevole. Se ci sono le condizioni, ovviamente. Altrimenti si andrà a votare».

l’Unità 6.11.11
Settimana di mobilitazione
Studenti in cammino verso l’Italia che lotta
di Dario Costantino


E ccoci, per riaprire ed espandere tutti gli spazi che la violenza del 15 ottobre ha tolto al movimento, in termini di azione politica e di libertà, per contribuire alla costruzione dell’alternativa con gli occhi e la mente degli Studenti. Un’intera settimana di mobilitazione diffusa. Sarà la nostra chiave per rilanciare le ragioni che hanno portato migliaia di persone per le strade, per ampliare il nostro orizzonte di pensiero, ponendoci più domande di prima, spingendo il Paese a una riflessione comune. Lo faremo da studenti, parlando di scuola prima di tutto; parlando di lavoro e conoscenza lanceremo le nostre speranze al paese. Per un movimento più ampio dei confini nazionali, per una generazione che prenda coscienza di sé, che parli alla politica e alla democrazia, che si appropri di nuovi spazi di libertà e consapevolezza.
Le destre hanno distrutto in trent’anni conquiste eccezionali dentro i luoghi di lavoro, nelle democrazie, nelle scuole, regalando ogni potere decisionale agli interessi del mercato, sottomettendole alle ragioni della rendita e del mercato. La lotta per riportare alla gente una fetta enorme dei poteri democratici di cui è stata espropriata passa anche da noi Studenti, perché non basta l’indignazione: serve la Politica!
Da studenti chiariremo quanto sia necessaria un’apertura dei nostri istituti verso il web, il territorio, verso il Lavoro, verso una formazione permanente che abbracci lo studente fino al cassintegrato in cerca di lavoro, che sviluppi le capacità di ogni ragazzo, che non lo abbandoni mai per strada, che non punisca ma educhi attraverso la condivisione e l’interazione, abbandonando lo sterile nozionismo e la gerarchizzazione dei saperi.
Investire risorse materiali e immateriali per la conoscenza e il sapere si traduce nell’affermazione delle libertà individuali e collettive dentro e fuori il lavoro, nutrendo lo stesso e dal quale si possono nutrire.
L’investimento a lungo termine a redditività differita verso un positivo eccesso di sapere, per uno stimolo alla domanda e all’offerta di lavoro più qualificata, dà alla sinistra e a Noi le nuove ragioni per le quali lottare.
Apriremo domani a Reggio Calabria, parleremo con i lavoratori del porto di Gioia Tauro, abbandonati al loro destino. Passeremo da Pomigliano per incontrare gli operai della Fiat, per chiederci cosa insieme possiamo fare per loro e per tutti. Scenderemo nel profondo Sud di Catania per una grande manifestazione nazionale, passando da Genova, Firenze, Roma e tante altre grandi e piccole città italiane con la consapevolezza che il mondo cambia se si crede che possa cambiare, tutti insieme.

il Fatto 6.11.11
L’uomo di legno sta bruciando
di Furio Colombo


È uno strano evento, quasi un culto, che si compie ogni anno in America, nel deserto del Nevada. Migliaia di persone, famiglie, bambini, anziani, come in un esodo, si raccolgono in un punto convenuto, costruiscono una città, dai negozi alle scuole, dai pub all' ospedale, dalla stazione dei bus al museo. E quando hanno finito e ogni cosa funziona, smontano e fanno scomparire tutto. L'impegno collettivo, che prima era di fare bene e insieme, è di non lasciare traccia. Come se la città, che si chiama Black Rock City, non fosse mai esistita. L'ultimo atto creativo degli abitanti della città, un momento prima della scomparsa, è di bruciare il manichino di legno di un figura umana (Burning Man) come simbolo della sparizione completa che deve seguire la costruzione accurata. Credo che il senso di questo grandioso happening (nell'agosto del 2011 Black Rock City ha raggiunto 50 mila abitanti) sia di rovesciare il principio scientifico “nulla si crea e nulla si distrugge”. Qui si tratta di educare i cittadini di un nuovo mondo all'idea che “tutto si crea e tutto si distrugge”.
NE HO PARLATO per cercare di spiegare certe vicende della nostra vita italiana che stiamo attraversando, indignati o conformisti, senza capire. È vero che il problema che ci tormenta in questo Paese è l'insopportabile dilatarsi nel tempo di vicende che sono finite, e dopo che l'uomo di legno in questione è già stato bruciato. Pensate a Berlusconi. L'ometto in questione continua ad aggirarsi impettito in spazi e tempi che non gli competono più, e mentre il suo pubblico più affezionato se ne sta andando.
A Cannes, l'altro giorno, sembrava un fantasma, i presenti guardavano attraverso di lui, senza vederlo. Alcune inquadrature, come quella di Obama e Merkel che discutono e gesticolano senza notare neppure per un istante la presenza di Berlusconi che ride lì accanto, sono esemplari. L’uomo bruciato è una grande e drammatica intuizione americana: di lui e della sua città non resta niente. Quella intuizione ci dice che ci sono scadenze collettive che non sono la vita e la morte, non mimano il destino degli individui. Mimano, o meglio: rappresentano la vita pubblica, le successive vicende e stagioni di una comunità. Non provate il senso angoscioso che la Carta Costituzionale e i suoi valori, quelli per cui i prigionieri politici si facevano fucilare narrando nell'ultima lettera la necessità del loro sacrificio, si siano scontrati con una data di scadenza in cui al riconoscimento grato si sostituisce un acido e sarcastico rifiuto, con il linguaggio di Borghezio, la risata di La Russa, il dito di Bossi , il sarcasmo di Berlusconi, il fatto che uno come Maroni sia Ministro dell'Interno, libero di imprigionare immigrati per il reato di “clandestinita” che non esiste? Intanto, come sapete, se Berlusconi non fosse scomparso (è' scomparso, anche se ve lo fanno vedere ancora nei Tg, parola di tutti i partecipanti al G20 ) si sarebbe alacremente lavorato in Parlamento a vandalizzare anche la forma della Costituzione già offesa e abbandonata come ridicola carta straccia. Proprio mentre Berlusconi è diventato l'uomo bruciato, la Camera dei Deputati, con la sua ancora obbediente maggioranza, stava lavorando a frantumare l'art. 41 della Costituzione. Però attenti a non pensare che la “data di scadenza” ci sia imposta da uno straniero occupante. Altrimenti come spiegare il selvaggio fenomeno detto “sgombero dei campi nomadi” evento sempre eseguito di notte terrorizzando i bambini, organizzato non solo da sindaci della destra ma anche, e non raramente, da sindaci eletti a sinistra o vicini al Pd? E i “respingimenti in mare”, eseguiti al tempo del Trattato con la complicità della Libia di Gheddafi, vere e proprie condanne a morte (affondamento o prigione nel deserto o restituzione al Paese da cui era cominciata la fuga disperata dei profughi)? Come spiegare la detenzione senza reato, senza sentenza, senza condanna, nei famigerati “Centri di Identificazione”, veri e propri lager che tutte le organizzazioni umanitarie ci rimproverano? Non dimentichiamoci che, in Europa, ci sono cacce aperte agli zingari, cacce sponsorizzate dai governi e sostenute dai cittadini, in Ungheria, Bulgaria, nella Repubblica Ceca. Non dimentichiamoci che i giornali del mondo (New York Times, 28 settembre 2011) danno notizie di “obbligo di lavori forzati per gli zingari”, organizzati in Paesi dell'Ue, nel silenzio quieto di tutti, cominciando dai parlamenti e dalle Chiese.
LA “DATA di scadenza” (lontano, finito il 1945) sta riportando, più o meno notato, un nuovo fascismo e un nuovo razzismo in Europa, sta già provocando i suoi danni di distacco dai sentimenti umani e civili della democrazia. Quando l 'uomo di legno avrà finito di bruciare, non sarà come nel deserto del Nevada. Resteranno carichi di scorie inquinanti. Chiunque si senta legato al giorno, al momento, allo spirito della Liberazione avrà un immenso lavoro da fare per restituire diritti umani a una Europa egoista e cieca. Subito. Prima che la scadenza deteriori i più giovani e li separi dalla memoria.

il Fatto 6.11.11
Il geologo Mario Tozzi
“Il cemento ha consumato la terra”
di Michela Gargiulo


Un consumo bulimico del territorio”. Quello che è successo a Genova e alle Cinque Terre non è soltanto l’effetto della natura che cambia. Mario Tozzi, impegnato su Radio 2 per la trasmissione “Tellus”, studia da anni questi fenomeni.
Tozzi, in poche ore è piovuto quanto piove in un anno. Quali sono le ragioni?
Sono ormai 20 anni che assistiamo a piogge sovrabbondanti. Ci sono state anche discussioni in Senato, non siamo solo noi geologi a dirlo. Poi il territorio italiano è giovane, attivo. Questo è un paese dove ci sono vulcani, terremoti, fenomeni di assestamento. Un terzo motivo è che abbiamo avuto un consumo bulimico del territorio. Cemento e infrastrutture hanno consumato la terra. Abbiamo mangiato il suolo rendendo il terreno impermeabile. L'acqua non penetra più, scivola e va via. Si è costruito troppo dove non si doveva. Le case sono state costruite anche sugli argini dei fiumi. A ogni disastro tutti pongono il problema dei detriti che ostruiscono il corso dei fiumi. Il problema non sono tanto i detriti, ma il fatto che l'uomo ha ridotto gli alvei dei corsi d'acqua.
I morti della Liguria sono come quelli di Giampilieri, a
Messina. Colpa della natura o dell'uomo?
La colpa è dell'uomo, le catastrofi naturali non esistono. Abitiamo in posti dove non dovremmo stare. I genovesi d'altri tempi stavano nelle alture.
Si parla di cambiamenti climatici e surriscaldamento del pianeta. È un fenomeno irreversibile o si può intervenire?
È un fenomeno parzialmente naturale, ma l'uomo ha accelerato il processo di surriscaldamento. Il carattere violento di queste perturbazioni ne è una conseguenza. Si devono ridurre le emissioni inquinanti. È un processo che deve riguardare tutti i paesi del mondo.
L'Italia è un paese a forte rischio idrogeologico. Quali sono le regioni più a rischio?
La Liguria e la Toscana, ma anche l'alto Lazio, la Campania e la Sicilia. Io considero a rischio frane anche il Trentino. Lì però non si sono mai registrate vittime perchè c'è stato un uso più attento del territorio.
Quali scelte deve fare la politica nei territori a rischio?
I sindaci devono fare un passo indietro rispetto all'uso del territorio. Purtroppo si pensa che si guadagni consenso solo con l'edilizia e il cemento.
L'associazione dei Comuni virtuosi lancia una proposta: moratoria sulle grandi opere e i soldi da destinare contro il dissesto idrogeologico. Che ne pensa?
Sono d'accordo. Li conosco e sarò con loro lunedì prossimo.
Cosa si deve insegnare ai nostri figli?
Bisogna che capiamo prima noi che è necessario fare un passo indietro rispetto a scelte non rispettose della natura e del territorio. Riprendere ritmi naturali, rinaturalizzare i corsi d'acqua, ritornare a vivere dove e come si viveva un tempo. Il cemento non serve,, bisogna recuperare la terra.

il Riformista 6.11.11
Il riformista estremo che seppe intuire la crisi

Federico Caffè. Agli albori della globalizzazione l’economista keynesiano comprese l’immoralità e la fragilità di un capitalismo fondato sulla finanza.
di Edoardo Petti

qui
http://www.scribd.com/doc/71778704

il Fatto 6.11.11
La lezione dell’abito talare
di Marina Boscaino


In una Scuola Media Statale – ribadisco Statale – di Ladispoli (Roma), l’anno scolastico è iniziato in una maniera a dir poco singolare. Una circolare ha informato studenti e famiglie della Melone che gli alunni sarebbero stati salutati dal vescovo di Santa Rufina, monsignor Gino Reali. Programma dell’evento: colloquio con i ragazzi, benedizione dei crocefissi, consegna degli stessi ai presenti, benedizione finale della scuola. Alle vibrate proteste di Antonia Sani, del Comitato Nazionale Scuola e Costituzione, il dirigente scolastico Agresti rispondeva che la visita era stata inserita nel Piano dell’Offerta Formativa come i previsti altri incontri con “esperti”. “Il buon senso di tutti, ed in particolare di chi sia convinto che sia diritto inalienabile dell’uomo la libera espressione del pensiero farà sì che l’attività didattica contestata (in realtà un approfondimento critico di una disciplina insegnata nella nostra scuola, come già avvenuto per motoria, scienze, cittadinanza, italiano, eccetera) si svolgerà senza inutili e sciocchi strascichi polemici, lasciando che la parola di una persona, che riveste un ruolo specifico, resti quello che è: un momento di libero confronto intellettuale sulla figura di un grande pensatore, precursore di tutti gli illuminati (per chi non crede o crede diversamente) o del figlio di Dio (per chi crede)”.
SIA DETTO tra parentesi: il suddetto prelato (terza visita in un anno in quella scuola) assurse agli onori della cronaca perché – secondo alcune vittime, che lo hanno denunciato – avrebbe coperto l’ex parroco della sua diocesi, don Ruggero Conti, condannato in primo grado per abusi sessuali. Ma – alla luce della violazione del dettato costituzionale – è dettaglio quasi irrilevante. Il Comitato Insegnanti Evangelici Italiani informa che il sottosegretario all’istruzione Guido Viceconte ha invitato le scuole a partecipare all’udienza papale che avrà luogo il 28 novembre in Vaticano, in occasione della “Giornata per la tutela del Creato”, iniziativa organizzata dall’associazione cattolica Sorella natura: tutto ovviamente a carico del contribuente. L’esperto, stavolta, è niente meno che Benedetto XVI, nella funzione di studioso di ecologia. Il cerimoniale – è certezza – non potrà essere esente da aspetti liturgici: discriminatorio, cioè, dei diritti di alunni e docenti non cattolici. Non è un caso che gli atti di culto in orario scolastico siano espressamente proibiti dalla legge italiana. Come la kermesse romana dell’orientamento pre-universitario presso il santuario del Divino Amore, per la quale lo scorso anno furono offerti una serie di gadgets e il trasporto degli studenti del V anno delle superiori, anche in questo caso si reperiscono fondi – nel momento di più profonda crisi economica dello Stato e della scuola – per organizzare uscite e visite che non solo non ne sanano le drammatiche condizioni, ma creano addirittura discriminazioni e violazioni.
La persuasione (non occulta) è ormai pratica estesa, alla luce del sole, come se “pubblico, statale” fossero orpelli retorici, optional falso-pluralisti di uno Stato confessionale. Il progetto di clericarizzazione non si accontenta di una serie di regalie ormai istituzionalizzate. Su “Adista” – storica agenzia di informazione politico-religiosa dell’area della sinistra cristiana – nel suo articolo “Esenzioni, agevolazioni, finanziamenti. Tutti i numeri della casta Chiesa” alla voce scuola, editoria ed oratori, Luca Kocci rimarca che la scuola paritaria nel 2011 ha ricevuto dalla legge di stabilità 245 milioni di euro, a fronte dei tagli alla scuola pubblica.
ALL’EDITORIA cattolica, invece, sono stati erogati nel 2010 contributi statali diretti per 15 milioni di euro, con la parte del leone ad Avvenire, quotidiano della Cei: 5milioni e 871mila euro. Un altro quotidiano cattolico, Il Cittadino, controllato dalla diocesi di Lodi, ha goduto di un finanziamento pubblico di 2 milioni e 530mila euro. Ai settimanali diocesani – periodici ufficiali delle diocesi italiane – sono andati quasi 4 milioni di euro. Il resto, poco meno di 3 milioni di euro, alle riviste di congregazioni religiose, santuari, associazioni, movimenti e gruppi ecclesiali di varia natura. 8 per mille, (da dieci anni circa 1 miliardo di euro, nel 2011 cifra record di 1.118 milioni, di cui 467 milioni utilizzati per “esigenze di culto e pastorale”, 361 milioni per il “sostentamento del clero”, 235 milioni per “interventi caritativi”, 55 milioni accantonati “a futura destinazione”); entrate per cappellani ospedalieri, carcerari e militari; infine esenzioni (Ici, Ires, canone tv e acqua) ci danno la mappatura di un’egemonia culturale ed economica che potrebbe fare a meno di manipolare coscienze. Qual è il contributo dei privilegi concordatari al nostro debito pubblico e allo spread?

L’attentato all’arcivescovo di Firenze
Il vicario dell’arcivescovo, Monsignor Maniago, è accusato dalle vittime di essere stato per anni “pupillo” e complice del mostro pedofilo della periferia fiorentina. Leggi:
http://altracitta.org/blog/2010/05/04/don-cantini-le-vittime-si-appellano-al-papa-perche-maniago-resta-vicario/

http://altracitta.org/blog/2010/12/06/la-chiesa-di-cantini-le-scusa-di-betori-e-il-danno-inflitto-alla-citta-intera/

http://www.repubblica.it/2007/04/sezioni/cronaca/scandalo-parrocchia/scandalo-parrocchia/scandalo-parrocchia.html


«Non emerge alcun elemento, tra gli altri, che metta in relazione l’episodio con l’affaire don Cantini, i casi di abuso sessuale e pedofilia che risalgono a decenni fa ma che sono emersi negli ultimi anni e hanno profondamente scosso la Chiesa fiorentina»

Repubblica 6.11.11
"Quell’uomo sembrava squilibrato" ma spunta anche la pista vendetta
Nelle ore successive all´attentato sono stati fermati dieci clochard. Ascoltate altre 15 persone
di Maurizio Bologni


FIRENZE - Uno squilibrato. Oppure qualcuno che ritiene di aver subito un torto, nutre rancore e risentimento, uno che all´arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori l´ha giurata a morte. L´indagine, coordinata dalla procura di Firenze e svolta dalla polizia, è difficile. E la sensazione è che l´attentatore non sia ancora entrato nell´orbita degli inquirenti.
Sentiti e rilasciati, tra venerdì notte e ieri, dieci tra clochard e uomini che vivono nel disagio. Sentite come testimoni, a Firenze e nei dintorni, anche altre quindici persone che potrebbero aver maturato sentimenti di rivalsa verso la Curia, per un licenziamento, un alloggio negato, dinieghi subiti, controversie varie. Non emerge alcun elemento, tra gli altri, che metta in relazione l´episodio con l´affaire don Cantini, i casi di abuso sessuale e pedofilia che risalgono a decenni fa ma che sono emersi negli ultimi anni e hanno profondamente scosso la Chiesa fiorentina. A questo, poco, sembrano dunque giunte le indagini sull´aggressione di venerdì sera a monsignor Giuseppe Betori e don Paolo Brogi, da ieri protetti dalla tutela della polizia, il primo in Curia e nei suo spostamenti, il secondo all´ospedale di Santa Maria Nuova.
«Si può pensare a tutto - ha detto ieri mattina il capo della procura Giuseppe Quattrocchi - ma valutando modalità e tempi al momento non ci sembra plausibile pensare a una cosa organizzata o strutturata». Qualcun altro, in procura, si sbilancia un po´ di più: «La dinamica, le frasi farfugliate prima di sparare, farebbero pensare a uno squilibrato». Betori e Brogi, che è ancora debole in ospedale e sarà sentito meglio nelle prossime ore, hanno dichiarato di non conoscere l´aggressore. Gli elementi in mano agli inquirenti sono, dunque, veramente pochi. E allora, come si dice in questi casi, «indagini a 360 gradi».
In questura si è formato un gruppo di lavoro ad hoc. Gli investigatori controllano le immagini della telecamere della zona e hanno invano passato al setaccio i cassonetti alla ricerca dell´arma o di eventuali travestimenti usati dall´aggressore. Dopo il primo sopralluogo di venerdì sera, ieri mattina il centro storico della città è stato setacciato di nuovo. La squadra mobile incrocia i dati su chi possa aver avuto motivi di rancore verso Betori con il lavoro della polizia amministrativa sui possessori di armi e con le informazioni che arrivano dal bossolo della calibro 7,65 raccolto a terra e che «parlerà meglio» quando l´ogiva sarà estratta dall´emitorace destro di don Brogi. Le condizioni del sacerdote non preoccupano e la prognosi dovrebbe essere sciolta domani, ma il segretario particolare dell´arcivescovo non è stato ancora operato.

il Fatto 6.11.11
Sudamerica. Da trent’anni in sella
Nicaragua inchiodato a Ortega
di Maurizio Chierici


Per la terza volta Daniel Ortega diventa presidente del Nicaragua. La costituzione lo impedisce ma la “sua” alta corte ha deciso che può. Le previsioni lo danno 30 punti sopra l’avversario diretto, non dovrebbero esserci sorprese, ma per scaramanzia il vecchio comandante sandinista ripete: “Voglio vedere i voti uno sopra l’altro, solo allora ne sarò convinto”. Cautela per una antica ferita: nel 1990 la sua vittoria veniva data per sicura. Aveva liberato il Paese dalla dittatura di Somoza. Nel palazzo regalato dalla Svezia e dedicato al pacifista Olof Palme, la mattina del 25 aprile 1990 Ortega si presenta ai giornalisti sbalordito dalla notizia che sbalordiva tutti: buco dei maghi dei sondaggi. Violeta Chamorro lo aveva battuto. “Ero povero quando ho liberato il Paese dalla dittatura, esco con le tasche vuote dal palazzo del potere”. Ma non era vero: gruzzoli segreti e scandali. Vent’anni dopo nel Nicaragua non è cambiato quasi niente anche se gli stessi protagonisti parlano in modo diverso. Il populismo più fastidioso continua a promettere una felicità alla quale sono costretti a credere gli elettori più poveri delle due americhe (subito dopo Haiti): non hanno nessun’altra speranza. Il 47% guadagna tra i 2 e 3 dollari al giorno. Famiglie con tanti figli, baracche di latta, l’acqua potabile, un sogno. Bisogna dire che Ortega li sta aiutando, buona volontà battuta sui tamburi di tutte le radio e tv. È diventato l’angelo dei disideredati con lo stesso sorriso dell’eroe vittorioso che entrava a Managua 30 anni fa. Dopo l’ultimo appello elettorale ha ascoltato con devozione la messa del cardinale Obando y Bravo. Comunione con occhi bassi come ogni credente compunto. Obando, Ortega, latifondisti e il coro immenso del popolo, sono gli stessi attori anni ’80 ma il gioco delle parti si è rovesciato. Obando deve il berretto da cardinale all’opposizione durissima contro il primo Ortega presidente. Lo accusava di essere quello che era: marxista dalla dottrina non rigorosa, cresciuto alla scuola dei fratelli Castro. Liberticida per aver espropriato e distribuito al popolo le proprietà sterminate di un latifondo medioevale. Il vescovo che lo frustava piaceva ai falchi di Washington nemici del “comunista che minacciava le Americhe”. Allarme forse esagerato: i contadini scalzi del Nicaragua erano meno di 3 milioni. Ortega impara la lezione e per tornare in sella rovescia le amicizie. Versetti di Marx addio. I latifondisti riacquistano il diritto di tenersi mezzo Paese. Il popolo emarginato resta lo sfondo ideale, mentre il cardinale diventa il grande amico fidato. Daniel sfida le convenienze popolari e pribuisce l’aborto terapeutico e il Paese raddoppia gli abitanti: ormai sfiorano i 6 milioni. Per chiudere la terza rincorsa al potere affida proprio al cardinale il discorso finale: “ Il Signore premia chi nel suo nome regala un bicchiere d’acqua all’assetato. Cristo ricompenserà coloro che hanno governato dedicando ai poveri ogni minuto del loro impegno”.

il Fatto 6.11.11
Hu Jintao
La Cina offre aiuto, ma non gratis


Non è ancora chiaro in che modo il Fondo monetario raccoglierà i capitali potenzialmente illimitati che il G20 dice di volergli fornire in caso di emergenza (tipo intervento sull’Italia). Ma sicuramente l’apporto fondamentale della Cina verrà ricompensato da un aumento sensibile di potere nella gestione (Pechino avrà cioè più “quote” del Fmi). Il presidente Hu Jintao è arrivato a Cannes forte della possibilità di scegliere tra due opzioni estreme: approfittare della crisi per ritirarsi quanto più possibile dal sistema finanziario occidentale (gli interventi di soccorso a Wall Street del 2008 sono costati cari) oppure cogliere l’occasione per prenderne il controllo. Ha prevalso la seconda linea, Pechino non può permettersi di abbandonare un partner fondamentale come l’Eurozona, con cui gli scambi commerciali e finanziari sono enormi. Quindi comprerà debito in euro, rafforzerà il Fmi (mentre ha snobbato la questua del capo dell’Efsf, andato a Pechino per chiedere un investimento diretto) e rivaluterà anche un po’ lo yuan per favorire l’export delle imprese europee verso est. Quello che importa a Hu è che da ora la Cina non è più un Paese “emergente”, ma la potenza perno dell’economia globale.

Corriere della Sera 6.11.11
Il mistero delle bambine mai nate nelle comunità cinesi e indiane
Accade in Italia e il sospetto è che si tratti di aborti selettivi
di Antonio Polito


Avviene nelle nostre città. Nei nostri laboratori medici. Forse persino nei nostri ospedali. Quella che è stata chiamata «la guerra mondiale contro le bambine» ha un fronte italiano. Sembra proprio che il «genericidio», cioè l'aborto selettivo delle femmine, sia una pratica che le comunità di immigrati cinesi e indiani hanno portato con sé fino da noi. Lo dicono i dati elaborati per la prima volta da Anna Meldolesi, in un libro appena uscito (Mai nate, Mondadori). Nonostante le statistiche a disposizione siano ancora scarse (si ragiona su dati Istat che coprono gli ultimi quattro anni), la tendenza che illuminano non lascia spazio a dubbi.
Si sa che il rapporto naturale tra i sessi alla nascita (la cosiddetta sex ratio) è in media di 105 maschi ogni cento femmine. Ma in alcune regioni del mondo, e purtroppo non più solo in Cina e in India ma anche in Corea del Sud, nel Caucaso, perfino in Albania, questa proporzione è innaturalmente stravolta: in buona parte della Cina raggiunge i 120 maschi per 100 femmine, e così anche nell'India nordoccidentale (soprattutto il Punjab, zona da cui proviene la gran parte degli immigrati indiani in Italia).
Dove sono dunque finite le bambine mancanti, le «missing girls»? Fino a qualche tempo fa venivano soppresse con l'infanticidio, cioè dopo la nascita, o uccise dalla negligenza deliberata dei genitori. Ma da quando c'è un accesso sempre più facile alla diagnosi prenatale del sesso, attraverso amniocentesi ed ecografia, e all'interruzione assistita della gravidanza, il nuovo sistema di selezione di massa è l'aborto. Amartya Sen, il Nobel indiano per l'economia, calcolò vent'anni fa la cifra di cento milioni di donne mancanti. Un vero e proprio genocidio di genere. Nel suo libro la Meldolesi ci ricorda che cento milioni è il numero di donne che vivono in Germania, Italia e Francia messe insieme: «Una perdita numericamente superiore alle vittime delle guerre mondiali, o delle carestie del XX secolo, o delle grandi epidemie».
Il dibattito sul perché accada è ancora aperto. Ci sono ragioni economiche, per esempio il costo di una dote in India per sposare la figlia femmina; e ragioni sociali, connesse con la struttura patriarcale delle società, che influenzano i ceti benestanti anche più di quelli poveri. Ma, soprattutto, sembra un fenomeno culturale, e della peggiore specie: la selezione del sesso è infatti senza dubbio la forma più estrema di discriminazione delle donne. E ha preso a viaggiare con i migranti, insieme al loro bagaglio.
Ecco che succede in Italia, così come l'ha ricostruito l'autrice del libro. Negli ultimi quattro anni, per ogni cento neonate cinesi in Italia ci sono stati 109 maschi. Percentuale alta, ma non altissima, rispetto alla norma di 105. Se però si considerano solo le nascite dei terzogeniti e dei figli successivi, si scopre che la «sex ratio» sale fino a 119. È il classico schema che si associa all'aborto selettivo: le famiglie lasciano al caso il primo figlio, e forse anche il secondo; ma dal terzo in poi non corrono più rischi se il maschio non è arrivato. Peggiori sono i dati della comunità indiana: 116 maschi ogni cento femmine, e addirittura 137 dal terzogenito in su. Per quanto il campione sia piccolo, e la serie di dati breve, ci sono pochi dubbi su che cosa stia accadendo.
Resta dunque da capire che fare. Come impedire gli aborti selettivi senza limitare il diritto delle immigrate alla diagnostica preventiva e all'aborto terapeutico. Perché qualcosa va fatto: ce lo chiede anche una risoluzione del consiglio d'Europa che invita gli stati membri a monitorare, sorvegliare e se del caso anche legiferare, vietando per esempio ai medici di dare informazioni sul sesso del nascituro quando si sospetta che possa essere causa di interruzione della gravidanza. Se si ricorre alla villocentesi, che può essere fatta anche alla decima settimana, non è infatti escluso che le bambine siano abortite nelle pieghe della 194 e nelle strutture pubbliche. Se invece è l'ecografia a rivelare il sesso, c'è da sospettare aborti tardivi e clandestini. «Si sa per esempio — scrive la Meldolesi — che tra le immigrate c'è un ricorso diffuso al Cycotec, una pillola antiulcera usata a scopo abortivo non senza rischi per la salute delle donne... Nel marzo del 2010 la polizia di Rovigo ha arrestato una donna cinese per esercizio abusivo della professione medica e procurato aborto... Una clinica improvvisata era stata chiusa a Milano due mesi prima in seguito a un servizio delle Iene... E molto più facile sarà far nascere solo maschi se entrassero in commercio kit affidabili per scoprire il sesso del nascituro con un semplice prelievo del sangue materno, già a sette settimane di gravidanza, risultato che è a portata di mano».
Si tratta dunque di una battaglia legislativa e culturale da ingaggiare al più presto. Troppo tempo si è già perso. Le divisioni sul tema dell'aborto tra credenti e non credenti qui non c'entrano nulla. Si tratta piuttosto di impedire che nelle nostre città si manifesti la forma più orribile di relativismo culturale: quella che ci fa chiudere un occhio quando una bambina non nasce.

Corriere della Sera 6.11.11
Dentro la società «multirazzista»
Fenomenologia dell'intollerante «moderato» all'italiana
di Dario Fertilio


C hi ha detto che esistono due sole maniere di raccontare il razzismo e gli immigrati? Che l'alternativa, cioè, sia tra un linguaggio politicamente corretto, condito di scadente retorica dell'accoglienza; e uno opposto costruito sui «foera di ball», «bingo bongo» e altri motti di spirito incuranti del buon gusto? Se è immaginabile una terza via capace di condurci oltre le liturgie irrazionali, e la politica che le alimenta, questa è percorsa dal nuovo Almanacco Guanda, giunto al settimo anno.
Qui una squadra di giornalisti, scrittori, insegnanti, storici e sociologi, coordinata come in passato da Ranieri Polese, senza far mistero di schierarsi pone anzitutto l'esigenza di comprendere e riflettere sui problemi, sforzandosi di mettere i ragionamenti al posto delle emozioni. E si dirige verso il terreno impervio del (presunto) razzismo nostrano, con un titolo — tre anzi, a essere precisi — che dice già molto: Con quella faccia. L'Italia è razzista? Dove porta la politica della paura (Guanda). Diciamo subito che il verdetto finale non c'è, e nemmeno potrebbe, tanto contrastanti e variegate appaiono le opinioni degli scriventi, almeno quanto le ipotizzabili reazioni dei lettori.
Alcuni punti fermi tuttavia non mancano. A partire dal giudizio del romanziere Andrea Camilleri sul carattere specifico del razzismo all'italiana: non coloniale-sciovinistico, convinto della superiorità dell'uomo bianco; né patologico, pronto a inventarsi complotti pluto-giudaico-massonici, e nemmeno biologico alla hitleriana. Piuttosto, spiega Camilleri, da noi prevale la gretta ricerca di un capro espiatorio, su cui convogliare le ansie e le rabbie.
Se non che, fa notare lo storico Franco Cardini, proprio intorno a queste modeste paure private si edificano poi le grandi crociate ideologiche e gli scontri di civiltà, trascurando le differenze interne al mondo musulmano e diffondendone immagini di comodo, cioè non come è realmente ma come vorremmo fosse (esemplare il modo di raccontare a noi stessi le vicende della «primavera araba»). E su questo punto, cioè sulla deformazione dell'idea di «nemico», si sofferma con sottile ironia lo studioso sloveno Slavoj Žižek, là dove punta il dito contro i cosiddetti «razzisti moderati» che oggi come ieri — sull'esempio dell'intellettuale francese Robert Brasillach — vorrebbero «decaffeinare» le differenze, accettare l'élite e rifiutare la massa, accogliere le belle attrici e i prestigiosi scienziati purché i loro connazionali meno presentabili e fortunati vengano lasciati marcire sulle banchine di Lampedusa.
Eh sì, precisa il giornalista Gian Antonio Stella: quando si parla di respingimenti si ricorre di solito a un tono neutro e rassicurante quanto un protocollo in carta bollata, ma si passa disinvoltamente la spugna sulle tragedie umane che vi stanno dietro, così simili a quelle sperimentate dagli italiani agli inizi del secolo scorso. Si dimentica, incalza l'«attivista mediatico» Nicola Angrisano, quel che realmente succede ogni anno ai lavoratori stagionali, sfruttati brutalmente nelle campagne di Rosarno; si trascura, avverte l'economista Valeria Benvenuti, l'utilità produttiva e sociale dei lavoratori stranieri; si scherza col fuoco, mette in guardia il giornalista Ferruccio Pinotti, allorché dietro alla parola d'ordine della «tolleranza zero» i leghisti e i loro compagni di strada gettano le fondamenta della «fabbrica della paura». Ma forse, fra tutte, la provocazione intellettuale più sottile è quella dello storico Luciano Canfora, quando richiamandosi all'antica polemica dell'opulento impero romano nei confronti dei primitivi «barbari», suggerisce l'inquietante ipotesi che — allora come oggi — i veri portatori di moralità, così diversa da quella occidentale, progressista e tanto sicura di sé, siano proprio loro, gli arretrati «primitivi».
L'Almanacco, insomma, spiazza le aspettative di molti lettori. Un po' come aveva sperato all'inizio, nell'anno 2005, il suo inventore Luigi Brioschi, direttore della Guanda, desideroso di rinverdire una gloriosa tradizione editoriale novecentesca, declinandola però, anno dopo anno, intorno a temi diversi: la musica popolare, la metamorfosi della società, la tendenza a concepire complotti, il romanzo politico, la nuova satira, il perverso prolungamento delle mafia nelle cricche. Il tutto, sempre, depurato dei fastidiosi piagnistei dettati dal rivendicazionismo e dalle ideologie. E se ciò avviene, è anche per merito delle vignette tra il malinconico e il surreale di Franco Matticchio che punteggiano le pagine, nonché dell'impostazione accattivante dell'art director Guido Scarabottolo. Quasi a rivendicare, così, la possibilità d'affrontare temi cultural-sociali serissimi, senza risse partitiche in studi aperti e anni zeri, e quasi con il sorriso sulle labbra. Da far pensare che l'epigrafe ideale all'Almanacco avrebbe potuta metterla Flavio Oreglio, il comico di Zelig, quando avvertiva anni fa, con stralunata malinconia, come «ormai viviamo tutti in una società multirazzista».

«Ho provveduto ad allestire la tana, e pare ben riuscita. Dall’esterno, a dire il vero, non si vede altro che un gran buco, che di fatto non porta da nessuna parte»
Franz Kafka
Corriere della Sera 6.11.11
Così il Male Oscuro governa l'Occidente
di Guido Ceronetti


Nelle ossessioni attuali spicca lo stretto legame tra la depressione psichica e quella economica

Via! Tuffiamoci nel male del secolo, che in verità da origini aristocratiche nel XIX, durante tutto il XX ha avuto tempo di democratizzarsi su scala planetaria. Le depressione è in agguato sempre, in ogni angolo della giornata, peste orfana di bacillo, vaiolo invisibile, demonio senza esorcismi.
Lucrezio, gran depresso di Roma cesariana, parlando dell'amore, traccia il profilo del manifestarsi di una crisi depressiva: surgit amari aliquid quae in ipsis floribus angat («qualcosa di amaro che, sorgendo, anche nei momenti di più intensa felicità ci tortura»).
La depressione è un fungo velenoso che spunta dove e quando vuole, quando non s'installa stabilmente e ti imprigiona in qualche psicofarmaco che a poco a poco dissolve la sensibilità, l'emotività, la compassione per gli altri, fino alla percezione dell'appartenenza alla specie umana e al destino comune. E ormai è pandemica; è, più del tumore, male (mal-di-essere) di tutto l'universo civilizzato, con punte specifiche in Europa occidentale e Stati Uniti.
Dicendo psiche, psicosomatica, psicoterapia, non andiamo molto in là nell'analizzarla: perché cosa sia realmente psiche, e nei moderni linguaggi fin dove ne arrivi il senso, è questione filosofica da collocare in testa. Si sa quale ne sia il nutrimento: vive di pane di pensieri dalle innumerevoli cotture. Si sa che, termine greco, anima non le corrisponde. Nel monismo ebraico, nèfesh è insieme la gola che respira e l'intero aggregato del corpo con i suoi spazi non visibili indecifrati. In Essere e Tempo, Heidegger si avvicina involontariamente al monismo psichico greco e semitico facendone designare tutto l'esistere dell'esistente pensante. Per me psiche resta enigma. Il male psichico oggi detto depressione è giustamente chiamato, dopo il libro di Giuseppe Berto, il male oscuro. Orba com'è, l'ossessione economica non sa vedere in se stessa, e nei problemi che è impotente ad affrontare, il distillato di veleno del Male Oscuro. Neppure gli riesce di vedere il parallelismo e il coincidere di depressione economica e di depressione psichica. E non è un caso certamente che nei poteri economici e della politica economica abbondino i depressi psichici, esistenze fortemente perturbate e dall'equilibrio fragile. Il mondo è dunque governato da depressi, dalle valutazioni errate per uso di antidepressivi e psicofarmaci. Fate un'inchiesta al di là delle formule e vedrete.
Io posso definirmi un depresso a ore. La peggiore di tutte è per me quella della siesta, nel primo pomeriggio, e dai suoi artigli d'avvoltoio non avrei scampo senza un impegno di compagnia in serata che fracassasse per un'ora o due la mia insolubile solitudine di vecchio in eccesso. Posso dire di avere verso questo tipo di solitudini una solidarietà e una comprensione illimitate. Là, tutte le cosiddette «rassegnazioni» mi accentuano la depressione, con una forte pepatura di furore. Chi si rassegna è perduto. Te lo immagini un Baudelaire rassegnato? Un condannato americano che abbandona la lotta per la grazia? Che cosa dice Rimbaud? «Il combattimento spirituale è altrettanto brutale della battaglia d'uomini»; soltanto la rivolta, non la rassegnazione, apre spiragli di speranza. Perché l'uomo è fatto per l'azione; c'è azione anche nella meditazione, nella preghiera, nel mantra propiziatorio. Ma il fine (se mai ne abbia uno) della depressione è di avvilupparti d'inazione, di procurarti una implacabile nausea verso qualsiasi fuga nell'azione. Il cafard atroce dei legionari stranieri era il flagello della vita di guarnigione a Sidi-bel-Abbés: i rischi mortali della guerra erano porto agognato. Però i vecchi nelle solitudini delle case di riposo non hanno che gli ignobili svaghi della televisione, seminatrice di solitudine, in una incessante ripetizione ipnotica. Mi fa rabbrividire «l'ora di socialità» per vecchi, malati, detenuti: là è di casa, per chi sia lucido, una marea nera di depressioni silenziose.
Latino mio, chi ti capisce più, qui, Paese delle romanze? Perché credo che a designare latinamente la depressione valga il termine Cura. Un verso di Valerio Marziale dice: Non venit ad duros pallida Cura toros. Nessuna epoca ne fu risparmiata, Psiche era forse già ferita prima del Big Bang. Traduco: «La smorta Cura non viene ai giacigli duri». Abbiamo materassi meravigliosamente duri, eppure quella Entità di pallore ci perseguita anche là. Bisogna, per schivarla, dedicarsi ai lavori agricoli e spenderci molto, molto sudore. Guarda le due figure dell'Angelus di François Millet, che benedice dopo una giornata su un campo di patate la campana della sera: puoi essere certo che a quella brava giovane coppia la Cura non verrà mai. Ma a un convegno di circa cinquecento giovani Carlo Petrini, ponendo la domanda: «Chi di voi sarebbe disposto a dedicarsi ai lavori agricoli?», ebbe in risposta due alzate di mano. Tutti gli altri, prima o poi, saranno inghiottiti dai farmaci: la pallida Cura è piena di zelo per le professioni puramente intellettuali, di laboratorio, di computer.
Mi sono affrettato a comprare (io credo disperatamente, ancora, alla funzione salvifica del Libro) Uscire dalla depressione del medico scrittore Rüdiger Dahlke, di medicina psicosomatica e sociale, nei cui libri, tradotti e notissimi anche in Italia, sempre si trovano illuminazione e consolazione. (Naturalmente i nostri medici di questo loro geniale collega tedesco non vogliono saper nulla). Il bravo Rüdiger è bravissimo nella descrizione delle cause che hanno reso pandemica la depressione, ma non arrischia a dirci come una terapia adeguata possa farne uscire. Addita, nel riepilogo, una palingenesi del pensare che ribalterebbe totalmente le modalità inflessibili del vivere d'oggi che producono Male Oscuro. La via si può (forse) trovare nel rigenerarsi spiritualmente: uscire dal mondo da vivi, per uscire realmente dalla depressione. Ma è un cammino che non si può fare da soli: servono i ritiri, i gruppi religiosi (non certo le famiglie), la vita comunitaria. Molti si abbandonano alle sette, a nuovi culti. Il bisogno di veri maestri, addirittura di incarnazioni divine, è a dismisura cresciuto. Perché qualsiasi cosa è preferibile all'esperienza infernale della depressione, che è di morte senza annullamento, senza un oltre. Altro che politica e servizi sociali! Qua tocchiamo e varchiamo soglie di Ignoto paragonabile a un'agonia stellare! Governi e medici ordinari riescono più facilmente ad assassinare Psiche, la verità che si nasconde, che a medicarla.
Questa mia carrellata è talmente insufficiente che quasi me ne vergogno. Ma voglio indicare, oltre ai libri del dottor Dahlke, un testo sacro che resta per me, fin dagli anni di giovinezza, di tutte le Scritture sacre la più vera, e il più San Giorgio per decapitare le illusioni false e le cause delle depressioni. Perché nulla resiste al potere di vincere il male e sciogliere i nodi che angariano l'anima con più forza di parola della Bhagavad Gita, rivelazione dell'India. Ce ne sono in italiano decine di edizioni: posso consigliare l'Adelphi, quella col commento esoterico di Raphael, l'economica Feltrinelli, specialmente di non accontentarsi di una sola, perché un testo in sanscrito risente sempre dell'interpretazione del traduttore e ancor più del commento che ne viene fatto. Utili anche i confronti con versioni in francese e in inglese, numerosissime come pannocchie di granturco. Ma credo in tutte sia tradotta allo stesso modo l'esortazione di Krishna (avatar di Vishnù) al guerriero perplesso Arjuna: «Va e combatti!» e la promessa essenziale del dio: «Chi pensa a me nell'ultimo istante verrà a me, non dubitare di questo».

Corriere della Sera 6.11.11
Non solo inglese
Perché è un affare difendere l’italiano
di Paolo Di Stefano


Il valore di una lingua non è solo culturale, è anche un valore economico. Per questo, le frequenti rivendicazioni rivolte ai governi nazionali e all'Unione Europea sull'argomento sono tutt'altro che richieste ideali. Perché l'oligarchia linguistica che di fatto, con la triade inglese-tedesco-francese, è già instaurata in Europa crea discriminazioni che hanno effetti pratici non da poco sui Paesi svantaggiati. Specie se si pensa che una lingua può servire, oltre che per la comunicazione personale e privata (le vacanze, le relazioni di amicizia, la lettura o la visione di un film), anche per proporsi sul mercato del lavoro. Il primo costo economico indiscutibile che si può associare a una lingua riguarda le spese che comporta per il singolo e per lo Stato, in denaro e in tempo, il suo apprendimento. Senza trascurare il fatto che spesso la conoscenza di uno o più idiomi stranieri viene premiata dalle aziende con un incremento di salario (è dimostrato che negli Stati Uniti gli ispanici guadagnano meno degli anglofoni). Ci sono poi costi che riguardano, per una collettività minoritaria, la salvaguardia della propria lingua: si pensi, per esempio, a quanto sono disposti a pagare, in tasse, i gallesi o i catalani o i bretoni o i sardi o i friulani, perché le loro parlate non spariscano dall'amministrazione, dai bandi, dalle leggi, dalla segnaletica stradale anche solo per ragioni simboliche e identitarie. Ci sono minoranze linguistiche più fortunate: il maltese, l'unico dialetto arabo ad essere lingua ufficiale, è riconosciuto dall'Unione Europea, così come l'irlandese (dal 2007).
Le asimmetrie, solitamente sottovalutate, nella gestione della diversità linguistica in ambito comunitario generano dunque privilegi e svantaggi, ricavi e costi. Ma c'è, per fortuna, chi si batte per un mondo linguisticamente più giusto e per compensare gli squilibri culturali, politici ed economici che derivano dalle scelte pubbliche in questo ambito. Tra i maestri dell'economia delle lingue, François Grin, direttore dell'Osservatorio Economia-Lingue-Formazione di Ginevra, ha studiato i pregi del multilinguismo nell'insegnamento e nelle organizzazioni internazionali, sfatando l'idea diffusa che il monolinguismo (solo inglese), oltre a semplificare le cose, contribuisca a un risparmio. Grin sostiene la necessità di adottare «sistemi complessi di gestione multilinguistica»: in realtà sono i contesti a determinare se e quando sia meglio utilizzare una, due, tre, quattro o più lingue: la questione dei brevetti commerciali, come si vedrà, pone problemi diversi rispetto alle discussioni nelle riunioni amministrative interne della Ue o agli annunci del traffico aereo. Alla scuola di Grin appartiene Michele Gazzola, ricercatore a Ginevra e ora anche alla Humboldt Universität di Berlino. A lui si devono diversi studi di carattere generale che affrontano la «pianificazione linguistica» e altri che si soffermano su argomenti specifici, dall'istruzione alla ricerca e all'innovazione, sempre con l'obiettivo di inseguire quella equità comunicativa che è anche equità economica.
Sta di fatto che la prevalenza dell'inglese in Europa, come fosse una lingua franca, se politicamente è una soluzione comoda finisce per produrre già in sé un indubbio vantaggio per il Regno Unito e l'Irlanda: è stato calcolato che nel 2005 la somma dei guadagni direttamente legati all'insegnamento dell'inglese, uniti ai risparmi sull'apprendimento delle lingue straniere e ai risparmi di traduzione equivaleva a circa 10 miliardi di euro l'anno, che diventavano 17 miliardi tenendo conto dell'effetto moltiplicativo degli investimenti di questi risparmi per altri scopi. Ed erano calcoli prudenti. Il monopolio linguistico comporta poi, per gli anglofoni nativi, diversi benefici simbolici (non solo morali o psicologici) come la possibilità di usare la propria lingua materna in tutte le circostanze, formali o informali, di dibattito o di conflitto: siano esse riunioni, incontri, congressi scientifici. Ciò porta a ritenere lo scenario «solo inglese», da molti auspicato in ambito comunitario, come il più iniquo di tutti. Si realizzerebbe un equilibrio quasi perfetto con l'uso dell'esperanto, la lingua artificiale ideata a fine Ottocento dall'oftalmologo polacco Ludwik Lejzer Zamenhof, in quanto porrebbe tutti allo stesso livello di partenza: ma è uno scenario che, pur implicando un risparmio globale di 25 miliardi per i Paesi della Ue, incontra parecchie resistenze e difficoltà di coordinamento internazionale nella formazione.
Ma fermiamoci all'insegnamento scolastico. In Italia il cosiddetto «inglese potenziato» (la possibilità di aumentare a cinque le tre ore obbligatorie di inglese nelle scuole medie) non è decollato, benché sia stato previsto dal Ministero. In realtà, il provvedimento porterebbe a uno scenario «solo inglese» trascurando gli eventuali benefici di cui godrebbe uno studente che conosca una seconda lingua. Persino la Svezia, che aveva sperimentato una soluzione del genere, ci ha ripensato ritenendola dannosa per il futuro del Paese. La domanda preliminare, per quanto riguarda l'Italia è questa: siamo sicuri che l'egemonia dell'inglese come unica lingua straniera di insegnamento in quanto lingua di comunicazione internazionale sia una scelta efficace (la seconda, anche se raccomandata, è di fatto marginale)? I primi Paesi di destinazione delle esportazioni italiane, fa notare Gazzola, sono Germania e Francia, seguiti da Stati Uniti e Spagna: dunque, perché puntare solo sull'inglese? Non è meglio per i tedeschi avere interlocutori commerciali capaci di parlare e vendere in tedesco e per i francesi avere soci che conoscano il francese?
«Se la realtà economica è poliglotta — afferma Gazzola — è giusto adottare una politica scolastica focalizzata su un'unica lingua»? Conclusione: sarebbe auspicabile un'educazione plurilingue «a geometria variabile». Si torna ai «sistemi complessi» di cui parla Grin. Già, ma i costi? Si calcola che una gestione multilinguistica nelle istituzioni europee costerebbe a ogni cittadino una tassa di non più di tre euro all'anno per spese di traduzione e interpretariato. E considerato l'euroscetticismo diffuso, non sarebbe male, con un sacrificio tanto esiguo anche in tempi di crisi, riuscire a ridurre le difficoltà di partecipazione, rendendo più accessibili sul piano linguistico i servizi e i canali di informazione (per esempio con pagine web disponibili nei diversi idiomi): la politica non può trascurare l'aspetto psicologico dei suoi cittadini. Annullare il più possibile la distanza, posta dal filtro linguistico, tra istituzioni e comunità dovrebbe essere un impegno primario.
Il discorso sulla scuola secondaria si potrebbe estendere facilmente anche all'università, dove peraltro le cose si complicano. Il governo italiano sembra appoggiare senza dubbi l'introduzione di corsi in lingua straniera nelle università sin dalla laurea triennale: la tendenza prevalente è quella dell'«anglificazione» dei percorsi di studi, favorita dal fatto che nelle classifiche mondiali più in voga il numero di studenti stranieri iscritti viene considerato arbitrariamente un indicatore di qualità delle università. Il Politecnico di Torino, nell'anno accademico 2007-2008, ha sostituito alcuni corsi di laurea triennale in italiano con equivalenti corsi in inglese, rendendo gratuita per gli studenti italiani l'iscrizione al primo anno per le lauree in inglese e scoraggiando così l'apprendimento in lingua italiana in un istituto in cui per il 70 per cento dei neolaureati il mercato di riferimento è piemontese.
Dunque, la parola d'ordine degli atenei è: internazionalizzare il più possibile. E cosa c'è di meglio, per attirare studenti dall'estero, che moltiplicare i corsi di laurea in inglese? I vantaggi di questa prospettiva non devono oscurare alcune ragionevoli obiezioni: in primo luogo il rischio di erigere discutibili barriere linguistiche nell'accesso agli studi superiori per una parte di studenti italofoni, con relativi costi aggiuntivi (trasferimenti o corsi di aggiornamento); in secondo luogo la constatazione che la conoscenza dell'inglese (e in genere delle lingue straniere) nel mercato del lavoro italiano non è di fatto particolarmente richiesta. Una ricerca realizzata dal Censis e dal ministero del Lavoro nel 2006 dimostrava che solo una minoranza delle imprese italiane, il 35 per cento, fa uso di lingue straniere in ambito lavorativo. Tornando all'università, andrebbe semmai valutato se la crescente anglofonia accademica non comporti gravi guasti nella trasmissione del sapere. Specie se questo fenomeno non riguarda soltanto le discipline economico-aziendali o tecnico-scientifiche ma anche quelle umanistiche. Bisognerà chiedersi poi se tutto ciò non imponga, in definitiva, un impoverimento della competenza nella lingua madre, che dovrebbe essere pur sempre centrale per le sue implicazioni cognitive. E ancora, a proposito di internazionalizzazione: se uno studente greco in Italia studia ingegneria in inglese, gli si preclude la possibilità di acquisire il linguaggio scientifico italiano, che resta un fattore indispensabile per lavorare efficacemente sul territorio nazionale, oltre che un valore aggiunto nel mercato europeo rispetto ai tanti che conoscono solo l'inglese.
Certe scelte tecnocratiche con una parvenza di modernità esterofila rivelano soltanto un atteggiamento provinciale di sottomissione psicologica. È un'inclinazione tipicamente italiana. Qualche mese fa su questo giornale, Ernesto Galli della Loggia ha denunciato i nuovi criteri di valutazione per i candidati ai concorsi universitari: si stabilisce che le riviste cosiddette internazionali godono di una valutazione maggiore rispetto alle riviste cosiddette nazionali. Idem per gli studi in volume. Il che, oltre a relegare d'ufficio in serie B le pubblicazioni e gli editori italiani, sancisce la maggiore dignità scientifica della lingua inglese. Eppure non di rado siamo noi i migliori.
Prendiamo l'ambito dell'invenzione. Da qualche tempo si discute del brevetto valido per tutti i 27 Paesi dell'Unione. Quali lingue vanno adottate nelle procedure di richiesta? La scelta avrà un impatto asimmetrico sui costi sostenuti dalle imprese incidendo sulla competitività. Oggi se un'azienda tedesca vuole convalidare il proprio brevetto in Ungheria, Italia, Spagna, Portogallo e Romania, deve tradurre integralmente il testo nelle cinque lingue ufficiali di questi Paesi: per un costo di quasi 8.900 euro. Qualora la richiesta passasse da cinque a tutti i 27 Stati europei, la cifra salirebbe a quasi 30 mila euro. L'adozione di norme meno dispersive e più semplici comporterebbe indubbiamente notevoli risparmi, ma appunto: con quali criteri? Anche qui le opzioni prevalenti sono in sostanza due: il sistema «solo inglese» o la solita scelta limitata a francese, tedesco e inglese. Con risultati di vistoso squilibrio.
Che cosa significa per un'azienda italiana? Evitando di illustrare i vari e complessi passaggi, la conclusione è che nel caso di un regime trilingue le spese di traduzione fanno aumentare del 28 per cento il costo della procedura rispetto alle imprese di Francia, Germania e Regno Unito. Sorprendentemente il divario fra un'impresa italiana e una inglese salirebbe addirittura al 30 per cento qualora l'inglese fosse l'unica lingua di procedura. Viceversa, un regime a cinque lingue (cioè con italiano e spagnolo in aggiunta), per esempio, diminuirebbe i costi complessivi. A dimostrazione che anche sul piano economico, oltre che culturale, l'apertura è sempre meglio. Per ovviare a questi scompensi, non si potrebbe neanche ricorrere, come auspicato dalla Commissione, ai sistemi di traduzione automatica, poiché sono ancora pochissimo affidabili: quello consigliato si chiama Pluto (acronimo di Patent Language Translations Online) e richiede cinque anni per essere perfezionato. Si tratta di aspettare. Intanto, fermo restando che i paesi germanofoni e francofoni vantano oggi la leadership dei brevetti rilasciati a imprese europee (con il 50 e il 17 per cento), negli ultimi anni l'Italia (7,5 per cento) e l'Olanda (7,1) hanno superato i paesi europei di lingua inglese (6,8). Come inventori ci facciamo valere. Sarebbe bene cominciare a farsi valere con coraggio anche sul piano culturale e linguistico, cioè economico.

Corriere della Sera 6.11.11
Gli echi ancestrali del lessico familiare
di Roland Breton


In ogni individuo emerge immediatamente la presenza fondamentale della cosiddetta lingua madre, quella ascoltata ancor prima di nascere e che può essere anche chiamata parentale, ancestrale o nativa. Si tratta della lingua parlata nel contesto familiare sin dalla prima infanzia, negli anni in cui si impara a parlare e a formulare concetti basilari. Questa prima lingua costituisce il substrato che influenzerà l'eventuale apprendimento di altre lingue, grazie a cambiamenti ambientali o contatti extrafamiliari. Ciò può condurre all'uso di lingue veicolari il cui utilizzo nei contesti relazionali, commerciali ed economici può superare quello della lingua vernacolare (letteralmente «del mondo indigeno», domestica o servile). Altre lingue ancora, diverse dalla lingua nativa secondo gradi differenti, possono essere usate come mezzo per l'insegnamento o essere oggetto di studio. L'uso frequente e necessario, ovvero quotidiano e continuo, di queste lingue secondarie può in alcuni casi far sì che esse acquisiscano un posto privilegiato nella psicologia e nella vita culturale dell'individuo, arrivando persino a soppiantare quella della lingua nativa.

Corriere della Sera 6.11.11
Armand Gatti
L'uomo che legge Gramsci agli alberi
Drammaturgo e scrittore: le vere rivoluzioni iniziano dal linguaggio La sua parola errante dà speranza agli esclusi. «Mao mi spiegò la poesia»
di Gianluigi Colin


Mi scusi signor Gatti, che cosa pensa dei gatti? Armand Gatti, classe 1924, drammaturgo, poeta, scrittore, giornalista, regista, si guarda intorno nella casa di famiglia di Pianceretto in Piemonte. Come l'altra abitazione di Parigi (atelier, biblioteca, teatro...) anche qui ogni spazio è riempito da libri, quadri, calligrafie cinesi, manifesti teatrali, fogli, fotografie, sculture e un bellissimo orologio che segna il passare del tempo cinguettando come il pettirosso. Una vera wunderkammer, un infinito luogo della memoria, simulacro di una vita all'insegna della parola, anzi della Parola errante. Sull'entrata una meridiana con inciso un verso di Plotino: «Lavoro per liberare la divinità». «Noi siamo figli della parola/nati dal ritmo del mare» dice Gatti in un suo poema, ma poi non dimentica di gettare il sasso in quel mare per creare onde di disturbo: «...le parole diventano pensiero nel momento in cui entrano in turbolenza». Insomma, la parola come lungo cammino verso la libertà.
Gatti, con il suo maglione nero che avvolge una figura ancora possente, guarda sornione e capisce: si porta le mani al viso e ride, ride di gusto perché questa domanda insulsa — che cosa pensa dei gatti? — lo riporta a quando lui, giovane giornalista di «Paris Match», chiese la stessa cosa all'inavvicinabile Angelo azzurro, la grande Marlene Dietrich che gli aveva concesso un'intervista in esclusiva.
Ma la divina non capì lo spirito della domanda, non stette al gioco, e allora Gatti si alzò, andandosene senza il pezzo per il giornale tra le urla che lo inseguirono sino al direttore, al quale fu richiesta la testa (inutilmente) di quell'impertinente cronista. «Volevo solo accedere alla verità dalla Dietrich, oltre la scorza dello spettacolo», raccontò poi davanti agli increduli colleghi. In questa scena c'è tutto Armand Gatti: irrequieto, ironico, sfrontato, imprevedibile, anarchico. Un irregolare, insomma. Ma geniale, sempre. Come quando, nel '54, ancora come inviato, per un servizio sul mondo dei domatori non esitò a mettere la sua testa dentro la bocca di una leonessa: «Volevo capire cosa si provava lì dentro». Ne uscì un articolo che gli fece vincere il Prix Albert Londres, il Pulitzer francese. Anche in questo caso il gesto e la parola come ribaltamento dei codici, come rivoluzione: «Le vere rivoluzioni cominciano tutte dal linguaggio», precisa.
E il linguaggio rappresenta il filo conduttore di tutto il suo teatro, anzi, della sua stessa esistenza. «Le parole mi leggono» dice spesso. Una parola non arriva per cancellare la precedente, ma per arricchirla. Non scrivo mai su qualcosa, ma con qualcuno. Nella parola, come nell'atomo, c'è un'equivalenza: la particella (la sillaba) è la stessa cosa che la sua onda, nel senso che l'accompagna. Solo così può continuare l'erranza della parola».
Non a caso, il suo è un teatro incandescente, che parla delle ingiustizie, che tocca i grandi temi dell'esistenza, un teatro militante. Gatti si muove come uno sciamano sui confini del visibile e dell'invisibile: cita la fisica quantistica, viaggia tra le scritture orientali, percorre il pensiero delle filosofie e delle religioni. Un lavoro di intervento e interrogazioni certamente anche teoriche, ma sempre dentro la carne viva della vita. Per questo a Gatti è così caro San Francesco d'Assisi: «...perché sempre dalla parte della vita. Anche in punto di morte ha chiamato Chiara ed è morto in piena apoteosi».
E ricorda: «La parola è il vero elemento collante tra gli universi e ogni uomo è un sole». Un sole spesso oscurato dal dolore ma per il quale comunque vale la pena combattere. D'altronde, la sua stessa vita è stata una battaglia per la difesa dei diritti elementari, battaglia incarnata dalla figura simbolo del padre, Augusto, che ha ispirato una delle sue opere più importanti: La vita immaginaria dello spazzino Augusto G.
Non si può comprendere l'opera di Gatti se non si conosce la vita del padre: emigrato negli Stati Uniti, anarchico e pacifista, assiste all'impiccagione dei fratelli Vittorio e Alfonso, anche loro emigranti italiani, uccisi, innocenti, come i più celebri Sacco e Vanzetti. Fatto che aumenta la sua indignazione: «Durante uno sciopero — ricorda Gatti — mio padre viene sequestrato da una squadra della Pinkerton, l'agenzia investigativa usata per soffocare le battaglie dei lavoratori. Chiuso in un sacco, viene pugnalato e gettato nel lago di Chicago. Ma le 22 coltellate strappano il sacco e Augusto sopravvive».
Il padre di Gatti non può tornare in Italia: è ricercato dalla polizia di Mussolini come sovversivo. Si ferma a Monaco, nel Principato, dove nasce Dante Sauveur Gatti, chiamato Armand. «Mio padre Augusto — spiega Armand — a Monaco lavorava come spazzino, militando sempre nelle fila anarchiche in un gruppo dove c'erano anche dei sopravvissuti di Kronstad. Lui era un vero poeta, a suo modo un inventore di immagini. Difendeva la natura e piantava alberi attorno al casinò contro la speculazione edilizia che premeva per costruire. Lo hanno trovato una mattina con la testa fracassata accanto al carretto delle immondizie. La sua colpa? Piantare alberi. Lo hanno ucciso per questo».
«Ero figlio di emigranti poverissimi. Ricordo che mio padre all'ora di pranzo faceva apparecchiare tutti i giorni la tavola e ci obbligava a sederci. Naturalmente quei piatti rimasero sempre vuoti. Una grande immaginazione la sua: ci alzavamo e ci sembrava di essere sazi. Mi difendevo furiosamente nelle strade, a scuola ho scoperto che la mia vera arma doveva essere solo la parola. La lingua è diventata così una famiglia, l'esistenza stessa, il tutto». Era naturale la sua entrata nella Resistenza. Poi, il destino lo ha portato anche in un campo di lavoro in Germania. Ma torna a casa a piedi attraversando l'Europa: «Mi resi conto solo dopo che avevo fatto lo stesso tragitto di Hölderlin quando era partito verso il sole, dal mar Baltico all'Atlantico». A forza di leggere, alla fine della guerra Armand Gatti non sapeva fare altro che scrivere. Comincia così la sua carriera nei giornali, che gli sta stretta, ma che lo porta ad avere incontri straordinari.
«Se le vite avessero i titoli di testa, in quella di Armand Gatti vedremmo scorre in disordine quella di Mao Tse-tung, Marlene Dietrich, Charles de Gaulle, Ernesto Che Guevara, Simon de Beauvoir, Paolo Grassi, Fidel Castro...», ricorda Marco Cicala in un bel volume (Tre anarchici: il poeta, il rivoluzionario, il falsario, edizioni Forum) in cui si narrano le vite di Abel Paz, (il rivoluzionario) Lucio Urtubia (il falsario) e di Armand Gatti, appunto, il poeta.
Già, il poeta. Non sembra vero, ma la sua poesia è partita da un incontro con Mao Tse-tung: «Mao ha cominciato a parlarmi come nascono i nomi nella lingua cinese, abbiamo discusso a lungo degli ideogrammi: suo padre lo chiamò Mao perché vuol dire pennello e il padre lo voleva pittore...».
Gatti fa ondeggiare nell'aria le mani enormi e affusolate come un direttore d'orchestra. E continua: «Noi siamo sempre alla ricerca del senso della vita. C'è il maschile, il femminile, poi c'è il soffio. Sì, il soffio. È il soffio dell'anima che muove e contiene tutto. Ricordiamoci che non c'è una risposta, c'è solo una domanda. E Mao mi disse che dovevo cercare questa domanda attraverso la poesia. Tutto è cominciato da lì...».
Gatti è un poeta che vive la Parigi dei surrealisti, con l'entusiasmo di un ragazzo vorace della vita: «Un giorno, vado a una mostra d'arte, ricorda. Un uomo mi mette una mano sulla spalla e mi sussurra: "amo molto quello che fa". Quell'uomo era Pablo Picasso».
Ovviamente nasce un'amicizia. E quell'amicizia porta ad altri incontri: «Mi fece conoscere Paul Eluard. Un giorno mi disse: io e te non siamo d'accordo su molte cose. Sai cos'è per me la rivoluzione? E allora Paul si mise a cantare invocando un nome: Nush, Nush, Nush... Apparve una ragazza molto bella. Voilà le revolucion… ecco, la mia rivoluzione».
C'è una foto tra i libri in cui si vede un giovane Armand, sorridente e bellissimo: anche lui ha vissuto molte rivoluzioni, per dirla alla Eluard. Una (durata molto breve, in verità) anche con Simone de Beauvoir: «Sei un anarchico, quindi un reazionario, mi ripeteva ossessivamente».
Sul tavolo, tra gli appunti, i fogli e i libri, una tigre, e altri piccoli di animali di plastica. Sembra sia passato da quelle parti un bambino: «Perché sono qui accanto a me? Con loro parlo, c'è un dialogo che non si interrompe mai. Parlo più con loro che con il mio vicino», dice scherzando.
Poi, guardando il suo giardino di querce e faggi ricoperti dai colori dell'autunno: «Anche con loro parlo. Ne pianto uno ogni volta che un vero amico viene a trovarmi e lo battezzo con il Grignolino. Spesso esco e tra le foglie leggo i libri agli alberi...come facevamo durante la Resistenza a Berbeyrolle quando ci hanno preso: leggevamo Gramsci agli alberi».

Repubblica 6.11.11
Aumenta la disuguaglianza diminuisce la democrazia
di Jean-Paul Fitussi


la disuguaglianza e il suo aumento inarrestabile sono al tempo stesso causa ed effetto della crisi. Perché si è arrivati a questo punto? Nei Paesi industrializzati veniamo da trent´anni di crescita della disuguaglianza di pari passo con la dottrina dominante, che dalla rivoluzione conservatrice dell´inizio degli anni Ottanta ha generato una conversione al liberalismo, al free trade, alla deregolamentazione. Il fenomeno è caricaturale negli Stati Uniti, dove il 10% più ricco ha visto la quota di reddito nazionale aumentare del 15% mentre il salario medio dell´altro 90% conosceva una stagnazione.
Oggi la disuguaglianza è più forte che alla vigilia della crisi, e la ragione è la seguente: se c´è una stagnazione del reddito della grande maggioranza della popolazione, la domanda globale è bassa. Per contrastare quest´insufficienza la politica monetaria diventa espansionista. La gente che aveva difficoltà ad arrivare alla fine del mese ha fatto prestiti, e così il debito privato è aumentato. Dall´altra parte ci sono quelli che hanno avuto benefici dall´aumento della disuguaglianza, cioè i ricchi, che hanno visto la loro quota di reddito aumentare in modo enorme. Si sono ritrovati con un mucchio di soldi da spendere e hanno comprato case, titoli, azioni. Il che spiega la bolla speculativa, aggravata dal ritardo con cui ci si è accorti che questa accumulazione di ricchezza era illusoria, perché i mercati stavano sopravalutando il valore degli asset. Mentre accumulavano ricchezza i ricchi accendevano prestiti, che sono andati a sommarsi ai debiti di necessità del resto della popolazione. Quando le bolle speculative sono esplose, tutte le economie del mondo si sono trovate davanti a un eccesso di debito privato che ha fatto crollare le economie. Questo crollo ha fatto diminuire le entrate fiscali e quindi aumentare il disavanzo pubblico. I governi hanno provato a contrastare l´effetto della crisi con piani di rilancio finanziati con risorse pubbliche: c´è stata una sostituzione fra debito privato e debito pubblico.
Ha contribuito all´aumento della disuguaglianza la diffusa fede che per guadagnare in competitività in un´epoca di globalizzazione le cose più importanti fossero diminuire lo stato di protezione sociale, ridurre il costo del lavoro, non tassare i ricchi per evitare che cambiassero Paese. Si è diminuita la progressività dell´imposta e si sono alleggerite le tasse solo sulle imprese. È urgente invece rendersi conto che il sistema capitalista non può sopravvivere che in un contesto dove la disuguaglianza è tenuta sotto controllo. Va ripristinato il principio-base della democrazia, che è «una persona un voto», e non come indica il mercato «un euro un voto». Servono compromessi tra principi contraddittori, il capitalismo ha conosciuto i suoi periodi di gloria quando è riuscito in questo compromesso, aumentando per esempio la protezione sociale, fattore cruciale di stabilizzazione. Serve insomma la consapevolezza che se la disuguaglianza è troppo elevata si pone un serio problema politico di regressione della democrazia.
(Testo raccolto da Eugenio Occorsio)

Repubblica 6.11.11
Lotta di classe
Chi sono i ricchi e perché sono sempre più ricchi
di Federico Rampini


L’uno per cento della popolazione mondiale possiede il quaranta per cento delle ricchezze del pianeta. Ecco come vive, dove vive, cosa fa e come spende i suoi soldi quella parte dell´umanità contro cui (e in nome del restante 99%) si batte il movimento Occupy Wall Street
Nel 1774, appena il 9% del totale era in mano all´aristocrazia inglese d´America
Negli Stati Uniti l´upper class prende il volo dal 1982, quando Reagan sferra l´attacco al welfare state

NEW YORK. «Mamma, che cosa ci fa tutta questa gente sul nostro aereo?». Il figlio di Jacqueline Siegel non riusciva a darsi una spiegazione, la prima volta che si trovò in fila per l´imbarco (prima classe ovviamente) con tanti sconosciuti, lui che era abituato a viaggiare col padre sul jet privato dell´azienda. Benvenuti nel mondo ovattato dell´1%.
Una categoria sociale finita sotto i riflettori dell´attenzione pubblica grazie al movimento Occupy Wall Street: quello che si autodefinisce «il 99%» e denuncia i privilegi dell´oligarchia. Se vivete a Manhattan, cioè nel cuore della protesta, da quali segnali si capisce se appartenete al vituperato o invidiato un per cento? Ecco 12 comandamenti che tracciano la linea di demarcazione nella vita quotidiana. È un test empirico, la prova della verità che tradisce i veri privilegiati. Primo: vestite rigorosamente made in Italy (con l´eccezione delle scarpe Louboutin) comprando da Bergdorf Goodman sulla Quinta Strada. Secondo: cenate da Masa (il giapponese col menù senza prezzi…), Per Se, Marea, Babbo, e almeno una volta all´anno vi concedete il personal chef a casa con catering a tre stelle. Terzo: abbonamento fisso alla Metropolitan Opera, più donazione fiscalmente detraibile. Quarto: si vola solo BusinessFirst, se non è accessibile il Gulfstream. Quinto: mai in metropolitana, neppure se nevica. Sesto: assidua frequentazione di una Spa-fitness, con massaggiatore e trainer personale. Settimo: abbonamento al Wall Street Journal. Ottavo: vacanze estive in Toscana, ad Aspen per sciare, weekend nella casa agli Hamptons. Nono: figli in una scuola privata del tipo Waldorf (pedagogia progressista ma competitiva), retta di partenza trentamila dollari l´anno. Decimo: niente conto corrente bensì un telefono diretto con il servizio personalizzato Wealth Management di una grande banca. Undicesimo: il palazzo dove abitate deve avere i portieri in livrea. Dodicesimo: i cani vi piacciono di razza, ma è il dog-sitter che ve li porta tutte le mattine a Central Park.
Queste regole di vita da un per cento cambiano di poco se siete in Cina, paese che ha appena varcato la soglia di un milione di milionari: è nella Repubblica Popolare che Burberrys ha visto crescere del 34% le sue vendite in sei mesi, che Zegna ha inaugurato il suo settantesimo negozio, che la casa d´aste Christie´s ha venduto per quattro milioni di euro un paio di pistole d´epoca Qing con impugnatura d´oro incastonata di gemme. Non varia molto in Brasile, dove il potere d´acquisto dei benestanti è così florido che Louis Vuitton carica un sovrapprezzo del 100% rispetto agli stessi prodotti nel suo negozio sugli Champs-Elysées.
Stiamo parlando di una esigua minoranza di straricchi? Sono i soliti banchieri, magnati d´industria, star dello spettacolo? Non soltanto. Negli Stati Uniti gli individui con una ricchezza netta da 1 a 5 milioni - è la soglia sopra la quale i gestori patrimoniali vi classificano come «alti patrimoni» - sono 26,7 milioni. Altri 2 milioni di americani hanno un patrimonio fra i 5 e i 10 milioni netti. Un milione di persone stanno sedute su un gruzzolo dai 10 ai 100 milioni. Infine 29mila svettano sopra i 100 milioni di dollari. Tutti insieme fanno più di metà della popolazione italiana. Se vogliamo restare nella definizione precisa dell´1%, cioè solo tre milioni di americani, qui la soglia d´ingresso si misura in base al reddito. I dati dell´Internal Revenue Service (il fisco americano) segnano il confine esatto: bisogna percepire un reddito di almeno 506mila dollari lordi annui (375mila euro) per entrare nella cerchia dei tre milioni di persone che sono l´1% della popolazione americana. A livello mondiale per isolare l´1% che sta in cima alla piramide bisogna ritornare invece alle statistiche sul patrimonio, perché più omogenee. Il Global Wealth Report del Credit Suisse indica che costoro controllano il 38,5% della ricchezza mondiale, e che i loro averi sono cresciuti del 29% in un solo anno: è una velocità doppia rispetto alla crescita della ricchezza complessiva del pianeta.
Dunque Occupy Wall Street denuncia un fenomeno reale, quelli che stanno "lassù" hanno spiccato il volo, distanziando sempre di più la maggioranza della popolazione. Un affascinante studio degli storici Peter Lindert e Jeffrey Williamson dimostra che mai nella storia passata l´1% ebbe una quota così larga della ricchezza nazionale. Nel 1774, quando ancora c´era il colonialismo inglese e quindi l´aristocrazia, l´1% dei privilegiati nel New England controllavano appena il 9% del totale. La nobiltà dell´epoca viveva in condizioni meno distanti dalla media, rispetto alle nuove oligarchie del terzo millennio. Nella storia americana la dilatazione abnorme delle diseguaglianze ha una data di nascita: il 1982.
Non a caso, è l´inizio dell´era di Ronald Reagan segnata da un sistematico attacco al welfare state, al potere dei sindacati, insieme con politiche fiscali sempre meno progressive. È dal 1982 che l´1% si stacca dal resto, si alza verso la stratosfera, allarga le distanze: nel quarto di secolo successivo la sua quota del reddito nazionale viene più che raddoppiata, sale oltre il 20%; la quota di ricchezza va ancora più su, supera il 33%. È la traiettoria che illustra l´ultima copertina del settimanale The Nation: «Wall Street ha inventato la lotta di classe». Quando quel concetto era ormai diventato tabù nel dibattito politico americano, se ne sono appropriati i ricchi e il conflitto sociale sulla distribuzione delle risorse lo hanno stravinto loro. Ma c´è anche chi invita a compatirli. Robert Frank nel saggio The High-Beta Rich racconta la storia della famiglia Siegel, quella del figlio che non si capacita di dover salire in aereo con degli sconosciuti. Dopo aver fatto fortuna nell´immobiliare, ed essersi costruiti "la Versailles degli Stati Uniti" a Orlando, in Florida (23 stanze da bagno, un garage per 20 auto, 2 sale cinematografiche), se la sono vista pignorare dalle banche quando il mercato è crollato. «Gli straricchi non hanno mai sofferto una volatilità così esasperata della loro fortuna, legata ai mercati finanziari», spiega Frank.
Dunque l´1% è una categoria a rischio, ad alta mobilità, si entra e si esce con la porta girevole a gran velocità. Perciò nel 2008 fu varato il welfare dei banchieri: 600 miliardi solo per salvare Wall Street.

Corriere della Sera 6.11.11
La sinistra tra massimalismo e riformismo
di Giuseppe Bedeschi


La sinistra italiana è stata per lungo tempo refrattaria al riformismo. La storia di questa ostilità è complessa, e può essere utile richiamarne alcuni momenti salienti nella vita dell'Italia repubblicana. Palmiro Togliatti — che pure, nel dopoguerra, aspirava a far collaborare il Pci con la Democrazia cristiana per un lungo periodo storico — Togliatti, dicevo, nel 1946, di fronte ad alcuni risultati elettorali insoddisfacenti per il suo partito, mise in guardia verso il pericolo che quei risultati inducessero il gruppo dirigente comunista a lasciar «penetrare una critica alla linea generale del partito, la quale lo spinga o verso il riformismo o verso un estremismo "classe contro classe" che ci farebbe perdere la nostra fisionomia di partito nazionale». Due, quindi, erano gli scogli da evitare, secondo Togliatti: l'estremismo rivoluzionario e il riformismo. Ma qual era la via di mezzo? Era una via di mezzo per modo di dire, del tutto apparente, in quanto postulava le «riforme di struttura» (da non confondere con le miserevoli «riforme» del riformismo!), cioè un complesso di nazionalizzazioni e di controlli sulla gestione delle aziende e sulla vita economica, che aprissero la strada a un socialismo statalistico.
Le cose non andarono meglio col Partito socialista di Pietro Nenni, anche dopo che, nel 1956, esso incominciò a distaccarsi dal Pci e ad avviare, col centrosinistra, una propria politica autonoma. Nell'ottobre del 1961 Nenni dichiarò al Comitato centrale del suo partito che i socialisti non avevano nulla da spartire con la socialdemocrazia, che aveva ridotto il discorso sul socialismo «a un balbettio sulla giustizia sociale dissociata dalla volontà di rovesciare la società capitalistica». Era, questo di Nenni, un atteggiamento tattico per tenere a bada le correnti della sinistra socialista (fortissime nel partito), ostili al centrosinistra? Può darsi. Ma non era certo un atteggiamento tattico quello di Riccardo Lombardi, uno dei principali fautori dell'autonomia socialista e del centrosinistra, il quale a un certo punto passò all'opposizione nel suo partito, perché la politica di centrosinistra non realizzava «riforme di struttura» (da non confondere, di nuovo, con le miserevoli «riforme» del riformismo!), capaci di «modificare i rapporti di classe e i rapporti di potere, e di incidere realmente sul sistema dell'accumulazione privata», avviando così il superamento della società capitalistica.
Né miglior fortuna ebbe il riformismo con Enrico Berlinguer, che pure perseguì per molto tempo una politica di «compromesso storico» con la Democrazia cristiana, ma nella prospettiva, tenuta sempre ben ferma, della realizzazione di una «terza via», né sovietica né socialdemocratica, capace di portare a una società socialista.
Parliamo di cose molto lontane nel tempo, certo. Esse appartengono a un passato remoto. A un passato, però, che non risale a un secolo fa, e che ha lasciato un retaggio nel quale si sono formati gruppi dirigenti che sono ancora al centro della scena politica.
È vero: la sinistra ha fatto da allora moltissimi passi in avanti, ha largamente modificato le proprie idee e la propria cultura. Ha governato per vari anni la nostra società, basata sull'impresa e sul mercato. E tuttavia tutti ricordano le grandi difficoltà di quei governi di sinistra, tutti ricordano come cadde il primo governo Prodi, e la vita stentata del secondo governo Prodi. Vita stentata perché la vittoria della sinistra nelle elezioni del 2006 fu risicatissima (un vantaggio di poche decine di migliaia di voti), segno che il programma e l'immagine della sinistra non avevano convinto la grande maggioranza del Paese, pur dopo la prova deludente data dalla destra nei cinque anni precedenti; ma vita stentata anche e soprattutto per le spinte massimalistiche che all'interno dello schieramento di sinistra ostacolavano Prodi, fino a organizzare manifestazioni di piazza contro il suo governo.
Massimalismo e riformismo, ecco le due anime che ancora oggi dividono la sinistra. Ed ecco perché la sintesi politica al suo interno è così difficile, ecco perché la sinistra trova tanta difficoltà a presentarsi al Paese con un programma unitario e convincente. Riformare il mercato del lavoro, intervenire sull'età pensionabile in modo da adeguarla alla vita media di oggi; liberalizzare le professioni e privatizzare le aziende controllate dalla mano pubblica (passive nella loro maggioranza, e vere e proprie greppie per i partiti), eccetera. Queste sono le riforme di cui una sinistra moderna dovrebbe farsi carico. E tanto più dovrebbe farlo dopo il fallimento della destra, che ha condannato il Paese all'immobilismo e alla stagnazione.
Ma per fare queste riforme, vitali per il Paese, occorre una cultura riformistica, una mentalità riformistica, una capacità riformistica. Senonché il riformismo è sempre stato nel nostro Paese la pecora nera, un'idea di serie B, una cosa di cui vergognarsi.

Repubblica 6.11.11
Mitteleuropa
Roth: Caro Stefan, combatterò le belve
Caro Joseph, non odierò nessuno
Anno 1933, in Germania il nazismo ormai è al potere Due grandi intellettuali, entrambi austriaci, ebrei ed esuli, da Parigi, Bruxelles, Londra, tengono un carteggio rimasto finora inedito. Un documento straordinario sui giorni più bui del Novecento. Le lettere
di Joseph Roth e Stefan Zweig


«La Germania è morta, per noi è morta. È stata solo un sogno, apra gli occhi, la prego!». Così scrisse Joseph Roth a Stefan Zweig nel 1933, l´anno della presa del potere di Hitler. È un momento chiave del carteggio tra i due grandi scrittori austriaci esuli che la casa editrice Wallstein di Gottinga (www.wallstein-verlag.de) ha appena pubblicato (Jede Freundschaft mit mir ist verderblich-Joseph Roth und Stefan Zweig, Briefwechsel 1927-1938). Documento straordinario di cui pubblichiamo questi estratti. Confessioni, litigate e riconciliazioni tra i due offrono testimonianza e memoria uniche del dramma dell´intellighenzia mitteleuropea ed ebraica davanti all´ascesa del nazismo e degli altri totalitarismi. Due caratteri quasi opposti s´incontrano e si confortano nel destino comune dell´esilio: Zweig già scrittore di rango, benestante, con una tranquilla situazione familiare, Roth feuilletonista instabile e alcolizzato invitato invano dall´amico a smettere di bere. Ma dei due è Roth spesso il più lucido, quello che capisce per primo e avverte l´altro della catastrofe in corso e del suo inevitabile epilogo tragico. Un´amicizia che si rompe anche per dissensi tra Roth più pessimista e Zweig possibilista, sullo sfondo della Seconda guerra mondiale imminente, e la storia di due vite distrutte di esuli. «Non diverremo vecchi, noi esuli», scrive Zweig quando Roth muore a Parigi. Nel 1942, Zweig stesso si toglie la vita a Petropolis in Brasile. (Andrea Tarquini)

Lo storico è convinto che la guerra arriverà ma che ci sia ancora speranza. Più lucido l´autore di "Fuga senza fine": "Contro Goebbels e i milioni che lo seguono, contro queste iene sperare non ha alcun senso"

26 marzo 1933
(Hotel Foyot, Parigi)
aro amico, la prego di fare attenzione che le Sue lettere indirizzate a me viaggino attraverso la Svizzera. Alcune passano dalla Germania. Sono d´accordo con Lei. Bisogna aspettare. Non sappiamo quanto a lungo. L´ottusità del mondo è maggiore che nel 1914. Gli uomini non si commuovono più quando uomini feriscono e uccidono. Nel 1914 almeno da ogni parte ci si sforzò di spiegare la bestialità con motivi e paraventi umani. Ma oggi la bestialità si adorna di spiegazioni più bestiali della bestialità stessa. [...] Le sia chiaro: nella misura in cui una belva malata come Goering si differenzia da Guglielmo II che rimase sempre nell´ambito dell´umano, ecco, in questa misura il 1933 è diverso dal 1914».
J.R.

6 aprile 1933
(Hotel Foyot, Parigi)
«Caro amico, cerchi di capire finalmente che Lei è capro espiatorio per tutti i peccati degli ebrei, non solo per quelli di chi portò nomi simili al suo. Se Goebbels la confonde o no con un altro, per lui è indifferente. Lei per lui non è migliore né diverso [...].
Si faccia una ragione della realtà che i quaranta milioni che obbediscono a Goebbels sono ben lontani da fare alcuna differenza tra Lei, Thomas Mann, Arnold Zweig, Tucholsky o me. Tutto il nostro modo di vivere è stato vano. Lei non è confuso con altri perché si chiama Zweig, bensì perché è ebreo, bolscevico della cultura, pacifista, letterato della civiltà, liberale. Ogni speranza è insensata.
[...] Io sono un anziano ufficiale austriaco. Amo l´Austria. Ritengo vile non dire oggi che è venuto il tempo di provare nostalgia per gli Asburgo. Voglio riavere la monarchia, e voglio dirlo».
J.R.

30 ottobre 1933
(11, Portland Place, Londra)
«Caro amico, stiamo splendidamente bene, ho preso un bell´appartamento in affitto, lavoro al mattino e fino alle 15 in biblioteca, poi a casa. La gente qui è piena di riguardo e attenzioni, simpatica, il clima dei rapporti umani è incoraggiante anche per il lavoro. Lei, caro amico, si sentirebbe sicuramente molto meglio, molto più a suo agio qui che non a Parigi, o nella Sua solitudine. Io già da quattro settimane ho smesso di fumare, ciò mi giova molto, e d´altra parte colgo già molti sospiri di sollievo dal fatto di non ricevere notizie da casa. Suo nel cuore».
S.Z.

3 novembre 1933
(11, Portland Place, Londra)
«Caro amico, dopo giorni splendidi ne affronto di difficili. S´immagini, ho appreso di attacchi contro di me a Vienna e poi ho saputo, tre settimane dopo, che l´editore Insel ha pubblicato - senza chiedermi l´autorizzazione e senza nemmeno comunicarmi la decisione in anticipo - una lettera che io Le avevo scritto di Suo auspicio per evitarle problemi nella questione con Klaus M! [Klaus Mann, ndr]. Ho preso la decisione che da tempo mi pesava sul cuore, ho inviato una richiesta di pubblicazione della mia posizione al giornale A. Z. che deve uscire domani e La prego, se la vedrà, di chiarire tutto con tutti e inviarmi anche ritagli di attacchi alla mia persona, in modo che io possa reagire subito ed energicamente».
S.Z.

7 novembre 1933
(Rapperswill)
«Caro amico, da tutti coloro, senza eccezione, i quali hanno funzioni pubbliche per la Germania, con la Germania, in Germania, mi divide quel che distingue l´uomo dalla bestia. Contro iene puzzolenti, contro l´inferno, persino il mio vecchio avversario Tucholsky è mio compagno d´armi. Sento già l´obiezione: noi siamo ebrei. Sebbene io fui ferito al fronte [nella Prima guerra mondiale, ndr] dico no! Solo belve potrebbero accusarmi per aver allora versato il mio sangue. Resto nelle trincee come allora, combatto contro le belve per il genere umano».
J.R.

Tra l´8 e il 13 novembre 1933
(Londra)
«Caro amico non creda, La prego, che io sia un asino o un debole, a lasciarmi tollerare e insieme boicottare in Germania: per me conta mantenere la proprietà intellettuale del mio lavoro. Uno strappo come Lei sogna non servirebbe, non è possibile cancellare dal mondo i settanta milioni di tedeschi con la protesta, e temo che gli ebrei anche all´estero debbano prepararsi a qualche delusione, è facile concludere un patto alle loro spalle, dalla diplomazia mi aspetto ogni porcheria. Sono molto scosso da quanto su di me è stato scritto e fatto da "amici", negli ultimi giornali tedeschi sono usciti fulminanti articoli d´odio contro di me. Bisogna imparare a vivere soli e nell´odio, eppure non ricambierò odiando».
S.Z.

27 marzo 1934
(Londra)
«Caro amico, posso dirle che a causa di notizie da Parigi, a Vienna indagano sul mio conto, i giornali non possono pubblicare nulla di me. A Londra i giornali ti lasciano in pace, ma Lei stesso che vive a Parigi sa bene come io a Parigi devo ormai nascondermi. La prego non parli di queste righe con nessuno, altrimenti finirà in mano ai giornali francesi e dell´emigrazione».
S.Z.

13 aprile 1934
(Hotel Foyot, Parigi)
«Caro amico, è orribile che Lei non venga da me. Attraverso la crisi privata più grave. È la peggiore ora della mia vita, mi creda, e non è l´alcol».
J.R.

Maggio-giugno 1934
(Londra)
«Il mio pessimismo politico è smisurato. Credo alla prossima guerra come altri credono in Dio. Mi aggrappo a ogni ultimo brandello di libertà di cui possiamo ancora godere, pronuncio ogni mattino una preghiera di ringraziamento, perché sono libero, perché sono nel Regno Unito. Pensi alla mia gioia, in questo tempo di pazzi mi sento ancora abbastanza forte da impartire lezioni morali ad altri».
S.Z.

Maggio 1937
(Hotel Stein, Salisburgo)
«Caro amico, è inaudito come lei mi tratta. Lei ha il dovere di riconoscermi come amico, anche se non le scrivo da dieci, venti o mille anni».
J.R.

17 ottobre 1937
(Londra)
«Caro non amico, voglio solo dirle che finalmente grazie a Bertold Fles che ho visto ieri ho appreso qualcosa del suo lavoro. Non so come dirle come sarebbe secondo me importante per lei cambiare luogo e clima. Un saluto, e non dimentichi il suo infelice amante e amico respinto».
S.Z.
31 dicembre 1937
(Hotel Dinard, Parigi)
«Caro amico, la vecchia amicizia è ancora in piedi. Ma sto troppo male, non riesco a scrivere. Saluti di cuore, il suo fedele»
J.R.

Dicembre 1938
(49, Hallam Street, Londra)
«Caro Joseph Roth, Le ho scritto tre o quattro volte senza ricevere risposta, e credo in nome della nostra amicizia d´avere diritto di chiederle cosa vuol dirmi col suo silenzio... Forse sarò presto a Parigi, mi faccia sapere se preferisce che io la cerchi o che io la eviti, visto che Lei mi evita tanto... Il Suo silenzio è troppo evidente, lungo e impressionante perché io possa spiegarmelo pensando a un suo eccesso di lavoro. I migliori auguri dal cuore, e possa (malgrado tutto!) il prossimo anno essere non peggiore di quello che sta terminando. Suo»
S.Z.

Repubblica 6.11.11
Il social club del libro
Il  circolo letterario si mette in rete
di Raffaele Simone


Grazie ad alcune funzioni l´e-book permette di mettersi in contatto con altri che hanno guardato quell´opera e di conoscere le loro note e i loro commenti
Ciò che succede oggi per merito del web deriva dalla tradizione illuminista In quell´epoca la cultura, grazie all´alfabetizzazione, diventò piacere democratico
Sono tornati di moda gli happy hour fatti nei caffè: qui si condividono i testi, si discute e soprattutto si crea una comunità
La nuova vita del social reading dalle librerie ai siti internet

C´era una volta il circolo dei lettori che si riuniva per discutere di romanzi. Ma chi pensava che l´era virtuale, con il trionfo dell´e-book, ne avrebbe decretato la fine si sbagliava I salotti letterari si moltiplicano in tutta Europa, i festival dedicati alla lettura sono sempre più affollati E il web non ostacola questa passione ma la raddoppia: anche qui le community degli e-reader crescono e s´intrecciano critiche, commenti, brani sottolineati è stato creato persino un software con cui ognuno può leggere tutte le osservazioni ad un testo scritte dagli altri Così la conversazione settecentesca oggi prende la forma di un´immensa chat culturale


Il libro è morto viva il libro, si potrebbe dire applicando a quello straordinario manufatto il motto che si usa quando un re di Inghilterra scompare. Se Amazon, la libreria virtuale creata da Jeff Bezos, vende da due anni più libri elettronici che libri di carta, d´altro lato in varie parti del mondo (Italia compresa) si segnala una gran fioritura di iniziative che sembrano piuttosto celebrare le virtù del buon vecchio libro di carta.
Nascono infatti in tutt´Europa salotti letterari, circoli di lettori, festival in piazza e in teatro, nei quali in fondo si parla sempre di libri, proprio di quelli di carta. In parte si tratta di luoghi vintage creati nell´Ottocento, quando il libro andava portato verso un popolo incerto per cultura e per capacità alfabetiche. C´è il Circolo dei Lettori di Torino, che ha storia, ma per lo più si tratta di siti moderni, all´altezza dei tempi, in cui il libro coabita con altri media e perfino con generi d´altro tipo (come le cose da mangiare), riunendo così tre funzioni che, escluse in pubblico, in privato si praticano normalmente insieme: leggere, bere e mangiare. Inventata quarant´anni fa nella libreria Atticus a New Haven (sede dell´università Yale), questa formula s´è imposta ovunque, per esempio nel sorprendente complesso Ambasciatori a Bologna. Si aggiungano le tante librerie che in tutto il paese funzionano anche come luogo di discussione e i caffè letterari (con questo nome ne esistono già a Roma e a Milano) in cui l´happy hour serve anche per parlare di libri o per comprarli.
Ma nello stesso tempo, un fenomeno parallelo, si diffonde in Rete. È il social reading. Club del libro sul web, comunità di lettori, non virtuali, che s´incontrano online e discutono. Tra i più celebri GoodReads e Bookclubresource.com dove ci si iscrive per aree tematiche e interessi.
In più c´è l´e-book che con le sue funzioni permette di condividere i commenti con i lettori precedenti, creando un "network di glosse".
E allora che sta succedendo nella partita tra il libro di carta e quello digitale? Chi è in vantaggio? E le drastiche differenze tra l´uno e l´altro, dove sono andate a finire? Per rispondere è utile richiamarne alcune. Il libro di carta, come tutti gli oggetti che hanno a che fare col conoscere, impone determinati comportamenti e definisce un ambiente. Sta perfettamente in mano, si manipola senza sforzo (si apre, si chiude, si può strappare, vi si incollano frammenti, si fanno orecchie alle pagine…), si copia e si annota; permette di calcolare quanto manca alla fine e di spostarsi in un lampo da un punto all´altro; ospita quel che si vuole (dediche, disegni, poesie, cartoline, fiori secchi, biglietti, fotografie, soldi …); si lascia mostrare, prestare, regalare, collezionare e affiancare ai suoi compagni sugli scaffali… Inoltre, pur essendo destinato anzitutto alla lettura solitaria, stimola pratiche di altro segno: può esser letto in compagnia, commentato tra più persone, scambiato, sottolineato (a matita, ma anche con altri mezzi, rossetti inclusi), fotocopiato e prestato. Insomma il libro mescola, con un´ambiguità esaltante, il massimo di isolamento col massimo di socialità.
Pur contenendo anche lui un libro, l´e-book è fisicamente tutt´altra cosa. Dato che nell´e-book non ci sono né la carta né l´odore dell´inchiostro o della colla, i maniaci del "corpo del libro" lo troveranno deludente: da accarezzare, da palpare, da sniffare non c´è proprio niente. Ma, soprattutto, l´e-book impone un´altra etologia, a cui non è istintivo assuefarsi. Ad esempio, non saprete mai, leggendo, a che punto siete, perché l´e-book non ha scansione in pagine. Tutto quel che c´è è un indicatore di avanzamento, che dice che percentuale del libro si è già letta. Un´altra peculiarità è che non c´è equivalente dello sfogliare: le pagine dell´e-book si mostrano ciascuna per intero. Ciò lo rende curiosamente "lento" e renitente: scorrerlo è impossibile, come è impossibile sfogliarlo dall´inizio alla fine e viceversa. E suggerisce una sua occulta preferenza: se state leggendo Anna Karenina o Il Conte di Montecristo, scoprirete che per ripescare il nome di un personaggio secondario, o anche la grafia corretta del nome di uno importante, ci vorrà più tempo che se aveste sotto mano una versione di carta. Quindi, l´e-book sembra più portato a contenere testi poco popolati!
Infine, siccome gli e-reader possono connettersi a Internet, l´e-book concede una delle tante illusioni narcisistiche che dà la telematica: far sapere al mondo quali brani di un certo libro abbiamo sottolineato o annotato, e, in fondo, far sapere che esistiamo anche noi. L´e-book infatti permette, quando si sottolinea un brano (con un filino grafico quasi impercettibile) o ci si scrive accanto una nota (con una specie di fumetto), di mettere in rete sia la sottolineatura sia il palloncino. In questo modo, chiunque compri e legga quello stesso libro vedrà affiorare sulla sua copia l´indicazione del passo annotato e saprà perfino quanti altri lettori lo hanno annotato: avrà, insomma, una specie di auditel immediato del testo o del passo.
In pratica, in ciò il libro elettronico ritrova una sorta di "socialità digitale", somigliante a quella dei social forum e dei siti di chat. Una società che si chiama espressivamente "Institute for the Future of the Book" ha fatto un passo in più: ha diffuso un software gratuito (si chiama Commentpress) con cui si annotano testi di ogni tipo (anche blog), che permette ai lettori di vedere l´uno le osservazioni dell´altro, creando così una sorta di chat agganciata a singoli brani o all´intero libro. In questo modo (come spiega il sito dell´istituto), si «trasforma un documento in una conversazione».
Queste trovate segnalano una deriva importante: malgrado le forti differenze che ho indicato, l´e-book sta facendo sforzi eroici per emulare la meravigliosa versatilità del libro di carta. Il chat telematico agganciato al testo permette pur sempre di mettersi in contatto con altri, parlare del libro, annotare, commentare, "conversare": insomma, di rifare come si può una versione immateriale dei circoli e salotti di lettura. Questi trend suggeriscono che, qualunque forma abbia, il libro nasconde un´insopprimibile spinta alla socievolezza. Nel "modello classico della lettura" – come l´ha chiamato George Steiner (Una lettura ben fatta in Nessuna passione spenta, Garzanti) commentando la tela di Chardin Il filosofo che legge – il lettore dev´essere composto, solo e in silenzio. Ma quel modello funzionerà forse per i filosofi, ma non per i lettori "normali", meno che mai nella modernità ipermediatica. Anzi, è evidente che, sia coi libri di carta che con gli e-book, i lettori cercano pur sempre occasioni e risorse per scambiarsi e proporsi libri, per parlare di quel che hanno letto o vorrebbero leggere e anche per leggere insieme. Non sorprende che questi rituali siano ripresi tali e quali nei siti di discussione libraria così numerosi nella blogosfera.
Elettronico o di carta, quindi, per noi pari sono? No, una differenza c´è, ed è quasi un abisso: attorno a libri di carta si aggregano persone in carne e ossa, che parlano, ridono e hanno odore e peso; nei circoli di lettura digitali s´incontrano invece digital personae senza corpo né massa, che non si vedono né si toccano; e che potrebbero anche essere avatar di secondo o terzo grado di chissà chi...

Repubblica 6.11.11
Un fenomeno lanciato dalla Buchmesse di Francoforte
di Vanna Vannuccini


Tra i fenomeni dell´ultima Buchmesse di Francoforte c´è stato proprio il social reading, come spiega Katja Boehne, direttrice del marketing e della comunicazione della Fiera del libro. Goodreads.com ha 4 milioni di iscritti, Lovelybooks.com è il primo grosso provider in tedesco. Anche i cinesi vanno nella stessa direzione: Shanda literature ha 460 milioni di iscritti e una media di 1,2 milioni online sul sito in ogni momento. «Un tempo le cose erano semplici», dice Boehne. «C´erano l´autore, il lettore, l´editore e infine il pubblico dei lettori. Questa catena si è spezzata. Con le pubblicazioni fai da te negli Stati Uniti molti autori guadagnano 300-400.000 dollari l´anno. Sempre più giovani pubblicano così, sognando di diventare bestseller. E sempre più editori scoprono in rete un esordiente e lo pubblicano».
A volte il libro stampato e quello digitale si incontrano. Lovelybooks.com ha messo a disposizione degli utenti un canale di comunicazione interattivo, socialreading stream, che collega i lettori del libro stampato a quelli del libro digitale e rende possibili, al di là del modo di leggere, colloqui tra lettori e con gli autori. Oltre a scambiare idee, chi partecipa può venire informato su cosa leggono gli altri del gruppo o può esibire il proprio scaffale dei libri che ha letto.
«Si continua a leggere», dice ancora Boehne, «L´importante sono i contenuti, e che l´esperienza collettiva porti un valore aggiunto al lettore». E per i ragazzi che si stanno allontanando dai libri, c´è Antolin, un sito web, che offre "punti con la lettura". Propone domande sui libri letti, aggiudicando premi. I ragazzi possono vedere sul sito cosa legge il compagno di classe più bravo o quanto punti ha ottenuto l´amica del cuore. Nasce una competitività che li spinge a chiedere ai genitori libri in regalo. In che modo l´esperienza da personale stia diventando collettiva lo descrivono in rete molti lettori. «Finora potevamo caricare brani musicali e commentarli istantaneamente, ma ora è possibile fare questo anche con i libri» scrive una ragazza su facebook. «Il confine è tra leggere e non leggere. Il modo come si legge e l´uso che si fa della lettura importa meno» dice Boehne. In un mondo in cui avremo sempre meno libri come oggetti fisici, sarà l´esperienza di leggere in se stessa ad essere condivisa.

Repubblica 6.11.11
Quel gusto di leggere insieme nato nei salotti del Settecento
Un fenomeno lanciato dalla Buchmesse di Francoforte


L´altra faccia della medaglia del lusso delle tecnologie della comunicazione è che i rapporti umani sono diventati astratti e virtuali, la fecondità della noia è stroncata sul nascere e un´immensa solitudine è repressa da un´incessante e nervosa agitazione digitale. Nasce, da tutto questo, un primo tentativo di combattere questo deserto sovrappopolato di anacoreti: la moltiplicazione sulle due coste dell´Atlantico di circoli di lettura, dove ci si ritrova in carne ed ossa e dove i libri letti in comune vengono commentati nel calore reale della conversazione.
Ho scoperto recentemente, in occasione di conferenze, due ammirevoli sopravvissuti dei "cabinets de lecture" del XVIII e XIX secolo: il Circolo di lettura di Ginevra, più che mai attivo, e, dall´altra parte dell´Atlantico, l´Athaeneum di Filadelfia, con la sua ricca biblioteca e la sua collezione di cimeli di Giuseppe Bonaparte. Anche questo circolo del XIX secolo, in una sede superba, ha un´attività vivacissima.
Ricordo che una volta visitai a Firenze, a Palazzo Strozzi, prima dell´infausto incendio che rischiò di distruggerlo, il venerabile Gabinetto Vieusseux, fondato nel 1819. Fu diretto per un certo tempo da Eugenio Montale e continua a pubblicare la rivista letteraria di grande prestigio Nuova Antologia. A Parigi, ci ho messo del tempo per capire che la libreria Galignani, al 224 di rue de Rivoli, frequentata dall´upper crust americana di passaggio nella capitale francese, era la discendente in linea diretta e tra le stesse mura di un gabinetto di lettura fondato nel 1814 da un italiano, Giovanni Antonio Galignani, a beneficio dei viaggiatori anglosassoni. Oggi, come si deduce dal libro dei visitatori, Galignani è più che mai ben frequentato.
Si tratta di validissimi eredi dell´enorme quantità di gabinetti di lettura per abbonati che si diffusero, a cominciare dalla Francia e dall´Inghilterra, sulla scia di un aumento massiccio, nel secolo dell´Illuminismo, della popolazione femminile e maschile in grado di leggere e di scrivere. I famosi club per soli uomini degli aristocratici inglesi hanno fatto dimenticare la vasta rete di "reading rooms" e di "circulating libraries" con abbonamenti a prezzi modici che hanno democratizzato il piacere letterario, la lettura e la conversazione nutrita da libri e giornali.
In Francia, con uno sviluppo esponenziale in tutto il paese fino a metà del XIX secolo, i primi gabinetti di lettura apparvero dal 1714 al Palais Royal, centro degli svaghi parigini. Uno dei più celebri, tenuto dal libraio Gattey e definito durante la Rivoluzione "l´antro dell´aristocrazia", pubblicò gli scritti di Rivarol e il coraggioso giornale reazionario intitolato Gli Atti degli apostoli. Dopo la Rivoluzione, il padre del poeta e autore di canzoni Béranger viveva, con l´aiuto di suo figlio, dei proventi di un gabinetto di lettura ad abbonamento nei pressi delle Tuileries, di spirito prettamente repubblicano. La democratizzazione della lettura e della conversazione nutrita di lettura divenne tale che nel 1820, nella sola Parigi, si contavano trentuno di questi gabinetti e, nel 1880, 118. Anche se le librerie sono rimaste in una certa misura dei gabinetti di lettura, sembra che il movimento propriamente detto sia stato distrutto dalla comparsa, alla metà del XIX secolo, di giornali popolari a cinque centesimi, che offrivano al tempo stesso le notizie politiche e altro, e una biblioteca sotto forma di feuilletons. Furono gli incunaboli del nostro I-pad. I pub e i caffè divennero allora i forum in cui si discuteva il contenuto dei giornali.
Oggi, c´è chi teme che l´abitudine prematura dei bambini agli schermi e ai blog possa rovinare la loro naturale vocazione a condividere la vita sociale, la parola e le emozioni. Forse l´attuale movimento spontaneo dei circoli di lettura smentirà questo pessimismo?
(traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 6.11.11
L´incontro. Multiculturali
Anish Kapoor
di Cloe Piccoli


Un giorno, guardando la polvere sugli oggetti in un mercato indiano, ebbe l´intuizione: "Le forme erano davanti a me, ma ho impiegato molto tempo prima di vederle". La sua vita da allora è cambiata e oggi è tra gli scultori più conosciuti al mondo E mentre prepara la sua opera più importante per le Olimpiadi di Londra, racconta le installazioni di Milano e Venezia
Sono cresciuto in una Bombay cosmopolita Per la mia famiglia viaggiare è sempre stato il modo migliore per imparare

All´inizio le sue sculture erano forme enigmatiche coperte da una coltre di polvere colorata che ne dissimulava i contorni. E lui, Anish Kapoor, nella Londra di fine anni Settanta era uno scultore indiano quasi del tutto sconosciuto. Oggi è fra gli artisti più riconosciuti al mondo, con lavori pubblici divenuti simboli di alcune metropoli come Sky Mirror alla Rockfeller Plaza di New York, o Cloud Gate, 110 tonnellate d´acciaio al Millenium Park di Chicago.
Grandi occhi castani, carnagione olivastra, denti bianchissimi che svela ogni volta che sorride (e lo fa spesso) lo incontriamo a Milano dove ha realizzato Dirty Corner alla Fabbrica del Vapore (fino a gennaio; fino al 27 novembre si può invece vedere Ascension, l´installazione nella Basilica di San Giorgio, a Venezia). La scultura è la sua vita e lui è alla costante ricerca di quel punto d´equilibrio, fragile e labile, in cui gli opposti si compenetrano e pieno e vuoto diventano facce della stessa medaglia.
L´artista che la primavera scorsa ha affascinato la Francia con Leviathan, l´installazione al Grand Palais di Parigi, si siede su una panchina di fronte alla sua opera "milanese" e incomincia a raccontare. E a spiegare. «L´idea delle sculture di pigmento è nata in un viaggio in India alla fine degli anni Settanta. Avevo appena terminato gli studi e non avevo ancora chiaro cosa avrei fatto. Ma soprattutto non avevo la certezza che sarei riuscito a vivere d´arte. A quell´epoca il sistema era molto diverso rispetto a oggi e gli artisti che vivevano davvero della loro arte erano ben pochi. Pensavo che alla fine avrei fatto l´insegnante, o qualcosa del genere. Ma un giorno mentre osservavo gli oggetti quotidiani coperti di polvere, per terra, nei mercati, ho avuto l´intuizione: l´effetto della polvere era incredibile, mistificava le forme fino a trasformare gli oggetti in cose misteriose e nello stesso tempo svelava qualcosa di famigliare anche in forme astratte. Capiì allora ciò che in fondo già sapevo ma che non avevo ancora realizzato: le forme erano davanti ai miei occhi, ma ho impiegato molto tempo a vederle».
Kapoor racconta di Oriente e di Occidente, di una famiglia e un´infanzia in un mondo aperto e multiculturale, quello della Bombay degli anni Cinquanta, la città in cui nacque cinquantasette anni fa. Padre indiano, idrografo, per lavoro disegnava mappe marine e viaggiava. E madre ebrea irachena, figlia di un rabbino di Baghdad. «Crescere in India in quegli anni significava sperimentare un ambiente cosmopolita. In casa mia si parlava inglese e si studiava sia la storia di imperatori d´Oriente, come Akbar e Jahangir, sia quella di sovrani europei come Luigi XVI ed Elisabetta I. Il nostro era un cosmopolitismo che anticipava quello contemporaneo. Mio padre viaggiava per lavoro e tutta la famiglia lo seguiva, per cui alla fine in famiglia si è sempre creduto che viaggiare fosse il modo migliore per imparare. Poi, quando siamo diventati abbastanza grandi per viaggiare da soli, mio fratello e io siamo andati in Israele. In quegli anni il governo di Israele pagava il biglietto aereo ai ragazzi ebrei che andavano lì a studiare, altrimenti difficilmente avremmo potuto permetterci di partire».
Ora viaggiare fa parte del suo lavoro. Mentre a Londra si costruisce Orbit, forse la sua opera pubblica più impegnativa e che diventera il simbolo dei Giochi Olimpici 2012, a Milano Kapoor ha realizzato Dirty Corner. Si tratta di un tunnel d´acciaio coperto da una patina di ruggine bruna, lungo sessanta metri e che si staglia nitido nello spazio. A questo imponente volume corrisponde un altrettanto imponente vuoto interno. Il vuoto e il buio sono gli elementi fondamentali di questa struttura in cui si è invitati a entrare da un ingresso alto otto metri. «La scultura è un passaggio, uno strumento che invita a sperimentare un punto di vista differente, è un luogo dell´esperienza». Mentre un maratoneta passa a intervalli regolari come a scandire il tempo del racconto, Kapoor osserva: «A New York Sky Mirror riflette a terra il cielo e la parte dell´architettura che sta in alto invitando la gente a considerare la propria posizione nello spazio. A Milano il confronto è con se stessi, con le proprie sensazioni ed emozioni, è un confronto immediato, diretto, fisico. Quando entri in Dirty Corner non vedi nulla, anche perché il passaggio dalla luce al buio rende l´oscurità ancora più intensa, non conosci il percorso, devi fidarti, decidere se andare avanti o fermarti. Non è nulla di estremo, solo un breve attraversamento, ma suscita reazioni diverse in ogni individuo e introduce nella sfera dell´emotività e della memoria».
Il vuoto è un elemento importante per Kapoor. Sembra paradossale per uno scultore che crea opere gigantesche, ma è fondamentale perché introduce in una dimensione priva di punti di riferimento, al limite dell´ignoto. «Dopo anni in cui ho realizzato sculture con i pigmenti sono arrivato a un punto di crisi. Ho capito che non potevo più andare avanti. Ma non sapevo cosa fare. Poi un giorno, lavorando in studio, ho avuto l´intuizione di un oggetto vuoto: la tentazione per il non-oggetto! Se lo immagina?». Oggi molte delle sue opere, anche di grandi dimensioni, si intitolano proprio Non Objects. «Ho scoperto che facendo forme concave potevo avvicinarmi all´idea del non-oggetto, qualcosa in cui il vuoto fosse l´aspetto più importante».
Il buio è un altro aspetto fondamentale per Kapoor. «Mi è sempre interessato il colore, ma in modo diverso dalla maggior parte degli artisti. Nella storia dell´arte il colore era il mezzo per arrivare alla luce. Per me invece il colore era un mezzo per trovare l´oscurità. Esattamente l´opposto. Ho scoperto che il rosso crea un´oscurità molto intensa. Credo che sia perché questo colore risuona in ognuno di noi, è come se fosse riconoscibile, come se la nostra interiorità più profonda fosse rossa». Ma se gli si chiede che cos´è la spiritualità si schernisce dicendo che è una questione del tutto personale. «Realizzo sculture fatte di luci, ombre, pieni, vuoti: gli elementi classici della scultura. Certo, la scultura è un passaggio, un punto di rottura oltre il quale l´esperienza può arrivare molto lontano. Ma da qui in poi ciò che resta è l´esperienza personale».
Il maratoneta passa di nuovo, con passo felpato, e ormai pare far parte di questo paesaggio stranamente silenzioso nel centro di Milano. «Da Israele sono poi andato a Londra, era il 1973, la città non era facile per un indiano, il razzismo era molto radicato allora». Oggi a Londra ci vive, a Chelsea, con la moglie e i due figli e passa molto tempo nel suo enorme studio, dove progetta, disegna e crea incredibili modelli per opere sempre di grandi dimensioni. «Sono quel tipo d´artista che lavora in studio perché lo studio è il luogo della sperimentazione, è qui che succedono le cose, che inizio a capire se un´opera funzionerà». È in studio che ha creato anche i primi modelli per Ascension, l´installazione di fumo bianco realizzata fra gli eventi collaterali della Biennale nella Basilica dell´isola di San Giorgio, a Venezia. Qui Kapoor ha sfidato se stesso creando una scultura eterea, un volume evanescente. Per farlo ha scelto un luogo - quest´isola della Laguna battuta dai venti - molto complesso sia per stratificazione culturale che per condizioni climatiche. Qui ha potuto immaginare la tensione potente tra pieno e vuoto, tra opera e contesto, tra scultura e architettura. «Cercare di realizzare una scultura immateriale eppure presente come volume è una sfida incredibile. Tutto il suo fascino, almeno per me, sta nella continua tensione fra presenza e assenza resa ancora più intensa dalla relazione con uno spazio come quello della Basilica, straordinario sia per l´architettura del Palladio che per la sua sacralità. È in questo contesto che l´arte, forse, può davvero recuperare il suo ruolo umanistico di tramite fra materialità e spiritualità».

Corriere della Sera 6.11.11
Un diavolo nella nuvola: Giotto anticipa Mantegna
di Stefano Bucci


Che cosa sono le nuvole? Se lo era chiesto a suo tempo (1967) persino Domenico Modugno nella canzone scritta per l'omonimo episodio di «Capriccio all'Italiana» firmato da Pier Paolo Pasolini. Secondo Chiara Frugoni, medievalista e grande studiosa del francescanesimo (ha da poco pubblicato con Einaudi Storia di Chiara e Francesco dedicato alle vite di san Francesco e santa Chiara), in quell'angolo dell'affresco attribuito a Giotto, nella Basilica superiore di San Francesco, c'è il ritratto di un demone «scolpito» su una nuvola (una nuvola che occupa la parte centrale della ventesima storia, quella dedicata alla morte del Santo).
«Un vigoroso ritratto, con tanto di naso adunco, occhi scavati e due corna scure», lo definisce la Frugoni (autrice anche di una Guida agli affreschi della Basilica Superiore) in un articolo per il prossimo numero della rivista «San Francesco Patrono d'Italia» (anticipato, con tanto di immagini, dal diavolo-nuvola sul sito della rivista sanfrancesco.org). Un profilo di fatto sfuggito a otto secoli di pellegrinaggi e di visite turistiche visto che il ciclo venne iniziato da Giotto, con i suoi collaboratori, attorno al 1296 per essere interrotto alla venticinquesima storia, nel 1300, quando il pittore venne chiamato da papa Bonifacio VIII a Roma in occasione del Giubileo.
Dunque, in fondo, niente di strano. Secondo lo storico e critico Claudio Strinati, «che vi siano elementi nascosti in un'opera d'arte è del tutto normale e le opere hanno sempre due facce, una esplicita ed una implicita». Frugoni parla di «un'immagine dal significato ancora da approfondire, ma che sembra destinato a dare buoni frutti», sottolineando però come si tratti di «un ritratto bellissimo e non di una semplice caricatura» (rispondendo indirettamente a Sergio Fusetti, capo dei restauratori della Basilica, che ha definito il diavolo «qualcosa di marginale, che non entra nella scena, altrimenti sarebbe stato più visibile, quasi un dispetto»). Un'impertinenza che potrebbe però suscitare (per i frati di Assisi) «un dibattito catechetico perché ci fa comprendere l'importanza di oggettivare il male per non accoglierlo nella propria vita».
Ma quel diavolo è importante prima di tutto nella «manipolazione delle nuvole». «Fino ad oggi — osserva la storica — il primo pittore che pensò di trattare le nuvole era ritenuto Andrea Mantegna con il suo San Sebastiano, dipinto nel 1460 e oggi nel Kunsthistorisches Museum a Vienna, dove sullo sfondo del cielo c'è un cavaliere che emerge da una nuvola. Da oggi il primato non è più di Mantegna, ma di Giotto».

Corriere della Sera Salute 6.11.11
I «micro-sleep» dei neuroni che si spengono
Noi dormiamo ma il cervello rimane sveglio
Aree del movimento sempre all'erta
di Roberta Villa


Tutto potrebbe dipendere da un gene conservato dai tempi dell’uomo di Neanderthal,
quando l’allerta durante il sonno era essenziale per la sopravvivenza

Gli esseri umani non sono così dissimili da uccelli migratori e delfini, capaci di dormire con uno solo dei due emisferi cerebrali: gli uni per riuscire a riposare anche durante le traversate in volo, gli altri per risalire in superficie a prendere ossigeno senza interrompere il sonno. Un gruppo di ricercatori guidati da Lino Nobili, responsabile del Centro di medicina del sonno dell'ospedale Niguarda a Milano, ha infatti dimostrato che anche nel cervello umano, ogni notte, ci sono aree che si attivano come durante la veglia, mentre altre continuano a dormire, anzi lo fanno in modo ancora più profondo.
«Ad attivarsi sono soprattutto le regioni più coinvolte nel movimento, — spiega lo specialista — forse per un meccanismo selezionato dall'evoluzione al fine di consentire la fuga in caso di pericolo».
Finora l'esame dell'attività elettrica del sonno effettuata con l'elettroencefalogramma non aveva messo in luce questa attività nascosta. Per arrivare a scovarla il gruppo di Nobili ha sfruttato gli elettrodi inseriti nel cervello di pazienti con epilessia per studiarne l'attività elettrica prima di operarli. «La scoperta però non riguarda l'epilessia — precisa il neurologo —. Questi malati non avevano crisi durante il sonno, né le zone attivate corrispondono a quelle patologiche. Ci siamo basati su questi dati perché venivano già raccolti in vista dell'intervento, mentre ovviamente non si possono sottoporre volontari sani a un trattamento così invasivo a solo scopo di ricerca».
Il fenomeno quindi riguarda probabilmente tutti e si ripete centinaia di volte ogni notte. «Queste che chiamiamo "dissociazioni" — dice Nobili — possono aiutarci a capire meglio alcuni disturbi del sonno, primo fra tutti il sonnambulismo». Il sonnambulo cammina mentre dorme; agisce, ma senza giudizio, coscienza, memoria. Un fenomeno che riflette bene le osservazioni dei ricercatori milanesi, secondo cui durante il sonno si attivano ripetutamente, per periodi variabili da 10-15 secondi ad alcuni minuti, le aree del movimento, mentre quelle della coscienza e della memoria sono in uno stato di sonno profondo. «Le famiglie in cui questa condizione è comune potrebbero essere portatrici di un gene conservato dai tempi dell'uomo di Neanderthal, quando lo stato d'allerta anche durante il sonno era essenziale alla sopravvivenza — ipotizza il ricercatore —. E anche oggi questo meccanismo potrebbe consentire di selezionare gli stimoli che richiedono il risveglio da quelli che si possono ignorare: è come se parte del cervello facesse da sentinella per consentire al resto di riposare tranquillo».
Il sonno quindi apparentemente non viene disturbato da questo fenomeno, che però potrebbe spiegare perché alcuni insonni hanno la sensazione di non aver dormito quando in realtà sembrano averlo fatto.
Le osservazioni dei ricercatori sono andate però anche oltre: «Ben prima che una persona si possa dire addormentata, alcune aree del cervello sono già cadute nel sonno — rivela Nobili, anticipando uno studio non ancora pubblicato —. Fino a 5-10 minuti prima di addormentarsi, infatti, le aree del cervello deputate alla memoria hanno già "chiuso gli occhi": ecco perché spesso capita di dover rileggere l'ultima pagina del libro lasciato la sera prima sul comodino».