martedì 8 novembre 2011

il Giornale 7.11,11
Prodi rientra in campo e falcia subito Bersani
di Paolo Guzzanti

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il Tempo 7.11.11
Prodi bacchetta Bersani: "Non riesce a sfondare"
Il leader del Pd ribatte al professore: "Noi siamo stati ben peggio di ora. Siamo migliorati, sondaggi compresi. E questo ci fa dire che possiamo solo migliorare"

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l’Unità 8.11.11
Addio a Onorina,
la gappista «Wanda» che mai ebbe paura
di Bruno Gravagnuolo

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l’Unità 8.11.11
Oggi nel voto sul Rendiconto sarà chiaro che il premier non ha più i numeri per governare
Pd, Terzo Polo e Idv verso l’astensione: poi sarà una mozione di sfiducia a dare il colpo del koL’opposizione: dimostriamo che non c’è più maggioranza
di M. Ze.

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il Fatto 8.11.11
Senza parole, fino alla fine
Il Vaticano non riesce a “scaricare” apertamente il Cavaliere neppure pochi istanti prima del suo tramonto. E la stella polare sembra essere solo la tutela dei privilegi economici garantiti
di Marco Politi


Alla crisi del berlusconismo il Vaticano arriva smarrito e disorientato. E muto. Anno dopo anno i vertici vaticani hanno sostenuto il Cavaliere nonostante la sua indecenza e la sua incapacità e soltanto il 22 settembre scorso, recandosi in Germania, papa Ratzinger ha segnalato al presidente Napolitano l’esigenza di un “sempre più intenso rinnovamento etico” per il bene dell’Italia. Poi Oltretevere non ha più disturbato il premier, lasciando che la situazione degenerasse. Le foto della Minetti e altre pupe vestite da suore, pubblicate dal Fatto, stanno lì a testimoniare a chi il Vaticano stagione dopo stagione, a forza di contestualizzare, ha rinnovato la fiducia. Si è dovuto aspettare il 26 settembre perché il cardinale Bagnasco denunciasse a nome dell’episcopato l’“aria ammorbata” dal regime berlusconiano e chiedesse discontinuità. Subito dopo, però, il segretario della Cei monsignor Crociata si è affrettato a comunicare che la Chiesa non fa i governi “e non li manda a casa”. Ennesimo aiutino mediatico alla tattica dilazionatrice di Berlusconi, disastrosa per il Paese.
E COSÌ ANCORA per settimane, mentre l’Italia rotolava verso la rovina, le gerarchie ecclesiastiche – a differenza della Confindustria che finalmente aveva imboccato la strada della pressione crescente per voltare pagina – hanno scelto di stare zitte invece di chiarire ulteriormente che il bene comune del-l’Italia richiedeva l’allontanamento urgente di Berlusconi. Nemmeno la constatazione che tre quarti degli italiani bocciano B. (come da sondaggio di Famiglia Cristiana) ha spinto i vescovi a farsi sentire. Paradossalmente è stato il Financial Times a lanciare l’esclamazione, che avrebbe potuto venire dai pulpiti: “In nome di Dio, dell'Italia e del-l'Europa, Berlusconi vattene! ”. In realtà, esaurita la stagione di Ruini che non a caso ha premuto finché ha potuto per far tornare Casini ad allearsi con Berlusconi, la Chiesa italiana non ha più una linea strategica su come affrontare la perigliosa e complicata transizione a quella che sarà la Terza Repubblica. Non ha una sua visione dell’Italia post-berlusconiana, ma non ha nemmeno il coraggio di affidare decisamente il timone ai cattolici impegnati in politica. A Todi il cardinale Bagnasco, pressato dal Vaticano, dagli atei devoti e dai conservatori ecclesiali, ha dovuto risfoderare la dottrina dei principi non negoziabili, Un diktat inadatto per qualsiasi moderno governo europeo, di destra o di sinistra. In queste settimane cruciali si è liquefatta anche l’ambizione della carovana di Todi di rappresentare quel “soggetto culturale e sociale” cattolico in grado di “interloquire con la politica”. È nel vivo della battaglia che si affermano i protagonisti. A cose fatte sono bravi tutti a chiedere rappresentanza. Nella crisi attuale un singolo democristiano come Pisanu ha rappresentato di più e meglio la tradizione del cattolicesimo politico moroteo di quanto non siano riusciti a fare i grandi oratori di Todi.
Naturalmente la rete, messa in piedi con il convegno umbro, continuerà ad agire, ma per l’oggi – nelle ore drammatiche che l’Italia sta vivendo – si registra nuovamente la generale afasia dell’associazionismo cattolico. Unica eccezione le Acli, che dopo aver chiesto il mese scorso le dimissioni di Berlusconi sono tornate a ribadire fermamente la necessità del suo allontanamento. E la Cisl, che ha insistito sull’esigenza di un governo di larghe intese.
LA GERARCHIA ecclesiastica, nella tempesta in corso, è rimasta come acquattata sotto la bufera. Non si esprime. Sul piano sociale ha dalla sua una posizione più volte rimarcata di attenzione ai problemi del precariato giovanile e di denuncia dell’intollerabile evasione fiscale. Nonché l’aiuto economico prestato in questi anni da organizzazioni ecclesiali a tante famiglie in difficoltà. Questione del lavoro e tutela della famiglia sono temi sistematicamente toccati. L’immagine di Bagnasco con l’ombrello tra i disastrati di Genova mostra una Chiesa vicina alle angosce della gente. Ma sul piano politico la gerarchia ecclesiastica naviga a vista. Avrebbe visto di buon occhio un governo post-berlusconiano basato sull’alleanza Pdl-Lega-Udc. Ma anche in Vaticano hanno capito che è un’utopia. Adesso la Cei e i vertici vaticani sembrano affidarsi – loro malgrado – alla strategia di Casini per la creazione di un governo d’emergenza trasversale che vada dal Pdl ai Democratici.
Più di ogni cosa il Vaticano teme nuove elezioni, che sancirebbero lo sfaldamento del partito berlusconiano, il ridimensionamento della Lega (con la sua ambigua difesa dei principi non negoziabili ratzingeriani) e l’emergere di un forte blocco di centrosinistra. Ancora una volta la stella polare sembra essere la tutela delle posizioni di privilegio economico-istituzionale conquistate. E soprattutto Oltretevere hanno il terrore di una maggioranza che sblocchi in Parlamento quelle leggi sulle coppie di fatto e il testamento biologico, che Berlusconi e i suoi alleati hanno sempre affossato.

Repubblica 8.11.11
Dov’è finità l’egalité
Il mito della meritocrazia può distruggere la società
"Sta declinando l’idea della democrazia come uguaglianza, ed è molto pericoloso"
"Il culto della creatività individuale può minare il legame tra le persone"
Nel suo ultimo saggio Rosanvallon spiega perché la promozione delle differenze economiche sia un rischio
di Fabio Gambaro


Solo una società fondata su una vera uguaglianza può garantire la coesione sociale necessaria ad affrontare le difficili prove del nostro tempo. Per Pierre Rosanvallon è una certezza. Il celebre studioso delle forme della politica lo ribadisce nel suo ultimo libro, La société des egaux (Seuil), appena uscito in Francia e già in corso di traduzione in molte lingue. L´intellettuale francese che insegna al Collège de France e dirige La République des idées vi analizza la crisi del concetto di uguaglianza in una società, la nostra, dominata da differenze sociali sempre più marcate. Analisi da cui poi nasce la proposta di "una società degli eguali" che suona quasi come un contributo teorico al movimento degli indignados. «Gli indignados sono solo la punta dell´iceberg di un protesta sociale diffusa che denuncia la deriva intollerabile delle disuguaglianze. Una deriva che, oltre ad essere un disastro morale, favorisce la «decostruzione sociale», spiega Rosanvallon, di cui in Italia sono disponibili diverse opere, tra cui Il popolo introvabile (Il Mulino). «Purtroppo però l´indignazione non si traduce quasi mai in scelte concrete di riforma. Anzi, mentre ci si indigna, le fratture sociali aumentano. La coscienza politica cresce, ma la coesione sociale arretra».
Come se lo spiega?
«La società condanna dei fatti prodotti da meccanismi che però vengono parzialmente accettati. Ad esempio, si denunciano le retribuzioni scandalose dei trader ma non ci si stupisce di fronte ai compensi spesso superiori dei calciatori o degli artisti. Oppure si accetta senza troppi problemi l´idea che il merito possa produrre differenze economiche enormi. Tutto ciò è un segno dello scollamento tra la democrazia come regime politico e la democrazia come forma sociale. Sul piano politico le democrazie sono oggi globalmente più forti e critiche di trent´anni fa, possono contare su contropoteri più organizzati e una maggiore informazione. Ma la democrazia come legame sociale fondato sull´uguaglianza sta pericolosamente declinando».
In passato la dimensione sociale della democrazia contava di più?
«Certamente. Per le rivoluzioni americana e francese, più che il regime politico contava l´idea di una società senza privilegi e differenze sociali. Per questo la parola "uguaglianza" era tanto importante, come aveva colto subito Tocqueville. Oggi, essa arretra dappertutto. Ma una democrazia non può certo continuare a progredire se tra gli individui viene a mancare il senso di appartenenza a una società comune e condivisa. Nella frattura sociale rischia d´insinuarsi il populismo, vale a dire la patologia della democrazia-regime che sfrutta la decostruzione della democrazia-società. Di fronte alla crisi del senso di appartenenza, il populismo risponde con l´esaltazione di un sentimento di comunità fittizio, basato su un´ideologia nazionalista fatta di esclusione, xenofobia e illusoria omogeneità. Per rispondere al populismo, occorre quindi promuovere una società dove la parola uguaglianza abbia nuovamente un senso».
Perché negli ultimi vent´anni l´eguaglianza sociale è arretrata?
«La società ha progressivamente abbandonato il modello redistributivo che per quasi tutto il secolo scorso ha progressivamente attenuato le disuguaglianze sociali. La scelta della redistribuzione era legata al ricordo delle grandi prove vissute collettivamente, soprattutto le due guerre mondiali, e alla paura del comunismo che ha spinto anche i regimi più conservatori verso le riforme sociali. Oggi il vissuto collettivo e il riformismo della paura non agiscono più, contribuendo così a rendere molto più fragile la spinta alla solidarietà».
Quanto ha pesato il trionfo dell´individualismo?
«E´ stato un fattore strutturale determinante, per altro favorito dall´avvento del nuovo capitalismo d´innovazione, il quale valorizza la produttività e la creatività individuali. Dagli anni ottanta in poi la meritocrazia e l´uguaglianza di opportunità sono diventate sempre più importanti, sostenute da una trasformazione quasi antropologica dell´individualismo».
In che direzione?
«Agli albori della democrazia, l´individualismo era universalizzante. Essere un individuo significava innanzitutto essere come gli altri, con gli stessi diritti e la stessa libertà. Da qui l´idea di una società d´individui simili e uguali. Oggi invece prevale la domanda di singolarità, l´individualismo che ci distingue dagli altri, il bisogno di sentirsi unici che trova un terreno d´elezione nella società dei consumi. Abbiamo l´impressione di avere un potere supplementare sulla nostra vita solo perché ci consideriamo consumatori avvertiti, ma scegliere tra cinque operatori telefonici non fa di noi dei cittadini responsabili. La vera singolarità è costruire la propria vita come individui autonomi, esistere come persone. Il neoliberalismo, invece, ha risposto al bisogno di singolarità sacralizzando il consumatore e indicano come ideale della società quello della concorrenza generalizzata».
Come fare per rimettere l´uguaglianza al centro della società?
«Insistere sul merito e sull´eguaglianza di opportunità non basta, occorre elaborare una vera e propria filosofia dell´uguaglianza, che naturalmente non vuol dire egualitarismo. Dall´eguaglianza come metodo di redistribuzione occorre passare all´eguaglianza come relazione, che deve diventare la struttura portante di una società d´eguali, articolandola però con il bisogno di singolarità. Oggi infatti non si può più pensare all´uguaglianza come omogeneità e livellamento, occorre dare a ciascuno i mezzi della propria singolarità, senza discriminazioni. Ma accanto a questa eguaglianza "di posizione", va promossa l´eguaglianza "d´interazione", da cui dipende il sentimento di reciprocità, che è fondamentale per la coesione sociale».
Perché la reciprocità è così importante?
«C´è reciprocità quando ciascuno contribuisce in modo equivalente ad una società dove l´equilibrio dei diritti e dei doveri è lo stesso per tutti. L´assenza di reciprocità produce il sospetto sociale e la mancanza di fiducia nei confronti della collettività. Più la fiducia viene meno, più i cittadini si allontano gli uni dagli altri. La reciprocità è alla base delle cosiddette "istituzioni invisibili" che regolano la vita sociale: vale a dire, la fiducia, la legittimità, il rispetto dell´autorità. Oggi le istituzioni invisibili penano a mantenere il loro statuto e la loro efficacia. Ecco perché è necessario rimettere l´uguaglianza al centro dello spazio sociale, rendendo possibile tra l´altro quell´eguaglianza "di partecipazione" che è al centro della vita politica democratica. La possibilità per tutti di intervenire nella vita pubblica, anche al di là dell´esercizio del voto. Favorire questo tipo d´uguaglianza, da cui poi dipende anche la redistribuzione economica, è interesse di tutti. Un mondo di disuguaglianze, infatti, oltre ad essere un insulto ai più poveri, è anche un mondo dominato dall´insicurezza, dalla violenza e da costi sociali sempre elevati. La società della disuguaglianza non solo è ingiusta, ma è anche una minaccia per tutti».

La Stampa 8.11.11
Amitav Ghosh
Da un fiume d’oppio è sgorgato il capitalismo
Nel nuovo romanzo racconta la competizione tra indiani e britannici all’inizio dell’800 per il commercio della droga verso i mercati cinesi
di Maria Giulia Minetti


Intervista

Giunto al secondo volume della cosiddetta «Trilogia dell’Ibis» - il terzo è di là da venire, «ma arriverà, arriverà... », assicura lui - Amitav Ghosh ha già scritto ben più di mille pagine e speso in ricerche e stesura quasi otto anni, eppure al lettore il tempo impiegato appare perfino breve davanti alla mole, all’ampiezza del racconto.
In apertura del trittico (nel primo volume, cioè, intitolato Mare di papaveri, uscito nel 2008) l’autore muove storia e personaggi in India, dai campi di papaveri da oppio del Bihar al porto di Calcutta. Nel nuovo libro, intitolato Fiume di oppio e in uscita per Neri Pozza, la vicenda si sposta in Cina, nel porto di Canton, dove attraccano le navi dei mercanti inglesi e indiani che trasportano la droga destinata al mercato cinese. L’epoca sono i tardi Anni Trenta dell’Ottocento, appena prima che scoppi la Guerra dell’oppio, che contrapporrà la volontà dell’Imperatore Celeste, deciso a bandire il traffico della letale sostanza, a quella del governo di Sua Maestà Britannica, impegnato a difendere i principi del «free trade» e i diritti del capitalismo.
Da questo sfondo storico, che è la sostanza stessa, la ragion d’essere della narrazione, emergono decine di personaggi, centinaia, migliaia di comparse, si delineano costumi, abitudini, comportamenti; si indagano istituzioni, si illustrano mestieri, si spiegano tecniche, si trascrivono linguaggi, si esplorano territori, si inseguono mete artistiche e scientifiche... Amitav Ghosh lavora con la minuzia e la pretesa esaustiva dell’enciclopedista, ma l’enciclopedia è al servizio di una narrazione continuamente sorprendente, densa di colpi di scena, di rovesci di fortuna e raddrizzamento di torti, agnizioni, salvataggi, travestimenti, trappole, tempeste, evasioni...
In fondo lei ha scritto il più colto, il più impegnativo dei feuilleton, signor Ghosh. Il ritmo è quello. Perfino le parti massimamente erudite, le disquisizioni botaniche, commerciali, legali hanno un sottofondo eccitante, la promessa di una scoperta, di una sorpresa.
«Ma certo! È ciò che volevo. In Bengala abbiamo una grande tradizione di feuilleton, proprio nel senso francese, il feuilleton alla Sue, alla Dumas... Nei primi decenni dell’Ottocento - l’epoca del mio libro - c’erano molti scrittori del genere a Calcutta. Scrivevano in bengali ma anche in inglese. E avevano un grande pubblico».
Come mai, per «ambientare» il suo feuilleton, ha scelto il periodo in cui fiorisce - e deflagra - il commercio dell’oppio?
«In realtà non l’ho scelto, l’ho trovato. Quando scrivevo Il palazzo degli specchi ho cominciato a interessarmi ai coolies, i poveracci che lasciavano l’India per andare a lavorare altrove praticamente come schiavi. L’emigrazione, quello mi interessava. Ma andando a vedere ho scoperto che i coolies hanno cominciato a lasciare l’India negli Anni Trenta dell’Ottocento. La prima generazione di coolies veniva dal Bihar. Il Bihar era stato ricco, uno dei granai dell’India. Poi gli inglesi imposero la monocoltura dell’oppio, e la gente si impoverì disperatamente. Non aveva più da mangiare. L’attuale povertà del Bihar è ancora un lascito di quei tempi».
E così ha cominciato a seguire la pista dell’oppio?
«Sì, e seguendola sono arrivato in Cina».
Ma in Cina lei ci arriva a bordo di un veliero indiano, non britannico. Il suo mercante di oppio, Barham, è un parsi di Bombay. Lontanissimo dai campi del Bihar, da Calcutta e da Canton.
«Mi interessava il ruolo degli indiani nel traffico dell’oppio. E quel ruolo era rivestito soprattutto da mercanti parsi, della costa Ovest dell’India. Vista la fortuna che gli inglesi avevano col commercio dell’oppio, negli Stati indiani occidentali ci fu chi osò sfidarne il monopolio, coltivò l’oppio nel retroterra del Gujarat, del Rajastan, del Maharashtra, lo caricò sulle navi nel porto di Bombay, circumnavigò il subcontinente e si presentò a Canton in diretta concorrenza coi commercianti britannici».
Una concorrenza fortunata, secondo quello che lei racconta.
«Fu la nascita dell’imprenditoria indiana, marcò per sempre la differenza tra l’Ovest e l’Est del Paese. Tutte le maggiori compagnie indiane hanno cominciato con l’oppio. Vuole saperne di più? Si legga Bombay - Opium City dello storico Amar Farooqi».
L’oppio come origine e metafora del capitalismo. Sorprendente.
«L’oppio “è” il capitalismo. Il commercio dell’oppio è una diretta conseguenza, un’applicazione perfetta delle idee di Adam Smith. La ricchezza delle nazioni viene pubblicato nel 1776, pochi anni dopo gli inglesi, che avevano un problema con la Cina spendevano un’impressionane quantità di sterline nell’importazione del tè - trovarono il modo di equilibrare l’uscita con una nuova entrata: quella derivata dalla vendita dell’oppio indiano ai cinesi. S’inventarono un prodotto, assolutamente non necessario ma “addictive”, e lo vendettero alle masse».
Una volta deciso che l’oppio sarebbe stato il Leitmotiv, come s’è organizzato, per scrivere? Salman Rushdie mi ha detto che segue uno schema ferreo, precostituito. Solo uno dei protagonisti di Shalimar il clown l’ha sorpreso rifiutandosi di accettare il proprio destino. Ne è rimasto turbato...
«Ah, ecco perché leggendo i libri di Salman si ha l’impressione che non sia interessato ai personaggi, ma a qualcos’altro. Per me è l’esatto contrario. I miei personaggi mi sorprendono sempre, non so mai che cosa combinano. Son dovuto arrivare quasi a metà di Fiume di oppio prima di accorgermi che era Bahram il protagonista».
Quindi lei non sa quello che accadrà da un capitolo all’altro?
«Assolutamente no. Vengo continuamente preso alla sprovvista. In pratica per me scrivere un libro consiste nel correre dietro ai personaggi, seguirli per vedere che cosa combinano».
Vuol dire che tutte le ricerche connesse a Mare di papaveri eFiume di oppio - enormi, basta vedere l’elenco delle fonti alla fine dei volumi - sono per così dire «improvvisate»? Si documenta in corso d’opera, seguendo vicende imprevedibili?
«Esattamente. Come farei a divertirmi, se no? ».

il Fatto 8.11.11
Quei patrioti del Btp che non vogliono pagare il conto
Applausi all’appello del “corriere” dalle grandi banche felici di scaricare sui risparmiatori i titoli invenduti
di Vittorio Malagutti


Ci sono i superbanchieri come il gran capo di Intesa, Corrado Passera e Antonio Vigni, direttore generale del Monte dei Paschi di Siena. E poi gli onorevoli Italo Bocchino, finiano della prima ora, con il berlusconiano (pentito?) Giorgio Stracquadanio. Ma anche il popolo degli imprenditori e degli artigiani del Nordest non ha proprio potuto fare a meno di far sentire il suo caldo sostegno all’iniziativa. Tutti in piedi. Tutti ad applaudire il signor Giuliano Melani da Pistoia, che si è comprato un’intera pagina sul Corriere della Sera di venerdì per esortare gli italiani a comprare titoli di Stato “per non svendere il Paese, per fare a meno del governo e dell’Europa”. Così recita, testuale, l’appello firmato Melani, che nel weekend si è fatto una scorpacciata di interviste ai giornali con tanto di comparsata televisiva.
INSOMMA, il vero patriota compra titoli di Stato. Il popolo dona il suo oro alla Patria per sfuggire all’assedio dei mercati cinici e bari. E infatti Bocchino e Stracquadanio hanno solennemente annunciato di aver messo mano al portafoglio: il primo ha comprato 20 mila euro di Btp e il secondo addirittura il doppio. Sfortunatamente i mercati, in apparenza non troppo impressionati dalla discesa in campo di Bocchino e Stracquadanio (o forse sì, ma in senso contrario a quello auspicato dagli interessati), hanno tirato dritto per la loro strada. Ieri le quotazioni dei bond targati Italia hanno perso ancora quota e lo spread ha frantumato l’ennesimo record superando quota 490 punti.
Nel futuro prossimo, in assenza di novità sul fronte politico, la situazione non potrà che peggiorare, anche nella fantascientifica ipotesi che gli italiani accorrano in massa in banca per comprare titoli di Stato. Alcuni di coloro che in questi giorni si sono precipitati ad applaudire pubblicamente il simpatico Melani lo sanno benissimo, ma indossare la maschera del patriota può servire a farsi con comodo gli affari propri.
Prendiamo i banchieri, che negli anni scorsi si sono abbuffati di Btp per ingrassare i bilanci. Ora che si mette male, i top manager tipo Passera e Vigni, hanno un disperato bisogno che qualcuno prenda il posto delle banche, almeno in parte, quando si tratterà di sottoscrivere i titoli di stato nelle aste dei prossimi mesi (300 miliardi da piazzare da qui a fine 2012). Secondo i dati dell’ufficio studi della Banca d’Italia, gli istituti di credito nazionali possiedono il 12,6 per cento del totale dei titoli pubblici italiani in circolazione, che ammontano a circa 1.600 miliardi. Alla fine del 2009, la quota delle banche non arrivava al 10 per cento (9,8).
NEL GIRO di meno di due anni, quindi, i gruppi creditizi hanno aumentato la loro esposizione al debito sovrano di Roma di oltre il 20 per cento. Adesso però quel malloppo scotta. E allora può far comodo, eccome, scaricarne un po’ sulle famiglie. Tanto più che, queste ultime, invece, tra il 2009 e il 2011 hanno mantenuto invariata al 14,3 la loro quota sullo stock complessivo di titoli di stato. Il banchiere vende, la famiglia compra. Quello che ci vuole per dare una mano ai conti degli istituti. Non si capisce quale sia la convenienza per i piccoli risparmiatori a farsi carico dell’invenduto delle banche. Le stesse banche che, negli ultimi due anni sono riuscite a risparmiare decine e decine di milioni di imposte con operazioni finite nel mirino della magistratura. A questo proposito Melani potrebbe chiedere informazioni ai vertici di Unicredit, il gruppo creditizio per cui lavora, che pochi giorni fa si è visto sequestrare 245 milioni di euro dal tribunale di Milano nell’ambito di un’inchiesta per una presunta truffa all’erario.
A ben guardare, però, non si spiega neppure l’entusiastica accoglienza che l’appello di Melani avrebbe raccolto, secondo il Corriere della Sera, tra i piccoli imprenditori del Nordest. Tutti ricordano gli appelli provenienti da quella parte del Paese a ridurre gli sprechi statali e a indirizzare i capitali verso la produzione. Meno rendite più lavoro, questo lo slogan caro al Nordest. Che invece adesso plaude a una proposta che vorrebbe gettare altro denaro nel gran falò del debito improduttivo gestito dallo centralista e sprecone.
Come si spiega l’inversione di rotta? Mistero. A meno di non malignare che i tanti padroncini di Verona, Padova e Tre-viso, un’area dove si concentra buona parte dell’evasione fiscale del Paese, non cerchino in realtà di esorcizzare lo spettro delle tasse. Perchè di questo passo l’amministrazione pubblica, messa alle strette, potrebbe anche decidere di mettersi a combattere seriamente i furbetti. O magari (disgrazia delle disgrazie) a Roma potrebbero inventarsi addirittura un qualche tipo di imposta patrimoniale.

il Fatto 8.11.11
Obama salvato dagli immigrati
di Maurizio Chierici


I ragazzi hanno ragione quando ci rinfacciano il senso di colpa dell'essere sopravvissuti agli anni felici e di non esserne del tutto innocenti. Per altri popoli sono stati anni di guerre e di umiliazioni mentre la nostra civiltà stava inventando la più mastodontica agenzia viaggi della storia e se il secolo appena passato dovrà proprio avere un nome sarà il secolo degli emigranti. Insopportabili perché arrivano dal sud per sconvolgere il nord bene educato. Ma adesso sono qui: cosa ne facciamo? Soluzioni che non coincidono fra i protagonisti del G20 di Cannes. Per esempio, due a confronto: il Cavaliere d'Italia che ha affidato il governo al razzismo delle leghe, diffidenza, esclusione, rimpatri forzati, insomma la morte della speranza; e il signore della Casa Bianca, mezzo figlio dell'emigrazione, impegnato a recuperare l'amicizia degli elettori dai nomi latini perché senza il loro voto non torna presidente. Bisogna riconoscere che due signori tanto diversi affrontano la situazione con la stessa sincerità. Il Cavaliere misura la vita nel denaro e si comporta di conseguenza: non riesce a immaginare niente di diverso. L'altro presidente ha imparato la vita nelle difficoltà e senza ipocrisia dialoga con chi gli somiglia. Chi punta sul ticket miliardi-potere, chi sul confronto tra diritti e dignità, con qualche furbizia, perché sono i latini a decidere se resterà a Washington. Rappresentano il 23 per cento di un elettorato tendenzialmente democratico: il 67 per cento lo ha sostenuto nella prima scalata, ma la crisi sta cambiando molte cose. Promesse rimandate, Repubblicani che attribuiscono ogni depressione agli errori di Obama, non solo per “l'inutile populismo” della riforma sanitaria allargata a milioni di esclusi buona parte di origine latina; soprattutto per “l'ambiguità politica verso paesi tradizionalmente ostili”. Cuba e Venezuela. E i profughi antichi e nuovi che dalla Florida rimpiangono i piaceri perduti all'Avana o sfogliano gli oroscopi aspettando la caduta di Chávez, sono l'elettorato ideale che può congelare l'apertura democratica. Ogni candidato repubblicano va in pellegrinaggio fra gli eterni profughi di Miami con l'umiltà di chi si inginocchia nella grotta di Lourdes. Promettono ritorni in patria e dittatori in fuga anche se ormai non creduti da chi dovrebbe sostenerli. E loro lo sentono; lo sanno. E cambiano strategia. Forse l'esempio italiano suggerisce qualcosa: imbottigliare le colonne d'Ercole del benessere con mura invalicabili, insomma sigillare i mille chilometri della frontiera messicana e poi nessuna tolleranza. Al Congresso svuotano la legge sull'immigrazione proposta da Obama per garantire una vita normale ai nuovi cittadini. Insomma, riesce difficile immaginare come possano attrarre la simpatia del 40 per cento dei latini decisivi per la vittoria se continuano a maltrattarli. Ecco che per diventare maggioranza gli eredi di Bush si aggrappano al voto bianco. “Perché siamo bianchi e non marron” e perché “un vero americano bianco deve essere repubblicano”. Bambinate anche perché l'impressione è che i bianchi Usa siano sempre meno pallidi. Quei matrimoni misti, tragedia dell'umanità. Lontana dall'isterismo della razza perduta, la mano di Obama è un invito abbastanza sincero. Gli immigrati lo sentono: stanno discutendo come combinare le ambizioni di un protagonista, col futuro non differenziato di milioni di senza nome che continuano a inseguire il sogno americano. Facile capire come sia più semplice sognare con Obama e più complicato nelle mani degli ariani polenta e osei.

il Riformista 8.11.11
Se Nietzsche da nazista divenne uomo di sinistra
Teorie. Azzarà nel suo nuovo saggio per Manifestolibri ripercorre le varie interpretazioni che Vatti- mo ha attribuito al filosofo tedesco. Interpretazioni che rifettono l’evoluzione di una certa fetta del pensiero politico, dalla contestazione del ’68, alla svolta neoliberista e alla crisi degli ultimi anni. Esce invece un volume curato da Vivarelli per Giuntini sugli scritti dell’autore dello “Zarathustra” sugli ebrei
di Corrado Ocone

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Corriere della Sera 8.11.11
L'uomo che voleva un altro Islam
La sfida dell'imperatore Dara Sikoh: fondere le religioni
di Giorgio Montefoschi


I viaggiatori moderni che, stremati dal viaggio nelle pianure infuocate a sud di Delhi, arrivano finalmente a Fatehpur Sikri, la città deserta che fu capitale dell'impero moghul tra il 1570 e il 1586, sono ripagati dalla bellezza di un luogo splendido. L'insieme dei palazzi imperiali e dei vari edifici fatti costruire in arenaria rossa dal grande sovrano moghul Akbar per celebrare la sua vittoria (Fatehpur significa «la città della vittoria») su una dinastia musulmana che governava il Gujarat, lascia senza fiato, ed è nel medesimo tempo struggente, come sono struggenti tutti i luoghi che hanno avuto breve vita.
Infatti, Akbar e la sua corte dimorarono a Fatehpur Sikri solo dodici anni. Poi l'imperatore partì per nuove imprese militari (regnò dal 1556 al 1605) e presto la città fu lasciata a un inarrestabile abbandono. Ma, in quei pochi anni, Akbar fece meraviglie: sale per le udienze, biblioteche, padiglioni per il riposo, sale del tesoro, gigantesche stalle per gli elefanti, magazzini, uffici, chioschi dai quali scrutare di notte le stelle. Lo stile architettonico era persiano; le decorazioni, indiane. Akbar, che non avendo studiato era e rimase analfabeta, era un convinto assertore della libertà del pensiero e della tolleranza universale verso tutti, indipendentemente dalle diverse religioni. Come era accaduto nei califfati della Spagna araba in cui convivevano musulmani cristiani e ebrei, nella sua corte si incontravano poeti e mistici, artisti e filosofi sia musulmani che induisti. E si scambiavano informazioni e nozioni e tesori di antica sapienza riguardanti la medicina, la matematica, le scienze naturali; si confrontavano le verità e gli enigmi sui misteri dell'anima e dell'Altrove; in un apposito padiglione costituito per le traduzioni lavoravano gomito a gomito letterati musulmani e pandit indù. Così, la tradizione degli studi persiani sui millenari saperi indiani, già avviata attorno all'anno Mille e proseguita nel XIII secolo, conobbe un momento di eccezionale fervore — e, dal sanscrito, furono tradotte in persiano opere fondamentali come il Mahabharata o il Ramayana, ad esempio.
Erede di questo fervore e di quelle aspirazioni fu il bisnipote di Akbar: Dara Sikoh, nato il 20 marzo del 1615 in Rajasthan e morto tragicamente nel 1659. Affiliato alla confraternita sufi della Qadiriyya; seguace delle dottrine mistiche del musulmano Ibn 'Arabi; curioso e aperto a ogni incontro che avesse al centro la Parola e l'anima (dunque frequentatore assiduo delle parole e dei silenzi, superiori alle parole, degli yogin indiani: specchio dei sufi musulmani); convinto assertore del fatto che l'induismo non fosse affatto un politeismo, come poteva sembrare, bensì una religione monoteista e, insieme, della incontrovertibile profonda assonanza di tutti i libri divini (la Bibbia, i Veda, il Corano) in quanto espressioni dell'unico e solo e vero Dio, Dara Sikoh scrisse una quantità di opere a testimonianza del suo credo e promosse una quantità di traduzioni, tra le quali va segnalata la traduzione persiana delle Upanishad, sulla quale si basò Anquetil-Duperron per la sua versione latina — la prima ad apparire in Occidente — ai primi dell'Ottocento.
La congiunzione dei due oceani (Adelphi, bella introduzione a cura di Svevo D'Onofrio e Fabrizio Speziale, pp 169, € 14) è il libro nel quale la dottrina dell'unicità dell'Essere e della corrispondenza delle due tradizioni mistiche, quella dell'Islam e quella dell'Induismo, diventano non più supposizioni intuitive, quanto piuttosto vere e proprie tesi suffragate dal confronto delle costruzioni teologiche e mitiche, della cosmografia, della liturgia, del sacrificio. «Come l'uomo è un individuo unico, nonostante la pluralità dei suoi organi — scriveva Dara Sikoh — allo stesso modo anche l'Essenza divina è unica e non diviene molteplice in virtù delle sue differenti determinazioni». Dio — secondo il suo pensiero, espresso nel merito al decimo capitolo del trattato — è visibile, e tutti coloro i quali lo negano vanno considerati sciocchi e ciechi, «poiché se la Santa Essenza è onnipotente, come potrebbe essere incapace di manifestare se stessa?». «Tuttavia — aggiunge appena due righe sotto — nessuno può nemmeno sostenere che è possibile scorgere la pura Essenza divina. Fintanto che la pura Essenza, che è informale e priva di attributi, non assume determinazioni e si manifesta nel velo della sottigliezza, essa è invisibile e la sua visione è impossibile». La parola chiave di questo brano, che potrebbe essere attribuito a San Paolo, come a Sant'Agostino, è la parola «pura». Lì è il mistero. Dio si fa conoscere, ma non interamente, nella sua purezza: solo attraverso un velo, in uno specchio (quello della creazione e del nostro cuore) e in enigmi. Lo vedremo nell'altro mondo — pur avendo cominciato a vederlo in quello in cui viviamo.
Dara Sikoh — s'è detto — ebbe una fine tragica. Come poteva l'erede al trono di un impero dominatore essere sospettato di condiscendenza o addirittura di fraternità con le genti che altri pretendenti allo stesso trono pensavano si dovessero dominare con la forza, i cui antecedenti sono lo sbarramento ideologico e la chiusura mentale? Come si poteva affidare la guida dell'immenso impero moghul a un uomo che, come lo descrivevano i suoi avversari, era costantemente in compagnia di bramani ed era solito considerare «quegli insulsi ciarlatani quali maestri sapienti e perfetti?». Come poteva guidare l'impero moghul un uomo che considerava i Veda parola di Dio? Un uomo che in luogo dei santi nomi di Dio aveva adottato nomi indù? Era chiaro che, se Dara Sikoh fosse arrivato al trono, la Legge coranica sarebbe stata messa in pericolo e avrebbero trionfato i miscredenti. Così, nel 1658, profittando di una grave malattia del padre, Sah Jahan, i tre fratelli cadetti di Dara Sikoh si ribellarono alla designazione paterna e marciarono contro Dara. Poi, il più capace di loro, Awrangzeb, sconfisse pure i fratelli e si proclamò sovrano. Il passo successivo fu quello di sottoporre Dara a una pubblica umiliazione, facendolo sfilare vestito di stracci per le vie di Delhi a dorso di un elefante. Quindi, lo fece processare e condannare a morte.

il Riformista Lettere 8.11.11
Armi di struzione di massa

Nelle ultime settimane, una pacifica opposizione ha scatenato i suoi “white blocs” nelle piazze e sui giornali per lanciare sputi e insulti alla volta dei Radicali. Rei, questi ultimi, di una mai dimostrata defezione dalle file del centro-sinistra e di un altrettanto fantasioso soccorso al governo uscente. Nel frattempo, quelle acque chete dei vescovi italiani stavano diramando gli inviti per il prossimo convegno di Scienza&Vita, che inizierà il 18 novembre prossimo e dove Bagnasco ci insegnerà che la vita umana comincia alla sola idea di un rapporto sessuale e che la morte arriva soltanto se un angelo passa e decreta il suo amen. Ed ecco arrivare le prime adesioni alla kermesse vaticana, avente per tema la “educazione alla democrazia” (sic!): Bersani, Alfano, Casini, Maroni... Traduzione: mentre si cercava il laboratorio della bomba atomica in casa radicale, le armi di distrazione di massa funzionavano a pieno Regime per coprire un summit di straordinaria trasversalità, dove certo non si udirà mai la bestemmia “laicità”. E, soprattutto, nessuno si scandalizzerà per questo dialogo/trattativa interforze, che non promette niente di buono in materia di bioetica e diritti civili. In fondo si sa: la politica è fatta di compromessi. Storici.
Paolo Izzo

lunedì 7 novembre 2011

l’Unità 7.11.11
Da Bersani no a un governo Schifani o Letta: «Sarebbero di centrodestra»
Il leader del Pd su Renzi: «Discutiamo dell’Italia, non di destini personali»
Opposizioni al premier: dimissioni o sfiducia Pronta la mozione
Le opposizioni al premier: o ti dimetti o sfiducia. Nel Pd si valuta se presentare già stasera la mozione. Bersani chiude a un governo Schifani o Letta. «Renzi? Discutiamo pure, ma dell’Italia, non di destini personali».
di S. C.


ROMA. Il Pd ha pronta la mozione di sfiducia al premier, ma calerà la carta solo al momento opportuno. Domani la Camera dovrà infatti votare il rendiconto dello Stato, dopo la bocciatura di tre settimane fa. E per l’opposizione sarà questo il primo passaggio in cui dimostrare che il governo non ha più la maggioranza. I deputati di Pd, Udc e Idv stanno infatti ragionando sull’ipotesi di astenersi, per consentire l’approvazione di questo fondamentale provvedimento ma al tempo stesso far vedere che i loro voti, insieme a quelli dei malpancisti del Pdl, costituiscono una maggioranza alternativa. Potrebbe bastare perché il Quirinale si impegni in un ulteriore accertamento sulla capacità di tenuta dell’asse Pdl-Lega-Responsabili, ma potrebbe non essere ancora sufficiente a far compiere a Berlusconi il necessario passo indietro per lavorare poi al governo di transizione auspicato da Pd e Udc (e accettato a precise condizioni da Idv e Sel).
Pier Luigi Bersani in pubblico frena sulla tempistica, e alla domanda diretta di Lucia Annunziata nel corso di “In 1/2h” risponde che il suo partito sta «ragionando» sull’ipotesi di una mozione di sfiducia. In realtà il leader del Pd, che in queste ore è in continuo contatto con Pier Ferdinando Casini e con Antonio Di Pietro, sta valutando se far depositare alla Camera già stasera la mozione, visto che il regolamento di Montecitorio prevede che tra la presentazione e il voto debbano passare almeno tre giorni, e che i rischi che corre il Paese sono troppo gravi per permettersi di aspettare la prossima settimana prima di un «cambio politico».
Quel che è certo è che la carta verrà calata, anche se le votazioni di domani saranno per il premier meno negative di quanto previsto alla vigilia. Dario Franceschini è convinto che Berlusconi «stia bluffando» quando sostiene di avere i numeri per andare avanti, e avvisa: «O si dimette o presto i parlamentari che vogliono un governo di emergenza per salvare il Paese voteranno la sfiducia per poterlo far nascere». Di Pietro dice che «prima dobbiamo avere i numeri e poi presentare la mozione di sfiducia». Ma per Bersani comunque vada il voto del rendiconto dello Stato la mozione andrà presentata: «Sceglieremo la strada che metterà meno in difficoltà il Paese. Se verrà votato il rendiconto ci sarà una ragione in più per la sfiducia». Per il leader del Pd solo con un passo indietro del premier e un governo che segni una «discontinuità» e sia guidato da una personalità credibile all’estero l’Italia può risalire la china.
Condizioni che aprirebbero all’ipotesi di un governo Monti, anche se Bersani sottolinea che spetta al Quirinale fare i nomi, e che invece escludono il sostegno a ipotetici governi guidati da Renato Schifani o Gianni Letta, che sarebbero comunque «di centrodestra».
I FISCHI A RENZI E LE PAROLE DI PRODI
Bersani, che non esclude di andare al voto in ogni caso prima del 2013, è soddisfatto della prova data dal suo partito con la manifestazione di San Giovanni. In tv smorza, circa la giornata di sabato, la vicenda delle contestazioni a Matteo Renzi: «Fischi? Ma in piazza c’erano centinaia di migliaia di persone, c'è stato solo un battibecco. Sì, certo, è stata una cosa spiacevole. Ma vorrei ricordarecheRenzièunodelPdeiosono anche il suo segretario». Dice poi Bersani che discussioni tra dirigenti possono anche esserci, «ma ognuno in questo momento si deve assumere le sue responsabilità, ora dobbiamo occuparci dell'Italia, no dei destini personali».
Quanto alle parole di Romano Prodi («non è confortante leggere, con quel che succede, che nei sondaggi il Pd non riesce a crescere come ci si aspetterebbe», ha detto in un’intervista), che pure non gli hanno fatto piacere, dice Bersani in tv con un sorriso che non c’è «problema»: «Rispondo alle sue osservazioni dicendo che siamo partiti da condizioni difficili e certamente facile non è. Abbiamo solo quattro anni e siamo già il primo partito del Paese. Noi siamo stati ben peggio di oggi. Siamo migliorati, sondaggi compresi. E questo ci fa dire che possiamo ancora migliorare. E miglioreremo, con l’aiuto generoso di tutti. Il nostro servizio è al Paese e non è guardarci la punta delle scarpe».

l’Unità 7.11.11
Intervista a Ignazio Marino
«Riforma elettorale e poi si vada al voto»
Il senatore critico: «Prodi ha ragione. Bersani dovrebbe coinvolgere di più il suo popolo e uscire da una visione novecentesca del partito aiuterebbe»
di Ma. Ze.


La manifestazione è stata un momento importante per il popolo democratico ma anche per il segretario. Per Bersani è stata l’occasione per essere chiaro sulla sua visione politica». E non tutto di questa visione convince il senatore Ignazio Marino, sfidante di Bersani alle primarie, convinto sostenitore della necessità di andare al voto subito, ma consapevole che alla fine possa anche andare diversamente.
Senatore, partiamo dai passaggi del discorso del segretario che l’hanno convinta di più, se ce ne sono.
«Ho condiviso molto il fatto che sia più volte tornato sulla fiducia che il Pd vuole trasmettere agli italiani. È lo stesso atteggiamento che colgo durante i miei viaggi all’estero, dove di fronte alla gravità della crisi globale c’è la volontà di dare segnali di speranza ai cittadini, di indicare una via d’uscita e la certezza che è possibile farcela».
Si fermano qui le condivisioni?
«No, ma credo sia importante anche dire cosa non mi ha convinto. Ed è il senso del partito che ha, ma evidentemente è una scelta del segretario e in quanto tale va rispettata. Nel momento in cui Bersani si rivolge al suo popolo e vuole entrarci in comunione, dicendo di sapere bene quale sia lo stato d’animo davanti alla crisi economica e politica, decide di far salire sul palco i rappresentati di altri partiti europei. Mi chiedo: perché non un’insegnante o una madre alle prese con la mancanza di lavoro e senza una rete di servizi intorno a lei? A me sarebbe piaciuto far salire il nostro popolo sul palco».
Prodi ha detto che Bersani è bravo ma non riesce a “uscire”. Condivide? «Prodi ha ragione. Forse coinvolgere di più il suo popolo lo aiuterebbe. Dovrebbe uscire da una visione novecentesca del partito».
Il governo potrebbe avere le ore contae. Bersani ha indicato il governo di transizione come possibile svolta, ma non esclude il voto anticipato. Vendola ha aperto. Lei, che ha sempre invocato le urne, apre uno spiraglio?
«Intanto non credo a questo movimento di transfughi che dalla maggioranza passano all’opposizione. Se anche Scilipoti non dovesse votare la fiducia, perché nel frattempo sono cambiati i suoi interessi, l’Idv che fa? Se lo riprende?».
Lei non crede che alla fine qualcuno staccherà la spina?
«Credo spetti all’opposizione essere sempre in Parlamento, soprattutto ora che la maggioranza è confusa e sfilacciata, perché in una serie di votazioni possiamo mandarla sotto. La crisi si può aprire anche senza cercare di attrarre transfughi».
E se cade? Casini ha chiuso all’ipotesi di un governo Letta e ritiene da irresponsabili farne uno senza di voi.
«La decisione spetta al Capo dello Stato, che ha il diritto-dovere di verificare se c’è una nuova maggioranza prima di sciogliere le Camere. Ho grande stima di Napolitano e mi sembra evidente che c’è l’intenzione di creare un governo di transizione. L’ideale sarebbe cambiare la legge elettorale e poi andare al voto con un programma chiaro. In caso di esecutivo di emergenza mi piacerebbe però che anziché far prevalere le logiche partitiche si desse spazio alle competenze e intelligenze che ci sono nel Paese. Così si darebbe un messaggio di fiducia e di ricostruzione, come dice Bersani. Il Pd però, prima dovrebbe chiarire come la pensa su due o tre questioni».
Tipo?
«Penso alla riforma sul mercato del lavoro. Capisco la proiezione della segreteria del Pd, ma mi chiedo se un giovane preferisce passare di contratto a scadenza in contratto a scadenza oppure averne uno a tempo indeterminato con flessibilità variabile».
Le piace la riforma Ichino dunque?
«Ho firmato il suo ddl».
Seconda questione.
«Vorrei fare una raccomandazione a Bersani sulle pensioni di anzianità: il partito deve dire con chiarezza e quanto prima come la pensa. Non può solo prendere atto che l’attuale sistema non regge più».
C’è chi rimprovera al segretario di non aver preso le distanze dai fischi a Matteo Renzi.
«Sarebbe stato fuori luogo farne cenno dal palco, ma certamente il segretario non deve essere indulgente con chi gli va a parlare male di Matteo, perché il segretario deve dare a tutti la libertà di pensiero e discussione all’interno di un partito che si chiama democratico».

l’Unità 7.11.11
Intervista a Pierluigi Castagnetti
«Il Pd è in campo ma guai se chiude la porta ai Renzi»
«Non condivido le proposte del sindaco di Firenze qui però si misura l’apertura e la tolleranza del partito Molti cattolici si sentono ospiti: è un problema serio»
di Simone Collini


Siamo alle battute finali», dice Pierluigi Castagnetti riferendosi al governo.
Cosa glielo fa pensare? «Finalmente anche all’interno della maggioranza si sono resi conto che così non si può andare avanti». Berlusconi dice di avere i numeri. «Berlusconi ha trasformato Palazzo Chigi in un bunker. Ne uscirà solo con un voto parlamentare». Presenterete una mozione di sfiducia? «Non sarebbe neppure necessaria se ci fosse un numero cospicuo di parlamentari che sottoscriva un documento tale da indurre il presidente del Consiglio a prendere atto che non ha più la maggioranza. Altrimenti servirà una mozione di sfiducia, non c’è dubbio».
Ammettiamo si apra la crisi: e poi?
«C’è bisogno di un governo sostenuto da tutte le maggiori forze del Paese, che coinvolga le migliori energie perché solo così può essere recuperata la credibilità sul piano internazionale. E poi nel 2013 ognuno giocherà la propria parte, e noi con le nostre proposte andremo in competizione con la destra».
C’è chi sostiene che non siano ancora chiare le vostre proposte.
«Lo può dire solo chi non ha seguito il lavoro che abbiamo compiuto fin qui, e comunque Bersani a San Giovanni ha risposto alle accuse stucchevoli di assenza di un’alternativa e ha delineato i nostri contributi molto solidi per una praticabile alternativa di governo».
Non è che le vostre proposte non arrivano perché c’è un coro di voci che non sempre sono in sintonia?
«Il problema è semmai che va riconquistata una unità vera. Oggi diamo per scontata una unità che in effetti non c’è e questo mi fa paura, sia per quando avremo responsabilità di governo sia per quando dovremo affrontare le elezioni».
Cosa intende dire?
«Ho l’impressione che il processo di costruzione del partito si sia come arrestato. La vicenda di Renzi può essere assunta come paradigma della possibilità che nel partito si realizzi un pluralismo interno vero. Non condivido il discorso di Renzi, rabbrividisco quando gli sento dire che berlusconismo e antiberlusconismo sono la stessa cosa perché non coglie il male rappresentato per il Paese da questa stagione berlusconiana. Però sta ponendo la questione di un dibattito più largo, vero e tollerante». Cuperlo, in un intervento sull’Unità, ha fatto notare che non è normale tentare di scalare un partito dall’esterno.
«Ho apprezzato l’intervento, anche perché Cuperlo non ha demonizzato Renzi. Però il punto non è il tentativo di scalata alla leadership del Pd per vie esterne. La vera domanda che il Pd ha di fronte è un’altra: è scalabile solo per vie interne da uno che può avere anche le migliori idee ma che non viene da una storia di sinistra?».
Lei dice di no?
«Tanti dirigenti del Pd sui territori mi parlano di cose che vanno aggiustate, sono preoccupati perché come cattolici si sentono nei fatti regrediti allo stadio di ospiti e non di padroni di casa. Non si tratta solo della carriera di qualcuno, ma di capire che il Pd deve essere intriso di culture diverse, che devono tutte avere lo spazio che loro compete. Stiamo attrezzandoci per una campagna elettorale ed è bene che non sottovalutiamo problemi che hanno una loro consistenza».
A quella campagna elettorale andrete dopo aver scelto con le primarie il candidato del centrosinistra e con il Pd che sostiene Bersani?
«È prematuro oggi un discorso su primarie e candidati premier se dovremo allargarci anche al Terzo polo. Non precluderei la possibilità di alleanze larghe facendo prima del tempo delle scelte che devono invece essere condivise da tutti i protagonisti».

Paolo Gentiloni: Renzi contestato
«Non stupisce che la piazza lo fischi quando ci sono dirigenti che lo definiscono come un reaganiano, uno di destra e via dicendo, segnalo che nel corso delle settimane scorse c’è stato un susseguirsi di epiteti contro il sindaco di Firenze che mi hanno lasciato allibito. Poi non dobbiamo stupirci se la piazza lo fischia, dal momento che i nostri dirigenti lo definiscono un reganiano, uno di destra e via di seguito. Vedo una preoccupante tentazione da buttafuori nel Pd e questo non va affatto bene».


Su La Stampa un’intervista a Renzi: “Il Pdl è travolto dalla crisi ma noi non cresciamo”
Renzi: per vincere dobbiamo uscire dal nostro recinto, di Fabio Martini, sul Corsera un’intervista a Giorgio Gori, sempre a sostegno di Renzi

Repubblica 7.11.11
Radicali a rischio strappo Pierluigi ora corre ai ripari
Vertice con Pannella e Bonino dopo due anni
Ripresa dei contatti dopo gli scontri con il Pd. Sul tavolo legge elettorale, carceri e giustizia
di Goffredo De Marchis


ROMA - Non possono fare tutto Casini, Pisanu o personaggi come Pomicino. Anche il Pd decide di mettersi in moto per assestare il colpo parlamentare del ko a Berlusconi. Domani mattina, prima del voto sul Rendiconto, Pier Luigi Bersani, con i capigruppo Franceschini e Finocchiaro, incontra una delegazione radicale guidata da Marco Pannella e Emma Bonino. Non accadeva da quasi due anni. Nel frattempo si è arrivati al limite dell´espulsione. È una piccola svolta politica. Ma la posta in gioco adesso è davvero alta, nessun voto va disperso e con i radicali è obbligatorio riallacciare un filo.
Alla riunione non ci sarà Rosy Bindi. Scelta inevitabile dopo le parolacce rivolte dal presidente del Pd alla pattuglia dei sei radicali in Parlamento durante l´ultimo voto di fiducia. Pure Bersani deve aver avuto un ripensamento. Dopo che i pannelliani avevano mandato in frantumi la tattica della minoranza sul numero legale, il segretario aveva pronunciato la sua condanna definitiva: «Ognuno per la sua strada». Mettendo una bella pietra sopra all’alleanza con Pannella siglata per le elezioni del 2008. Il gelo artico aveva origini comunque più remote. 24 mesi di incomunicabilità, il solito movimentismo del leader radicale lo aveva portato ad annunciare sostegni al premier. Due settimane fa è andato addirittura a cena a Palazzo Grazioli. Questa tensione era culminata nella vergognosa ccontestazione a Pannella durante la manifestazione degli indignados (sputi, insulti, minacce).
Ora si riavvolge il nastro. O si prova a farlo. Domani Bersani e i radicali ricominciano dal voto sul Rendiconto. Secondo Pannella va approvato, anche con le astensioni. Rita Bernardini ne ha già parlato con il capogruppo del Pd Franceschini. E le parole di Bersani pronunciate ieri fanno capire che i democratici sono pronti a dare il via libera al bilancio consuntivo dello Stato prima dello show down finale. «Nel Pd - è la spiegazione data da Franceschini alla deputata radicale - ci sono due posizioni: il voto contro e un´astensione che renda comunque evidente la fine della maggioranza». I democratici sono ormai orientati verso la seconda ipotesi. Visti i precedenti però (e con possibili elezioni alle porte) l´incontro avrà altri punti sul tavolo. L´ultimo faccia a faccia ebbe un esito positivo. Poi è successo di tutto.
Sul tavolo i radicali metteranno legge elettorale, giustizia, carceri, liberalizzazioni. Non è sfuggito a Pannella che nel discorso di Piazza San Giovanni Bersani ha fatto un vago accenno alle «culture radicali» parlando degli alleati futuri. Un piccolo passo avanti rispetto alla "dimenticanza" dell´intervento finale alla festa democratica di Pesaro. Con il voto alle porte può esserci un interesse reciproco a riannodare i fili. Per il Pd i radicali vogliono dire due punti percentuali in più. Per Pannella significa cercare un´intesa per riportare suoi parlamentari alle Camere sotto un ombrello più grande, la scelta che nel 2008 impose Emma Bonino. Molta acqua è passata sotto i ponti da allora. E domani potrebbe finire anche in maniera traumatica. Ex popolari, cattolici, la Bindi, tanti ex diessini e una parte del popolo di centrosinistra non sopportano oltre le mosse di Pannella. Allora l´occasione diventerebbe quella di un addio.
Resta ancora da risolvere la "pratica Berlusconi". Se il premier decidesse di andare avanti, Franceschini e Bersani prevedono una loro mozione di sfiducia. I radicali come si comporterebbero? Niente scherzi, assicurano. Come sempre. «Abbiamo votato 51 volte no alla fiducia, in questi tre anni - ricorda Rita Bernardini - . Non c´è motivo per non fare lo stesso la 52esima volta». Anche di questo si parlerà domani. Sempre che non ci si debba occupare subito del futuro prossimo. Quello senza Cavaliere.

Repubblica 7.11.11
Il disincanto della democrazia
Anche la democrazia colpita dalla crisi a livello record chi non ha più fiducia
Il 23% la equipara ai sistemi autoritari. Tra le cause il governo in tilt
Ormai solo per 2 elettori su 10 Berlusconi merita la sufficienza. Pesano poi i diktat europei di istituzioni non elettive
Tre anni fa il dato era inferiore di ben sette punti. Tra giovani, elettori di Pdl e Lega lo scetticismo più marcato
di Ilvo Diamanti


Nel Paese si percepisce un diffuso disincanto politico. Investe non solo i partiti e i loro leader, ma anche le istituzioni dello Stato.
Ad eccezione del Presidente Napolitano, com´è noto, la sfiducia dei cittadini non risparmia nessun soggetto e nessun attore pubblico. Non sorprende che questo sentimento stia erodendo il consenso nei confronti delle istituzioni rappresentative. Verso la stessa "democrazia". È ciò che sta capitando, secondo un sondaggio di Demos di alcuni giorni fa. Certo, la gran parte degli intervistati (oltre due terzi) resta convinta che "la democrazia è preferibile a qualsiasi altra forma di governo". Se ne desume, però, che circa un italiano su tre la pensa diversamente. In particolare, il 23% del campione accetta l´idea che: "autoritario o democratico non c´è differenza". Si tratta del dato più alto registrato negli ultimi dieci anni. Nel 2001 questa posizione era, infatti, condivisa dal 16% degli intervistati. La stessa percentuale rilevata nel 2008. Il disincanto democratico sembra, dunque, essere cresciuto sensibilmente negli ultimi anni. In particolare, si è diffuso fra i più giovani (18-29 anni). Ma risulta condiviso, soprattutto, nell´elettorato di centrodestra: il 31% tra gli elettori del Pdl, addirittura il 34% tra i leghisti.
Difficile sorprendersi. La democrazia rappresentativa non sta offrendo grande prova di sé, in questa fase. In Italia, ma non solo.
Basti pensare a come è stata affrontata la crisi economica e finanziaria. L´agenda: dettata dalla Ue, in particolare dalla Bce e dal Fmi. Cioè: da istituzioni finanziarie e monetarie, non elettive. Nell´ambito della Ue, peraltro, le scelte comunitarie - in particolare, le nostre - sono state imposte da due Paesi su tutti: Francia e Germania. Da due leader su tutti: Sarkozy e Merkel. Eletti dai cittadini dei loro Paesi, non dagli europei, nel loro insieme. Tanto meno dagli italiani. Peraltro, mentre i mercati dettano le regole e i vincoli ai governi, il rapporto tra mercato e democrazia non appare più stretto e automatico come un tempo. Leonardo Morlino, sull´ultimo numero dell´Espresso, mostra come il tasso di crescita del Pil nei regimi autoritari (4,9%) sia decisamente superiore a quello dei Paesi democratici e liberi (2,3%). Questa tendenza si spiega, in parte, con il basso punto di partenza dei regimi autoritari. Tuttavia, non sorprende troppo, vista l´influenza esercitata sulle economie occidentali da Cina e Russia (sistemi peraltro molto diversi). Visto il peso della Libia (e della famiglia) di Gheddafi nell´economia italiana fino a un anno fa. Prima dell´intervento armato, deciso e guidato da Usa, Gb e, anzitutto, dalla Francia (di nuovo). A nome e per conto della Comunità Internazionale (Italia compresa).
Il disincanto democratico degli italiani, però, è condizionato, in misura rilevante, dalle vicende interne. La sfiducia nel governo eletto nel 2008, in un´altra epoca: oggi solo il 20% degli elettori lo considera adeguato al compito. Stesso giudizio nei confronti dell´opposizione. Ma il consenso verso il governo è crollato in breve tempo.
Il Presidente del Consiglio ottiene, a sua volta, una valutazione sufficiente da due soli elettori su dieci. D´altra parte, un governo e un Presidente del Consiglio che, per sopravvivere, ricorrono alla fiducia una volta alla settimana, non possono che ri-produrre la sfiducia. Tanto più se si assiste a passaggi continui di parlamentari, tra uno schieramento e l´altro. In queste ore, ad esempio, Berlusconi sta contattando, ad uno ad uno, i "dissidenti" del Pdl. Per ricomporre, una volta di più, la maggioranza, in vista del voto di domani. Allargando ancora, se necessario, il numero dei sottosegretari e dei vice-ministri (se ne è perso il conto, oramai). Difficile riconoscere il marchio della "volontà popolare" a una maggioranza sempre in bilico, tenuta insieme e rattoppata mediante incentivi personali continui. Anche perché non è per "sanare" i problemi giudiziari né i conflitti di interesse di Berlusconi che gli elettori, nel 2008, avevano garantito al Centrodestra una maggioranza parlamentare larga come mai prima, nella Seconda Repubblica.
Le preoccupazioni degli italiani, ormai segnate dalla crisi economica, hanno reso insopportabili i costi della politica. I privilegi di cui godono i parlamentari e gli amministratori pubblici. E hanno alimentato un clima "antipolitico", sostanzialmente diverso da quello dei primi anni Novanta. Perché allora rifletteva la rottura con il "vecchio" sistema politico. Evocava una domanda di cambiamento, proiettata nel futuro. Mentre oggi l´antipolitica riflette la frustrazione suscitata da un sistema politico esausto, prigioniero del presente - e del passato. Anche per questo la "fiducia" nella democrazia, in Italia, appare in declino. Tanto più fra coloro che diffidano dei partiti. D´altra parte, a fidarsi dei partiti, ormai, è una quota residua: il 5% degli italiani. Non a caso i soggetti che raccolgono maggiore consenso fra i cittadini sono "esterni" ai partiti. Non solo il Presidente, Napolitano. Ma anche imprenditori, finanzieri, leader di organizzazioni economiche, tecnici. Gli stessi ai quali fanno riferimento quanti vedono in un governo di unità nazionale l´unica soluzione a questa crisi - politica ed economica.
Ma Berlusconi e gli altri leader della maggioranza, in caso di sfiducia parlamentare, invocano il ritorno alle urne. Ogni diversa soluzione sarebbe "un golpe", ha denunciato, sabato scorso, il ministro Calderoli. Responsabile della legge elettorale attualmente in vigore, in base alla quale è stato eletto questo Parlamento. Secondo lo stesso Calderoli: una "porcata", che impedisce ogni controllo sugli eletti da parte degli elettori. Contro questa legge elettorale sono state raccolte, in un mese e mezzo, oltre 1 milione e 200 mila firme. Per promuovere un referendum abrogativo, che riscuote il consenso di gran parte degli elettori (come ha mostrato la "Mappa" della scorsa settimana). Questa legge elettorale - ogni legge elettorale - è, per definizione, principio e fondamento della nostra democrazia rappresentativa. Visto che la "rappresentanza" democratica è realizzata mediante le elezioni. Per questo occorre prendere sul serio il disincanto della società italiana. Perché mina la "legittimità" della nostra democrazia. Alla radice.

Repubblica 7.11.11
Se sull’Italia pesano 39 milioni di ignoranti
di Mario Pirani


Un pedagogo di alto valore, il professor Saverio Avveduto, mi ha fatto pervenire un dossier di testi, corredati da dati e statistiche, sia suoi che di Tullio De Mauro, già ministro della Pubblica istruzione, sullo stato del nostro panorama educativo. Val la pena di cogliere, non da fiore a fiore, ma da rovo a rovo, alcuni grovigli spinosi del nostro sistema. Il dato più sconfortante è la distanza abissale tra le oasi di alto sapere (che comprendono premi Nobel e grandi chirurghi, scienziati e letterati, ricercatori industriali contesi a livello internazionale) e i vasti deserti di una popolazione priva delle conoscenze essenziali per orientarsi nella complessità del mondo d´oggi. Da una scheda dell´Ocse risulta che nella classifica sulla condizione educativa (tale da permettere all´individuo di capire il titolo di un giornale, un semplice questionario, un pubblico avviso) l´Italia occupa il penultimo posto fra una trentina di paesi industrializzati, seguita solo dal Portogallo. A questa situazione soggiace il 68,2% della popolazione, pari a 39.146.400 unità, una cifra da paura che necessita, peraltro, di una spiegazione. Essa comprende, infatti, gli analfabeti totali, i cittadini privi di qualsiasi titolo di studio ma anche quelli che hanno ottenuto la licenza elementare e quella media inferiore.
La valutazione di questo assieme che scardina il significato dei parametri dell´Istat (l´Istituto qualifica come analfabeti solo coloro che si autodefiniscono tali, senza nessuna verifica obbiettiva sulla validità dell´autodichiarazione) si basa, come ricorda Tullio De Mauro nel saggio-intervista La cultura degli italiani (a cura di Francesco Erbani, ed. Laterza), su una regola che gli studiosi di pedagogia sperimentale chiamano del "meno cinque". Secondo questo principio in età adulta regrediamo di cinque anni rispetto ai livelli massimi delle competenze cui siamo giunti nell´istruzione scolastica formale. Alla fine del liceo, ad esempio, si è arrivati a studiare derivate e integrali e altre operazioni matematiche complesse ma se non si fanno professioni collegate a statistica o economia, se non si è bancari, commercialisti o ingegneri che ne rimane in età adulta? Nozioni, se va bene, da terza media. Ma non è solo la matematica a subire il "meno cinque". Quanti hanno studiato il greco al liceo e poi, in età adulta, guardano una pagina di greco come se fosse scritta in ideogrammi cinesi? Avveduto ha perciò suggerito di considerare regrediti di cinque anni in materia di competenze alfabetiche tutti quelli che hanno soltanto la licenza elementare. Cinque meno cinque fa zero. Chi ha la sola licenza elementare, tolto chi esercita particolari mestieri che lo portino a leggere e scrivere, come ad esempio i tipografi, in età adulta torna in condizioni di analfabetismo. Gli analfabeti effettivi, secondo Avveduto, sono da stimare a un terzo della popolazione e sfiorano i venti milioni. Una cifra assai lontana da quell´1% che alla domanda scritta dell´Istat ha il coraggio di rispondere sinceramente di "non sapere né leggere né scrivere".
Se riflettiamo su questo dato assai più reale delle statistiche ufficiali ci si rende conto di quanto incida la pochezza culturale e il basso livello del capitale umano. Impressiona in proposito la classifica Ocse sugli investimenti in conoscenza: tra i sei ultimi Paesi figurano Portogallo, Grecia, Italia (terzultima), Irlanda e Spagna. Gli stessi messi sotto sorveglianza da Fmi e Ue per l´indebitamento schiacciante e l´incapacità di farvi fronte. Eppure non c´è segno di resipiscenza che indichi una qualche attenzione alla cultura. Indicative e inedite sono in proposito le ore dei programmi culturali sui vari canali (fonte Istat): Rai Uno ore/anno 4,3%, Rai Due 10,6%, Rai Tre 13,2%, La 7 20,3%, Canale 5 0,3%, Italia1 0%, Rete4 1,9%. Per quanto riguarda la radio le risultanze sono simili, tranne che per Rai Tre che riserva il 32,8% delle sue ore al sapere degli ascoltatori. Le sia dato merito.

La Stampa 7.11.11
Atene e Roma i due tramonti
di Hugo Dixon

Direttore del colosso d’informazione Reuters Breakingviews

Caos, crisi, dramma sono tutte parole greche. Come catarsi. L’Europa è in bilico tra caos e catarsi, nel momento in cui la crisi politica ad Atene e Roma ha raggiunto il suo punto critico. Una via porta alla distruzione, l’altra alla rinascita. Nonostante ci siano segnali di speranza, ancora pochi passi falsi condurranno nell’abisso.
I drammi in due delle culle della civiltà europea sono simili e, in maniera bizzarra, legati. La decisione di Georges Papandreou, la scorsa settimana, di indire un referendum sull’ultimo pacchetto di misure per salvare il Paese ha dato il via a una reazione a catena che sta portando alla caduta non solo del suo governo ma anche a quella dell’esecutivo di Silvio Berlusconi.
Il folle piano per un referendum, che adesso è stato ritirato, ha scioccato a tal punto la Germania di Angela Merkel e la Francia di Nicolas Sarkozy che hanno minacciato di ritirare gli aiuti finanziari alla Grecia a meno che non avesse ritrovato credibilità, una mossa che l’avrebbe portata fuori dall’euro. Ma era probabilmente una vuota minaccia, almeno a breve termine, perché Atene è legata a Roma. Se la Grecia è spinta ai margini, anche l’Italia potrebbe essere trascinata con essa e l’intera moneta unica collasserebbe. Così, ironicamente, Atene viene salvata dalle conseguenze immediate del suo cattivo comportamento dalla paura di un ben più grande disastro al di là del mar Ionio.
I tassi di interesse sui titoli italiani, che erano già pericolosamente alti, sono schizzati dopo il pasticcio del referendum greco. Berlusconi è stato costretto a far tranquillizzare Merkel e Sarkozy al G20 di Cannes accettando di porre il voto di fiducia sul suo scialbo programma di riforme, e il monitoraggio da parte dell’Fmi. L’umiliazione a Cannes, dove il ministro delle Finanze Giulio Tremonti ha apposta evitato di appoggiarlo, potrebbe essere l’ultimo chiodo sulla bara del governo Berlusconi. La fine dell’era Papandreou e Berlusconi dovrebbe essere, in teoria, motivo di gioia. Benché il comportamento del premier italiano sia stato scandaloso, mentre non lo è stato quello del greco, entrambi hanno condotto i loro Paesi a un indebitamento più profondo. E sono tutte e due membri di caste politiche che hanno indebolito le loro nazioni per molti anni. Liberarsi di loro potrebbe essere l’inizio di un processo di rinnovamento.
L’intoppo è che non è certo che quello che verrà dopo sarà meglio. In tutte e due i Paesi, dove ho passato gran parte delle ultime due settimane, la soluzione migliore sarebbe un governo di unità nazionale con lo scopo di sradicare la corruzione e tagliare il troppo generoso welfare state. Potrebbe accadere sia prima che dopo elezioni anticipate. Sfortunatamente, le vecchie caste politiche sono dure a morire. Potrebbero stare lì a battibeccare su chi soffre di più e chi deve avere l’incarico finché avranno gli occhi fissi nell’abisso, o ci saranno caduti dentro.
Molti nel resto dell’Europa, nel frattempo, sarebbero tentati di spingerli giù dal bordo, se fossero abbastanza forti da reggere l’impatto. Ma Merkel, Sarkozy e tutti gli altri sono stati criminali nella loro mancanza di preparazione. Il cosiddetto piano approvato al vertice del 26 ottobre è stato un altro caso di troppo poco, troppo tardi. Non solo il piano per ricapitalizzare le banche era la metà di quello necessario ma è stato stoltamente rimandato fino al prossimo giugno, mentre lo schema per applicare una leva finanziaria alla rete di sicurezza regionale, l’European Financial Stability Facility (Efsf), è pieno di buchi. E’ apparso chiaro a Cannes, quando Merkel ha ammesso che poche altre nazioni del G20 erano pronte a investire in esso.
Per l’intera Europa adesso è una corsa contro il tempo. I greci debbono ritrovare l’efficacia nelle loro azioni prima che il resto dell’Ue li tagli fuori. Gli italiani debbono ricostruire la loro credibilità prima di essere risucchiati in un vortice dal quale non potranno uscire. E gli altri hanno bisogno di mettere in campo un piano d’emergenza veramente efficace nel caso Atene e Roma continuino a deluderli. Se tutti cominciano a correre molto velocemente, il weekend appena passato potrebbe essere l’inizio della catarsi. Se no, il caos busserà alla porta.

La Stampa 7.11.11
Migliaia di donne rapite e vendute agli scapoli cinesi
La polizia libera 3500 “mogli” nell’Hebei
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG. Dopo trent’anni di politica del figlio unico, che vede la maggior parte delle famiglie cinesi autorizzate ad avere un solo figlio (eccezioni solo in alcune zone di campagne se la prima gravidanza ha prodotto una femmina o nei matrimoni fra due figli unici), la Cina si ritrova ad affrontare le impreviste conseguenze del modo in cui ha scelto di ridurre la popolazione. La nota scarsità di donne sta portando all’aumento di agenzie matrimoniali che procurano mogli straniere a scapoli disposti a pagare. Si tratta di agenzie che agiscono in modo legale e aperto e che offrono in particolare donne vietnamite a uomini delle campagne cinesi, promettendone la verginità e docilità e la sostituzione con altre ragazze se dovessero fuggire. A questo si accompagnano però frequenti casi di tratta di donne, prelevate sia nella stessa Cina che nei Paesi confinanti.
Ora la stampa cinese annuncia che la polizia dello Hebei, nel Nord della Cina, ha liberato 3500 donne e bambini rapiti da trafficanti negli ultimi due anni. Fra le donne costrette a unioni clandestine per assicurare una progenie a scapoli che pagano migliaia di euro, ce n’erano 206 straniere, portate in Cina da reti criminali che operano alle frontiere con la Mongolia, la Corea del Nord, la Birmania e il Vietnam. Sui giornali cinesi non è raro leggere storie angoscianti di donne rapite per strada o ingannate con la promessa di un lavoro, che si ritrovano in cattività in aree rurali lontane, tenute prigioniere per scongiurarne la fuga. I casi che finiscono sulla stampa però sono esclusivamente quelli che si concludono con la liberazione delle donne, lasciando dunque in ombra la reale entità del problema.
Le statistiche ufficiali riferiscono che nel 2010 sono nate 100 bambine ogni 118 bambini: conseguenza in parte degli aborti selettivi – illegali ma ugualmente molto diffusi – e in parte dell’infanticidio femminile, che negli ultimi tempi però è in significativo calo, grazie alle tecnologie capaci di accertare presto il sesso del nascituro.
L’attuale campagna contro il traffico di persone, iniziata nel 2009, ha portato la polizia a sgominare 429 gruppi criminali e ad arrestare 556 persone, secondo le dichiarazioni di Yang Zeli, membro della pubblica sicurezza della provincia dell’Hebei, riportate dalla stampa cinese.
Lo stesso giorno la polizia nello Shandong ha dichiarato di aver arrestato un’altra gang che imprigionava donne per avere figli per conto di altri, disposti a pagare per l’adozione di un bambino. I maschietti erano valutati fino a 50.000 yuan (quasi 6000 euro), mentre le bambine arrivavano al massimo a 30.000 yuan (circa 3500 euro).

Corriere della Sera 7.11.11
Una colletta per pagare la multa di Ai Weiwei
di Marco Del Corona


PECHINO — Nelle intenzioni delle autorità poteva essere l'atto finale del caso Ai Weiwei, ovvero la sua resa: l'artista avrebbe dovuto pagare entro il 16 novembre i 15,22 milioni di renminbi (oltre 1,6 milioni di euro) in tasse arretrate, interessi e multe. Così Ai avrebbe chiuso quietamente un opaco contenzioso in cui accuse di «crimini economici» mai formalizzate gli sono costate una detenzione extragiudiziale di 81 giorni. Ma l'artista sembra riuscito a trasformare anche questo diktat in una mobilitazione irridente contro quella che considera l'ottusità di un potere autoritario: migliaia di simpatizzanti stanno contribuendo a raccogliere la cifra. Una sorta di colletta sostenuta da un vigoroso tamtam in rete.
La cifra messa insieme finora sembrerebbe sui 2 milioni di renminbi. Sui diversi account Internet che Ai utilizza per comunicare con la composita galassia di chi lo segue, erano stati indicati i metodi di pagamento: la posta, un conto bancario, il sistema online PayPal, il suo omologo cinese Alipay. «È diventata una grande manifestazione online», ha dichiarato l'artista al Financial Times, aggiungendo che «per ora tengo il denaro ma lo restituirò». Un prestito: «Ogni centesimo sarà reso. Per favore, lasciate un numero di telefono o un indirizzo email», ha scritto su Google+.
La scorsa settimana, Ai aveva replicato all'ingiunzione dell'ufficio fiscale di Pechino ricordando che tutta la documentazione della Fake, la sua società, era stata portata via in occasione del suo arresto. Della Fake, peraltro, è rappresentante legale non Ai Weiwei ma la moglie Lu Qing, mentre la contabile Hu Mingfen era stata a sua volta detenuta per un paio di mesi. Secondo la stampa di Hong Kong, la madre e il fratello di Ai Weiwei sarebbero pronti a offrire come garanzia per circa metà della cifra chiesta all'artista la casa appartenuta al padre, il poeta Ai Qing.
Mobilitazione e pratica artistica si combinano spesso nel percorso di Ai, che sia un happening anti-censura o un party a base di granchi di fiume contro la demolizione del suo studio di Shanghai. Stavolta però si temono ripercussioni su di lui. Dopo essere stato rilasciato in giugno, aveva spiegato di non poter parlare della sua vicenda. Tuttavia i suoi tweet acri e beffardi sono ripresi, mentre tre sue opere sono state esposte in una galleria del distretto artistico 798. Tre anni fa, conversando col critico Hans Ulrich Obrist, l'artista sosteneva — lo si legge nel libro Ai Weiwei Speaks — che «fondamentalmente, gli esseri umani sono mostri; si comportano con spietatezza». Adesso, osservando cosa sta succedendo in suo favore, sembra addolcirsi: «Non conta la cifra» che viene raccolta «ma il numero delle persone coinvolte», perché «il senso della parola popolo è evidente».

Corriere della Sera 7.11.11
Machiavelli cerca 10 mila euro
Esce il sesto volume dell'Edizione nazionale. Ma per l'ultimo mancano i fondi
di Dino Messina


Non si riesce a capire e ad apprezzare il Machiavelli del Principe, dei Discorsi e dell'Arte della guerra se non si tiene presente il lungo e faticoso apprendistato diplomatico del Machiavelli uomo di governo. Dal 1498 al 1512 messer Niccolò fu al servizio della Repubblica fiorentina, come raccontano le migliaia di lettere scritte di suo pugno, a volte messaggi brevi, pratici, altre veri e propri saggi capaci di fotografare in poche righe la situazione contemporanea. Di tale attività frenetica (e modernissima), su cui si basa tutto o quasi il «Machiavelli maggiore», quello dei capolavori che scriverà dopo essere stato escluso violentemente dal governo della città, danno conto i volumi delle Legazioni. Commissarie. Scritti di governo nell'ambito dell'Edizione Nazionale. In questi giorni, per la Salerno Editrice vede la luce il sesto volume, a cura di Emanuele Cutinelli Rendina e di Denis Fachard (pagine 650, 60). Per il settimo (e ultimo) bisognerà aspettare e contare nella buona volontà degli studiosi che vi lavorano a titolo completamente gratuito, oltre che nei finanziamenti privati provenienti dall'estero.
Perché la verità è questa: lo Stato italiano non ha trovato i dieci-quindicimila euro occorrenti per pubblicare il sesto volume degli scritti diplomatici, che è stato stampato grazie a un piccolo contributo della Fondazione Margherita di Sion, la città del Vallese, in Svizzera, e alla donazione di uno studioso straniero che vuol mantenere l'anonimato. «Sono in imbarazzo a rispondere ai miei colleghi francesi o tedeschi quando mi chiedono notizie sull'uscita del teatro di Machiavelli o dell'epistolario privato — confessa Cutinelli Rendina, professore di letteratura italiana a Strasburgo —. Che cosa devo dire? Che il Paese che garantisce due milioni e mezzo annui all'"Avanti!" di Valter Lavitola non trova pochi soldi per l'edizione nazionale di uno dei suoi classici?».
Il discorso su come maltrattiamo i nostri autori è lungo (alcuni nostri umanisti hanno, per esempio, splendide edizioni critiche presso la Harvard University Press ma da noi sono ignorati) e ci distoglierebbe da questo nuovo volume che merita una certa attenzione per un paio di motivi. Il primo è che contiene una sessantina di scritti totalmente inediti, il secondo è che comprende il periodo di maggior fortuna politica del «segretario fiorentino». Parliamo degli anni dal 1507 al 1510, quando Machiavelli è uomo di fiducia del gonfaloniere perpetuo Pier Soderini e quindi viene affiancato agli ambasciatori «ufficiali» spesso espressione del partito degli ottimati (gli oligarchi) per portare la vera voce del governo cittadino. Si tratti della missione alla corte di Massimiliano I d'Asburgo, per decidere se finanziare l'imperatore nella guerra che lo opponeva a Luigi XII e alla repubblica veneziana, del terzo viaggio alla corte francese dove Machiavelli si lancia in una requisitoria contro lo strapotere dei papi, o semplicemente dell'incarico per seguire l'ultima fase della guerra contro la ribelle Pisa.
Messer Niccolò fu inviato in Germania ad affiancare l'ambasciatore Francesco Vettori, esponente degli ottimati filoasburgici, per sostenere le ragioni di Pier Soderini, che invece era favorevole all'alleanza con la Francia. Quel che forse più interessa di questo viaggio alla corte imperiale, allora in Bolzano dove Massimiliano I era acquartierato per seguire la guerra contro Venezia, non è tanto l'esito politico-diplomatico quanto l'influenza che esso ebbe poi nella stesura delle opere maggiori. Machiavelli, poiché la pianura padana era bloccata, arrivò a Bolzano passando dal Piemonte, dalla Savoia e dalla Svizzera. Qui ebbe modo di notare l'organizzazione militare dell'unico popolo che viveva come «gli antiqui», con una milizia civica più efficiente degli eserciti mercenari. In Germania si rese conto di quanto fragile fosse lo Stato sovranazionale, al di là della retorica sul Sacro Romano Impero: la modernità al tempo di Machiavelli era rappresentata dallo Stato nazionale. Alcune di queste riflessioni sul campo le ritroviamo elaborate in vari capitoli del Principe e dei Discorsi. Inoltre, spiega Cutinelli, di particolare «esplicitezza e durezza» sono alcuni giudizi contro il papato e Giulio II durante la missione in Francia. «Che Dio lasci seguire quello che sia el meglio e cavi di corpo al Papa quello spirito diabolico che costoro (i Francesi) dicono li è entrato addosso», scriveva il segretario fiorentino in una lettera del 18 agosto 1510. E il 10 agosto si era augurato che i francesi tornassero ai metodi di Filippo il Bello, ai tempi dello «schiaffo di Anagni» a Bonifacio VIII.
Per comprendere la personalità del Machiavelli, uomo del fare più che teorico puro, questo volume degli scritti diplomatici contiene vere chicche. Come la confessione, non inedita ma leggibile soltanto in un'irreperibile edizione di Giuseppe Canestrini del 1857, in cui Niccolò il 16 aprile 1509 implora dal «campo» di Pisa di non essere richiamato in sede: «So che la stanza sarebbe meno pericolosa e meno faticosa: ma se io non volessi né periculo né fatica, io non sarei uscito da Firenze, sì che lascinmi vostre Signorie stare infra questi campi e travagliare tra questi Commissari delle cose che corrono, dove io potrò essere buono a qualcosa, perché io non sarei quivi buono a nulla e morre' disperato». È davvero una bella confessione per un grande scrittore diventato grazie alle opere scritte dopo la «cacciata» il fondatore della scienza politica moderna.

Corriere della Sera 7.11.11
Trappole e scherzi (anche osceni) nelle lettere inedite
di D. M.


I dispacci diplomatici che Machiavelli mandava alla Cancelleria fiorentina erano spesso firmati con il nome del primo ambasciatore (Francesco Vettori per le corrispondenze dalla Germania) ed erano
per lo più cifrati. A volte, spiega Cutinelli Rendina, i messaggi erano in chiaro perché fossero intercettati dai nemici. Altre volte erano mandati al solo scopo di gettare fumo negli occhi delle cancellerie straniere. Machiavelli componeva delle lettere senza avere nulla da dire di sostanziale. Questo tipo di messaggi cominciava in chiaro con una frase del tipo «l'ultima mia fu a dì del XVII del presente», poi proseguivano in codice con l'ammissione che non c'erano novità, quindi la pagina era riempita di lettere cifrate senza senso.
Così i decrittatori dell'Ottocento, analizzando questo tipo di missive, si erano sempre fermati alle prime righe. Emanuele Cutinelli Rendina e Denis Fachard in queste «lettere che non dicono nulla» hanno invece trovato un piccolo tesoro di battute, lazzi, divertimenti, ad uso dei colleghi della Cancelleria. Ecco qualche esempio che conferma la vocazione di Machiavelli per il comico, come dimostra tutta la successiva produzione teatrale,
a cominciare dalla Mandragola e la vera
e propria passione per l'osceno, come
ci dicono alcune lettere arcinote del segretario fiorentino, a cominciare da quella dell'incontro con una prostituta a Verona. «Questa è una cazzelleria: che menato sia la fava a chi crede che in questo mondo sia virtù veruna» scrive con divertito cinismo Niccolò nella lettera già citata dalla Germania. E in una successiva, rivolgendosi probabilmente a un collega, annota: «Ser Giovanni de' Poppi è uno zugo». Parola che si trova anche nella Mandragola e che significa stupido, fesso. Decisamente osceno è poi un brano in cui Machiavelli descrive certi attributi germanici: «Io vi dico
ed io credo in ogni modo per uno che doverebbe congetturare la impossibilità della natura che fa le maggiori cose
in questi paesi che in alcuno altro
del mondo. È ci sono certi rubaldoni (ribaldi, ndr) grande come asini che hanno cazzi come io la coscia che vanno infilzando queste povere fantesche, talmente che vostre Signorie si meraviglierebbero
ed appena chi non li tocca con mano lo crederebbe». Firmato Francesco Vettori, scritto da Niccolò Machiavelli. (d. m.)

Corriere della Sera 7.11.11
Cantine, dacie e spie Fantasmi comunisti per le strade di Mosca
Dal palazzo del Kgb al rifugio di Stalin
di Armando Torno


MOSCA — Accanto al Cistye Prudy, il Lago Pulito, c'è la casa di Abakumov, capo della temibile Smersh — acronimo di «Smert Shpionam», ovvero «Morte alle spie» — che venne fucilato gli ultimi giorni del 1954. La zona, però, è amena e sembra concepita per i sospiri dei fidanzatini; quando è sole, se non gela, diventa luogo di appuntamenti. Non distante si scorge il teatro Sovremennik, il Contemporaneo, dove l'avanguardia al tempo di Kruscev rappresentò opere marxiste destalinizzate e, dopo il crollo dell'Urss, drammi visceralmente anticomunisti. Qui incontriamo Anton Antonov, autore di Prospettiva Lenin. Dopo l'edizione italiana uscita da Feltrinelli il suo libro, tradotto in russo, è il successo di questi mesi.
Le storie incrociate di Ivan e Salvatore, con le quali ammicca e celia Antonov nell'opera, ci portano a visitare alcuni luoghi del vecchio potere comunista per tentare un confronto con le destinazioni di oggi. Il primo appuntamento non poteva che essere la casa di Abakumov, definita dai sovietici doc — per l'esagerato lusso in essa accumulato — «Luogo delle torture». Diventò sinonimo di ricchezza, vergogna, iattanza e, per l'etica dell'Urss, tormento delle coscienze. Qualcuno, come lo stesso Abakumov, nelle cantine subì le fantasie dei carnefici, ma tali crudeltà si consumarono dopo lo scoppio dello scandalo. Sino all'arresto del padrone di casa essa rappresentava la tortura delle coscienze dei compagni causata dallo sfarzo. Cosa accadde tra queste mura?
Diremo innanzitutto che la dimora fu, prima di essere espropriata all'inizio degli anni Trenta da Abakumov, una komunalka, ovvero in essa vivevano diciotto famiglie con camere separate e servizi in comune. Poi piacque all'influente uomo del controspionaggio e, in pochissimo tempo, gli inquilini furono cacciati e lui se ne appropriò, trasformandola in una residenza esclusiva.
Il suo potere crebbe dopo i fatti del 6 novembre 1931, quando un tale Ogarev, già ufficiale bianco e poi agente segreto dell'Intelligence britannica, cercò di uccidere Stalin. Lo attese alcuni giorni sulla centralissima via Iljinka, che porta dal Politburo al Cremlino, e quando lo vide voltare l'angolo mise mano alla pistola. Viktor Abakumov, giovane ufficiale dei servizi segreti, spinse con forza l'attentatore e riuscì a salvare il Piccolo Padre. Da quel momento diventò un eroe in carne e ossa; poi, soffocato dal successo, perse la testa. In quella casa sperperò oltre un milione di rubli pubblici per renderla insuperabile. Ma dopo la guerra i mormorii non gli concessero tregua: nel 1951 fu arrestato, subì tre anni di processo, ai quali seguì la condanna. La magione tornò allo Stato e, sino alla fine dell'Urss, ospitò capi dei servizi segreti dei Paesi fratelli. Oggi vi accoglie un portiere in divisa, cordiale, rubicondo. Nel cortile sono posteggiate macchine di alta cilindrata. Oligarchi, servizi, altro? La risposta: «Uffici». Di certo lusso e «torture» sono ricordi. Comunque, qui si lavora e le lampade al neon che si vedono dal cortile testimoniano il cambiamento.
Antonov, poi, ci invita in una stradina accanto al giardino di Abakumov e, dopo un pertugio tra alberi secolari, ci mostra l'anonimo palazzo della Dezinformatsija. In esso non si entrava mai dalla porta principale, ma sempre da una delle tante di servizio. Era il luogo dove si costruivano testi, poi firmati da giornalisti occidentali amici e ben retribuiti, per influenzare l'opinione pubblica straniera. Il lavoro era svolto da diversi settori: accordi commerciali, economia, politica, cultura eccetera. Il suo fine, a differenza della propaganda comunista o di agenzie come la Tass, consisteva nel combattere la disinformazione capitalista facendo circolare le verità del Cremlino. Questa casa «normale» ebbe un ruolo notevole dagli anni Trenta al tempo della Guerra fredda. Oggi? È ancora grigia, con nuove finestre (di plastica), mancante di pezzi di intonaco. C'è ancora qualcuno che entra furtivamente, occhieggiando intorno. «Scusi, chi abita qui?», chiediamo a un signore che ha premuto un campanello lontano dai citofoni. «Impiegati e operai», è la rassicurante risposta.
Dopo una trentina di minuti, sfidando il traffico caotico di Mosca, si arriva alla Lubjanka. Al tempo degli zar qui c'era una piazza dove si vendevano libri e stampe (forse da «Lubok», incisione su legno), ma dal 1918 il luogo è diventato quello leggendario dei servizi segreti. Certo, c'era una volta anche la casa di Majakovskij, ma è stata inghiottita dagli edifici prima dell'Nkvd, poi dell'Mgb, quindi del Kgb e infine dell'Fsb, tutte sigle che indicano la medesima cosa. Si narra che qui abbia passeggiato non poco Ian Fleming prima di dar vita a James Bond, l'agente segreto che in codice divenne il celebre 007 (numero che fu il prefisso telefonico dell'Urss e ora lo è della Russia). Antonov ricorda che il suo Ivan, brillante agente del Kgb, in questo possente edificio lasciò molti sogni. Ai quali c'è ben poco da aggiungere: qui c'erano servizi segreti e qui ci sono servizi segreti. Anche se ora è possibile camminare nella zona — non è il caso di farlo davanti al portone principale della Lubjanka — senza essere subito fermati. Qualche occhio vi osserva sempre ma, come si suol dire, discretamente.
Per mostrare invece un certo cambiamento occorre recarsi al palazzo che fu del Politburo. Ex banca dell'impero zarista, poi centro politico del comunismo sovietico, ora ospita gli uffici del presidente della Federazione russa. Stanno recintando il luogo, forse per scoraggiare i curiosi. Il mito dell'Urss vi aleggia: si decisero, tra l'altro, l'invasione dell'Ungheria, della Cecoslovacchia e dell'Afghanistan; oggi si sbrigano pratiche. Stalin e Lenin, Kruscev e Breznev, Andropov e Gorbaciov sono stati sostituiti da grigi burocrati, noiosi come le loro liturgie. E i giardini che stanno davanti, un tempo blindati dalla polizia, ora sono diventati il ritrovo degli omosessuali di Mosca. È successo a questo palazzo il contrario di quanto è capitato alla cattedrale di Cristo Redentore: dopo che nel 1934 Lazar Kaganovich ordinò di farla esplodere con la dinamite, si costruì al suo posto una piscina scoperta con acqua calda. La colonna di fumo che si elevava nei mesi freddi cessò al tempo di Eltsin, quando la più grande chiesa di Russia fu ricostruita (senza i marmi pregiati degli zar). Ora è la sede del patriarca di Mosca. Antonov osserva lo scranno dove si siede «sua beatitudine» e sussurra: «Oggi il potere, abbandonato il Politburo, prega e trova requie sopra o attorno a questo sedile rosso».
Chiudiamo l'itinerario recandoci alla dacia di Kuntsevo-Volynskoe, nella quale Stalin morì, dove sovente dormiva e in cui ricevette non pochi capi comunisti (Togliatti la conosceva, anche Mao). Rinunciamo a soffermarci in quella di Kruscev — non fu un vero centro di potere e il segretario silurato vi trascorse la quiescenza — perché si trova in completa rovina e solo a vederla si stringe il cuore. L'ultima dimora del Piccolo Padre, invece, è viva, rutilante. Dista una ventina di chilometri dal Cremlino e ormai si confonde con la periferia di Mosca. Palazzi diseguali e arroganti la stringono; in uno di essi si vendono appartamenti con la scritta: «Dacia di Stalin». L'edificio, perfettamente conservato, si trova nell'ultimo bosco rimasto, protetto da un recinto verde con il filo spinato. Un cartello segnala una scuola militare e alla porta d'ingresso vi bloccano, intimandovi di non scattare foto. Occorrono permessi, giorni di attesa. Non c'è gentilezza. Poi qualcosa riusciamo a raccogliere e a fare. Forse perché la sentinella non sa rispondere alla nostra domanda in russo sgangherato: «Ma è vero che Stalin cantava i Salmi mentre viaggiava in auto per raggiungere questa dacia?».

Repubblica 7.11.11
Il bancomat delle preghiere
di Andrea Tarquini

Senti il bisogno di pregare, ma sei solo e magari hai dimenticato le preghiere? La tecnologia in nome della fede ti soccorre. L´idea debutta nelle laicissime Berlino e Francoforte. Si chiama Gebetomat (macchina automatica per le preghiere). Quasi un "Bancomat" del Padre Nostro, aperto a ogni religione. Sembra una macchina automatica per le foto, entri, ti siedi, chiudi la tendina. Sullo schermo scegli prima tra le religioni - cioè cristiani di varie confessioni, musulmani, ebrei, buddisti, induisti, o altre. Poi la lingua, poi tutte le preghiere disponibili, dal Padre Nostro in lèttone a inni dei sufi fino a lodi di Krishna. Almeno 300 preghiere in 65 lingue, scelta ampliabile grazie all´elettronica. Oliver Sturm, l´inventore del bancomat della fede, si è fatto aiutare da avventisti del Ghana residenti qui, dalle moschee del quartiere turco di Neukoelln, dai musei etnologici per l´invocazione degli spiriti dei Mari del Sud. Nella Germania del Papa, in cui la Chiesa cattolica è colpita da una grave crisi di vocazioni, chi sa in quanti la macchina delle preghiere, impersonale ma pratica, risveglierà quale fede.

Repubblica 7.11.11
Brainstorming
Contrordine colleghi pensare da soli funziona meglio
di Angelo Aquaro


Sessant´anni dopo il libro che la teorizzava, uno studio americano rivela che la riunione di gruppo è un flop Il confronto collettivo costa ed è inefficace. Molto meglio ragionare individualmente. È la fine di un mito

NEW YORK. Che qualcosa non tornasse doveva averlo sospettato il suo stesso creatore. Alex Faickney Osborn ci mise 14 anni a trasferire dalla pratica alla teoria la tecnica del brainstorming: un tempo un po´ troppo lungo per partorire un´idea - e per giunta di gruppo. La sentenza arriva ora a quasi 60 anni dal suo libro "Applied Imagination", 1953: il brainstorming non funziona. La condanna è emessa da due scienziati dell´università del Texas: che sono riusciti a dimostrare come le soluzioni migliori sono quelle partorite singolarmente. Mettere insieme un gruppo di creativi a "scatenare i propri cervelli" - questa la traduzione letterale di brainstorming - non solo costa tempo: è molto meno efficace.
La conclusione dei professori Nicholas Khon e Steven Smith - applaudita dalla British Psicology Society - viene rilanciata con un pizzico di soddisfazione dal blog "Sulla Leadership" del Washington Post. Chi non si è mai trovato coinvolto in qualche estenuante riunione sotto lo sguardo supplicante ma severo del capo di turno che apre il dibattito con quella minacciosa promessa: «Non si esce da questa stanza se non troviamo la soluzione»? I due texani hanno finalmente dimostrato che queste estenuanti riunioni servono a poco. Quando gli studenti coinvolti nell´esperimento sono stati lasciati a lavorare da soli hanno prodotto meglio che in gruppo. E meno input - cioè possibili soluzioni - venivano suggeriti e più velocemente si arrivava alla risoluzione effettiva. Il brainstorming insomma non funzionerebbe per colpa di quel fenomeno che gli studiosi hanno etichettato come "fissazione della conoscenza". Se ai membri di un gruppo di lavoro vengono esposte delle idee, questi tendono a concentrarsi su quelle. Bloccando la ricerca di soluzioni potenzialmente migliori: che non vengono più espresse.
Per la verità alcuni limiti erano noti già al suo inventore. Osborn elencò quattro regole base. La prima: focalizzarsi sulla quantità invece che sulle qualità delle idee in base al principio che "quantità produce qualità". La seconda: stimolare le idee più inusuali perché le soluzioni più creative sono spesso più efficaci. La terza: combinare le singole idee in una complessiva che ne colga e amplifichi la portata, secondo l´ottimistico principio per cui "uno più uno fa tre". Ma era soprattutto la quarta regola a stargli più a cuore: non criticate. Perché un brainstorming funzioni davvero ognuno deve sentirsi libero di esprimersi: mentre spesso in questo tipo di riunioni c´è sempre qualcuno pronto ad alzare il ditino e a bocciare la sparata di turno.
Insomma sembra quasi che il povero Osborn - un giornalista fallito, licenziato dal Buffalo Express per scarso rendimento, riciclato con successo nella pubblicità - avesse lui stesso previsto quella "cognitive fixation" che gli rimproverano mezzo secolo dopo i due psicologi. Forse un po´ troppo severi. In fondo il vero problema del brainstorming, si sa, non è tanto che la "tempesta di cervelli" non funzioni: è che troppo spesso scarseggia la materia prima.

Repubblica 7.11.11
Ecco la "fabbrica di neuroni" dalle staminali un cervello nuovo
Entro tre anni si potrebbero avere i primi test clinici su pazienti umani
di Giuliano Aluffi


Su "Nature" l’ultima scoperta: così le cellule embrionali sostituiscono quelle distrutte dal morbo di Parkinson I test sulle scimmie sono incoraggianti, nel giro di pochi mesi gli animali hanno recuperato l´attività motoria

Ostacolate in Europa, in America curano il Parkinson: nuovo successo sperimentale per le staminali embrionali. Oggi non è più un sogno, almeno per quanto riguarda topi e scimmie, ma la speranza per l´uomo è molto concreta grazie ad un innovativo processo che Lorenz Studer del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York ha appena pubblicato su Nature.
«Finora tutti i neuroni prodotti da staminali per rimpiazzare i neuroni dopaminergici che, morendo, provocano il Parkinson, non funzionavano una volta trapiantati su modelli animali. Il nostro studio risolve questo problema: abbiamo scoperto che una molecola, detta CHIR99021, attiva un segnale specifico, detto WNT, che fa sì che i neuroni sviluppati dalle staminali siano perfettamente funzionanti anche dopo il trapianto nel cervello» spiega Studer. «Abbiamo capito l´importanza del segnale WNT riproducendo in provetta tutti i segnali che i neuroni ricevono durante il normale sviluppo embrionale».
È come aggiungere cartelli segnaletici per facilitare un percorso stradale: in questo caso il "cartello" che guida le embrionali è la molecola CHIR99021. Così nessuna cellula può "perdersi per strada". Nella sperimentazione precedente, succedeva spesso che dopo il trapianto nel cervello non tutte le staminali si specializzassero in neuroni: quelle residue continuavano a proliferare senza freni. «La nostra tecnica si differenzia da ogni tentativo passato perché i neuroni non si formano dai precursori neurali altamente proliferativi che si usavano una volta (cellule staminali a metà percorso, per così dire). Noi li otteniamo da cellule staminali arrivate ad uno stadio in cui non proliferano più» sottolinea Studer.
Le ricadute positive della scoperta vanno oltre il solo Parkinson: il nuovo processo per trasformare le staminali in neuroni sarà – con ogni probabilità – applicabile anche ad altre malattie neurodegenerative, come la corea di Huntington, dove sono i neuroni striatali a venire distrutti. Per ricrearli in provetta si stanno già studiando – presso il laboratorio di biologia delle cellule staminali dell´Università di Milano – molecole candidate per riprodurre in vitro lo sviluppo naturale di questo tipo specifico di neuroni. «E non solo: studiare lo sviluppo naturale delle cellule per progettare strategie di riconversione delle staminali potrà essere utile anche per ottenere cellule sanguigne: fino ad oggi i globuli ottenuti dalle staminali non funzionano bene una volta inseriti nell´organismo» aggiunge Studer.
Quando si passerà alla fase clinica? «Il prossimo passo è assicurarci che anche sul lungo termine i neuroni trapiantati funzionino bene e non diano luogo ad effetti collaterali. Per ora si è visto che fino a 5 mesi dopo il trapianto topi e scimmie non mostrano più i sintomi del Parkinson, ma una durata ancora più indicativa è un anno completo. Se tutto procede secondo le previsioni, dovremmo avere una banca di cellule usabili in test clinici su pazienti umani entro 3 anni. Le cellule possono essere inserite nel cervello con un intervento neurochirurgico. Una volta trapiantate prediciamo che sapranno adattarsi al meglio e capire cosa fare» auspica Studer. «Il problema principale, quello biologico, è risolto: i neuroni sopravvivono e funzionano. Rimane ora il problema ingegneristico: come produrre le cellule nella giusta scala e nel giusto formato».
Determinante per il successo di Studer è stata la ricerca sulle staminali embrionali, che in alcuni Paesi, tra cui il nostro, pur essendo riconosciuta come legale è spesso esclusa dai bandi pubblici, come quello del ministero della Salute contro cui Elena Cattaneo insieme ad Elisabetta Cerbai e Silvia Garagna hanno fatto ricorso nel 2009 ritenendo l´esclusione immotivata.

Repubblica 7.11.11
La ricercatrice Elena Cattaneo critica il verdetto della Corte europea
"Un risultato davvero straordinario ma senza brevetto niente terapia"


Elena Cattaneo dirige il laboratorio di biologia delle cellule staminali dell´Università di Milano e coordina il consorzio europeo NeuroStemcell, che finanzia anche il laboratorio Usa di Studer.
Come giudica la scoperta?
«È il migliore risultato anti Parkinson mai raggiunto dalla ricerca sulle staminali. Le cellule neuronali ricavate in passato dalle staminali embrionali avevano qualche caratteristica dei neuroni del Parkinson, ma non la "carta d´identità" completa dei neuroni veri e propri: la loro sopravvivenza dopo trapianto era bassa e a volte accompagnata da crescite simil-tumorali»
Cosa ci dice questo risultato sullo stato della ricerca sulle staminali?
«Che le embrionali sono le uniche staminali utili a generare questi neuroni. Qualsiasi altra cellula staminale non ha mai risposto ai trattamenti di questo tipo. E questo acuisce un paradosso. Il recente verdetto della Corte di giustizia europea nega la possibilità di brevettare i risultati del lavoro su queste cellule».
Perché ritenete i brevetti indispensabili?
«Sono l´unico modo che la ricerca ha per attirare l´industria farmaceutica ad investire. Nessun laboratorio universitario potrà mai portare quella scoperta a livello clinico. I brevetti in questo caso non sono una forma di arricchimento personale, ma sociale».
(g. aluf.)

l’Unità 7.11.11
Dove sono finiti i nostri antenati?
Tutti a Burgos
La città castigliana in bilico tra passato e futuro con i suoi monumenti gotici e il modernissimo Museo dell’evoluzione umana che conserva
i fossili di una nuova specie, l’«Homo antecessor», scoperta ad Atapuerca
di Francesca De Sanctis

qui

Repubblica 7.11.11
Quell’aggiunta all’articolo 21
Nella Costituzione l’accesso in rete un diritto per tutti
di Stefano Rodotà


La proposta è stata appoggiata dalla rivista Wired. Ma soprattutto firmata da 28 senatoriche l´hanno trasformata in un disegno di legge
Le "primavere arabe" hanno prodotto richieste corali di diritti su internet Punti fondamentalirestano la neutralità,la parità, la censura

Si può ben dire che l´accesso è la premessa ineludibile d´ogni riflessione sui diritti in rete. Bisogna, allora, definire in che cosa consista, accompagnarlo con garanzie adeguate, dunque facendo di esso un diritto per certi versi fondativo di tutti gli altri. Riflettendo su questo tema, proprio un anno fa, nell´edizione precedente dell´Igf Italia, ho avanzato la proposta di una costituzionalizzazione del diritto di accesso, accompagnando all´attuale articolo 21 della Costituzione un articolo 21bis così formulato: "Tutti hanno diritto di accedere alla rete Internet in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico sociale".
La proposta ha ricevuto attenzione anche fuori d´Italia, ha suscitato una discussione anche critica, che ha beneficamente reso possibile una riflessione più approfondita. Proprio questa discussione mi ha convinto dell´inopportunità di intervenire sulla Costituzione con un articolo aggiuntivo, e della maggior correttezza ed efficacia della considerazione di quella proposta come un emendamento da collocare dopo il primo comma dell´attuale articolo 21, della cui logica si presenterebbe così come un coerente svolgimento. La proposta, comunque, è stata oggetto di attenzione da parte della rivista Wired, che ha sollecitato i lettori ad aderire ad essa. E, soprattutto, è stata raccolta da ventotto senatori che, primo firmatario Roberto Di Giovan Paolo, l´hanno trasformata in un disegno di legge costituzionale.
Accanto a questa cronaca, vale la pena di sottolineare vicende di carattere più generale che hanno confermato l´opportunità, direi ormai la necessità, dell´iniziativa, se non altro per avviare una discussione pubblica su un tema che la forza delle cose ha mostrato essere ormai ineludibile. È significativo che le "primavere arabe" abbiano prodotto appunto una richiesta corale di diritti su internet, primo tra tutti quello di accesso, poiché proprio a questo mezzo, insieme ad altri strumenti di comunicazione, è stato attribuito, pur con qualche forzatura, un ruolo determinante nel fare della partecipazione politica dei cittadini la via maestra per la caduta di regimi autoritari.
Il riconoscimento dell´accesso a internet come diritto fondamentale della persona, infatti, risponde ad almeno tre esigenze, rese esplicite già nel momento in cui la proposta venne presentata e confermate da una serie di vicende successive. Si rafforza, in primo luogo, il principio di neutralità della rete, violando il quale verrebbe anche negata l´eguaglianza tra le persone, che la proposta mette al centro dell´attenzione con un palese rinvio all´articolo 3 della Costituzione e alle parole che lì si ritrovano. La rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, infatti, è stata prevista per ribadire una responsabilità pubblica nel garantire quella che deve ormai essere considerata una precondizione della cittadinanza, dunque della stessa democrazia. Inoltre, l´esplicito riferimento all´accesso in condizioni di parità e con modalità tecnologicamente adeguate si presenta come una indicazione per impedire, ad esempio, che la banda larga venga messa a disposizione degli utenti con modalità selettive, introducendo così un ben più drammatico digital divide, che muterebbe il carattere stesso della società, dominata in uno dei suoi snodi fondamentali da logiche discriminatorie e gerarchizzanti.
La considerazione come diritto fondamentale, inoltre, mette in evidenza la funzione strumentale dell´accesso. Non un semplice ingresso tecnologico alla rete, ma ai suoi contenuti, alla conoscenza in rete, di cui deve essere garantito in via di principio il carattere di bene comune. Altrimenti, se l´accesso apre la strada soprattutto a contenuti a pagamento, in sé considerato rischia di divenire una chiave che apre una stanza vuota.
Vi è, infine, il tema capitale della censura, sempre attuale, come dimostrano gli interventi repressivi, oltre che nei tradizionali paesi autoritari, proprio nei luoghi delle "primavere arabe" (e il nostro paese è stato lambito da questa deriva, con le proposte censorie di blog e siti infilate in provvedimenti economici). La garanzia offerta da un diritto fondamentale può, in questi casi, rivelarsi decisiva.

Repubblica 7.11.11
Il sociologo Alain Touraine
"È venuta meno l´idea di una legge assoluta"


"Le regole sono uguali e comuni Ma va rispettata la differenza. Ciascun ha la propria storia
"L´unico assunto è che ognuno deve vedere riconosciuti i propri diritti fondamentali"
"I nostri principi sono in perenne trasformazione" dice il sociologo francese. "Siamo in un mondo secolarizzato, fondato su scienza e tecnica"

MILANO. Nella ricerca dell´autorità perduta ci stiamo facendo guidare dall´autorevolezza dei nostri compagni di viaggio. Che sarà anche difficile da definire, ma è immediatamente percepibile, quando ad esempio ti trovi vis-à-vis con Alain Touraine, stella di prima grandezza della sociologia contemporanea, un imponente ottuagenario con due bellissimi occhi azzurri e un volto grifagno, vagamente beckettiano.
«Mi lasci dire: parlare di scomparsa dell´autorità, sic et simpliciter, è molto vago e confuso. È invece molto più chiaro e preciso dire che è scomparsa quell´autorità, esercitata nelle scuole o nei tribunali, nelle imprese o nella vita politica, sulla base di una legge assoluta. Di natura religiosa. Quella legge, che si conforma alla parola di Dio o alla legge naturale intesa come prolungamento della religione, non funziona più. Dunque sono le basi trascendenti dell´autorità a non fare più presa. E questo per la semplicissima ragione che viviamo in un mondo che non è più governato da principi assoluti, ma mobili, in trasformazione: come avviene nella scienza, nella tecnologia, nella comunicazione».
Però ogni autorità, per essere tale, ha bisogno di un suo fondamento.
«Ci arrivo subito. Vivendo in un mondo retto dai principi della secolarizzazione, della razionalizazione, della laicizzazione, i fondamenti non positivi dell´autorità e del potere sono in via di sparizione. E ciò che resta sul fronte del diritto naturale è piuttosto vago. Potremmo dire che con l´ingresso nella modernità il novanta per cento dell´esperienza umana è legato alle invenzioni umane, mentre solo il restante dieci per cento discende dalla natura. Ed è esattamente per questo che il ritorno ad un´autorità tradizionale non ha alcun senso. Con ciò non sottovaluto affatto l´influenza religiosa. Semplicemente osservo che siamo calati irreversibilmente in un mondo secolarizzato, fondato sulla scienza e la tecnica. E, almeno in una certa misura, sulla pluralità delle culture. Dunque, sull´impossibilità di regole morali, e prima ancora religiose, valide per tutti. I cattolici la pensano in un modo, i protestanti in un altro, i musulmani in un altro ancora. Quindi, togliamo di mezzo il primo equivoco: la nostalgia per un surplus di autorità, o peggio di repressione».
Ma autorità non è sinonimo di autoritarismo.
«Certo, però è pur vero che nell´idea tradizionale c´è sempre un fondamento trascendente: di ordine politico, religioso. O di filosofia della storia, come nel caso del progresso predicato in epoca sovietica».
Restano però le lacune crescenti dell´autorità secolarizzata e democratica. Basterebbe osservare la politica.
«Forse non li applichiamo con la necessaria costanza, ma noi disponiamo di due principi fondamentali. Il primo è la scienza, la ragione: non si può dire che un litro d´acqua pesa cinquanta grammi. Non lo si può dire, perché non è vero. E il principio razionale e scientifico ha immediate ricadute sulla moralità e sulla politica: pensi alla questione della razza, di cui non ha neppure più senso parlare visto che non ha una base scientifica. Il secondo, e ancor più importante principio che abbiamo ereditato al medesimo tempo dal cristianesimo e dal secolo dei lumi, è quello dei diritti fondamentali dell´uomo. Questo è l´unico, vero fondamento dell´autorità moderna. Ciascuno ha il diritto di essere un individuo riconosciuto come tale, al pari di tutti gli altri. E nelle situazioni politiche, economiche, sociali ed educative date, beneficia al medesimo tempo di diritti assieme individuali e collettivi. L´autorità, pertanto, non discende più dall´alto, ma matura in basso, in ogni individuo».
Proviamo a vedere, in questo schema, come si concretizza l´esercizio dell´autorità da parte di un magistrato, un insegnante, un padre di famiglia.
«L´autorità di ciascuna di queste figure si legherà alla sua capacità di combinare leggi, codici e norme, con i diritti individuali. Nel mondo del lavoro, ad esempio, consisterà nel combinare le regole generali dell´organizzazione con le condizioni di accettabilità che queste regole hanno per chi, individualmente, le deve poi mettere in atto. Oppure, venendo alla scuola: un insegnante risulterà autorevole nella misura in cui riuscirà a ottenere con la persuasione il rispetto delle regole anche da parte di chi si dimostra refrattario».
Il caso della scuola è uno di quelli che più frequentemente vengono portati ad esempio da chi lamenta una crisi dell´autorità.
«È noto che la riuscita scolare ha molto a che fare con l´origine sociale. Ma alcune ricerche sociologiche hanno mostrato che è ancora più importante la qualità della relazione insegnante- allievo. Diciamo che l´origine sociale influisce per il trenta per cento, l´altro settanta rimanda a quella relazione. A mio avviso un buon insegnante è quello che riesce a rapportarsi sia alla classe, intesa come gruppo, quanto alla somma dei singoli casi individuali. Mentre un cattivo insegnante è quello che si preoccupa soltanto della propria disciplina: sono un professore di storia, di chimica o di fisica. Punto e basta. Già, ma quelle diverse discipline vanno insegnate in condizioni date. Insegnare una certa materia a un ragazzo immigrato che non padroneggia bene la lingua del paese di accoglienza, implica un riconoscimento del suo caso specifico, a meno che non lo si voglia ritrovare, vent´anni dopo, in un ospedale psichiatrico. Questo è un caso tipico in cui si affacciano sia la differenza tra le culture quanto il tema dei diritti universali. Il buon insegnante, l´insegnante autorevole, deve essere capace di compiere questo piccolo miracolo: le regole sono uguali e comuni, ma va rispettata la differenza, perché ciascuno ha la propria storia».
Un altro problema legato alla scomparsa della vecchia autorità è il rapporto con il passato: sempre più labile, sempre più flebile.
«Di formazione sono uno storico e dunque capisce da sé quanto io sia sensibile alla questione. Mi piange il cuore quando vedo persone che non sanno se sia venuto prima Napoleone o Giovanna d´Arco. Si potrebbe dire che oggi alla storia si è sostituita la geografia. Si ignora sempre di più il passato, mentre grazie ad internet e a spostamenti sempre più frequenti, si ha una diversa dimestichezza con quanto accade su scala planetaria».
Il passato, però, non è soltanto storia pubblica: è anche storia privata.
«E qui le cose vanno meglio di quanto si pensi. Ad esempio se paragoniamo l´Europa agli Stati Uniti. C´è un test quanto mai semplice: la vitalità dei nostri cimiteri, il rapporto con i nostri morti. Magari ci sarà un sottofondo animista, ma è comunque indicativo di relazioni forti, di legami profondi. Bisognerebbe semmai ragionare su come mai il legame tra passato a futuro sia molto più intenso sul piano privato rispetto a quello pubblico».
La tendenza che lei vede è verso l´interiorizzazione dell´autorità?
«Tutto ciò che interiorizza l´autorità è positivo, tutto ciò che la esteriorizza è condannabile. Un individuo che non riconosca alcuna autorità è totalmente disorientato, incapace di distinguere il bene dal male. Ma come affermava proprio la Arendt, ciò che definisce l´essere umano è il diritto di avere diritti. E questo corrisponde, per l´appunto, all´assoluta interiorizzazione dell´autorità».

Corriere della Sera 7.11.11
Dalle pillole all'infuso di oleandro Le mille ricette dell'odio di coppia
di Donato Carrisi


L'arma prescelta è un succo di mela, perché il colore del frutto celi quello della benzina verde con cui lo ha allungato. Prepara il veleno con gesti da brava massaia, a un tavolino del bar dell'ospedale di Locri, circondata da avventori che non si accorgono di nulla. A raccontarcelo è l'occhio invisibile di una videocamera di sicurezza, che ha ripreso tutta la scena. Ma non è stato questo a salvare la vita al destinatario della miscela. Mentre il nastro custodisce una verità che rivelerà soltanto in un secondo momento, come prova schiacciante, la donna sale tranquillamente le scale del nosocomio per raggiungere la stanza in cui è ricoverato il convivente, convinta a portare a termine il proprio piano di morte.
Sembra una di quelle torbide storie di nera che, oltre ai soliti ingredienti e all'odio rancido in cui sono state cucinate, hanno in comune una qualità. Sono senza tempo. È successo solo l'altro ieri, ma potrebbe essere accaduto, per esempio, negli anni settanta, o perfino nell'ottocento. È sufficiente correggere qualche piccolo anacronismo, ma la ricetta rimane uguale.
Annunziata Iannizzi potrà così essere ribattezzata «l'avvelenatrice di Locri», e in futuro basterà il nome per evocare la sua oscura leggenda.
Ma il suo non è un caso isolato, solo quest'anno è già il terzo. A Piazza Armerina, in provincia di Enna, una casalinga ha preparato una pozione mettendo insieme medicinali raccattati per casa, per castigare il marito reo di averla ripetutamente tradita in trent'anni di matrimonio con donne sempre più giovani di lei. Per testare la mistura, la fa bere con l'inganno a un'ignara vicina di casa, scelta solo perché aveva ventisei anni. La ragazza ravvisa un retrogusto amaro e l'improvvisata fattucchiera, forse colta dal panico, fugge a confessare tutto al più vicino commissariato. La vicina, interdetta, se ne torna a casa. Poco dopo riceve la visita dei poliziotti che, pur trovandola in perfetta salute, la conducono al pronto soccorso. Sta bene.
Altra storia arriva dal Ferrarese. Un uomo è ricoverato in ospedale da alcuni giorni per una patologia che i medici pensano di poter curare. Invece, inspiegabilmente, il paziente peggiora. La moglie viene a trovarlo tutti i giorni, gli porta delle bottigliette d'acqua e si assicura che le beva. I carabinieri si fingono degenti e la incastrano. Nell'acqua la donna diluiva poche gocce di estratto di oleandro. Ma il suo scopo non era uccidere, bensì far sperimentare al consorte, che l'aveva sempre maltrattata, ciò che lei aveva provato per anni in silenzio.
Casi del genere sembrano la trama di una sit-com coniugale con battibecchi e ripicche. Poveri mariti perseguitati e casalinghe disperate che si trasformano in assassine maldestre. Vicende che potrebbero strapparci un sorriso, se non fosse per il dramma che nascondono. Silenziose violenze domestiche, vissute nell'omertà di vicini e parenti. Situazioni di sudditanza morale subite da donne che, per paura o vergogna, non sono in grado di emanciparsi da un matrimonio fallito.
In passato si affidavano ad altre donne, personaggi come Giulia Tofana o Giovanna Bonanno, che nel Seicento e nel Settecento furono messe a morte come streghe per aver fornito alle loro clienti pozioni inodori e insapori per sbarazzarsi di mariti violenti o oppressivi. In epoche in cui per un uomo la moglie valeva meno delle proprie bestie, il veleno era l'unico modo per sciogliere matrimoni altrimenti insolubili.
Ma nel caso dell'avvelenatrice di Locri manca del tutto il dramma sullo sfondo. A covare il gesto non è stato un lungo e tormentato matrimonio, un esasperante stillicidio di piccoli rancori, sedimentati nel tempo, oppure la trasmutazione di un sentimento d'amore che, giorno dopo giorno, diventa prima insofferenza poi disprezzo, avversione. Perché i protagonisti non solo non erano sposati, ma il loro menage durava da cinque miseri mesi.
Qual era allora lo scopo di questa donna? Perché tanto accanimento nel portare a termine il proposito assassino? La risposta più plausibile sarebbe legata a un interesse economico, ma per il momento non ci è dato sapere.
La morale, però, spetta a noi uomini. Le donne uccidono raramente e spesso la loro violenza è indotta da comportamenti maschili. Impariamo a trattarle meglio, perché sono anche gli assassini meno sospettabili. Per tre che falliscono, chissà quante riescono a conseguire lo scopo e a farla franca.

l’Unità 7.11.11
Chi ha ucciso i Maya? Il gap sociale
Un nuovo studio rivela che la fine della grande civiltà è dipesa non solo dai mutamenti climatici ma anche dalle diseguaglianze economiche
di Pietro Greco


Ma, infine, perché sono scomparsi i Maya? Perché alla fine del Periodo Classico tra l’anno 850 e l’anno 1.050 secondo il nostro calendario europeo una fiorente civiltà millenaria insediata nel Centro America sulle alture meridionali della penisola dello Yucatan e nelle foreste del Guatemala e del Belize, fin giù in El Salvador e nel nord del Venezuela è collassata?
Le risposte a queste domande sono state diverse, nel corso degli ultimi decenni, via, via che la nostra conoscenza sull’antico popolo è venuta aumentando. La risposta più recente e sempre più dettagliata è: a causa dei cambiamenti climatici. I Maya sono stati spazzati via, in particolare, dalla siccità. Anzi, da una «megasiccità». Come ricorda David Hodell ricercatore in forze al Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Università di Cambridge, in Gran Bretagna sull’ultimo numero della rivista Nature, i più recenti dati ci offrono una mappa dettagliata dei cambiamenti del clima nell’area occupata dai Maya tra l’VIII e il X secolo.
Nel Venezuela settentrionale si sono verificati lunghi periodi di siccità intorno agli anni 760, 810, 860 e 910. Nello Yucatan meridionale si sono verificati ben otto cicli di siccità, tra l’anno 800 e l’anno 950. Recentissime misure consentono di affermare che in quest’area c’è stata una vera e propria «megasiccità» tra gli anni 897 e 922, con due altri periodi di intensa penuria di piogge intorno agli anni 810 e 860.
Sebbene lo stesso David Hodell ritenga che nulla di conclusivo si possa affermare e che la questione va ulteriormente indagata, molti sostengono che questi cicli serrati di siccità siano la causa principale della fine dei Maya.
SOSTIENE «NATURE»
In realtà, sostiene sempre su Nature l’americano James Aimers, del Dipartimento di Antropologia della State University of New York di Geneseo, il processo che ha portato alla «fine dei Maya» è molto più complesso, si è consumato tra diversi cicli di declini e riprese in un arco di tempo più lungo e ha avuto, probabilmente, molte cause. Dai rilievi archeologici, infatti, risulta che alcuni siti tra lo Yucatan e le foreste guatemalteche sono stati abbandonati dai Maya nel corso dell’VIII secolo, ma altri molto dopo, nell’XI secolo. In alcune insediamenti i Maya sono rimasti fino al XIII secolo e ci sono evidenze di una loro presenza persino nel XVII secolo.
Il percorso della civiltà Maya è stato attraversato e, con molta probabilità, deviato dai cicli di siccità. Ma non è stato interrotto da questi cambiamenti climatici. I Maya si sono più volte adattati e più volte ripresi, anche dopo la «megasiccità».
E allora perché la civiltà dei Maya è finita? Le cause, sostiene Aimers, sono state diverse. Ai fattori climatici si sono aggiunte cause sociali. Ci sono evidenze che ad accelerare il tramonto della straordinaria civiltà dei Maya ci sono stati cambiamenti economici, che hanno portato a enormi accumuli di ricchezza da parte di pochi, alla crescita di profonde disuguaglianze sociali e, infine, a vere e proprie rivoluzioni. È l’insieme articolato di una serie di cause fisiche e sociali che probabilmente hanno portato più che alla fine improvvisa al lento sfilacciamento di una straordinaria civiltà. In altri termini, i Maya hanno saputo assorbire, adattarsi e reagire ai cambiamenti climatici e ai periodi lunghi e intensi di siccità quando hanno avuto una società forte e coesa. Ne sono stati probabilmente sopraffatti, invece, quando le loro società sono diventate fragili e hanno perso compattezza a causa di un male evidentemente insopportabile: la disuguaglianza.

Repubblica 7.11.11
Un uomo, una donna e uno psichiatra nell´ultimo romanzo dello scrittore
E Carofiglio scelse il giallo analitico
"Il silenzio dell´onda" è un libro che mescola vari generi formando un puzzle letterario. Al centro l´analisi del vuoto che prende quando si è sul crinale di un abisso
di Luciana sica


Gianrico Carofiglio ha messo da parte le malinconie, le accensioni ironiche, le allegre inquietudini dell´avvocato Guerrieri, quel personaggio che - a torto o a ragione - tutti considerano un alter ego letterario. Il suo nuovo romanzo, decisamente discontinuo, si misura con un tema più radicale e ambizioso come il vuoto che abita la vita quando è sul crinale dell´abisso. Con un titolo - Il silenzio dell´onda (Rizzoli, pagg. 300, euro 19) - che rimanda al surf, a una passione perduta e infine ritrovata, quasi un simbolo - così legato al mare - per indicare il percorso inconscio dall´insignificanza del vivere alla possibilità di rientrare poco alla volta in contatto con le emozioni, con quella gioia primitiva di stare al mondo. Un romanzo che mescola i generi e a tratti ha senz´altro del noir, in un complicato puzzle letterario che non lesina i colpi di scena: giocando d´azzardo con le definizioni, si potrebbe dire un «giallo analitico».
Un uomo, una donna, il figlio di lei e «il dottore», uno psichiatra che somiglia a un analista (ma proprio non lo è). Il protagonista è Roberto, sotto i cinquant´anni, ex cacciatore di delinquenti eppure sedotto dal mondo criminale, divorato dall´ambiguità. Perderà tutto: quel lavoro vissuto pericolosamente, la donna amata e il figlio che aspettava da lei, se stesso. Da bambino Roberto viveva in California, a otto anni faceva surf a Dana Point con il padre, un detective e però - guarda caso - anche un estorsore. «Una mattina presto bussarono alla porta di casa dei colleghi di mio padre e se lo portarono via. Era una giornata bellissima, un sabato. Ci aspettavano onde magnifiche per quella mattina. Pochi giorni dopo lui si suicidò in carcere». Sei mesi dopo la madre di Roberto si trasferisce con suo figlio in Italia. Lei non mette più piede all´estero, lui non mette più piede su una tavola da surf. Un giorno un collega lo troverà con la canna di una pistola in bocca, in bilico tra la vita e la morte. Si salva per un soffio, ma arranca senza più nessuna identità. Andrà da un «dottore» che sa dosare i farmaci e anche le parole.
Lei invece è Emma, un´ex attrice non troppo talentuosa con una vaga somiglianza con Audrey Hepburn e un´esistenza alla deriva. Ha sposato uno sceneggiatore per una gravidanza affrettata, ma lo tradisce e lui se ne va e non si fa più sentire per un paio di settimane, fino a quando non ha un incidente con un motorino e muore. Il danno è devastante, perché «hai voglia a dire che era una storia finita, hai voglia a dire che non c´è nessuna relazione tra quello che hai fatto e quello che è successo». Nel profondo c´è una voce che non lascia scampo. «Questa voce dice una cosa molto semplice, e micidiale: è colpa tua...». Anche Emma andrà dal «dottore», sperando che possa aiutarla ad «attraversare il fuoco e a sopravvivere».
Pazienti dello stesso psichiatra, un uomo e una donna si riconoscono nelle loro fragilità, provano goffamente a proteggersi dai traumi che paralizzano ogni flusso vitale. Il loro incontro è una vistosa messa in scena dell´inconscio, come anche le immagini oniriche mescolate alle miserie quotidiane, i cumuli di memorie dietro ogni ricordo, i pensieri che messi in parole cambiano di significato, le frustrazioni e i sollievi, quell´intreccio tra padri mancati e figli deprivati: tutta la pasta - questa sì davvero «analitica» - che riempie le pagine del romanzo di Gianrico Carofiglio.
C´è anche un quarto personaggio, e con un ruolo nient´affatto secondario. È poco più di un bambino il figlio introverso di Emma che - come Roberto - ha perso tragicamente il padre. Giacomo ha quasi dodici anni e nei suoi sogni bizzarri può contare su un amico di nome Scott, un cane magico che gli parla e ne argina il sentimento dell´abbandono - un po´ come la coperta di Linus, l´«oggetto transizionale» di Winnicott. Il piccolo sognatore è innamorato e quando la «sua» Ginevra sarà coinvolta in un giro di ragazzi più grandi e di abusi sessuali, sarà proprio lui a salvarla. Ma con l´aiuto decisivo di uno sbirro finalmente buono, di un eroe positivo, o anche di un adulto che soccorre un preadolescente senza padre: il suo doppio, il suo bambino interno. È così che Roberto - nell´imprevedibile danza dell´inconscio - rimedia ai danni del passato e alla fine solca di nuovo le onde su una tavola da surf, giusto per sentire che odore può avere ancora la vita.