mercoledì 9 novembre 2011

l’Unità 9.11.11
Pd: se si vota, coalizione progressisti-moderati
Ora gli sforzi sono concentrati sulla realizzazione di un governo di transizione, ma l’atteggiamento di Lega e Pdl non lascia grandi margini. D’Alema: al 65% si va alle elezioni anticipate. Nel Terzo Polo prevale ancora la linea della corsa solitaria. Ma sulla scelta finale peserà l’evoluzione della crisi
di Simone Collini


Al 65 per cento si va a elezioni anticipate», dice Massimo D’Alema ai colleghi deputati che gli stanno accanto. Tra i banchi dell’opposizione c’è soddisfazione perché il voto sul rendiconto ha dimostrato che il governo non può più contare su una reale maggioranza. Ma Pd, Idv e Terzo polo accolgono comunque con prudenza sia quei 308 sì che poi l’annuncio di un passo indietro da parte di Silvio Berlusconi.
Il sospetto diffuso è quello espresso dal finiano Carmelo Briguglio, e cioè che il premier sfrutti l’esigenza di votare la legge di stabilità per scopi personali: «Tenterà di fare il furbo cercando di ripetere il copione del 14 dicembre o di prendere tempo per andare dritto alle elezioni anticipate».
Pd e Terzo polo lavorano perché la crisi abbia come sbocco un governo di transizione, ma i segnali che arrivano da Pdl e Lega non lasciano intendere nulla di buono. Per questo Pier Luigi Bersani, nei colloqui che ha avuto con gli altri dirigenti del suo partito come in quelli sempre più frequenti con il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, sta anche affrontando la questione del voto anticipato. Con an-
nessi e connessi. Ovvero, alleanze e candidato premier.
Il segretario del Pd vuole andare alla sfida elettorale con una coalizione che comprenda progressisti e moderati, convinto com’è che la prossima dovrà essere una sorta di legislatura costituente perché sarà necessario «ricostruire» sulle macerie del berlusconismo. La novità delle ultime ore è che Bersani stesso ha assicurato tutti i potenziali alleati che pur di realizzare il progetto sarebbe anche disposto a rinunciare alla candidatura a premier. «Sarà necessaria una maggioranza più ampia possibile per approvare le riforme necessarie al Paese e non sarò certo io il problema a che ciò si realizzi», è il messaggio recapitato dal segretario del Pd. Il leader Udc però non ha ancora sciolto le riserve. Nei capannelli che si formano in Transatlantico da tempo si parla della possibile candidatura di Casini al Quirinale. Ed è chiaro che se il leader del Pd farà un passo indietro sulla premiership a favore di una personalità terza (il più quotato resta Mario Monti) la strada verso il Colle per il leader centrista sarebbe maggiormente in salita.
Restano però altre due incognite, per la realizzazione di questo disegno. La prima è che Bersani pensa sia comunque opportuno arrivare al voto con un candidato premier forte anche di un’ampia legittimazione popolare. E oltre alla nota ritrosia dell’Udc per le primarie bisogna vedere se una personalità come Monti sia disponibile a passare per i “gazebo”. Il secondo motivo di perplessità su un quadro del genere lo evidenziano alcuni esponenti della segreteria: se centrosinistra e Terzo polo andranno divisi alle elezioni e poi sigleranno un «patto di legislatura»dopoilvoto-cheèlalineaacui lavora Bersani nel caso dall’Udc arrivasse comunque un no all’alleanza elettorale tra progressisti e moderati l’opposizione avrà molti meno parlamentari. Il “Porcellum” prevede infatti che la coalizione vincente, anche con un solo voto in più, incassi il 55 per cento dei seggi alla Camera e un premio di maggioranza su scala regionale anche al Senato. E i parlamentari del Terzo polo sarebbero aggiuntivi a quelle quote, al contrario che se andassero alle urne già alleati.
L’argomento sarà trattato anche alla riunione di questa sera. Bersani ha convocato al quartier generale del Pd la segreteria e il coordinamento (l’organismo ristretto di cui fanno parte tutti i big de partito). In questa sede si potrebbe anche discutere di alcuni sondaggi appena arrivati al Nazareno che mostrano come il centrosinistra sia non solo avanti di sette punti nei sondaggi alla Camera, ma sarebbe maggioranza anche al Senato, visto che non prenderebbe il premio regionale soltanto in Lombardia, Veneto e Sicilia (dove vincerebbe il Terzo polo). Dati che vengono evidenziati da chi, nella segreteria, punta all’alleanza di centrosinistra con candidato premier Bersani. Che ieri nell’incontro con i Radicali ha parlato anche di come andare al voto, visto che Pannella gli ha chiesto se punti a un’alleanza tra diversi simboli, come nel 2006, o se pensi di ripetere il «modello Loft» veltroniano delle candidature Radicali sotto il simbolo Pd. La questione è stata rinviata al prossimo incontro.

La Stampa 9.11.11
Bersani: “Ora subito un altro governo”
Il leader Pd: “Ma deve avere una maggioranza di 500 deputati”
di Carlo Bertini


L’obiettivo resta quello di un governo Monti con un’assunzione corale di responsabilità, ma lo scetticismo impera perché, per dirla con Bersani, «Berlusconi non è scomparso» e se si metterà di traverso sarà difficile evitare le urne. «Adesso, considerando la delicatissima situazione economica e finanziaria, è urgente che le dimissioni del presidente del Consiglio consentano di aprire una nuova fase. Ci riserviamo un esame rigoroso del contenuto del maxiemendamento alla legge di stabilità per verificare le condizioni che ne permettano, anche in caso di una nostra contrarietà, una rapida approvazione». E malgrado il tono solenne della nota serale dimostri la gravità del momento, l’umore di Pierluigi Bersani è alle stelle per aver centrato un obiettivo rincorso da un anno. Anche se il premier ha frapposto qualche variabile di non poco conto sullo scacchiere dell’opposizione, il leader Pd può dire di aver ottenuto in sostanza quanto chiesto al premier in aula e cioè «di prendere atto della situazione e rassegnare le dimissioni».
Prima conseguenza di quello che lo stato maggiore Pd considera «un risultato di portata storica», il congelamento della mozione di sfiducia delle opposizioni; che però viene lo stesso lasciata sul tavolo come una pistola carica in attesa di veder «formalizzate le dimissioni». Secondo, il Pd garantirà una tempistica «rapida», 15 giorni in tutto, per il varo della legge di Stabilità sul «modello di luglio», quando si approvò la manovra in pochi giorni senza troppi emendamenti e zero ostruzionismo. Terzo, scarse possibilità di un sì bipartisan alla legge di stabilità, che verrà valutato «dopo aver visto i testi», perché, spiega Bersani, «al momento non ci sono le condizioni per votarla, ma spero sempre in un miracolo...».
Che l’esito di questa giornata fosse stato messo nel conto dai vertici del Pd, lo dimostrano le parole di Veltroni dopo il voto sul Rendiconto, «non so cos’altro deve succedere, è inevitabile che vada a dimettersi»; e quelle di Bersani, che prima di leggere il Berlusconi serale, «per me si deve votare, ma lo deciderà il Quirinale», disegnava così i possibili scenari: «Una cosa è certa, io un governo di transizione lo vorrei con una maggioranza larghissima, diciamo 500 deputati, così ci capiamo. Lo so che è molto difficile...». Quindi lo dà uno a dieci? «No, è troppo poco, se dovessi scommettere lo darei 50 e 50 con le elezioni anticipate». Pure Di Pietro la pensa così, «invertendo l’ordine degli Scilipoti il risultato non cambia», tanto da rimarcare che l’Idv preferisce il voto anticipato. E Bersani cita le parole del commissario europeo Olli Rehn, per dire che bisogna fare presto, anche se nessuno è in grado di prevedere come finirà. Anche D’Alema, parlando in camera caritatis con alcuni dirigenti piddì, ammette che «se Berlusconi riesce a tenere tutti i suoi, il voto anticipato è più che probabile». E pur restando scettico sul «governissimo», Bersani non demorde: «So bene che ci vorrebbe il sì di una parte consistente della maggioranza. Ed è vero che non è semplice, visto l’atteggiamento del premier, per il gruppo Pdl dire sì a un governo di larghe intese. Ma anche dire no potrebbe col passar dei giorni diventare una strada troppo stretta pure per loro, che magari riceveranno qualche telefonata di chi gli dice che rischiamo grosso: basta sentire cosa hanno detto oggi da Bruxelles: “Ci vogliono interventi immediati, con questo o con un altro governo”», scandisce queste parole, il leader del Pd. «E noi dunque lavoriamo a questa prospettiva di un governo di transizione ma non abbiamo molti giorni di tempo da perdere. Sì, puntiamo a uno smottamento nel Pdl, perché qualcosa lì dentro sta succedendo...».

Repubblica 9.10.11
"La svolta c'è stata, ora nuova fase" Bersani chiede dimissioni in tempi stretti
E Casini: no al voto, la crisi non permette di fare campagna elettorale
di Giovanna Casadio


ROMA - «È il giorno della svolta, ora è urgente che si apra una fase nuova». Bersani è «molto soddisfatto»; tutte le opposizioni cantano vittoria perché è stata la mossa unitaria alla Camera sul Rendiconto (non partecipare al voto) ad avere messo all´angolo Berlusconi, svelando la fine della maggioranza di governo. Il segretario democratico riunisce capigruppo e leader del partito nella sede del Nazareno, ieri sera, per concordare cosa fare. Innanzitutto, chiedere che le «dimissioni annunciate del premier siano formalizzate il prima possibile» e quindi, accelerare sul disegno di legge di stabilità.
«Ci riserviamo un esame rigoroso del contenuto del maxi emendamento alla legge di stabilità per verificare le condizioni che ne permettano, anche in caso di una nostra contrarietà, una rapida approvazione». Significa, come spiega Luigi Zanda, il vice capogruppo al Senato, che già oggi le opposizioni chiederanno a Palazzo Madama una capigruppo che stabilisca la discussione in commissione di massimo 24 ore e che, entro fine settimana, il ddl vada in aula». Però accelerazione non vuol dire votare a favore. Anzi. i Democratici non condividono le misure sbandierate dal governo: «Per noi resta impossibile votare la legge di stabilità». Temono anche trabocchetti, misure ad personam, cavilli-eredità, introdotti all´ultimo momento, o norme di flessibilità selvaggia del mercato del lavoro. «Per senso di responsabilità punteremo a un´accelerazione ma tenendoci liberi nel merito del ddl», spiega Dario Franceschini che è stato il regista della vittoria a Montecitorio sul Rendiconto. Enrico Letta, il vice segretario, gli fa eco: «L´importante è che Berlusconi non tenti una tattica dilatoria. Questo è un giorno storico».
È il "dopo" che preoccupa. Il premier punta al voto. Il Pd e l´Udc concordano: ci vuole invece un governo di transizione. Casini, il leader del Terzo Polo, invita Berlusconi a ragionare: «Non è tempo di campagna elettorale. Sì all´approvazione rapida della legge di stabilità ma il presidente del Consiglio abbia la consapevolezza che la situazione economica e finanziaria dell´Italia non ci consente una lunga e estenuante campagna elettorale». Del tutto «sconcertante», per Bersani, è il pressing del Cavaliere per le elezioni: «Con le sue prime dichiarazioni il presidente del Consiglio, battuto alla Camera e dimissionario - osserva il leader del Pd - cerca di condizionare un percorso che è nelle mani del capo dello Stato». Il governo di transizione è quindi la strada: «Ogni giorno che passa l´Italia è sempre più in difficoltà, e questo è un fatto. Un ciclo è finito, si è chiuso da tempo nella coscienza del paese, nella sua ancora non so...». Però la destra è ancora lì, Berlusconi «non è scomparso», c´è appunto «il giorno dopo» da affrontare. E un esecutivo di emergenza con Alfano o Letta non è la strada giusta. «Sarebbe la continuità», affermano i Democratici. «Non vogliamo governi dei ribaltoni o di Scilipoti 2, ma di responsabilità nazionale», attacca Rosy Bindi. Finora Casini, Rutelli e Fini si sono mossi sulla stessa lunghezza d´onda. Il Pd ieri sigla anche il patto con i Radicali. Bersani ha incontrato Emma Bonino e Marco Pannella. «Noi e loro siamo contro le elezioni», ha detto il leader radicale. Una stretta di mano tra Bersani e Pannella, l´impegno a consultazioni, e a parlare di contenuti. Per tutta la giornata, prima dell´annuncio delle dimissioni, si era parlato di una mozione di sfiducia costruttiva che le opposizioni avevano già pronta.

Repubblica 9.11.11
D'Alema: frana totale del Pdl o Berlusconi ci porta a votare. Il leader centrista: infatti io punto a tutto il partito
Pd e Udc, la paura di sprecare la vittoria "Per il governissimo altri 60-70 ribelli"
L’incognita di Idv e Sel attratti dalle urne. Ma Fioroni dice: "A decidere i mercati"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Una battaglia di anni sembra finita con le dimissioni annunciate di Berlusconi. Eppure alle opposizioni manca il sorriso. Massimo D´Alema, nei colloqui a Montecitorio, spiega il motivo dei volti tirati: «Questo ci porta dritti dritti dove vuole lui». Lontani dall´esecutivo di emergenza, di cui il presidente del Copasir rimane uno sponsor, e vicinissimi al voto anticipato nel 2012, forse già a gennaio-febbraio. «Stavolta non basta lo schema del 14 dicembre, non bastano 15 deputati che passano da una parte all´altra - argomenta D´Alema -. Ci vuole uno smottamento totale del Pdl: 50, 60, 100 parlamentari dovrebbero lasciare solo il premier. Per fare un governo di transizione occorre almeno l´80 per cento del Parlamento, non qualche passaggio di campo». Anche Pier Ferdinando Casini, che continua a raccogliere i cocci del centrodestra, non partecipa alla festa: «Chi vince non deve stravincere», sentenzia. Solo una questione di stile? «So bene che non bastano due o tre cambi di casacca per arrivare al dopo Berlusconi in questa legislatura. Ma i ribelli sono più di 60, più di 70. Noi puntiamo all´intero Pdl», dice battagliero con un pizzico di sana propaganda. Conclusa una riunione sulle strategie parlamentari e vergata una dichiarazione in cui parla di «svolta», Pier Luigi Bersani, pure lui, scuote la testa: «Un governo di transizione? Lo vogliamo, ma non è mica facile».
C´è dunque grande prudenza nei vincitori di ieri. Nessuna corsa sotto la curva, nessuna bandiera da sventolare. Il traguardo resta quello del governo Monti, ma lo scetticismo (o il realismo) si fa strada. Le certezze risiedono nell´atteggiamento del Colle: «Non vuole le elezioni anticipate», rassicurano gli esponenti del Pd. Ma non gradisce ribaltoni. Tantomeno quelli fondati su una pattuglia di transfughi. Walter Veltroni, uno dei primi a credere nella "decantazione", però è convinto che non esista in natura la via delle urne: «È finita, il governo è dimissionario, è scritto in una nota ufficiale del Quirinale, stavolta Berlusconi non sfuggirà alle regole». Sì, ma dopo? «Dopo c´è solo la soluzione greca. I mercati premono, l´Europa è durissima e il nostro Paese non può permettersi in nessun modo 4 mesi di campagna elettorale. L´unica strada è un governo di tutti, un governo istituzionale».
Qualche soluzione Berlusconi, con la sua mossa, l´ha già tolta dal tavolo. Tanto da far pronunciare parole sconsolate a Francesco Boccia: «Quell´uomo ha sette vite...». Non ci sarà ad esempio un incarico a Gianni Letta, Angelino Alfano o Renato Schifani. «Dopo il voto sul Rendiconto l´ipotesi è stata spazzata via. Berlusconi l´ha cancellata - ammette il vicesegretario democratico Enrico Letta -. Possono tornare a 316-319. Ma come si fa un nuovo governo che parte con una maggioranza di due-tre voti? Impossibile». Lui crede ancora al governissimo. Letta è tra i dirigenti più vicini a Giorgio Napolitano e si è convinto che il presidente saprà come uscire dalle consultazioni con una soluzione. Non bisogna sottovalutare il credito conquistato dal capo dello Stato nel Pdl in questi tre anni. Quelli che alcuni leader dell´opposizione (Di Pietro) hanno considerato delle leggerezze, oggi danno a Napolitano una legittimità piena e assoluta anche agli occhi di Popolo delle libertà e Lega.
Ottimisti e scettici. Ma il fantasma della trappola appare nelle stanze dell´opposizione. L´unico argine alla resa dei conti berlusconiana è una direzione univoca, senza sbavature, sul dopo Silvio. La mega-riunione dei vertici Pd convocata stasera dovrà quindi sciogliere qualche sospetto residuo sulla linea "governo di emergenza". È veramente appoggiata da tutti? Con le dimissioni di Berlusconi sul piatto (più o meno) è necessario scoprire le carte, dare un volto e un programma all´esecutivo tecnico, individuare le priorità, spiegare bene per fare cosa. Ecco perché sarà inevitabile un chiarimento. Nel fronte della minoranza Antonio Di Pietro è già uscito dalla "coalizione" del non voto. Nichi Vendola, da fuori ma con un peso crescente, invoca le elezioni e ieri a Montecitorio, attivissimo, c´era il suo emissario Gennaro Migliore. Ha parlato con D´Alema, con Enrico Letta. Ha sondato gli umori degli alleati di Vasto. Dario Franceschini vedrà oggi i capigruppo dell´opposizione per tenere unito il fronte. Beppe Fioroni pronostica l´ineluttabilità del governo di larghe intese: «Non è più né nelle nostre mani, né in quelle di Berlusconi. Saranno i mercati ad imporlo». Eppure il voto è lì, a un passo. E per il governissimo vale la battuta di Bersani: «Mica facile».

Corriere della Sera 9.11.11
I timori del leader pd: il gioco è ancora in mano al premier, elezioni non escluse
di Maria Teresa Meli


ROMA — E ora? E ora «il gioco lo ha ancora in mano Berlusconi, nonostante tutto, e lui punta alle elezioni anticipate»: davanti a telecamere, microfoni e taccuini, Pier Luigi Bersani canta vittoria, ma, appena si apparta con i compagni di partito, parole, toni e analisi del segretario cambiano.
Soddisfatto è soddisfatto — non potrebbe essere altrimenti — però di qui a cantare vittoria e a ipotizzare altri successi ce ne manca. Il leader del Pd sa che le opposizioni non sono ancora in grado di determinare il futuro e non esclude che alla fine si arrivi alle elezioni anticipate, perché riuscire a metter su, «in queste condizioni» e «con questa destra», un governo di responsabilità nazionale è impresa ardua.
Dunque, la preannunciata resa di Berlusconi non basta a tranquillizzare del tutto i leader delle opposizioni. Perché è vero che quello di ieri «è stato un risultato storico», visto che Partito democratico, Udc e Idv hanno agito di conserva, seguendo un percorso unitario. Ed è vero che Bersani, Casini e Di Pietro sono riusciti a ottenere dal Colle una tempistica rigida, per evitare il bis del 14 dicembre. Ma è anche vero che le opposizioni, in questo momento, possono solo giocare di rimessa. E sperare, per dirla alla Bersani, «in uno smottamento del Pdl», che convinca Berlusconi a mettersi l'anima in pace e non lo induca a tentare altre manovre. Nel frattempo, la mozione di sfiducia, il cui testo è pronto, non viene seppellita. Resta lì, non si sa mai sia necessario usarla dopo l'approvazione della legge di stabilità. Insomma, per farla breve, neanche il comunicato ufficiale, con il preannuncio delle dimissioni del presidente del Consiglio, sopisce del tutto i sospetti degli esponenti delle opposizioni.
È scontato che in una fase delicata come questa nessun dirigente del Pd pronunci la parola elezioni. È proibita. Anzi, proibitissima. Se la sentissero, i transfughi della maggioranza potrebbero cambiare idea e tornare in soccorso di Berlusconi. A un gruppetto di parlamentari dell'Udc basta dare un'occhiata a Luciano Sardelli per capire quello che potrebbe accadere. Su un divanetto qualcuno ipotizza che il voto anticipato sia l'unica soluzione e il viso di Sardelli trascolora: da bianco a grigio, senza sfumature. Bersani è pragmatico, non vuole illudersi o creare illusioni: «Il Partito democratico non può partecipare a un ribaltone. Un governo di responsabilità nazionale deve avere una maggioranza di cinquecento parlamentari, sennò è un'altra cosa». Morale della favola? «Non darei le elezioni per sicure, ma diciamo che c'è un cinquanta per cento di probabilità che si vada allo scioglimento anticipato della legislatura».
Persino Massimo D'Alema non scommetterebbe sulle chance di un governo di responsabilità nazionale. Proprio lui che tanto si è speso per arrivare a questo obiettivo: «Se il Cavaliere riesce a tenere tutti i suoi, il voto anticipato è più che probabile. La partita si gioca tutta qui». È di questo che si parla nei conciliaboli dei dirigenti delle opposizioni. È su questo che riflette Bersani, cercando di capire quanto tempo riuscirà a guadagnare Berlusconi: «Non possiamo dargli ancora quindici giorni». Ma quei quindici giorni — e forse qualcosa di più — il presidente del Consiglio se li è presi tutti. Le opposizioni mordono il freno: Casini cerca Bersani, Bersani cerca Casini, i due leader si arrovellano e si consultano. Ma non riescono a venire a capo delle intenzioni del premier: «Quello non molla», osserva il leader dell'Udc, che aggiunge: «E quindi non dobbiamo mollare nemmeno noi».
Per accelerare la dipartita del governo Berlusconi, a questo punto, Pd e Udc sono disposti a tutto, anche, come spiega Enrico Letta, ad «assicurare una tempistica rapidissima» per la legge di stabilità. E il capogruppo della Camera Dario Franceschini: «Siamo pronti ad approvarla, senza il nostro voto, entro una settimana in tutte e due le camere». Già, senza il voto del Partito democratico: è in questa formula che si racchiude il futuro travaglio delle opposizioni. C'è chi dice, come Di Pietro, che bisogna assolutamente esprimersi contro la legge di stabilità, senza però fare ostruzionismo, e chi, come il pd Beppe Fioroni, ritiene che occorra «astenersi». Gli stessi dubbi agitano l'Udc. Ma questo è un altro capitolo della lunga saga del centrosinistra, che si aprirà prossimamente.

l’Unità 9.11.11
Ma per il Quirinale è come se le dimissioni fossero già presentate
Un colloquio di cinquanta minuti e due posizioni molto diverse. Napolitano insiste sulle sue prerogative. Dopo la crisi si va alle consultazioni
di Marcella Ciarnelli


Fosse stato per lui, dopo la cocente sconfitta che aveva subito alla Camera, Silvio Berlusconi si sarebbe volentieri asserragliato nel bunker di palazzo Grazioli ad interrogarsi con i suoi fedelissimi sugli infedeli che lo avevano abbandonato. Si sarebbe messo a studiare una strategia per cercare di far restare a galla la nave che affonda. Però dal Quirinale, attraverso Gianni Letta che il filo diretto con il Colle non lo ha mai interrotto in tutti questi giorni, gli è arrivato il messaggio che non si poteva far finta di niente e che il capo del governo non poteva esimersi, data l’indiscussa valenza politica di quanto accaduto poco prima a Montecitorio, dal far conoscere al Capo dello Stato le sue valutazioni e la sua strategia. Napolitano aveva seguito l’evolversi della situazione pur continuando a rispettare tutti gli impegni previsti in agenda. Poi, dopo il voto, è stato chiaro che che l’incontro con il premier fosse necessario e neanche rinviabile ad oggi come pure l’inquilino di Palazzo Chigi avrebbe forse gradito di più.
E così il Cavaliere è salito al Colle sotto una triste pioggia che faceva il paio con il suo umore. Il colloquio con Napolitano è durato una cinquantina di minuti ed è cominciato con il premier che si è sfogato per l’imprevisto tradimento di persone che mai avrebbe immaginato potessero voltargli le spalle. E potessero contribuire in modo determinante a una sconfitta che ha messo in discussione in modo pesante il suo governo e la sua poltrona.
Due idee diverse Il presidente della Repubblica ha ascoltato la ricostruzione di una giornata difficile e le proposte per trovare una soluzioni. Al colloqui erano presenti anche il sottosegretario Letta e il egretario generale della presidenza, Marra. E’ apparso evidente che l’idea che Berlusconi si era fatta era diversa da quella del Capo dello Stato. Se il premier era salito al Colle convinto di proporre come limite alla sua azione l’approvazione della legge di stabilità, per mantenere gli impegni con l’Europa e non comportarsi «come quelli che con me i loro impegni non li hanno mantenuti», e poi dare le dimissioni per andare al voto, Napolitano gli ha detto con chiarezza che, una volta formalizzate le dimissioni, si andrà avanti con l’iter previsto dalla Costituzione e che lui non intende rinunciare in alcun modo a quelle che sono le sue prerogative. All’atto delle dimissioni, che per il Quirinale è come fossero state già date. Il tempo richiesto per approvare la legge di stabilità può essere ridotto a una decina di giorni, al massimo due settimane pur salvaguardando il diritto d’intervento di maggioranza ed opposizione, che potrà lavorare mantenendo fermo un atteggiamento di responsabilità come è accaduto per il rendiconto, ad un dibattito parlamentare che possa apportare modifiche migliorative di norme che l’Europa attende con preoccupazione. E su cui la vigilanza è stretta, tant’è che i controllori europei sono già in arrivo.
La coerenza C’è stata un confronto nel merito delle norme da approvare prima delle crisi, anche se il maxi emendamento su cui bisognerà lavorare in pochi giorni non è stato ancora reso ufficiale e il Quirinale non ha nascosto la preoccupazione che il risultato sia «coerente» con i contributi propri della legge di stabilità. La situazione che si è creta con il voto di ieri ha messo Berlusconi nella condizione di non poter più resistere in trincea. La valenza politica di quel voto è innegabile, è sotto gli occhi di tutti, e non potevano non esserci conseguenze. «Me ne rendo conto» ha dovuto ammettere Berlusconi che però ha garantito l’impegno a votare la legge di stabilità anche da parte di quelli che lo hanno azzoppato ma che «mi hanno garantito che i provvedimenti di bilancio li avrebbero approvati». Al lavoro, dunque, per rispondere all’Europa assecondando anche le osservazioni e le proposte della Commissione europea. Poi bisognerà affrontare la questione governo. Che Berlusconi vuole risolvere con le elezioni. Ma la nota diffusa dal Quirinale al termine dell’incontro è chiara. «Una volta compiuto l’adempimento dell’approvazione della Legge di Stabilità il presidente del Consiglio rimetterà il suo mandato al Capo dello Stato, che procederà alle consultazioni di rito dando la massima attenzione alle posizioni e proposte di ogni forza politica, di quelle della maggioranza risultata dalle elezioni del 2008 come quelle di opposizione». Nessuno escluso, quindi. Coloro che facevano parte della granitica maggioranza, ormai dissolta, e che hanno fatto altre scelte. E l’opposizione che è riuscita a dimostrare con i fatti che si può non rinunciare a dare battaglia ma consentire l’approvazione di una legge che non si poteva rinviare. Quando il re è nudo...

Repubblica 9.11.11
Come riformare il capitalismo
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini


Non si parla che di riforme. Ogni misura di politica economica è annunciata come una riforma anche quando si tratta di normale amministrazione. Il termine si è inflazionato. Riforme dovrebbero essere quelle che cambiano la struttura di un sistema, non quelle che ne modificano i parametri, come l´età pensionabile o il livello della contrattazione salariale. L´accento sulle cosiddette riforme è posto tutto sulla contrazione dei costi e in particolare di quelli del lavoro: decentramento dei livelli di contrattazione, flessibilità dei contratti (per non dire licenziamenti), mobilità del lavoro, ecc... E non si parla d´altro che di liberalizzazioni, privatizzazioni, semplificazioni e riduzione del peso della burocrazia.
Ora non c´è dubbio che interventi di modernizzazione e di razionalizzazione siano opportuni. Ma è assai dubbio che si traducano in un forte stimolo alla crescita nel tempo breve, anzi brevissimo, di cui disponiamo. Perché il passo fondamentale per avviare un ciclo di crescita robusto e duraturo non può che consistere nell´espansione della domanda aggregata la quale, oltre a trainare la ripresa dell´occupazione, avrebbe un effetto benefico sul gettito fiscale e quindi sulla tenuta dei conti pubblici e sulla fiducia dei mercati.
La questione fondamentale per suscitare la crescita, dunque, è la "domanda". Ma come attivarla? Uno dei pilastri per ottenere un´espansione della domanda è rappresentato da un piano di investimenti pubblici nelle infrastrutture e nella riconversione ecologica dell´economia.
In Italia il finanziamento di un piano per la crescita potrebbe provenire in primo luogo da un´imposta patrimoniale dell´ordine di 15 miliardi di euro all´anno che si protragga per almeno tre o cinque anni. Nel contempo, in questo momento difficilissimo per la tenuta delle finanze pubbliche, andrebbero attivate le grandi imprese a partecipazione statale come Eni, Enel e Finmeccanica e andrebbe coinvolto il sistema bancario, non solo per motivi di solidarietà nazionale ma anche perché il rilancio della crescita avrebbe l´effetto di far risalire le quotazioni azionarie delle grandi imprese e delle banche che oggi sono pesantemente sottovalutate a causa del "rischio Italia".
In Europa il finanziamento di un piano per la crescita dovrebbe avvenire attraverso due interventi da attuare simultaneamente: l´emissione degli Eurobonds e il varo della tassa sulle transazioni finanziarie che permetterebbe di pagare la spesa per interessi sulle obbligazioni europee.
Il rilancio della crescita dell´economia italiana ed europea avrebbe un effetto importante sulla fiducia che è essenziale per alimentare la circolazione della moneta e per riattivare il credito bancario alle famiglie e alle imprese. Perché oggi le banche europee a causa delle fosche prospettive di crescita hanno degli attivi che sono diventati sempre più illiquidi e tendono a mettere a riserva oppure ad impiegare in attività speculative la liquidità che si possono procurare a basso costo dalla Banca Centrale Europea.
Inoltre, è di cruciale importanza rovesciare le convinzioni dominanti che considerano i redditi da lavoro come gravami da minimizzare piuttosto che fattori di benessere da promuovere: come vincoli e non come obiettivi. Il fatto è che è proprio nel mostruoso aumento delle disuguaglianze sta l´origine della crisi attuale. Alle origini della crisi americana, trasmessa poi all´Europa, c´è un colossale indebitamento generato dalla necessità di evitare la contrazione della domanda associata alla stagnazione dei salari. Quelle disuguaglianze oggi non si sono ridotte ed anzi sono state accentuate dallo spostamento del debito privato su quello pubblico e quindi dalla necessità di tagliare le prestazioni sociali per far quadrare i conti. E le agenzie di rating che avevano tranquillamente garantito i conti di imprese fallimentari oggi non si stanno facendo scrupoli nel declassare gli Stati in difficoltà.
La verità è che nel capitalismo finanziario il problema cruciale è quello della distribuzione della ricchezza. La crescita comporta uno spostamento della ricchezza concentrata in misura sproporzionata verso i livelli più alti.
Ma quale crescita dobbiamo avere in mente nel periodo attuale? Crediamo che l´obiettivo prioritario non debba essere di tipo quantitativo. Oggi dobbiamo puntare su di un´economia della sostituzione e dell´efficienza che ci porti verso una condizione di "stato stazionario di natura dinamica". Cioè dobbiamo impegnarci verso la costruzione di un´economia in cui il prodotto totale non continui ad espandersi indefinitamente ma che punti invece su uno sviluppo di qualità.
Una più equa distribuzione del reddito e una produzione ecologicamente più equilibrata: ecco le vere riforme di un capitalismo che ci sta trascinando verso un´età dei torbidi.

il Fatto 9.11.11
L’opposizione dirà sì a “lacrime e sangue”?
Stretta tra i Quirinale e le divisioni sulle elezioni anticipate. No ad Alfano
di Caterina Perniconi


I toni alti non li so fare, ma i due bassi dell’Alleluja li posso cantare io. Dove lo fanno? ”. Il segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani, scherzava ieri pomeriggio in Transatlantico sull’appuntamento che circolava in Rete in caso di dimissioni del premier, Silvio Berlusconi. La sera, aveva meno voglia di ironizzare: “Le dimissioni ci sono, adesso è necessario che si formalizzino il prima possibile”. In mezzo una legge di stabilità che potrebbe spaccare le opposizioni, scenario non previsto tra quelli ipotizzati ieri all’interno del Pd. La mattinata era infatti cominciata bene per Bersani, con la fiducia dei Radicali e una regia perfetta della mancata votazione in aula – uniti Pd, Udc, Fli, Idv e fuoriusciti Pdl – che aveva smascherato senza più alcun dubbio la debolezza numerica della maggioranza. Anche il partito di Antonio Di Pietro, restio a non pronunciarsi contro il rendiconto, aveva annunciato, dopo la riunione dei capigruppo d’opposizione, di seguire la linea condivisa.
TUTTI IN AULA quindi, al fine di assicurare il numero legale e l’approvazione del provvedimento, ma con le tessere alzate in segno di “non voto”. Alla fine i numeri gli danno ragione: 321 contro 308 fedeli a Berlusconi. “Vada al Quirinale e rassegni le dimissioni – ha detto il segretario del Pd, l’unico a prendere parola dopo il voto, davanti a Berlusconi – se lei non lo facesse le opposizioni considererebbero iniziative ulteriori perché così non possiamo andare avanti”. L’iniziativa annunciata era una mozione di sfiducia da presentare già stamattina alla capigruppo e da votare entro tre giorni. Ma non è servita.
Poco dopo, uscendo dall’aula, Bersani si è consultato col Capo dello Stato, al quale ha rimesso ogni decisione. É stato Giorgio Napolitano, infatti, a costringere il premier all’annuncio di un passo indietro, perché le opposizioni senza un voto contrario con più di 308 consensi non l’hanno obbligato a dimettersi. Questo dimostra che è ancora difficile immaginare una maggioranza per un governo tecnico o di unità nazionale, invocato da Fli e Udc, meglio lasciare che Berlusconi firmi la manovra “lacrime e sangue” richiesta dall’Europa per poi valutare le possibilità. Le “ampie condivisioni” sperate sono molto lontane.
“Vogliamo vedere il maxi-emendamento e poi ci pronunceremo – ha detto Antonio Di Pietro al Fatto – la stabilità finanziaria è diversa dalla stabilità sociale. La loro idea di stabilità è quella di macelleria sociale e noi non glielo permetteremo. Faremo una forte opposizione nel merito. E per quanto riguarda il metodo – ha precisato Di Pietro – riteniamo queste dimissioni false e ipocrite perché conosciamo il soggetto e fino a quando non le vediamo, e diventeranno irrevocabili, sono carta straccia”. Perché in dieci giorni è capace di fare di tutto.
Ma Bersani guarda avanti: “Le dimissioni sono una svolta e aprono una fase nuova”. E sulla legge di stabilità è possibilista: “Ci riserviamo un esame rigoroso del contenuto dell’annunciato maxi-emendamento alla legge di stabilità per verificare le condizioni che ne permettano, anche in caso di una nostra contrarietà, una rapida approvazione”.
Insomma, le castagne dal fuoco le deve togliere Berlusconi. Che nel frattempo aveva dichiarato a tutti i tg della sera “dopo di me c’è solo il voto”. La replica è arrivata in un baleno: “Il Pd ritiene sconcertante che con le sue prime dichiarazioni il presidente del Consiglio, battuto alla Camera e dimissionario, cerchi di condizionare un percorso che è pienamente nelle prerogative del Capo dello Stato e del Parlamento”.
ANCHE SE all’interno dei democratici c’è una frattura insanabile tra chi chiede un governo di transizione (come Veltroni), e chi si mostra, almeno apparentemente, a favore delle elezioni (come Bersani), possibilista su un esecutivo di transizione “ma non guidato da Letta o Alfano, che significherebbe continuazione”. I dubbi, tra i fedelissimi del segretario, ci sono: se si andasse a votare a marzo la campagna elettorale potrebbe coincidere col processo Penati e le dichiarazioni del pm di Monza, Walter Mapelli, di ieri – il sistema Sesto arriva fino alla direzione Pd – suona come un avvertimento. L’ostacolo potrebbe essere anche più ingombrante delle primarie, che a casa Bersani non sono viste di buon occhio. Mentre Vendola guarda al futuro dalla Cina e Renzi sta scaldando i motori.

l’Unità 9.11.11
Incontro col Pd
I radicali contro lo scioglimento: pronti a votare Alfano?


Marco Pannella e Pier Luigi Bersani si lasciano con una stretta di mano. L’incontro alla Camera segna un riavvicinamento tra la pattuglia radicale e i democratici anche in vista di un ipotetico governo di transizione. «Abbiamo ripreso la discussione», ha detto Bersani al termine dell'incontro, spiegando che «come sempre avviene con i radicali, si è andati ai contenuti parlando di liberalizzazioni, giustizia ed Europa». Il confronto, aggiunge il segretario del Pd, continuerà «con un coinvolgimento molto stretto dei parlamentari». A chi gli domanda se i radicali chiedono sempre un governo di transizione o le elezioni, Bersani risponde sorridendo che «sono contro le elezioni e 50 volte hanno votato contro la fiducia a questo governo». Pannella ha però anche fatto sapere che sono contrari allo scioglimento delle Camere. Non è quindi escluso un sostegno dei radicali a una soluzione diversa dall’esecutivo Berlusconi ma comunque di centrodestra (in queste ore si parla anche di un’ipotesi di governo Alfano-Maroni). Un’esperienza già sperimentata nel ’94.

il Fatto 9.11.11
Pannella e Grillo fantasie elettorali
di Luca De Carolis


L’ipotesi circola da qualche giorno: un’alleanza tra Radicali e Movimento 5 Stelle per superare assieme lo sbarramento del 4% alle Politiche ed entrare in Parlamento. Ad alimentare (indirettamente) le voci, Marco Pannella su Radio Radicale: “Grillo e i suoi sono l’unica, vera novità della politica italiana”. Parole rimbalzate sui giornali anche ieri, proprio nel giorno in cui Bersani ricuciva con i Radicali alla Camera. Ma l’alleanza tra i grillini e il partito di Pannella è davvero possibile? Il segretario dei Radicali, Mario Staderini, è cauto: “Abbiamo cercato più volte il dialogo con il Movimento 5 Stelle, senza successo. Per ora non parlerei di alleanze elettorali, ma potremmo comunque portare avanti assieme alcune battaglie, come quella per l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti. Di certo abbiamo idee e obiettivi in comune, sulla democrazia diretta come sui temi ecologisti: e poi la loro base non ci percepisce come un partito uguale agli altri”. Giovanni Favia, consigliere regionale per 5 Stelle in Emilia Romagna, non vede spiragli per un accordo: “Su certi temi i Radicali hanno idee simili alle nostre, ma noi non facciamo alleanze con i partiti, per il semplice fatto che non siamo un partito ma una rete. I nostri candidati alle Politiche li sceglieremo on-line, e dovranno avere precise caratteristiche: non essere iscritti a partiti e non aver fatto politica per più di dieci anni, oltre che essere incensurati”. Quanto alla soglia del 4%, Favia è fiducioso: “Ormai l’abbiamo superata, perché siamo una realtà, cresciuta grazie al lavoro e alla sua buona reputazione”.

l’Unità 9.11.11
Affondato in commissione bilancio del Senato l’emendamento presentato da Vita-Lusi, Pd
Prevedeva la reintroduzione dei 75 milioni tolti in estate. C’era stato anche l’appello di Napolitano
Pdl e Lega bocciano i fondi per l’editoria
Maggioranza e governo hanno affossato in commissione Bilancio in Senato l’emendamento Vita-Lusi che prevedeva la reintroduzione dei 75 milioni per l’editoria. Soldi che riguardano anche questo giornale.
di Roberto Monteforte


Maggioranza e governo nella commissione Bilancio del Senato hanno bocciato l’emendamento presentato dai senatori del Pd Lusi e Vita con i quali si restituivano al Fondo per l’editoria i 75 milioni di euro tagliati questa estate. L’emendamento si poneva l’obiettivo di garantire le risorse necessarie per assicurare l’esistenza a quel centinaio di quelle testate non profit, cooperative, di partito e di idee che non rispondono alle logiche del mercato e che rischiano seriamente di chiudere alla fine dell’anno. Sollecitato dai direttori di queste testate il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nei giorni scorsi aveva lanciato un appello al governo e alle forze politiche affinché venisse tutelato il pluralismo nel nostro paese. Aveva auspicato che, in un quadro di forte rigore nei criteri di assegnazione del finanziamento pubblico, fossero garantita l’esistenza a realtà editoriale significative per la storia sociale e politica del nostro paese. A rischio sono testate come il Manifesto, Avvenire, Europa, l’Unità, il Secolo d’Italia, il Riformista, sino a Salvagente, a Rassegna sindacale, ai settimanali diocesani, che danno voce all’Italia dei «territori». L’appello del Colle non è stato ascoltato. Almeno per ora. E forse neanche per una determinazione politica, ma per la confusione che regna nella maggioranza e nello stesso governo in queste ore. Ma l’atto di grave irresponsabilità resta. Lo ha sottolineato in una nota il «Comitato per la libertà e il diritto all’informazione», la sigla che raccoglie tutti i soggetti dalla Fnsi alla Cgil a Mediacoop e Confcoopeartive, alla Federazione dei settimanali cattolici e l’Associazione articolo 21. «Il Presidente della Repubblica commenta aveva rivolto nei giorni scorsi un appello a ripristinare i fondi per l’editoria e per tutta risposta oggi al Senato, Governo e maggioranza, in commissione Bilancio di Palazzo Madama, hanno bocciato un emendamento che si proponeva di reintegrare i 75 milioni di euro tagliati nella manovra di agosto. Una vera e propria vergogna, un atto che si connota come un attacco al pluralismo e alla libertà di stampa». Il Comitato annuncia «nuove iniziative in sede regionale e nazionale» perché correggere la scelta. L’effetto di questa bocciatura sarebbe devastante per oltre cento testate e metterebbe a rischio quattromila posti di lavoro tra giornalisti, poligrafici e indotto. Si lavorerà per sensibilizzare i parlamentari e far passare gli altri emendamenti presentati al disegno di legge di stabilità. «È assolutamente vergognoso quello che è successo al Senato. Rappresenta un altro colpo durissimo e antidemocratrico all’informazione libera» commenta Fulvio Fammoni (Cgil) che aggiunge «Questa maggioranza di un governo che ormai ha fatto la sua storia non tollera l’espressione del libero pensiero e impone i tagli all’editoria come grimaldello per chiudere giornali e testate scomode». «Questo governo conclude Fammoni è intollerante all’informazione democratica e anche per questo deve andare a casa al più presto».
Ora, in un quadro segnato dall’incertezza, si attende il «maxi emendamento» del governo alla legge di stabilità, che sostituirà il decreto per lo sviluppo. Vi sono altri emendamenti «trasversali» a difesa dell’editoria no-profit. I giochi non sono ancora completamente chiusi.

il Fatto 9.11.11
Viva l’alluvione, se caccia i rom
di Antonio Tabucchi


Da alcuni anni abbiamo in casa un partito fortemente ostile al nostro paese, e il cui scopo è la secessione dall’Italia: la Lega Nord per l’indipendenza della Padania. Sta in una contea inesistente dai confini inesistenti, immaginaria come la Cacania di L’uomo senza qualità di Robert Musil, che è il regno della fantasia. Nel loro caso una fantasia limitata, ma sufficiente a creare altre fantasie. Li ispirano le teorie razzia-li che in Italia ebbero fortuna durante il fascismo, e in un paese come il nostro, che risulta da una mescolanza di popolazioni della nostra lunga storia (pre-romani, romani, etruschi, normanni, arabi) pretenderebbero di essere una razza a parte, discendenti dai mitici celti. Da questi hanno preso simboli anch’essi mitici con i quali hanno sostituito i veri simboli nazionali; insultano la nostra bandiera e chiamano “terroni” gli altri italiani.
E COME i presunti celti vorrebbero essere biondi e con gli occhi azzurri, ma sono smentiti dal loro stesso soma. Sono piuttosto bellicosi, e più di una volta hanno minacciato di prendere le armi e di invaderci. Cosa che ovviamente non possono fare perché noi siamo qualche milione e loro una sparuta minoranza, e una cosa del genere gli andrebbe male. Gli episodi di intolleranza verso coloro che considerano “stranieri”, nelle loro zone sono frequenti, ma hanno mano libera su tutto il territorio italiano. Per un paradosso, tre di loro sono stati nominati ministri, e uno di essi, ministro degli Interni, Roberto Maroni. L’Italia è l’unico paese al mondo i cui affari interni sono gestiti da un ministro che non si considera appartenente al proprio paese. Ma c’è poco da ridere, perché il ministro Maroni, pur considerandosi straniero in Italia, ha messo in opera dure misure contro gli stranieri in Italia. La più feroce è stata, in accordo con il defunto dittatore Gheddafi, il cosiddetto “respingimento in mare” delle persone che fuggivano dalla Libia o dai paesi vicini, da altri dittatori amici del presidente Berlusconi. I “respingimenti” erano operati con il cannone o la mitragliatrice, con imbarcazioni italiane e militari italiani al comando di ufficiali libici. Pare che il fondo del Mediterraneo di fronte a noi sia un tappeto di cadaveri. Il ministro leghista ha rivolto particolare ostilità ai rom, arrivando a violazioni del diritto internazionale che ci hanno attirato perfino il biasimo dell’Onu. La più clamorosa è una schedatura dei campi rom fatta dalla polizia con il rilevamento delle impronte digitali dei bambini. Il sentimento di xenofobia dalla Lega Nord si è diffuso rapidamente come una malattia, contagiando la popolazione, come è sempre successo nella storia. E una parte degli italiani rivolge il proprio odio non ai mafiosi, ai corrotti, ai gangster, ai faccendieri, agli evasori fiscali, alle associazioni segrete che mirano a scardinare le istituzioni democratiche della repubblica, ma ai rom. Cioè, a una minoranza etnica ridotta allo stremo, alloggiata in povere baracche di campi spesso privi di acqua e di corrente elettrica, verso la quale l’Unione Europea raccomanda una serie di misure di protezione, come si fa con le creature in estinzione (e in effetti lo sono). Ma in un’Europa che solo pochi anni fa ha bruciato nei forni nazisti sei milioni di ebrei e circa (le stime sono difficili) 800 mila zingari e 500 mila omosessuali, in Italia, che al genocidio dette il suo valido contributo, in questo ventennio di berlusconismo si teme e si odia più lo zingaro che il mafioso, il camorrista o lo stragista. Così, anche da parte delle amministrazioni comunali, sono cominciati gli “sgomberi” (questa la gentile parola) dei campi rom. Ma gli “sgomberi” si sono estesi a macchia d’olio. È che spesso le aree comunali dove sorgono i campi sono terreni di costruzioni appetibili. Ed ecco che in questi giorni di terribili piogge, di disastri, di morti, di tragedie come a Genova, alle Cinque Terre e altrove, ci giunge il pensiero solidale dell’onorevole Davide Cavallotto, deputato della Lega Nord per l’Indipendenza della Padania. L’on. Cavallotto ha in uggia un campo rom di Torino lungo lo Stura perché è “abusivo”. In Italia il presidente del Consiglio ha ricevuto decine di sindaci che hanno devastato il paesaggio con migliaia di costruzioni abusive, e “condona”. Ma il piccolo campo abusivo, che il sindaco di Torino non ha il cuore di sgomberare, non si tollera: dà molto fastidio all’on. Cavallotto. Ma, fortunatamente piove, arrivano questi alluvioni mostruose che devastano il paese.
IL CAMPO ROM lungo la Stura è in pericolo, gli abitanti se ne devono andare per forza. L’onorevole Cavallotto esulta: finalmente, dice, la pioggia è riuscita laddove non è riuscito il sindaco Fassino. Evviva le alluvioni, dunque, se servono a cacciare i rom. Forse l’immunità parlamentare ha dato talmente alla testa ai nostri deputati che si credono immuni perfino dai disastri naturali. L’on. Cavallotto, non ha capito che se piove sui rom piove anche sugli onorevoli. Stiamo sotto lo stesso cielo, e al cielo non si comanda, e neppure alla divina provvidenza. Magari lui ha una casa in collina, e si sente al riparo dall’acqua. Ma ci sono sempre le frane, gli smottamenti, i crolli. Quando diluvia è pericoloso, e poi non sai mai da dove la bomba d’acqua spunta, neppure in collina.
Così incerto e fragile è il nostro stare su questa crosta del mondo, la Terra è stanca e anche i cieli sono avversi. Tragica è l’epoca. Troppi i morti che ci circondano, troppe le carestie, la fame, i massacri. Almeno ci siano risparmiate le bestemmie.

Repubblica 9.11.11
Barbara Mannucci, 29 anni, deputata pdl: "Silvio è la luce"
"Con lui fino alla fine come Claretta Petacci"
L´ho conosciuto che avevo quattordici anni, provo tristezza per chi gli volta le spalle dopo essere stato eletto
di Antonello Caporale


«Claretta decise di stargli accanto fino alla fine. Decise di perire per lui».
La deputata Barbara Mannucci sarà la Claretta di Berlusconi.
«L´ho conosciuto che avevo quattordici anni. A venticinque ero qui a Montecitorio, ora ho 29 anni e avverto la serenità di chi ha avuto tanto e non ha null´altro da chiedere».
Bionda, dai lineamenti dolci. Riservata.
«Una delle Clarette, come hanno scritto i giornali. Forse un pochino più trattenuta. Non amo le interviste, non amo apparire, non brucio la vita per la carriera».
Se lo dice lei.
«Starò con lui fino alla fine. Se il treno deraglia, deraglierà col mio corpo in carrozza. Non fuggo, non tradisco».
Piange.
«C´è tristezza non lacrime. Penso a chi lui ha fatto eleggere, a chi ora gli ha voltato le spalle».
Totus tuus Silvio.
«E´ stato tutto per me. Un amore incrollabile, la fede e anche la luce».
E anche le feste.
«Quelle no»
Le altre Clarette sì.
«Io no».
Non c´è da offendersi.
«Non mi offende, preciso e affermo ciò che è vero. Come lei sa o dovrebbe ben sapere».
La luce si sta spegnendo.
«E´ la vita che ci obbliga alla gioia e al dolore. Lo sapevo. Ma abbiamo fatto cose grandi in questi quindici anni».
Cose grandissime avete fatto.
«L´ingresso di Silvio Berlusconi ha cambiato il ritmo a questo Paese, ha dato speranze e opportunità. E´ stata una rivoluzione».
Parli per lei
«Ha sbagliato anche, certo. Ma chi non devia? Io non ne conosco migliori di lui».
Si è capito.
«Lei è così sicuro che Berlusconi lasci, scompaia dalla scena come uno qualunque?»
Un superuomo fa più fatica ad afflosciarsi di botto.
«Chissà cosa si inventerà. Io starò qui a sostenerlo».
Non come quelle altre.
«Quelle altre, quegli altri. L´ambizione ti mangia il cuore, ti fa divenire cieco e sempre affamato».
Lei è Claretta.
«Totus tuus».
A trent´anni ritornerà allo stato laicale. Senza tasti da pigiare e mani da battere.
«Sono giovane e ho famiglia. Mica bisogna invecchiare qui dentro? Ma li vede?».

l’Unità 9.11.11
Il processo per il delitto di Potenza: nel tribunale di Salerno la prima udienza con rito abbreviato
L’accusa chiede trent’anni per Danilo Restivo: «È un brutale assassino». Il dolore dei familiari di Elisa
Delitto Claps, il Gup: «La Chiesa fu negligente Non sia parte civile»
Nel tribunale di Salerno prima udienza per il processo Claps. Unico imputato per il delitto della studentessa è Danilo Restivo, già condannato in Inghilterra per un altro omicidio. I pm chiedono 30 anni di carcere.
di Salvatore Maria Righi


Toccherà al giudice Elisabetta Boccassini decidere se Danilo Restivo sia un serial killer che ha ucciso Elisa Claps circa con le stesse modalità con cui ha brutalmente tolto la vita all’inglese Heather Barnett. A lei, al gup di Salerno dove ieri è iniziato il processo con rito abbreviato (prossima udienza domani, nella quale la parola spetterà alla difesa) per il delitto della studentessa di Potenza, scomparsa il 12 settembre 1993 e il cui cadavere è stato ritrovato il 17 marzo 2010 nella chiesa della Santissima Trinità, i pm hanno formulato una richiesta lapidaria per l’unico imputato alla sbarra. Dopo una requisitoria durata fino a tarda sera, i magistrati Rosa Volpe e Luigi D’Alessio hanno chiesto 30 anni di reclusione per Restivo, il massimo della pena previsto nel caso dell’abbreviato.
L’imputato deve rispondere di omicidio volontario pluriaggravato, avrebbe cioè ucciso Elisa mentre metteva in atto una violenza sessuale e con particolare crudeltà. Su di lui, il magistrato Michael Bowes, durante il processo celebrato in Inghilterra e terminato con la condanna all’ergastolo nello scorso giugno, ha usato parole di ferro: «Elisa Claps è stata uccisa nella chiesa che Restivo conosceva bene. Aveva il reggiseno tagliato, i pantaloni abbassati fin all’inguine e i capelli recisi, Proprio come Heather Barnett. L’imputato è una persona pericolosa, non un semplice eccentrico».
Il punto della lunga, triste e per certi versi inquietante vicenda Claps è proprio questo: Restivo è arrivato davanti al tribunale di Salerno, dopo indagini preliminari durate a tempo di record tra il ritrovamento del cadavere di Elisa (marzo 2010) e la chiusura del fascicolo e la richiesta di rinvio a giudizio, con una condanna di primo grado di un tribunale inglese, per un omicidio che ricorda molto quello della studentessa potentina nelle modalità e negli sviluppi, compresi i depistaggi. Anche nel caso del delitto di Bournemouth, pacifica cittadina sul mare nel Dorset, ci sono voluti nove anni perché Scotland Yard mettesse le manette a Restivo, che era vicino di casa della sarta assassinata nel novembre 2002. Arrestato nel maggio 2010 e processato un anno dopo, Restivo non è presente nell’aula del tribunale di Salerno, nemmeno in videoconferenza, perché la legislazione inglese impedisce l’estradizione almeno fino al giudizio di appello.
Analoghi i tempi con cui, in entrambi i casi, si è arrivati dalla scoperta del cadavere alle indagini e poi alla fase processuale. Il corpo senza vita e oltraggiato di Elisa Claps è rimasto nascosto nella chiesa della Santissima Trinità di Potenza, dove per ultimo Restivo vide la studentessa quella domenica mattina, per 17 lunghissimi anni, fino al 17 marzo 2010. Proprio quando, circa, in Inghilterra la polizia è arrivata a Restivo per l’omicidio Barnett. Per tutto quel tempo, nella disperazione della famiglia Claps, sono spuntate anche piste rivelatesi poi bidoni, come quella albanese, segnalata da un vigile urbano di Policoro. Lo stesso Restivo, nel maggio 1999, 11 anni prima del ritrovamento del cadavere di Elisa, cercò di ingannare i familiari scrivendo un falso messaggio a nome della ragazza dal Sudamerica. Ma non è tutto, perché su Restivo si staglia anche l’ombra di un altro delitto, quello della studentessa coreana Oki Shin, uccisa a Bournemouth nel luglio 2002, quattro mesi prima di Heather Barnett. Anche nel suo caso, come in quello di Elisa e della sarta, l’assassino ha tagliato una ciocca di capelli alla vittima.
Intanto, fa notizia la decisione del gup di Salerno che ha respinto la richiesta della diocesi di Potenza di costituirsi parte civile. Il giudice ha chiamato in causa la «mancata diligenza nel controllo e gestione dei locali» della chiesa dove è stato trovato il cadavere di Elisa.

Repubblica 9.11.11
La protesta globale
di Joseph Stiglitz


Il movimento di protesta partito a gennaio dalla Tunisia, diffusosi poi all´Egitto e in seguito alla Spagna, ha acquisito una dimensione globale. I dimostranti adesso affollano le piazze di Wall Street e di altre città degli Stati Uniti. La globalizzazione e le tecnologie moderne permettono ora ai movimenti sociali di superare le frontiere tanto rapidamente quanto le idee. E la protesta sociale ha trovato terreno fertile dovunque, perché sono diffuse la percezione che il "sistema" abbia fallito e la convinzione che nemmeno il processo elettorale delle democrazie raddrizzerà le cose, sicuramente non senza una forte pressione dalle piazze.
A maggio sono stato nel luogo dove si concentravano le proteste tunisine, a luglio ho parlato con gli indignados spagnoli, da lì mi sono recato in piazza Tahrir a Il Cairo per incontrare i rivoluzionari e, poche settimane fa, ho parlato con i manifestanti di Occupy Wall Street a New York. In tutti questi luoghi c´è un tema comune, sintetizzato dal movimento Ows nella breve frase: «Siamo il 99 per cento».
Lo slogan richiama un mio articolo pubblicato recentemente il cui titolo, "Dell´1 per cento, per l´1 per cento e tramite l´1 per cento" descriveva l´enorme aumento delle disuguaglianze negli Stati Uniti: l´1 per cento della popolazione controlla più del 40 per cento della ricchezza e riceve più del 20 per cento del reddito. Inoltre, coloro che si collocano in questo strato così unico ricavano spesso tali enormi benefici non per aver dato alla società un contributo maggiore, ma perché sono, per dirla senza giri di parole, dei cacciatori di rendite di successo (e qualche volta corrotti). Con ciò non si vuole negare che una parte di questo 1 per cento abbia dato dei contributi importanti. Difatti, i benefici sociali di molte vere innovazioni vanno ben oltre ciò che ne ricavano questi innovatori.
L´influenza politica e le pratiche che mortificano la concorrenza (sostenute spesso dalla politica) sono state, tuttavia, un fattore centrale nell´approfondirsi delle disparità economiche in tutto il mondo. Inoltre, il trend è stato rafforzato da sistemi fiscali nei quali un miliardario come Warren Buffett paga meno tasse della sua segretaria (in percentuale sul reddito) e gli speculatori, che hanno contribuito a far collassare l´economia globale, hanno imposizioni fiscali più basse di chi lavora per vivere.
Le ricerche condotte negli ultimi anni evidenziano l´importanza e il radicamento dei concetti relativi all´equità tra i cittadini. I dimostranti spagnoli e quelli degli altri paesi hanno ragione a essere indignati: hanno di fronte un sistema nel quale i banchieri sono stati salvati, mentre coloro cui essi facevano la predica sono stati lasciati ad arrangiarsi da soli. Peggio ancora, quei banchieri sono seduti oggi nuovamente alle loro scrivanie e portano a casa dei bonus che la maggior parte delle persone che lavorano possono solo sperare di guadagnare in una intera vita lavorativa, mentre per i giovani che hanno studiato con impegno e attenendosi alle regole non ci sono prospettive di un lavoro soddisfacente.
L´approfondirsi delle disuguaglianze è il prodotto di un circolo vizioso: i ricchi cacciatori di rendite usano la loro ricchezza per influenzare le leggi in modo tale da proteggere ed espandere la loro ricchezza - e influenza. Con la nota sentenza del caso Citizens United, la Corte suprema degli Stati Uniti ha allentato le redini che limitavano le corporation nell´uso delle risorse al fine di influenzare la politica. E così, mentre i ricchi possono impiegare il loro denaro per diffondere le loro opinioni, in piazza, la polizia non mi ha permesso di parlare ai dimostranti utilizzando un megafono.
Il contrasto tra una democrazia iper-regolamentata e un sistema finanziario non regolamentato non è passato inosservato. I manifestanti sono stati ingegnosi: quelli più vicini hanno ripetuto a quelli più indietro ciò che dicevo in modo che tutti potessero ascoltare. E, per evitare di interrompere il "dialogo" con gli applausi, per esprimere il loro assenso hanno utilizzato dei segnali della mano molto espressivi.
Hanno ragione a sostenere che nel nostro "sistema" ci sono delle cose che non vanno. In tutto il mondo, a fronte di risorse sottoutilizzate ci sono bisogni enormi non soddisfatti, come la lotta alla povertà, la promozione dello sviluppo e un adattamento dell´economia all´esigenza di combattere il riscaldamento globale, tanto per nominarne solo qualcuno.
I dimostranti sono stati criticati per non avere un programma, ma questa critica ignora l´essenza della protesta, vale a dire, il fatto che il movimento è l´espressione di una frustrazione riguardo al processo elettorale. È un campanello d´allarme.
Il movimento di protesta contro la globalizzazione partito nel 1999 da Seattle, in occasione di quella che si riteneva sarebbe stata una nuova ronda di trattative sul commercio, ebbe il risultato di richiamare l´attenzione sui fallimenti della globalizzazione e delle istituzioni internazionali e degli accordi che la governavano. Approfondendo le richieste e le motivazioni del movimento, la stampa si rese conto che esso aveva ragione su molti punti che non erano precisamente dettagli. I negoziati del commercio che seguirono furono differenti - furono impostati, almeno in principio, come negoziati per lo sviluppo tesi a correggere qualcuna quantomeno delle deficienze segnalate dal movimento - e il Fondo Monetario Internazionale avviò di conseguenza delle riforme importanti.
Su un livello, chi oggi scende nelle piazze chiede poco: la possibilità di usare la propria capacità, il diritto a un lavoro decente e a una retribuzione decente e una economia e una società più giuste. La loro speranza è di tipo evoluzionistica, non rivoluzionaria. Su un altro livello invece si chiede molto: una democrazia nella quale contino le persone e non i dollari e un´economia di mercato che dia i risultati promessi.
I due livelli sono correlati: come abbiamo visto, senza regolamentazione i mercati generano crisi economiche e politiche, mentre lavorano correttamente solo quando operano all´interno di un appropriato quadro normativo. Questo quadro può essere solo costruito in una democrazia in grado di riflettere gli interessi generali e non solo gli interessi dell´1 per cento. Non è più sufficiente avere il miglior governo che si può comprare con il denaro.
Traduzione di Guiomar Parada

il Fatto 9.11.11
Oppio digitale: in Cina è autocensura
di Fabio Chiusi


Internet non è solo, come ha affermato il premio Nobel Liu Xiaobo “il grande dono di Dio alla Cina”. È anche e soprattutto una “autostrada del divertimento” e della disinformazione superficiale e conformista. Lo sostiene un articolo pubblicato dal Journal of Asian Studies a firma del docente di Scienze sociali James Leibold. Un duro atto d’accusa contro le analisi, a suo dire troppo ottimiste e semplicistiche, dell’effetto di un mezzo che conta nel Paese 500 milioni di utenti. Ma le cui ripercussioni non vanno necessariamente nella direzione di una maggiore libertà e di un incentivo alla democrazia. Anzi. Attivismo politico e critiche al regime non costituirebbero che una minima parte delle conversazioni online. Quelle sul serial Temptation of Wife e sul romanzo a puntate Smashing the Universe, scrive Leibold, “hanno attirato circa 40 volte il volume di ricerche del terremoto in Giappone e del conflitto libico insieme”. Per il ricercatore si tratta di un vero e proprio “oppio digitale” cui i cinesi sono perfino disposti a sacrificare volontariamente la propria libertà di parola. L’84 per cento, infatti, ritiene che il web debba essere controllato e una percentuale di un punto superiore chiede addirittura che il governo censuri contenuti “violenti” e “speculazioni malevole”. L’effetto è la delegittimazione del mezzo: “Non importa se si forniscano informazioni vere o false, perché nessuno crede alle informazioni su Internet”, dice un blogger riportato nell'analisi. Oro colato per il regime.

Corriere della Sera 9.11.11
Pechino alle urne Prove di democrazia in versione cinese
Al debutto numerosi indipendenti
di Marco Del Corona


PECHINO — La democrazia è una cosa allegra. Cinque bandiere sventolano alle dieci del mattino davanti al seggio elettorale: due rosa, due celesti e una gialla. Incombono le torri di vetro di Shangdu Soho, nel cuore del Central Business District di Pechino. Si sale di un piano, sfiorando una grande falce-e-martello. E lì, accanto al centro estetico Donna Bella, che promette decolleté vistosi, si apre la porta che conduce all'urna. Vigilano due poliziotti, non si entra. Esce Dong Na, una giovane contabile. In mano il certificato: «Erano in quattro per tre posti, uno è un mio capo. Ho scelto chi conoscevo, e spero faccia del bene alla comunità». Niente di più, niente di meno.
Pechino ieri ha votato. Con discrezione, anche troppa, ma ha votato. I leader hanno dato l'esempio, Hu Jintao s'è fatto fotografare. In palio i seggi delle assemblee legislative locali, le sole in cui sia ammesso il suffragio popolare, oltre 21 mila candidati complessivamente per circa un terzo dei posti. Il World and China Institute — una ong nata per monitorare i processi elettorali — stimava che in 14 si siano presentati da indipendenti, come già a Tianjin, a Canton e altrove. Un fenomeno a macchia di leopardo, alimentato dai social network, capace di irritare il Partito comunista, già inquieto a un anno dal congresso e sospettoso di tutto quello che prova a sfuggire alla sua giurisdizione. Nonostante piattaforme programmatiche minime e apolitiche (servizi sociali migliori, meno traffico, meno corruzione) gli indipendenti hanno denunciato ostacoli nella registrazione delle candidature, talvolta minacce, fermi di polizia, detenzioni ai domiciliari.
In questo clima Xu Chunliu, giornalista, si è presentato a Dongcheng. Ha fatto circolare il suo nome stampandolo su buste per la spesa, ci ha dato dentro con Weibo, il twitter cinese. Ma ieri mattina, al telefono con il Corriere, era preoccupato: «Preferisco non parlare, non è più il caso». Xiong Wei ha corso ad Haidian, zona delle università, e sul microblog annotava: «Pechino vota. L'inverno è arrivato e se ne andrà. E dopo? La primavera. La primavera della democrazia? (…) Cittadini, andate ai seggi, il potere di decidere è nelle vostre mani».
Il controllo dei meccanismi da parte delle autorità è pressoché totale. Per votare occorre avere i requisiti necessari e registrarsi e gli elettori hanno le loro liste pubbliche, nomi incolonnati su pannelli rossi. Ogni circoscrizione ha di norma un candidato in più rispetto ai posti a disposizione: benché non espresso dal Partito, capita tuttavia che questo sia indicato da un'unità di lavoro o un ramo dell'amministrazione. Gli elettori nel seggio della Capital University of Economics and Business presso la torre sghemba della tv di Stato — ad esempio — potevano scegliere fra tre iscritti al Partito comunista e Feng Yan, indicata da un distretto scolastico. Striscioni esortano a «far tesoro dei diritti democratici», il cronista straniero però non sempre è ospite gradito: a Zhongshili (distretto di Dongcheng) viene invitato a sedersi in una stanza, a sorseggiare acqua, magari a fermarsi a pranzo, ma a non fare domande, fino a essere accompagnato e seguito a opportuna distanza.
Li Fan, il direttore del World and China Institute, osserva e consiglia. Sorvegliato speciale, tuttavia lamenta la «scarsa trasparenza delle procedure», consapevole che la sfida degli indipendenti sia un cimento impossibile. «C'erano anche in passato — diceva al Corriere prima delle elezioni — ma pochi se ne accorgevano. Stavolta invece si sono fatti notare grazie ai nuovi media». Ma a parte un isolato premier Wen Jiabao, la leadership ripete che la Cina non abbraccerà mai il sistema occidentale e che la via cinese non è negoziabile. A Pechino si fa così. La democrazia è molte cose, spesso molto diverse fra loro.

Corriere della Sera 9.11.11
Jeans, T-shirt e chiavette Internet Gli «invisibili» giovani iraniani
Viaggio a Teheran: «I ribelli in Siria sono i nostri eroi»
di Benedetta Argentieri


TEHERAN — Un grande cartello, sfondo bianco e caratteri rossi, annuncia un forum internazionale sulla Palestina. Una discussione per combattere il potere sionista «nella regione» e dare la massima solidarietà ai «fratelli» che vogliono essere riconosciuti all'Onu. L'invito è esteso a tutti. Di fianco il disegno di un kalashnikov, che più tardi si scoprirà essere il simbolo dei militari. È l'unico manifesto nei corridoi dell'aeroporto. Il messaggio è chiaro: benvenuti in Iran, terra dalle mille contraddizioni, dove l'apparenza, in molti casi, conta più della sostanza. Un Paese in cui nascondere i propri orientamenti (sessuali o politici che siano) è la prassi. Una nazione in cui la religione scandisce la quotidianità delle persone a prescindere che siano credenti o meno. Uno Stato in cui la condizione delle donne è di subordinazione all'uomo. Soprattutto una nazione dove la disponibilità, la generosità e la bellezza delle persone è mescolata alla paura e alla rabbia. E in alcuni casi alla voglia di cambiare.
«L'Iran non è libero», ammette Mohammed, portiere di un piccolo albergo a Teheran. Nel momento in cui pronuncia queste parole si è già pentito. Criticare, attaccare o anche solo giudicare il regime è pericoloso. Le pene sono varie, dal carcere alla fustigazione. In particolare se ci si lascia andare a commenti con stranieri. I turisti da queste parti sono merce rara. «Negli ultimi anni sono sempre meno, complice una campagna stampa contro Khamenei e Ahmadinejad», spiega Shaabi. Capelli scuri, occhi chiari, dai modi cordiali. Studia ingegneria elettronica all'università della capitale. Ma lui ci tiene a sottolineare, «noi non siamo così». E per dimostrarlo rinuncia a ore in compagnia di amici, per mostrare le bellezze della sua città. Senza volere nulla in cambio, nemmeno un pranzo. Il caos regna in una città di 15 milioni di abitanti che nonostante centinaia di cantieri aperti riesce a essere pulita. Il traffico sembra non fermarsi mai. La metropolitana, in cui si intravedono caratteri cinesi, è stata inaugurata da poco ed è affollata. Gli autobus che hanno una sbarra per dividere uomini e donne, sono frequenti. E i taxi collettivi si trovano a ogni ora del giorno. Non sembra bella Teheran, ma esercita un grande fascino. Su ogni palazzo ci sono i ritratti del fondatore della patria, l'Ayatollah Khomeini. A ogni angolo c'è un poliziotto o un militare armato. Su quasi ogni muro un murales. Il soggetto dipende dagli edifici: sulle scuole ci sono fiori e animali. Sugli altri disegni in cui si ricorda la guerra contro l'Iraq (1980-88) e il sacrificio di molti uomini. Sull'ex ambasciata americana, dove nel 1980 52 diplomatici sono stati presi in ostaggio da un gruppo di studenti (tra questi anche Ahmadinejad), campeggia una statua della libertà che ha il volto della morte e il simbolo di Israele spezzato.
«Il nostro è un Paese pacifico verso coloro che non vogliono egemonizzarlo». Habib si siede tutti i giorni nel cortile del Golestan, il vecchio palazzo dello scià, durante l'ora di pranzo. Si prende una pausa dalla sua bottega di calzolaio per leggere poesie francesi. Aspetta qualcuno con cui parlare. La panchina è il posto migliore per attendere turisti del museo. Il volto di Habib è segnato da profonde rughe, ma quando parla dei cambiamenti del suo Paese gli si illuminano gli occhi scuri. Gli piace ricordare i tempi della Rivoluzione nel 1979 («Meno male che c'è stata, ora abbiamo equità sociale»), attaccare le politiche internazionali degli Stati Uniti («Sono loro ad aver prodotto il terrorismo con le guerre in Iraq e in Afghanistan») e sostenere la corsa all'atomo («Dobbiamo essere indipendenti»). Ma su questo ultimo punto, in tanti non sono d'accordo. Anzi.
La rabbia cresce quando si esce della capitale. Il treno notturno che porta a Yazd (tappa obbligata per chi è per la prima volta in Iran) è pieno, ogni scompartimento è occupato da famiglie che tornano a casa, giovani coppie che vogliono fare una vacanza: «Non possiamo andare all'estero, ma almeno vogliamo visitare il Paese». Con le luci della città alle spalle si entra nel deserto che all'alba sembra sconfinato. Ci vogliono quasi 630 chilometri per raggiungere «la città più antica del mondo». E si arriva in un dedalo di stradine senza un'indicazione, in cui è bello perdersi. Le case, di fango e paglia, sono basse, hanno piccoli portoni con battacchi diversi per uomini e donne. I negozi sono appena fuori la parte vecchia. Tessuti, souvenir, vestiti, oggetti di legno. Dentro a uno di questi due giovani chiacchierano con chiunque capiti a tiro. Vogliono fare amicizia e aprono le porte delle loro case. Quello di Javad è un appartamento con cucina a vista e le pareti giallo ocra. Su due mensole c'è una collezione di brocche antiche e in un angolo la televisione con un sistema di amplificazione degno di un locale notturno. «La sera ci piace ballare con gli amici», spiega il giovane guardando le casse con una punta di orgoglio. Questi 60 metri quadri sono un punto di ritrovo per molti coetanei. Su una sedia ci sono alcuni mantelli neri. Chador usati dalle ragazze che ora cucinano riso e gamberetti fritti. Hanno tutte i pantaloni e magliette attillate. Nei capelli nastri e cerchietti. Le domande su come si vive in Italia sono una sorta di mantra. Ma quando il discorso ritorna all'Iran è una pioggia di critiche. Javad, si toglie gli occhiali, accarezzandosi il pizzetto, scuote la testa. «Le bollette di luce e gas sono triplicate a causa delle sanzioni. Il petrolio è alle stelle. Fino a due anni fa, dieci litri di benzina costavano un dollaro, oggi per la stessa cifra si prende un litro». Il tutto senza che i salari abbiano avuto un ritocco. Il governo ha spiegato che la centrale nucleare è «un progetto importante», promettendo che «gli sforzi saranno ripagati». Ma per chi come questo ragazzo di 28 anni vive di turismo, la situazione si fa sempre più difficile.
Non c'è solo la questione economica. Per i giovani, che rappresentano i due terzi della popolazione, i «ricatti religiosi» stanno diventando insostenibili. Da Yazd a Shiraz, culla della cultura persiana, lo scetticismo non cambia, anche se dal panorama sembra di essere in un altro Paese. Il lungo letto del fiume che divedeva la città è asciutto da più di un anno. Non piove da almeno 600 giorni. Ogni cento metri c'è un palazzo in stile quajaro. Le strade sono larghe e alberate. La città è il punto di appoggio per andare a visitare Persepoli. E sempre qui si trova la tomba di Hafez, «il più grande poeta di tutti i tempi», che è diventato luogo di pellegrinaggio. Famiglie, anziani e tanti studenti. E sotto un portico, Ava, 19 anni, parla di regole e imposizioni. «Un esempio? Se esco per strada senza velo mi arrestano, eppure la mia famiglia non è religiosa. Mi ha sempre detto che potevo fare quello che volevo». E in segno di ribellione Ava tiene il velo largo e posato in fondo alla nuca, tenendo scoperti i capelli neri. Se vuole entrare in università, deve cambiarsi, indossare una divisa. Lei, come i suoi compagni di biologia, accede a Facebook almeno una volta al giorno. La Rete però è criptata, per questo usano delle chiavette, con password particolari, per riuscire a ingannare il grande occhio del regime che è sempre più attivo. «Hanno vietato il satellite. Vogliono tenerci all'oscuro di tutto». La preoccupazione, dicono, è per gli eventi della vicina Siria, «sono i nostri eroi, se ci riescono loro potremmo farcela anche noi», ripetono all'unisono. Ma per un giovane contro il regime, basta fare pochi passi che se ne incontra un altro di orientamento opposto. «Ahmadinejad? È un grande, ci ha davvero aiutati». Visioni opposte che preoccupano, perché se in molti vorrebbero tornare in piazza, altri difenderebbero la «cupola». E si andrebbe quindi a una guerra civile. Gli scontri del 2009, la repressione che ne è seguita, gli amici seppelliti in qualche prigione (se non peggio) sono pensieri ricorrenti. Ma anche se non portano il braccialetto verde («Ci arresterebbero»), i giovani, in molte zone del Paese, sono pronti.

Corriere della Sera 9.11.11
Palestina, non c'è intesa all'Onu


NEW YORK — Il comitato del Consiglio di sicurezza incaricato di formulare una raccomandazione sulla richiesta di adesione all'Onu della Palestina come Stato membro a tutti gli effetti non ha trovato un accordo. «Il presidente (del Consiglio di sicurezza, ndr) ha dichiarato che il Comitato è stato incapace di formulare una raccomandazione unanime al Consiglio di sicurezza», riguardo l'ammissione della Palestina, si legge in una bozza del documento messo a punto ieri. I palestinesi avrebbero ottenuto soltanto otto dei nove (su 15) voti necessari affinché il Consiglio di sicurezza possa formulare una raccomandazione positiva. La maggioranza di almeno 9 voti avrebbe obbligato gli Stati Uniti a porre, come già indicato, il veto. L'ammissione all'Onu di nuovi membri è sottoposta al voto dell'Assemblea generale che prima ha bisogno dell'approvazione del Consiglio di sicurezza. L'iter della richiesta palestinese all'Onu è iniziato il 23 settembre scorso. Israele e gli Stati Uniti si sono opposti, affermando che bisogna prima di tutto riprendere i negoziati diretti fra Israele e i palestinesi.

Corriere della Sera 9.11.11
Come definire i palestinesi nelle carceri israeliane
risponde Sergio Romano


Ogni volta che sul Corriere leggo una sua risposta a lettere che in qualche modo riguardino Israele, mi trovo a non essere mai in accordo (neanche parzialmente) con quello che lei scrive, tanto che ormai mi ci sono abituato e lo considero scontato, data l'idea che mi sono fatto sulle ragioni che stanno alla base di quello che lei scrive. Ma la sua precisazione riguardo ai «prigionieri politici» va oltre i limiti della mia capacità di accettazione: come fa a definire «prigionieri di guerra» quei palestinesi che hanno messo bombe nei bus, nelle pizzerie, negli alberghi o hanno accoltellato dei ragazzi per la strada e che anche a distanza di anni si vantano delle loro azioni criminali? Quale guerra stavano combattendo? Lei scrive anche «basco, irlandese, italiano o palestinese» mettendo insieme situazioni e storie molto diverse: allora anche il «nostro» Cesare Battisti deve essere considerato un prigioniero di guerra? E considera un atto di guerra anche lo sterminio della famiglia Fogel, compreso lo sgozzamento di tre bambini di 11 anni, 4 anni e 3 mesi?
Alessandro Prosperi

Caro Prosperi,
Le sue domande sono state fatte da altri lettori, quasi tutti indignati dalla mia definizione. Cercherò di rispondere, ma le chiedo di dimenticare, almeno per un momento, le ragioni storiche, gli argomenti politici, le motivazioni morali e le accuse con cui ciascuno dei due contendenti giustifica se stesso e attribuisce all'altro la responsabilità di quanto è accaduto nella regione durante i 130 anni trascorsi dai primi insediamenti sionisti. Spogliata dalle grida retoriche e dalle affermazioni emotive che accompagnano tutti i conflitti, la questione palestinese, in ultima analisi, è lo scontro fra due popoli che si contendono la stessa terra. Il popolo A ha costruito il suo Stato su una parte della regione e occupa militarmente, o mantiene in stato d'isolamento, la parte restante. Il popolo B vuole la fine dell'occupazione e reclama l'indipendenza. In ambedue i campi, come accade normalmente in questi casi, vi sono falchi e colombe, vale a dire persone che desiderano lo scontro e altre che sperano di risolvere il problema con gli strumenti del dialogo e della diplomazia. Con qualche importante eccezione i falchi hanno avuto il sopravvento e alimentano una guerra continua, interrotta da qualche breve schiarita.
A differenza di altre guerre, combattute da forze regolari, questa è una guerra asimmetrica. Il popolo A dispone di un esercito, di un arsenale moderno, di un territorio in cui può preparare e organizzare le sue operazioni. Il popolo B non dispone, se non marginalmente, di questi mezzi e ricorre alle armi che sono state usate da tutti i movimenti di resistenza e liberazione degli ultimi decenni: gli attentati, le incursioni dei commando, i rapimenti. Non è tutto. Quanto più A riempie i suoi arsenali di armi moderne, tanto più B ricorre alle sole di cui dispone. Come altri lettori, lei punta il dito su certe forme di spietata crudeltà contro la popolazione civile. Rispondo ricordando che ci siamo appena lasciati alle spalle un secolo in cui la popolazione civile è stata continuamente usata ora come il tallone d'Achille dello schieramento avversario, ora come il migliore dei nascondigli possibili. Penso ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, alla guerra di Gaza, agli aerei senza pilota dell'aviazione americana che non possono eliminare un nemico se non colpendo tutti coloro dietro i quali si è nascosto.
Un'ultima osservazione, caro Prosperi. Finché si combatte, A considera i combattenti di B come criminali e li uccide o li condanna a lunghe pene detentive. Quando la guerra finisce, A libera quelli detenuti nelle sue carceri e riconosce così, a posteriori, che erano prigionieri di guerra. É accaduto in quasi tutte le guerre asimmetriche del Novecento e accadrà, sperabilmente, anche in quella fra Israele e i palestinesi.

Repubblica 9.11.11
L’ultimo Girard
Benvenuti nell’epoca della violenza “profana”
La società moderna si è emancipata dal sacro ma rischia un uso della forza indifferenziato
Nelle conversazioni con il teologo Wolfgang Palaver, l´antropologo sintetizza il suo pensiero: dai miti arcaici al terrorismo fondamentalista
Le religioni antiche orientano la furia su un individuo solo: è la nascita del sacrificio
di Roberto Esposito


Il cerchio dei persecutori si stringe intorno alla vittima, indifesa e terrorizzata. Essi ne cercano la carne, la straziano, si nutrono del suo tormento. L´ultimo grido si incide indelebilmente nella loro anima, finché l´angoscia e il senso di colpa si impadronisce di loro. Adesso si sentono a loro volta inseguiti e afferrati dalla morte che hanno dato. Poco alla volta si uniscono al pianto della vittima, collocandosi dalla parte del dolore. Ormai la "muta di persecuzione" è divenuta "muta del lamento". Questa scena, riprodotta in poche, rapide, sequenze in Massa e potere di Canetti, è distesa lungo le diverse fasi della civilizzazione umana da René Girard. Due conversazioni con il teologo Wolfgang Palaver, tenute a cavallo dell´11 settembre 2001, adesso tradotte da Cortina con il titolo Religione e violenza, ne sintetizzano il percorso iniziato cinquanta anni fa con il libro Menzogna romantica e verità romanzesca. Come si stringe il nodo tra religione e violenza? Quale delle due è causa, e quale effetto, dell´altra? E soprattutto, come si determina il passaggio – cruciale anche per la nostra condizione contemporanea – dalla concezione del sacrificio di una vittima innocente all´idea di potere sacrificare se stesso, o se stessi, a favore di altri? La tesi dell´autore è che all´inizio vi sia la violenza scatenata dal desiderio mimetico – vale a dire rivolto all´oggetto soltanto perché desiderato anche da altri. Come testimonia, oltre che l´esperienza quotidiana, la grande narrativa da Cervantes a Dostoevskij, A desidera B perché lo desidera anche C. Perciò la roba, o la donna, degli altri appare sempre più desiderabile ai nostri occhi. È tale rivalità, costitutiva del meccanismo stesso del desiderio, a provocare una violenza infinita, potenzialmente distruttiva del genere umano.
Solo a questo punto intervengono le religioni arcaiche in una forma che attutisce la violenza incorporandola, e cioè orientandola verso un singolo individuo. È l´origine del sacrificio rituale che si abbatte sul capro espiatorio. Uno scarto si apre nel cuore della violenza, per poi subito richiudersi intorno alla vittima designata. Essa sposta il proprio obiettivo: da tutti a uno – uno al posto di tutti. Nei miti fondatori delle religioni più antiche si ripete ossessivamente la stessa scena originaria, riprodotta anche in Totem e tabù di Freud. Qualcuno – spesso diverso anche fisicamente dagli altri – viene circondato e ucciso, attirando su di sé l´odio che altrimenti finirebbe per annientare l´intera comunità. In tal modo, tutt´altro che causa, la religione costituisce al contempo l´effetto e l´argine della violenza. Il cerchio della morte che si serra intorno la vittima è lo stesso che consente la sopravvivenza degli altri. Naturalmente, perché questo meccanismo possa funzionare, colui che ne è colpito deve essere considerato colpevole – solo così i suoi carnefici appaiono innocenti. I miti arcaici convergono tutti in questa direzione, fondendosi con le religioni del sacrificio.
Finché, ad un certo punto, qualcosa cambia – allorché una religione, quella ebraico-cristiana, staccandosi e contrapponendosi alle altre, rovescia non la realtà, ma l´interpretazione dell´evento sacrificale. Già nei Salmi, per la prima volta la vittima si ribella contro il linciaggio, dichiarando la propria innocenza. Ma è la Crocifissione a rompere definitivamente con il dispositivo vittimario – non salvando la vittima, ma identificando nella folla dei persecutori i veri colpevoli. È proprio lo spontaneo abbandono di Cristo alla loro violenza a riscrivere la storia dell´uomo da una diversa prospettiva che ristabilisce il vero discrimine tra colpa e innocenza. Quando Nietzsche accosta Dioniso e Cristo, coglie per primo la connessione tra mitologia e cristianesimo, senza però collocarsi a fianco delle vittime. Arrivato a lambire la verità, ma non potendo sostenere la sua luce accecante, egli si rifugia nella follia, mantenendo coperto il segreto che da millenni ci tiene prigionieri.
Che dire di simile prospettiva? Fino a che punto il racconto dell´autore appare convincente? Certo rispetto a chi, come Dawkins in L´illusione di Dio. Le ragioni per cui non credere (Mondadori 2007), attribuisce alla religione la responsabilità prima della violenza, l´intelligenza, e anche la suggestione, della ricostruzione di Girard è incomparabile. Per quanto riguarda il terrorismo fondamentalista esploso in questi anni, egli non lo riconduce a una matrice teologica, ma piuttosto ad una politicizzazione parossistica della religione. Intanto non bisogna dimenticare che, nonostante derivi anch´esso dall´ebraismo, il monoteismo islamico resta lontano dal cristianesimo, proprio perché non ammette la possibilità della sofferenza di Dio, precludendosi in questo modo il significato del meccanismo sacrificale. Ma ciò che conta è soprattutto la differenza tra il monoteismo religioso e quello politico. A differenza del primo, questo finisce per riattivare la spinta indifferenziata della violenza nella misura in cui antepone la potenza alla verità. Per questo Girard vede nel mondo contemporaneo da un lato una radicale diminuzione di violenza, dovuta allo svelamento del meccanismo vittimario, ma dall´altro la possibilità catastrofica, resa tangibile dagli armamenti nucleari, di una moltiplicazione delle vittime. Emancipandosi dal sacro, le nostre società si liberano della violenza che esso produceva ma anche dello schermo protettivo che costituiva nei confronti di una violenza indifferenziata. E come se la società moderna, finalmente sciolta dall´imposizione del sacrificio, perdesse anche la verità rovesciata che esso conteneva, portata finalmente alla luce dalla religione cristiana.
E tuttavia, nonostante la ricchezza del suo ragionamento, proprio in questo riferimento alla verità della Croce il discorso di Girard sembra mostrare un doppio limite. Prima di tutto perché non tiene conto della teologia della Gloria in cui quella della Croce si è troppe volte capovolta. E poi perché, facendo della fede, necessariamente insicura, e anche "irragionevole", l´espressione di una verità, e anzi dell´unica verità, rischia di rimettere in moto la medesima logica escludente, e dunque anche potenzialmente sacrificale, che aveva inteso denunciare. Cosa c´era, al fondo della menzogna oscena del sacrificio, se non la pretesa di uccidere in nome di una verità più potente di una semplice vita umana?

l’Unità 9.11.11
I neutrini? Facciamo scienza non spettacolo
Parla Antonio Ereditato direttore del team di fisici dell’esperimento Opera, che domani a Napoli incontrerà per la prima volta il pubblico dopo l’eccitante rivelazione che le particelle viaggerebbero più veloci della luce «Fra sei mesi circa i risultati degli esperimenti giapponesi e americani»
di Cristiana Pulcinelli


Antonio Ereditato dice che bisogna mantenere un po’ di sangue freddo. Lui lo sa fare, lo si vede da come sta gestendo il putiferio che è seguito a quel semplice articolo pubblicato il 23 settembre scorso su arXiv.org dal team di fisici dell’esperimento Opera che dirige. L’articolo riportava una misura insieme eccitante e scomoda: i neutrini che vanno dal Cern di Ginevra al Gran Sasso viaggerebbero, secondo quella misurazione, a una velocità più alta di quella della luce. Per la precisione, impiegherebbero 60 miliardesimi di secondo in meno. Poco, ma abbastanza per rimettere in discussione i modelli correnti della fisica, basati sulla teoria della relatività di Einstein. E abbastanza, secondo qualcuno, per mettere in crisi concetti come «prima e dopo» o «causa e effetto».
Sarebbe facile farsi tentare dalla filosofia, ma Ereditato mantiene il sangue freddo: «La più bella teoria non potrà mai dire se un esperimento è giusto o sbagliato. Quindi semplicemente non penso a quello che vuol dire dal punto di vista teorico. Aspetto i risultati sperimentali di altre misure indipendenti». Domani Ereditato sarà alla Città della scienza di Napoli a inaugurare Futuro Remoto 2011. La sua prima uscita pubblica dopo il 23 settembre in un contesto fatto non di colleghi, ma di persone curiose e interessate alla scienza. Professor Ereditato, partiamo da qui: perché ha scelto di andare a parlare di neutrini al pubblico di Futuro Remoto?
«Città della scienza mi piace, trovo la mostra Futuro Remoto sempre molto bella. E poi io sono napoletano. Certo, non farò un discorso tecnico».
Lo sa che c’è un grande interesse intorno al vostro risultato anche da parte di chi non conosce la fisica?
«Lo so ed è una grossa responsabilità. Una cosa che avesse un impatto mediatico più grande di questa non la potevamo trovare, per fortuna posso dire che non l’abbiamo fatto apposta. Noi facciamo scienza, non show. Il fatto è che tocca le corde dell’immaginario collettivo: si parla di velocità della luce, di relatività, di Einstein. Gli archetipi della scienza. Spero però in un effetto positivo: comunque andrà questa storia, il nostro lavoro ha suscitato un interesse per la fisica, per la scienza, per la ricerca. Se questo vorrà dire che avremo più studenti a fisica, ben venga».
Siete stati molto cauti nel dare la notizia dei risultati del vostro esperimento. Ad esempio siete molto attenti a non parlare mai di «scoperta». Come mai?
«Ogniqualvolta si produce un risultato scientifico, la cautela è d’obbligo. Gli scienziati non sono gli uomini delle certezze, ma del dubbio. Tant’è vero che quando facciamo una misura, ci mettiamo sempre l’errore, che poi non è altro che la misura dell’incertezza del risultato. Quando poi si tratta di qualcosa che ha potenzialmente un grande impatto, come questa nostra misurazione, allora la cautela è doppiamente d’obbligo».
Ora cosa si sta facendo per verificare i vostri risultati?
«Sappiamo che per confermare i nostri risultati abbiamo bisogno di verifiche indipendenti, fatte da altri ricercatori. E infatti abbiamo chiesto alla comunità scientifica di ripetere la stessa misura. Al momento i colleghi americani e quelli giapponesi sono i primi candidati a fare questa verifica. In particolare, l’esperimento Minos negli Stati Uniti e l’esperimento T2K in Giappone stanno lavorando in questa direzione. Ci vorranno da sei mesi a due anni per avere dei risultati». Nel frattempo, voi di Opera che fate?
«Noi continuiamo il nostro lavoro. In un certo senso siamo avvantaggiati rispetto agli altri perché la misura l’abbiamo già fatta. Ora si tratta di ripetere l’esperimento, ma modificando qualcosa, come se fosse fatto da qualcun altro. Nelle ultime 2 settimane, ad esempio, abbiamo fatto funzionare l’esperimento con un fascio di neutrini diverso e questo ci permetterà di capire qualcosa in più».
Quali sono gli errori che potreste aver fatto?
«Quando noi parliamo di “errore” non ci riferiamo a quello che il linguaggio comune chiama “sbaglio”. Per noi fisici l’errore è l’incertezza. Tutte le misure hanno un’incertezza, ma questa incertezza può essere più o meno grande. Un esempio: io posso dire che il mio tavolo è lungo un metro con un’incertezza di più o meno 50 centimetri, oppure che il mio tavolo è lungo un metro con un’incertezza di più o meno un millimetro. Nel primo caso la misura è poco accurata, nel secondo la misura è molto accurata. Ecco, nel caso dei neutrini la nostra misura è molto accurata e l’incertezza è piccola. Ciò non toglie che ci possano essere incertezze di cui non conosciamo l’esistenza. Certo non devono essere tanto facili da trovare visto che, dopo 46 giorni dall’uscita dell’articolo e dopo oltre 700 e mail ricevute, nessuno ha individuato ancora la magagna».
Anni di misurazioni, di calcoli e di attesa per verificare un risultato. Professor Ereditato ci spiega perché un ragazzo dovrebbe fare questo lavoro?
«Perché è il mestiere più bello del mondo: scoprire quello che abbiamo attorno a noi, da dove veniamo, dove andiamo, come siamo fatti. Cos’altro c’è di così eccitante?».

Repubblica 9.11.11
Mostre e incontri a "Futuro remoto"
Fidatevi del super neutrino
“Più veloci della luce, abbiamo nuovi dati”
di Luca Fraioli


Parla Antonio Ereditato, del Cern di Ginevra, responsabile del celebre esperimento che può cambiare la fisica
"A noi scienziati piace costruire meravigliosi castelli di sabbia che poi distruggiamo per farne di nuovi"
"Finora abbiamo avuto solo conferme. E anche americani e giapponesi stanno lavorando nella stessa direzione"

A fine settembre ha sconvolto il mondo della scienza. Ha "osato" sfidare Albert Einstein e la sua Teoria della relatività, dimostrando, dati alla mano, che quella della luce potrebbe non essere la massima velocità raggiungibile in natura: i neutrini sparati dal Cern di Ginevra verso i laboratori del Gran Sasso vanno più forte, molto più forte. La comunità dei fisici è andata in fibrillazione: c´è chi ha iniziato la caccia all´errore (nell´esperimento) e chi la caccia alla teoria alternativa, capace di spiegare un fenomeno imprevisto. Ma l´annuncio di Antonio Ereditato, 56enne napoletano trapiantato all´Università di Berna, ha scatenato anche la fantasia della gente comune. «Abbiamo ricevuto centinaia di mail con le più disparate spiegazioni di ciò che avevamo osservato» conferma il fisico responsabile dell´esperimento Opera al Cern.
Chi vi ha scritto, professor Ereditato?
«I soliti mitomani che si credono novelli Einstein. Ma soprattutto tanti, tantissimi giovani. Ed è la cosa più bella di questa storia, comunque vada a finire: i neutrini più veloci della luce hanno risvegliato l´interesse dei ragazzi per la scienza. Ed è su di loro che bisogna investire, perché hanno la curiosità e la voglia di cambiare che è il motore del progresso».
Cosa suggeriscono questi giovani aspiranti scienziati ai fisici del Cern?
«Un ragazzo americano all´ultimo anno di high school mi ha chiesto se avevamo tenuto conto della curvatura della superficie terrestre. Un altro voleva sapere se nel calcolare la velocità dei neutrini avevamo tenuto conto della rotazione terrestre. Altri ancora ci hanno ricordato che la velocità della luce è diversa a seconda che viaggi nel vuoto o in un materiale, con tanto di calcoli matematici. Insomma, considerazioni un po´ ingenue, ma li abbiamo comunque ringraziati dell´aiuto».
A un mese e mezzo di distanza i vostri neutrini continuano ad andare più veloci della luce?
«Sì, l´effetto che abbiamo registrato è ancora lì. L´esperimento è stato passato di nuovo al setaccio ma finora non è stato trovato alcun "errore". Quindi al momento la bontà del risultato è confermata».
Oltre a ricontrollare i vecchi dati, avete fatto nuove misurazioni? Avete sparato nuovi fasci di neutrini verso il Gran Sasso?
«Sì, l´ultimo un test si è concluso domenica scorsa. Abbiamo inviato neutrini in un "formato" diverso rispetto a quello usato nel corso dei mesi precedenti. È una prova importante perché ci permetterà di studiare meglio tutti i dati che abbiamo raccolto in passato, ma i risultati li conosceremo nei prossimi giorni».
E per il futuro avete in programma nuove "campagne" di misurazione della velocità dei neutrini?
«Certo, non ci fermeremo finché non avremo la spiegazione di questo fenomeno. Avendo sollevato noi il problema, abbiamo il diritto-dovere di fare ulteriori verifiche».
Anche i fisici americani e giapponesi si stanno mettendo all´opera.
«Ed è giusto che sia così. Nella comunità scientifica c´è sì competizione, ma soprattutto grande collaborazione. Dopo il nostro annuncio, gli americani hanno iniziato a riesaminare i vecchi dati in loro possesso che mostravano un effetto simile. E presto dovrebbero ricominciare a misurare la velocità dei neutrini sparati dal Fermilab di Chicago. Anche i colleghi giapponesi hanno la tecnologia per ripetere il nostro esperimento. Li ho incontrati nei giorni scorsi e mi hanno confermato che stanno procedendo, anche se c´è qualche problema con i finanziamenti».
Torniamo ai giorni dell´annuncio: si è polemizzato sul fatto che alcuni fisici, pur avendo partecipando all´esperimento, non hanno firmato la ricerca.
«La classica tempesta in un bicchier d´acqua. Sono stato io a chiedere, conscio della delicatezza dell´annuncio, di sottoscrivere l´articolo solo se si era davvero convinti. Il risultato è che su un gruppo di 160 ricercatori sei o sette hanno preferito non firmare».
Ma ora quei sei o sette cosa fanno?
«Lavorano con noi per cercare una soluzione a questo rompicapo, naturalmente».
Lei che idea si è fatto? Perché i neutrini vanno più veloci della luce?
«Sono concentrato nel consolidare i dati raccolti, preferisco non addentrarmi nella loro interpretazione. E c´è un motivo».
Quale?
«Le interpretazioni possibili si dividono in due categorie. 1) l´effetto osservato è vero. 2) l´effetto osservato non è vero perché c´è un "inghippo" nell´esperimento. Ma siamo troppo lontani dalla prima ipotesi, abbiamo ancora moltissimo da fare prima di poter dire con certezza che i neutrini vanno più veloci della luce. E d´altra parte, la seconda ipotesi non sta in piedi, perché finora, nonostante le ripetute verifiche, non è stato trovato alcun "inghippo". Ecco perché preferisco girare alla larga delle interpretazioni. Mi sono imposto di non pensarci».
Non sarà che vuole evitare di pensare alle "conseguenze"? Se i suoi risultati fossero confermati farebbero crollare il mito di Einstein e della Relatività. Una bella responsabilità.
«Non è detto. Einstein formulando la Relatività non ha affatto sancito che Newton aveva sbagliato, ha solo esteso il raggio d´azione della teoria. Tanto è vero che se dobbiamo calcolare le traiettorie dei pianeti continuiamo a usare le formule di Newton, mica quelle di Einstein. Alle stesso modo il nostro risultato potrebbe portare non alla cancellazione della Relatività, ma a un suo ampliamento».
Ci sono due possibilità: che la comunità scientifica trovi l´"inghippo" nell´esperimento, confermando la validità delle teorie attuali, oppure che il vostro risultato resista alle verifiche e apra una fase completamente nuova. In tal caso sarebbe una scoperta da Nobel. In cuor suo cosa si augura?
«Faccio il fisico da trent´anni, mi considero un professionista e voglio conservare un certo distacco. Il nostro mestiere è quello di fare misure: più siamo distaccati e meglio le facciamo. Noi scienziati siamo come i bambini sulla spiaggia: costruiamo bellissimi castelli di sabbia, ma siamo pronti a saltarci su e a disfarli per andare oltre, per costruirne di nuovi».
Domani racconterà tutto questo per la prima volta davanti a un pubblico italiano di non addetti ai lavori: la sua conferenza inaugurerà a Napoli la manifestazione Futuro Remoto. La verità sui neutrini superveloci la conosceremo in un futuro prossimo?
«La scienza ha i suoi tempi, a volte anche molto lenti. In questo caso spero proprio non siano remoti».

Repubblica 9.11.11
Un libro ricostruisce l'origine dei vitigni moderni

Quando i romani crearono il vino
Marco Aurelio Probo incaricò i legionari di piantare viti nei territori conquistati. È uno dei punti del saggio di Giovanni Negri e Elisabetta Petrini
di Marino Niola

C´è una cosa che gli Italiani non sanno e che i Francesi non vogliono sapere. Che a fare la gloria dei grandi vini d´Oltralpe sono stati i Romani. Con buona pace dei Galli e di Asterix. Lo dicono Giovanni Negri e Elisabetta Petrini, autori di Roma caput vini. La sorprendente scoperta che cambia il mondo del vino, (Mondadori, pagg. 216, euro 18). Gli autori, sulla scorta di uno screening genetico di tutta la viticultura europea, riscrivono la storia del vecchio mondo in chiave enologica. Dando a Cesare quel che è di Cesare. Se è vero, infatti, che i Greci sono stati i primi esportatori di grandi crus, come il leggendario rosso di Chios, è solo con l´avanzata delle legioni capitoline che la vite è arrivata ai quattro angoli del globo. E il vino è diventato un consumo di massa, una bevanda per tutti.
Grazie a una pensata geniale di Marco Aurelio Probo, imperatore tra il 276 e il 282 dopo Cristo, che in soli sei anni ha ridisegnato la geografia enogastronomica del mondo antico e posto le basi di quella moderna. Trasformando i suoi legionari in vignaioli con il compito di piantare viti in tutti i territori conquistati. Per produrre in loco il vino per le truppe tagliando drasticamente i costi del trasporto. In questo modo la Pannonia, l´Illiria, la Dalmazia, la Gallia, l´Iberia diventano altrettanti chateaux, tutti al servizio dell´imperatore. Che si può considerare il primo esempio di grande propriétaire récoltant.
E che tutte le grandi bottiglie del vecchio continente, dalla Borgogna alla Mosella, dal Bordolese al Reno discendano dai gloriosi tralci quiriti lo confermano i loro nomi. Che gli autori ripassano in rassegna facendo apparire dietro denominazioni apparentemente autoctone una discendenza che più latina non si può. A cominciare dall´etichetta più prestigiosa del mondo, quella Romanée Conti che prende l´appellativo dal fazzoletto di terra che i Borgognoni chiamarono romana per mostrarsi grati all´imperatore Probo. E l´aristocraticissimo Mersault non è altro che il muris saltus, letteralmente salto del topo. Mentre lo Champagne deriva dalla parola campus, la stessa da cui viene Campania. Che fu la terra del Falerno, del Cecubo e del Surrentinum, le più esclusive appellations dell´antichità. Insieme alla falanghina che era il vino di pronta beva per le falangi. Una sorta di razione kappa per tenere alto l´umore della truppa.
Tanti doc per una sola origine. L´infinita fantasmagoria di colori, odori, sapori della tavolozza enologica contemporanea insomma discende quasi esclusivamente da uno stesso ceppo.. Che i Romani chiamano semplicemente nostrum, come dire nostrano. E che nel medioevo, diventerà Heunisch che in tedesco vuol dire la stessa cosa. Una specie di Adamo dei grappoli che troverà la sua Eva nel Frankisch, che significa semplicemente Altro, forestiero. Dal matrimonio nascerà il 75 per cento dei vitigni europei, dallo Chardonnay al Pinot, dal Traminer al Sauvignon, dalla Schiava al Nebbiolo di Dronero. Figli ma anche figliastri. Che spesso hanno altrettanta fortuna degli eredi legittimi. Un esempio per tutti, il Chianti così detto dal gentilizio etrusco Clanti, letteralmente figliastro.
Mettendo insieme storia e genetica, gli autori ricostruiscono l´intero albero genealogico del nettare di Bacco. Ma anche le ragioni sociali della sua irresistibile ascesa. Che ne fa la bevanda simbolo dell´imperialismo romano. Esattamente come la Coca Cola lo è di quello americano. E proprio nella distanza tra il succo della vite e la bibita alla cola Negri e Petrini misurano la distanza tra l´impero di ieri e quello di oggi. Fra Roma e New York. Fra Manhattan e i fori. Fra i lupanari di Pompei e le slots di Las Vegas. Fra Dioniso e Babbo Natale. Fra fornicatio e Californication. Insomma tra una civiltà dove le bollicine sono l´effetto di un fermento divino e un´altra dove è tutta questione di bicarbonato.