giovedì 10 novembre 2011

Intervista a Pier Luigi Bersani
l’Unità 10.11.11
«L’Italia prima di tutto
Sì a un governo diverso ma niente ribaltoni»
Il segretario del Pd: «Basta con i giochetti. Ora un esecutivo di emergenza per fermare la crisi sui mercati. Se la destra non ci sta, subito alle elezioni»
La spinta della piazza: «La nostra manifestazione è stata determinante per l’esito della crisi. Chi è venuto a Roma non lo ha fatto per niente»
di Simone Collini


Questo governo ci ha precipitati nel discredito, nell’umiliazione, nella totale mancanza di credibilità». La preoccupazione per l’andamento della Borsa e per il nuovo record segnato dai tassi d’interesse dei Buoni del tesoro sembra quasi superare la soddisfazione per le annunciate dimissioni di Berlusconi. Dice Pier Luigi Bersani che la soddisfazione è «per come abbiamo condotto una battaglia che si sta rivelando positiva, per come abbiamo indotto il Parlamento a certificare la crisi della maggioranza col voto, e per come abbiamo ottenuto l’accelerazione della fase politica». Oggi viviamo «un disastro annunciato», dice guardando ai dati economici. «Almeno da noi». Il leader del Pd parla nel suo studio a Montecitorio. Lo sguardo è ora rivolto a domenica quando, «se il Presidente della Repubblica ritiene, c’è la possibilità di iniziare le consultazioni».
I mercati non si sono fidati dell’annuncio di dimissioni del premier? «Tutto il mondo ormai lo conosce, i suoi gesti non sono mai senza ombre. E ringraziamo il Capo dello Stato che con una nota ha messo in chiaro che non c’è nessuna incertezza sulle dimissioni di Berlusconi e che sono infondati i timori di una prolungata inattività governativa». Napolitano in quella nota ha scritto: nuovo governo o voto.
«La stessa alternativa di cui parlo ormai da un anno, e che è stata testardamente impedita da una maggioranza che di fronte ai problemi del Paese si è dimostrata totalmente irresponsabile. Ora, su spinta dell’opposizione e per vie parlamentari, siamo arrivati a una svolta. Sono soddisfatto, ma ora c’è l’esigenza di accorciare i tempi per l’approvazione della legge di stabilità e per le dimissioni. Abbiamo dato la nostra disponibilità ad ogni forma di accelerazione, anche se nel merito continueremo ad opporci».
Lei vede le condizioni per un nuovo governo?
«Non ho la sfera di cristallo, quello che però posso dire è che noi siamo pronti a fare la nostra parte a sostegno di un governo di transizione che abbia la necessaria credibilità sul piano internazionale per attuare misure eque e far fronte a un’emergenza conclamata».
Oltre a quelli di Pd, Idv e Terzo polo servirebbero una sessantina di altri parlamentari del centrodestra per dar vita a una maggioranza stabile. Difficile però che ci sia un tale smottamento nel Pdl, non crede?
«Chiariamo subito, la nostra proposta non comporta in nessun modo ipotesi di ribaltoni o la ricerca di frange di supporto al margine. Opzioni Scilipoti, per intenderci, non ci interessano. Ci deve essere un larghissimo coinvolgimento, una presa di coscienza della situazione in cui versa il Paese e un’ampia assunzione di responsabilità». Allora la vostra è una disponibilità condizionata...
«Ma certo che poniamo delle condizioni. E sono le stesse condizioni che richiede la realtà: un governo credibile e che segni una netta discontinuità. Adesso quel che serve non è una maggioranza abborracciata, fatta con pezzi di partiti, non è un ribaltone o un aggiustamento con qualche transfuga. Non ci crederebbe nessuno». Che il Pdl come partito appoggi il nuovo governo è però difficile visto che Berlusconi ha già detto che dopo di lui c’è il voto, non crede?
«È indecente che il presidente del Consiglio dimissionario indichi la strada. Sono parole che non voglio neanche prendere in considerazione e aspetto le valutazioni del Capo dello Stato, le sue consultazioni».
Ha considerato il rischio che tutto il peso del nuovo esecutivo, con un disimpegno di Berlusconi, nei principi o nei fatti, gravi su di voi?
«Il Pd deve innanzitutto preoccuparsi del fatto che l’Italia è in pericolo, che viviamo il momento più difficile dal dopoguerra ad oggi. L’intera classe dirigente, se è degna di questo nome, ha gli strumenti per vedere che sono in gioco posti di lavoro, redditi, risparmi. Dopodiché se non c’è un’assunzione di responsabilità seria, bisognerà registrare che non ci sono le condizioni per un governo di emergenza. Dovrà però essere chiaro che noi saremo gli ultimi a staccare la spina a questa ipotesi. Noi ci siamo, ci crediamo, e se per volontà della destra non sarà possibile dar vita a un nuovo governo si vada subito ad elezioni. Noi non abbiamo paura di andare al voto». Pensa sia ancora possibile andarci con un’alleanza tra progressisti e moderati?
«Certo, l’ho voluto anche dire davanti alla nostra gente, tutti quelli che sabato sono venuti a San Giovanni, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, e che non hanno fatto il viaggio per niente! Quella manifestazione è stata determinante per lo sviluppo politico, abbiamo fatto vedere la forza di cui disponiamo».
Perché insistere sull’alleanza col Terzo polo ora che i sondaggi danno il centrosinistra sette punti avanti il centrodestra?
«Proprio ora che l’emergenza si fa più evidente aumentano le ragioni della nostra proposta. Il tramonto di Berlusconi pone il problema di una ricostruzione economica, sociale, democratica. E allora tutti sono chiamati a decidere da che parte stare, se dal lato del modello populista o se fare la scelta democratica e per un nuovo patto sociale. Di quà o di là, non ci saranno alternative».
I due alleati del centrosinistra intanto sembrano pensarla diversamente da lei circa lo sbocco della crisi e la necessità di un governo di transizione. «Non mi risulta che Di Pietro o Vendola abbiano detto qualcosa di diverso, anche se Di Pietro ha espresso una preferenza per le elezioni anticipate. Ma se ha cambiato idea lo dirà al Capo dello Stato. Sia chiaro che c’è la politica e c’è anche il politicismo, ma prima c’è l’Italia».
Chi pensa debba guidare il governo di emergenza?
«I nomi spettano al Presidente della Repubblica. Quello che io penso è che debbano essere nomi coerenti col problema che abbiamo di fronte, che riguarda il piano economico e finanziario e che si pone anche sul fronte internazionale. La ricerca va fatta in quella direzione».
Come giudica la nomina da parte del Quirinale di Monti a senatore a vita? «È una scelta eccellente, arricchirà il Parlamento di un tratto di personalità e di esperienza preziosi».
Come vi comporterete di fronte alla legge di stabilità?
«Se corrisponde a quanto abbiamo letto fin qui voteremo contro. Se ci saranno novità, le valuteremo assieme alle altre proposte. Ma faremo in modo che questa agonia duri il meno possibile. Dobbiamo chiudere in fretta questa fase e, se il Presidente lo ritiene, c’è la possibilità di iniziare le consultazioni già domenica».
È ipotizzabile che il nuovo governo arrivi a fine legislatura o prevede che in ogni caso si voterà prima del 2013? «Non si possono fissare scadenze, un governo si tara non mettendo date ma dando obiettivi. La prima criticità sottaciuta, che il nuovo esecutivo dovrà risolvere, è che la manovra approvata prevede per il 2012-2013 20 miliardi reperibili nella delega assistenziale. Si tratta di una vera e propria bomba ad orologeria perché il governo vuole prendere 20 miliardi da dove non ci sono. È solo un primo esempio. Noi ribadiamo l’esigenza e l’impegno per il pareggio di bilancio, ma le misure che dovrà attuare il nuovo governo non potranno essere a carico dei lavoratori e della povera gente».

in serata, al coordinamento del Pd, Bersani ha usato parole molto impegnative: «Per le responsabilità che prenderà verso il Paese, il Pd può diventare il partito del secolo...».
dal Corsera

l’Unità 10.11.11
L’opposizione: tempi rapidi per l’uscita di scena di Berlusconi
Le opposizioni accelerano i tempi dell’approvazione del maximendamento per arrivare alle dimissioni di Berlusconi già domenica. Pd e Udc lavorano al logoramento del Pdl per il governo di transizione a guida Monti.
di Maria Zegarelli


Accelerare i tempi per arrivare alle dimissioni di Silvio Berlusconi già sabato sera, al più tardi domenica, dopo il via definitivo al maxiemendamento e poi subito un primo giro di consultazioni al Quirinale. È stata questa la linea delle opposizioni che ieri mattina hanno iniziato la girandola di incontri per decidere come procedere con l’approvazione dell’assestamento di Bilancio alla Camerache alla fine ha avuto il via con 283 sì e un numero legale raggiunto per appena sette voti e poi della modifica della legge di stabilità. Non voto all’assestamento di Bilancio, come è accaduto martedì scorso con il Rendiconto dello Stato, mentre per il maxiemendamento la decisione arriverà dopo l’esame del testo, anche se Antonio Di Pietro già ora annuncia che non voterà la «macelleria sociale» che si annuncia. L’opposizione, non presenterà subemendamenti, come d’altra parte la maggioranza, e il Pd, annuncia la capogruppo Finocchiaro, «farà solo alcuni interventi in discussione generale e una sola dichiarazione di voto».
L’accelerazione è stata sì imposta dalla necessità di stringere i tempi sulle dimissioni di Silvio Berlusconi ma soprattutto da un’altra drammatica giornata che ha visto la borsa precipitare e lo spread schizzare ben oltre il livello di guardia, tanto da spingere il Capo dello Stato a diffondere una nota mirata ad arginare il disastro finanziario. Altro segnale del precipitare dei tempi è stata la nomina di Mario Monti a senatore a vita, l’uomo a cui tutti guardano come la possibile guida di un governo di transizione. Nomina salutata da Pier Ferdinando Casini come «una splendida notizia per tutti gli italiani. Certamente Mario Monti è l'emblema di quei cittadini meritevoli che onorano la Patria. Da oggi rafforzerà il prestigio del Parlamento in una fase difficile della nostra vita democratica».
Una «scelta eccellente» per il segretario Pd Pier Luigi Bersani, che aggiunge: «Sono sicuro che arricchirà il parlamento di un tratto di personalità e di esperienza assolutamente preziosi». Il primo passo verso il giro di consultazioni al Colle, a cui Pd e Terzo Polo hanno lavorato alacremente anche durante queste ultime ore. È stato Casini a portare avanti il lavoro di logoramento ai fianchi del Pdl perché il governo di transizione ha una chance soltanto nella misura in cui il sostegno al nuovo esecutivo arriva con ampi numeri garantiti non dagli Scilipoti di turno ma da nomi di peso. Beppe Fioroni si sbilancia: «Sarà lo stesso Pdl a volerlo perché altri tre giorni di tempesta finanziaria e poi lo voglio vedere Berlusconi annunciare la campagna elettorale». Walter Veltroni a Rainews24 auspica «tempi molti rapidi», giorni, «poche ore». E lo ribadisce durante il caminetto convocato alle otto di sera al Nazareno, durante il quale tutti i big sono sostanzialmente sulla stessa linea. Enrico Letta aprendo la discussione dice: «Massima fiducia al Colle», ottimo il segnale della nomina di Monti, il Pd è pronto a fare la sua parte e se alla fine non «si dovessero creare le condizioni» per il governo di transizione, allora si va al voto. Massimo D’Alema sonda gli umori del Parlamento: non sono orientati per le urne.
Ma se il Pd trova la quadra, dall’Idv Di Pietro mette le mani avanti: «Napolitano sta svolgendo un ruolo importante e fondamentale vedremo che frutti porterà, noi preferiamo le elezioni perché non possiamo accettare alternative al buio». Anche Sel con Gennaro Migliore torna a chiedere il voto, ma Bersani, che è in continuo contatto, replica: «Noi chiediamo un governo di emergenza nazionale. Non mi risulta che Vendola o Di Pietro abbiano detto cose diverse: se hanno cambiato idea, lo diranno al Capo dello Stato perché c’è la politica ma prima c’è l’Italia». Un deputato Pd è certo: «Di Pietro non dirà no ad un governo Monti».

Repubblica 10.11.11
Bersani e Casini pronti alla svolta "È per l´Italia, non sarà un ribaltone"
D’Alema: dare segnali forti. Veltroni: dimezzare i parlamentari
Il segretario dei democratici avverte Di Pietro e Vendola: "Vogliono il voto? Lo dicano al Colle"
di Giovanna Casadio


ROMA - L´accelerazione sulla legge di stabilità è cosa fatta. Consente di archiviare già lunedì le dimissioni alla moviola, ultimo regalo avvelenato di Berlusconi al paese, come il mercoledì nero dei mercati dimostra. La sfida ora è un´altra: è il "sì" al governo di responsabilità nazionale con Mario Monti alla guida, magari in un ticket con Giuliano Amato. Sono gli incontri (Casini e Bersani hanno un lungo colloquio prima della riunione dei deputati democratici), i colloqui con il Quirinale, e a sera la riunione del "caminetto" dei Democratici, a scandire la giornata di Pd e Terzo Polo. Bersani e Casini dichiarano di essere pronti a salire al Colle per chiedere un governo di larghe intese. Il segretario democratico e il leader centrista ripetono che «nessuno vuole ribaltoni», nessuno pensa a operazioni di piccolo cabotaggio con una maggioranza raccogliticcia. «Noi siamo pronti perché qui c´è di mezzo il paese», è il leit motiv del "caminetto" al Nazareno. Nelle conclusioni, Bersani ribadisce: «No ribaltoni, no a governi Scilipoti. L´operazione del governo di emergenza deve essere vera, ampia, credibile altrimenti non si salva il paese. La svolta deve essere discontinua, autorevole anche nel modo di presentarsi al mondo. Da tempo avevamo visto i rischi che correva il paese, adesso a quel bivio ci siamo arrivati». E sul partito: «Il Pd può diventare il partito del secolo».
Casini al Tg1 afferma che «ci vuole una corresponsabilità delle forze maggiori» e dà per acquisito anche il senso di responsabilità di Berlusconi. Poco prima, al Tg3, il segretario dei Democratici aveva assicurato: «Il Pd da un anno dice: o un governo diverso o andiamo a elezioni se no siamo nei guai seri e ora ci siamo. Noi abbiamo in mente solo l´Italia». E bacchetta Di Pietro e Vendola se si intesteranno battaglie "politiciste", rompendo il fronte della responsabilità per invocare elezioni: «Lo diranno loro al Colle. Sia chiaro che c´è la politica, c´è il politicismo ma prima c´è l´Italia». Consapevolezza e responsabilità è quanto garantisce Bersani nella telefonata con il presidente Napolitano. Al Senato vengono tradotti da Anna Finocchiaro, la capogruppo, in una linea chiara: lettera comune delle opposizioni a Schifani per fare in fretta e approvare domani la legge di stabilità; "no" al provvedimento (o non partecipazione al voto) ma sono ritirati tutti gli emendamenti. Idem Franceschini alla Camera.
Enrico Letta, aprendo la riunione del coordinamento democratico, ringrazia il capo dello Stato («Piena fiducia nella guida della crisi da parte di Napolitano») e giudica la nomina di Monti a senatore a vita una sorta di investitura. Il Pd è per un governo tecnico - conferma - «ma senza ipotesi ribaltonesche» e mette sul piatto anche la legge elettorale. Si parla nel "caminetto" delle condizioni perché un governo tecnico nasca. D´Alema chiede che dia segnali politici forti. Veltroni pensa a un esecutivo snello, con l´obiettivo di snellire la politica (dimezzare i parlamentari e abolire le province) e nel segno dell´equità. Aggiunge, però: «Dobbiamo essere tutti convinti di quello che stiamo facendo». «Il partito sia unito», invita Ermete Realacci citando un detto ebraico "Che tu possa vivere tempi interessanti". Si smarca Stefano Fassina, il responsabile economia del Pd: «Stiamo attenti a un governo di responsabilità, potrebbe essere meglio il voto». All´opposto, Fioroni non vuole sentire parlare di un governo di larghe intese solo per tre mesi. Che senso avrebbe? Ne discute animatamente in Transatlantico con Rosy Bindi, tra le più convinte sostenitrici delle larghe intese, che lo rassicura: «Nessuno pensa a quest´ipotesi».

Repubblica 10.11.11
Si incrina il patto di Vasto, ma i due leader si riservano ancora di valutare l´ipotesi delle larghe intese
Di Pietro e Vendola insistono sul voto "Monti? Non si compra a scatola chiusa"
L’ex pm: "Andare al governo ad ingoiare rospi? Perché? Con chi? E per fare cosa?"
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - Cupo e pensieroso. Così appare Antonio Di Pietro nelle ore che seguono la caduta di Silvio Berlusconi. L´ex magistrato, l´eterno nemico, appare spiazzato come e più del Pd. La scelta del governissimo non gli piace per niente. Lo ha detto subito. Lo ripete a ora di pranzo al Tg1: si vada a elezioni anticipate, qualsiasi altra soluzione è «un inciucio che serve solo a rimanere attaccati alla poltrona». Poche ore più tardi, in Transatlantico, è più cauto: «Per ora diciamo no a qualcosa che non c´è, che non sappiamo da chi verrà guidato, da chi verrà sostenuto e per fare cosa». A sera infine, dopo la nomina di Mario Monti a senatore a vita, dopo che la nascita di un governo guidato dall´ex commissario europeo diventa qualcosa più di una voce, il leader dell´Italia dei Valori spiega a Repubblica: «A scatola chiusa non prendiamo niente. Da parte nostra ci sono grande rispetto e stima per il professor Monti, per il senatore Monti, ma così come non accettiamo le misure di macelleria sociale che ha in mente il governo, non le accetteremo da lui perché ha la faccia pulita». Di Pietro non crede che a un governissimo con tutti dentro abbia senso arrivare: «Le soluzioni a 360 gradi non funzionano, noi siamo per il sistema bipolare. Andare al governo a ingoiare rospi? E perché mai? Con chi? Per fare cosa?».
E´ qui, che la foto di Vasto sbiadisce. L´emblema dell´accordo con Bersani e Vendola ha bisogno - per restare nitido e fermo - che ci sia intesa sui passi da compiere, condivisione sulle misure necessarie a combattere la crisi. Di Pietro dice chiaro: cominciamo col tagliare i costi della politica e della casta, che sono strutturali. E´ da lì che si parte, non da pensioni e licenziamenti. Altrettanto chiaro il messaggio che arriva da Sinistra Ecologia e Libertà. Vendola è in Cina, i suoi tengono a dire di non sottovalutare affatto la crisi, ma di non credere che - in alcun modo - il governo tecnico possa essere la medicina giusta. Gennaro Migliore è cauto: «C´è bisogno di avere il massimo senso di responsabilità». Quindi, Sel valuterà passo passo le decisioni del presidente Napolitano, le rispetta, apprezza la mossa di ieri - l´accelerazione impressa alle dimissioni del premier - ma ritiene che per rispondere a una crisi del genere serva un governo che duri cinque anni. Se mai ci fosse un governo di salvezza nazionale, poi, sarebbe inaudito - secondo Vendola e compagni (o amici come preferisce dire lui) - che arrivasse alla fine della legislatura con Sel fuori dal Parlamento. E dovrebbe fare subito l´unica cosa a questo punto ineludibile: mettere una tassa sui patrimoni.
Alla patrimoniale il Pd è ormai vicino, e lo stesso vale per Di Pietro, ma prima dei contenuti viene lo strumento. E il governo di salvezza nazionale - che strappa a metà la foto di Vasto - vede il Pd giocare un´altra partita.

Repubblica 10.11.11
Il governo di emergenza spacca il partito Matteoli guida gli ex An: in 30 per le urne
Pisanu: no al voto, potrei andarmene. Oggi il gruppo dei ribelli
di Silvio Buzzanca


ROMA - «Sono contrario, anzi contrarissimo. Se ci sono elezioni anticipate esco dal gruppo, dal Pdl, da tutto». Giuseppe Pisanu non vuol sentire parlare di andare a votare "sotto la neve". Un no alle elezioni e un sì al governo di emergenza che è solo la punta dell´iceberg che si aggira pericolosamente nel mare del Pdl, dove riunioni e vertici si succedono a ritmo frenetico. Un´altra fronda che oggi troverà corpo con la nascita di un nuovo sottogruppo del Misto alla Camera: sono in 11, si chiamerà Costituente popolare e ne faranno parte Antonione, Gava, Sardelli, Destro, Pittelli, altri "malpancisti" e i quattro di Mpa.
Il manipolo ha i numeri per partecipare alle consultazioni del Quirinale e saluta già calorosamente il governo Monti. E intanto Pisanu coltiva un progetto simile al Senato. Per il momento stanno alla finestra gli scajoliani, convinti che la battaglia contro il voto si debba fare dentro il partito. Intanto per andare alle urne subito si schierano la Gelmini e Meloni, Sacconi e Romani, Brunetta e La Russa. E visto che la guerra interna al Pdl si consuma anche nella battaglia delle cifre, Altero Matteoli fa sapere che ci sono trenta deputati con lui a sostegno delle elezioni. Contro anche Ronchi, con l´area ex An in subbuglio che minaccia di fare l´opposizione al nuovo governo.
Ma che il fronte del no al voto sia ampio lo testimonia anche Maurizio Lupi. Il vicepresidente della Camera, infatti, non esclude l´ipotesi di un nuovo governo. Dice che ci sono due ipotesi: «Le elezioni o un governo ampiamente condiviso che però non può essere fatto da transfughi». E se ci fosse bisogno di altre prove, ecco il no alle urne di Ennio Doris, socio storico di Berlusconi, che dice senza mezzi termini che l´unica soluzione possibile è il varo di un governo tecnico.
L´elenco delle personalità del Pdl che prendono le distanze dal leader pronto al voto è lungo e variegato. Ci sono per esempio il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Dicono no al voto anticipato Cicchitto, Verdini, un fedelissimo del premier come Luigi Vitali e si associa anche Giuliano Cazzola. Contro le urne scendono in campo anche i deputati di Grande Sud di Miccichè. E voci del Pdl dicono che contro il voto lavorano anche Frattini e Fitto e financo Gianni Letta.
Siamo di fronte a numeri consistenti che secondo alcuni calcoli potrebbero arrivare fino ad ottanta parlamentari. Una frana nel Pdl che si è vista, in maniera palese, ieri alla Camera dove sul voto finale sull´assestamento di bilancio la maggioranza è scesa dai 308 voti di martedì a 294. E in due votazioni sugli articoli è sprofondata anche a quota 283 e 281. Ma queste defezioni come ha ricordato Gianfranco Fini, provocano un altro problema: la Camera ieri era in numero legale "tecnico", solo perché si conteggiavano i deputati dell´opposizione assenti, ma che avevano preso la parola.

Repubblica 10.11.11
Grassano (Responsabili): "Già mi hanno condannato a 4 anni, Berlusconi mi ha promesso la rielezione. Mi fido di lui"
"Se esco di qui faccio il disoccupato"
di Antonello Caporale


La paura dell´onorevole Maurizio Grassano, da Alessandria.
«La mia paura è che se esco da qui mi ritrovo disoccupato».

La crisi le ha tolto il lavoro?
«I giudici me l´hanno tolto dicendo che era finto, che in realtà ero solo un faccendiere. Mi sono beccato anche una condanna a quattro anni per truffa aggravata benchè abbia consegnato al tribunale vagonate di documenti che mi scagionavano».
Questa è persecuzione.
«Ai quattro anni aggiunga i cinque di interdizione dai pubblici uffici. Mi dica lei se non è crudeltà allo stato puro».
Se esce da qui rischia di trovare dimora addirittura in un carcere!
«Ecco, bravo».
Impossibile anche solo a pensarci.
«Ho gli incubi. Qualche volta sogno la cella: la mia è vicina a quella dell´onorevole Papa».
Bisogna assolutamente trovare una uscita di emergenza.
«Berlusconi mi ha promesso non solo la ricandidatura, ma anche la rielezione (io comunque l´ho sempre votato perché sentivo dentro qualcosa di sincero)».
Si è premurato di formalizzare l´impegno?
«Non sono il tipo di chiedere fideiussioni, o contratti, o altro. Mi basta la parola».
Le parole le porta via il vento.
«Ma sono fatto così! Mi fido del prossimo. Certo, a volte faccio brutti pensieri perché ascolto quelli altrui. Alcuni, per mettermi paura, dicono che ha un fare banditesco, che prende e porta via e dimentica chi l´ha aiutato».
Il Cavaliere ha un cuore generoso e l´ha dimostrato sostenendo le spese di tutta la famiglia Tarantini, che era nel bisogno.
«Poi, è vero, mi risollevo quando altri mi dicono che ha un cuore grande così. Io ci spero«
Lei verrà ricandidato, lo sento.
«Rieletto mi ha detto Berlusconi. Tutti sono buoni a ricandidarti. Anche Casini mi ha promesso che mi avrebbe fatto candidare se avessi voltato le spalle al governo, però vagli a credere. Magari è una candidatura a perdere...».
Immaginiamo l´ipotesi c.
«Quale sarebbe?».
Lei non viene rieletto e non viene neanche incarcerato. Liberato dagli impegni parlamentari, decide una nuova intrapresa.
«Urca!».
Deve cercarsi un lavoro.
«E quale lavoro?».
Cosa gli riuscirebbe meglio?
«Tinteggiature pareti, moquette».
Edilizia, dunque.
«Sono geometra».
L´Italia è nelle mani dei geometri!
«Lei dice?».

l’Unità 10.11.11
«Le primarie? Oggi non sono una priorità»
Il vicepresidente dell’europarlamento: «Con generosità Bersani dice che non si sottrae al confronto, ma adesso nessuno dovrebbe pensare al proprio ombelico»
No ai personalismi: «Soprattutto in un momento come questo, una leadership all’altezza della situazione pensa al bene del Paese»
di Marco Mongiello


Subito un governo di transizione che faccia le riforme. Il maxi emendamento di Berlusconi non risolverà la crisi. È questa l'opinione del vicepresidente del Parlamento europeo Gianni Pittella, intervistato ieri a margine della cerimonia a Bruxelles per il 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia a cui ha partecipato anche Roberto Benigni.
Per riempire il vuoto lasciato dal berlusconismo l'eurodeputato Pd vara oggi la nuova associazione di cultura politica “Prima Persona”, a cui ha già aderito tra gli altri lo scrittore Andrea Camilleri. Come spiega la reazione dei mercati all'annuncio di dimissioni di Berlusconi?
«Il problema è che ci vuole un'opera poderosa di risposta alla crisi. Non è che Berlusconi ora fa questo maxi emendamento e risolve il problema. Ci vuole un governo che faccia un programma, non di un giorno o di un mese, e che ci traghetti in una fase di transizione nella quale si possano fare le riforme».
Come giudica il commissariamento dell'Italia da parte dell'Unione europea?
«Non mi piace il profilo dell'azione che sta svolgendo la Commissione europea, con questa lettera quasi inquisitoria e i funzionari che evocano l'idea di un corpo di polizia. Ma bisogna ricordare due cose. La prima è che da mesi mandiamo da Bruxelles segnali forti di preoccupazione circa la salute dell'economia italiana e a questi segnali non c'è stata nessuna risposta. La seconda cosa è che noi siamo parte dell'Europa, non possiamo pensare di essere un corpo separato e l'Europa non può non interessarsi ad una parte di se stessa. Se questa parte sta male è giusto che l'Europa si faccia carico di risolvere i problemi».
Ritiene che in Italia abbiano tutti compreso l'urgenza della situazione?
«Quando sento dire anche in settori del centrosinistra che la cosa migliore in questo momento sono le elezioni mi viene la pelle d'oca. Oggi la priorità è quella di un governo che faccia a larga maggioranza un risanamento dei conti pubblici basato sul principio dell'equità. Dismissione del patrimonio pubblico abbandonato, lotta all'elusione e all' evasione fiscale, che darebbe 100 miliardi all'anno di proventi allo Stato, fare pagare il condono a chi ne ha beneficiato, accordo con la Svizzera, come hanno fatto Gran Bretagna e Germania per il rientro dei capitali, una politica per la crescita in-
centivando tutti i fattori, a cominciare dal capitale umano. Questo serve, oltre alla riforma della legge elettorale. Inoltre bisogna colpire le grandi rendite patrimoniali, perché non è giusto che a pagare i costi della crisi siano i cittadini che hanno uno stipendio, o che non lo hanno, o che paghino le famiglie attraverso i tagli al welfare e non paghi chi ha centinaia di milioni di ricchezza». Prima del voto ci dovrebbero essere anche le primarie?
«Bersani è il candidato del Partito Democratico per statuto ma lui è stato il primo a dire con un gesto di generosità e di correttezza che non si vuole sottrarre a nessun confronto. Oggi però la priorità non è primarie, secondarie o terziarie. Oggi una leadership politica all'altezza della situazione pensa al Paese, non al proprio ombelico».
Qual'è lo scopo della nuova associazione “Prima Persona”?
«Si tratta di un'associazione apartitica di persone provenienti da diversi partiti e anche senza tessera, che vogliono fare politica e riempire questa nuova fase italiana, che si apre con la fine del berlusconismo, partendo da tre parole essenziali: persona, territorio e partecipazione. Tre parole che sono state narcotizzate dal berlusconismo. Dobbiamo fare in modo che rinasca il popolo dei cittadini innanzitutto con una riforma della politica, non solo dei costi. Pensiamo alla “wikicrazia” della pubblica amministrazione, alla rivalorizzazione dei beni comuni e delle tante realtà sul territorio dell'associazionismo e del volontariato. Poi vorremmo rilanciare il discorso europeo. Il traguardo non può essere il traccheggiamento, il piccolo passo in più. Il traguardo ormai deve essere l'Europa politica, perché l'euro senza governo dell'economia e senza unione fiscale e l'Europa senza politica estera e di difesa comune non vanno più da nessuna parte».

Corriere della Sera 10.11.11
In campo i fedelissimi della grande coalizione
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Il governo d'emergenza nazionale si fa solo con il sì di Berlusconi»: Pier Ferdinando Casini non ha dubbi. E non li ha nemmeno il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani: «Senza il Pdl non si può fare un esecutivo di questo genere, bisognerebbe andare al voto, ma non con il Cavaliere». Su questo punto i leader delle due maggiori forze di opposizione marciano uniti e guardano con attenzione alle mosse del premier che sembra orientato al fatidico sì.
Casini e Bersani faranno entrambi il nome di Mario Monti al presidente della Repubblica, quando saranno chiamati per le consultazioni. Magari il leader dell'Udc ci metterà maggiore entusiasmo nel pronunciare quelle due parole, e il segretario del Pd farà più fatica a trattenere il proprio rammarico per aver dovuto rinunciare alle elezioni e alla sua candidatura alla premiership. Però la strada sembra segnata. E il pressing per strappare un sì a Berlusconi è fortissimo anche negli ambienti delle opposizioni, i cui maggiori esponenti sono in contatto continuo con Gianni Letta, Angelino Alfano, Maurizio Lupi e Raffaele Fitto. Se anche il premier dicesse no, sostengono alcuni parlamentari di Pd e Udc, verrebbe comunque dato il mandato a Monti per fare un governo ponte che arrivi al voto, nella primavera prossima, dopo aver varato alcune riforme importanti.
Insomma, la strada sembra imboccata. Eppure ancora in tarda mattinata il pronostico di Bersani era questo: «Darei le elezioni al 70 per cento e il governo di emergenza nazionale al 30, perché non mi pare che Berlusconi voglia accettare una soluzione diversa dalle elezioni». Ma con il passare delle ore la situazione è andata mutando. Con grande soddisfazione dei sostenitori dell'ipotesi della grande coalizione. Walter Veltroni, che ha caldeggiato per primo questa soluzione già nell'estate del 2010, ha l'aria soddisfatta, e mostra uno studio secondo il quale con il governo Monti lo spread scenderebbe a 350, mentre salirebbe vertiginosamente sia in caso di elezioni anticipate che con la costituzione di un nuovo governo di centrodestra. «È la scelta più saggia», sottolinea l'ex segretario del Partito democratico. Dello stesso avviso Paolo Gentiloni, che con un parlamentare amico commenta così la possibilità di un esecutivo guidato da Mario Monti: «Così il Paese si risolleverà e noi faremo a meno di presentarci alle urne con la foto di Vasto». Ossia con un'alleanza con Sel e Italia dei valori.
E a proposito dell'Idv. Il Pd ha sondato Antonio Di Pietro. L'ex magistrato di Mani Pulite ha detto la sua in modo molto spiccio: «Io se non ci sta la Lega, non ci sto. Tanto il governissimo lo possono fare benissimo senza i miei venti parlamentari. E comunque Napolitano non mi ha nemmeno interpellato». La resistenza di Di Pietro crea qualche problema a Bersani, che preferirebbe non avere concorrenza a sinistra, tanto più che fuori da questa partita rimarrebbero anche Sel e i grillini. Ma il segretario, nel caso in cui Berlusconi apra al governo Monti, andrà avanti lo stesso su questa strada. L'eventuale esclusione dell'Idv, invece, viene ben vista dalla minoranza del Pd: «Meglio, faremo un esecutivo senza quei rompiscatole dei dipietristi e dei leghisti», sorride un veltroniano di ferro.
Intanto, nel cortile di Montecitorio, un po' per celia e un po' sul serio, un altro grande sostenitore delle larga coalizione, Beppe Fioroni, stila la lista dei possibili ministri conversando con alcuni colleghi di partito: «Secondo me — dice — Frattini potrebbe restare agli Esteri...». Si gioca, naturalmente, ma l'impressione è che gli sponsor del governissimo si sentano ottimisti. Dentro la riunione del coordinamento solo il responsabile economico, il bersaniano Stefano Fassina, dice esplicitamente di no all'ipotesi del governissimo, Andrea Orlando non nasconde la propria riluttanza però è meno esplicito e anche la componente di Ignazio Marino morde il freno. Per il resto, Napolitano ha travolto le ultime resistenze del Pd. Tutti i big concordano sul cammino da fare, seppure con sfumature diverse. D'Alema sollecita una discussione sull'asse programmatico del futuro governo, ma Veltroni taglia corto: «Parliamone un'altra volta». C'è ancora da decidere come votare sulla legge di stabilità. Pd e Udc intendono muoversi insieme anche su questo fronte e oggi sceglieranno la linea di condotta.

La Stampa 10.11.11
Una mossa che rompe le coalizioni
di Marcello Sorgi


La mossa di Napolitano di nominare senatore a vita il professor Mario Monti ha impresso un'accelerazione alla crisi prima ancora che le dimissioni di Berlusconi siano formalizzate. Il tentativo del Presidente, ormai è chiaro, è di sostituire in tempi brevissimi il governo uscente con uno tecnicopolitico guidato dall'economista che gode di un credito indiscusso in Europa (per dieci anni, dal 1994 al 2004, ha fatto parte della Commissione a Bruxelles) e che è l'unico in questo momento che potrebbe provare a raddrizzare la barca italiana vicina al naufragio. Un governo, per intendersi, in cui - a parte le personalità scelte direttamente da Monti - potrebbero entrare alcuni dei ministri berlusconiani, oltre naturalmente a Letta, per rassicurare il Cavaliere. E in cui Bersani e il Pdl potrebbero mandare una propria delegazione.
Va da se che la disponibilità parallela dei due maggiori partiti è la condizione indispensabile per la riuscita dell'esperimento. Casini, che ha avuto un ruolo centrale nella defenestrazione di Berlusconi, sta ora lavorando in questo senso. E a favore del tentativo gioca la situazione di emergenza dell'Italia sui mercati, che continua ad aggravarsi di ora in ora. Le difficoltà maggiori sono invece rappresentate dai due no simultanei e preventivi che sono arrivati dalla Lega e da Di Pietro, che non sono contrari a Monti, ma fin d'ora annunciano che si schiererebbero all'opposizione.
Non si tratta quindi solo di portare a collaborare Pdl e Pd che finora si sono scontrati senza esclusione di colpi. Ma di convincerli a rompere le coalizioni con cui di qui a poco potrebbero trovarsi a competere nelle prossime elezioni, lasciando ai loro riottosi alleati delle estreme il vantaggio di tenersi all'opposizione di un governo chiamato a imporre sacrifici necessari ma molto duri.
Per quanto Monti, se incaricato, godrebbe ovviamente di larghi margini di manovra e potrebbe muoversi, con l'appoggio del Capo dello Stato, in pratica senza trattare con nessuno, Napolitano non si nasconde le difficoltà.
Non a caso, dopo aver invocato in mattinata il massimo di coesione possibile delle forze politiche di fronte alle eccezionali difficoltà del momento, il Capo dello Stato in serata in una nota ha ribadito che se non si riuscirà ad arrivare a un governo di larghe intese, non restano che le elezioni anticipate.

l’Unità 10.11.11
«È l’ora della svolta» Milano chiama l’Italia in piazza
Sabato a Milano «Riprendiamoci il campo», per chiedere una fase del tutto nuova, nella forma e nei contenuti, della politica italiana. La Cgil: «Il fronte è allargato a tutta la società civile». Pisapia: «Ci vuole l’impegno di tutti».
di Laura Matteucci


Una manifestazione decisa qualche settimana fa, ma che oggi, a dimissioni che Berlusconi al momento ha solo annunciato, assume anche più significato e valore. L’appuntamento è a Milano sabato 12, il titolo programmatico è «Riprendiamoci il campo», un appello lanciato da un cartello di oltre sessanta intellettuali e personalità del mondo culturale, delle istituzioni, dello spettacolo, del sindacato e della società civile che in queste ore stanno raccogliendo adesioni (che stanno arrivando a decine, mentre si vanno organizzando pullman e treni dalle province lombarde) tra «tutti coloro che vogliono bene all’Italia, e non smettono di indignarsi di fronte al degrado e alla negazione di futuro cui siamo condannati da un governo screditato nel mondo e che ha fallito in Italia». Tra questi, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia: «Ho sempre parlato dice di cittadinanza attiva, di mobilitazione da parte di tutti, di impegno civile e politico: è il momento di scendere in piazza, e riprenderci il campo». Per tutta la Lombardia, e ovviamente per chiunque intenda partecipare, il ritrovo sarà alle 14,30 ai Bastioni di Porta Venezia per poi dirigersi in corteo fino in piazza Castello, dove parleranno alcuni dei promotori, perlopiù leggendo testi della Costituzione.
IL FRONTE SI ALLARGA
Come dice Nino Baseotto, segretario della Cgil lombarda, tra i promotori: «Dopo le dimissioni, la politica deve segnare una forte discontinuità con quanto è stato finora. Su questo, non c’è la sola Cgil, ma il fronte è allargato a cattolici, laici, professionisti, lavoratori dello spettacolo, docenti universitari, sindacalisti». Anche il Pd lombardo ha dato la propria adesione. Assunta Sarlo, per i movimenti «Usciamodalsilenzio» e «Senonoraquando?», chiede politiche centrate sulla questione del lavoro, in un Paese dove un giovane su tre e una donna su due non hanno un’occupazione. E il giornalista Gad Lerner ricorda: «Non so se sabato il governo sarà ancora in carica, ma so per certo che resta aperto il tema della giustizia sociale, della redistribuzione della ricchezza, e quello più volte evocato di dare un futuro ai giovani». «La politica riprende Baseotto deve tornare a dirigere il Paese. Questa piazza rifiuta la tentazione dell’antipolitica».
PROPOSTE ARTICOLATE
Il programma della manifestazione, come da manifesto, è chiaro: l’Italia deve ripartire, voltare pagina, rinsaldare i capisaldi della convivenza civile. Ha bisogno di una diversa politica economica e sociale e di riscoprire l’etica della responsabilità pubblica e dell’azione di governo. In questo contesto, per la gravità della si tuazione in cui versa il nostro Paese, continua il manifesto, pensiamo che sia necessario mettere in campo un nuovo protagonismo civile. Con proposte articolate: una diversa politica economica che incentivi la ripresa e l’occupazione, innanzitutto, promuovendo coerenti politiche industriali e terziarie, investendo risorse pubbliche e private su ricerca, formazione, scuola e università. Politiche che coniughino lavoro e formazione: nel sostenere la centralità del lavoro nelle sue diverse declinazioni (manuale, tecnico, professionale ed intellettuale), è condizione necessaria rilanciare un sistema di formazione continua e qualificata. Tra le proposte, anche la definizione di due progetti prioritari per lo sviluppo del Paese: un piano straordinario per l’occupazione giovanile ed uno per il Mezzogiorno, perchè giovani e Mezzogiorno devono diventare risorse fondamentali per il futuro dell’Italia. Il rilancio di una politica di sostegno della cultura e valorizzazione del patrimonio artistico nazionale. Un welfare rinnovato e più efficiente, e un sistema fiscale che torni ad essere fondato sul principio della progressività e dell’equità, anche attraverso un’imposta sui grandi patrimoni.
È possibile aderire e scaricare il materiale sul sito www.riprendiamociilcampo.it

Nelle grandi città italiane i matrimoni celebrati solo al comune stanno diventando più numerosi di quelli celebrati in chiesa. Nel resto del Paese per dire «sì«, la maggioranza degli italiani preferisce ancora andare davanti al parroco. Ma, nel giro di tre-cinque anni, oltre il 25% delle coppie cattolicamente impegnate con il vincolo sacramentale si recano dal giudice civile per scioglierne gli effetti.
da l’Unità di oggi

l’Unità 10.11.11
L’affettuoso abbraccio di Milano alla partigiana Nori Brambilla Pesce
Alla Camera del Lavoro il saluto di Milano a Nori Brambilla Pesce, la partigiana “Sandra”. Tanta gente, la commozione degli amici, le canzoni della Spagna democratica e della Resistenza. Pisapia con la fascia tricolore.
di Marco Tedeschi


Il piazzale della Camera del Lavoro è pieno di gente. Sotto, il salone Di Vittorio è stracolmo come avviene nelle assemblee sindacali più “calde” e partecipate. Si sentono le vecchie canzoni delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna, quelle della nostra Resistenza.
Milano ha salutato con affetto e passione Nori Brambilla Pesce, come si conviene quando se ne va un’amica, una compagna, una persona leale e trasparente che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa della democrazia e all’emancipazioni dei lavoratori.
UNA GRANDE FOLLA
Per l’ultimo saluto alla partigiana Nori sono venuti in tanti ieri alla Camera del Lavoro: centinaia di amici, politici, amministratori, sindacalisti, ex partigiani, tutti a raccontare una storia, un episodio, un aneddoto della vita della compagna del comandante Giovanni Pesce, “Visone”. Arriva anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, con la fascia tricolore e questo è un gesto che dimostra quale primavera sia davvero iniziata in città. Dice il sindaco:«Nori Pesce era una donna eccezionale, che ha avuto un ruolo importante nella storia di Milano e di tutto il nostro Paese. La sua scomparsa addolora me e tutta la città. Non dimenticheremo il suo esempio». Con lui c’è anche il presidente del consiglio comunale di Palazzo Marino, Basilio Rizzo. S’incontrano l’ex leader della Cgil Antonio Pizzinato e l’editore Carlo Feltrinelli, che pubblicò «Senza Tregua» di Giovanni Pesce, e tanti, tanti cittadini.
La bara è sotto il palco della sala Di Vittorio, è stato appeso un bel manifesto di Nori in bianco nero. Attorno i gonfaloni, le delegazioni dell’Anpi, le medaglie della Resistenza. Arrivano tanti messaggi, tanti telegrammi: la segreteria nazionale della Cgil, il Pd, il presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, e anche quelli dei sindacati spagnoli. Proprio la Spagna, ricorda il segretario della Camera del Lavoro Onorio Rosati, ha sempre rappresentato un legame speciale per Nori, per la guerra combattuta dal marito Giovanni in difesa della Repubblica, per i gesti continui di solidarietà verso i prigionieri politici sotto il franchismo. Gli interventi ricordano l’impegno costante di Nori nel sindacato, in particolare per la valorizzazione delle donne sul lavoro, nel Partito Comunista e poi in Rifondazione.
Alla fine la folla commossa saluta col pugno chiuso, lancia un fiore, mentre tutti cantano «O bella ciao».

La Stampa 10.11.11
Avviso di garanzia a monsignor D’Ercole
Fondi post terremoto Indagato il vescovo


Il vescovo ausiliare dell’Aquila Giovanni D’Ercole è finito sul registro degli indagati per le vicende relative ai cosiddetti fondi «Giovanardi» per il sociale per il dopo terremoto. L’inchiesta che coinvolge il presule è relativa alla tentata truffa messa in atto dalla Fondazione Abruzzo Solidarietà e Sviluppo i cui organizzatori, il professore romano Fabrizio Traversi e il medico aquilano Gianfranco Cavaliere, avrebbero cercato di appropiarsi di 12 milioni di euro provenienti dai «fondi Giovanardi» destinati ad attività sociali per il post terremoto.
Monsignor D’Ercole che inizialmente era tra i vertici della Fondazione, è accusato dal pm Antonietta Picardi, titolare dell’inchiesta, di aver rilasciato false dichiarazioni nel corso di un interrogatorio e di favoreggiamento per avere messo al corrente il professor Traversi che c’era un’inchiesta sulla Fondazione. Ai due principali indagati, Traversi e Cavaliere, il pm contesta il reato di tentata truffa aggravata ai danni dello Stato.
Monsignor D’Ercole dal 1987 al 1990 è stato vicedirettore della Sala Stampa della Santa Sede (allora diretta da Joaquín Navarro-Valls), noto al grande pubblico per essere uno dei volti dell’informazione religiosa su Raidue. «Mi si accusa di non aver detto la verità al giudice - ha spiegato ieri D’Ercole - . Posso solo ribadire la mia sincerità e confermare che ho piena fiducia nella Magistratura».

il Fatto 10.11.11
Studenti e Indignados. Londra occupata dalla rotesta
Dopo le violenze di agosto, la polizia pronta a sparare contro i manifestanti. Tra crisi e caro-università la rabbia si allarga
di Andrea Valdambrini


Londra Gli studenti avevano promesso “un mare di rabbia”, ma sembra aver prevalso la paura. Quella che la giornata di ieri, in cui circa 10.000 manifestanti hanno sfilato per le strade della capitale inglese, si trasformasse in una rivolta.
La rivolta degli studenti era scoppiata un anno fa. Oggi come allora si protesta contro la triplicazione delle tasse universitarie - che da quest’anno toccano le 9000 sterline (10.400 euro circa) – e i tagli all’istruzione targati Cameron. Al culmine della marcia del novembre 2010, si erano viste scene di distruzione di banche e altri simboli del capitalismo, fino all’assalto del quartier generale conservatore a Millbank, pochi passi dal Parlamento.
Niente di tutto questo è accaduto ieri, e non a caso. Un anno dopo, i soli 225 poliziotti che erano stati colti di sorpresa dall’esplosione della protesta, sono diventati 4000, a blindare la zona fra Trafalgar Square e il distretto finanziario della City. Surreale il clima accanto alla Bank of England e alle porte della cattedrale di St Paul, dove il business as usual caro ai tanti impiegati in grisaglia indaffarati come sempre si accompagnava al ronzio degli elicotteri e lo sguardo attento di uomini di Scotland Yard.
Misure di sicurezza estreme hanno garantito che la manifestazione si mantenesse non violenta. Accompagnata da forti polemiche la decisione di promettere alla polizia di poter usare pallottole di gomma, anche se solo in condizioni di reale pericolo. Per fortuna non sono serviti. Neanche quando circa 300 membri del sindacato degli elettricisti hanno bloccato il traffico proprio nella City, o quando alcuni dimostranti hanno provato a piantare tende nella centralissima Trafalgar Square. In serata il bilancio non è di circa 20 arresti.
Alla tendopoli degli indignados londinesi, ai piedi della cattedrale di St Paul, si raduna una folla per cantare e supportare la protesta. Tra gli occupanti ci sono anche alcuni partecipanti alla marcia. Le pallottole di gomma? “Non mi spaventano, non credo sia peggio del solito”, replica scettica Liz, una donna di Manchester sulla cinquantina con in spalla una bandiera rossa del sindacato. Non meno assuefatto ai metodi coercitivi della polizia britannica è Robin, che spunta da una delle tende di Occupy London. “Con noi non sono stati aggressivi i poliziotti. E perché avrebbero dovuto? Però è vero, di solito se la prendono con i più deboli”.
Ma il senso dello scontro lo danno soprattutto le parole di Michael Chessum, giovane leader di National campaign against fee and cuts, che ha organizzato la manifestazione. Secondo lui vertici della polizia agiscono “in modo politico e cinico” con lo scopo di intimidire i cittadini che vorrebbero scendere in piazza. E poi, rivolto a Cameron: “per finanziare l’istruzione basta tassare i ricchi. Gli studenti non accetteranno tagli così drastici al loro futuro”.

il Fatto 10.11.11
Britannici senza futuro
Più danni dai geitori che dalla crisi: generazione “neet”
di Micaela Panzavolta


Londra We don't need no education cantavano i Pink Floyd 30 anni fa senza immaginare quanto amaramente la realtà li avrebbe smentiti. Anche sul piano personale.
Proprio in questi giorni il figlio adottivo di David Gilmour, chitarrista della mitica band, è stato condannato a 16 mesi per gli atti di vandalismo commessi in una manifestazione di protesta contro l'aumento delle tasse unversitarie.
Il caso, divenuto l'emblema dei problemi che la Gran Bretagna ha con i giovani, non è che una della miriade di storie umane racchiuse nei fascicoli dei tribunali del Paese. Faldoni che parlano di vandalismi ma anche di famiglie assenti e poca scuola, e di un generale malessere che ha lasciato politici a sociologi a grattarsi la testa per trovare una spiegazione all’ondata di violenza di quest’estate.
È LA CRISI economica? O è il poor parenting la crisi della famiglia di cui parla l'ultimo studio dell'Unicef dal quale emerge che i genitori inglesi sono fra i peggiori del mondo industrializzato? Già nel 2007 l'Unicef aveva indicato la Gran Bretagna come il peggior posto per crescere a causa dell'alto tasso di obesità, bullismo, alcolismo, sesso precoce e scarsa salute. Ora punta il dito contro i genitori assenti che si sgravano la coscienza comprando ai figli l'ultimo gadget. Ciò non basta a spiegare le vetrine rotte, i sacheggi, gli incendi e le violenze dei 5 giorni di follia collettiva in agosto.
Per capire meglio la questione forse possono aiutare i dati dell'Ocse che in uno studio rileva come la Gran Bretagna sia uno dei Paesi industrializzati col maggior numero di teenager che non vanno a scuola, né hanno un lavoro. Si chiamano “Neet” Not in education, employment or training. Sono giovani tra i 15 e i 19 anni che non sanno che fare delle proprie giornate. Nel 2009, 1 ragazzo su 10 è finito nel calderone dei Neets dopo aver lasciato la scuola; e il fenomeno è trasversale. Ricchi e poveri hanno lo stesso problema, anche se mezzi differenti per affrontarlo.
Nancy, la madre di Luisa, è preoccupata. Me lo dice di nascosto, mentre la figlia 20enne non sente: è a fare l'ennesimo stage non pagato che finirà probabilmente in un nulla, come gli ultimi tre. È un anno che Luisa ha finito il college e da allora, l'unica fonte di guadagno sono le poche ore di baby sitting che fa per i vicini. Luisa è fortunata, vive in una bella casa vicino a Westminster; mamma e il papà possono mantenerla, ma per quel che riguarda la ricerca del lavoro, la sua storia è la stessa di migliaia di altre.
Cristina, 26 anni, è romena, anche se nessuno lo intuirebbe dal suo inglese perfetto; abita in zona 6, non certo un quartiere privilegiato, in un appartamento che condivide con la famiglia della zia. Arrivata in Gran Bretagna a 19 anni, si è mantenuta agli studi facendo la baby sitter. In giugno ha concluso col massimo dei voti un corso di laurea in Turismo all'università di Westminster. Dopodiché anche per lei si sono spalancate le porte del Limbo. “Mando curriculum a destra e a manca, ma nessuno mi chiama, continuo a fare la baby sitter ma ho paura che non troverò mai un lavoro serio”.
I dati sulla crescita, praticamente inesistente (nel secondo trimestre dell'anno il Pil è cresciuto solo dello 0,1%) fanno pensare che il Regno Unito sia sull'orlo di una seconda recessione. Cristina non è ferrata in economia, ma sa fare bene i suoi conti e anche questi puntano verso il rosso. “Per il momento mi mantengo con le 800 sterline di sussidio di disoccupazione, a cui aggiungo la paga da babysitter, non va poi così male, ma non potrei mai permettermi di vivere per conto mio”. Cristina e Luisa sono divenute amiche, si sono conosciute badando ai bambini nello stesso palazzo. Vengono da background opposti ma i loro destini lavorativi si somigliano molto.

La Stampa 10.11.11
Da Mississippi e Ohio schiaffo ai repubblicani
Bocciati i referendum antiabortista e sulle union sindacali
di Paolo Mastroililli


Le elezioni e i referendum che si sono tenuti martedì in vari Stati americani sono andate meglio del previsto per i democratici. Gli elettori hanno bocciato misure sull’aborto e sul potere dei sindacati promosse dall’ala più conservatrice del Partito repubblicano, e anche alcuni candidati a seggi legislativi locali vicini al Tea Party non sono passati. Un segnale che forse il Gop non è forte come si pensava, guardando alle presidenziali dell’anno prossimo, a patto però che i democratici non prendano questi risultati come la prova definitiva di una inversione di tendenza già in corso.
Il responso più interessante è quello venuto da quattro referendum, che si sono tenuti in Mississippi, Maine ed Ohio. Nel primo Stato la Initiative 26 chiedeva di dare ad ogni ovulo fecondato lo status di persona. La misura avrebbe trasformato in omicidio ogni tipo di aborto, inclusi quelli praticati dopo l’incesto, lo stupro, o per salvare la vita della madre; avrebbe vietato diversi anticoncezionali, come la pillola del giorno dopo; e avrebbe bloccato anche la fecondazione artificiale, nei casi in cui si rischia di perdere degli embrioni. Era un attacco frontale all’interruzione di gravidanza su cui anche i vescovi cattolici avevano espresso riserve, perché lo consideravano una scelta strategica sbagliata. In caso di approvazione, infatti, avrebbe portato ad uno scontro davanti alla Corte Suprema che il movimento pro life avrebbe quasi certamente perso, frenando altre iniziative in corso per limitare progressivamente l’aborto. Ma il Mississippi ha bocciato l’iniziativa, nonostante sia uno degli Stati più conservatori d’America.
In Maine i repubblicani avevano vietato la possibilità di registrarsi per il voto direttamente ai seggi la mattina delle elezioni, e i democratici sono riusciti a cancellare questa misura che frena soprattutto i membri delle minoranze.
In Ohio, stato chiave per le presidenziali, si votava in due referendum. Il primo riguardava una iniziativa del governatore repubblicano Kasich, per limitare i diritti dei sindacati dei dipendenti pubblici a negoziare contratti collettivi, che è stata bocciata. A questo successo, però, i democratici hanno dovuto aggiungere la sconfitta su una misura simbolica, che tuttavia rappresenta un rifiuto della riforma sanitaria di Obama. Gli elettori, infatti, hanno bocciato l’obbligo di acquistare le assicurazioni, che oggi arriverà sul tavolo della Corte Suprema di Washington per una serie di cause che ne contestano la costituzionalità. La decisione è di fatto nulla, perché gli Stati non possono optare di non aderire alle leggi federali, ma è indicativa delle stato d’animo della gente.
Anche le elezioni locali hanno riservato qualche sorpresa. La poltrona di governatore in palio nel Kentucky è rimasta ai democratici e quella del Mississippi ai repubblicani, così come sono stati confermati i sindaci di grandi città come Houston, Filadelfia, Indianapolis, Baltimora, Charlotte, e probabilmente San Francisco, dove per la prima volta c’è un leader di origini cinesi. Però in Virginia, altro Stato che Obama ha vinto nel 2008 e spera di conservare l’anno prossimo, i repubblicani non sono ancora certi di aver ripreso il controllo del Senato. In Arizona, invece, è stato battuto il presidente del Senato, Russell Pearce, che era molto vicino al Tea Party e aveva promosso leggi severe sul tema dell’immigrazione.
Il messaggio generale sembra essere che gli elettori respingono le posizioni più estreme dei repubblicani. I candidati presidenziali del 2012 dovranno tenerne conto, perché se si appiattiranno troppo sulla linea del Tea Party rilanceranno le speranze di rielezione di Obama.

Corriere della Sera 10.11.11
Palestina all'Onu, scatta il «Piano B»


RAMALLAH — I palestinesi si sono rassegnati: il loro Stato non sarà ammesso come membro a tutti gli effetti delle Nazioni Unite. Via perciò al «piano B»: cercheranno di ottenere lo status di Paese osservatore non membro, che darebbe loro accesso alle principali organizzazioni internazionali. Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas aveva presentato la richiesta di ammissione della Palestina all'Onu a settembre scorso, ma i voti necessari (9 su 15) non sono stati trovati. «Sapevamo che il percorso al Consiglio di sicurezza non sarebbe stato un picnic», ha detto all'Ap il ministro degli Esteri dell'Anp Riad Malki. «Ma — ha aggiunto — la cosa più importante è chi vincerà l'ultima ripresa. Ci saranno altri round e noi non ci dispereremo mai». Diplomatici palestinesi hanno già iniziato a lavorare per ottenere il sostegno dei governi esteri per lo status di Paese osservatore. Il portavoce del ministero degli Esteri francese, Bernard Valero, ha detto che Parigi è aperta alla richiesta dei palestinesi e che lo status di non membro «ci sembra ancora la strada migliore». Per ottenerlo sarà sufficiente la maggioranza qualificata dell'Assemblea generale.

l’Unità 10.11.11
Crisi nucleare L’Iran alza il tono dello scontro. La Russia prevede «conseguenze devastanti»
Diplomazia Parigi invoca il consiglio di sicurezza. Si allarga il fronte delle «nuove e forti sanzioni»
Teheran: se ci portano la guerra lo Stato di Israele sarà distrutto
Di fronte all’acuirsi della crisi tra Israele e Iran, si moltiplicano gli sforzi internazionali per una svolta diplomatica. L’Europa chiede un rafforzamento delle sanzioni. Tel Aviv le accetta solo se saranno «paralizzanti».
di Umberto De Giovannangeli


Le preoccupazioni della comunità internazionale. Le minacce di Teheran. La partita delle sanzioni e l’opzione militare sempre più incombente da parte israeliana. È il giorno dell’allarme rosso, all’indomani della pubblicazione del rapporto dell’Aiea sul nucleare iraniano. Il vice comandante delle forze armate iraniane ha avvertito Israele che nel caso di un attacco contro la Repubblica islamica verrà «distrutto» e la rappresaglia «non si limiterà al Medio Oriente». «Un’azione anche minima di Israele contro l’Iran e verranno distrutti», ha affermato il generale di brigata Masoud Jazayeri in un’intervista all’emittente locale Al-Ala. Il generale ha assicurato che sono già «pronti piani di rappresaglia» nel caso di un attacco israeliano, che nei giorni scorsi lo stesso Shimon Peres aveva definito «sempre più probabile». Per Jazayeri tra gli obiettivi nel mirino di Teheran ci sarebbe Dimona, la sede del programma nucleare israeliano che ha definito «il bersaglio più accessibile».
PARTITA FINALE
Dal generale al presidente. «Non arretreremo di un centimetro rispetto al cammino che stiamo percorrendo», avverte Mahmud Ahmadinejad, secondo il quale i vertici dell’Aiea, presentando un rapporto fondato su elementi già datati e basati su documenti «fabbricati da Washington», «hanno sacrificato la reputazione dell’Agenzia». «Il popolo iraniano è intelligente ha ribadito Ahmadinejad rivolgendosi all’Occidente non si mette a costruire due bombe, contro le 20 mila che voi avete».
Da Teheran a Gerusalemme. Sta alla comunità internazionale impedire all’Iran «di puntare verso armi nucleari, che mettono in pericolo la pace nel mondo e nel Medio Oriente», afferma il governo israeliano. «Il rapporto dell’Aiea rileva un comunicato dell’Ufficio del primo ministro israeliano, riferendosi al documento divulgato l’altro ieri rafforza la posizione della comunità internazionale e di Israele, che l’Iran sta sviluppando armi nucleari». «Il significato di questo rapporto prosegue il comunicato è che la comunità internazionale deve far sì che l’Iran cessi di puntare ad armi nucleari che mettono in pericolo la pace nel mondo e nel Medio Oriente».
Sanzioni «paralizzanti» chiede Israele. Le risposte raccontano di una comunità internazionale divisa. La Francia si è detta pronta ad adottare «sanzioni senza precedenti» se Teheran non cambierà rotta. «Se l’Iran rifiuterà di attenersi alle richieste della comunità internazionale e respingerà tutte le iniziative serie di cooperazione, siamo preparati ad adottare, insieme alle nazioni che seguiranno, sanzioni senza precedenti», recita un comunicato del Quai d’Orsay. Sulla stessa lunghezza d’onda è Londra. Francia e Gran Bretagna raccomandano delle «nuove e forti sanzioni» contro l’Iran se si rifiuta di cooperare sul dossier nucleare. Lo afferma la presidenza francese in un comunicato pubblicato ieri al termine della riunione a Londra del «gruppo di alto livello» franco-britannico. I due Paesi «hanno espresso la loro profonda preoccupazione relativa alla dimensione militare del programma nucleare e affermano la loro chiara determinazione a cercare nuove e forti sanzioni», si legge nel comunicato.
GRUPPO DI PRESSIONE
Gli Stati Uniti, a loro volta, vogliono riflettere su come poter esercitare una possibile «pressione supplementare» sull'Iran, dopo il rapporto dell'Aiea sul suo programma nucleare. Il rapporto contiene «affermazioni molto gravi, accuse gravi e l'Iran deve dialogare in modo credibile e trasparente con l'Agenzia atomica internazionale per fugare i timori», dice il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner.
Sul fronte opposto c’è Mosca. La Russia critica il rapporto sostenendo che non contiene elementi nuovi e che viene usato per minare gli sforzi diplomatici per risolvere la situazione di stallo tra Teheran e le potenze mondiali. «Sulla base delle nostre valutazioni iniziali, non ci sono elementi fondamentali nuovi nel documento», si legge in un comunicato del ministero. Il ministero aggiunge che gli autori del rapporto «giocano con le informazioni allo scopo di creare l'impressione che ci sia una presunta componente militare nel programma nucleare iraniano». «Un tale approccio può difficilmente essere considerato professionale e obiettivo. È politicizzato», insinua Mosca. Dove il viceministro agli esteri afferma che «un illegittimo uso della forza avrà conseguenze imprevedibili e terribili». La partita delle sanzioni è tutta da giocare. Ma il fattore tempo è decisivo. «Sanzioni paralizzanti», chiede Israele. Altrimenti...

l’Unità 10.11.11
Piani d’attacco pronti
Ma Tel Aviv ha bisogno di alleati per resistere
Tre rotte possibili per il raid dell’Armata volante di Tel Aviv:
il confine turco-siriano, i cieli giordani o quelli sauditi e iracheni Da soli i cento caccia potrebbero effettuare un’unica ondata
di U.D.G.


La sala di comando delle operazioni militari è scavata nelle viscere della terra sotto il ministero della Difesa, a Tel Aviv. Da qui verrà guidata «l’Armada volante». Sembra la sceneggiatura di un film stavolta la realtà supera l’immaginazione cinematografica. Manca solo la luce verde politica. I piani operativi sono già pronti. All’ora prescelta si leveranno in cielo cento apparecchi, fra aerei da combattimento, da intercettazione, da rifornimento, da guerra elettronica. Gli aerei F16i e F15i sono del resto in grado di raggiungere l’Iran senza rifornimenti in volo anche con un carico di ordigni, ha affermato in questi giorni la Tv commerciale israeliana. Tre sono le possibili rotte d’attacco: una lungo il confino turco-siriano; un’altra sulla Giordania; una terza su Arabia Saudita ed Iraq.
La mappa degli obiettivi «Se costretto ad agire da solo osserva Efraim Kamm, del Centro di studi strategici dell’Università di Tel Aviv Israele è in grado di portare a termine una sola ondata di attacchi» sull’Iran. Dunque la selezione degli obiettivi che i vertici iraniani hanno disperso sull’intero territorio e protetto sotto terra risulta determinante. Secondo uno degli scenari apparsi su internet, Israele non cercherà quindi di distruggere l’intera rete degli stabilimenti nucleari iraniani, ma solo quelli ritenuti d’importanza critica: le località che vengono spesso menzionate sono Natanz, Isfahan, Kom, Arak. Quanto alla centrale di Bushehr, c’è chi ritiene che vada risparmiata, per non provocare una fuga di materiale radioattivo.
In questa fase potrebbero entrare in azione i missili Jericho II e Jericho III, contro i quali l’Iran risulta impotente. Per intaccare gli obiettivi principali, dovrebbero esserne impiegati diverse decine. Secondo il quotidiano britannico The Guardian, Londra e Washington sarebbero solidali, e già pronti a rilocalizzare le navi e i sottomarini equipaggiati con missili Tomahawk. Nei giorni scorsi Israele ha testato un missile intercontinentale con gittata di 7.000 km nella sua base di Palmachim, a sud di Tel Aviv. Secondo il sito israeliano Debka (vicino ai servizi di intelligence), per eliminare le basi nucleari iraniane servono 42 missili con armamento convenzionale.
La scorsa settimana sei squadroni con la stella di Davide hanno simulato un attacco a distanza. Teatro dell’esercitazione il cielo di Sardegna, base Nato di Decimomannu. Ad affiancare i caccia israeliani c’erano i Tornado tedeschi, gli F-16 olandesi. L’aviazione italiana ha utilizzato degli Amx, Tornado, F-16s e degli Eurofighter Typhoon. «Di fronte alla minaccia iraniana, l’aviazione israeliana ha intensificato le proprie esercitazioni all’estero negli ultimi anni, soprattutto in seguito al rifiuto turco di permettere ai jet israeliani di addestrarsi nel proprio spazio aereo», scrive il Jerusalem Post. Non basta. Sottomarini israeliani sono stati dispiegati nel Mare Arabico, da dove possono eventualmente lanciare contro tutto il territorio iraniano.
La risposta iraniana «Se saremo attaccati risponderemo con i missili all’aggressione», avverte il generale Mohammed Ali Jafari, comandante dei Guardiani della rivoluzione. I vettori iraniani possono trasportare sia testate convenzionali che chimiche o batteriologiche e addirittura nucleari. Se venissero utilizzate armi di distruzione di massa la risposta israeliana non si farebbe attendere grazie ai missili balistici Jericho II e Jericho III. Non solo: le testate nucleari miniaturizzate a bordo dei sottomarini con la stella di Davide potrebbero colpire Teheran dal golfo dell’Oman. Non è la trama di un film ma uno scenario (reale) da brividi.

l’Unità 10.11.11
Colletta della libertà di migliaia di cinesi per la star dissidente
Pechino ha condannato Ai Weiwei per evasione milionaria Ma per la prima volta la solidarietà di massa è scattata
Già raccolta quasi metà della somma con piccole donazioni
di Gabriel Bertinetto


Volano leggeri gli aeroplani oltre il cancello di ferro e atterrano in cortile. Sono aerei di carta, anzi di cartamoneta, e a lanciarli non sono mani giocose di bimbi, ma adulti impegnati in una sfida molto seria: sostenere con il loro obolo le ragioni dell’uomo che abita in quella casa, il dissidente Ai Weiwei, pretestuosamente condannato per evasione fiscale da un tribunale che non aveva il coraggio di sostenere fino in fondo l’iniziale accusa di sovversione.
Fra tanti oppositori del regime comunista cinese, Ai Weiwei è forse il più noto fuori dai confini patrii, come disegnatore del Nido d’uccello, lo stadio in cui si disputarono le Olimpiadi del 2008 a Pechino. Bloccato dalla polizia in aeroporto mentre si accingeva a lasciare il Paese lo scorso aprile, fu scarcerato dopo 81 giorni, ed ora è agli arresti domiciliari. Entro il 16 novembre deve pagare una multa di 15milioni di yuan (circa 2,3 milioni di dollari) per le imposte non pagate dalla compagnia che distribuiva le sue opere d’arte. Ai Weiwei respinge ogni accusa, dicendo che se qualcuno ha frodato il fisco non è lui, che di quella azienda era un semplice dipendente e non il «titolare occulto», come dicono le autorità.Non appena si è diffusa la notizia della condanna, è scattata spontanea e irrefrenabile una campagna di simpatia e di sostegno, in forme assolutamente inedite per la Repubblica popolare. Migliaia di cittadini si sono offerti di pagare l’ammenda al posto dell’imputato. Sino a ieri già 22.200 persone avevano aderito alla raccolta di fondi, racimolando in pochi giorni ben 6 milioni di yuan, che equivalgono a due quinti della somma che Ai Weiwei deve versare allo Stato.
C’è chi manda denaro con bonifici bancari, chi ricorre a donazioni via internet, chi utilizza Paypal. Chi invece fatica a seguire il ritmo della rapida modernizzazione che sta trasformando un Paese di centinaia di milioni di contadini nella seconda potenza economica mondiale, si arrangia ripescando nella memoria le abilità tecnologiche dell’infanzia. Le banconote prendono il posto dei fogli di quaderno e diventano velivoli capaci di superare i muri dell’oppressione. Perché il significato della colletta è essenzialmente libertario. Ai Weiwei dice che può fare fronte da solo al pagamento, e assicura che restituirà le somme che considera semplici prestiti. O meglio, attestati di solidarietà. «La gente mi dice che fa così fa sapere l’artista perché vuole dimostrare che sta dalla mia parte, e considerano la condanna inflitta a me, come un’offesa rivolta a tutti. Affermano che e’ un modo per fare cio che non possono mai fare, cioè esprimere il proprio pensiero».
Rischiano, perché attraverso i media fiancheggiatori, il governo fa circolare la notizia che i donatori potrebbero essere incriminati per «raccolta di fondi illegale». E in ogni caso, si espongono a ritorsioni, perché la partecipazione alla colletta equivale a schierarsi nel campo di coloro che invano da anni invocano la libertà e i diritti negati. Di colpo il movimento per la democrazia in Cina, che sembrava ristretto a un’élite di coraggiosi attivisti, pronti a sfidare il carcere, la perdita del lavoro, e a volte anche la violenza degli sbirri, sfonda gli argini della paura e si avvia forse a diventare nuovamente un movimento di massa. Come fu per una breve stagione felice prima del massacro sulla Tiananmen. Pechino pensava di avere compiuto una mossa intelligente, rinunciando a perseguire Ai Weiwei come oppositore e tramutandolo in un volgare evasore. L’arma che doveva annientare l’onore dell’artista dissidente e cancellarne l’immagine di eroe libertario, si è rivelata un boomerang. Ha generato una colletta per la libertà.

Corriere della Sera 10.11.11
Il duello su Twitter tra la figlia di Castro e la web-dissidente
La Sánchez: benvenuta al pluralismo
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO — «Benvenuta al pluralismo di Twitter, Mariela. Qui nessuno può chiudermi la bocca, negarmi il permesso di viaggiare o di tornare a casa». «Cara Yoani, la tua idea di tolleranza riproduce i vecchi meccanismi di potere. Per migliorare i tuoi "servizi" devi ancora studiare...». Tutto si era visto nel mondo di Twitter, ma questa ancora no: in un Paese sbarrato alla libertà di opinione come Cuba si scambiano messaggi sulla Rete la figlia del presidente Raúl Castro, Mariela, e Yoani Sánchez, la più nota attivista dell'isola, nota soprattutto per il suo blog Generación Y. E non sono propriamente messaggi di stima reciproca. Yoani esordisce con una domanda: «Quando pensi che noi cubani potremo uscire dai nostri armadi?». E la Castro, qualche ora dopo, probabilmente dopo essere stata sommersa da tweet critici con Cuba: «Parassiti da quattro soldi. Avete ricevuto ordini dai vostri padroni per rispondermi all'unisono e con lo stesso tono predeterminato? Siate creativi!».
Non è un buon inizio, diciamo, ma era prevedibile. Mariela Castro, psicologa di 49 anni, non è solo la figlia del leader, ma una figura piuttosto nota a Cuba e all'estero per la sua attività a favore dei diritti delle donne e degli omosessuali. Più aperta al dialogo con i media stranieri, è apparsa a tratti in questi anni una sponda possibile su argomenti che riguardano le scelte e le opzioni personali dei cittadini cubani. È grazie al suo lavoro all'interno del regime che la persecuzione ai gay a Cuba è quasi cessata negli ultimi tempi. Fino all'ammissione da parte dello stesso Fidel Castro, suo zio, che la Revolución su questi temi aveva assunto sin dall'inizio posizioni sbagliate. Ma per quanto riguarda i caposaldi del regime, Mariela si è sempre rivelata inflessibile. Difende la necessità di proseguire sulla strada delle riforme, ma anche il sistema a partito unico. Crede al dibattito e al confronto di idee, ma solo all'interno del sistema socialista.
Già in passato, attraverso Twitter, Yoani Sánchez si era rivolta a Mariela, senza ricevere risposte. Il paradosso è che adesso che la potente signora Castro le ha replicato direttamente l'interlocutrice non può leggerla: la Sánchez difatti «twitta» dal suo cellulare, non avendo una connessione Internet stabile, assai difficile da ottenere a Cuba. E non legge le risposte ai suoi messaggi, a meno che qualcuno da lontano gliele «giri» via sms.
Vedremo adesso se il «dialogo» continuerà o meno. Al momento, Mariela Castro pare più interessata a far conoscere la propria attività nel ramo dell'educazione sessuale e il suo lavoro all'estero. Ha polemizzato con una giornalista olandese che le aveva chiesto un paragone tra le vetrine a luci rosse di Amsterdam e la prostituzione sul lungomare dell'Avana. Mentre Yoani affronta «il dilemma dell'immediatezza» digitale: «Vivere o twittare? Per il momento opto per un'esistenza con sottotitoli di 140 caratteri». A prova di «insulto»: «La mia forza è la dolcezza». E quanto alla figlia del líder Raúl, la Sánchez non cessa di stupirsi per la peculiarità del contatto: «Curiosi paradossi di Twitter: i minuscoli riescono ad affrontare gli irraggiungibili». Con un sorrisino di circostanza, :-)

l’Unità 10.11.11
Vi raccontiamo la globalizzazione dell’Homo sapiens
La mostra curata da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani racconta da dove veniamo e come siamo riusciti a popolare l’intero pianeta Terra costruendo il caleidoscopico mosaico della diversità umana attuale
L’avventura. Una popolazione di 7 miliardi generata dai pionieri africani
Le razze umane. Esistono sì, ma stanno tutte racchiuse nei nostri pregiudizi
di Telmo Pievani


I NOSTRI ANTENATI. Una grande iniziativa
Si apre domani la mostra «Homo sapiens. La grande storia della diversità umana» e chiuderà i battenti il 12 febbraio 2012. Viene ospitata al Palazzo delle Esposizioni di Roma ( via Nazionale 194). È stata curata da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani ed è nata dalla collaborazione di Codice. Idee per la cultura e Azienda Speciale PalaExpo.

Siamo in viaggio, da due milioni di anni. Da quando i primi esemplari del genere Homo, completamente bipedi, si diffusero a partire dal continente africano e colonizzarono l’Eurasia. Da quando – molto tempo dopo piccoli gruppi appartenenti alla nostra specie curiosa e intraprendente, Homo sapiens, uscirono ancora dall’Africa e affrontarono l’esplorazione di vecchi e nuovi mondi. Oggi quell’avventura non è ancora finita e non esiste frammento delle terre emerse che non abbia visto il passaggio o l’insediamento di esseri umani. Una popolazione che ha da poco superato i sette miliardi si è generata da quegli sparuti pionieri del Corno d’Africa, forse non più di 25mila individui agli inizi (un quartiere di Roma). Come è avvenuta la straordinaria globalizzazione di Homo sapiens? E a spese di chi?
Di tutto questo, e di molte altre storie nascoste che la scienza ha di recente riportato alla luce, tratta la Mostra internazionale che apre oggi i battenti al Palazzo delle Esposizioni di Roma: «Homo sapiens. La grande storia della diversità umana». Si tratta di un progetto inedito di comunicazione della scienza, per una volta ideato e realizzato interamente in Italia: mettere in scena il programma interdisciplinare fondato dal genetista emerito della Stanford University, Luigi Luca Cavalli Sforza, con l’ambizione di ricostruire l’albero genealogico dei popoli della Terra attraverso le tracce genetiche, archeologiche e linguistiche.
La narrazione della Mostra è rivolta a un pubblico di ogni età e fa leva su linguaggi espositivi differenti: reperti originali preziosi da tutto il mondo, fossili antichissimi, tra i quali i resti del primo ominino uscito dall’Africa e trovato in Georgia, a Dmanisi, manufatti di specie umane diverse, le prime forme di arte; e poi calchi e modelli in 3D di ominini e di grandi animali estinti; mappe planetarie, preparate da De Agostini; video e foto da collezioni storiche. Per i ragazzi (e non solo), alcuni exhibit hands-on e interattivi permettono di scoprire giocando che siamo cugini di ogni essere vivente, compresa la banana, e che le razze umane esistono sì, ma stanno tutte racchiuse nella nostra testa e nei nostri pregiudizi, non certo nel mondo là fuori. Inutile, insomma, cercarle nei nostri geni: essendo la diversità genetica fra gli esseri umani bassissima e distribuita in modo continuo, le cosiddette «razze umane» non hanno alcun fondamento biologico.
Ma le sorprese per i visitatori saranno molte di più, a cominciare dal fatto che siamo figli di un ambiente capriccioso e che nell’albero frondoso della famiglia umana non siamo mai stati soli: fino a una manciata di millenni fa esistevano più specie umane. Se un extraterrestre fosse caduto sulla Terra 40mila anni fa ne avrebbe incontrate altre quattro, oltre a noi. L’uomo di Neandertal, la cui intelligenza non smette di stupirci, fa bella mostra di sé nell’esposizione di Roma e ci svela i suoi lati nascosti. Il cugino «hobbit», Homo floresiensis, rimpicciolitosi nella sua isola indonesiana di Flores insieme a ratti e cicogne giganti, ci guarda un po’ disorientato dal basso in alto. All’affollata compagnia di umani si aggiungono il misterioso ominino della grotta di Denisova, sui Monti Altai, e un tardo Homo erectus sopravvissuto sull’isola di Giava. Poi siamo rimasti soli, non prima, forse, di esserci accoppiati con alcune di queste forme «diversamente sapiens» (lo testimonierebbero alcune tracce di Dna neandertaliano e denisoviano in una parte delle popolazioni moderne).
Capire da dove veniamo ci permette di comprendere quali innovazioni ci hanno reso ciò che siamo, prime fra tutte il linguaggio articolato e le capacità di astrazione (in Mostra una tavoletta babilonese con il teorema di Pitagora spiegato dodici secoli prima di Pitagora!), e in che modo siamo stati capaci di produrre un ventaglio meraviglioso di diversità culturali. Homo sapiens nasce prima anatomicamente, in Africa, intorno a 200mila anni fa, e poi mentalmente, intorno a 50mila anni fa, in coincidenza con l’ultima ondata di espansione planetaria, quella che più recentemente ci condurrà anche nei «nuovi mondi» dell’Australia e delle Americhe in epopee appassionanti che la Mostra racconta attraverso reperti, ricostruzioni e immagini. I primi europei autoctoni dunque non siamo noi. Anzi, dato che i geni connessi allo schiarimento della pelle sono molto recenti, a volerla dire tutta i primi immigrati di colore in Europa siamo proprio noi, Homo sapiens. C’è sempre qualcuno più «nativo» di te.
NOI, I PREPOTENTI
La rivoluzione agricola scompaginerà poi le carte del popolamento umano, portando all’estinzione molti stili di vita del passato, ma anche animali e piante in grande quantità. Siamo dunque una giovane specie africana, assai mobile e promiscua, sopravvissuta per un pelo a svariate catastrofi ambientali, divenuta poi una presenza invasiva: una «specie prepotente», come ha scritto Cavalli Sforza. Una moltitudine di storie affascinanti viene dunque molto prima della Storia con la maiuscola che si studia a scuola.
Siamo umani perché non abbiamo mai smesso di esplorare nuovi mondi, di muoverci, di guardare cosa c’era dall’altra parte della collina. Le civiltà di oggi non sono monoliti senza tempo, ma organismi con le radici intrecciate. All’Italia come laboratorio di molteplici diversità, e al contempo di una profonda unità culturale, è dedicata una sezione speciale della Mostra. Ma pensiamo al Medio Oriente, al Caucaso, ai Balcani, all’Afghanistan, allo stesso Corno d’Africa: la coincidenza è sorprendente e rivelatrice, perché tutte queste regioni martoriate sono state i più antichi e maggiori laboratori di diversità umana, culturale e linguistica. Sono stati i più ricchi, frequentati e tormentati crocevia del popolamento umano del pianeta. Una specie africana giovane, inventiva ed espansiva, a partire dalla sua unità ha saputo generare la diversità. Ora proprio dalla storia della diversità può imparare a riscoprire la sua unità.

Corriere della Sera 10.11.11
Una mostra a Roma
Segni di civiltà
Dalle origini all’evoluzione alle straordinarie migrazioni
Così il cammino dell’uomo incontra la multimedialità
di Lauretta Colonnelli


«Gli uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando», ha scritto Bruce Chatwin in uno dei suoi passi più suggestivi. La mostra «Homo Sapiens» racconta questo lungo cammino, durato due milioni di anni. Perché se è vero che i nostri diretti progenitori popolano la Terra da duecentomila anni, prima ancora ci sono stati tanti altri generi di homo. Il vecchio mondo, che Sapiens cominciò a esplorare intorno ai centomila anni fa — emigrando dall'Africa orientale alle coste della penisola arabica — era già affollato da altre forme di genere homo fuoriuscite dalla stessa culla africana in almeno due migrazioni precedenti.
La specie più nota anche ai profani è l'uomo di Neanderthal. Ma esistevano anche l'Heidelbergensis e il Floresiensis. E nel buio dei millenni precedenti avevano camminato l'Homo habilis e il Rudolfensis, l'Ergaster e il Georgicus, l'Antecessor e l'Erectus, che un tempo era considerato l'anello mancante dell'evoluzione umana e oggi viene reinterpretato come un ramo orientale di successo della prima diaspora. Un mondo affollato dunque da diverse specie umane, che pian piano si estinguono. L'ultima, l'Homo floresiensis, scompare dodicimila anni fa. E noi restiamo soli sulla faccia della Terra.
Per ripercorrere questa specie di viaggio fantascientifico all'interno della mostra del Palaexpo ci vogliono almeno due ore. Ma si consiglia il visitatore di concedersene anche il doppio, perché i reperti arrivati da 56 musei di tutto il mondo e mai riuniti prima, le grandi carte storico-geografiche delle migrazioni, le postazioni multimediali interattive sono un invito irresistibile ad approfondire l'osservazione.
«Questa mostra vi fa vedere tutto quello che storia e geografia possono insegnarvi intorno a quello che avete sempre voluto sapere sul mondo a cui appartenete, e persino su voi stessi», annuncia Luigi Cavalli-Sforza, il celebre genetista che ha curato l'esposizione insieme al filosofo della scienza Telmo Pievani riunendo qui le scoperte di un mezzo secolo di studi e ricerche planetarie. E se le origini dell'umanità oggi sono un po' meno misteriose è proprio grazie all'intuizione geniale di Cavalli-Sforza, che ha pensato di studiare l'evoluzione facendo convergere i dati paleontologici, archeologici, genetici e linguistici.
Ciò che colpisce, indagando tra le sei sezioni del percorso, è il fatto che la storia di queste origini si deve in gran parte ai ritrovamenti avvenuti negli ultimi quarant'anni. Lo scheletro del ragazzo del Turkana (al quale lo scultore Lorenzo Possenti ha dato un corpo e una fisionomia espressiva come a tutte le altre figure ricostruite per la mostra) risale a un milione e seicentomila anni fa ed è stato trovato in Kenia nel 1984. Appartiene a Homo ergaster e il suo corpo longilineo (si calcola che da adulto avrebbe raggiunto circa il metro e ottanta) è incredibilmente simile a quello dell'uomo moderno, fata eccezione per alcune vestigia del passato come il torace carenato. L'Homo floresiensis, l'ultimo cugino che ci ha fatto compagnia, con le dimensioni di un nano, i piedi enormi e la conoscenza di una tecnologia avanzatissima, è stato rinvenuto sull'isola indonesiana di Flores nel 2003. I resti dell'Homo antecessor, vero europeo autoctono conosciuto, sono scoperti nel 1994. Il bambino di Lagar Velho, ipotetico ibrido di Homo sapiens e neandertaliano, è stato ritrovato in Portogallo nel 2006. La scoperta di un'Eva mitocondriale, cioè di una matrice originaria di Dna mitocondriale comune a tutti gli esseri umani sulla Terra, è del 1987. «Ed è la dimostrazione che gli uomini sono tutti uguali, indipendentemente dal colore della pelle, dalle dislocazioni territoriali, dalle ideologie, dalle credenze religiose. Il Dna che li accomuna è unico», fa notare Emmanuele Emanuele, presidente del Palaexpo, che ha voluto alla fine del percorso un gioco interattivo in cui si dimostra che le razze non esistono. In mezzo, ancora un'infinità di rivelazioni: dai primi sassi dipinti con figure di animali al disco di argilla babilonese con il teorema di Pitagora inciso milleduecento anni prima che Pitagora lo descrivesse; dal papiro originale con i versi di Saffo alla piccola raccolta di ossa ioidi (situate tra la lingua e la laringe e indispensabili per la modulazione del suono) appartenenti a specie diverse di homo, che hanno permesso di capire come i neandertaliani fossero incapaci di pronunciare le vocali i, a, u e le consonanti g, k e di postulare l'ipotesi che questa fosse una delle cause della loro estinzione.
Lauretta Colonnelli

Corriere della Sera 10.11.11
La testimonianza. Una pittura rupestre e i misteri della nostra specie che gradualmente ha sbaragliato tutti i nostri «cugini»
Il traguardo, una donna dipinta sulla roccia
Ventimila anni fa, uno come noi: così in Australia scoprii il genio dell'Homo sapiens
di Viviano Domenici


Camminavamo tra le pietre nella Olduvai Gorge, in Tanzania, la gigantesca ferita geologica che sprofonda nella piana del Serengeti per quasi cento metri mettendo allo scoperto strati di terreno antichi quasi 2 milioni di anni. Davanti a me, occhi fissi a terra, avanzava lentamente il celebre antropologo americano Donald Johanson, lo scopritore dello scheletro di Lucy, un australopiteco femmina di 3,2 milioni di anni fa. Lo scienziato si fermò d'improvviso per indicarmi un ciottolo di pietra grigio verde, grande come un pugno, che affiorava dalla terra rossa. Lo riconobbi e lo raccolsi esitando un po'. Era un chopper, un utensile scheggiato da un uomo appartenente a una specie diversa dalla nostra: l'Homo habilis, che comparve in Etiopia 2,5 milioni di anni fa.
L'episodio mi tornò in mente molti anni dopo mentre avanzavo faticosamente tra rocce insidiose e vegetazione alta per raggiungere una parete di roccia completamente dipinta appena avvistata. Ero nell'Arnhem Land, nel Nord dell'Australia, con una spedizione scientifica che stava esplorando la regione aborigena alla ricerca di pitture preistoriche. Ne avevamo individuate parecchie, diverse già note altre mai viste prima, ma quella che avevo davanti agli occhi mi sembrò la più bella di tutte: l'avevamo appena scoperta noi. Al centro del dipinto era raffigurata una donna nuda (o una Dea Madre?) dal ventre gonfio, forse in atto di partorire, attorniata da un gruppetto di enigmatiche figure maschili con alte acconciature; completavano la scena diverse impronte di mani, figure di animali, simboli incomprensibili. Tutto realizzato con ocra rossa. Lo stile delle figure indicava chiaramente la sua età: 20.000 anni e a realizzarle fu un Homo sapiens, cioè un uomo esattamente come noi.
Tra quelle due antiche testimonianze è racchiusa quasi tutta l'avventura umana che oggi paleontologi, archeologi e genetisti riescono a raccontarci come una favola, di cui noi Sapiens abbiamo scritto solo l'ultimo capitolo, quello che copre gli ultimi 200.000 anni. Tutto il resto lo scrissero uomini di specie differenti dalla nostra: Homo habilis, Homo rudolfensis, Homo ergaster (che due milioni di anni fa migrò dall'Africa e arrivò sino in Cina e a Giava, mentre riusciva a dominare il fuoco), e poi Homo erectus, Homo georgicus, Homo antecessor (il primo vero europeo), Homo heidelbergensis, (protagonista della seconda grande ondata migratoria dall'Africa) e il celebre Homo di Neanderthal, che comparve in Europa circa 200.000 mila anni fa, proprio mentre in Africa centro- orientale e in Sudafrica appariva l'Homo sapiens.
Secondo i ricercatori tutte le grandi migrazioni furono indotte da imponenti fenomeni climatici che, modificando gli ambienti naturali e di conseguenza la disponibilità delle risorse, indussero gli uomini a spingersi in nuovi territori. La spiegazione è certamente convincente ma è anche innegabile l'esistenza di una curiosità innata che ha sempre spinto gli uomini a conoscere l'ignoto, a cercare di raggiungere l'ultimo orizzonte per vedere che cosa c'era oltre. Comunque sia, gruppi di Sapiens lasciano la loro culla africana e in tre ondate migratorie (tra 120.000 e 50.000 anni fa) raggiungono la Penisola arabica, il Mediterraneo e il Levante, da dove si lanciano verso est, fino alla Cina e all'Australia. Intorno a 50.000-45.000 entrano in Europa, infine occupano le Americhe.
L'intero pianeta fu così colonizzato dai Sapiens e l'evoluzione culturale fece a un rapidissimo balzo in avanti: i progressi della tecnologia, la conquista del linguaggio articolato, lo sviluppo del pensiero simbolico, la nascita dell'arte (40-35.000 anni fa), sono alcuni dei fenomeni letteralmente rivoluzionari su cui si fonda tutta la nostra storia; ma il successo evolutivo del Sapiens ha un lato oscuro che tendiamo a dimenticare: fino a 40.000 anni fa, nel Vecchio Mondo, vivevano almeno cinque specie diverse di Homo che, con l'arrivo del Sapiens, scomparvero una dopo l'altra; tra cui il nostro «cugino» Neanderthal; non un nostro antenato ma un'umanità alternativa, parallela, con cui convivemmo per quasi 20.000 anni negli stessi territori stringendo anche relazioni molto intime, ben testimoniate dalla presenza nel nostro Dna di una piccola quota neandertaliana.
I Sapiens incontrarono altri Homo (Homo di Denisova in Siberia e il pigmeo Homo floresiensis, in Indonesia); quest'ultimo ci accompagnò fino a 12.000 anni fa, poi scomparve come tutti gli altri. Quale sia stato il nostro ruolo nell'estinzione di questi compagni di viaggio è un interrogativo ancora aperto, ma non è difficile immaginarlo: basta pensare a quello che accadde (e accade ancora oggi) ai nativi americani quando incontrarono i «civilizzatori» europei. Oggi il Sapiens è rappresentato da 7 miliardi di individui, ma è l'unica specie di Homo rimasta. Una solitudine enigmatica e inquietante. D'altro canto c'è da chiedersi quale futuro avrebbe avuto il Neanderthal o il Piccolo floresiensis se fossero sopravvissuti fino ai nostri giorni.

Corriere della Sera 10.11.11
«La lingua? La prima misura del potere»
Cavalli Sforza: «Alcuni idiomi si sono imposti come confini di conquista»
di Roberta Scorranese

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Corriere della Sera 10.11.11
Il confronto degli alfabeti: dalla Bibbia ai nostri migranti
Babele. Fallimento di una sola cultura
E Dio sparse i semi della diversità
di Erri De Luca

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l’Unità 10.11.11
Intervista a Amitav Ghosh
Le vie dell’oppio incrociano il libero mercato
di Maria Serena Palieri


Tutto è nato da una cifra. La cifra era questa: agli inizi dell’età vittoriana il 20% dell’economia britannica si basava sul commercio dell’oppio. Un dato che non poteva che accendere la fantasia di un reporter-romanziere nato nell’India post-coloniale, con moglie, figli e casa a Brooklyn, ma con un piede anche tra Calcutta e Goa, uno scrittore vocato al racconto del «mondo in movimento e mutamento», come si definisce Amitav Ghosh. Scoperto questo dato è cominciata appunto la sua avventura narrativa, la trilogia il cui primo mattone è stato il romanzo Mare di papaveri da noi uscito nel 2008. Ora ecco il secondo: Il fiume dell’oppio. Qui ritroviamo la nave Ibis in rotta tra Mauritius e India. Ma stavolta – siamo nel 1839 approdiamo nel più stravagante dei luoghi: Fanqui-town, la roccaforte per stranieri di Canton. Un luogo per soli uomini e quasi per soli mercanti d’oppio: perché è il voluttuoso «fango» nero, prodotto in India, la merce con cui i britannici hanno corrotto milioni di cinesi e fabbricato ricchezze incalcolabili. Quei soldi foraggiano banchetti e feste sfarzosi. Ma il nuovo Celeste Imperatore ha deciso di mettere fine al commercio: siamo agli albori delle due Guerre dell’Oppio, quelle che tra il 1839 e il 1860 sanciranno il principio che non tutti sono uguali davanti alla legge, i bianchi, occidentali, britannici, cristiani fanno razza a sé e non si possono giudicare. E di nuovo Amitav Ghosh ci avvince in 520 pagine di narrazione fluviale e sinuosa, con la descrizione di un mondo esotico e remoto, ma con sorprendenti rimandi all’oggi.
Anche Il fiume dell’oppio, come già Mare di papaveri, è frutto di una impegnativa ricerca storica. Dalla nota in chiusura, dopo aver seguito i personaggi come si seguono dei personaggi d’invenzione, scopriamo che invece essi sono in buona parte uomini esistiti davvero, che hanno lasciato tracce nelle cronache dell’epoca. Quali sono le sorprese maggiori che le ha riservato, stavolta, la sua ricerca nella Cina meridionale della prima metà dell’800? chiediamo allo scrittore. «Tutto ciò che riguarda i fiori e le piante. Ma anche i dettagli dell’immediata vigilia della prima guerra dell’oppio» replica.
Al lettore ciò che appare più ignoto e bizzarro è l’esistenza dell’enclave di Canton, questa terra per soli uomini, dove mercanti inglesi e indiani si invitano l’un l’altro con naturalezza a danzare un valzer o una polca. Che esistesse era già noto?
«Io stesso sono rimasto stupefatto imbattendomi in questo luogo. Non era un mondo omosessuale, piuttosto un regno per persone dello stesso sesso che, certo, intessevano tra loro anche delle relazioni molto tenere. Molti di quelli che sceglievano di vivere a Canton erano comunque già votati a un’esistenza da scapoli. C’è, a questo proposito, una storia formidabile: nel 1830 tre donne occidentali riuscirono a entrare di straforo in quell’enclave, nascondendosi in una nave. Crearono un parapiglia. E dopo due settimane sembra che gli uomini si dicessero “che non succeda mai più”. Perché molti andavano lì per sfuggire alle mogli. Noi pensiamo all’epoca vittoriana come a un’età abitata da super-maschi. In realtà c’erano anche strane usanze. Sull’usanza dei valzer per soli uomini a Canton, comunque, tutte le fonti concordano».
In due suoi precedenti romanzi la natura irrompe con un carico di paura ancestrale: nel «Palazzo degli specchi» con la carica degli elefanti e nel «Paese delle maree» con l’apparizione della tigre. Qui, al contrario, è la più domata delle nature a fare da protagonista: vivai e giardini. È un messaggio?
«Il romanzo comincia pur sempre con una terribile tempesta. Ma è vero che qui la natura si manifesta in un altro dei suoi aspetti, cioè quello in cui nell’800, specie in Cina, l’umanità selezionava le piante. È vero che i giardini sono addomesticati, ma è pur sempre natura. E magnifica. Il giardino cinese di quell’epoca, per me, è una delle grandi conquiste dell’umanità». Nella sua trilogia lo sbeffeggiamento dello zeitgeist dell’epoca – il culto del libero mercato – ha un ruolo chiave. Uno dei mercanti, il britannico Burnham, ripete sia nel primo libro che in questo secondo che il libero mercato è Gesù Cristo e Gesù Cristo è il libero mercato. Ciò che è cambiato è il contesto: mentre lei scriveva «Mare di papaveri» regnavano Bush e i neocon, «Il fiume dell’oppio» invece è venuto alla luce dopo il collasso di Wall Street. Quale impressione le fa?
«Mentre scrivevo Mare di papaveri, col capitalismo iper-liberista all’acme, mi sentivo una “vox clamans in deserto”. Oggi quello che mi lascia sbalordito è che, mentre tutte le altre ideologie vengono chiamate a rispondere dei loro misfatti, quella del libero mercato viene trattata come se fosse caduta dal cielo e non viene mai associata alle sue conseguenze. Perciò guardo con grande interesse al movimento nato sull’onda di “Occupy Wall Street”, perché affronta in modo frontale l’ideologia liberista. Cinque giorni fa è successa una cosa molto interessante a cui i giornali hanno dato poco peso. A Harvard, dico a Harvard, era in cattedra Nicholas Gregory Mankiw, il capo dei consiglieri economici di George W. Bush e ideologo tra i maggiori del mercatismo, e i suoi studenti si sono alzati e se ne sono andati dicendogli “Lei ci sta propinando una visione di parte”. Quello che non gli insegnano i professori di Harvard gliel’hanno insegnato gli sbrindellati occupanti di Wall Street. Ciò che lascia di sale è come la dottrina del libero mercato che va lasciato a se stesso venga servita come un dato di natura. Il commercio, la vendita, gli affari sono un aspetto importante del vivere. È stato un errore terribile pensare di poterne fare a meno, come hanno propugnato i radicali di alcune ideologie. Ma se ne fai delle divinità poi gli dei si vendicano e distruggono i loro stessi adoratori». Nei suoi romanzi è raro incontrare un elemento classico: il grande amore. Qui è proprio assente. Perché?
«Ce ne sono molti e diversi. Mi interessavano di più i contrasti. Bahram, il personaggio centrale, ha due donne, la moglie indiana e l’amante cinese. Questo era un modo di gettare luce su entrambi i rapporti».
I lettori fedeli che l’hanno seguita sulle vie dell’oppio per mille pagine quanto dovranno aspettare per il terzo volume di questa trilogia?
«Mi creda, sarei felicissimo di essere ora al lavoro nel mio studio. Ma la verità è che ancora non ho cominciato a scrivere e non so nulla, nulla davvero, del libro che deve nascere».

l’Unità 10.11.11
Giorgio Napolitano rassicura gli artisti: “adda passà ’a nuttata”
Il Presidente riceve al Quirinale personalità dello spettacolo e consegna i Premi De Sica e Le maschere del teatro italiano
di Marcella Ciarnielli


Ha evocato «’a nuttata» che «adda passà» il presidente della Repubblica davanti al mondo dello spettacolo riunito al Quirinale per la Giornata dello Spettacolo, un incontro tradizionale che Napolitano non ha «pensato nemmeno» di rinviare in un momento di grande tensione «non per non fare un torto all’infaticabile impegno di Gian Luigi Rondi, non perché mi lega al vostro mondo un’antica personale predilizione e passione ma per la convinzione del ruolo essenziale che l’Italia delle arti, dello spettacolo, del teatro e più in generale della cultura è chiamata sempre, e ancora di più nella fase che il Paese sta attraversando».
LA FINE DI “NAPOLI MILIONARIA”
Il messaggio di Eduardo, le ultime parole di “Napoli milionaria”, fatto di preoccupazione e di speranza nell’immediato dopoguerra, è diventato di stringente attualità, nel momento di crisi straordinaria che il paese sta vivendo. Ed il presidente lo ha voluto ricordare per sollecitare la reazione indispensabile per riuscire a rivedere il giorno, anche da parte di chi fa cultura ogni giorno, ovunque si esibisca, si mostri, scriva e dica parole. «Ciascuno di voi operando nel campo che gli è proprio, con il talento e la creatività di cui siete capaci, e facendo la vostra parte di cittadini consapevoli in ogni occasione e luogo di vita pubblica, aiuterete l’Italia a riguadagnare la fiducia che merita e la solidarietà che le occorre. E di ciò vi ringrazio di cuore».
E di cuore gli artisti hanno risposto con un lungo, caloroso applauso, dimostrando il loro impegno a collaborare per andare oltre la crisi con «consapevolezza diffusa e nuovi comportamenti, individuali e collettivi, rigore e qualità, spirito di sacrificio e slancio innovativo». Il ministro Galan, per sua stessa affermazione «ancora per poco», ha confermato la promessa per il ripristino del Fondo unico dello spettacolo che dovrà «essere mantenuto e aumentato in futuro», ha definito «ineludibile» la riforma delle fondazioni lirico-sinfoniche», ha auspicato «la legge per lo spettacolo dal vivo». In modo da portare oltre la crisi un mondo che la sta conoscendo in modo profondo. «La crisi ci obbliga prima di tutto a fare piazza pulita degli incompetenti e a reagire puntando sulla qualità e sul talento»
Nel salone dei Corazzieri c’erano i vincitori dei Premi De Sica e delle Maschere d’Argento per il teatro. Tra i tanti Dario Fo con Franca Rame, Massimo Ghini, Giorgio Albertazzi, Mariangela Melato e Checco Zalone, Carla Fracci ed Enrico Brignano, Nicola Piovani e Neri Marcorè, Lando Buzzanca e Massimo Dapporto, Arnaldo Pomodoro.
Non mollare. Guardare al futuro. Anche se quello più immediato su cui anche gli artisti si interrogano è il destino del governo, le possibili dimissioni del premier. «È una trappola, Berlusconi ha bisogno di tirare a campare e lascerà che il tempo passi, sperando che nel frattempo che le sinistre si scannino tra loro» prevede Dario Fo. «Faccio la danza della pioggia perché accada davvero» rivela Mariangela Melato.

Corriere della Sera 10.11.11
Io e Zoran sopravvisuti a Dachau
con il terrore che possa ripetersi
L'incontro col Male di Pahor e Mušic, i due grandi italo-sloveni

di Boris Pahor

S iamo ambedue nativi del medesimo territorio, lui dalla parte goriziana, io da quella triestina, che dopo la Prima guerra mondiale divenne la Venezia Giulia. Sloveni, nati con quattro anni di distacco come cittadini austro-ungarici, una double nationalité spiegò Zoran ai francesi che non fanno differenza tra cittadinanza e nazionalità.
In ogni modo, iniziata la guerra nel 1915, l'intelligente famiglia Mušic previde la bolgia in cui si sarebbe ridotta la regione e divenne esule. Né vi si ristabilì nel dopoguerra, poiché il periodo oscuro che con il fascismo annientò con le leggi e col terrore tutta la fiorente cultura e vita sociale slovena durò fino all'inizio del secondo conflitto. L'esordio del male lo si ebbe a Trieste, dove già nel 1920 fu data alle fiamme nel centro della città la Casa della Cultura slovena. Ed è proprio in quei paraggi che con Zoran ci incontrammo negli anni postbellici, quando le due tradizionali culture della città facevano i primi approcci a quella che è oggi un'amichevole e ricca cooperazione.
L'incontro fu nella Galleria Scorpione, di fronte alla chiesa serba sulla sponda del Canale. Una piccola galleria ma importante anche per gli incontri di artisti della Jugoslavia e soprattutto della Slovenia. Zoran si trattenne specialmente con i due pittori sloveni di Trieste, August Cernigoj e Lojze Spacal, che si erano già fatti notare; io facevo parte del gruppo letterario con i poeti Cergoly e Dario de Tuoni. Rimarcai che Zoran era piuttosto serio e taciturno di fronte alla spigliatezza dei triestini, in modo speciale del Cernigoj.
Da soli parlammo a Lubiana, ci fermammo davanti a una banca e discutemmo d'arte, credo a mia iniziativa, perché era l'epoca in cui dominava l'«École de Paris» ed io non ero, come non lo sono tuttora, per l'arte informale. Non è che non l'apprezzi ma non mi soddisfa, mentre Zoran la accettava. Devo dire però che, sebbene sapessi di Dachau, non sapevo dei suoi disegni. Lui controbatté alla mia affermazione che ciò che è importante è il corpo umano, adducendo il compito della fotografia, dato lo sviluppo di quella a colori. Là mi impuntai, trovando il ragionamento troppo semplicistico e pensando ad un tempo che egli se ne serviva perché riteneva che il mio rifiuto decisivo della pittura informale dipendesse dalla mia pedissequa fedeltà al realismo. Ma credo di aver aggiunto che ero rimasto a Chagall e ci trovammo d'accordo che in fondo la cosa principale non è l'école ma la qualità dell'opera. Fu un non-incontro, perché non accennammo né lui né io a Dachau, sebbene eravamo rimasti segnati tutti e due e io ci fossi stato, a Dachau, perfino due volte. Succede spesso, quando si incontrano due ex deportati, di parlare di tutto all'infuori del Lager; è stato così anche durante l'incontro con Stéphane Hessel: in un'ora di dialogo non abbiamo detto nulla del Campo di Dora che abbiamo ricordato solo con un abbraccio e col darci del tu.
Sì, Zoran poi l'ho seguito quando ce n'era l'occasione, l'ho ammirato alle mostre, scoprii i disegni di Dachau con immensa soddisfazione: un prezioso documento salvato e presentato da un grande artista. E poi quella era una testimonianza dei Campi per politici, dai «triangoli rossi», Campi con più di tre milioni di morti. E fui contento di non aver accennato a Dachau durante l'incontro sul marciapiede di Lubiana; Zoran infatti aveva preso in considerazione i corpi, anzi i corpi distrutti, ridotti a carcasse, a covoni, a mucchi di carcasse, quindi avrebbe potuto dirmi che era normale mi dedicassi a motivi meno esigenti. Tanto più che confessava come l'esperienza del Campo era valsa a modificare radicalmente il modo di considerare l'esistenza e l'essenza della vita.
Fatto sta che da parte mia ci ho messo del tempo per poter descrivere in maniera appropriata e degna il mio passaggio nell'universo concentrazionario, e solo nel 1967 riuscii a testimoniarlo in un testo che intitolai Nekropola, in sloveno, e che in un racconto unisce il Campo di Dachau con quello di Struthof-Natzweiler sui Vosgi, di nuovo Dachau, Dora-Harzungen, Bergen Belsen. Si tratta di Campi ai quali ho già accennato, che insieme a Buchenwald, Mauthausen, e loro dipendenze, sono stati destinati ai politici ai quali ho già accennato, agli antinazisti, ciò che di solito non si fa notare, purtroppo.
Ecco che con Nous ne sommes pas les derniers Zoran Mušic rivede la verità storica, proprio sottolineando che non si è affatto sicuri che i Campi non si ripetano. E questo è il valore maggiore della nuova serie di opere, che sicuramente si presenta con un valore artistico supremo.
Questo per telefono glielo dissi, quando si parlò di un suo disegno per la copertina dell'edizione americana del mio libro a New York, ciò che non si realizzò poiché l'editore aveva un progetto suo, ma non ebbi l'occasione di parlare più a lungo appunto del suo ritorno ai motivi dei Campi. E fu certamente una perdita.
Anche perché a Zoran avrei detto sinceramente che per conto mio le opere datate Dachau 1945 meritavano di avere il titolo che avevano le nuove richiamate dalla memoria, e nate da un lavoro di concentrazione che le arricchiva riguardo all'arte ma ne toglieva l'immediatezza testimoniale. Certo, si sarebbe opposto tanto di più perché i disegni di Dachau li riteneva come dei documenti e sbagliava, perché erano sì documenti, ma di un disegnatore che era il Goya del XX secolo.
Speravo di poter dire della mia impressione da deportato che per un anno era stato con i morenti ed i morti del «Revier», all'inaugurazione della mostra al Grand Palais, ma ho potuto solo stringergli la mano, affermare il grande valore della sua opera in generale e della serie «Noi non siamo gli ultimi», un valore in particolare per la coscienza europea, offerto per merito di un eminente rappresentante della cultura slovena. Non ne ebbi il tempo: un gruppo se lo accaparrò, seguito poi dal presidente Mitterrand.

Repubblica 10.11.11
"Stalin e Hitler, carnefici dell'Est europeo" Ecco il libro che fa discutere gli storici
Esce in Italia "Terre di sangue": nel 2010 è stato, negli Usa, il saggio dell'anno
L'ha scritto Snyder che spiega: "I due regimi condivisero la politica di sterminio"
di Simonetta Fiori


In America è stato il "libro dell´anno 2010", così acclamato e discusso da molte autorevoli testate per il suo sguardo inusuale e anche perturbante. Eccolo ora in Italia con il titolo Terre di sangue. L´Europa nella morsa di Hitler e Stalin (Rizzoli). L´autore è un professore di Yale poco più che quarantenne, Timothy Snyder, specializzato nella storia dell´Europa centro-orientale. Qual è il suo contributo originale? Per la prima volta ha scelto di raccontare una storia come nessuno in sede storiografica l´aveva mai raccontata. O, meglio, ha scelto di analizzare in un´unica cornice atrocità finora studiate separatamente. Questa è la storia delle Bloodlands, ossia delle terre devastate dalla furia nazista e stalinista tra il 1933 e il 1945. Un territorio delimitato non da confini politici, ma dalla geografia delle vittime, «il luogo in cui i più criminali regimi d´Europa operarono nel modo più feroce».
Quattordici milioni di morti in poco più di dieci anni, frutto della politica di sterminio di Hitler e Stalin. Una mappa insanguinata che dalla Polonia centrale si estende alla Russia occidentale, includendo Bielorussia, Ucraina e Stati baltici. Storie di persone uccise non dalla guerra ma da lucide strategie di massacro. «Non uno solo di quei quattordici milioni di morti era un soldato in servizio effettivo. La maggior parte era costituita da donne, bambini e anziani. Principalmente ebrei, bielorussi, ucraini, polacchi, russi e baltici». Persone inermi, molto spesso deprivate di tutto, perfino dei vestiti. «Il più grande disastro nella storia del mondo occidentale», dice Snyder, che lo riconduce alla interazione e alla sovrapposizione dei due regimi totalitari, fotografati nelle loro diaboliche analogie. «Hitler e Stalin condivisero una certa politica tirannica: provocarono catastrofi, scaricarono sul nemico la responsabilità della loro scelta, poi usarono la morte di milioni di persone per dimostrare come le loro politiche fossero necessarie o desiderabili». Anche la costruzione del saggio restituisce questo incrocio mortale, in un crescendo narrativamente molto efficace e anche angosciante.
Professor Snyder, lei rimette insieme storia nazista e storia sovietica, mostrando l´inedita geografia delle Bloodlands. Una prospettiva originale in sede storiografica. Come vi è approdato?
«Quel che deve sorprendere non è certo il mio taglio originale. Chiunque sia vissuto in quelle terre e in quegli anni, sotto il giogo di nazisti e sovietici, non poté scegliere se paragonare o meno i due regimi: fu condannato a farlo, talvolta nel tentativo di sopravvivere. Quel che sorprende, piuttosto, è che ancora oggi sia per noi rassicurante tenere i due regimi separati, e mantenere distinte le singole storie nazionali. Ma questo ci impedisce di vedere la dimensione completa dell´orrore. E ci impedisce soprattutto di spiegarlo».
Come se lei volesse ridare voce alle vittime, a lungo contese dalle diverse memorie e dalle diverse ideologie.
«L´assassinio di quattordici milioni di civili è una tragedia enorme che richiede un serio tentativo di spiegazione. Certo ci è difficile capire fino in fondo ciascuna politica di sterminio, singolarmente intesa. L´elenco è lungo. La carestia deliberatamente provocata da Stalin nei primi anni Trenta in Ucraina. Il Grande Terrore tra il ´37 e il ´38. La mortale aggressione tedesco-sovietica alle classi colte polacche tra ´39 e ´41. I tre milioni di prigionieri sovietici lasciati morire di fame dai tedeschi. Le centinaia di migliaia di civili uccisi nelle rappresaglie naziste. Infine, l´Olocausto. Non comprendiamo completamente le cause di alcune di queste uccisioni di massa, e in che modo possano essere reciprocamente collegate».
Cosa intende?
«Prendiamo la più grande delle catastrofi, l´Olocausto. Lo sterminio degli ebrei ebbe luogo in quei territori, le Bloodlands, dove più di otto milioni di non ebrei vennero uccisi quando Hitler era al potere. Anche senza l´Olocausto questa sarebbe stata la più grande ecatombe nella storia d´Europa. Possiamo davvero comprendere l´Olocausto senza conoscere questo background? No, io penso di no. E ancora oggi nessun saggio sull´Olocausto, tranne il mio, mostra questa parte fondamentale della realtà».
Ma in questo modo non si corre il rischio di annacquare l´unicità della Shoah? Qualche storico americano intervenendo nella discussione su Bloodlands ha detto che, se non c´è niente di sbagliato nel paragonare l´Olocausto ai crimini di Stalin, potrebbe invece turbare l´equivalenza.
«Il mio libro non è una ricerca comparativa, piuttosto lo studio di ciò che accadde in un determinato territorio quando erano presenti sia nazisti che sovietici. Due gli elementi imprenscindibili. Il primo è che in quelle terre ebbe luogo la più grande calamità nella storia d´Europa, oggetto della mia indagine. Il secondo elemento è che le vittime non poterono fare a meno di paragonare i due regimi. Penso a Vasilij Grossman, scrittore sovietico nato in Ucraina da famiglia ebrea. Egli assistette alla carestia lucidamente indotta da Stalin in Ucraina, e più tardi perse sua madre nell´Olocausto nazista, sempre in Ucraina. Gli venne naturale paragonare i due terribili eventi. Così fu per moltissimi ebrei, e così per moltissimi ucraini».
Questo è evidente. Ma un conto è paragonare, un conto riconoscere l´unicità del genocidio degli ebrei.
«Ecco, questo è il punto. Il raffronto non implica assimilazione. Il mio saggio mostra in modo inequivocabile il carattere straordinario dell´Olocausto, la sola politica finalizzata all´eliminazione fisica di un intero popolo. E inoltre dimostro, per la prima volta, che l´Olocausto è stato la peggiore politica di sterminio anche in termini quantitativi. Per decenni – prima che io li fermassi – gli storici dell´Olocausto hanno sostenuto che l´Olocausto manteneva il suo tratto di unicità, anche se Stalin aveva eliminato più persone. In realtà non fu Stalin ma Hitler il responsabile d´un numero maggiore di morti. L´Olocausto fece più vittime della politica assassina di Stalin tra il 1933 e il 1945».
Lei rintraccia molte affinità tra i due regimi totalitari. Con questo vuole suggerire anche un´equivalenza morale tra Hitler e Stalin?
«No, naturalmente no. Nel mio libro lo sguardo è costantemente rivolto alle vite umane, alla singola individualità, e il regime nazista fece il doppio delle vittime rispetto ai morti della dittatura sovietica. Cosa ancor più importante, il nazismo pianificò di uccidere un numero di persone enormemente più grande rispetto alla moltitudine che riuscì a liquidare. Ma dobbiamo stare attenti nel trattare questi problemi morali».
A cosa si riferisce?
«Bisogna conoscere il più possibile la storia. La dittatura stalinista fu assai peggiore di quanto credano molti italiani. Quale regime realizzò il primo sterminio di massa di carattere etnico: quello nazista o quello sovietico? Fu quello sovietico, nelle "operazioni nazionali" del 1937-1938, che uccisero circa 250.000 persone. La stessa riflessione si può fare a proposito del regime nazista: chi oggi ricorda i tre milioni di soldati sovietici fatti morire di fame in condizioni inimmaginabili? Nessuno».
Sarei più ottimista, professor Snyder, sullo stato delle conoscenze in Italia intorno a Stalin e a Hitler.
«Se davvero gli italiani sanno delle "operazioni nazionali" di Stalin o delle strategie di morte per fame e inedia condotte da Hitler, sarei molto impressionato, perché russi e tedeschi generalmente le ignorano. Ma è un problema di tutto l´Occidente. Torniamo un momento all´Olocausto: l´immagine che abbiamo è molto più pallida e diluita rispetto alla realtà. Noi pensiamo alle vittime italiane e tedesche, ma la grande maggioranza degli ebrei sterminati furono polacchi o ebrei sovietici. Noi pensiamo ai campi di concentramento, ma la grande maggioranza delle vittime non vide mai un campo. Furono fucilate o gassate vicino ai luoghi in cui avevano vissuto. Crediamo che l´organizzazione nazista richiamasse l´anonimato di una macchina, e invece gli ammazzamenti degli ebrei venivano eseguiti da vicino. Solo concentrandoci sulle terre di sangue possiamo avere l´idea della piena mostruosità di quel crimine».
Perché secondo lei esiste tuttora una difficoltà nel padroneggiare le Bloodlands?
«È molto più semplice interpretare le catastrofi come tragedie nazionali. Ma le singole storie nazionali possono solo fare domande, non suggerire risposte. E, da una prospettiva europea occidentale, è ancora rassicurante pensare che l´Unione Sovietica abbia cancellato il male del regime nazista. Nei fatti, però, l´inferno avvenne nei luoghi in cui Hitler e Stalin ebbero il potere. Ma questa esperienza è rimasta estranea alla mentalità occidentale, sia in Europa che in America. E ci risulterà sempre più facile immaginare Germania nazista e Unione Sovietica come entità distinte: i due regimi erano molto diversi, ma i territori da loro controllati si sovrapponevano. Bloodlands è la storia degli europei a cui toccò in sorte di imbattersi in entrambi i regimi criminali».

Corriere della Sera 10.11.11
L'intellettuale, eterno antagonista
Daniel Barenboim: «L'Italia non deve credere ai politici»
di Daniel Baremboim


Nel corso di quest'ultimo anno, ovunque nel mondo si è avvertito disagio e esasperazione, Egitto, Tunisia, Libia hanno espresso il loro malcontento, ma anche l'Occidente è stato teatro di espressioni violente e non, di insofferenze, speranze tradite e tanta rabbia. Basti pensare alle scene di Londra ad agosto o Roma tre settimane fa. Siamo di fronte a una crisi globale, sistemica e ideologica, pervasa da incertezza e instabilità.
Mi chiedo se, in questo clima di profonda preoccupazione, non sia arrivato il tempo per tutti noi di ripensare a un nuovo approccio responsabile nei confronti della società che viviamo e alimentiamo.
Dobbiamo promuovere una coscienza civile consapevole delle difficoltà del momento, ma capace di infondere fiducia e sicurezza nel singolo cittadino.
Ma veniamo all'Italia, Paese a cui sono molto affezionato. Ultimamente su tutti i giornali internazionali e non, sentiamo parlare solo di interessi sul debito pubblico troppo alti, livelli di disoccupazione in crescita, di un Paese incapace di crescere. Non sono un economista, ma so che non si può rimanere inermi davanti a tali difficoltà. A mio avviso è necessaria una spinta costruttiva e positiva verso un cambiamento strutturale di atteggiamento e di pensiero.
Tale cambiamento può emergere solo da cittadini illuminati e ben informati, deve pertanto svilupparsi una generazione di intellettuali focalizzati sulla cosa comune, slegati dalle logiche dei poteri, al fine di promuovere una cultura dell'etica e della conoscenza.
Edward Saïd ha definito bene il ruolo degli intellettuali pubblici, sostenendo che la missione dell'intellettuale deve essere quella di sostenere e aiutare lo sviluppo della libertà e del sapere dell'uomo.
Nel 2001, durante una delle sue lezioni, Saïd definì il ruolo dell'intellettuale in opposizione ai governi, specialmente quando i governi vengono reputati privi di credibilità, consenso, cultura e pensiero. Per dirla con le parole di Saïd, «un intellettuale ha il compito non di promuovere semplicemente l'interesse di un singolo, ma deve comprendere responsabilmente lo stato attuale delle cose e pronunciarsi, indirizzare anche se in maniera antagonistica». La missione dell'intellettuale deve essere quella di sfidare ciò che può essere definito come un silenzio forzato o un tacito accordo imposto dai poteri dominanti. Sempre citando Saïd, gli intellettuali devono dare un contributo attivo agendo in prima persona. In questo senso gli intellettuali dovrebbero rappresentare dei punti di riferimento per il resto della società.
Credo fermamente che gli intellettuali debbano essere figure che possono ispirare e spingere al cambiamento.
Un governo in una società democratica è responsabile della qualità della vita dei cittadini. Quando i cittadini non sono contenti, non devono aspettare che i politici intervengano, i politici non lo faranno. Perché loro sono occupati a pensare a come saranno rieletti. Il problema è che siamo diventati troppo dipendenti dai governi e dalla gente di potere. Mio padre mi ha dato un insegnamento unico e prezioso. Mi aveva detto: hai talento, chissà forse sarai famoso un giorno. Forse guadagnerai dei soldi, chi lo sa. Ma c'è una cosa che è molto più importante della fama e del denaro ed è l'indipendenza, l'indipendenza di pensiero. Non ho mai dimenticato questa frase di mio padre. Perché penso che lui abbia avuto eccezionalmente ragione su tutto ciò che mi ha detto. Il suo insegnamento continua a spingermi a fare tutto ciò che faccio.
Nelle varie epoche storiche si è sempre dibattuto sul ruolo e sui confini dell'uomo di pensiero. Ai due antipodi troviamo l'intellettuale desideroso di trasformare la realtà e l'intellettuale silente, che si ritira dal mondo e osserva senza alcun contatto diretto con la realtà che lo circonda. Non è mia intenzione dilungarmi sulla dialettica della figura dell'intellettuale, ma il mio auspicio è che, in un momento storico cosi delicato, non si resti a guardare un'Italia debole e senza guida, ma che rappresenti l'occasione per far emergere una generazione di intellettuali pubblici che possano aiutare i singoli cittadini ad andare oltre i confini di ciò che è accettabile e magari indirizzare l'opinione pubblica verso la comprensione dello stato delle cose, di ciò che veramente conta ed è doveroso fare per il bene pubblico comune.
Mi auguro che le difficoltà del momento diventino l'opportunità per noi tutti di riconsiderare il modo in cui essere cittadini consapevoli e protagonisti. Per questo c'è bisogno di gerarchia. La gerarchia non è obbligatoriamente una legge imposta dall'alto, ma piuttosto una necessità umana.
Dobbiamo tutti pensare attivamente a questo e alla società che stiamo lasciando alle generazioni future e dobbiamo farlo adesso.

Repubblica 10.11.11
Il futuro dell’Unione tra crisi e populismo
I filosofi e l´economia, simposio a Parigi
di Jurgen Habermas


Sul breve termine, tutte le attenzioni devono essere concentrate sulla crisi. Ma al di là di questo, gli attori politici non dovrebbero dimenticare i difetti di costruzione che sono alla base dell´unione monetaria e che potranno essere rimossi non più solo attraverso un´unione politica adeguata: l´Unione Europea non dispone delle competenze necessarie per armonizzare le economie nazionali, che presentano divergenze marcate sul piano della competitività. Il «patto per l´Europa» appena ribadito serve solo a ribadire un difetto antico: gli accordi non vincolanti fra capi di governo sono o inefficaci o antidemocratici e per questa ragione devono essere sostituiti da un´incontestabile istituzionalizzazione delle decisioni comuni.
Da quando l´embedded capitalism è tramontato e i mercati globalizzati della politica stanno evaporando, diventa sempre più difficile per tutti gli Stati dell´Ocse stimolare la crescita economica e garantire una ripartizione giusta degli introiti, e garantire la sicurezza sociale della maggioranza della popolazione. Dopo la liberalizzazione dei tassi di cambio, questo problema è stato disinnescato dall´accettazione dell´inflazione. Dal momento che questa strategia comporta dei costi elevati, i governi utilizzano sempre più la scappatoia delle partecipazioni ai bilanci pubblici finanziate con il credito. La crisi finanziaria che va avanti dal 2008 ha fissato anche il meccanismo dell´indebitamento pubblico a spese delle generazioni future; e nel frattempo non si capisce come le politiche di austerity – difficili da imporre sul fronte interno – possano essere conciliate sul lungo periodo con il mantenimento di un livello sopportabile di Stato sociale.
Dato il peso dei problemi, ci si aspetterebbe che i politici, senza rinvii e senza condizioni, mettano finalmente sul tavolo le carte europee, in modo da chiarire esplicitamente alle popolazioni la relazione fra costi a breve e utilità reale, vale a dire il significato storico del progetto europeo. Dovrebbero superare la loro paura dei sondaggi di opinione e affidarsi alla potenza persuasiva dei buoni argomenti. Invece strizzano l´occhio a un populismo che loro stessi hanno favorito occultando un tema complesso e impopolare. Sulla soglia dell´unificazione economica e politica dell´Europa, la politica sembra esitare e tirarsi indietro. Perché questa paralisi? È una prospettiva prigioniera del XIX secolo, che impone la risposta nota del demos: un popolo europeo non esiste e dunque un´unione politica degna di questo nome sarebbe costruita sulla sabbia. A questa interpretazione vorrei contrapporne un´altra: una frammentazione politica duratura nel mondo e in Europa è in contraddizione con la crescita sistemica di una società mondiale multiculturale e blocca qualsiasi progresso nel campo della civiltà giuridica costituzionale dei rapporti di forza fra Stati e dei rapporti di forza sociali.
Fino a questo momento l´Ue è stata portata avanti e monopolizzata dalle élite politiche e il risultato è stata una pericolosa asimmetria tra la partecipazione democratica dei popoli ai benefici che i loro Governi «ricavano» per sé stessi sul remoto palcoscenico di Bruxelles e l´indifferenza, per non dire assenza di partecipazione, dei cittadini dell´Ue rispetto alle decisioni del loro Parlamento di Strasburgo. Questa osservazione non giustifica una sostanzializzazione dei «popoli». Solo il populismo di destra continua a proiettare la caricatura di grandi soggetti nazionali che si chiudono a vicenda e bloccano qualsiasi formazione di volontà transnazionale.
Negli Stati territoriali si è dovuto cominciare installando l´orizzonte fluido di un mondo della vita diviso in grandi spazi e attraverso relazioni complesse, e riempirlo con un contesto comunicativo rilevante della società civile, con il suo sistema circolatorio delle idee. Va da sé che una cosa del genere si può fare soltanto nel quadro di una cultura politica condivisa che resta abbastanza vaga. Ma più le popolazioni nazionali prendono coscienza, e più i media fanno prendere loro coscienza, della profonda influenza che le decisioni dell´Ue esercitano sulla loro vita quotidiana, più crescerà il loro interesse a esercitare anche i loro diritti democratici in quanto cittadini dell´Unione.
Questo fattore di impatto è diventato tangibile con la crisi dell´euro. La crisi costringe anche il Consiglio europeo, a malincuore, a prendere decisioni che possono pesare in modo squilibrato sui bilanci nazionali.
La conseguenza di un «governo economico» comune, che piace anche al Governo tedesco, significherebbe che l´esigenza centrale della competitività di tutti i Paesi della comunità economica europea si estenderebbe ben al di là delle politiche finanziarie ed economiche e arriverebbe a toccare i bilanci nazionali, intervenendo fino al ventricolo del muscolo cardiaco, cioè fino al diritto dei Parlamenti nazionali di prendere decisioni di spesa.
Se non si vuole violare in modo flagrante il diritto vigente, questa riforma in sospeso è possibile solo trasferendo altre competenze degli Stati membri all´Unione. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno raggiunto un compromesso tra il liberalismo economico tedesco e lo statalismo francese che ha contenuti ben diversi. Se ho ben capito, cercano di trasformare il federalismo esecutivo implicito nel trattato di Lisbona in un predominio del Consiglio europeo (l´organo intergovernativo dell´Unione) contrario al trattato. Un sistema del genere consentirebbe di trasferire gli imperativi dei mercati sui bilanci nazionali senza alcuna reale legittimazione democratica.
L´Unione deve garantire quello che la Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca chiama (art. 106, comma 2): «l´omogeneità delle condizioni di vita». Questa «omogeneità» fa riferimento solo a una stima delle situazioni della vita sociale che sia accettabile dal punto di vista della giustizia distributiva, non a un livellamento delle differenze culturali. Un´integrazione politica fondata sul benessere sociale è indispensabile se si vuole proteggere la pluralità nazionale e la ricchezza culturale del biotopo della «vecchia Europa» dal livellamento nel quadro di una globalizzazione che avanza a ritmo sostenuto.
© Le Monde (tradotto da Denis Trierweiler e Fabio Galimberti)

Repubblica 10.11.11
La terza rivoluzione del Dna
di Umberto Veronesi


Dieci anni fa la scoperta del Codice della Vita nel Dna è stata la più importante rivoluzione non violenta della storia recente. Di fronte al sequenziamento del genoma umano c´è stata un´esplosione di entusiasmo: abbiamo scoperto che il cancro è originato da una mutazione al Dna e tutti i laboratori del mondo si sono concentrati sulla ricerca di farmaci cosiddetti intelligenti, vale dire molecole in grado di raggiungere le cellule tumorali che contengono una certa mutazione, senza danneggiare le altre cellule dell´organismo ( quindi a ridotta tossicità per il malato). E´ apparso come un sogno per la ricerca, ma abbiamo presto capito che il processo per la sua realizzazione è più lungo e complesso di quanto previsto.
Attualmente i farmaci biomolecolari in uso sono circa 40, troppo pochi, anche se sono oltre 100 quelli in sperimentazione in migliaia di studi clinici. Sappiamo che la via è quella giusta, ma il percorso che va dal gene mutato al farmaco deve essere ancora molto migliorato. Negli ultimi anni abbiamo pensato di aprire un altro fronte di ricerca utilizzando le conoscenze genetiche non solo per la cura, ma anche per la diagnosi. È nata così la diagnosi molecolare, che si sta delineando come la seconda rivoluzione in oncologia legata al Dna perché ci permette di scoprire la malattia anticipo. In alcuni casi prima che si manifesti. Abbiamo scoperto che nel processo di sviluppo di molti tumori, le cellule tumorali mettono in circolo frammenti specifici di genoma rilevabili con un semplice esame del sangue. Già il test è disponibile, in via sperimentale, per il tumore del polmone e presto potrebbe esserlo anche per quello del seno.
Una terza rivoluzione è ormai in atto: la vaccinazione antitumorale. Sappiamo che virus che causano tumori sono responsabili del 20% dei casi di malattia. Due sono la causa di tumori molto comuni: l´Hpv (Human Papilloma Virus) causa il cancro della cervice uterina e l´Hbv (il virus dell´epatite B) il cancro del fegato. Poiché per entrambe è stato messo a punto un vaccino efficace, l´applicazione su scala mondiale della vaccinazione contro questi due tumori sarà in grado di cancellarne l´esistenza. Queste prospettive però non si realizzeranno senza una rivoluzione culturale e un´assunzione di responsabilità da parte dei cittadini, che dovrebbero aderire in massa alla prevenzione e alla diagnosi precoce. Senza partecipazione cosciente della gente, la lotta al cancro si ferma.

Repubblica 10.11.11
Anticipiamo l´introduzione di Corrias alla nuova edizione della biografia dello scrittore
Torna la vita di Bianciardi. Una storia anarchica
di Pino Corrias


Era il guastafeste che negli anni del Miracolo economico raccontava quel che andava perduto, a partire dai sogni per un altro mondo, non arreso alla religione del guadagno

Alla fine gli anni macinano coincidenze. Siamo a quarant´anni dall´addio di Luciano Bianciardi al mondo. A quasi venti dalla prima edizione di questo libro che gli tolse la polvere della dimenticanza, restituì un posto ai suoi romanzi e luce al suo viaggio solitario, scoperto da migliaia di nuovi lettori, incantati dalla sua ironia, ma anche dalla sua eccentrica preveggenza.
Con questa nuova edizione, Luciano torna a casa, più o meno dove tutto cominciò, casa editrice Feltrinelli appena nata, anno 1954, lui redattore fresco di Maremme e minatori, sceso da uno dei tanti treni che in quei mesi, in quegli anni, stavano portando le braccia e le teste che avrebbero fabbricato a Milano il Miracolo economico. Era il tempo giovane del Dopoguerra. Il futuro declinato per una volta al presente. Nascevano non solo i palazzi e le fabbriche dalle macerie. Ma anche le case editrici, i giornali, le agenzie di pubblicità e naturalmente la televisione, che in una decina di anni avrebbero svezzato l´italiano medio dandogli uno specchio, una lingua, quattro ruote, una cucina americana, e qualche volta persino una rotonda sul mare. Tutti (o quasi tutti) ne cantavano le lodi, tranne lui. Il provinciale, il guastafeste che di tante addizioni conteggiava quel che andava perduto, a cominciare dai sogni per una Italia diversa, un po´ più giusta, non arresa alla religione del conformismo, del guadagno, dell´arrivismo, del piccolo e del grande potere. Sempre persuaso che il successo "fosse solo il participio passato di succedere".
Il mio viaggio cominciò per caso a Milano, da un nome che condusse a un libro su una bancarella e poi a uno spiraglio. Lo spiraglio rivelò un mondo. Il mondo di Luciano Bianciardi che si era dissolto tra libri introvabili, amici dispersi, racconti mai narrati. E da quel mondo riemerse la sua avventura che ne intrecciava tante altre, dalla ricostruzione all´infatuazione neocapitalistica, dalla provincia dei braccianti, al vetrocemento dei grattacieli milanesi, e poi l´industria culturale, la politica, il 68, tutto filtrato dalla luce della sua radiosa impazienza, ma anche dalla debolezza delle sue rinunce. Fino al buio della solitudine finale, mentre a Milano, di sera, scendeva ancora la nebbia.
In quella nebbia Luciano Bianciardi arrivò giovane e anarchico (alla maniera maremmana), fece la sua bohème in Brera, tra artisti, fotografi e conti da pagare, sgobbò da traduttore a cottimo, inventò libri, digerì pasti in trattoria e delusioni anche politiche. Trovò, infine, la sua traiettoria di narratore. E addirittura un po´ di fama per quella "vita agra" che aveva masticato e seppe restituire, in forma di romanzo, facendone "la storia della diseducazione sentimentale al tempo del Miracolo economico", scagliando le parole dell´invettiva contro i cristalli della nuovissima industria culturale e di tutte le altre industrie che lavoravano l´acciaio e l´anima, che scandivano i tempi nuovi del neocapitalismo e poi anche dell´alienazione. Dai caroselli, ai supermercati, dal traffico delle automobili, ai casermoni di periferia, dalle segretarie secche che intasano i marciapiedi del centro e "le tubature aziendali", ai ragionieri senza pietà, ai preti senza fede, ai pubblicitari senza sogni, agli scrittori senza stile. Sempre raccontandoci il suo stupore per un mondo che capì in anticipo, detestò in anticipo, e che poi smise di rincorrere, scegliendo la camminata lenta del provinciale che se ne va per la sua strada. (...)
Vita agra di un anarchico è uscito nel 1993. Da allora Luciano Bianciardi è ritornato in terra. Tutti i suoi libri dispersi sono stati ristampati. Persino i suoi articoli, un migliaio, che nei suoi anni di inchiostro si lasciava dietro, anche con molta noncuranza e sempre il disincanto di scrivere per vivere, quasi mai il contrario, cacciatore perpetuo di soldi e di ingaggi per scalare il fine mese. Per vivere dentro a quella solitudine affollata anche di conti da pagare, che era il suo destino e il suo tormento. (...) Il libro è rimasto com´era, a parte qualche ripulitura e questa prefazione, farina dei suoi molti amici, e di quel lungo viaggio che intrapresi più o meno trent´anni fa, per rintracciare il testimone perduto di una stagione cruciale della nostra storia, che mai come ora ci riguarda. Una stagione che ha ancora bisogno dell´inchiostro di Luciano Bianciardi per lasciarsi illuminare. E della sua avventura per commuoverci.

Repubblica 10.11.11
Van Gogh Gauguin
Il Viaggio, il dolore, la bellezza di due grandi artisti
Al Palazzo Ducale di Genova sono esposti ottanta capolavori
Cuore del progetto è l´opera chiave del maestro francese prestata solo di rado da Boston
Anche per il pittore olandese c´è un dipinto-evento: "Campo di grano con covoni"
di Lea Mattarella


Un paio di scarpe deformate, logore, sfinite. Vincent Van Gogh le ha indossate nel suo viaggio, in gran parte a piedi, dall´Olanda al Belgio. E poi le ha dipinte, nel 1886 dopo aver raggiunto Parigi, in un quadro pieno di pathos, dono prezioso e carico di significato per Paul Gauguin che ne parla in uno scritto del 1894. Inizia così, con una tela simbolica e struggente, la mostra Van Gogh e il viaggio di Gauguin, aperta a Genova a Palazzo Ducale (fino al 15 aprile), curata da Marco Goldin e accompagnata da un suo libro pubblicato da Linea d´ombra.
Questo dipinto, metafora di un cammino nello stesso tempo fisico e interiore, è allestito in maniera sorprendente. Accoglie infatti il visitatore in un ambiente in cui è ricostruita la celebre camera di Van Gogh ad Arles dove, in un cortocircuito prima ancora emotivo che visivo, è posto accanto a due paesaggi di Giorgio Morandi del 1943. «Il viaggio – spiega Goldin – parte sempre da una stanza. Ma ci sono due strade possibili e io le ho volute indicare immediatamente entrambe. La prima è quella di Van Gogh che si sposta da un luogo all´altro o che cammina nervosamente nella sua camera di solitudine, calzando quelle stesse, struggenti scarpe con cui ha intrapreso un cammino che poi si rivelerà nel colore e nella luce. La seconda è quella di Morandi che resta tutta la vita nello stesso posto e non ha neanche bisogno di uscire perché dipinge ciò che vede dalla sua finestra con il cannocchiale. La sua è un´avventura mentale, sottilmente di sguardi. Ma è pur sempre un viaggio».
Cuore di questa mostra che attraversa l´Europa e l´America, il XIX e il XX secolo, è un´opera chiave di Paul Gauguin, uno dei capolavori della pittura di tutti i tempi: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Un dipinto che ha comunque viaggiato molto poco: il Museum of Fine Arts di Boston, dov´è conservato, lo ha concesso in prestito soltanto quattro volte in un secolo. E solo due in Europa. Quindi l´arrivo di questo monumentale quadro che si estende per quasi 4 metri di larghezza, è un evento che già di per sé varrebbe una visita alla mostra. E che rivela, fin negli interrogativi suggeriti dal titolo e dichiarati da Gauguin in una scritta sul lato sinistro in alto, il significato più profondo di questa rassegna: il viaggio è sempre dentro di sé. E non importa se si attraversi l´Oceano, o una strada, o un pensiero.
Per mostrare tutta la forza visiva di quest´opera nella sala più grande del palazzo si è ricostruita, con un imponente effetto teatrale, la capanna di Gauguin a Tahiti come ci è stata tramandata da alcune fotografie scattate nel 1897. È qui e proprio in quell´anno che Gauguin lo ha dipinto, durante il suo secondo soggiorno – o la sua seconda fuga? – nei mari del Sud.
Sappiamo che nessun artista più di lui incarna la figura del viaggiatore che esplora luoghi lontani per ritrovare un´armonia altrimenti perduta, una riappacificazione con la natura, con il suo io primordiale e primitivo e per questo autentico, inviolato. «Sono un selvaggio, un lupo, senza collare, nella foresta» diceva di sé. E questo quadro doveva essere una specie di testamento, «il sontuoso mantello dei miei sogni». Gauguin lo realizza in un mese di lavoro febbrile che va avanti giorno e notte. Ha infatti saputo della morte della sua amata figlia Aline, è malato, povero e infelice. Vuole togliersi la vita. Prima di farlo però ha intenzione di realizzare il suo capolavoro. È questo: enigmatico, pieno di simboli, costruito come un fregio, dove si incontrano bambini addormentati, figure che si confidano pensieri, idoli, vecchie, animali, vegetazione. Gauguin confesserà all´amico Daniel de Monfreid: «Credo che non solamente questa tela superi in valore tutte le precedenti, ma soprattutto che io non ne farò mai una migliore o che anche solo le si avvicini. Qui ci ho messo, prima di morire, tutta la mia energia, una tale passione dolorosa in delle circostanze terribili, e una visione talmente netta, senza correzioni, che l´aspetto frettoloso scompare e ne emerge la vita». Il tentativo di suicidio dell´artista andrà fallito. Sopravviverà fino al 1903 e di opere ne farà altre. Celebri e bellissime. Ma come aveva preconizzato nessuna raggiungerà mai la potenza espressiva di questo superba tela orizzontale.
La dimensione spirituale del viaggio così ben interpretata dal quadro-culto di Gauguin, scandisce con sicurezza le tappe della mostra. Ma è davvero evidente quando ci si imbatte nei quaranta Van Gogh raccolti per questa occasione, 25 dipinti e 15 disegni a essi collegati, provenienti in gran parte dal Van Gogh Museum di Amsterdam e dal Kröller Müller Museum di Otterlo. Com´è noto un pezzetto del loro cammino l´artista olandese e Gauguin lo hanno fatto insieme. Pochi mesi di convivenza nel 1888 ad Arles, nel Sud della Francia, con un finale tragico.
Anche per Van Gogh la mostra si distingue per un dipinto-evento. Si tratta di quel Campo di grano con covoni dipinto ad Auvers poche settimane prima del suicidio. Questa volta riuscito. Un´opera che a causa della sua fragilità non era esposta al pubblico da più di 40 anni e che per l´occasione è stata sottoposta a un accurato restauro. «Ho voluto rappresentare il suo passaggio dall´oscurità alla luce», dice ancora Goldin parlando della scelta delle opere di Van Gogh. Si parte infatti dal buio appena interrotto dall´apertura di una finestra del Tessitore al telaio del 1884 fino alla luminosità dei frutteti, dei campi di grano, delle barche a Saintes-Maries-de-la-Mer, dei vigneti, gli ulivi, l´immensità del sole che sembra proteggere il Seminatore. Con la stessa pennellata febbrile, nervosa, carica di espressività, Van Gogh ritrae se stesso al cavalletto. Fino alla fine Van Gogh sarà capace di creare allarme e inquietudine nelle cose più semplici: alberi, orizzonti, paesaggi. E quel campo su cui si agitano i corvi sembra dare forma a un chiaro presagio di morte.

Repubblica 10.11.11
In mostra anche Hopper, Morandi, Kandinsky, Rothko
Se lo sguardo è un´avventura interiore
di Carlo Alberto Bucci


Si disegna un itinerario diacronico dentro l´arte dell´Otto e del Novecento

La donna sta seduta sul letto e guarda fuori dalla stanza, verso le prime luci del giorno. È il Sole del mattino che la illumina e che imprime sulla parete disadorna un quadrato luminoso. Un quadrato nel quadro, ma anche la proiezione della città americana "ritagliata" dalla finestra aperta sul paesaggio. L´opera del 1952 di Edward Hopper – arrivata alla mostra di Genova su Van Gogh e il viaggio di Gauguin dal Columbus Museum of Art, Ohio – fotografa una situazione antitetica rispetto al tema del viaggio inteso come movimento; all´incedere solenne del Seminatore di Van Gogh, in quel "primo passo" che porterà agli albori del Novecento i futuristi a sintetizzare le forme dinamiche nello spazio e nel tempo.
In attesa di qualcosa, come le Dame di Carpaccio aspettano gli uomini impegnati nella caccia in valle, la modella di Hopper sta da sola, e ferma, sulla soglia del giorno, in bilico tra realtà e astrazione. Il Sole del mattino è uno degli innesti (35 opere, prestiti internazionali di prestigiosi musei) apportati fuori dal tempo di Van Gogh e Gauguin, il corpo principale della mostra, da Marco Goldin. «Anche quando il viaggio nasce da un luogo, è sempre un viaggio interiore» sottolinea il critico trevigiano.
Viaggiare stando fermi, insomma. Come ha fatto Giorgio Morandi, presente a Genova con, tra l´altro, due paesaggi del 1943 colti sull´Appennino emiliano, uno dei pochi viaggi "reali" che il maestro italiano si concesse lontano dalle nature morte allestite nell´atelier di via della Fondazza a Bologna. E come fanno le "figure che guardano", una delle sezioni che compongono la mostra genovese: la Ragazza che guarda il paesaggio (1957) dell´americano Richard Diebenkorn, ad esempio; o la Figura sulla riva del mare (1952) del francese Nicolas De Staël.
America e Europa sono le due latitudini che si confrontano in questa mostra nella mostra. Ed è il viaggio alla conquista del West quello intrapreso da Albert Bierstadt di cui sono esposti Nella Yosemite Valley (1866) e, dell´anno dopo, Tra le montagne mentre all´esplorazione dell´Est il visitatore è portato da Edwin Church (1826-1900), lungo quella costa del Maine frequentata anche, nel ´900, da Andrew Wyeth (5 opere: da Mattina di Natale del 1944 a Secca nel fiume del 2003). E se l´orizzonte "americano" segnato da Mark Rothko con due essenziali, straordinari dipinti degli anni Sessanta (dalla National di Washington e dallo Stedelijk di Amsterdam) è vicino a quello dei Tre paesaggi marini eseguito il secolo prima da Turner (1827, Londra, Tate), la sezione sulla pittura europea muove del sentimento romantico della Barca sull´Elba nella nebbia del primo mattino di Friedrich (1820-25), si infiamma nelle tempeste di Turner per placarsi nelle Ninfee (1905, Boston, Museum of Fine Arts) del giardino di Monet a Giverny.
Un percorso diacronico dentro l´arte dell´Otto e del Novecento quello disegnato al palazzo Ducale di Genova intorno, e dentro, il faccia a faccia tra Van Gogh e Gauguin. «È una mostra molto personale la mia – spiega Goldin – fatta anche di intrecci di natura letteraria: dai Quattro quartetti di Eliot alla poesia di Attilio Bertolucci». Nel secolo della velocità, un «viaggio interiore, di naturale spirituale». E la strada porta così dritta a Wassily Kandisky, all´autore dello Spirituale nell´arte, il padre dell´astrazione del Novecento, di cui sono esposte cinque dipinti, dal 1908 al 1917, della galleria Tretyakov di Mosca.

Corriere della Sera 10.11.11
Fiera dei piccoli editori senza fondi. Così rischia di lasciare presto Roma
di Paolo Fallai


L a fondazione che organizza la Fiera del Libro di Torino sta discutendo in questi giorni i tagli ai fondi per l'edizione 2012. L'ultimo Festivaletteratura di Mantova ha dovuto fare i conti con le casse «vuote» del Comune. E il Festival della Filosofia di Modena ha talmente stretto la cinghia che per salvare gli appuntamenti ha ridotto all'osso tutto, compresa la stampa dei programmi.
Non c'è appuntamento culturale che non stia facendo i conti con la riduzione dei budget. Ma almeno se ne parla. A Roma, quando mancano meno di quattro settimane alla Fiera della piccola e media editoria «Più Libri più Liberi», per uscire da un silenzio definito «insultante» gli editori si sono rivolti ai giornali. La Fiera, unica riservata ai piccoli editori, avrebbe voluto festeggiare la decima edizione (con tanto di invito al presidente Giorgio Napolitano) al Palazzo dei Congressi di Roma dal 7 all'11 dicembre. Ma dopo mesi di contatti (negati) e lettere (senza risposta) gli organizzatori non hanno notizie del finanziamento del Comune di Roma (100 mila euro), hanno saputo per vie traverse che non avranno quello della Regione Lazio (220 mila euro) e solo ieri hanno avuto conferma che i 100 mila euro della Provincia in qualche modo arriveranno. Confermati anche i fondi del ministero (220 mila euro) e della Camera di commercio (60 mila) che insieme agli altri garantivano una copertura del 50 per cento dei costi. «Roma è la capitale della piccola editoria — ha detto il presidente dell'Associazione editori, Marco Polillo — e questa manifestazione con 430 editori e 50 mila visitatori ogni anno, rappresenta un unicum europeo. Noi garantiremo questa edizione, con uno sforzo gigantesco, ma è evidente che senza garanzie dovremo decidere se chiudere nel 2012 o andarcene da Roma, sperando di trovare altrove maggiore sensibilità».
Ci vuole un anno per organizzare una Fiera del libro seria — insistono gli editori — e per dicembre sono attesi a Roma Amélie Nothomb, Santiago Gamboa, Shun-Luen Bynum, Zachar Prilepin, ma oggi «non sappiamo cosa accadrà e cosa dovremmo tagliare», dice il direttore Fabio Del Giudice. «Due terzi degli editori e un terzo dei visitatori vengono da fuori la Regione Lazio e questa fiera — insiste Polillo — è una gemma di Roma, prima era tagliata fuori dal mondo editoriale. Questo silenzio istituzionale mi stupisce perché va contro gli interessi della città, più che degli editori». La piccola e media editoria nella Regione Lazio, come ha spiegato Enrico Iacometti, presidente del Gruppo piccoli editori dell'Aie, «rappresenta un comparto economico importante: ci sono 500 marchi editoriali e oltre 6 mila addetti».
Oggi partirà una nuova lettera indirizzata al sindaco Gianni Alemanno («che dichiarava il sostegno alla Fiera perfino nel programma elettorale» ricorda Polillo) e alla presidente del Lazio, Renata Polverini. Ma il rischio che Roma perda l'appuntamento nel 2012 resta altissimo. «Nessuno sottovaluta la crisi — insiste il presidente degli editori italiani — eravamo pronti a discutere dei tagli, ma tacere fino alla fine, nascondersi, scappare, è inspiegabile».
Federculture ha stimato in 7,2 miliardi di euro le risorse che i Comuni italiani saranno costretti a tagliare nel 2012: tra il 2005 e il 2009 lo Stato ha ridotto gli stanziamenti del 32,5 per cento, in compenso negli ultimi 10 anni il cosiddetto turismo culturale è cresciuto di oltre il 50. Il risultato è nello sconforto di chi, nonostante tutto, non vuole arrendersi: «Tagliare è una cosa, uccidere un settore è un'altra».

Corriere della Sera 10.11.11
Più amici grazie a Facebook? Quelli veri sono (solo) due
Ma la maggioranza ha un unico rapporto autentico
di Maria Laura Rodotà


Leggere le conclusioni del Tess (Time-sharing Experiments for the Social Sciences, un programma che studia e analizza i rapporti sociali) fa sentire un po' soli; nella media ma soli. Al netto della caterva di amici di Facebook, dei colleghi, di quelli con cui ci si vede periodicamente a cena, degli amici di amici o dei partners, dei compagni di calcetto o di aperitivo, al netto di tutte le scremature esaminate dai ricercatori, gli amici veri restano due o tre. Anzi, a contarne quattro-cinque ci si sente sopra la media, magari a causa dell'età e dell'accumulo; perché secondo Matthew Brashears della Cornell University, che ha coordinato l'ultima ricerca, se venticinque anni fa l'anglosassone medio aveva un trio di amici del cuore, ora sono ridotti a due. Nonostante o forse a causa della continua socialità virtuale. Grazie alla quale si chiacchiera nonstop guardando uno schermo; che però impigrisce, ormai si parla poco al telefono e si esce ancora meno.
Così, il social network online si amplia e crea nuovi comportamenti; e la rete di contatti reali si restringe. Rendendoci, scrive Brashears, «potenzialmente più vulnerabili; anche se non socialmente isolati quanto alcuni studiosi temevano». Insomma, quando ci vorrebbe un amico (come da nota canzone, di Venditti), la maggioranza lo trova. Solo il 4 per cento dei duemila intervistati per la ricerca non è stato in grado di nominare nessuno con cui ha discusso di argomenti personali importanti negli ultimi sei mesi. Il 48 per cento ha nominato un amico, il 18 per cento due, il 29 per cento più di due. La media, scrive Brashears, è perciò di «2.03 confidenti» a persona. Sperando che non abbiano il cellulare staccato.
E i ricercatori di Cornell rassicurano: la percentuale di individui «socialmente isolati» è la stessa di qualche anno fa, dell'epoca pre-Internet. Solo cinque anni fa, uno studio simile prevedeva che sarebbero triplicati. Non è successo; si è avverata un'altra previsione, il numero degli amici del cuore si è ridotto da tre a due. Perché, secondo Brashears, «tendiamo a giudicare un numero minore dei nostri contatti come adatto a conversazioni importanti» e intime. E probabilmente perché vediamo meno gente, e meno spesso, di persona. E così è più difficile aprirsi e fidarsi. Anche perché in molti — e non solo ragazzini — sono rimasti scottati dall'uso sgangherato dei social networks. C'è chi ha raccontato troppe cose personali nel suo status, chi ha litigato sulle altrui bacheche, chi si è comportato come se fosse in un capannello di amici, spargendo dati sensibili e provocando guai. Col tempo, la maggioranza ha imparato a stare attenta. A tenere a bada i rompiscatole, a diffidare di chi si conosce a malapena e s'intromette, a evitare i presunti amici logorroici e/o provocatori. E a parlare di cose importanti solo faccia a faccia, o via messaggi privati.
I più acculturati hanno preso atto che il numero di Dumbar (dal nome dell'antropologo di Oxford che l'ha formulato) è realistico: un individuo non riesce a mantenere relazioni stabili con più di 150 persone. Il resto è chiacchiera su Facebook e Twitter. E tra i centocinquanta, ci sono gli amici verso i quali ci si sente in colpa e con cui si prende un caffè ogni due mesi, i cugini che si vedono a Natale, i conoscenti di cui si sospetta perché nel 1992 si è condiviso una fidanzata, e moltissime persone antipatiche.
Stringi stringi, ci si ritrova con i soliti pochi amici, come da Tess, alla fine. O tra amiche; perché le donne, specie se istruite, hanno più amiche vere (non ci voleva un cattedratico di Cornell, per saperlo).

Corriere della Sera 10.11.11
Sei volte undici Torna dopo un secolo il giorno da cabala
Domani, venerdì, la data palindroma
di Armando Torno


Come si fa a parlare dell'undici? È un numero primo, tra le cifre simboliche è indicato come «la dozzina del diavolo» e chi la sa lunga sui significati di questa delicata disciplina, dedotta dai pitagorici, assicura che dopo il 10 la sfortuna si accanisce. Altri, però, lo considerano simbolo di rinascita. Dopo quel 10 saccente e pieno, finalmente le carte si rimescolano. Domani, neanche a farlo apposta, sarà l'11/11/11 e, fatale combinazione, alle 11, 11 minuti e 11 secondi si creerà il più lungo palindromo con l'1. Già, palindromo. Vale a dire una sequenza di caratteri che, letta a rovescio, rimane identica (dal greco palin, indietro, e drómos, corsa). La storia non vi convince?
Chi scrive è leggermente preoccupato e non vorrebbe trovarsi alle 11, 11, 11 in un luogo sgradevole o con problemi in corso. Parafrasando Benedetto Croce, val sempre la pena ricordare che tali congetture non esistono, ma è bene tenerne conto. E poi la concatenazione è capitata soltanto una volta, e con più forza, nel 1111: fu in quell'anno che Enrico V fece imprigionare papa Pasquale II per ottenere il diritto di investitura e l'incoronazione imperiale, inoltre morì il filosofo al-Ghazali. Aveva 53 anni. Qualcuno, con un pizzico di perfidia, sosterrà che non si era cautelato a sufficienza da talune forze evocate. Proprio con quella combinazione che necessitava di ogni prudenza. Per quel che riguarda l'11 della nostra era, va detto che non ebbe effetti, perché il conteggio cristiano nascerà qualche secolo dopo con il monaco Dionigi il Piccolo. Poi fioccarono gli accostamenti, quali il 7/7/777 (per taluni quel giorno gli alchimisti arabi scoprirono l'acido solforico) o il 9/9/999, quando il sultano turco Mahmud I si insedia in India. Tornando a noi, va aggiunto che domani sarà il sesto momento sestuplo dal 2000 a oggi. Tutti ricordano il 02/02/02 o il 03/03/03. Questa volta però la data conterrà una sola cifra, la qual cosa equivale a un evento unico. L'anno venturo sarà l'ultimo che potrà vantare una data sestupla: il 12/12/12. E per quel giorno non si prevedono cose tranquille.
Ma non tutte le date palindrome sono foriere di sventure. Dipende dal numero che le forma. La corsa indietro che consente quella di domani è incentrata sull'uno. Gran bella cosa, giacché Dio creatore è inteso come «uno originario» che si manifesta nella dualità. Da tale combinazione rampollano tesi e antitesi, che danno vita alla sintesi, a quel 3 che vale come Trinità, triangolo, triade. Una regola dedotta dai Padri della Chiesa: «Tutte le cose buone sono sempre tre».
Per dirla in soldoni e con una considerazione: l'11/11/11 potrà essere un giorno felice e favorevole per i progetti se cercheremo di non realizzarli egoisticamente, con quell'1 sterile che si secca da solo. Che so?, far nascere società che moltiplicheranno i frutti grazie al flusso della triade; contrarre matrimonio, dal quale potrà nascere quel terzo che suggellerà il pronostico. Però è venerdì. E tale giorno è degno di riserve. Recita una massima popolare: «Di Venere e di Marte non ci si sposa né si parte». Che dire?
Sulle partenze, si sa, la disciplina è mutata, a causa del cambiamento dei mezzi per viaggiare. Ma sul matrimonio conviene essere prudenti. Domani chi volesse pronunciare il fatidico sì alle 11, 11 minuti e 11 secondi, non si dimentichi che, appunto, è venerdì (anche se The Guardian annuncia una valanga di intenti sponsali). Calma. Forse è meglio fare altro. E questo senza dare retta al caro Mario Monicelli che considerava matrimonio e parenti le disgrazie peggiori della vita. O al regista Darren Lynn Bousman che sulla singolare circostanza ha gufato realizzando un film horror. Secondo la sua tesi, le combinazioni dell'11 sono in grado di mettere in contatto gli umani con il soprannaturale.
Suggerimento: lasciate perdere questo genere di comunicazioni, quanto al matrimonio è meglio rinviare alla prossima data palindroma. Certo, occorre aspettare qualche secolo. Ma non stanno ripetendo tutti che la vita si è allungata?

l’Unità 10.11.11
È la paranoia che fa la storia
Questa la tesi del nuovo libro di Luigi Zoja in cui analizza come la pazzia del capo si trasmetta alla società incendiando gli animi di folle entusiaste I casi più evidenti? Hitler, Stalin, ma anche la guerra totale degli alleati...
di Romano Madera, analista junghiano


La follia che fa la storia». Il sottotitolo del libro di Luigi Zoja, Paranoia, è una sintesi fulminea: la paranoia non è solo una malattia mentale confinata a una certa percentuale di popolazione, oggetto di cure più o meno efficaci, no, è anche soggetto della storia collettiva, la condiziona, la trascina, attraverso l’epidemia che inizia dai capi per incendiare gli animi di folle entusiaste e possedute dalle Furie.
In un vertiginoso e documentatissimo affondo negli orrori degli ultimi due secoli, si susseguono le prove di una impietosa diagnosi: «la via della nuova cultura va dall’umanità alla bestialità attraverso la nazionalità», questo epigramma di Grillparzer intuisce che il nazionalismo, mischiato al socialdarwinismo (un darwinismo contraffatto, ridotto a predicare la «giusta» prevaricazione dei più forti) produrrà razzismo, pulizia etnica, terrore di massa, genocidio, a destra e a sinistra e al centro, dall’America alla Germania, dalla Russia all’Inghilterra. Il cosiddetto mondo civile, le ideologie politiche fasciste, comuniste, liberali e democratiche, vengono usate da una infezione paranoica che ha al suo centro la trasformazione dell’idea di nazione in odio nazionalista nei confronti dell’altro, scelto come capro espiatorio di ogni fallimento delle patrie. Le ideazioni paranoidee camminano nelle teste di uomini affetti dal male, la scintilla cade sull’oceano nero della disperazione sociale, infetta ogni risentimento, svelle ogni ragionevole obiezione, conquista la guida degli stati.
I ritratti, perfettamente contestualizzati nella sintesi storica, dei generali tedeschi, francesi, russi, alla vigilia della prima guerra mondiale, i vaniloqui di Wilson, la lucida follia di Hitler, l’ossessione sospettosa di Stalin, la guerra totale degli alleati, i calcoli del segretario del Tesoro americano sull’economia delle stragi pianificate e tante altre accurate ricostruzioni, fanno di questo libro la più acuta anamnesi del delirio collettivo che trasforma la storia in uno scannatoio planetario. Ogni volta qualche voce si leva all’altezza della dignità dell’intelligenza umana e del valore della pace, ma è solo un solletico fastidioso per la folla indemoniata.
La malattia è subdola, perché il potenziale paranoico è un prodotto degradato delle nostre comuni capacità critiche e di difesa che cercano spiegazioni di ciò che ci ostacola o ci minaccia. Non si presenta nelle vesti della affabulazione bizzarra o del delirio conclamato, si camuffa sotto una pseudologica e seduce con il frutto avvelenato dello scarico di responsabilità e della proiezione del male sugli altri. Il sospetto scova nemici, spiega gli eventi con i complotti, conquista il posto della vittima e recita la parte del perseguitato, infine cresce prodigiosamente su se stesso, si allarga e si approfondisce legittimando ogni esplosione di distruttività.
Come scrive Levi: «I mostri esistono ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi, sono più pericolosi gli uomini comuni». Dietro le trincee del Grande Macello della prima guerra, dietro Hitler, Stalin, Hiroshima, le bombe intelligenti e i fanatici kamikaze della nuova guerra santa, si deve scorgere il vero complice, i milioni di complici. Hanno il viso grazioso e la perfetta messa in piega di una bella ed elegante giovane donna che sta sulla copertina del libro. Sta scrivendo al fidanzato, un soldato americano, per ringraziarlo di averle inviato per regalo il teschio di un giapponese che «fa bella mostra di sé sulla scrivania della giovane». La donna quasi sorride guardando il teschio. La foto fu pubblicata su Life, il 22 maggio 1944. Zoja commenta: «Non sono state solo le SS di Auschwitz a collezionare orrendi reperti umani».
È difficile sopravvalutare il valore di questo libro, la sua capacità rarissima tanto fra gli analisti che fra gli storici di mostrare, in modo complesso e non riduzionistico, l’intreccio tra la follia paranoica e la storia contemporanea.
Una lezione magistrale di intelligenza psicologica e politica che cerca di aiutarci a discernere i sintomi di questo cancro collettivo, prima che sia di nuovo troppo tardi.