venerdì 11 novembre 2011

l’Unità 11.11.11
Il leader: il bene del Paese prima dell’interesse di parte. Casini: «Siamo a un passo dal baratro»
Nel Pd prevale la decisione di non indicare propri dirigenti come possibili ministri
Le condizioni di Bersani: «Ora equità e nomi nuovi»
Tra le condizioni poste dal leader dei Democratici, la «discontinuità» rispetto all’attuale governo e la necessità di una nuova legge elettorale. Monito a Sel e Idv per evitare il “fuoco amico”.
di Simone Collini


«Certo che per noi sarebbe stato meglio andare subito a votare, ma il bene del Paese viene prima degli interessi di partito o dei destini personali». Pier Luigi Bersani non si stupisce delle perplessità e delle critiche che militanti e simpatizzanti del Pd esprimono via web, del fatto che mezza segreteria (a cominciare dal responsabile del settore Economia e lavoro Stefano Fassina) evidenzi i rischi che comporta questa scelta, o che l’autore della ormai storica “Velina rossa” Pasquale Laurito bocci il «governo dell’ammucchiata» e annunci che al prossimo giro mancherà il suo voto, dopo 67 anni di militanza tra Pci, Pds, Ds e Pd.
Bersani sa bene quale sia nei sondaggi il vantaggio del centrosinistra rispetto al centrodestra, così come sa che con le urne nel 2013 tutto, candidatura alla premiership compresa, rischia di essere messo in discussione. Ma il leader del Pd ripete a tutti i suoi interlocutori che stiamo vivendo «la crisi più grave dal dopoguerra ad oggi» e che a situazioni di emergenza si deve rispondere con soluzioni di emergenza, che «i partiti sono un mezzo non un fine» e che il Pd «non fa business» sulla crisi del governo ma lavora perché già la prossima settimana l’Italia abbia un governo guidato da Mario Monti.
LE CONDIZIONI DEL PD
Al Quirinale, dove molto probabilmente domenica si apriranno le consultazioni, il leader del Pd andrà a dire che il suo partito è pronto a sostenere un esecutivo che abbia «un profilo di netta e inequivocabile novità» e che sul fronte economico adotti misure di «equità». Tra le condizioni che pone Bersani c’è la «discontinuità» rispetto all’attuale governo, e quindi è difficile che il Pd dica sì a nomi che compaiono nel totoministri che circola in queste ore, che vanno da Frattini a Nitto Palma a Fitto. C’è la necessità che a sostenerlo sia il Pdl, e non «frange» di partito. E poi ci sono le condizioni per così dire programmatiche, visto che il Pd vuole utilizzare i prossimi mesi per approvare una nuova legge elettorale, una riforma per dimezzare il numero dei parlamentari (che in quanto costituzionale richiederebbe almeno 12 mesi di tempo), misure per l’occupazione e altre redistributive sul piano fiscale: «Per uscire dalla crisi serve uno sforzo comune ma chi ha di più deve dare di più», è il messaggio rilanciato da Bersani nel corso di un incontro a Montecitorio a cui partecipano anche Fini, Casini e Alfano. Praticamente tutti i leader della nuova maggioranza che, se tutto andrà come previsto, sosterrà l’esecutivo Monti.
Bersani sa che questa scelta rischia di avere come prima conseguenza una lacerazione nel centrosinistra. E che difficilmente non avrà ripercussioni, alle urne, un fuoco amico contro il Pd protratto per mesi. Per questo il leader dei Democratici ieri mattina ha incontrato il responsabile Organizzazione di Sel Francesco Ferrara (uno degli uomini più vicini a Nichi Vendola dai tempi di Rifondazione) per chiedere che intenzioni abbiano ma soprattutto per raccomandare un atteggiamento responsabile in questo delicato passaggio. E per questo Bersani ha lanciato un messaggio piuttosto chiaro nei confronti di Antonio Di Pietro: «Non è che uno può andar per funghi durante il governo d’emergenza e poi tornare con noi per la campagna elettorale».
Questo passaggio segna comunque un rafforzamento dell’asse col Terzo polo. Casini, che ha passato la mattina a incontrare ex pidiellini e “responsabili” che stanno lavorando per dar vita a un nuovo gruppo alla Camera (Antonione, Destro e Gava da ieri sono intanto al Misto), dice che «siamo a un passo dal baratro, ci dobbiamo fermare e far prevalere l’unione». Poi, avverte il leader dell’Udc, «ciascuno potrà tornare alla posizione precedente». Ma sarà più facile farlo se i partiti sosterranno il nuovo governo senza entrarci.
E infatti il ragionamento che prevale in queste ore tra i Democratici è di non indicare nessun esponente Pd come ministro. Alle consultazioni Bersani (che critica l’esercizio al totoministri di queste ore) dovrebbe dare il suo assenso per un governo formato da personalità autorevoli, credibili a livello internazionale, e non esponenti di partito.

La Stampa 11.11.11
Bersani rischia tutto
Dilemma Bersani appoggiare Monti col rischio di sparire
La probabile vittoria alle elezioni barattata col governo tecnico
di Federico Geremicca


Mettetevi nei suoi panni, cioè negli abiti di chi era pronto ad incassare di fronte a elezioni a gennaio l’investitura a candidato-premier senza nemmeno il rischioso fastidio della prova delle primarie. Mettetevi nei panni di Pier Luigi Bersani, insomma, così da capire come il piombare in campo di Mario Monti poteva somigliare per lui ad una vera e propria sciagura. «Invece non un tentennamento assicura Rosi Bindi, la voce intermittente per qualche problema col telefono -. Non un’oscillazione. E se devo dire chi si è speso, anzi chi si sta spendendo di più per convincere i dubbiosi perché qualche dubbioso c’è l’abbiamo anche noi nemmeno io tentenno: Bersani».
Si potevano avere dei dubbi, in questo giovedì di tensione e di passione: sarebbero stati legittimi. Si poteva pensare a qualche giochino, anzi doppiogiochino: in politica se ne vedono ogni giorno, e se ne vedranno ancora. E si poteva, infine, immaginare l’umano prevalere dell’interesse personale e di partito: la storia è piena di scelte dettate da paura o da egoismo. Al contrario, da ieri sera una cosa è diventata irreversibilmente chiara: se dall’inizio della prossima settimana Monti siederà a Palazzo Chigi, molto lo si dovrà certo a Giorgio Napolitano, ma il resto del merito sarà suo, dell’uomo che «mica siamo qua a smacchiare i leopardi»...
Intendiamoci: se si provano a enumerare i vantaggi e gli svantaggi personali e di partito che la scelta comporta, verrebbe da dire che la rotta individuata dal leader del Pd ricorda da vicino un tentativo di suicidio. I democrats, infatti, barattano un futuro prossimo certo (la pronosticata vittoria alle elezioni anticipate) con un domani del tutto incerto; Bersani rende di nuovo contendibile con le primarie la postazione di candidato premier; il Pd si espone agli attacchi che gli arriverannoda sinistra, a cura di chi resterà fuori dal governo (Di Pietro e Vendola, al momento); «e c’è un rischio per noi forse ancor più serio aggiunge Rosi Bindi -. E cioè che all’ombra di un lungo governo tecnico e di fronte a un Pdl che cambia pelle, il Terzo Polo slitti di nuovo dall’altra parte del campo, e la frittata è fatta. È un pericolo vero: ma noi siamo gente seria, e vengono prima i pericoli ai quali Berlusconi ha esposto il Paese...».
Sarà pure così, anzi è certamente così: ciò non toglie che, dietro l’apparente sicurezza, tutto il Pd ha fibrillato a lungo intorno alla scelta da fare. Riunioni al largo del Nazareno, sede del partito; faccia a faccia più o meno riservati nei corridoi di Camera e Senato; telefoni roventi per tentare di capire se il governo nascerà davvero e se (domanda che non guasta mai...) vi entreranno uomini del Pd; interrogativi irrisolti sull’accelerazione e la direzione imposte da Giorgio Napolitano all’andamento della crisi. Se il partito ha tenuto la barra dritta e ha messo tutto il proprio peso (politico e parlamentare) al servizio di una soluzione, è senz’altro per la posizione assunta sin da subito da Bersani. Non possiamo rischiare la bancarotta è stato il ragionamento per poi magari ereditare il classico cumulo di macerie: dobbiamo insistere per un governo che tiri fuori il Paese dal pantano in cui è finito.
Non ad ogni condizione, naturalmente. E le condizioni del Pd almeno quelle fondamentali sono due e sono chiare. La prima, un governo che marchi una grande discontinuità rispetto a quello uscente: quindi Gianni Letta, Nitto Palma, Franco Frattini e compagnia bella possono metterci una pietra sopra e prenotare un viaggio oppure una vacanza. La seconda, la parola chiave dei provvedimenti che andranno presi per fronteggiare la crisi deve essere «equità»: Bersani non dice patrimoniale, tassazione delle rendite finanziarie, guerra senza quartiere all’evasione fiscale, ma è chiaro che senza assicurazioni in questo senso, la disponibilità del Pd potrebbe traballare. Va bene assumere come riferimento la lettera della Bce: ma una cosa è farne un riferimento e altra è trasformarla nel nuovo Vangelo...
Tutto bene, dunque, in casa democratica? Dirlo sarebbe una bugia: ma il dado è tratto e ora non si può arretrare. «Il passaggio è storico ammette Nicola Latorre -, si sta certificando la fine della Seconda Repubblica: una fine sancita dal governo di Berlusconi e determinata non dai giudici, come lui temeva, ma dal fallimento della sua politica». Festeggia (assai in privato...) anche Matteo Renzi, croce e delizia (più la prima che la seconda) del segretario del Pd. «Quel che sta accadendo confessa è il trionfo dell’idea di rottamazione. E che a mettere il timbro sul fallimento di un’intera classe politica sia un signore di quasi settant’anni, può sembrare paradossale ma ci sta, ci sta...».

Corriere della Sera 11.11.11
La linea del Pd: un esecutivo senza ministri politici
Prodi: sconfitta dei partiti. Casini: falso
di Alessandro Trocino


ROMA — Un governo tecnico fatto di tecnici. È l'orientamento del Partito democratico, per portare a termine le necessarie e dure riforme economiche e, al contempo, evitare una troppo plateale compromissione con un esecutivo composto anche dal Pdl. Ma sulla scelta di un esecutivo tecnico arrivano le considerazioni non proprio entusiastiche di Romano Prodi. Che, in un'intervista alla radio svizzera, spiega: «Ho estrema fiducia in Monti, siamo più amici che colleghi. Anche se, certo, il governo tecnico è un po' una sconfitta per la politica. Il Paese è ancora nella lunga transizione iniziata con la fine dei grandi partiti storici». Parole che provocano l'immediata replica piccata di Pier Ferdinando Casini: «Non siamo davanti a un esproprio della politica, ma a un atto di volontà. C'è la sconfitta della politica per quei governi che non sono riusciti a governare il Paese. E a Prodi dico, sommessamente, che anche il suo non c'è riuscito».
Il Pd, nonostante le obiezioni prodiane, è convinto della necessità di un governo tecnico. «C'è il problema dell'Italia», riassume Pier Luigi Bersani. Che vede il Pd «a due passi dalla vittoria» proprio in virtù di questa impostazione «responsabile». Il segretario interviene alla presentazione di un libro di Maurizio Lupi e l'istantanea della giornata immortala la nuova grande alleanza dopo la famosa foto di Vasto (con Di Pietro e Vendola): stavolta al fianco del segretario del Pd ci sono Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e Angelino Alfano. Bersani spiega che con Monti serve un profilo di «netta, inequivocabile, novità» e sui contenuti «serve equità».
Già circolavano i primi nomi di esponenti del Pd candidabili per il nuovo esecutivo: Enrico Letta, Anna Finocchiaro, Sergio Chiamparino, Luciano Violante. Nomi che però non sembrano più spendibili nella nuova prospettiva. Bersani (e con lui tutto il partito o quasi) si è convinto che è preferibile un governo tutto tecnico, sul modello di quello Dini del '95. Al limite con due vicepremier politici (i due Letta?) e un sottosegretario alla Presidenza del Terzo polo. Rosy Bindi è per un governo tutto tecnico. Enrico Letta ha fretta: «Il governo Monti va bene tecnico o politico purché nasca entro lunedì: altrimenti non si salva nessuno».
Ma il nuovo scenario apre un dissidio a sinistra: l'Idv ha praticamente deciso di stare fuori da un esecutivo che farà «macelleria sociale». Quanto a Sel, Nichi Vendola dalla Cina detta le condizioni: l'obiettivo sono le elezioni in fretta. Nel frattempo può esserci un governo ma in totale discontinuità e che faccia «una patrimoniale pesante».

Corriere della Sera 11.11.11
Bersani preferisce i tecnici per prevenire la fronda interna
di Maria Teresa Meli


ROMA — E dopo l'entusiasmo, la paura. Al quartier generale del Pd si calcolano i futuri, possibili, danni del governo che verrà.
«È una partita difficile, è ovvio che non possiamo non giocarla, perché ne va dell'identità del Partito democratico, noi non siamo una grande Sel, ma una formazione politica riformista»: parla così, Pier Luigi Bersani per spiegare ai suoi per quale ragione non si può dire di no al governo Monti. «È impossibile scegliere un'altra opzione, anche se ce la giochiamo tutta: potremmo finire per non contare nulla». È questa la preoccupazione — motivazione — che spinge il segretario del Partito democratico ad andare avanti lungo una strada che potrebbe presentare molte incognite per il Pd. Per questa ragione Bersani punta a un governo tecnico. Per non farsi coinvolgere troppo e per non coinvolgere troppo il proprio partito. Al segretario del Pd sono già stati presentati dei nomi: Giuliano Amato all'Interno e Maurizio Lupi alla Giustizia. Non ha detto di sì, non ha detto di no. Ma una cosa è certa: non vuole farsi coinvolgere nel balletto dei ministeri. «Se andiamo avanti lo facciamo per senso di responsabilità, non certo perché vogliamo dei posti nel futuro governo». Bersani ha paura della prova a cui è chiamato il Pd, e non lo nasconde.
L'altro ieri sera, al coordinamento del Partito democratico i big hanno esaminato la situazione. Andrea Orlando, responsabile Giustizia, non ha nascosto le sue perplessità: «Noi non possiamo dire di no al governo Monti, ma dobbiamo anche sapere che con Vendola e Di Pietro fuori, per noi sarà difficilissima». Ma in fondo gli alleati di Vasto sono l'ultima preoccupazione del leader del Partito democratico. Il vero timore, da quando Berlusconi ha bloccato il tiro al piccione dentro il Pdl, è un altro: resisterà l'elettorato del Pd a questa prova? D'Alema, nel più prosaico dei modi, l'ha spiegata così: certamente non possiamo stare fermi, perché sennò lasciamo al Pdl un canale preferenziale con il Quirinale, e questo non possiamo permettercelo.
Ma la paura è un'altra, appunto. Quella vera, che attanaglia Bersani e che fa costruire barricate al suo fedelissimo Stefano Fassina, l'unico a invocare il voto anticipato. Monti o non Monti, il Pd si sta prendendo una bella responsabilità. Il cui significato non sfugge al vice segretario Enrico Letta: «Per la prima volta, dobbiamo lavorare insieme al centrodestra, un cosa inimmaginabile, è questa la vera difficoltà». Monti o non Monti, Bersani teme non Berlusconi, e nemmeno i veltroniani, grandi fautori di quel governissimo che il segretario del Partito democratico avrebbe volentieri archiviato. Monti o non Monti, Bersani teme di ritrovarsi nella parte dell'unico grande elettore del governo d'emergenza nazionale. Vede Berlusconi nicchiare, Di Pietro dire di no, Umberto Bossi fare pernacchie, Vendola mandare messaggi confusi dalla Cina, e lui resta lì a sgranare il rosario delle elezioni. Ma c'è un'altra preoccupazione che incombe. Ha un nome e cognome. Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze si era preparato alle elezioni e alle primarie, convinto che l'anno prossimo si sarebbe arrivati alle elezioni. Ora il quadro è diverso, il segretario morde il freno e si chiede cosa dirà Renzi del governo che sta per nascere. E non importa che sia fatto da tecnici: il sindaco di Firenze potrebbe, in corso d'opera, attaccare quell'esecutivo e disvelarne le magagne. Potrebbe stare sempre lì con il dito alzato, a sottolineare errori e difficoltà.
È di questo che ha paura Bersani. Del dito alzato di Renzi, della concorrenza nel campo del centrosinistra. Avere Renzi contro, per Bersani, sarebbe ben peggio che perdere lungo la strada del governissimo, Italia dei Valori o Sel. Il segretario è ben conscio di questo pericolo, e sa anche che per il Pd questa è la partita della vita o della morte. «È chiaro — ha detto — che avremo tutti contro, che ci spareranno dentro e fuori il partito, ma non possiamo arrenderci e fare finta di niente, ne va dell'identità del Pd: se ci arrendessimo, se decidessimo di stare fuori, saremmo morti, non si capirebbe per quale ragione abbiamo fatto il Pd. In ballo c'è la nostra ragione sociale: o siamo un partito riformista o non siamo nulla».

Corriere della Sera 11.11.11
Pisapia: è Monti la soluzione migliore
intervista di Elisabetta Soglio


Sindaco Giuliano Pisapia, governo Monti sì o no?
«È chiaro che avrei preferito che l'Italia non si trovasse a questo punto, però sappiamo di chi è la responsabilità. Ho già detto e ripeto che in questa situazione un governo affidato al senatore Mario Monti sarebbe la soluzione migliore per uscire da una situazione che rischia di portare al collasso l'Italia».
Quali vantaggi intravede in questa scelta?
«Ci aiuterebbe ad uscire dalla crisi, a restituire credibilità al Paese e, vorrei aggiungere, a restituire dignità al termine "responsabili" che in questi mesi ha perduto il suo valore. Oggi sono in gioco la capacità e la volontà di essere responsabili di fronte a una situazione che potrebbe portare al disastro».
Un governo tecnico?
«Al contrario: un governo profondamente politico. Sarebbe auspicabile che fosse appoggiato da una maggioranza che sceglie di guardare all'interesse del Paese più che a quello del proprio partito».
Sì alle larghe intese, insomma?
«Solo un'ampia condivisione potrà consentire di fare scelte difficili, ma necessarie. Scelte che non siano di macelleria sociale, ma che ci portino fuori dalla crisi e diano un segnale forte per lo sviluppo del Paese. E solo un'ampia condivisione darebbe forza e coraggio per le riforme istituzionali».
E le riforme?
«Procedano parallelamente. Servono le riforme istituzionali: una nuova legge elettorale, il Senato delle Regioni, il taglio dei parlamentari. Oltre a garantire un risparmio, darebbero un segnale profondo di reale cambiamento e di sviluppo della democrazia».
Sel chiede un governo a tempo: lei cosa ne pensa?
«Non ho letto ancora cosa dice Sel. Ma è chiaro che bisogna darsi un periodo, spero possano bastare sei-otto mesi, per poi restituire la parola ai cittadini».
Di Pietro teme che un governo Monti sia un governo delle banche e della finanza: condivide?
«Il timore c'è sempre. Ma possiamo fidarci di una personalità come Mario Monti che dovrà seguire le indicazioni che provengono dall'Europa per non farci piombare in una crisi irreversibile, ma che sarà capace di non colpire chi è già stato tartassato e i soggetti più deboli che invece devono essere aiutati. Per garantire lo sviluppo dell'economia ci sono soluzioni alternative: la patrimoniale, la lotta all'evasione fiscale, i grandi stipendi, i costi della politica».
Come giudica il «no» dell'Italia dei Valori?
«Vedo passi avanti: dicono che valuteranno se votare alcune riforme. In questa fase abbiamo un obbligo politico e morale di condivisione di alcune scelte, uscendo dalla logica elettoralistica».
Che alleanze prefigura per il futuro?
«Mi piacerebbe si seguisse l'esperimento milanese. Noi abbiamo proposto agli elettori una coalizione di centrosinistra molto ampia e unita in cui si sono riconosciuti anche l'associazionismo e personalità moderate. A livello nazionale ci sarà bisogno di costruire una coalizione ampia che abbia presa diretta sul territorio, goda dell'apporto di personalità credibili in Italia e all'estero. Non parlo di partiti, ma di singole persone».
Il governo Monti sarà un vantaggio per Milano?
«Se ci sarà un governo Monti, sono certo avrà la sensibilità di capire che il tema della riforma economica non può passare dalla penalizzazione degli enti locali, come accaduto negli ultimi anni. Sono molto fiducioso, perché Mario Monti sa bene quanto siano importanti temi come Expo e sa che aiutare Milano significa aiutare la ripresa di tutto il Paese, che inevitabilmente deve passare da qui».
Un governo amico, dunque?
«Un governo che non dimostri disinteresse, come ha fatto il governo Berlusconi con Milano».

l’Unità 11.11.11
Sel dice «ni», Idv «no» Ma la partita è aperta
Il partito di Vendola apre a Monti con tanti paletti: «Comunque presto al voto» Di Pietro è più netto e si attira numerosi dissensi, anche fra i militanti
E Bersani: non puoi andare a funghi e tornare per la campagna elettorale
di Maria Zegarelli


Adesso la domanda è cosa resterà di quella fotografia di Vasto che secondo alcuni era «incompleta», secondo altri «sbilanciata», ma qualcosa era e ora rischia di essere semplicemente una foto ricordo. Grande preoccupazione in Idv e Sel che davanti al probabile governo Monti hanno posizioni diverse ma non lontanissime tra di loro e sicuramente più distanti dal Pd.
Ieri dopo una segreteria riunita ad hoc Sel ha aperto ma solo un po’ all’esecutivo di transizione mettendo così tanti paletti (tra cui patrimoniale e discontinuità) da far dire ad uno dei collaboratori di Nichi Vendola, che «se qualcuno si azzarda a dire che Sel dà l’ok si becca una querela». Chiude Antonio Di Pietro che non darà il suo voto, ma valuterà provvedimento per provvedimento e comunque prenderà una posizione definitiva domani mattina durante una riunione con i gruppi di Camera e Senato perché la discussione è accesa e la base del partito è in fibrillazione. Intanto l’ex magistrato è dovuto correre ai ripari prima per lo scivolone a Porta a Porta poi con la sua gente. L’altra sera da Vespa ha detto che Pd-Pdl «si accorgeranno che non possono stare insieme, visto che due maschi in camera da letto non fanno figli», sollevando accese proteste. Ieri, dopo aver chiesto scusa alla comunità omosessuale, ha promesso quanto prima un incontro con Arcigay. E proteste anche dalla sua base, su Facebook e sul sito, alla notizia che non avrebbe appoggiato il governo di transizione. «Di Pietro l’ho sempre sostenuta ma ora mi sembra come Bossi e se continua così il mio voto è certamente perso», scrive Rosita, in uno dei tanti messaggi «dissidenti». Sul sito i dipietristi a metà pomeriggio sono praticamente spaccati: 1038 lo appoggiano 919 no. Il leader Idv posta: «Noi non parteciperemo a questo governo. Quindi per essere chiaro, non voteremo la fiducia al governo Monti. Ma in Parlamento, se ci dovesse essere qualche provvedimento corretto e coerente, non ci sottrarremo a votarlo». Tanto per fare un esempio: riforma elettorale e legge «del buon esempio», ossia un colpo di spugna su caste, privilegi e costi della politica. Ma dal suo enturage raccontano anche che l’ex pm non avrebbe gradito il fatto di non essere stato invitato al Colle durante le consultazione informali dei giorni scorsi. E come se non bastasse anche il segretario del Pd Pier Luigi Bersani non è andato morbido durante il caminetto dell’altra sera: «Non è che uno può andar per funghi durante il governo tecnico e poi tornare per la campagna elettorale».
Di Pietro insiste: «Noi dell’Idv non possiamo accettare di sederci al fianco di Berlusconi», meglio il voto subito. Sulla stessa linea anche Leoluca Orlando, mentre è più cauto Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera che in questi mesi ha tessuto insieme alle altre opposizione la trappola parlamentare in cui alla fine è caduto Silvio Berlusconi. «È una situazione straordinaria, in tre giorni c’è stata una rivoluzione. Come facciamo a ignorarlo? dice Ne dobbiamo discutere per arrivare ad una posizione comune». Insomma, Donadi che avrebbe preferito il voto a gennazio, davanti al baratro in cui è finito il Paese, non è certo che la linea indicata da Di Pietro sia la migliore. E dal Senato Elio Lannutti: «Sto litigando con mio figlio: lui sta con Di Pietro io invece penso che sia un errore dire no a Monti», mentre Pancho Pardi scrive una lettera al partito auspicando il sostegno a Monti.
Dibattito acceso anche sulla pagina facebook di Nichi Vendola (in viaggio in Cina) che si esprime a favore del voto subito. Chi concorda e chi dissente, come Isabella B.: «A votare per rassicurare i mercati??? Nichi ti sei conquistato l'8%, (anche il mio voto) ma così lo perderai presto...». E allora il comunicato della segreteria prova a far chiarezza: «Un governo di emergenza non può che essere a tempo e con un immediato obiettivo: fronteggiare l’emergenza dei conti con una patrimoniale vera, che non colpisca i cittadini che stanno già pagando gli effetti nefasti della recessione». Vendola, intanto, dalla Cina manda un video messaggio in cui ribadisce che Sel non appoggerà «soluzioni pasticciate». Con un governo a scopo, aggiunge, «si possono fare in pochi mesi soltanto alcune operazioni di segno capovolto rispetto a ciò che si è fatto in questi anni, a ciò che ha fatto l’Europa liberista. Mettere al centro delle politiche di risanamento e del contenimento del debito pubblico l’equità sociale, stimolare la crescita purché sia una crescita ambientalmente e socialmente sostenibile». Poi, voto, prima del 2013. Fabio Mussi è preoccupato: «Il fatto che si arrivi al collasso del blocco berlusconiano senza avere in campo una proposta e una leadership già riconosciuta credo sia una delle ragioni del rischio gravissimo che corriamo come centrosinistra». E Claudio Fava: «Se qualcuno pensa che con questo governo si possa preparare il futuro scenario politico non ci siamo proprio. Qui non si tratta di essere affezionati alla foto di Vasto ma di evitare che si faccia un salto indietro che ci riporta agli anni Novanta».

La Stampa 11.11.11
Vendola: “Servono patrimoniale e taglio delle spese militari”
“Cambiare segno: Bce, Fmi e Commissione Ue non possono dettare legge”
intervista di Riccardo Barenghi


ROMA. Nichi Vendola Il leader di Sel vede di buon occhio un governo tecnico solo in caso di forte discontinuità con quello del centrodestra: patrimoniale tasse su rendite e transazioni finanziarie taglio delle spese militari
È in Cina, Nichi Vendola, dove ha accompagnato una delegazione di imprenditori pugliesi che lavorano in settori come la depurazione dell’acqua, le energie rinnovabili, lo smaltimento di rifiuti, un progetto in comune col ministero degli Esteri: «Ma non vi preoccupate, il viaggio se lo sono pagati tutto da soli, il costo per la mia Puglia è di poche migliaia di euro. Io non viaggio portandomi dietro la corte dei miracoli, non spendo e spando i soldi pubblici... ».
Però lei sta laggiù mentre qui la situazione economica e politica precipita, Berlusconi si dimette mentre si profila un governo tecnico guidato da Mario Monti. Se fosse qui cosa direbbe?
«Direi quello che le dico adesso. E cioè che il governo Monti (persona che io apprezzo e rispetto profondamente), ha un senso solo se è un governo di scopo: alcuni provvedimenti di equità sociale come una patrimoniale pesante, la tassazione delle rendite e delle transazioni finanziarie e il taglio delle spese militari. Dopo di che fine della storia e si va al voto tra pochi mesi».
Vendola, ma qui si discute di tutt’altro: i mercati che precipitano, gli impegni presi con la Bce, le pensioni, il taglio della spesa pubblica, le privatizzazioni, il mercato del lavoro... Altro che pochi mesi e altro che equità sociale: la prospettiva è lacrime e sangue fino al 2013.
«Beh, allora non mi avranno. Io non accetto di farmi militarizzare dalle grandi banche internazionali che hanno provocato apposta la speculazione sull’Italia proprio per riuscire a dirigere il nostro Paese da fuori. Se il professor Monti dovesse accettare questo schema, e con lui il Partito democratico di Bersani, allora sarebbe non solo la sconfitta della sinistra ma di tutta l’Italia. E il trionfo postumo del berlusconismo che ci ha portati dritti in questa situazione».
Ma come, Berlusconi se ne va e trionfa?
«Certo, se le politiche restano le stesse, se il liberismo non viene messo in discussione, se non si imprime una forte discontinuità col passato. Io non intendo farmi eterodirigere da organismi economico-finanziari non eletti da nessuno. La Bce, il Fondo monetario, la stessa Commissione europea non sono certo organismi eletti dal popolo. Mi risulta invece che in Italia ci sia ancora un Parlamento, ci siano dei partiti, ci sia la democrazia: possiamo discutere come risanare i nostri conti, cosa cambiare, cosa salvare, chi penalizzare e chi privilegiare, o dobbiamo solo ubbidire come soldatini incapaci di intendere e di volere? Altrimenti siamo al commissariamento della politica. Per dirla seccamente: se Monti intende essere il volto perbene di chi opera la macelleria sociale, allora neanche comincio a discutere».
Ma un governo di larghe intese come quello che si profila, non può certo essere un governo rivoluzionario...
«Oggi la vera rivoluzione non è certo la presa del Palazzo d’Inverno bensì l’equità sociale. Ecco, io dubito fortemente che un governo frutto di una compromissione con quelli che ci hanno guidato verso il baratro possa rappresentare una svolta politica, economica e sociale».
E allora, niente governo Monti?
«Se si limita nel tempo e negli interventi, dandogli quel segno di discontinuità, può anche provarci. A condizione che però sia il Partito democratico e non Pdl a segnare la strada nelle forme e nei contenuti. Altrimenti se dopo tutto quello che è successo, tutto quello che abbiamo detto e fatto contro Berlusconi, fosse ancora lui il deus ex machina del gioco politico, sarebbe una resa senza condizioni del centrosinistra. E di tutto il Paese».
Lei chiederà al Presidente Napolitano di essere consultato seppur in maniera informale visto che Sel non è presente in Parlamento?
«Non ci penso nemmeno, la Costituzione parla chiaro e io non ho alcuna intenzione di forzare la nostra Carta con trucchetti da bassa politica. Peraltro la settimana scorsa Napolitano è stato in Puglia e dunque abbiamo avuto modo di parlare di tutto. Lui conosce molto bene il mio pensiero, cioè quello che le ho appena illustrato. E sa quanto io apprezzi il ruolo che ha avuto in questi anni e anche negli ultimi giorni».

l’Unità 11.11.11
I pilastri: patrimoniale e rispetto per il lavoro
Per superare una situazione di emergenza qualcuno farà sacrifici maggiori Ma anche seguendo la Costituzione si potrà dare fiducia ai mercati
di Ronny Mazzocchi


La sempre più probabile formazione di un nuovo governo guidato da Mario Monti
costituisce un passaggio cruciale di questa fase politica e forse dell’intera Seconda Repubblica. Il clima di emergenza nazionale in cui sta avvenendo questo cambio della guardia non deve però farci perdere di vista un punto fondamentale. Le cure da cavallo che il nuovo governo dovrà somministrare al Paese per riacquistare la fiducia dei mercati e sottrarci all’azione devastante degli speculatori non solo non saranno indolori, ma non saranno nemmeno socialmente neutrali. Qualsiasi politica economica presenta infatti costi di aggiustamento differenti per le diverse categorie sociali e almeno nel breve e medio periodo ci sarà sempre qualcuno che ci perderà e qualcuno che ci guadagnerà. Le situazioni "win-win", quelle in cui tutti traggono vantaggio da un provvedimento, sono assai rare nella teoria economica e ancor di più nella realtà di tutti i giorni.
Stendere un programma di governo, soprattutto in questa delicata fase, significa quindi avere ben presente che per raggiungere gli obiettivi del risanamento dei conti pubblici e del rilancio della crescita economica non vi è una sola ricetta a disposizione. La scelta di una o l’altra delle opzioni disponibili avrà dunque un contenuto politico che determinerà anche chi dovrà sostenerne i costi. Su queste basi risulta evidente che il giudizio sul nuovo governo non potrà prescindere dal progetto che questo presenterà al paese su due temi fondamentali: fisco e lavoro. Si tratta di elementi che già da mesi sono oggetto di un acceso dibattito pubblico e che sono finiti nel mirino delle missive che da Bruxelles e Francoforte sono state spedite al precendete esecutivo. Se è vero come ormai hanno riconosciuto tutti che un approccio unicamente fiscale al problema del debito sovrano rischia di costituire una cura peggiore della malattia, non si può sicuramente prescindere dal trattare il problema delle entrate come un tema secondario. Così come è vero che il lavoro, con le sue implicazioni sociali, non potrà che essere sottratto alla dittatura giuslavoristica a cui da anni si trova sottoposto, quasi che la disoccupazione e la precarietà fossero un problema di design contrattuale e non una questione economica. Fisco e lavoro si muovono su due binari paralleli e fra loro inscindibili. Comunque si intenderà agire su questi temi non si potrà non tenere conto da un lato di una maggiore equità nella redistribuzione del carico fiscale fra contribuenti e tipologie di redditi e, dall’altro, nell’individuazione di una politica economica capace di garantire un lavoro decente e sicuro così come garantito dalla nostra Costituzione.
Per quanto riguarda il fisco, due sono i pilastri su cui bisognerà muoversi: per prima cosa sarà necessario riequilibrare la tassazione da chi paga a chi evade, perché in Italia l’evasione fiscale ha raggiunto livelli patologici ed è profondamente ingiusto che una parte della popolazione possa sottrarsi in questa fase allo sforzo di risamento del Paese. Il secondo è che l’imposizione fiscale dovrà essere spostata dal lavoro alla rendita, perché il fisco dovrà premiare la partecipazione al processo produttivo, l’assunzione di rischio e l’imprenditorialità, mentre dovrà essere scoraggiata in ogni modo la rendita parassitaria e improduttiva. Sempre nell’ottica di una maggiore equità, accanto a questi due elementi si potrà poi prevedere una imposizione sul patrimonio, che si preoccupi comunque di salvaguardare le piccole ricchezze da una tassazione eccessivamente invasiva. Per quanto riguarda il lavoro, sarà invece necessario prendere le mosse dai positivi passi avanti costituiti dagli accordi che le parti sociali hanno recentemente raggiunto sul potenziamento della contrattazione di secondo livello pur nella cornice insostituibile del contratto nazionale. È sulla strada del dialogo che si potrà ottenere anche un allungamento della permanenza dei lavoratori nel mercato del lavoro, attraverso forme di incentivazione o di pensionamento parziale.
Muoversi, invece, sulla strada già inaugurata dal ministro Sacconi, spingendo ad esempio per una maggiore facilità di licenziamento, oltre ad essere inutile allo scopo di aumentare il numero di occupati, rischia di avere ricadute negative. Rischia di essere difficile da spiegare a tutti quei lavoratori che, ancora una volta, si sentirebbero gli unici a doversi far carico di una crisi di cui non si sentono però colpevoli ma soltano vittime.

l’Unità 11.11.11
Una nuova legge elettorale per un nuovo bipolarismo
Un esecutivo nato in Parlamento potrebbe chiudere l’era berlusconiana del «presidenzialismo di fatto» e permettere il ritorno alla Costituzione
di Francesco Cundari


La Seconda Repubblica è stata fondata sul principio secondo cui i governi non na-
scono in Parlamento, ma nelle urne. In molti, da ultimo in occasione della recente campagna per il referendum, hanno sostenuto il diritto degli elettori a scegliere direttamente il capo del governo e la sua maggioranza. Come è evidente, se il governo Monti nascerà, né il presidente del Consiglio né la sua maggioranza saranno il frutto di una scelta degli elettori.
Questo non significa, naturalmente, che si tratterebbe di un golpe. L’Italia è una Repubblica parlamentare. La nostra Costituzione prevede che i governi nascano in Parlamento e che la nomina del presidente del Consiglio spetti al Capo dello Stato. Semmai, come ha spiegato all’Unità Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, lo strappo al nostro impianto costituzionale è venuto dalla prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo elettorale prima e poi dall’introduzione, con la legge Calderoli, della figura del capo della coalizione. Forzature tese a modificare in modo surrettizio la nostra forma di governo, regalandoci quel presidenzialismo di fatto (cioè senza i contrappesi e le garanzie che equilibrano tale sistema) che è stato non per caso l’ambiente ideale in cui il berlusconismo ha potuto svilupparsi.
Da questo punto di vista, Mario Monti ha mostrato nei suoi interventi di questi anni piena consapevolezza del problema, ad esempio quando sul Corriere della sera del 2 gennaio scorso si scagliava contro quei «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!».
Si tratta di un’analisi controcorrente, ma certo non liquidabile come frutto di nostalgie per la Prima Repubblica. Il fatto è che la divisione artificiale dell’intero spettro politico in due blocchi incomunicanti ha prodotto in questi vent’anni una stabilità più simile alla paralisi che al (dubbio) mito della «democrazia governante».
Abbiamo avuto certamente governi più stabili l’ultimo talmente stabile che c’è voluto il rischio della bancarotta per mandarlo via ma sempre esposti al ricatto di forze minori, in campagna elettorale come al governo. La necessità di tenere insieme tutto, indotta dal meccanismo del bipolarismo di coalizione, ha reso quindi entrambi i poli ostaggio non solo dei partiti minori, ma innanzi tutto, come notava Monti, dei referenti sociali minori, e persino minimi, cioè di tutte le lobby, corporazioni e gruppi di interesse detentori di una quota marginale di consenso decisiva per vincere.
L’emergenza che ha reso necessaio il governo Monti è figlia della paralisi indotta da questo genere di stabilità artificiale. Pertanto, la nuova maggioranza che in Parlamento prenderà forma per sostenerlo non potrà certo proporre al Paese un’altra legge elettorale fondata sul divieto a governi nati in Parlamento, a meno di non volersi autodelegittimare. Dovrà piuttosto rendere agli elettori il potere di scegliere i parlamentari attraverso collegi uninominali, come nella maggior parte dei sistemi elettorali d’Europa (inglese, francese, tedesco). E all’Italia un sistema in cui finalmente ciascuna forza politica possa presentarsi con il proprio simbolo davanti agli elettori, e dove di conseguenza il candidato premier sia naturalmente il leader del partito più votato, come in tutti i paesi democratici del mondo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna...).
Non si tratta di un compito facile. D’altra parte, un governo appoggiato da tutti i principali partiti appare il solo che possa raggiungere un compromesso ragionevole sulle regole del gioco, superando le forzature e gli strappi di questi anni, prima di restituire la parola ai cittadini.

l’Unità 11.11.11
Caro professore, dimentichi Gelmini
di Mila Spicola


Caro professor Monti, dicono di Lei che da lunedì potrebbe essere a capo di un nuovo governo per “salvare” l’Italia. Se così sarà non possiamo che esserne contenti. Vorrei però porle un quesito, un dubbio da professoressa di periferia: riscriverebbe oggi il suo editoriale del 2 gennaio 2011? Quello dal titolo: «L’esempio di Gelmini e Marchionne: meno illusioni per dare speranze»?
In effetti è l’esempio quello che distingue un vero statista da un mediocre politico, lo diceva Luigi Einaudi al nipotino, ma spero che il suo esempio non sia l’attuale ministro in carica a viale Trastevere. Da bocconiano non può che ritenere fondamentale la salvaguardia e la promozione del merito. Ma, e non vuole essere un gioco di parole: entri nel merito se vuol parlar di merito. Specie quando tratta della scuola.
Ritengo il suo giudizio del 2 gennaio un po’ affrettato, me lo lasci passare, nell’affermare che «grazie alla sua determinazione, (della Gelmini) verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti e nel fare ricerca». Tutto possiamo fare e mi metto nei panni di un ragazzo che cresce in una scuola di periferia di una città non qualunque come Palermo tranne affermare che le ricadute di quei provvedimenti siano andati a vantaggio di quel ragazzo. Se avesse voglia e tempo le spiegherei come e perché. Ma lo potrebbe fare anche un mio collega di Belluno o di Cologno Monzese. Quello che è stato punito e penalizzato da quella “determinazione” è proprio quel ragazzino: sia in quanto ultimo della classe, perché non ho modi, tempo, strutture e risorse per recuperarlo, sia in quanto primo della classe, perché, per gli stessi identici motivi non riesco a potenziarlo. L’handicap italiano nel formare studenti deriva dal divario enorme che esiste tra i diversi contesti socio-economici e familiari di provenienza. Per cui gli ultimi a scuola, e le posso assicurare lo verifico ogni ora, ogni giorno, ogni mese e ogni anno di lavoro, sono sempre i bambini che hanno famiglie più povere, o disagiate, o con problemi. E sono loro ad essere stati colpiti dai tagli indiscriminati di questo governo. Non certo il docente non meritorio: ovunque sia. Il mio collega immeritorio sta ancora là: dietro la cattedra e con gli stessi deficit. Il ragazzino bisognoso sta ancora là: dietro un banco quando ce l’ha, con meno ore, meno attenzione, meno qualità. E lo perdo. È il primo che perdo: quello che dovrei invece curare e recuperare. È per garantire quel ragazzo che le scrivo.

La Stampa 11.11.11
Da Oltretevere arriva la benedizione al candidato premier
di Andrea Tornielli


CITTÀ DEL VATICANO. La Caritas in veritate sembra quasi un documento guida di governo tecnico della società, in cui l’economia ha un ruolo fondamentale, come esito naturale della riflessione etica, con la quale concordano anche coloro che non condividono la visione etica cattolica». Così parlava Mario Monti in San Giovanni in Laterano, la cattedrale del Papa, il 23 febbraio 2010, presentando l’enciclica sociale di Benedetto XVI, invitato dal cardinale Vicario di Roma Agostino Vallini. In quella occasione, il presidente della Bocconi disse pubblicamente di «essere cattolico».
Il governo guidato da «SuperMario» sembra essere un’idea che non dispiace nei sacri palazzi. Ieri pomeriggio L’Osservatore Romano ha elogiato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricordando che «diverse forze, politiche, e non solo» gli «riconoscono un equilibrio e una sapienza esemplari nella guida di questo difficile passaggio della vita del Paese».
Il giornale vaticano ha anche dato notizia della nomina di Monti a senatore a vita, e ha significativamente riportato il telegramma del premier Silvio Berlusconi nel quale si citano gli «altissimi meriti acquisiti nel campo scientifico e sociale» e si augura al nuovo senatore «un proficuo lavoro nell’interesse del Paese». Sugli sviluppi della crisi, L’Osservatore Romano osserva che «sembra accreditarsi sempre di più l’ipotesi di un nuovo governo rispetto a quella di uno scioglimento anticipato delle Camere, ipotesi che comunque rimane ancora in piedi. Sembra quindi probabile che Napolitano verifichi ulteriormente la possibilità che il Parlamento sia in grado di esprimere una nuova e sufficientemente ampia maggioranza parlamentare».
Non ha voluto invece commentare le concitate vicende delle ultime 48 ore il Segretario di Stato Tarcisio Bertone, che a un giornalista che gli chiedeva qualcosa in merito ha risposto: «Oggi non parlo del caso Italia». Chi ha parlato a tu per tu Bertone negli ultimi giorni racconta di averlo trovato non solo preoccupato ma anche contrariato per l’«arroccamento» manifestato nelle ultime settimane da Silvio Berlusconi. Oltretevere, come pure al vertice della Conferenza episcopale italiana, non c’è mai stato alcun desiderio di ribaltoni, ma la consapevolezza che il declino della stagione berlusconiana e il baratro a cui l’Italia si sta avvicinando avrebbero richiesto una responsabilità diversa e la disponibilità da parte del Cavaliere di fare «un passo di lato» favorendo la nascita di un governo guidato da un premier da lui indicato. Invece «è prevalsa invece la logica del muoia Sansone con tutti i filistei», sussurra uno dei più stretti collaboratori del Papa, «ora però le elezioni, in questa fase delicatissima per il Paese, rischiano di essere un salto nel buio…».
Anche i vertici della Conferenza episcopale sono contrari alle elezioni come pure a ribaltoni con governi sostenuti da maggioranze diverse da quella uscita dalle urne nel 2008. Monti ha buoni rapporti con il rettore dell’Università Cattolica Lorenzo Ornaghi, uomo notoriamente molto vicino prima al cardinale Camillo Ruini e ora al suo successore Angelo Bagnasco. E non è un caso se anche dalle associazioni del mondo del lavoro che hanno dato vita al Forum di Todi siano arrivati segnali di assoluta contrarietà all’ipotesi delle elezioni anticipate e aperture verso l’ipotesi del governo Monti. È probabile che sia in Vaticano come ai vertici della Chiesa italiana si sarebbe preferito un passaggio più soft, con un nuovo governo politico sostenuto dalla stessa maggioranza ma allargata al centro. Ipotesi praticabile fino a poco tempo fa, oggi non più.

Repubblica 11.11.11
Così tramonta un regime
di Guido Crainz


Negli anni trionfali di Berlusconi era possibile sostenere con molti argomenti che non si trattava comunque di un regime: ma come definire il crollare per disfacimento che è sotto i nostri occhi, l´assenza totale di ricambio all´interno del centrodestra, le fughe accelerate e talora sorprendenti, dopo gli "irresponsabili" afflussi dei mesi scorsi (talora con protagonisti non dissimili)? "Muore ignominiosamente la Repubblica" scriveva il poeta Mario Luzi alla fine degli anni settanta: allora la tragedia investiva per intero il Paese e il ceto politico, oggi il centrodestra è in gran parte approdato alla farsa. Ad una dissoluzione senza nobiltà.
All´indomani del 25 luglio del 1943 fra i tanti fedelissimi di Mussolini vi fu un solo caso drammatico, il suicidio per coerenza estrema di Manlio Morgagni, presidente dell´agenzia giornalistica di regime: "Il Duce non c´è più, la mia vita non ha più scopo", lasciò scritto. Le cronache di questi giorni ci danno, fortunatamente, una tranquilla sicurezza: Morgagni non corre proprio il rischio di avere degli imitatori, neppure incruenti, anche se la paura del suicidio (con riferimento solo alla carriera, naturalmente) è stato l´argomento più evocato nelle dichiarazioni. E con buona pace della giovane deputata del Pdl che ha assunto come suo modello Claretta Petacci.
Non si leggano però solo come farsa le cronache dei giorni scorsi, il ricomparire di transfughi o ex transfughi. C´è in realtà poco da sorridere: ci sono i sintomi di una tragedia nelle private disinvolture e vergogne che molte microscopiche vicende ci raccontano (o ci hanno raccontato nei mesi passati, con segno rovesciato). E che Cirino Pomicino sia fra gli affossatori della "seconda repubblica" è il più malinconico epitaffio sia della "prima" che della "seconda".
Sono una cosa terribilmente seria le crisi di regime. Coinvolgono nel loro insieme le istituzioni e il Paese, e conviene prender avvio dalle domande più immediate: perché questo ceto politico è riuscito a imporsi sin qui, a occupare così a lungo la scena? La legge elettorale lo spiega solo in parte, e ripropone in altre forme la stessa domanda: perché il centrodestra ha potuto riempire le sue liste di figure di questo tipo senza pagare dazio? Perché nel crollo della "prima Repubblica" è stata solo o prevalentemente questa "società incivile" ad invadere le istituzioni e non hanno trovato spazio voci diverse, espressione di un opposto modo di intendere la politica e il rapporto fra privato e pubblico?
Non ci si fermi però a queste prime e più immediate domande: quando tramonta un regime è necessario un esame di coscienza più profondo. Nel crollo della "prima repubblica" esso fu eluso addossando ogni colpa a un ceto politico corrotto, contrapposto a una società civile incontaminata: le conseguenze dell´abbaglio si videro presto ed oggi nessuno può affidarsi a quel mito. Nel dicembre del 1994, nell´imminente crisi del primo governo del Cavaliere, Sandro Viola scriveva su questo giornale: "quando Berlusconi prima o poi cadrà, sul Paese non sorgerà un´alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico di questi mesi". I mesi sono diventati anni, quasi un ventennio, e il degrado ha superato da tempo i livelli di guardia. Con una sfiducia nella democrazia ormai dilagante, e con conseguenze pesantissime nell´insieme della società.
Poco meno di un anno fa il rapporto del Censis sul 2010 ha disegnato il quadro di un´Italia sfiduciata, percorsa da una diffusa sensazione di fragilità individuale e collettiva. Incapace di vedere un approdo, una direzione di marcia. Un´Italia "senza più legge né desiderio": ma tornare a "desiderare", a sperare, è la virtù civile necessaria per rimetter in moto la società. E per andare in questa direzione, concludeva il Censis, è necessario ridare centralità e prestigio alle leggi e alle regole. Quel rapporto segnalava anche un dato drammatico, che fu colpevolmente rimosso dall´agenda politica: gli oltre due milioni di giovani che non studiavano e non avevano lavoro né lo cercavano. Resi sempre più sfiduciati e apatici dal diffuso trionfare dei "furbetti" e delle corporazioni. Tramontate da tempo le disastrose illusioni del berlusconismo, affermava allora Giuseppe De Rita, un leader vero dovrebbe ridare in primo luogo agli italiani il senso delle loro responsabilità.
Da qui occorre ripartire, da quella "ricostruzione etica" evocata domenica da Eugenio Scalfari: una più generale ricostruzione che riguarda l´intero Paese ma che nella politica deve trovare riferimento e incentivo. Anche per questo un governo di civil servants sarebbe oggi fortemente auspicabile, segno di un´inversione di tendenza cui chiamare il Paese.

Repubblica 11.11.11
Oggi all’Accademia della Crusca un convegno sulla lingua con cui fu scritta la Carta
Quelle diecimila parole che fanno la costituzione
Nel testo l´aggettivo "eguale" appare quattro volte; "sacro", invece, una. Manca il termine "laicità", mentre "solidarietà" compare in un passaggio
di Emzo Golino


arlo Azeglio Ciampi l´ha definita "la Bibbia laica"; Giorgio Napolitano, il giorno del giuramento, affermò che «l´unità costituzionale» si è fatta «sostrato dell´unità nazionale». Gli anni passano e sempre più, in Parlamento e fuori, si accentua il dibattito – pur necessario, ma afflitto da striscianti velleità lottizzatorie – sulla necessità di aggiornare la nostra Carta cambiando con saggezza specifiche norme. Arriva dunque opportuno il convegno multidisciplinare sui concetti e le parole del lessico costituzionale italiano dal 1848 al 1948 organizzato oggi a Firenze dall´Accademia della Crusca e aperto dalla presidente Nicoletta Maraschio. Partecipano costituzionalisti, storici, linguisti. L´ultima relazione della giornata è di Erasmo Leso, storico della lingua italiana all´Università di Verona, studioso del linguaggio giacobino e del linguaggio fascista. Si occupa del rapporto fra lingua della Costituzione e lingua di tutti iniziando dalle analisi pionieristiche di Tullio De Mauro (autore della più volte accresciuta e ristampata Storia linguistica dell´Italia unita, Laterza) approdate poi nel saggio introduttivo al testo della Costituzione edito nel 2006 da Utet-Fondazione Bellonci. Infatti, a sessant´anni dal voto del 2 giugno 1946 e dalla nascita del Premio Strega, la Fondazione decise di assegnare alla Carta un Premio Strega speciale: autore collettivo i 556 parlamentari eletti dal popolo.
Professor Leso, dal 1° gennaio 1948, e per tutto l´anno – dopo l´approvazione il 22 dicembre 1947 a larghissima maggioranza – il testo doveva essere depositato in ogni Comune per consentire ai cittadini di prenderne visione e cognizione. Ma quanta gente, allora, avrà potuto leggerlo e capirlo?
«De Mauro ricorda che nel 1951 solo il 40 per cento della popolazione aveva la licenza elementare o titoli superiori. Ma per la sua estrema leggibilità, sia pure con l´aiuto di lettori più esperti, oggi – precisa De Mauro, indicandone la consistenza numerica – il testo è di lettura facile per tutta la popolazione in possesso di licenza elementare, quasi il 90 percento. Si tratta di 9369 parole: i lemmi singoli sono 1357, i periodi 420, e ogni periodo ha in media 19,6 parole».
Un ventenne, studente universitario, le chiede due parole chiave di ieri e due di oggi della nostra Carta: lei quali indicherebbe?
«"Libertà", e se ne capisce l´intenzione visto che l´Italia usciva dal ventennio fascista; e "lavoro", una scelta al cospetto di un Paese distrutto che doveva essere ricostruito. Oggi invece, "solidarietà" e ancora "lavoro"».
Tendenza alla semplificazione, sobrietà espressiva, quasi nulla di enfasi aulica sono caratteristiche ormai accertate del nostro lessico costituzionale. Vuole suggerirmi qualche esempio? «Articolo 52, prima riga: "la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino". L´aggettivo "sacro", certamente impegnativo a causa del complesso significato e nell´uso alto del termine appare soltanto qui, e non altrove. Anzi, un frammento in cui si parlava di "sacri principi di autonomia e dignità della persona umana" è stato lasciato cadere».
Insomma, la regola è stata l´antiretorica, quasi un understatement rispetto alla rutilante oratoria fascista.
«Sì, altra norma adottata dai costituenti è quella di far passare un messaggio senza nominarlo esplicitamente, senza riassumerlo in parole d´ordine, in slogan. "Eguaglianza", che pure è una parola fondamentale nello spirito dell´intera Costituzione appare solo tre volte; "eguale" appena quattro volte, e "uguale" mai».
E le parole più frequenti?
«In prima linea "legge", 138 volte, più 41 al plurale; e – ovviamente – "Repubblica" con 95 occorrenze. A distanza si collocano "diritto", 55 volte plurale compreso, "Costituzione" 36, "cittadino" 29 plurale compreso, "lavoro" 18, "libertà" 13 e via scrutinando...».
Con il senno di poi, avrebbe diminuito o aumentato la frequenza non solo di queste, oppure ne avrebbe introdotto qualche altra mai citata?
«Avrei inserito la parola "laicità", assente, e aumentato "solidarietà", presente una sola volta».

l’Unità 11.11.11
Contraccezione d’emergenza Più efficace di quella del «giorno dopo»
A pagamento Sarebbe a carico delle donne e venduta solo dopo il test
Arriva la pillola dei 5 giorni dopo Ed è già polemica: «È abortiva»
Ginecologi e medici della contraccezione: negli altri Paesi è gratis, si prende direttamente in farmacia e non c’è bisogno di alcun test. D’Agostino: «Dopo 5 giorni è aborto». I medici: «Nessun effetto abortivo».
di Dora Marchi


L'arrivo della pillola dei cinque giorni è vicino. Il farmaco è stato approvato dalla commissione tecnico-scientifica dell'Agenzia italiana del farmaco il 12 ottobre. Manca solo il passaggio al consiglio di amministrazione e la pubblicazione del decreto. Poiché la pillola è stata messa in fascia C, dunque a carico dell'utente, il percorso potrebbe essere più rapido, basta, infatti, il decreto del direttore generale. Ma per i ginecologi è un danno per le donne che il farmaco sia a pagamento e chiedono di cambiare.
La pillola dei “5 giorni dopo” funziona fino a cinque giorni dopo un rapporto sessuale non protetto, è, quindi, «contraccezione d’emergenza». È considerata più efficace rispetto a quella “del giorno dopo”, che può essere presa entro 72 ore e la cui efficacia decresce ogni 12 ore. La nuova pillola non ha evidenziato finora perdite di efficacia nell' arco dei 5 giorni. Gli effetti collaterali sono definiti «da leggeri a moderati». Contraccettivo d'emergenza significa che le due pillole non sono abortive, diverse dalla RU486, che invece induce l'interruzione della gravidanza.
Il Consiglio Superiore di Sanità ha dato un suo parere tecnico, in cui vieta l'utilizzo del farmaco solo in caso di gravidanza accertata, l’Agenzia del farmaco potrebbe, nel dettare le prescrizioni, uniformarsi a questo parere. In sostanza per ottenere il farmaco bisognerebbe fare un test di gravidanza precoce. Anche su questo punto la Società italiana di ginecologia e ostetricia esprime la propria contrarietà. «Siamo soddisfatti che il farmaco sia stato approvato e che i tempi per il suo arrivo si stiano accorciando, ma ha affermato il presidente dei ginecologi Nicola Suricosiamo assolutamente contrari che la pillola sia in fascia C, ovvero a carico dell'utente. In altri paesi infatti, come in Gran Bretagna sottolinea l'esperto la pillola dei 5 giorni dopo è gratuita ed è distribuita senza prescrizione medica direttamente in farmacia». Inoltre, precisa Surico, «c'è un altro aspetto che ci continua a vederci totalmente contrari: l'obbligo di effettuare un test di gravidanza ematico preventivo prima di prescrivere la pillola. Questo penalizza molto le donne e va detto che in nessun paese al mondo dove la pillola è già disponibile è stato posto tale veto che, tra l'altro, preclude anche la capacità diagnostica del medico».
«Il farmaco è stato registrato dall'Emea come contraccettivo d'emergenza quindi non c'è nessun dubbio abortivo», sottolinea Alberto Aiuto, manager della ditta che dovrebbe commercializzare il farmaco in Italia. Ma la polemica divampa: «La pillola si prende spiega il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella e non si sa se ha agito il meccanismo contraccettivo o abortivo». Il bioeticista cattolico Francesco D'Agostino: «Cinque giorni dopo il rapporto è probabile che il concepimento sia avvenuto. Il farmaco non impedisce quindi la fecondazione dell'ovocita, ma evita l'annidamento dell'embrione. Questo è aborto». Di diverso avviso Emilio Arisi, della Società di medicina italiana di contraccezione: «A quelle dosi il farmaco non è abortivo. E come dice l'Oms la gravidanza si ha quando l'embrione si è impiantato nell'utero, non quando ovulo e spermatozoo si incontrano. Se una donna richiede la pillola, vuol dire che la gravidanza non la vuole, dunque è meglio evitare un aborto volontario dopo».

il Fatto 11.11.11
A Varese arrivano i neonazisti e la Lega non li ferma
Una formazione indipendente ispirata alla cultura hitleriana
Cerca un territorio favorevole dove radicare le idee
L’Anpi denuncia: “I partiti che governano tendono a tacere su tali iniziative”
di Elisabetta Reguitti


Siamo una formazione politica indipendente ispirata al partito nazional-socialista. Prendiamo spunti dagli ideali dei partiti che hanno accolto le istanze nazionaliste e socialiste, portate alla massima espressione dalla Germania di Hitler”.
Cosa aggiungere? La dichiarazione, raccolta dal sito Varesenews, è racchiusa in un’intervista fatta a Pierluigi Pagliughi leader del sedicente Nsab-Mlns (Nationalsozialistische arbeiterbewegung) Movimento nazionalista socialista dei lavoratori che dopo il suo tentato ingresso nel comune di Duno (il più piccolo comune del varesotto con 110 elettori e che fu palcoscenico della prima battaglia partigiana) nelle ultime settimane ha tentato di varcare anche la soglia di Varese. Città al centro di una polemica per l’intitolazione di un giardino pubblico a Giovanni Gentile, intellettuale, padre della riforma scolastica, militante della Repubblica di Salò e tra i firmatari del Manifesto della Razza. Davvero troppo per i rappresentanti dell’Anpi che erano già insorti per quel presidio, organizzato dal nuovo movimento, poi vietato dalla Questura con un decreto in cui si faceva chiaramente riferimento al fatto di “evitare la propaganda di idee discriminatorie”. Una scelta che per il presidente del comitato provinciale dell’Anpi Angelo Chiesa è coerente con il dettato costituzionale “che proibisce ogni iniziativa che si richiama al passato nazifascista”. Ma per una manifestazione vietata c’è un’intitolazione assicurata per la giunta del leghista Attilio Fontana che si era speso, con una lettera pubblica, nel tentativo di de-politicizzare la figura del repubblichino Gentile.
“Varese sembra la culla dell’eversione” incalza Chiesa che ripercorre alcune tappe di apparizione del movimento nato nel 2002 (e con circa 200 iscritti) con l’obiettivo di correre nella cosiddetta “provincia etnica dell’Insubria”. Chiesa ricorda che si erano presentati alle penultime elezioni comunali di Duno “e li abbiamo stoppati scrivendo un appello agli elettori. Quel movimento è fatto di gente che viene da fuori Varese che evidentemente considera questa città terreno favorevole per il radicarsi di un certa ideologia pericolosa” spiega il rappresentante Anpi che certo non fa sconti ai “partiti politici dominanti” (Lega in primis) che “tendono a tacere su tali iniziative politiche”. Sembra insomma che nonostante le recenti invettive di Bossi contro Tosi (“È uno stronzo ha portato i fascisti nella Lega”) anche nel Carroccio conviva una certa anima “nera” accondiscendente e benevola verso movimenti come quello di Pagliughi, che affermò di essere “nazista dall’età di venti anni” e di ritenere l’ideologia nazista “giusta di fondo, tant’è che furono i lavoratori a votare Hitler”.
Parole, tra l’altro, che furono oggetto di un’interrogazione parlamentare. E in attesa di nuove evoluzioni del Movimento nazionalista socialista dei lavoratori a Va-rese rimane il parco pubblico dedicato al fascista Giovanni Gentile. Una scelta attuata d’imperio secondo il capogruppo del Pd in Consiglio comunale Fabrizio Mirabelli che ricorda che lo era stato già nel 2005 quando venne avanzata la proposta in circoscrizione e di nuovo ora con una decisione presa, ma non discussa in nessuna seduta di consiglio. Come usavano dire un tempo: “Le radici profonde non gelano mai”.

Corriere della Sera 11.11.11
E Gramsci annunciò la rivoluzione
In un discorso del 1922 a Mosca spiegò: «L'Italia è matura»
di Antonio Carioti


Antonio Gramsci è un autore così studiato ed esplorato che la scoperta di un suo inedito può sorprendere. Ma gli archivi di Mosca sono una miniera inesauribile per chi abbia la pazienza di scavare a fondo. Così due ricercatori italiani affiliati all'Università inglese di Exeter, Caterina Balistreri e Alessandro Carlucci, hanno ritrovato il testo dell'intervento tenuto da Gramsci, il 7 agosto 1922, alla XII Conferenza del Partito bolscevico. Si pensava che nella fase iniziale della sua permanenza in Russia (era arrivato in maggio come delegato del Pci nell'esecutivo dell'Internazionale comunista) l'intellettuale sardo avesse potuto combinare poco, per via di gravi problemi di salute sfociati nel ricovero in sanatorio, ma ora si dimostra che riuscì a portare il suo contributo in quella sede. Nell'Archivio statale russo di storia socio-politica (Rgaspi) è stata rinvenuta anche la sua scheda personale di partecipazione alla Conferenza, con tanto di firma autografa.
Il testo reperito dai due studiosi, che lo presentano con un saggio sul prossimo numero della rivista «Belfagor», diretta da Luigi Ferdinando Russo, ci mostra un Gramsci poco più che trentenne e ancora partecipe dell'estremismo rivoluzionario che caratterizzava all'epoca il Pci, guidato da Amadeo Bordiga. Insiste, notano Balistreri e Carlucci, sulla imminente «disgregazione dell'ordine sociale borghese». Anzi, «vede nel fascismo una conferma estrema di questo processo disgregativo, e quindi dell'esistenza di condizioni mature per una rivoluzione proletaria». Due mesi e mezzo dopo, con la marcia su Roma, al governo sarebbe invece arrivato, per restarci molto a lungo, Benito Mussolini.
Colpisce il parallelo che Gramsci traccia fra le camicie nere e il partito antibolscevico dei Socialisti rivoluzionari (Sr), erede della tradizione populista russa. In entrambi i casi, sostiene, si tratta di rinnegati che, provenendo da sinistra, sono diventati «collaboratori della borghesia». Potrebbe sembrare una polemica propagandistica, ma è curioso che certe similitudini tra il populismo degli Sr e il fascismo siano state rilevate, molti anni più tardi, da un esperto del mondo slavo come Enzo Bettiza nel libro Il mistero di Lenin (Rizzoli, 1982).
Va sottolineato peraltro, notano Balistreri e Carlucci, che lo scopo principale dell'intervento di Gramsci è accreditare il Pci come unico vero partito rivoluzionario italiano, di fronte alle pressioni dei sovietici che insistono per un accordo con i socialisti massimalisti. Un contrasto in cui il giovane sardo si trovò a sperimentare per la prima volta i «metodi tendenti a imporre burocraticamente idee precostituite» tipici della mentalità bolscevica.

Corriere della Sera 11.11.11
Il brano
«Le camicie nere assomigliano ai socialisti russi»
Pubblichiamo un brano tratto dal resoconto del discorso di saluto tenuto a Mosca da Antonio Gramsci il 7 agosto 1922, alla XII Conferenza del Partito bolscevico


In Italia in questo momento non c'è governo: né borghese, né socialista, né anarchico; non c'è nessun governo. Esistono alcune piccole cricche autonome che hanno il controllo del paese. I fascisti hanno ucciso più di cinquemila operai, ne hanno feriti più di trentamila, hanno distrutto cinquecento cooperative, hanno devastato mille e cinquecento amministrazioni comunali. Vedete in quali condizioni tragiche si trova il proletariato.
Per quanto riguarda il Partito socialista, attraversa un periodo di completa disgregazione, ha creduto in diversi riformismi, e nel fatto che si potesse superare pacificamente il movimento banditesco dei fascisti. Tuttavia, come dimostra l'esperienza, il Partito socialista si è sbagliato, e in Italia rimane solo il Partito comunista a condurre la lotta.
Il compagno Gramsci propone un interessante parallelo tra gli Sr (Socialisti rivoluzionari) e i fascisti, per quanto ciò possa sembrare strano ad una prima impressione. Tuttavia, conoscendone i membri, si può affermare che il fascismo è sorto sulla base di quella stessa psicologia da cui sono sorti gli Sr. Anch'essi, ex anarchici e terroristi, sono ora collaboratori della borghesia. Il loro (dei fascisti) capo è il rinnegato Mussolini, e tra le loro file si trova una massa di socialisti e anarchici rinnegati. I fascisti sono solo più franchi degli Sr, e si sono subito sbarazzati di ogni maschera. In tal modo la borghesia, del tutto disorientata di fronte agli attacchi terroristici dei fascisti, non sapendo cosa fare, si rivolge alla Chiesa in cerca d'aiuto, le fornisce somme enormi e di recente le ha dato due miliardi. Il deficit è enorme. La borghesia si rifiuta di compiere qualsiasi forma di sacrificio finanziario.
Questi fatti costituiscono senza dubbio condizioni mature per una rivoluzione. Non c'è altro partito capace di rappresentare un centro serio di opposizione agli elementi del vecchio sistema ormai in disfacimento se non il Partito comunista.

Corriere della Sera 11.11.11
Il neonazismo russo. Un paradosso apparente
risponde Sergio Romano


La stampa russa, ultimamente, sta dando risalto al fenomeno neonazista interno ai confini della Federazione. Questo perché, a quanto pare, ultimamente se ne registra una particolare reviviscenza. Sarebbe interessante, però, capire come il Paese che ha pagato il più alto tributo di sangue nella guerra contro i Nazisti debba, a distanza di oltre settant'anni, ancora confrontarsi con realtà del genere. A prima vista è quantomeno sorprendente.
Giulio Prosperi

Caro Prosperi,
Il fenomeno non è recente ed era già visibile nell'ultima fase dell'Unione Sovietica. Il suo volto meno inquietante era Rodina (patria), una rivista fondata nel 1989, ma nipote di una testata nazionalistica fondata nel 1873 ai tempi della Russia imperiale. Dietro la nuova Rodina, tuttavia, vi era già da tempo il mondo molto più preoccupante e semiclandestino di Pamjat (memoria), una organizzazione di militanti nazionalisti, anti-semiti e xenofobi che godeva di una certa simpatia anche in certi apparati dello Stato sovietico. Si diceva allora che fosse stata addirittura incoraggiata e finanziata dal Kgb, interessato a controllare una organizzazione che affondava le sue radici in una parte della società e poteva servire, all'occorrenza, per qualche provocazione.
Dopo il colpo di Stato dell'agosto 1991, Pamjat uscì dall'ombra e divenne maggiormente visibile. Seppi che aveva la sua sede in un quartiere di Mosca, riuscii ad avere il suo numero di telefono e chiesi un appuntamento presentandomi come un giornalista italiano (ero stato inviato in Russia da La Stampa). Fui ricevuto da tre persone sui quarant'anni in un salotto arredato con qualche vecchio mobile e tappezzato alle pareti dai ritratti degli ultimi Romanov. Cercai di capire i loro programmi, ma furono piuttosto reticenti. Mi parlarono dell'anima russa, delle sue tradizioni nazionali e religiose, dell'importanza di onorare e conservare il passato. Forse non avevano ancora capito quale sarebbe stata la linea della Russia di Boris Eltsin nei loro confronti e preferivano essere prudenti. Ma erano certamente nazionali e populisti con un forte pregiudizio anti-ebraico.
Più tardi sono apparsi nuovi movimenti, più esplicitamente nazionalisti e xenofobi. Il loro antisemitismo appartiene alla storia di tutti i movimenti nazionalisti della Russia imperiale, ma le bestie nere delle organizzazioni più recenti sono soprattutto i caucasici (ceceni, ingusceti, daghestani, azeri) e gli immigrati provenienti dall'Asia Centrale e dall'Africa. I riferimenti al nazismo possono sembrare sorprendenti, ma sono dovuti a due fattori. In primo luogo lo Stato nazista resta ai loro occhi un affascinante deposito di liturgie razziali e razziste, un ricco repertorio in cui è più facile reperire argomenti, immagini e simboli. In secondo luogo la Germania è sempre stata il Paese da cui la Russia ha tratto il meglio e il peggio della sua storia. La sua famiglia imperiale aveva una percentuale straboccante di sangue tedesco, i suoi socialisti e comunisti avevano studiato Hegel e Marx, i suoi industriali avevano lavorato con macchine e modelli tedeschi, e i suoi militari, infine, si erano addestrati con l'esercito tedesco per parecchi anni fra la prima e la seconda guerra mondiale.

Repubblica 11.11.11
Così la nostra specie ha conquistato il mondo
La storia di tutti noi ha avuto inizio meno di 200.000 anni fa in una remota valle etiope
L´esposizione è curata da scienziati guidati da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani
Un viaggio alla scoperta delle origini dell´uomo Da oggi al Palazzo delle Esposizioni di Roma
di Marco Cattaneo


È trascorsa a malapena una decina di giorni da quando le Nazioni Unite hanno indicato in una neonata filippina l´abitante numero sette miliardi dell´unica specie capace di colonizzare il pianeta a tutte le latitudini e con ogni clima. Già, perché si trovano esemplari di Homo sapiens dallo sperduto villaggio di Alert, sull´isola di Ellesmere, all´estremo nord del Canada, appena 800 chilometri dal Polo Nord e una notte gelida e buia che dura da ottobre a febbraio, fino alle torride distese deserte della depressione della Dancalia, nel Corno d’Africa.
E pensare che la storia di tutti noi ha avuto inizio – più di un inizio, in verità – meno di 200.000 anni fa non lontano da quell´anticamera dell´inferno, in una remota valle dell´Etiopia da cui la nostra specie ha mosso i primi passi. È lì che nacque un nuovo membro della famiglia del genere Homo, che quasi un milione di anni prima si era già spinto a esplorare gli angoli più remoti del vecchio mondo, prosperando e differenziandosi in un intricato "cespuglio evolutivo", come lo definiscono i paleoantropologi. Ed è da lì che quel bipede con una postura perfettamente eretta e un´intraprendenza senza pari ha piano piano conquistato il pianeta, attraversando ogni sorta di pericoli e finendo, forse più di una volta, sull´orlo dell´estinzione – soprattutto a causa dei violenti cambiamenti climatici che hanno scosso la Terra – durante la sua breve, fortunata avventura.
Al lungo viaggio di Homo sapiens è dedicata l´omonima mostra in programma da oggi al 12 febbraio 2012 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, dove un gruppo di scienziati di fama internazionale, sotto la guida di Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani, raccogliendo nell´esposizione un complesso di reperti che non ha pari al mondo, ha dipanato la matassa della nostra evoluzione sbrogliando il filo che ci ha portato fin qui. O, meglio, i fili. Che partono da uno dei reperti di più recente scoperta, Australopithecus sediba, un controverso ominide di 2 milioni di anni fa le cui caratteristiche morfologiche lo collocano a metà tra i suoi parenti più stretti e i più lontani antenati del genere Homo, quello che un tempo si sarebbe impropriamente detto un "anello mancante". Lee Berger, che lo ha scoperto in Sudafrica, porterà a Roma, per la prima volta al mondo, il calco autorizzato di A. sediba, perché l´originale è troppo fragile per esporlo al rischio di un viaggio. Di qui, la prima sezione della mostra esplora le vicende delle prime specie del genere Homo, agili camminatori che lasciarono l´Africa per arrivare al cuore dell´Europa e spingersi fino alle estreme propaggini dell´Asia, facendoci incontrare, per la prima volta in Italia, l´originale del cranio di Homo georgicus, un fossile di 1,8 milioni di anni fa scoperto nel Caucaso che rappresenta, per ora, il più antico abitante d´Europa.
Ma è con la seconda sezione che ha inizio il nostro viaggio nel senso più stretto, caratterizzato da un´ondata di successive uscite dall´Africa che ha il culmine circa 60.000 anni fa. E subito scopriamo che fino a poche migliaia di anni prima che gli Egizi costruissero le piramidi non eravamo soli. Quando Homo sapiens lascia l´Africa incontra altre specie cugine. C´è l´uomo di Neanderthal in Europa, gli eredi di Homo erectus sull´isola di Giava, , l´uomo di Denisova, in Siberia, l´ultimo scoperto, e nella remota isola indonesiana di Flores, gli "hobbit" che hanno accompagnato la nostra specie fino a 12.000 anni or sono. Ed è qui che facciamo alcuni degli incontri più interessanti della mostra. Il primo proprio con Homo floresiensis, grazie alla splendida ricostruzione realizzata da Lorenzo Possenti, artista toscano specializzato in modelli per le scienze naturali e apprezzato a livello internazionale. Che è anche l´autore della ricostruzione del bimbo di Lagar Velho, un enigmatico fossile portoghese di circa 25.000 anni fa cui le indagini genetiche attribuirebbero un padre neanderthaliano e una madre H. sapiens. Sì, perché l´analisi del DNA ha ormai accertato che, durante il suo viaggio, la nostra specie non si è solo incontrata con le altre, ma ha anche generato ibridi, almeno con i Neanderthal. Ed ecco entrare in gioco la frontiera della paleoantropologia degli ultimi anni: l´analisi del DNA antico, il più prezioso alleato degli scienziati nel ricostruire la storia dell´uomo e delle sue differenze, che ci porta dritto alla genetica delle popolazioni, la scienza che proprio Cavalli Sforza ha contribuito a fondare.
È con la terza e la quarta sezione della mostra che entriamo nel vivo della specialità di Homo sapiens, le migrazioni. Perché dai primi spostamenti di gruppi sparuti, contemporaneamente alla rivoluzione degli strumenti del Paleolitico e alla nascita delle prime espressioni simboliche, l´uomo comincia a colonizzare il pianeta in modo più sistematico. Raggiunge le Americhe, l´Australia, le isole del Pacifico, si differenzia per gli strumenti che usa e le lingue che parla, invade territori ostili, e infine si ferma – si fa per dire – creando insediamenti sedentari dove domestica piante e animali.
Arriva fino ai giorni nostri, il percorso di Homo sapiens, con la riscoperta delle Americhe e una lettera originale di Cristoforo Colombo al suo mecenate Luís de Santángel, conservata alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Vi narra, il navigatore genovese, la sorpresa di aver incontrato, di là dall´Atlantico, non i mostri con il corpo di uomo e la testa di cane descritti da Marco Polo nel Milione, ma uomini e donne del tutto simili a noi, e anche piuttosto cordiali…
L´avventura si conclude con quei sette miliardi di esseri umani che oggi popolano il pianeta, figli di antenati comuni che hanno battuto ogni sorta di avversità. Parliamo quasi settemila lingue diverse, abbiamo diverso colore della pelle, forma degli occhi e del naso, mangiamo alimenti diversi. Ma c´è una sola storia ad annodare le nostre diversità, è scritta nel nostro genoma e oggi gli scienziati possono raccontarla con sempre maggiore dovizia di particolari. Per questo Homo sapiens è molto più che una mostra: perché alla fine del percorso scopriamo di quale magico guazzabuglio di ingredienti è fatta quell´immensa impresa collettiva che è la civiltà dell´uomo.

Repubblica 11.11.11
Ricavato da un osso di grifone preistorico, ha 35mila anni: è lo strumento più antico
Il misterioso suono del primo flauto
Possiede un timbro curiosamente rotondo e pieno per nulla stridulo e nasale
di Guido Barbieri


Hanno riposato li sotto, uno accanto all´altra, per trentacinquemila anni. Sopra di loro c´erano appena tre metri di terra e a separarli non più di settanta centimetri. Eppure nessuno, fino all´altro ieri, era riuscito a scoprirli. Finalmente nel 2008 un gruppo di archeologi dell´Università di Tubingen li ha riportati, letteralmente, alla luce. E ci hanno raccontato una storia che lascia a bocca aperta. Lei, sei centimetri di altezza, seni pronunciati e fianchi abbondanti, è Venere, la cosiddetta "Venere di Hohle Fels", dal nome della caverna della Valle di Ach, nella Germania sud occidentale, dove è stata ritrovata. E´ la più antica rappresentazione del corpo umano mai rinvenuta in età paleolitica, cinquemila anni più anziana di tutte le altre Veneri preistoriche. Lui, invece, ventidue centimetri di lunghezza, otto millimetri di diametro, cinque fori e un´imboccatura a "V", è un flauto, il "Flauto 1 di Hohle Fels", e condivide con la sua compagna, oltre allo stesso sito e alla stessa età, un primato storico invidiabile: secondo Nicholas Conard, lo scopritore delle due creature, è infatti il più antico strumento musicale mai ritrovato fino ad ora.
I ricercatori tedeschi sostengono che l´antenato del "moderno" flauto diritto sia stato ricavato dal radio di un grifone preistorico, un meraviglioso rapace che esibisce un´apertura alare di due metri e mezzo. Ma il dettaglio più stupefacente è un altro: sulla parte superiore dello strumento, che verrà esposto per la prima volta in Italia al Palazzo delle Esposizioni, si notano chiaramente delle piccole tacche di misurazione: l´anonimo faber ha dunque calcolato con precisione la distanza tra i singoli fori di emissione e ciò significa che l´homo sapiens, sin dall´inizio dalla sua avventura terrestre, possedeva ben chiara la nozione di "intervallo", ossia della distanza "matematica" che separa un suono dall´altro. Le cinque (o forse sei) aperture consentivano di articolare in ogni caso una linea melodica estremamente complessa, in grado di realizzare con naturalezza toni, semitoni e quarti di tono.
Il "Flauto 1" possiede un timbro curiosamente rotondo e pieno, per nulla stridulo e nasale. Il colore è chiaro, ma le note più gravi sono ben appoggiate e scure. La dinamica è ovviamente limitata, ma la gamma del piano e del forte è sufficientemente ricca. Insomma il "Flauto di Hohle Fels è tutto tranne che uno strumento rozzo e rudimentale. Il fatto poi che il primo strumento musicale e la prima rappresentazione del corpo umano abbiano esattamente la stessa età dimostra senza ombra di dubbio che la nostra civiltà ha imparato molto presto ad elaborare il principio della "elaborazione simbolica" e che la musica, le arti figurative, forse anche la poesia, costituivano già allora il fondamento delle relazioni umane e della costruzione di una identità comune. Chi ha ancora il coraggio di dire, allora, che l´homo sapiens è un uomo primitivo?

Corriere della Sera 11.11.11
Brera. L’ospite russo
La leggenda dei due industriali innamorati di luce e colori
Con le loro mitiche collezioni fecero cambiare idea a Lenin
di Francesca Montorfano

qui

Corriere della Sera 11.11.11
Nei pittori i mecenati vedevano riflessi la loro inclinazione per la follia e la voglia di ribellione
Quanto costa l’arte di un’altra vita
I miliardari che sognarono con Picasso e Matisse

di Francesca Bonazzoli
qui

La Stampa 11.11.11
Incontro
Neshat, siamo colpevoli di essere artisti
L’artista iraniana esordisce nella regia teatrale con OverRuled un’opera dedicata a chi ha il coraggio di ribellarsi al potere
di Fiamma Arditi


In Italia la prossima estate Shirin Neshat, artista, fotografa, regista cinematografica, è nata in Iran nel 1957 ma da oltre trent’anni vive negli Stati Uniti. Dopo la prima di questa sera a New York, l’opera con cui esordisce nella regia teatrale, OverRuled, nel 2012 andrà in Turchia e durante l’estate arriverà in Italia, in tournée nei principali festival
“S iamo come dei pionieri, stiamo inventando il nostro modo personale di fare una performance». In una pausa delle prove Shirin Neshat, artista, fotografa, regista di cinema, racconta della sua ultima sfida: l’esordio nella regia teatrale. «Vogliamo che questo nostro lavoro non assomigli assolutamente a niente, che provochi e coinvolga lo spettatore come non è mai stato fatto prima». OverRuled, atto unico scritto da Shoja Azari e Behrang Azari (questa sera la prima a New York), partecipa a «Performa», la biennale di Performance Arts cominciata da RoseLee Goldberg nel 2005 e arrivata alla quarta edizione. Per tre settimane New York accoglie in teatri, gallerie, piazze e spazi industriali quello che esiste al mondo di più innovativo nell’ambito di questa forma d’arte. L’idea di fondare questo nuovo appuntamento di avanguardia internazionale era venuta alla Goldberg proprio guardando Turbulent, il primo video realizzato da Shirin nel 1998, che l’anno successivo aveva vinto il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia. Nel 2001 le aveva commissionato Logic of Birds, una produzione multimediale realizzata insieme ad altri registi, e finalmente quest’anno è riuscita a convincerla a fare questo passo. Shirin ama mettersi alla prova e ha detto sì. «All’inizio ero preoccupata, come lo ero quando ho fatto il mio primo film», confessa senza timore di dimostrare la sua fragilità. «Soprattutto non volevamo cadere nei clichet, nella retorica dell’accusa al potere. Ma allo stesso tempo volevamo essere sicuri di essere convincenti».
OverRuled è un processo contemporaneo, ma anche fuori del tempo e dello spazio, agli artisti, colpevoli di avere immaginazione, idee, di provare cammini nuovi. Si ispira al regime iraniano (arrivata da Teheran negli Usa nel 1978, cittadina del mondo nel suo modo di esprimersi, Shirin Neshat continua a sentirsi iraniana nel cuore), ma anche a quelli che hanno provocato l’onda lunga della primavera araba, delle dimostrazioni pacifiche di Wall Street. «Una cosa inaudita per gli Stati Uniti, dopo l’epoca della guerra in Vietnam», osserva. Il suo modo di dirigere è attento, minimalista, silenzioso. Come una direttrice d’orchestra, le basta un cenno, uno sguardo per raggiungere ognuno dei protagonisti. Le comparse in scena, i militari, i funzionari sono tutti giovani amici, artisti, ai quali ha chiesto di partecipare a questa sfida senza essere retribuiti. I costi della produzione infatti sono all’osso. Il che non ha impedito a Neshat di investire sulla passione, sul talento, sulla concentrazione e il bisogno di sentirsi parte di una unica comunità silenziosa di tutti questi ragazzi, che danno vita e coralità all’opera teatrale.
OverRuled, intessuta della musica e dei versi composti da Mohsen Namjoo, uno dei più affermati giovani musicisti mondiali, che dall’Iran si è trasferito in California, diventa così un’epopea, un’opera epica dedicata alla paura primordiale dell’uomo di essere giudicato e al suo primordiale bisogno di esprimersi in maniera libera. È una metafora, attuale più che mai, sul modo in cui il potere schiaccia gli esseri umani e impone la sua logica senza interrogarsi sulle loro necessità. Gli accusati siedono tra il pubblico, quasi a simbolizzare che siamo tutti sotto accusa per il solo fatto di essereindividui e avere delle opinioni. Sono artisti, scrittori, musicisti, perché l’arte in tutte le sue forme è stata sempre, in passato come oggi, in Occidente e in Oriente, una minaccia al potere costituito. Un enorme tavolo divide gli imputati dal giudice e dai burocrati, che in movimento lento e costante sfogliano libri e recuperano documenti nei classificatori vecchi e polverosi.
La scenografia di Shahram Karimi mette in evidenza il valore inutile e obsoleto delle carte, delle parole, della legge scritta, per esaltare il valore poetico dei monologhi degli artisti, ispirati all’insegnamento di Al-Halaj, il mistico persiano del IX secolo accusato di portare il misticismo alle masse, di sentirsi uno con Dio e di predicare come la divinità sia in ognuno di noi. «Shoja Azari ha dato profondità anche al giudice», sottolinea Shirin, «il quale diventa così un personaggio più complesso. All’inizio gli fa raccontare la parabola del figliol prodigo per sottolineare la sua disponibilità al perdono». Esistono ruoli, dunque, in OverRuled, ma non buoni e cattivi. Perché, come sottolineano gli imputati, «il creatore e la sua creazione sono una sola cosa». Anche il diavolo è parte della creazione. «Con la scusa dell’unità predicate l’unione del bene e del male», controbatte Mohammad Ghaffari nella parte del giudice, «voi proclamate che la verità si manifesta da sola e negate la necessità della legge… Il vostro modo di indottrinare i giovani è nauseabondo».
Mentre i monologhi poetici di Behrang Azari si alternano a pause di silenzio col sottofondo di suoni sporadici che crescono fino a raggiungere toni epici, lo spettatore dimentica il suo ruolo di spettatore e si sente parte di questa unità non raccontata a parole, ma provocata, capisce l’inutilità delle barriere, delle parole, dei pregiudizi. «Abbiamo messo insieme poesia, musica, recitazione, arti visive, e abbiamo dedicato OverRuled alla gente che ha il coraggio di rivoltarsi contro il potere politico, religioso, economico, contro l’autorità», osserva Shirin Neshat. «Ognuno di noi che abbiamo lavorato in quest’opera è passato attraverso esperienze personali drammatiche. Eppure non abbiamo fatto niente di sbagliato. Siamo colpevoli solo di essere artisti, di immaginare. La gente siamo noi».

Repubblica 11.11.11
11-11-11, Il fascino del numero perfetto
Da Pitagora fino a Jung il fascino del numero perfetto
Le svolte epocali vengono sempre previste in giorni speciali e misteriosi come questo
La numerologia è divertente ma sterile, solo una malattia infantile dell´aritmetica
di Piergiorgio Odifreddi


Palindroma e con tutte le cifre uguali: dopo 900 anni torna la data da cabala che inquieta e attrae Ecco perché gli uomini da sempre cercano significati nascosti e coincidenze per analizzare il mondo

Sembra proprio che i disfattisti che annunciavano la fine del mondo per il 20 dicembre 2012, si siano sbagliati per eccesso di ottimismo. Le calamità naturali di questi giorni, dalla Thailandia all´Italia, unite alle crisi economiche e politiche mondiali, fanno infatti sospettare che il momento della resa dei conti risulti essere ormai imminente. E, addirittura, che possa arrivare oggi stesso!
Naturalmente, le previsioni sulla fine del mondo possono solo essere smentite, perché se venissero confermate non rimarrebbe più nessuno a testimoniarle. La saggezza impone dunque di non farle, ma nell´attesa della mezzanotte possiamo almeno domandarci perché la fine del mondo non venga mai prevista per una data "qualunque", bensì sempre per qualche giorno numerologicamente significativo: ad esempio, appunto, il 20.12.2012 o l´11.11.11. Cosa c´è, in certi numeri, che ce li rende più attraenti o misteriosi di altri? Da un certo punto di vista, la data di oggi è unica, nel senso che non ce ne sono altre in cui tutte le cifre sono uguali. Anche se, naturalmente, in queste faccende si bara sempre un po´: nel caso in questione, sottointendendo il 20 nel 2011. Se fossimo vissuti 900 anni fa, oggi sarebbe stato addirittura l´11.11.1111, ma anche così possiamo comunque accontentarci.
Chi non vuole barare, basta che incominci una novena, e la finirà esattamente il 20.11.2011. Ma per ora preoccupiamoci dell´11.11.11, che per un numerologo è proprio un bel numero! Ad esempio, se lo si moltiplica per se stesso, si ottiene un palindromo composto dalle cifre dall´1 al 6, e cioè 12.345.654.321. Viceversa, il 111.111 si ottiene da quelle stesse cifre, moltiplicando 12.345 per 9, e aggiungendo 6. A dire il vero, non c´è niente di miracoloso in tutto questo: cose analoghe succedono per tutti i numeri composti di sole unità, come ci si può divertire a verificare partendo dall´11, il cui quadrato è uguale a 121 e che si ottiene moltiplicando 1 per 9 e aggiungendo 2, e finendo con il 111.111.111, che fa analogamente intervenire tutte le cifre dall´1 al 9.
Da un altro punto di vista, l´11.11.11 non è un numero primo, e risulta essere il prodotto di 3 per 7 per 11 per 13 per 37. E qui i numerologi fanno festa, perché ciascuno di questi fattori ha interesse di per sè. Ad esempio, 3 enumera le ubique triadi che costellano il pensiero umano, dalle Grazie e le Furie alla Trinità e la Sacra Famiglia. Sul 7 si potrebbe scrivere un libro intero, che includerebbe le note musicali, i colori dell´arcobaleno, i giorni della settimana, le meraviglie del mondo, i peccati capitali e i sacramenti. L´11 e il 13 sono invece da prendere con le molle, perché costituiscono il difetto e l´eccesso del 12, che enumera le costellazioni, i mesi dell´anno, le ore del giorno e della notte, le tribù di Israele e gli apostoli di Cristo.
Quanto al 37, a prima vista sembrerebbe un numero non interessante. Ma deve esserlo per forza, perché tutti i numeri sono interessanti! Parte del fascino dei numeri sta appunto nella possibilità di giocarci in questa maniera prescientifica e parascientifica, andando a caccia dei supposti segreti magici che essi nasconderebbero e racchiuderebbero. Il condizionale rivela che oggi noi consideriamo la numerologia semplicemente come una malattia infantile dell´aritmetica. Come lo sono l´astrologia, l´alchimia o la mitologia rispetto all´astronomia, alla chimica o alla storia.
Ma per potersi vaccinare nei confronti di tutte queste malattie infantili, il pensiero ha dovuto percorrerne le rispettive strade. Gli antichi non potevano infatti sapere a priori quali fossero i percorsi fecondi ed erano dunque giustificati nel provare a seguirli tutti. Tra le patrie della numerologia antica si annoverano l´Egitto, l´India, la Cina, Israele e la Grecia. In quest´ultima, in particolare, Pitagora elaborò una concezione mistica dei numeri che non si limitava a determinarne le proprietà specificamente aritmetiche, ma assegnava loro caratteristiche genericamente numerologiche. Ad esempio, i pari venivano considerati femminili, perché si potevano dividere, e i dispari maschili, per contrapposizione. Il 6 invece era perfetto, in quanto uguale alla somma dei suoi divisori propri (1, 2 e 3).
Il più noto trattato numerologico non appartiene però alla cultura occidentale, ma a quella orientale. Si tratta infatti di uno dei cinque classici confuciani, l´I ching o Libro dei mutamenti, che presenta una visione binaria del mondo basata sui 64 esagrammi ottenuti disponendo in tutti i modi possibili sei segmenti interi o spezzati. O, se si preferisce, basata sui numeri da 0 a 63 scritti in base 2, invece che in base 10: cioè, usando soltanto le cifre 0 e 1, come fanno i calcolatori elettronici, invece che le cifre da 0 a 9, come fanno quelli umani. In questo sistema, 11.11.11 non è altro che la rappresentazione binaria di 63, appunto. E corrisponde all´esagramma Ch´ien, "Il Creativo" o "Doppio Cielo", costituito da sei segmenti interi. La sentenza che l´I Ching gli associa è: "Il Creativo opera con sublime successo. E´ propizio essere perseveranti e corretti".
Chi si contenta, gode: Carl Gustav Jung, ad esempio, che nel 1949 dedicò una famosa introduzione all´opera. Leibniz invece ne rimase turbato, quando seppe dai missionari gesuiti in Cina di essere stato preceduto di millenni nella sua scoperta del sistema binario. Ma non sempre queste cose funzionano: anzi, quasi mai. Newton, ad esempio, commentò inutilmente l´Apocalisse di Giovanni, il classico cristiano della numerologia, nel tentativo di scoprire il significato recondito del numero 666 della Bestia, che lui credette di identificare nel Papa. Ma non ci sono papi, o santi, che tengano: la numerologia è sterile perché pretende di usare la matematica come uno strumento a priori di analisi del mondo, mentre la scienza ci ha dimostrato che solo un suo uso a posteriori è fecondo. Dunque, divertiamoci pure con amenità come l´11.11.11, purché ricordiamo che si tratta appunto soltanto di ameni divertimenti.

l’Unità 11.11.11
La fabbrica dei libri
Roma rinuncia alla Fiera?
di Maria Serena Palieri


Prendete un comparto vitale nell’economia di una regione e una Fiera che, mettendo in sinergia privato e pubblico, ne incrementa i risultati. Nell’anno in cui si festeggia il decennale, prendete un paio di forbici e tagliate proprio da esso... Succede a Roma, dove il 7 dicembre aprirà i battenti la X edizione di «Più libri più liberi», fiera della piccola e media editoria. Aprirà le porte a un fiume di visitatori ( 57.000, con 85.000 libri venduti) ma l’Aie che a fronte della defezione di Regione Lazio e Comune di Roma quest’anno si accolla la maggioranza dei costi, spiega che nel 2012 la Fiera dovrà traslocare.
Dove? Dove le istituzioni locali si dimostrino meno disinteressate... «Più libri più liberi» è nata non per caso a Roma: nel Lazio, con 600 marchi, l’editoria indipendente ha creato un contraltare all’industria milanese dei grandi gruppi. La Fiera trova a Roma l’alveo più naturale per le case editrici, oltre che il pubblico più folto. Enrico Iacometti, presidente piccoli e medi editori in Aie, e Fabio Del Giudice, direttore della Fiera, danno le cifre: l’editoria qui rappresentata produce un quarto dei titoli annui che escono in Italia, ma ha difficoltà enormi a raggiungere le vetrine; quest’editoria è una specialità italianissima: in Olanda gli editori indipendenti sono 4/5; entrare in Fiera è un traguardo ambito: 100 gli editori in attesa che si liberi uno stand; l’evento costa 1.200.000 euro, fin qui coperti per metà da Regione, Comune, Provincia, Ministero, Camera di commercio. A latitare, per complessivi 320.000 euro, i primi due: mercoledì la Provincia ha rinnovato l’impegno per 100.000 euro. La Regione ha comunicato per mail il taglio dei fondi. Il Comune promette «un tavolo intraistituzionale». In Aie commentano: «Le decisioni vanno prese entro febbraio 2012, o Roma dirà addio alla sua Fiera». Dagli editori parte il tam tam per un appello.

il Riformista 11.11.11
Terra, è scontro nel quotidiano dei Verdi


Con quella che può prendere la forma di una serrata, la vicenda che tormenta da mesi la vita stessa di Terra (il quotidiano ecologista organo dei Verdi, ma dato in gestione alla società terza Undicidue rilevata da Luca Bonaccorsi che si è nominato direttore) è giunta al massimo livello di scontro. I redattori e i collaboratori non vengono pagati dall’aprile scorso (né sono stati pagati i relativi contributi previdenziali) e, per giunta, il direttore-gestore ha deciso d’autorità la trasformazione del quotidiano in...settimanale, annunciando una sola uscita, al sabato. In segno di protesta, mercoledì i giornalisti allora hanno picchettato la sede del giornale cercando di riaprire la trattativa mandata già due volte a monte proprio da Bonaccorsi. Insieme a loro anche il segretario della Stampa romana, Paolo Butturini, il componente della giunta della Federazione della stampa Giovanni Rossi, e soprattutto il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, l’editore naturale e comunque il titolare del finanziamento pubblico destinato a Terra. Per tutta risposta Bonaccorsi ha sprangato la porta d’accesso alla redazione.
Nei giorni scorsi, dopo la ripetuta rottura delle trattative, l’Associazione romana della stampa e il Comitato di redazione del giornale avevano denunciato per comportamento antisindacale la Unidicidue e il suo direttore. Avevano inoltre presentato un esposto alla Presidenza del consiglio per ottenere il sequestro cautelativo del finanziamento pubblico; e segnalato Bonaccorsi all’Ordine dei giornalisti della Toscana (dov’è iscritto come pubblicista) per violazione del principio di solidarietà tra colleghi. In un comunicato si segnalava che «la Unidicidue e Bonacccorsi non sono nuovi a questi comportamenti: hanno più volte violato le regole dei contratti di solidarietà, hanno pervicacemente ignorato quanto prescritto dall’art. 34 del contratto giornalistico non erogando le retribuzioni dei lavoratori e utilizzando lavoratori non contrattualizzati in sostituzione di giornalisti a tempo determinato».
I Verdi ha annunciato Bonelli nel corso del picchettaggio hanno incaricato i loro legali di adottare tutte le iniziative possibili per la rescissione del contratto di gestione, a suo tempo firmato da altro gruppo dirigente della Federazione dei Verdi. Il Comitato di redazione, che aveva già indetto e realizzato sette giorni di sciopero impedendo l’uscita del giornale, è intenzionato a proseguire l’agitazione, e ha dato atto a Bonelli delle iniziative avviate contro Undicidue e della concreta solidarietà espressa ai giornalisti.

giovedì 10 novembre 2011

Intervista a Pier Luigi Bersani
l’Unità 10.11.11
«L’Italia prima di tutto
Sì a un governo diverso ma niente ribaltoni»
Il segretario del Pd: «Basta con i giochetti. Ora un esecutivo di emergenza per fermare la crisi sui mercati. Se la destra non ci sta, subito alle elezioni»
La spinta della piazza: «La nostra manifestazione è stata determinante per l’esito della crisi. Chi è venuto a Roma non lo ha fatto per niente»
di Simone Collini


Questo governo ci ha precipitati nel discredito, nell’umiliazione, nella totale mancanza di credibilità». La preoccupazione per l’andamento della Borsa e per il nuovo record segnato dai tassi d’interesse dei Buoni del tesoro sembra quasi superare la soddisfazione per le annunciate dimissioni di Berlusconi. Dice Pier Luigi Bersani che la soddisfazione è «per come abbiamo condotto una battaglia che si sta rivelando positiva, per come abbiamo indotto il Parlamento a certificare la crisi della maggioranza col voto, e per come abbiamo ottenuto l’accelerazione della fase politica». Oggi viviamo «un disastro annunciato», dice guardando ai dati economici. «Almeno da noi». Il leader del Pd parla nel suo studio a Montecitorio. Lo sguardo è ora rivolto a domenica quando, «se il Presidente della Repubblica ritiene, c’è la possibilità di iniziare le consultazioni».
I mercati non si sono fidati dell’annuncio di dimissioni del premier? «Tutto il mondo ormai lo conosce, i suoi gesti non sono mai senza ombre. E ringraziamo il Capo dello Stato che con una nota ha messo in chiaro che non c’è nessuna incertezza sulle dimissioni di Berlusconi e che sono infondati i timori di una prolungata inattività governativa». Napolitano in quella nota ha scritto: nuovo governo o voto.
«La stessa alternativa di cui parlo ormai da un anno, e che è stata testardamente impedita da una maggioranza che di fronte ai problemi del Paese si è dimostrata totalmente irresponsabile. Ora, su spinta dell’opposizione e per vie parlamentari, siamo arrivati a una svolta. Sono soddisfatto, ma ora c’è l’esigenza di accorciare i tempi per l’approvazione della legge di stabilità e per le dimissioni. Abbiamo dato la nostra disponibilità ad ogni forma di accelerazione, anche se nel merito continueremo ad opporci».
Lei vede le condizioni per un nuovo governo?
«Non ho la sfera di cristallo, quello che però posso dire è che noi siamo pronti a fare la nostra parte a sostegno di un governo di transizione che abbia la necessaria credibilità sul piano internazionale per attuare misure eque e far fronte a un’emergenza conclamata».
Oltre a quelli di Pd, Idv e Terzo polo servirebbero una sessantina di altri parlamentari del centrodestra per dar vita a una maggioranza stabile. Difficile però che ci sia un tale smottamento nel Pdl, non crede?
«Chiariamo subito, la nostra proposta non comporta in nessun modo ipotesi di ribaltoni o la ricerca di frange di supporto al margine. Opzioni Scilipoti, per intenderci, non ci interessano. Ci deve essere un larghissimo coinvolgimento, una presa di coscienza della situazione in cui versa il Paese e un’ampia assunzione di responsabilità». Allora la vostra è una disponibilità condizionata...
«Ma certo che poniamo delle condizioni. E sono le stesse condizioni che richiede la realtà: un governo credibile e che segni una netta discontinuità. Adesso quel che serve non è una maggioranza abborracciata, fatta con pezzi di partiti, non è un ribaltone o un aggiustamento con qualche transfuga. Non ci crederebbe nessuno». Che il Pdl come partito appoggi il nuovo governo è però difficile visto che Berlusconi ha già detto che dopo di lui c’è il voto, non crede?
«È indecente che il presidente del Consiglio dimissionario indichi la strada. Sono parole che non voglio neanche prendere in considerazione e aspetto le valutazioni del Capo dello Stato, le sue consultazioni».
Ha considerato il rischio che tutto il peso del nuovo esecutivo, con un disimpegno di Berlusconi, nei principi o nei fatti, gravi su di voi?
«Il Pd deve innanzitutto preoccuparsi del fatto che l’Italia è in pericolo, che viviamo il momento più difficile dal dopoguerra ad oggi. L’intera classe dirigente, se è degna di questo nome, ha gli strumenti per vedere che sono in gioco posti di lavoro, redditi, risparmi. Dopodiché se non c’è un’assunzione di responsabilità seria, bisognerà registrare che non ci sono le condizioni per un governo di emergenza. Dovrà però essere chiaro che noi saremo gli ultimi a staccare la spina a questa ipotesi. Noi ci siamo, ci crediamo, e se per volontà della destra non sarà possibile dar vita a un nuovo governo si vada subito ad elezioni. Noi non abbiamo paura di andare al voto». Pensa sia ancora possibile andarci con un’alleanza tra progressisti e moderati?
«Certo, l’ho voluto anche dire davanti alla nostra gente, tutti quelli che sabato sono venuti a San Giovanni, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, e che non hanno fatto il viaggio per niente! Quella manifestazione è stata determinante per lo sviluppo politico, abbiamo fatto vedere la forza di cui disponiamo».
Perché insistere sull’alleanza col Terzo polo ora che i sondaggi danno il centrosinistra sette punti avanti il centrodestra?
«Proprio ora che l’emergenza si fa più evidente aumentano le ragioni della nostra proposta. Il tramonto di Berlusconi pone il problema di una ricostruzione economica, sociale, democratica. E allora tutti sono chiamati a decidere da che parte stare, se dal lato del modello populista o se fare la scelta democratica e per un nuovo patto sociale. Di quà o di là, non ci saranno alternative».
I due alleati del centrosinistra intanto sembrano pensarla diversamente da lei circa lo sbocco della crisi e la necessità di un governo di transizione. «Non mi risulta che Di Pietro o Vendola abbiano detto qualcosa di diverso, anche se Di Pietro ha espresso una preferenza per le elezioni anticipate. Ma se ha cambiato idea lo dirà al Capo dello Stato. Sia chiaro che c’è la politica e c’è anche il politicismo, ma prima c’è l’Italia».
Chi pensa debba guidare il governo di emergenza?
«I nomi spettano al Presidente della Repubblica. Quello che io penso è che debbano essere nomi coerenti col problema che abbiamo di fronte, che riguarda il piano economico e finanziario e che si pone anche sul fronte internazionale. La ricerca va fatta in quella direzione».
Come giudica la nomina da parte del Quirinale di Monti a senatore a vita? «È una scelta eccellente, arricchirà il Parlamento di un tratto di personalità e di esperienza preziosi».
Come vi comporterete di fronte alla legge di stabilità?
«Se corrisponde a quanto abbiamo letto fin qui voteremo contro. Se ci saranno novità, le valuteremo assieme alle altre proposte. Ma faremo in modo che questa agonia duri il meno possibile. Dobbiamo chiudere in fretta questa fase e, se il Presidente lo ritiene, c’è la possibilità di iniziare le consultazioni già domenica».
È ipotizzabile che il nuovo governo arrivi a fine legislatura o prevede che in ogni caso si voterà prima del 2013? «Non si possono fissare scadenze, un governo si tara non mettendo date ma dando obiettivi. La prima criticità sottaciuta, che il nuovo esecutivo dovrà risolvere, è che la manovra approvata prevede per il 2012-2013 20 miliardi reperibili nella delega assistenziale. Si tratta di una vera e propria bomba ad orologeria perché il governo vuole prendere 20 miliardi da dove non ci sono. È solo un primo esempio. Noi ribadiamo l’esigenza e l’impegno per il pareggio di bilancio, ma le misure che dovrà attuare il nuovo governo non potranno essere a carico dei lavoratori e della povera gente».

in serata, al coordinamento del Pd, Bersani ha usato parole molto impegnative: «Per le responsabilità che prenderà verso il Paese, il Pd può diventare il partito del secolo...».
dal Corsera

l’Unità 10.11.11
L’opposizione: tempi rapidi per l’uscita di scena di Berlusconi
Le opposizioni accelerano i tempi dell’approvazione del maximendamento per arrivare alle dimissioni di Berlusconi già domenica. Pd e Udc lavorano al logoramento del Pdl per il governo di transizione a guida Monti.
di Maria Zegarelli


Accelerare i tempi per arrivare alle dimissioni di Silvio Berlusconi già sabato sera, al più tardi domenica, dopo il via definitivo al maxiemendamento e poi subito un primo giro di consultazioni al Quirinale. È stata questa la linea delle opposizioni che ieri mattina hanno iniziato la girandola di incontri per decidere come procedere con l’approvazione dell’assestamento di Bilancio alla Camerache alla fine ha avuto il via con 283 sì e un numero legale raggiunto per appena sette voti e poi della modifica della legge di stabilità. Non voto all’assestamento di Bilancio, come è accaduto martedì scorso con il Rendiconto dello Stato, mentre per il maxiemendamento la decisione arriverà dopo l’esame del testo, anche se Antonio Di Pietro già ora annuncia che non voterà la «macelleria sociale» che si annuncia. L’opposizione, non presenterà subemendamenti, come d’altra parte la maggioranza, e il Pd, annuncia la capogruppo Finocchiaro, «farà solo alcuni interventi in discussione generale e una sola dichiarazione di voto».
L’accelerazione è stata sì imposta dalla necessità di stringere i tempi sulle dimissioni di Silvio Berlusconi ma soprattutto da un’altra drammatica giornata che ha visto la borsa precipitare e lo spread schizzare ben oltre il livello di guardia, tanto da spingere il Capo dello Stato a diffondere una nota mirata ad arginare il disastro finanziario. Altro segnale del precipitare dei tempi è stata la nomina di Mario Monti a senatore a vita, l’uomo a cui tutti guardano come la possibile guida di un governo di transizione. Nomina salutata da Pier Ferdinando Casini come «una splendida notizia per tutti gli italiani. Certamente Mario Monti è l'emblema di quei cittadini meritevoli che onorano la Patria. Da oggi rafforzerà il prestigio del Parlamento in una fase difficile della nostra vita democratica».
Una «scelta eccellente» per il segretario Pd Pier Luigi Bersani, che aggiunge: «Sono sicuro che arricchirà il parlamento di un tratto di personalità e di esperienza assolutamente preziosi». Il primo passo verso il giro di consultazioni al Colle, a cui Pd e Terzo Polo hanno lavorato alacremente anche durante queste ultime ore. È stato Casini a portare avanti il lavoro di logoramento ai fianchi del Pdl perché il governo di transizione ha una chance soltanto nella misura in cui il sostegno al nuovo esecutivo arriva con ampi numeri garantiti non dagli Scilipoti di turno ma da nomi di peso. Beppe Fioroni si sbilancia: «Sarà lo stesso Pdl a volerlo perché altri tre giorni di tempesta finanziaria e poi lo voglio vedere Berlusconi annunciare la campagna elettorale». Walter Veltroni a Rainews24 auspica «tempi molti rapidi», giorni, «poche ore». E lo ribadisce durante il caminetto convocato alle otto di sera al Nazareno, durante il quale tutti i big sono sostanzialmente sulla stessa linea. Enrico Letta aprendo la discussione dice: «Massima fiducia al Colle», ottimo il segnale della nomina di Monti, il Pd è pronto a fare la sua parte e se alla fine non «si dovessero creare le condizioni» per il governo di transizione, allora si va al voto. Massimo D’Alema sonda gli umori del Parlamento: non sono orientati per le urne.
Ma se il Pd trova la quadra, dall’Idv Di Pietro mette le mani avanti: «Napolitano sta svolgendo un ruolo importante e fondamentale vedremo che frutti porterà, noi preferiamo le elezioni perché non possiamo accettare alternative al buio». Anche Sel con Gennaro Migliore torna a chiedere il voto, ma Bersani, che è in continuo contatto, replica: «Noi chiediamo un governo di emergenza nazionale. Non mi risulta che Vendola o Di Pietro abbiano detto cose diverse: se hanno cambiato idea, lo diranno al Capo dello Stato perché c’è la politica ma prima c’è l’Italia». Un deputato Pd è certo: «Di Pietro non dirà no ad un governo Monti».

Repubblica 10.11.11
Bersani e Casini pronti alla svolta "È per l´Italia, non sarà un ribaltone"
D’Alema: dare segnali forti. Veltroni: dimezzare i parlamentari
Il segretario dei democratici avverte Di Pietro e Vendola: "Vogliono il voto? Lo dicano al Colle"
di Giovanna Casadio


ROMA - L´accelerazione sulla legge di stabilità è cosa fatta. Consente di archiviare già lunedì le dimissioni alla moviola, ultimo regalo avvelenato di Berlusconi al paese, come il mercoledì nero dei mercati dimostra. La sfida ora è un´altra: è il "sì" al governo di responsabilità nazionale con Mario Monti alla guida, magari in un ticket con Giuliano Amato. Sono gli incontri (Casini e Bersani hanno un lungo colloquio prima della riunione dei deputati democratici), i colloqui con il Quirinale, e a sera la riunione del "caminetto" dei Democratici, a scandire la giornata di Pd e Terzo Polo. Bersani e Casini dichiarano di essere pronti a salire al Colle per chiedere un governo di larghe intese. Il segretario democratico e il leader centrista ripetono che «nessuno vuole ribaltoni», nessuno pensa a operazioni di piccolo cabotaggio con una maggioranza raccogliticcia. «Noi siamo pronti perché qui c´è di mezzo il paese», è il leit motiv del "caminetto" al Nazareno. Nelle conclusioni, Bersani ribadisce: «No ribaltoni, no a governi Scilipoti. L´operazione del governo di emergenza deve essere vera, ampia, credibile altrimenti non si salva il paese. La svolta deve essere discontinua, autorevole anche nel modo di presentarsi al mondo. Da tempo avevamo visto i rischi che correva il paese, adesso a quel bivio ci siamo arrivati». E sul partito: «Il Pd può diventare il partito del secolo».
Casini al Tg1 afferma che «ci vuole una corresponsabilità delle forze maggiori» e dà per acquisito anche il senso di responsabilità di Berlusconi. Poco prima, al Tg3, il segretario dei Democratici aveva assicurato: «Il Pd da un anno dice: o un governo diverso o andiamo a elezioni se no siamo nei guai seri e ora ci siamo. Noi abbiamo in mente solo l´Italia». E bacchetta Di Pietro e Vendola se si intesteranno battaglie "politiciste", rompendo il fronte della responsabilità per invocare elezioni: «Lo diranno loro al Colle. Sia chiaro che c´è la politica, c´è il politicismo ma prima c´è l´Italia». Consapevolezza e responsabilità è quanto garantisce Bersani nella telefonata con il presidente Napolitano. Al Senato vengono tradotti da Anna Finocchiaro, la capogruppo, in una linea chiara: lettera comune delle opposizioni a Schifani per fare in fretta e approvare domani la legge di stabilità; "no" al provvedimento (o non partecipazione al voto) ma sono ritirati tutti gli emendamenti. Idem Franceschini alla Camera.
Enrico Letta, aprendo la riunione del coordinamento democratico, ringrazia il capo dello Stato («Piena fiducia nella guida della crisi da parte di Napolitano») e giudica la nomina di Monti a senatore a vita una sorta di investitura. Il Pd è per un governo tecnico - conferma - «ma senza ipotesi ribaltonesche» e mette sul piatto anche la legge elettorale. Si parla nel "caminetto" delle condizioni perché un governo tecnico nasca. D´Alema chiede che dia segnali politici forti. Veltroni pensa a un esecutivo snello, con l´obiettivo di snellire la politica (dimezzare i parlamentari e abolire le province) e nel segno dell´equità. Aggiunge, però: «Dobbiamo essere tutti convinti di quello che stiamo facendo». «Il partito sia unito», invita Ermete Realacci citando un detto ebraico "Che tu possa vivere tempi interessanti". Si smarca Stefano Fassina, il responsabile economia del Pd: «Stiamo attenti a un governo di responsabilità, potrebbe essere meglio il voto». All´opposto, Fioroni non vuole sentire parlare di un governo di larghe intese solo per tre mesi. Che senso avrebbe? Ne discute animatamente in Transatlantico con Rosy Bindi, tra le più convinte sostenitrici delle larghe intese, che lo rassicura: «Nessuno pensa a quest´ipotesi».

Repubblica 10.11.11
Si incrina il patto di Vasto, ma i due leader si riservano ancora di valutare l´ipotesi delle larghe intese
Di Pietro e Vendola insistono sul voto "Monti? Non si compra a scatola chiusa"
L’ex pm: "Andare al governo ad ingoiare rospi? Perché? Con chi? E per fare cosa?"
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - Cupo e pensieroso. Così appare Antonio Di Pietro nelle ore che seguono la caduta di Silvio Berlusconi. L´ex magistrato, l´eterno nemico, appare spiazzato come e più del Pd. La scelta del governissimo non gli piace per niente. Lo ha detto subito. Lo ripete a ora di pranzo al Tg1: si vada a elezioni anticipate, qualsiasi altra soluzione è «un inciucio che serve solo a rimanere attaccati alla poltrona». Poche ore più tardi, in Transatlantico, è più cauto: «Per ora diciamo no a qualcosa che non c´è, che non sappiamo da chi verrà guidato, da chi verrà sostenuto e per fare cosa». A sera infine, dopo la nomina di Mario Monti a senatore a vita, dopo che la nascita di un governo guidato dall´ex commissario europeo diventa qualcosa più di una voce, il leader dell´Italia dei Valori spiega a Repubblica: «A scatola chiusa non prendiamo niente. Da parte nostra ci sono grande rispetto e stima per il professor Monti, per il senatore Monti, ma così come non accettiamo le misure di macelleria sociale che ha in mente il governo, non le accetteremo da lui perché ha la faccia pulita». Di Pietro non crede che a un governissimo con tutti dentro abbia senso arrivare: «Le soluzioni a 360 gradi non funzionano, noi siamo per il sistema bipolare. Andare al governo a ingoiare rospi? E perché mai? Con chi? Per fare cosa?».
E´ qui, che la foto di Vasto sbiadisce. L´emblema dell´accordo con Bersani e Vendola ha bisogno - per restare nitido e fermo - che ci sia intesa sui passi da compiere, condivisione sulle misure necessarie a combattere la crisi. Di Pietro dice chiaro: cominciamo col tagliare i costi della politica e della casta, che sono strutturali. E´ da lì che si parte, non da pensioni e licenziamenti. Altrettanto chiaro il messaggio che arriva da Sinistra Ecologia e Libertà. Vendola è in Cina, i suoi tengono a dire di non sottovalutare affatto la crisi, ma di non credere che - in alcun modo - il governo tecnico possa essere la medicina giusta. Gennaro Migliore è cauto: «C´è bisogno di avere il massimo senso di responsabilità». Quindi, Sel valuterà passo passo le decisioni del presidente Napolitano, le rispetta, apprezza la mossa di ieri - l´accelerazione impressa alle dimissioni del premier - ma ritiene che per rispondere a una crisi del genere serva un governo che duri cinque anni. Se mai ci fosse un governo di salvezza nazionale, poi, sarebbe inaudito - secondo Vendola e compagni (o amici come preferisce dire lui) - che arrivasse alla fine della legislatura con Sel fuori dal Parlamento. E dovrebbe fare subito l´unica cosa a questo punto ineludibile: mettere una tassa sui patrimoni.
Alla patrimoniale il Pd è ormai vicino, e lo stesso vale per Di Pietro, ma prima dei contenuti viene lo strumento. E il governo di salvezza nazionale - che strappa a metà la foto di Vasto - vede il Pd giocare un´altra partita.

Repubblica 10.11.11
Il governo di emergenza spacca il partito Matteoli guida gli ex An: in 30 per le urne
Pisanu: no al voto, potrei andarmene. Oggi il gruppo dei ribelli
di Silvio Buzzanca


ROMA - «Sono contrario, anzi contrarissimo. Se ci sono elezioni anticipate esco dal gruppo, dal Pdl, da tutto». Giuseppe Pisanu non vuol sentire parlare di andare a votare "sotto la neve". Un no alle elezioni e un sì al governo di emergenza che è solo la punta dell´iceberg che si aggira pericolosamente nel mare del Pdl, dove riunioni e vertici si succedono a ritmo frenetico. Un´altra fronda che oggi troverà corpo con la nascita di un nuovo sottogruppo del Misto alla Camera: sono in 11, si chiamerà Costituente popolare e ne faranno parte Antonione, Gava, Sardelli, Destro, Pittelli, altri "malpancisti" e i quattro di Mpa.
Il manipolo ha i numeri per partecipare alle consultazioni del Quirinale e saluta già calorosamente il governo Monti. E intanto Pisanu coltiva un progetto simile al Senato. Per il momento stanno alla finestra gli scajoliani, convinti che la battaglia contro il voto si debba fare dentro il partito. Intanto per andare alle urne subito si schierano la Gelmini e Meloni, Sacconi e Romani, Brunetta e La Russa. E visto che la guerra interna al Pdl si consuma anche nella battaglia delle cifre, Altero Matteoli fa sapere che ci sono trenta deputati con lui a sostegno delle elezioni. Contro anche Ronchi, con l´area ex An in subbuglio che minaccia di fare l´opposizione al nuovo governo.
Ma che il fronte del no al voto sia ampio lo testimonia anche Maurizio Lupi. Il vicepresidente della Camera, infatti, non esclude l´ipotesi di un nuovo governo. Dice che ci sono due ipotesi: «Le elezioni o un governo ampiamente condiviso che però non può essere fatto da transfughi». E se ci fosse bisogno di altre prove, ecco il no alle urne di Ennio Doris, socio storico di Berlusconi, che dice senza mezzi termini che l´unica soluzione possibile è il varo di un governo tecnico.
L´elenco delle personalità del Pdl che prendono le distanze dal leader pronto al voto è lungo e variegato. Ci sono per esempio il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Dicono no al voto anticipato Cicchitto, Verdini, un fedelissimo del premier come Luigi Vitali e si associa anche Giuliano Cazzola. Contro le urne scendono in campo anche i deputati di Grande Sud di Miccichè. E voci del Pdl dicono che contro il voto lavorano anche Frattini e Fitto e financo Gianni Letta.
Siamo di fronte a numeri consistenti che secondo alcuni calcoli potrebbero arrivare fino ad ottanta parlamentari. Una frana nel Pdl che si è vista, in maniera palese, ieri alla Camera dove sul voto finale sull´assestamento di bilancio la maggioranza è scesa dai 308 voti di martedì a 294. E in due votazioni sugli articoli è sprofondata anche a quota 283 e 281. Ma queste defezioni come ha ricordato Gianfranco Fini, provocano un altro problema: la Camera ieri era in numero legale "tecnico", solo perché si conteggiavano i deputati dell´opposizione assenti, ma che avevano preso la parola.

Repubblica 10.11.11
Grassano (Responsabili): "Già mi hanno condannato a 4 anni, Berlusconi mi ha promesso la rielezione. Mi fido di lui"
"Se esco di qui faccio il disoccupato"
di Antonello Caporale


La paura dell´onorevole Maurizio Grassano, da Alessandria.
«La mia paura è che se esco da qui mi ritrovo disoccupato».

La crisi le ha tolto il lavoro?
«I giudici me l´hanno tolto dicendo che era finto, che in realtà ero solo un faccendiere. Mi sono beccato anche una condanna a quattro anni per truffa aggravata benchè abbia consegnato al tribunale vagonate di documenti che mi scagionavano».
Questa è persecuzione.
«Ai quattro anni aggiunga i cinque di interdizione dai pubblici uffici. Mi dica lei se non è crudeltà allo stato puro».
Se esce da qui rischia di trovare dimora addirittura in un carcere!
«Ecco, bravo».
Impossibile anche solo a pensarci.
«Ho gli incubi. Qualche volta sogno la cella: la mia è vicina a quella dell´onorevole Papa».
Bisogna assolutamente trovare una uscita di emergenza.
«Berlusconi mi ha promesso non solo la ricandidatura, ma anche la rielezione (io comunque l´ho sempre votato perché sentivo dentro qualcosa di sincero)».
Si è premurato di formalizzare l´impegno?
«Non sono il tipo di chiedere fideiussioni, o contratti, o altro. Mi basta la parola».
Le parole le porta via il vento.
«Ma sono fatto così! Mi fido del prossimo. Certo, a volte faccio brutti pensieri perché ascolto quelli altrui. Alcuni, per mettermi paura, dicono che ha un fare banditesco, che prende e porta via e dimentica chi l´ha aiutato».
Il Cavaliere ha un cuore generoso e l´ha dimostrato sostenendo le spese di tutta la famiglia Tarantini, che era nel bisogno.
«Poi, è vero, mi risollevo quando altri mi dicono che ha un cuore grande così. Io ci spero«
Lei verrà ricandidato, lo sento.
«Rieletto mi ha detto Berlusconi. Tutti sono buoni a ricandidarti. Anche Casini mi ha promesso che mi avrebbe fatto candidare se avessi voltato le spalle al governo, però vagli a credere. Magari è una candidatura a perdere...».
Immaginiamo l´ipotesi c.
«Quale sarebbe?».
Lei non viene rieletto e non viene neanche incarcerato. Liberato dagli impegni parlamentari, decide una nuova intrapresa.
«Urca!».
Deve cercarsi un lavoro.
«E quale lavoro?».
Cosa gli riuscirebbe meglio?
«Tinteggiature pareti, moquette».
Edilizia, dunque.
«Sono geometra».
L´Italia è nelle mani dei geometri!
«Lei dice?».

l’Unità 10.11.11
«Le primarie? Oggi non sono una priorità»
Il vicepresidente dell’europarlamento: «Con generosità Bersani dice che non si sottrae al confronto, ma adesso nessuno dovrebbe pensare al proprio ombelico»
No ai personalismi: «Soprattutto in un momento come questo, una leadership all’altezza della situazione pensa al bene del Paese»
di Marco Mongiello


Subito un governo di transizione che faccia le riforme. Il maxi emendamento di Berlusconi non risolverà la crisi. È questa l'opinione del vicepresidente del Parlamento europeo Gianni Pittella, intervistato ieri a margine della cerimonia a Bruxelles per il 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia a cui ha partecipato anche Roberto Benigni.
Per riempire il vuoto lasciato dal berlusconismo l'eurodeputato Pd vara oggi la nuova associazione di cultura politica “Prima Persona”, a cui ha già aderito tra gli altri lo scrittore Andrea Camilleri. Come spiega la reazione dei mercati all'annuncio di dimissioni di Berlusconi?
«Il problema è che ci vuole un'opera poderosa di risposta alla crisi. Non è che Berlusconi ora fa questo maxi emendamento e risolve il problema. Ci vuole un governo che faccia un programma, non di un giorno o di un mese, e che ci traghetti in una fase di transizione nella quale si possano fare le riforme».
Come giudica il commissariamento dell'Italia da parte dell'Unione europea?
«Non mi piace il profilo dell'azione che sta svolgendo la Commissione europea, con questa lettera quasi inquisitoria e i funzionari che evocano l'idea di un corpo di polizia. Ma bisogna ricordare due cose. La prima è che da mesi mandiamo da Bruxelles segnali forti di preoccupazione circa la salute dell'economia italiana e a questi segnali non c'è stata nessuna risposta. La seconda cosa è che noi siamo parte dell'Europa, non possiamo pensare di essere un corpo separato e l'Europa non può non interessarsi ad una parte di se stessa. Se questa parte sta male è giusto che l'Europa si faccia carico di risolvere i problemi».
Ritiene che in Italia abbiano tutti compreso l'urgenza della situazione?
«Quando sento dire anche in settori del centrosinistra che la cosa migliore in questo momento sono le elezioni mi viene la pelle d'oca. Oggi la priorità è quella di un governo che faccia a larga maggioranza un risanamento dei conti pubblici basato sul principio dell'equità. Dismissione del patrimonio pubblico abbandonato, lotta all'elusione e all' evasione fiscale, che darebbe 100 miliardi all'anno di proventi allo Stato, fare pagare il condono a chi ne ha beneficiato, accordo con la Svizzera, come hanno fatto Gran Bretagna e Germania per il rientro dei capitali, una politica per la crescita in-
centivando tutti i fattori, a cominciare dal capitale umano. Questo serve, oltre alla riforma della legge elettorale. Inoltre bisogna colpire le grandi rendite patrimoniali, perché non è giusto che a pagare i costi della crisi siano i cittadini che hanno uno stipendio, o che non lo hanno, o che paghino le famiglie attraverso i tagli al welfare e non paghi chi ha centinaia di milioni di ricchezza». Prima del voto ci dovrebbero essere anche le primarie?
«Bersani è il candidato del Partito Democratico per statuto ma lui è stato il primo a dire con un gesto di generosità e di correttezza che non si vuole sottrarre a nessun confronto. Oggi però la priorità non è primarie, secondarie o terziarie. Oggi una leadership politica all'altezza della situazione pensa al Paese, non al proprio ombelico».
Qual'è lo scopo della nuova associazione “Prima Persona”?
«Si tratta di un'associazione apartitica di persone provenienti da diversi partiti e anche senza tessera, che vogliono fare politica e riempire questa nuova fase italiana, che si apre con la fine del berlusconismo, partendo da tre parole essenziali: persona, territorio e partecipazione. Tre parole che sono state narcotizzate dal berlusconismo. Dobbiamo fare in modo che rinasca il popolo dei cittadini innanzitutto con una riforma della politica, non solo dei costi. Pensiamo alla “wikicrazia” della pubblica amministrazione, alla rivalorizzazione dei beni comuni e delle tante realtà sul territorio dell'associazionismo e del volontariato. Poi vorremmo rilanciare il discorso europeo. Il traguardo non può essere il traccheggiamento, il piccolo passo in più. Il traguardo ormai deve essere l'Europa politica, perché l'euro senza governo dell'economia e senza unione fiscale e l'Europa senza politica estera e di difesa comune non vanno più da nessuna parte».

Corriere della Sera 10.11.11
In campo i fedelissimi della grande coalizione
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Il governo d'emergenza nazionale si fa solo con il sì di Berlusconi»: Pier Ferdinando Casini non ha dubbi. E non li ha nemmeno il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani: «Senza il Pdl non si può fare un esecutivo di questo genere, bisognerebbe andare al voto, ma non con il Cavaliere». Su questo punto i leader delle due maggiori forze di opposizione marciano uniti e guardano con attenzione alle mosse del premier che sembra orientato al fatidico sì.
Casini e Bersani faranno entrambi il nome di Mario Monti al presidente della Repubblica, quando saranno chiamati per le consultazioni. Magari il leader dell'Udc ci metterà maggiore entusiasmo nel pronunciare quelle due parole, e il segretario del Pd farà più fatica a trattenere il proprio rammarico per aver dovuto rinunciare alle elezioni e alla sua candidatura alla premiership. Però la strada sembra segnata. E il pressing per strappare un sì a Berlusconi è fortissimo anche negli ambienti delle opposizioni, i cui maggiori esponenti sono in contatto continuo con Gianni Letta, Angelino Alfano, Maurizio Lupi e Raffaele Fitto. Se anche il premier dicesse no, sostengono alcuni parlamentari di Pd e Udc, verrebbe comunque dato il mandato a Monti per fare un governo ponte che arrivi al voto, nella primavera prossima, dopo aver varato alcune riforme importanti.
Insomma, la strada sembra imboccata. Eppure ancora in tarda mattinata il pronostico di Bersani era questo: «Darei le elezioni al 70 per cento e il governo di emergenza nazionale al 30, perché non mi pare che Berlusconi voglia accettare una soluzione diversa dalle elezioni». Ma con il passare delle ore la situazione è andata mutando. Con grande soddisfazione dei sostenitori dell'ipotesi della grande coalizione. Walter Veltroni, che ha caldeggiato per primo questa soluzione già nell'estate del 2010, ha l'aria soddisfatta, e mostra uno studio secondo il quale con il governo Monti lo spread scenderebbe a 350, mentre salirebbe vertiginosamente sia in caso di elezioni anticipate che con la costituzione di un nuovo governo di centrodestra. «È la scelta più saggia», sottolinea l'ex segretario del Partito democratico. Dello stesso avviso Paolo Gentiloni, che con un parlamentare amico commenta così la possibilità di un esecutivo guidato da Mario Monti: «Così il Paese si risolleverà e noi faremo a meno di presentarci alle urne con la foto di Vasto». Ossia con un'alleanza con Sel e Italia dei valori.
E a proposito dell'Idv. Il Pd ha sondato Antonio Di Pietro. L'ex magistrato di Mani Pulite ha detto la sua in modo molto spiccio: «Io se non ci sta la Lega, non ci sto. Tanto il governissimo lo possono fare benissimo senza i miei venti parlamentari. E comunque Napolitano non mi ha nemmeno interpellato». La resistenza di Di Pietro crea qualche problema a Bersani, che preferirebbe non avere concorrenza a sinistra, tanto più che fuori da questa partita rimarrebbero anche Sel e i grillini. Ma il segretario, nel caso in cui Berlusconi apra al governo Monti, andrà avanti lo stesso su questa strada. L'eventuale esclusione dell'Idv, invece, viene ben vista dalla minoranza del Pd: «Meglio, faremo un esecutivo senza quei rompiscatole dei dipietristi e dei leghisti», sorride un veltroniano di ferro.
Intanto, nel cortile di Montecitorio, un po' per celia e un po' sul serio, un altro grande sostenitore delle larga coalizione, Beppe Fioroni, stila la lista dei possibili ministri conversando con alcuni colleghi di partito: «Secondo me — dice — Frattini potrebbe restare agli Esteri...». Si gioca, naturalmente, ma l'impressione è che gli sponsor del governissimo si sentano ottimisti. Dentro la riunione del coordinamento solo il responsabile economico, il bersaniano Stefano Fassina, dice esplicitamente di no all'ipotesi del governissimo, Andrea Orlando non nasconde la propria riluttanza però è meno esplicito e anche la componente di Ignazio Marino morde il freno. Per il resto, Napolitano ha travolto le ultime resistenze del Pd. Tutti i big concordano sul cammino da fare, seppure con sfumature diverse. D'Alema sollecita una discussione sull'asse programmatico del futuro governo, ma Veltroni taglia corto: «Parliamone un'altra volta». C'è ancora da decidere come votare sulla legge di stabilità. Pd e Udc intendono muoversi insieme anche su questo fronte e oggi sceglieranno la linea di condotta.

La Stampa 10.11.11
Una mossa che rompe le coalizioni
di Marcello Sorgi


La mossa di Napolitano di nominare senatore a vita il professor Mario Monti ha impresso un'accelerazione alla crisi prima ancora che le dimissioni di Berlusconi siano formalizzate. Il tentativo del Presidente, ormai è chiaro, è di sostituire in tempi brevissimi il governo uscente con uno tecnicopolitico guidato dall'economista che gode di un credito indiscusso in Europa (per dieci anni, dal 1994 al 2004, ha fatto parte della Commissione a Bruxelles) e che è l'unico in questo momento che potrebbe provare a raddrizzare la barca italiana vicina al naufragio. Un governo, per intendersi, in cui - a parte le personalità scelte direttamente da Monti - potrebbero entrare alcuni dei ministri berlusconiani, oltre naturalmente a Letta, per rassicurare il Cavaliere. E in cui Bersani e il Pdl potrebbero mandare una propria delegazione.
Va da se che la disponibilità parallela dei due maggiori partiti è la condizione indispensabile per la riuscita dell'esperimento. Casini, che ha avuto un ruolo centrale nella defenestrazione di Berlusconi, sta ora lavorando in questo senso. E a favore del tentativo gioca la situazione di emergenza dell'Italia sui mercati, che continua ad aggravarsi di ora in ora. Le difficoltà maggiori sono invece rappresentate dai due no simultanei e preventivi che sono arrivati dalla Lega e da Di Pietro, che non sono contrari a Monti, ma fin d'ora annunciano che si schiererebbero all'opposizione.
Non si tratta quindi solo di portare a collaborare Pdl e Pd che finora si sono scontrati senza esclusione di colpi. Ma di convincerli a rompere le coalizioni con cui di qui a poco potrebbero trovarsi a competere nelle prossime elezioni, lasciando ai loro riottosi alleati delle estreme il vantaggio di tenersi all'opposizione di un governo chiamato a imporre sacrifici necessari ma molto duri.
Per quanto Monti, se incaricato, godrebbe ovviamente di larghi margini di manovra e potrebbe muoversi, con l'appoggio del Capo dello Stato, in pratica senza trattare con nessuno, Napolitano non si nasconde le difficoltà.
Non a caso, dopo aver invocato in mattinata il massimo di coesione possibile delle forze politiche di fronte alle eccezionali difficoltà del momento, il Capo dello Stato in serata in una nota ha ribadito che se non si riuscirà ad arrivare a un governo di larghe intese, non restano che le elezioni anticipate.

l’Unità 10.11.11
«È l’ora della svolta» Milano chiama l’Italia in piazza
Sabato a Milano «Riprendiamoci il campo», per chiedere una fase del tutto nuova, nella forma e nei contenuti, della politica italiana. La Cgil: «Il fronte è allargato a tutta la società civile». Pisapia: «Ci vuole l’impegno di tutti».
di Laura Matteucci


Una manifestazione decisa qualche settimana fa, ma che oggi, a dimissioni che Berlusconi al momento ha solo annunciato, assume anche più significato e valore. L’appuntamento è a Milano sabato 12, il titolo programmatico è «Riprendiamoci il campo», un appello lanciato da un cartello di oltre sessanta intellettuali e personalità del mondo culturale, delle istituzioni, dello spettacolo, del sindacato e della società civile che in queste ore stanno raccogliendo adesioni (che stanno arrivando a decine, mentre si vanno organizzando pullman e treni dalle province lombarde) tra «tutti coloro che vogliono bene all’Italia, e non smettono di indignarsi di fronte al degrado e alla negazione di futuro cui siamo condannati da un governo screditato nel mondo e che ha fallito in Italia». Tra questi, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia: «Ho sempre parlato dice di cittadinanza attiva, di mobilitazione da parte di tutti, di impegno civile e politico: è il momento di scendere in piazza, e riprenderci il campo». Per tutta la Lombardia, e ovviamente per chiunque intenda partecipare, il ritrovo sarà alle 14,30 ai Bastioni di Porta Venezia per poi dirigersi in corteo fino in piazza Castello, dove parleranno alcuni dei promotori, perlopiù leggendo testi della Costituzione.
IL FRONTE SI ALLARGA
Come dice Nino Baseotto, segretario della Cgil lombarda, tra i promotori: «Dopo le dimissioni, la politica deve segnare una forte discontinuità con quanto è stato finora. Su questo, non c’è la sola Cgil, ma il fronte è allargato a cattolici, laici, professionisti, lavoratori dello spettacolo, docenti universitari, sindacalisti». Anche il Pd lombardo ha dato la propria adesione. Assunta Sarlo, per i movimenti «Usciamodalsilenzio» e «Senonoraquando?», chiede politiche centrate sulla questione del lavoro, in un Paese dove un giovane su tre e una donna su due non hanno un’occupazione. E il giornalista Gad Lerner ricorda: «Non so se sabato il governo sarà ancora in carica, ma so per certo che resta aperto il tema della giustizia sociale, della redistribuzione della ricchezza, e quello più volte evocato di dare un futuro ai giovani». «La politica riprende Baseotto deve tornare a dirigere il Paese. Questa piazza rifiuta la tentazione dell’antipolitica».
PROPOSTE ARTICOLATE
Il programma della manifestazione, come da manifesto, è chiaro: l’Italia deve ripartire, voltare pagina, rinsaldare i capisaldi della convivenza civile. Ha bisogno di una diversa politica economica e sociale e di riscoprire l’etica della responsabilità pubblica e dell’azione di governo. In questo contesto, per la gravità della si tuazione in cui versa il nostro Paese, continua il manifesto, pensiamo che sia necessario mettere in campo un nuovo protagonismo civile. Con proposte articolate: una diversa politica economica che incentivi la ripresa e l’occupazione, innanzitutto, promuovendo coerenti politiche industriali e terziarie, investendo risorse pubbliche e private su ricerca, formazione, scuola e università. Politiche che coniughino lavoro e formazione: nel sostenere la centralità del lavoro nelle sue diverse declinazioni (manuale, tecnico, professionale ed intellettuale), è condizione necessaria rilanciare un sistema di formazione continua e qualificata. Tra le proposte, anche la definizione di due progetti prioritari per lo sviluppo del Paese: un piano straordinario per l’occupazione giovanile ed uno per il Mezzogiorno, perchè giovani e Mezzogiorno devono diventare risorse fondamentali per il futuro dell’Italia. Il rilancio di una politica di sostegno della cultura e valorizzazione del patrimonio artistico nazionale. Un welfare rinnovato e più efficiente, e un sistema fiscale che torni ad essere fondato sul principio della progressività e dell’equità, anche attraverso un’imposta sui grandi patrimoni.
È possibile aderire e scaricare il materiale sul sito www.riprendiamociilcampo.it

Nelle grandi città italiane i matrimoni celebrati solo al comune stanno diventando più numerosi di quelli celebrati in chiesa. Nel resto del Paese per dire «sì«, la maggioranza degli italiani preferisce ancora andare davanti al parroco. Ma, nel giro di tre-cinque anni, oltre il 25% delle coppie cattolicamente impegnate con il vincolo sacramentale si recano dal giudice civile per scioglierne gli effetti.
da l’Unità di oggi

l’Unità 10.11.11
L’affettuoso abbraccio di Milano alla partigiana Nori Brambilla Pesce
Alla Camera del Lavoro il saluto di Milano a Nori Brambilla Pesce, la partigiana “Sandra”. Tanta gente, la commozione degli amici, le canzoni della Spagna democratica e della Resistenza. Pisapia con la fascia tricolore.
di Marco Tedeschi


Il piazzale della Camera del Lavoro è pieno di gente. Sotto, il salone Di Vittorio è stracolmo come avviene nelle assemblee sindacali più “calde” e partecipate. Si sentono le vecchie canzoni delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna, quelle della nostra Resistenza.
Milano ha salutato con affetto e passione Nori Brambilla Pesce, come si conviene quando se ne va un’amica, una compagna, una persona leale e trasparente che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa della democrazia e all’emancipazioni dei lavoratori.
UNA GRANDE FOLLA
Per l’ultimo saluto alla partigiana Nori sono venuti in tanti ieri alla Camera del Lavoro: centinaia di amici, politici, amministratori, sindacalisti, ex partigiani, tutti a raccontare una storia, un episodio, un aneddoto della vita della compagna del comandante Giovanni Pesce, “Visone”. Arriva anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, con la fascia tricolore e questo è un gesto che dimostra quale primavera sia davvero iniziata in città. Dice il sindaco:«Nori Pesce era una donna eccezionale, che ha avuto un ruolo importante nella storia di Milano e di tutto il nostro Paese. La sua scomparsa addolora me e tutta la città. Non dimenticheremo il suo esempio». Con lui c’è anche il presidente del consiglio comunale di Palazzo Marino, Basilio Rizzo. S’incontrano l’ex leader della Cgil Antonio Pizzinato e l’editore Carlo Feltrinelli, che pubblicò «Senza Tregua» di Giovanni Pesce, e tanti, tanti cittadini.
La bara è sotto il palco della sala Di Vittorio, è stato appeso un bel manifesto di Nori in bianco nero. Attorno i gonfaloni, le delegazioni dell’Anpi, le medaglie della Resistenza. Arrivano tanti messaggi, tanti telegrammi: la segreteria nazionale della Cgil, il Pd, il presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, e anche quelli dei sindacati spagnoli. Proprio la Spagna, ricorda il segretario della Camera del Lavoro Onorio Rosati, ha sempre rappresentato un legame speciale per Nori, per la guerra combattuta dal marito Giovanni in difesa della Repubblica, per i gesti continui di solidarietà verso i prigionieri politici sotto il franchismo. Gli interventi ricordano l’impegno costante di Nori nel sindacato, in particolare per la valorizzazione delle donne sul lavoro, nel Partito Comunista e poi in Rifondazione.
Alla fine la folla commossa saluta col pugno chiuso, lancia un fiore, mentre tutti cantano «O bella ciao».

La Stampa 10.11.11
Avviso di garanzia a monsignor D’Ercole
Fondi post terremoto Indagato il vescovo


Il vescovo ausiliare dell’Aquila Giovanni D’Ercole è finito sul registro degli indagati per le vicende relative ai cosiddetti fondi «Giovanardi» per il sociale per il dopo terremoto. L’inchiesta che coinvolge il presule è relativa alla tentata truffa messa in atto dalla Fondazione Abruzzo Solidarietà e Sviluppo i cui organizzatori, il professore romano Fabrizio Traversi e il medico aquilano Gianfranco Cavaliere, avrebbero cercato di appropiarsi di 12 milioni di euro provenienti dai «fondi Giovanardi» destinati ad attività sociali per il post terremoto.
Monsignor D’Ercole che inizialmente era tra i vertici della Fondazione, è accusato dal pm Antonietta Picardi, titolare dell’inchiesta, di aver rilasciato false dichiarazioni nel corso di un interrogatorio e di favoreggiamento per avere messo al corrente il professor Traversi che c’era un’inchiesta sulla Fondazione. Ai due principali indagati, Traversi e Cavaliere, il pm contesta il reato di tentata truffa aggravata ai danni dello Stato.
Monsignor D’Ercole dal 1987 al 1990 è stato vicedirettore della Sala Stampa della Santa Sede (allora diretta da Joaquín Navarro-Valls), noto al grande pubblico per essere uno dei volti dell’informazione religiosa su Raidue. «Mi si accusa di non aver detto la verità al giudice - ha spiegato ieri D’Ercole - . Posso solo ribadire la mia sincerità e confermare che ho piena fiducia nella Magistratura».

il Fatto 10.11.11
Studenti e Indignados. Londra occupata dalla rotesta
Dopo le violenze di agosto, la polizia pronta a sparare contro i manifestanti. Tra crisi e caro-università la rabbia si allarga
di Andrea Valdambrini


Londra Gli studenti avevano promesso “un mare di rabbia”, ma sembra aver prevalso la paura. Quella che la giornata di ieri, in cui circa 10.000 manifestanti hanno sfilato per le strade della capitale inglese, si trasformasse in una rivolta.
La rivolta degli studenti era scoppiata un anno fa. Oggi come allora si protesta contro la triplicazione delle tasse universitarie - che da quest’anno toccano le 9000 sterline (10.400 euro circa) – e i tagli all’istruzione targati Cameron. Al culmine della marcia del novembre 2010, si erano viste scene di distruzione di banche e altri simboli del capitalismo, fino all’assalto del quartier generale conservatore a Millbank, pochi passi dal Parlamento.
Niente di tutto questo è accaduto ieri, e non a caso. Un anno dopo, i soli 225 poliziotti che erano stati colti di sorpresa dall’esplosione della protesta, sono diventati 4000, a blindare la zona fra Trafalgar Square e il distretto finanziario della City. Surreale il clima accanto alla Bank of England e alle porte della cattedrale di St Paul, dove il business as usual caro ai tanti impiegati in grisaglia indaffarati come sempre si accompagnava al ronzio degli elicotteri e lo sguardo attento di uomini di Scotland Yard.
Misure di sicurezza estreme hanno garantito che la manifestazione si mantenesse non violenta. Accompagnata da forti polemiche la decisione di promettere alla polizia di poter usare pallottole di gomma, anche se solo in condizioni di reale pericolo. Per fortuna non sono serviti. Neanche quando circa 300 membri del sindacato degli elettricisti hanno bloccato il traffico proprio nella City, o quando alcuni dimostranti hanno provato a piantare tende nella centralissima Trafalgar Square. In serata il bilancio non è di circa 20 arresti.
Alla tendopoli degli indignados londinesi, ai piedi della cattedrale di St Paul, si raduna una folla per cantare e supportare la protesta. Tra gli occupanti ci sono anche alcuni partecipanti alla marcia. Le pallottole di gomma? “Non mi spaventano, non credo sia peggio del solito”, replica scettica Liz, una donna di Manchester sulla cinquantina con in spalla una bandiera rossa del sindacato. Non meno assuefatto ai metodi coercitivi della polizia britannica è Robin, che spunta da una delle tende di Occupy London. “Con noi non sono stati aggressivi i poliziotti. E perché avrebbero dovuto? Però è vero, di solito se la prendono con i più deboli”.
Ma il senso dello scontro lo danno soprattutto le parole di Michael Chessum, giovane leader di National campaign against fee and cuts, che ha organizzato la manifestazione. Secondo lui vertici della polizia agiscono “in modo politico e cinico” con lo scopo di intimidire i cittadini che vorrebbero scendere in piazza. E poi, rivolto a Cameron: “per finanziare l’istruzione basta tassare i ricchi. Gli studenti non accetteranno tagli così drastici al loro futuro”.

il Fatto 10.11.11
Britannici senza futuro
Più danni dai geitori che dalla crisi: generazione “neet”
di Micaela Panzavolta


Londra We don't need no education cantavano i Pink Floyd 30 anni fa senza immaginare quanto amaramente la realtà li avrebbe smentiti. Anche sul piano personale.
Proprio in questi giorni il figlio adottivo di David Gilmour, chitarrista della mitica band, è stato condannato a 16 mesi per gli atti di vandalismo commessi in una manifestazione di protesta contro l'aumento delle tasse unversitarie.
Il caso, divenuto l'emblema dei problemi che la Gran Bretagna ha con i giovani, non è che una della miriade di storie umane racchiuse nei fascicoli dei tribunali del Paese. Faldoni che parlano di vandalismi ma anche di famiglie assenti e poca scuola, e di un generale malessere che ha lasciato politici a sociologi a grattarsi la testa per trovare una spiegazione all’ondata di violenza di quest’estate.
È LA CRISI economica? O è il poor parenting la crisi della famiglia di cui parla l'ultimo studio dell'Unicef dal quale emerge che i genitori inglesi sono fra i peggiori del mondo industrializzato? Già nel 2007 l'Unicef aveva indicato la Gran Bretagna come il peggior posto per crescere a causa dell'alto tasso di obesità, bullismo, alcolismo, sesso precoce e scarsa salute. Ora punta il dito contro i genitori assenti che si sgravano la coscienza comprando ai figli l'ultimo gadget. Ciò non basta a spiegare le vetrine rotte, i sacheggi, gli incendi e le violenze dei 5 giorni di follia collettiva in agosto.
Per capire meglio la questione forse possono aiutare i dati dell'Ocse che in uno studio rileva come la Gran Bretagna sia uno dei Paesi industrializzati col maggior numero di teenager che non vanno a scuola, né hanno un lavoro. Si chiamano “Neet” Not in education, employment or training. Sono giovani tra i 15 e i 19 anni che non sanno che fare delle proprie giornate. Nel 2009, 1 ragazzo su 10 è finito nel calderone dei Neets dopo aver lasciato la scuola; e il fenomeno è trasversale. Ricchi e poveri hanno lo stesso problema, anche se mezzi differenti per affrontarlo.
Nancy, la madre di Luisa, è preoccupata. Me lo dice di nascosto, mentre la figlia 20enne non sente: è a fare l'ennesimo stage non pagato che finirà probabilmente in un nulla, come gli ultimi tre. È un anno che Luisa ha finito il college e da allora, l'unica fonte di guadagno sono le poche ore di baby sitting che fa per i vicini. Luisa è fortunata, vive in una bella casa vicino a Westminster; mamma e il papà possono mantenerla, ma per quel che riguarda la ricerca del lavoro, la sua storia è la stessa di migliaia di altre.
Cristina, 26 anni, è romena, anche se nessuno lo intuirebbe dal suo inglese perfetto; abita in zona 6, non certo un quartiere privilegiato, in un appartamento che condivide con la famiglia della zia. Arrivata in Gran Bretagna a 19 anni, si è mantenuta agli studi facendo la baby sitter. In giugno ha concluso col massimo dei voti un corso di laurea in Turismo all'università di Westminster. Dopodiché anche per lei si sono spalancate le porte del Limbo. “Mando curriculum a destra e a manca, ma nessuno mi chiama, continuo a fare la baby sitter ma ho paura che non troverò mai un lavoro serio”.
I dati sulla crescita, praticamente inesistente (nel secondo trimestre dell'anno il Pil è cresciuto solo dello 0,1%) fanno pensare che il Regno Unito sia sull'orlo di una seconda recessione. Cristina non è ferrata in economia, ma sa fare bene i suoi conti e anche questi puntano verso il rosso. “Per il momento mi mantengo con le 800 sterline di sussidio di disoccupazione, a cui aggiungo la paga da babysitter, non va poi così male, ma non potrei mai permettermi di vivere per conto mio”. Cristina e Luisa sono divenute amiche, si sono conosciute badando ai bambini nello stesso palazzo. Vengono da background opposti ma i loro destini lavorativi si somigliano molto.

La Stampa 10.11.11
Da Mississippi e Ohio schiaffo ai repubblicani
Bocciati i referendum antiabortista e sulle union sindacali
di Paolo Mastroililli


Le elezioni e i referendum che si sono tenuti martedì in vari Stati americani sono andate meglio del previsto per i democratici. Gli elettori hanno bocciato misure sull’aborto e sul potere dei sindacati promosse dall’ala più conservatrice del Partito repubblicano, e anche alcuni candidati a seggi legislativi locali vicini al Tea Party non sono passati. Un segnale che forse il Gop non è forte come si pensava, guardando alle presidenziali dell’anno prossimo, a patto però che i democratici non prendano questi risultati come la prova definitiva di una inversione di tendenza già in corso.
Il responso più interessante è quello venuto da quattro referendum, che si sono tenuti in Mississippi, Maine ed Ohio. Nel primo Stato la Initiative 26 chiedeva di dare ad ogni ovulo fecondato lo status di persona. La misura avrebbe trasformato in omicidio ogni tipo di aborto, inclusi quelli praticati dopo l’incesto, lo stupro, o per salvare la vita della madre; avrebbe vietato diversi anticoncezionali, come la pillola del giorno dopo; e avrebbe bloccato anche la fecondazione artificiale, nei casi in cui si rischia di perdere degli embrioni. Era un attacco frontale all’interruzione di gravidanza su cui anche i vescovi cattolici avevano espresso riserve, perché lo consideravano una scelta strategica sbagliata. In caso di approvazione, infatti, avrebbe portato ad uno scontro davanti alla Corte Suprema che il movimento pro life avrebbe quasi certamente perso, frenando altre iniziative in corso per limitare progressivamente l’aborto. Ma il Mississippi ha bocciato l’iniziativa, nonostante sia uno degli Stati più conservatori d’America.
In Maine i repubblicani avevano vietato la possibilità di registrarsi per il voto direttamente ai seggi la mattina delle elezioni, e i democratici sono riusciti a cancellare questa misura che frena soprattutto i membri delle minoranze.
In Ohio, stato chiave per le presidenziali, si votava in due referendum. Il primo riguardava una iniziativa del governatore repubblicano Kasich, per limitare i diritti dei sindacati dei dipendenti pubblici a negoziare contratti collettivi, che è stata bocciata. A questo successo, però, i democratici hanno dovuto aggiungere la sconfitta su una misura simbolica, che tuttavia rappresenta un rifiuto della riforma sanitaria di Obama. Gli elettori, infatti, hanno bocciato l’obbligo di acquistare le assicurazioni, che oggi arriverà sul tavolo della Corte Suprema di Washington per una serie di cause che ne contestano la costituzionalità. La decisione è di fatto nulla, perché gli Stati non possono optare di non aderire alle leggi federali, ma è indicativa delle stato d’animo della gente.
Anche le elezioni locali hanno riservato qualche sorpresa. La poltrona di governatore in palio nel Kentucky è rimasta ai democratici e quella del Mississippi ai repubblicani, così come sono stati confermati i sindaci di grandi città come Houston, Filadelfia, Indianapolis, Baltimora, Charlotte, e probabilmente San Francisco, dove per la prima volta c’è un leader di origini cinesi. Però in Virginia, altro Stato che Obama ha vinto nel 2008 e spera di conservare l’anno prossimo, i repubblicani non sono ancora certi di aver ripreso il controllo del Senato. In Arizona, invece, è stato battuto il presidente del Senato, Russell Pearce, che era molto vicino al Tea Party e aveva promosso leggi severe sul tema dell’immigrazione.
Il messaggio generale sembra essere che gli elettori respingono le posizioni più estreme dei repubblicani. I candidati presidenziali del 2012 dovranno tenerne conto, perché se si appiattiranno troppo sulla linea del Tea Party rilanceranno le speranze di rielezione di Obama.

Corriere della Sera 10.11.11
Palestina all'Onu, scatta il «Piano B»


RAMALLAH — I palestinesi si sono rassegnati: il loro Stato non sarà ammesso come membro a tutti gli effetti delle Nazioni Unite. Via perciò al «piano B»: cercheranno di ottenere lo status di Paese osservatore non membro, che darebbe loro accesso alle principali organizzazioni internazionali. Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas aveva presentato la richiesta di ammissione della Palestina all'Onu a settembre scorso, ma i voti necessari (9 su 15) non sono stati trovati. «Sapevamo che il percorso al Consiglio di sicurezza non sarebbe stato un picnic», ha detto all'Ap il ministro degli Esteri dell'Anp Riad Malki. «Ma — ha aggiunto — la cosa più importante è chi vincerà l'ultima ripresa. Ci saranno altri round e noi non ci dispereremo mai». Diplomatici palestinesi hanno già iniziato a lavorare per ottenere il sostegno dei governi esteri per lo status di Paese osservatore. Il portavoce del ministero degli Esteri francese, Bernard Valero, ha detto che Parigi è aperta alla richiesta dei palestinesi e che lo status di non membro «ci sembra ancora la strada migliore». Per ottenerlo sarà sufficiente la maggioranza qualificata dell'Assemblea generale.

l’Unità 10.11.11
Crisi nucleare L’Iran alza il tono dello scontro. La Russia prevede «conseguenze devastanti»
Diplomazia Parigi invoca il consiglio di sicurezza. Si allarga il fronte delle «nuove e forti sanzioni»
Teheran: se ci portano la guerra lo Stato di Israele sarà distrutto
Di fronte all’acuirsi della crisi tra Israele e Iran, si moltiplicano gli sforzi internazionali per una svolta diplomatica. L’Europa chiede un rafforzamento delle sanzioni. Tel Aviv le accetta solo se saranno «paralizzanti».
di Umberto De Giovannangeli


Le preoccupazioni della comunità internazionale. Le minacce di Teheran. La partita delle sanzioni e l’opzione militare sempre più incombente da parte israeliana. È il giorno dell’allarme rosso, all’indomani della pubblicazione del rapporto dell’Aiea sul nucleare iraniano. Il vice comandante delle forze armate iraniane ha avvertito Israele che nel caso di un attacco contro la Repubblica islamica verrà «distrutto» e la rappresaglia «non si limiterà al Medio Oriente». «Un’azione anche minima di Israele contro l’Iran e verranno distrutti», ha affermato il generale di brigata Masoud Jazayeri in un’intervista all’emittente locale Al-Ala. Il generale ha assicurato che sono già «pronti piani di rappresaglia» nel caso di un attacco israeliano, che nei giorni scorsi lo stesso Shimon Peres aveva definito «sempre più probabile». Per Jazayeri tra gli obiettivi nel mirino di Teheran ci sarebbe Dimona, la sede del programma nucleare israeliano che ha definito «il bersaglio più accessibile».
PARTITA FINALE
Dal generale al presidente. «Non arretreremo di un centimetro rispetto al cammino che stiamo percorrendo», avverte Mahmud Ahmadinejad, secondo il quale i vertici dell’Aiea, presentando un rapporto fondato su elementi già datati e basati su documenti «fabbricati da Washington», «hanno sacrificato la reputazione dell’Agenzia». «Il popolo iraniano è intelligente ha ribadito Ahmadinejad rivolgendosi all’Occidente non si mette a costruire due bombe, contro le 20 mila che voi avete».
Da Teheran a Gerusalemme. Sta alla comunità internazionale impedire all’Iran «di puntare verso armi nucleari, che mettono in pericolo la pace nel mondo e nel Medio Oriente», afferma il governo israeliano. «Il rapporto dell’Aiea rileva un comunicato dell’Ufficio del primo ministro israeliano, riferendosi al documento divulgato l’altro ieri rafforza la posizione della comunità internazionale e di Israele, che l’Iran sta sviluppando armi nucleari». «Il significato di questo rapporto prosegue il comunicato è che la comunità internazionale deve far sì che l’Iran cessi di puntare ad armi nucleari che mettono in pericolo la pace nel mondo e nel Medio Oriente».
Sanzioni «paralizzanti» chiede Israele. Le risposte raccontano di una comunità internazionale divisa. La Francia si è detta pronta ad adottare «sanzioni senza precedenti» se Teheran non cambierà rotta. «Se l’Iran rifiuterà di attenersi alle richieste della comunità internazionale e respingerà tutte le iniziative serie di cooperazione, siamo preparati ad adottare, insieme alle nazioni che seguiranno, sanzioni senza precedenti», recita un comunicato del Quai d’Orsay. Sulla stessa lunghezza d’onda è Londra. Francia e Gran Bretagna raccomandano delle «nuove e forti sanzioni» contro l’Iran se si rifiuta di cooperare sul dossier nucleare. Lo afferma la presidenza francese in un comunicato pubblicato ieri al termine della riunione a Londra del «gruppo di alto livello» franco-britannico. I due Paesi «hanno espresso la loro profonda preoccupazione relativa alla dimensione militare del programma nucleare e affermano la loro chiara determinazione a cercare nuove e forti sanzioni», si legge nel comunicato.
GRUPPO DI PRESSIONE
Gli Stati Uniti, a loro volta, vogliono riflettere su come poter esercitare una possibile «pressione supplementare» sull'Iran, dopo il rapporto dell'Aiea sul suo programma nucleare. Il rapporto contiene «affermazioni molto gravi, accuse gravi e l'Iran deve dialogare in modo credibile e trasparente con l'Agenzia atomica internazionale per fugare i timori», dice il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner.
Sul fronte opposto c’è Mosca. La Russia critica il rapporto sostenendo che non contiene elementi nuovi e che viene usato per minare gli sforzi diplomatici per risolvere la situazione di stallo tra Teheran e le potenze mondiali. «Sulla base delle nostre valutazioni iniziali, non ci sono elementi fondamentali nuovi nel documento», si legge in un comunicato del ministero. Il ministero aggiunge che gli autori del rapporto «giocano con le informazioni allo scopo di creare l'impressione che ci sia una presunta componente militare nel programma nucleare iraniano». «Un tale approccio può difficilmente essere considerato professionale e obiettivo. È politicizzato», insinua Mosca. Dove il viceministro agli esteri afferma che «un illegittimo uso della forza avrà conseguenze imprevedibili e terribili». La partita delle sanzioni è tutta da giocare. Ma il fattore tempo è decisivo. «Sanzioni paralizzanti», chiede Israele. Altrimenti...

l’Unità 10.11.11
Piani d’attacco pronti
Ma Tel Aviv ha bisogno di alleati per resistere
Tre rotte possibili per il raid dell’Armata volante di Tel Aviv:
il confine turco-siriano, i cieli giordani o quelli sauditi e iracheni Da soli i cento caccia potrebbero effettuare un’unica ondata
di U.D.G.


La sala di comando delle operazioni militari è scavata nelle viscere della terra sotto il ministero della Difesa, a Tel Aviv. Da qui verrà guidata «l’Armada volante». Sembra la sceneggiatura di un film stavolta la realtà supera l’immaginazione cinematografica. Manca solo la luce verde politica. I piani operativi sono già pronti. All’ora prescelta si leveranno in cielo cento apparecchi, fra aerei da combattimento, da intercettazione, da rifornimento, da guerra elettronica. Gli aerei F16i e F15i sono del resto in grado di raggiungere l’Iran senza rifornimenti in volo anche con un carico di ordigni, ha affermato in questi giorni la Tv commerciale israeliana. Tre sono le possibili rotte d’attacco: una lungo il confino turco-siriano; un’altra sulla Giordania; una terza su Arabia Saudita ed Iraq.
La mappa degli obiettivi «Se costretto ad agire da solo osserva Efraim Kamm, del Centro di studi strategici dell’Università di Tel Aviv Israele è in grado di portare a termine una sola ondata di attacchi» sull’Iran. Dunque la selezione degli obiettivi che i vertici iraniani hanno disperso sull’intero territorio e protetto sotto terra risulta determinante. Secondo uno degli scenari apparsi su internet, Israele non cercherà quindi di distruggere l’intera rete degli stabilimenti nucleari iraniani, ma solo quelli ritenuti d’importanza critica: le località che vengono spesso menzionate sono Natanz, Isfahan, Kom, Arak. Quanto alla centrale di Bushehr, c’è chi ritiene che vada risparmiata, per non provocare una fuga di materiale radioattivo.
In questa fase potrebbero entrare in azione i missili Jericho II e Jericho III, contro i quali l’Iran risulta impotente. Per intaccare gli obiettivi principali, dovrebbero esserne impiegati diverse decine. Secondo il quotidiano britannico The Guardian, Londra e Washington sarebbero solidali, e già pronti a rilocalizzare le navi e i sottomarini equipaggiati con missili Tomahawk. Nei giorni scorsi Israele ha testato un missile intercontinentale con gittata di 7.000 km nella sua base di Palmachim, a sud di Tel Aviv. Secondo il sito israeliano Debka (vicino ai servizi di intelligence), per eliminare le basi nucleari iraniane servono 42 missili con armamento convenzionale.
La scorsa settimana sei squadroni con la stella di Davide hanno simulato un attacco a distanza. Teatro dell’esercitazione il cielo di Sardegna, base Nato di Decimomannu. Ad affiancare i caccia israeliani c’erano i Tornado tedeschi, gli F-16 olandesi. L’aviazione italiana ha utilizzato degli Amx, Tornado, F-16s e degli Eurofighter Typhoon. «Di fronte alla minaccia iraniana, l’aviazione israeliana ha intensificato le proprie esercitazioni all’estero negli ultimi anni, soprattutto in seguito al rifiuto turco di permettere ai jet israeliani di addestrarsi nel proprio spazio aereo», scrive il Jerusalem Post. Non basta. Sottomarini israeliani sono stati dispiegati nel Mare Arabico, da dove possono eventualmente lanciare contro tutto il territorio iraniano.
La risposta iraniana «Se saremo attaccati risponderemo con i missili all’aggressione», avverte il generale Mohammed Ali Jafari, comandante dei Guardiani della rivoluzione. I vettori iraniani possono trasportare sia testate convenzionali che chimiche o batteriologiche e addirittura nucleari. Se venissero utilizzate armi di distruzione di massa la risposta israeliana non si farebbe attendere grazie ai missili balistici Jericho II e Jericho III. Non solo: le testate nucleari miniaturizzate a bordo dei sottomarini con la stella di Davide potrebbero colpire Teheran dal golfo dell’Oman. Non è la trama di un film ma uno scenario (reale) da brividi.

l’Unità 10.11.11
Colletta della libertà di migliaia di cinesi per la star dissidente
Pechino ha condannato Ai Weiwei per evasione milionaria Ma per la prima volta la solidarietà di massa è scattata
Già raccolta quasi metà della somma con piccole donazioni
di Gabriel Bertinetto


Volano leggeri gli aeroplani oltre il cancello di ferro e atterrano in cortile. Sono aerei di carta, anzi di cartamoneta, e a lanciarli non sono mani giocose di bimbi, ma adulti impegnati in una sfida molto seria: sostenere con il loro obolo le ragioni dell’uomo che abita in quella casa, il dissidente Ai Weiwei, pretestuosamente condannato per evasione fiscale da un tribunale che non aveva il coraggio di sostenere fino in fondo l’iniziale accusa di sovversione.
Fra tanti oppositori del regime comunista cinese, Ai Weiwei è forse il più noto fuori dai confini patrii, come disegnatore del Nido d’uccello, lo stadio in cui si disputarono le Olimpiadi del 2008 a Pechino. Bloccato dalla polizia in aeroporto mentre si accingeva a lasciare il Paese lo scorso aprile, fu scarcerato dopo 81 giorni, ed ora è agli arresti domiciliari. Entro il 16 novembre deve pagare una multa di 15milioni di yuan (circa 2,3 milioni di dollari) per le imposte non pagate dalla compagnia che distribuiva le sue opere d’arte. Ai Weiwei respinge ogni accusa, dicendo che se qualcuno ha frodato il fisco non è lui, che di quella azienda era un semplice dipendente e non il «titolare occulto», come dicono le autorità.Non appena si è diffusa la notizia della condanna, è scattata spontanea e irrefrenabile una campagna di simpatia e di sostegno, in forme assolutamente inedite per la Repubblica popolare. Migliaia di cittadini si sono offerti di pagare l’ammenda al posto dell’imputato. Sino a ieri già 22.200 persone avevano aderito alla raccolta di fondi, racimolando in pochi giorni ben 6 milioni di yuan, che equivalgono a due quinti della somma che Ai Weiwei deve versare allo Stato.
C’è chi manda denaro con bonifici bancari, chi ricorre a donazioni via internet, chi utilizza Paypal. Chi invece fatica a seguire il ritmo della rapida modernizzazione che sta trasformando un Paese di centinaia di milioni di contadini nella seconda potenza economica mondiale, si arrangia ripescando nella memoria le abilità tecnologiche dell’infanzia. Le banconote prendono il posto dei fogli di quaderno e diventano velivoli capaci di superare i muri dell’oppressione. Perché il significato della colletta è essenzialmente libertario. Ai Weiwei dice che può fare fronte da solo al pagamento, e assicura che restituirà le somme che considera semplici prestiti. O meglio, attestati di solidarietà. «La gente mi dice che fa così fa sapere l’artista perché vuole dimostrare che sta dalla mia parte, e considerano la condanna inflitta a me, come un’offesa rivolta a tutti. Affermano che e’ un modo per fare cio che non possono mai fare, cioè esprimere il proprio pensiero».
Rischiano, perché attraverso i media fiancheggiatori, il governo fa circolare la notizia che i donatori potrebbero essere incriminati per «raccolta di fondi illegale». E in ogni caso, si espongono a ritorsioni, perché la partecipazione alla colletta equivale a schierarsi nel campo di coloro che invano da anni invocano la libertà e i diritti negati. Di colpo il movimento per la democrazia in Cina, che sembrava ristretto a un’élite di coraggiosi attivisti, pronti a sfidare il carcere, la perdita del lavoro, e a volte anche la violenza degli sbirri, sfonda gli argini della paura e si avvia forse a diventare nuovamente un movimento di massa. Come fu per una breve stagione felice prima del massacro sulla Tiananmen. Pechino pensava di avere compiuto una mossa intelligente, rinunciando a perseguire Ai Weiwei come oppositore e tramutandolo in un volgare evasore. L’arma che doveva annientare l’onore dell’artista dissidente e cancellarne l’immagine di eroe libertario, si è rivelata un boomerang. Ha generato una colletta per la libertà.

Corriere della Sera 10.11.11
Il duello su Twitter tra la figlia di Castro e la web-dissidente
La Sánchez: benvenuta al pluralismo
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO — «Benvenuta al pluralismo di Twitter, Mariela. Qui nessuno può chiudermi la bocca, negarmi il permesso di viaggiare o di tornare a casa». «Cara Yoani, la tua idea di tolleranza riproduce i vecchi meccanismi di potere. Per migliorare i tuoi "servizi" devi ancora studiare...». Tutto si era visto nel mondo di Twitter, ma questa ancora no: in un Paese sbarrato alla libertà di opinione come Cuba si scambiano messaggi sulla Rete la figlia del presidente Raúl Castro, Mariela, e Yoani Sánchez, la più nota attivista dell'isola, nota soprattutto per il suo blog Generación Y. E non sono propriamente messaggi di stima reciproca. Yoani esordisce con una domanda: «Quando pensi che noi cubani potremo uscire dai nostri armadi?». E la Castro, qualche ora dopo, probabilmente dopo essere stata sommersa da tweet critici con Cuba: «Parassiti da quattro soldi. Avete ricevuto ordini dai vostri padroni per rispondermi all'unisono e con lo stesso tono predeterminato? Siate creativi!».
Non è un buon inizio, diciamo, ma era prevedibile. Mariela Castro, psicologa di 49 anni, non è solo la figlia del leader, ma una figura piuttosto nota a Cuba e all'estero per la sua attività a favore dei diritti delle donne e degli omosessuali. Più aperta al dialogo con i media stranieri, è apparsa a tratti in questi anni una sponda possibile su argomenti che riguardano le scelte e le opzioni personali dei cittadini cubani. È grazie al suo lavoro all'interno del regime che la persecuzione ai gay a Cuba è quasi cessata negli ultimi tempi. Fino all'ammissione da parte dello stesso Fidel Castro, suo zio, che la Revolución su questi temi aveva assunto sin dall'inizio posizioni sbagliate. Ma per quanto riguarda i caposaldi del regime, Mariela si è sempre rivelata inflessibile. Difende la necessità di proseguire sulla strada delle riforme, ma anche il sistema a partito unico. Crede al dibattito e al confronto di idee, ma solo all'interno del sistema socialista.
Già in passato, attraverso Twitter, Yoani Sánchez si era rivolta a Mariela, senza ricevere risposte. Il paradosso è che adesso che la potente signora Castro le ha replicato direttamente l'interlocutrice non può leggerla: la Sánchez difatti «twitta» dal suo cellulare, non avendo una connessione Internet stabile, assai difficile da ottenere a Cuba. E non legge le risposte ai suoi messaggi, a meno che qualcuno da lontano gliele «giri» via sms.
Vedremo adesso se il «dialogo» continuerà o meno. Al momento, Mariela Castro pare più interessata a far conoscere la propria attività nel ramo dell'educazione sessuale e il suo lavoro all'estero. Ha polemizzato con una giornalista olandese che le aveva chiesto un paragone tra le vetrine a luci rosse di Amsterdam e la prostituzione sul lungomare dell'Avana. Mentre Yoani affronta «il dilemma dell'immediatezza» digitale: «Vivere o twittare? Per il momento opto per un'esistenza con sottotitoli di 140 caratteri». A prova di «insulto»: «La mia forza è la dolcezza». E quanto alla figlia del líder Raúl, la Sánchez non cessa di stupirsi per la peculiarità del contatto: «Curiosi paradossi di Twitter: i minuscoli riescono ad affrontare gli irraggiungibili». Con un sorrisino di circostanza, :-)

l’Unità 10.11.11
Vi raccontiamo la globalizzazione dell’Homo sapiens
La mostra curata da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani racconta da dove veniamo e come siamo riusciti a popolare l’intero pianeta Terra costruendo il caleidoscopico mosaico della diversità umana attuale
L’avventura. Una popolazione di 7 miliardi generata dai pionieri africani
Le razze umane. Esistono sì, ma stanno tutte racchiuse nei nostri pregiudizi
di Telmo Pievani


I NOSTRI ANTENATI. Una grande iniziativa
Si apre domani la mostra «Homo sapiens. La grande storia della diversità umana» e chiuderà i battenti il 12 febbraio 2012. Viene ospitata al Palazzo delle Esposizioni di Roma ( via Nazionale 194). È stata curata da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani ed è nata dalla collaborazione di Codice. Idee per la cultura e Azienda Speciale PalaExpo.

Siamo in viaggio, da due milioni di anni. Da quando i primi esemplari del genere Homo, completamente bipedi, si diffusero a partire dal continente africano e colonizzarono l’Eurasia. Da quando – molto tempo dopo piccoli gruppi appartenenti alla nostra specie curiosa e intraprendente, Homo sapiens, uscirono ancora dall’Africa e affrontarono l’esplorazione di vecchi e nuovi mondi. Oggi quell’avventura non è ancora finita e non esiste frammento delle terre emerse che non abbia visto il passaggio o l’insediamento di esseri umani. Una popolazione che ha da poco superato i sette miliardi si è generata da quegli sparuti pionieri del Corno d’Africa, forse non più di 25mila individui agli inizi (un quartiere di Roma). Come è avvenuta la straordinaria globalizzazione di Homo sapiens? E a spese di chi?
Di tutto questo, e di molte altre storie nascoste che la scienza ha di recente riportato alla luce, tratta la Mostra internazionale che apre oggi i battenti al Palazzo delle Esposizioni di Roma: «Homo sapiens. La grande storia della diversità umana». Si tratta di un progetto inedito di comunicazione della scienza, per una volta ideato e realizzato interamente in Italia: mettere in scena il programma interdisciplinare fondato dal genetista emerito della Stanford University, Luigi Luca Cavalli Sforza, con l’ambizione di ricostruire l’albero genealogico dei popoli della Terra attraverso le tracce genetiche, archeologiche e linguistiche.
La narrazione della Mostra è rivolta a un pubblico di ogni età e fa leva su linguaggi espositivi differenti: reperti originali preziosi da tutto il mondo, fossili antichissimi, tra i quali i resti del primo ominino uscito dall’Africa e trovato in Georgia, a Dmanisi, manufatti di specie umane diverse, le prime forme di arte; e poi calchi e modelli in 3D di ominini e di grandi animali estinti; mappe planetarie, preparate da De Agostini; video e foto da collezioni storiche. Per i ragazzi (e non solo), alcuni exhibit hands-on e interattivi permettono di scoprire giocando che siamo cugini di ogni essere vivente, compresa la banana, e che le razze umane esistono sì, ma stanno tutte racchiuse nella nostra testa e nei nostri pregiudizi, non certo nel mondo là fuori. Inutile, insomma, cercarle nei nostri geni: essendo la diversità genetica fra gli esseri umani bassissima e distribuita in modo continuo, le cosiddette «razze umane» non hanno alcun fondamento biologico.
Ma le sorprese per i visitatori saranno molte di più, a cominciare dal fatto che siamo figli di un ambiente capriccioso e che nell’albero frondoso della famiglia umana non siamo mai stati soli: fino a una manciata di millenni fa esistevano più specie umane. Se un extraterrestre fosse caduto sulla Terra 40mila anni fa ne avrebbe incontrate altre quattro, oltre a noi. L’uomo di Neandertal, la cui intelligenza non smette di stupirci, fa bella mostra di sé nell’esposizione di Roma e ci svela i suoi lati nascosti. Il cugino «hobbit», Homo floresiensis, rimpicciolitosi nella sua isola indonesiana di Flores insieme a ratti e cicogne giganti, ci guarda un po’ disorientato dal basso in alto. All’affollata compagnia di umani si aggiungono il misterioso ominino della grotta di Denisova, sui Monti Altai, e un tardo Homo erectus sopravvissuto sull’isola di Giava. Poi siamo rimasti soli, non prima, forse, di esserci accoppiati con alcune di queste forme «diversamente sapiens» (lo testimonierebbero alcune tracce di Dna neandertaliano e denisoviano in una parte delle popolazioni moderne).
Capire da dove veniamo ci permette di comprendere quali innovazioni ci hanno reso ciò che siamo, prime fra tutte il linguaggio articolato e le capacità di astrazione (in Mostra una tavoletta babilonese con il teorema di Pitagora spiegato dodici secoli prima di Pitagora!), e in che modo siamo stati capaci di produrre un ventaglio meraviglioso di diversità culturali. Homo sapiens nasce prima anatomicamente, in Africa, intorno a 200mila anni fa, e poi mentalmente, intorno a 50mila anni fa, in coincidenza con l’ultima ondata di espansione planetaria, quella che più recentemente ci condurrà anche nei «nuovi mondi» dell’Australia e delle Americhe in epopee appassionanti che la Mostra racconta attraverso reperti, ricostruzioni e immagini. I primi europei autoctoni dunque non siamo noi. Anzi, dato che i geni connessi allo schiarimento della pelle sono molto recenti, a volerla dire tutta i primi immigrati di colore in Europa siamo proprio noi, Homo sapiens. C’è sempre qualcuno più «nativo» di te.
NOI, I PREPOTENTI
La rivoluzione agricola scompaginerà poi le carte del popolamento umano, portando all’estinzione molti stili di vita del passato, ma anche animali e piante in grande quantità. Siamo dunque una giovane specie africana, assai mobile e promiscua, sopravvissuta per un pelo a svariate catastrofi ambientali, divenuta poi una presenza invasiva: una «specie prepotente», come ha scritto Cavalli Sforza. Una moltitudine di storie affascinanti viene dunque molto prima della Storia con la maiuscola che si studia a scuola.
Siamo umani perché non abbiamo mai smesso di esplorare nuovi mondi, di muoverci, di guardare cosa c’era dall’altra parte della collina. Le civiltà di oggi non sono monoliti senza tempo, ma organismi con le radici intrecciate. All’Italia come laboratorio di molteplici diversità, e al contempo di una profonda unità culturale, è dedicata una sezione speciale della Mostra. Ma pensiamo al Medio Oriente, al Caucaso, ai Balcani, all’Afghanistan, allo stesso Corno d’Africa: la coincidenza è sorprendente e rivelatrice, perché tutte queste regioni martoriate sono state i più antichi e maggiori laboratori di diversità umana, culturale e linguistica. Sono stati i più ricchi, frequentati e tormentati crocevia del popolamento umano del pianeta. Una specie africana giovane, inventiva ed espansiva, a partire dalla sua unità ha saputo generare la diversità. Ora proprio dalla storia della diversità può imparare a riscoprire la sua unità.

Corriere della Sera 10.11.11
Una mostra a Roma
Segni di civiltà
Dalle origini all’evoluzione alle straordinarie migrazioni
Così il cammino dell’uomo incontra la multimedialità
di Lauretta Colonnelli


«Gli uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando», ha scritto Bruce Chatwin in uno dei suoi passi più suggestivi. La mostra «Homo Sapiens» racconta questo lungo cammino, durato due milioni di anni. Perché se è vero che i nostri diretti progenitori popolano la Terra da duecentomila anni, prima ancora ci sono stati tanti altri generi di homo. Il vecchio mondo, che Sapiens cominciò a esplorare intorno ai centomila anni fa — emigrando dall'Africa orientale alle coste della penisola arabica — era già affollato da altre forme di genere homo fuoriuscite dalla stessa culla africana in almeno due migrazioni precedenti.
La specie più nota anche ai profani è l'uomo di Neanderthal. Ma esistevano anche l'Heidelbergensis e il Floresiensis. E nel buio dei millenni precedenti avevano camminato l'Homo habilis e il Rudolfensis, l'Ergaster e il Georgicus, l'Antecessor e l'Erectus, che un tempo era considerato l'anello mancante dell'evoluzione umana e oggi viene reinterpretato come un ramo orientale di successo della prima diaspora. Un mondo affollato dunque da diverse specie umane, che pian piano si estinguono. L'ultima, l'Homo floresiensis, scompare dodicimila anni fa. E noi restiamo soli sulla faccia della Terra.
Per ripercorrere questa specie di viaggio fantascientifico all'interno della mostra del Palaexpo ci vogliono almeno due ore. Ma si consiglia il visitatore di concedersene anche il doppio, perché i reperti arrivati da 56 musei di tutto il mondo e mai riuniti prima, le grandi carte storico-geografiche delle migrazioni, le postazioni multimediali interattive sono un invito irresistibile ad approfondire l'osservazione.
«Questa mostra vi fa vedere tutto quello che storia e geografia possono insegnarvi intorno a quello che avete sempre voluto sapere sul mondo a cui appartenete, e persino su voi stessi», annuncia Luigi Cavalli-Sforza, il celebre genetista che ha curato l'esposizione insieme al filosofo della scienza Telmo Pievani riunendo qui le scoperte di un mezzo secolo di studi e ricerche planetarie. E se le origini dell'umanità oggi sono un po' meno misteriose è proprio grazie all'intuizione geniale di Cavalli-Sforza, che ha pensato di studiare l'evoluzione facendo convergere i dati paleontologici, archeologici, genetici e linguistici.
Ciò che colpisce, indagando tra le sei sezioni del percorso, è il fatto che la storia di queste origini si deve in gran parte ai ritrovamenti avvenuti negli ultimi quarant'anni. Lo scheletro del ragazzo del Turkana (al quale lo scultore Lorenzo Possenti ha dato un corpo e una fisionomia espressiva come a tutte le altre figure ricostruite per la mostra) risale a un milione e seicentomila anni fa ed è stato trovato in Kenia nel 1984. Appartiene a Homo ergaster e il suo corpo longilineo (si calcola che da adulto avrebbe raggiunto circa il metro e ottanta) è incredibilmente simile a quello dell'uomo moderno, fata eccezione per alcune vestigia del passato come il torace carenato. L'Homo floresiensis, l'ultimo cugino che ci ha fatto compagnia, con le dimensioni di un nano, i piedi enormi e la conoscenza di una tecnologia avanzatissima, è stato rinvenuto sull'isola indonesiana di Flores nel 2003. I resti dell'Homo antecessor, vero europeo autoctono conosciuto, sono scoperti nel 1994. Il bambino di Lagar Velho, ipotetico ibrido di Homo sapiens e neandertaliano, è stato ritrovato in Portogallo nel 2006. La scoperta di un'Eva mitocondriale, cioè di una matrice originaria di Dna mitocondriale comune a tutti gli esseri umani sulla Terra, è del 1987. «Ed è la dimostrazione che gli uomini sono tutti uguali, indipendentemente dal colore della pelle, dalle dislocazioni territoriali, dalle ideologie, dalle credenze religiose. Il Dna che li accomuna è unico», fa notare Emmanuele Emanuele, presidente del Palaexpo, che ha voluto alla fine del percorso un gioco interattivo in cui si dimostra che le razze non esistono. In mezzo, ancora un'infinità di rivelazioni: dai primi sassi dipinti con figure di animali al disco di argilla babilonese con il teorema di Pitagora inciso milleduecento anni prima che Pitagora lo descrivesse; dal papiro originale con i versi di Saffo alla piccola raccolta di ossa ioidi (situate tra la lingua e la laringe e indispensabili per la modulazione del suono) appartenenti a specie diverse di homo, che hanno permesso di capire come i neandertaliani fossero incapaci di pronunciare le vocali i, a, u e le consonanti g, k e di postulare l'ipotesi che questa fosse una delle cause della loro estinzione.
Lauretta Colonnelli

Corriere della Sera 10.11.11
La testimonianza. Una pittura rupestre e i misteri della nostra specie che gradualmente ha sbaragliato tutti i nostri «cugini»
Il traguardo, una donna dipinta sulla roccia
Ventimila anni fa, uno come noi: così in Australia scoprii il genio dell'Homo sapiens
di Viviano Domenici


Camminavamo tra le pietre nella Olduvai Gorge, in Tanzania, la gigantesca ferita geologica che sprofonda nella piana del Serengeti per quasi cento metri mettendo allo scoperto strati di terreno antichi quasi 2 milioni di anni. Davanti a me, occhi fissi a terra, avanzava lentamente il celebre antropologo americano Donald Johanson, lo scopritore dello scheletro di Lucy, un australopiteco femmina di 3,2 milioni di anni fa. Lo scienziato si fermò d'improvviso per indicarmi un ciottolo di pietra grigio verde, grande come un pugno, che affiorava dalla terra rossa. Lo riconobbi e lo raccolsi esitando un po'. Era un chopper, un utensile scheggiato da un uomo appartenente a una specie diversa dalla nostra: l'Homo habilis, che comparve in Etiopia 2,5 milioni di anni fa.
L'episodio mi tornò in mente molti anni dopo mentre avanzavo faticosamente tra rocce insidiose e vegetazione alta per raggiungere una parete di roccia completamente dipinta appena avvistata. Ero nell'Arnhem Land, nel Nord dell'Australia, con una spedizione scientifica che stava esplorando la regione aborigena alla ricerca di pitture preistoriche. Ne avevamo individuate parecchie, diverse già note altre mai viste prima, ma quella che avevo davanti agli occhi mi sembrò la più bella di tutte: l'avevamo appena scoperta noi. Al centro del dipinto era raffigurata una donna nuda (o una Dea Madre?) dal ventre gonfio, forse in atto di partorire, attorniata da un gruppetto di enigmatiche figure maschili con alte acconciature; completavano la scena diverse impronte di mani, figure di animali, simboli incomprensibili. Tutto realizzato con ocra rossa. Lo stile delle figure indicava chiaramente la sua età: 20.000 anni e a realizzarle fu un Homo sapiens, cioè un uomo esattamente come noi.
Tra quelle due antiche testimonianze è racchiusa quasi tutta l'avventura umana che oggi paleontologi, archeologi e genetisti riescono a raccontarci come una favola, di cui noi Sapiens abbiamo scritto solo l'ultimo capitolo, quello che copre gli ultimi 200.000 anni. Tutto il resto lo scrissero uomini di specie differenti dalla nostra: Homo habilis, Homo rudolfensis, Homo ergaster (che due milioni di anni fa migrò dall'Africa e arrivò sino in Cina e a Giava, mentre riusciva a dominare il fuoco), e poi Homo erectus, Homo georgicus, Homo antecessor (il primo vero europeo), Homo heidelbergensis, (protagonista della seconda grande ondata migratoria dall'Africa) e il celebre Homo di Neanderthal, che comparve in Europa circa 200.000 mila anni fa, proprio mentre in Africa centro- orientale e in Sudafrica appariva l'Homo sapiens.
Secondo i ricercatori tutte le grandi migrazioni furono indotte da imponenti fenomeni climatici che, modificando gli ambienti naturali e di conseguenza la disponibilità delle risorse, indussero gli uomini a spingersi in nuovi territori. La spiegazione è certamente convincente ma è anche innegabile l'esistenza di una curiosità innata che ha sempre spinto gli uomini a conoscere l'ignoto, a cercare di raggiungere l'ultimo orizzonte per vedere che cosa c'era oltre. Comunque sia, gruppi di Sapiens lasciano la loro culla africana e in tre ondate migratorie (tra 120.000 e 50.000 anni fa) raggiungono la Penisola arabica, il Mediterraneo e il Levante, da dove si lanciano verso est, fino alla Cina e all'Australia. Intorno a 50.000-45.000 entrano in Europa, infine occupano le Americhe.
L'intero pianeta fu così colonizzato dai Sapiens e l'evoluzione culturale fece a un rapidissimo balzo in avanti: i progressi della tecnologia, la conquista del linguaggio articolato, lo sviluppo del pensiero simbolico, la nascita dell'arte (40-35.000 anni fa), sono alcuni dei fenomeni letteralmente rivoluzionari su cui si fonda tutta la nostra storia; ma il successo evolutivo del Sapiens ha un lato oscuro che tendiamo a dimenticare: fino a 40.000 anni fa, nel Vecchio Mondo, vivevano almeno cinque specie diverse di Homo che, con l'arrivo del Sapiens, scomparvero una dopo l'altra; tra cui il nostro «cugino» Neanderthal; non un nostro antenato ma un'umanità alternativa, parallela, con cui convivemmo per quasi 20.000 anni negli stessi territori stringendo anche relazioni molto intime, ben testimoniate dalla presenza nel nostro Dna di una piccola quota neandertaliana.
I Sapiens incontrarono altri Homo (Homo di Denisova in Siberia e il pigmeo Homo floresiensis, in Indonesia); quest'ultimo ci accompagnò fino a 12.000 anni fa, poi scomparve come tutti gli altri. Quale sia stato il nostro ruolo nell'estinzione di questi compagni di viaggio è un interrogativo ancora aperto, ma non è difficile immaginarlo: basta pensare a quello che accadde (e accade ancora oggi) ai nativi americani quando incontrarono i «civilizzatori» europei. Oggi il Sapiens è rappresentato da 7 miliardi di individui, ma è l'unica specie di Homo rimasta. Una solitudine enigmatica e inquietante. D'altro canto c'è da chiedersi quale futuro avrebbe avuto il Neanderthal o il Piccolo floresiensis se fossero sopravvissuti fino ai nostri giorni.

Corriere della Sera 10.11.11
«La lingua? La prima misura del potere»
Cavalli Sforza: «Alcuni idiomi si sono imposti come confini di conquista»
di Roberta Scorranese

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Corriere della Sera 10.11.11
Il confronto degli alfabeti: dalla Bibbia ai nostri migranti
Babele. Fallimento di una sola cultura
E Dio sparse i semi della diversità
di Erri De Luca

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l’Unità 10.11.11
Intervista a Amitav Ghosh
Le vie dell’oppio incrociano il libero mercato
di Maria Serena Palieri


Tutto è nato da una cifra. La cifra era questa: agli inizi dell’età vittoriana il 20% dell’economia britannica si basava sul commercio dell’oppio. Un dato che non poteva che accendere la fantasia di un reporter-romanziere nato nell’India post-coloniale, con moglie, figli e casa a Brooklyn, ma con un piede anche tra Calcutta e Goa, uno scrittore vocato al racconto del «mondo in movimento e mutamento», come si definisce Amitav Ghosh. Scoperto questo dato è cominciata appunto la sua avventura narrativa, la trilogia il cui primo mattone è stato il romanzo Mare di papaveri da noi uscito nel 2008. Ora ecco il secondo: Il fiume dell’oppio. Qui ritroviamo la nave Ibis in rotta tra Mauritius e India. Ma stavolta – siamo nel 1839 approdiamo nel più stravagante dei luoghi: Fanqui-town, la roccaforte per stranieri di Canton. Un luogo per soli uomini e quasi per soli mercanti d’oppio: perché è il voluttuoso «fango» nero, prodotto in India, la merce con cui i britannici hanno corrotto milioni di cinesi e fabbricato ricchezze incalcolabili. Quei soldi foraggiano banchetti e feste sfarzosi. Ma il nuovo Celeste Imperatore ha deciso di mettere fine al commercio: siamo agli albori delle due Guerre dell’Oppio, quelle che tra il 1839 e il 1860 sanciranno il principio che non tutti sono uguali davanti alla legge, i bianchi, occidentali, britannici, cristiani fanno razza a sé e non si possono giudicare. E di nuovo Amitav Ghosh ci avvince in 520 pagine di narrazione fluviale e sinuosa, con la descrizione di un mondo esotico e remoto, ma con sorprendenti rimandi all’oggi.
Anche Il fiume dell’oppio, come già Mare di papaveri, è frutto di una impegnativa ricerca storica. Dalla nota in chiusura, dopo aver seguito i personaggi come si seguono dei personaggi d’invenzione, scopriamo che invece essi sono in buona parte uomini esistiti davvero, che hanno lasciato tracce nelle cronache dell’epoca. Quali sono le sorprese maggiori che le ha riservato, stavolta, la sua ricerca nella Cina meridionale della prima metà dell’800? chiediamo allo scrittore. «Tutto ciò che riguarda i fiori e le piante. Ma anche i dettagli dell’immediata vigilia della prima guerra dell’oppio» replica.
Al lettore ciò che appare più ignoto e bizzarro è l’esistenza dell’enclave di Canton, questa terra per soli uomini, dove mercanti inglesi e indiani si invitano l’un l’altro con naturalezza a danzare un valzer o una polca. Che esistesse era già noto?
«Io stesso sono rimasto stupefatto imbattendomi in questo luogo. Non era un mondo omosessuale, piuttosto un regno per persone dello stesso sesso che, certo, intessevano tra loro anche delle relazioni molto tenere. Molti di quelli che sceglievano di vivere a Canton erano comunque già votati a un’esistenza da scapoli. C’è, a questo proposito, una storia formidabile: nel 1830 tre donne occidentali riuscirono a entrare di straforo in quell’enclave, nascondendosi in una nave. Crearono un parapiglia. E dopo due settimane sembra che gli uomini si dicessero “che non succeda mai più”. Perché molti andavano lì per sfuggire alle mogli. Noi pensiamo all’epoca vittoriana come a un’età abitata da super-maschi. In realtà c’erano anche strane usanze. Sull’usanza dei valzer per soli uomini a Canton, comunque, tutte le fonti concordano».
In due suoi precedenti romanzi la natura irrompe con un carico di paura ancestrale: nel «Palazzo degli specchi» con la carica degli elefanti e nel «Paese delle maree» con l’apparizione della tigre. Qui, al contrario, è la più domata delle nature a fare da protagonista: vivai e giardini. È un messaggio?
«Il romanzo comincia pur sempre con una terribile tempesta. Ma è vero che qui la natura si manifesta in un altro dei suoi aspetti, cioè quello in cui nell’800, specie in Cina, l’umanità selezionava le piante. È vero che i giardini sono addomesticati, ma è pur sempre natura. E magnifica. Il giardino cinese di quell’epoca, per me, è una delle grandi conquiste dell’umanità». Nella sua trilogia lo sbeffeggiamento dello zeitgeist dell’epoca – il culto del libero mercato – ha un ruolo chiave. Uno dei mercanti, il britannico Burnham, ripete sia nel primo libro che in questo secondo che il libero mercato è Gesù Cristo e Gesù Cristo è il libero mercato. Ciò che è cambiato è il contesto: mentre lei scriveva «Mare di papaveri» regnavano Bush e i neocon, «Il fiume dell’oppio» invece è venuto alla luce dopo il collasso di Wall Street. Quale impressione le fa?
«Mentre scrivevo Mare di papaveri, col capitalismo iper-liberista all’acme, mi sentivo una “vox clamans in deserto”. Oggi quello che mi lascia sbalordito è che, mentre tutte le altre ideologie vengono chiamate a rispondere dei loro misfatti, quella del libero mercato viene trattata come se fosse caduta dal cielo e non viene mai associata alle sue conseguenze. Perciò guardo con grande interesse al movimento nato sull’onda di “Occupy Wall Street”, perché affronta in modo frontale l’ideologia liberista. Cinque giorni fa è successa una cosa molto interessante a cui i giornali hanno dato poco peso. A Harvard, dico a Harvard, era in cattedra Nicholas Gregory Mankiw, il capo dei consiglieri economici di George W. Bush e ideologo tra i maggiori del mercatismo, e i suoi studenti si sono alzati e se ne sono andati dicendogli “Lei ci sta propinando una visione di parte”. Quello che non gli insegnano i professori di Harvard gliel’hanno insegnato gli sbrindellati occupanti di Wall Street. Ciò che lascia di sale è come la dottrina del libero mercato che va lasciato a se stesso venga servita come un dato di natura. Il commercio, la vendita, gli affari sono un aspetto importante del vivere. È stato un errore terribile pensare di poterne fare a meno, come hanno propugnato i radicali di alcune ideologie. Ma se ne fai delle divinità poi gli dei si vendicano e distruggono i loro stessi adoratori». Nei suoi romanzi è raro incontrare un elemento classico: il grande amore. Qui è proprio assente. Perché?
«Ce ne sono molti e diversi. Mi interessavano di più i contrasti. Bahram, il personaggio centrale, ha due donne, la moglie indiana e l’amante cinese. Questo era un modo di gettare luce su entrambi i rapporti».
I lettori fedeli che l’hanno seguita sulle vie dell’oppio per mille pagine quanto dovranno aspettare per il terzo volume di questa trilogia?
«Mi creda, sarei felicissimo di essere ora al lavoro nel mio studio. Ma la verità è che ancora non ho cominciato a scrivere e non so nulla, nulla davvero, del libro che deve nascere».

l’Unità 10.11.11
Giorgio Napolitano rassicura gli artisti: “adda passà ’a nuttata”
Il Presidente riceve al Quirinale personalità dello spettacolo e consegna i Premi De Sica e Le maschere del teatro italiano
di Marcella Ciarnielli


Ha evocato «’a nuttata» che «adda passà» il presidente della Repubblica davanti al mondo dello spettacolo riunito al Quirinale per la Giornata dello Spettacolo, un incontro tradizionale che Napolitano non ha «pensato nemmeno» di rinviare in un momento di grande tensione «non per non fare un torto all’infaticabile impegno di Gian Luigi Rondi, non perché mi lega al vostro mondo un’antica personale predilizione e passione ma per la convinzione del ruolo essenziale che l’Italia delle arti, dello spettacolo, del teatro e più in generale della cultura è chiamata sempre, e ancora di più nella fase che il Paese sta attraversando».
LA FINE DI “NAPOLI MILIONARIA”
Il messaggio di Eduardo, le ultime parole di “Napoli milionaria”, fatto di preoccupazione e di speranza nell’immediato dopoguerra, è diventato di stringente attualità, nel momento di crisi straordinaria che il paese sta vivendo. Ed il presidente lo ha voluto ricordare per sollecitare la reazione indispensabile per riuscire a rivedere il giorno, anche da parte di chi fa cultura ogni giorno, ovunque si esibisca, si mostri, scriva e dica parole. «Ciascuno di voi operando nel campo che gli è proprio, con il talento e la creatività di cui siete capaci, e facendo la vostra parte di cittadini consapevoli in ogni occasione e luogo di vita pubblica, aiuterete l’Italia a riguadagnare la fiducia che merita e la solidarietà che le occorre. E di ciò vi ringrazio di cuore».
E di cuore gli artisti hanno risposto con un lungo, caloroso applauso, dimostrando il loro impegno a collaborare per andare oltre la crisi con «consapevolezza diffusa e nuovi comportamenti, individuali e collettivi, rigore e qualità, spirito di sacrificio e slancio innovativo». Il ministro Galan, per sua stessa affermazione «ancora per poco», ha confermato la promessa per il ripristino del Fondo unico dello spettacolo che dovrà «essere mantenuto e aumentato in futuro», ha definito «ineludibile» la riforma delle fondazioni lirico-sinfoniche», ha auspicato «la legge per lo spettacolo dal vivo». In modo da portare oltre la crisi un mondo che la sta conoscendo in modo profondo. «La crisi ci obbliga prima di tutto a fare piazza pulita degli incompetenti e a reagire puntando sulla qualità e sul talento»
Nel salone dei Corazzieri c’erano i vincitori dei Premi De Sica e delle Maschere d’Argento per il teatro. Tra i tanti Dario Fo con Franca Rame, Massimo Ghini, Giorgio Albertazzi, Mariangela Melato e Checco Zalone, Carla Fracci ed Enrico Brignano, Nicola Piovani e Neri Marcorè, Lando Buzzanca e Massimo Dapporto, Arnaldo Pomodoro.
Non mollare. Guardare al futuro. Anche se quello più immediato su cui anche gli artisti si interrogano è il destino del governo, le possibili dimissioni del premier. «È una trappola, Berlusconi ha bisogno di tirare a campare e lascerà che il tempo passi, sperando che nel frattempo che le sinistre si scannino tra loro» prevede Dario Fo. «Faccio la danza della pioggia perché accada davvero» rivela Mariangela Melato.

Corriere della Sera 10.11.11
Io e Zoran sopravvisuti a Dachau
con il terrore che possa ripetersi
L'incontro col Male di Pahor e Mušic, i due grandi italo-sloveni

di Boris Pahor

S iamo ambedue nativi del medesimo territorio, lui dalla parte goriziana, io da quella triestina, che dopo la Prima guerra mondiale divenne la Venezia Giulia. Sloveni, nati con quattro anni di distacco come cittadini austro-ungarici, una double nationalité spiegò Zoran ai francesi che non fanno differenza tra cittadinanza e nazionalità.
In ogni modo, iniziata la guerra nel 1915, l'intelligente famiglia Mušic previde la bolgia in cui si sarebbe ridotta la regione e divenne esule. Né vi si ristabilì nel dopoguerra, poiché il periodo oscuro che con il fascismo annientò con le leggi e col terrore tutta la fiorente cultura e vita sociale slovena durò fino all'inizio del secondo conflitto. L'esordio del male lo si ebbe a Trieste, dove già nel 1920 fu data alle fiamme nel centro della città la Casa della Cultura slovena. Ed è proprio in quei paraggi che con Zoran ci incontrammo negli anni postbellici, quando le due tradizionali culture della città facevano i primi approcci a quella che è oggi un'amichevole e ricca cooperazione.
L'incontro fu nella Galleria Scorpione, di fronte alla chiesa serba sulla sponda del Canale. Una piccola galleria ma importante anche per gli incontri di artisti della Jugoslavia e soprattutto della Slovenia. Zoran si trattenne specialmente con i due pittori sloveni di Trieste, August Cernigoj e Lojze Spacal, che si erano già fatti notare; io facevo parte del gruppo letterario con i poeti Cergoly e Dario de Tuoni. Rimarcai che Zoran era piuttosto serio e taciturno di fronte alla spigliatezza dei triestini, in modo speciale del Cernigoj.
Da soli parlammo a Lubiana, ci fermammo davanti a una banca e discutemmo d'arte, credo a mia iniziativa, perché era l'epoca in cui dominava l'«École de Paris» ed io non ero, come non lo sono tuttora, per l'arte informale. Non è che non l'apprezzi ma non mi soddisfa, mentre Zoran la accettava. Devo dire però che, sebbene sapessi di Dachau, non sapevo dei suoi disegni. Lui controbatté alla mia affermazione che ciò che è importante è il corpo umano, adducendo il compito della fotografia, dato lo sviluppo di quella a colori. Là mi impuntai, trovando il ragionamento troppo semplicistico e pensando ad un tempo che egli se ne serviva perché riteneva che il mio rifiuto decisivo della pittura informale dipendesse dalla mia pedissequa fedeltà al realismo. Ma credo di aver aggiunto che ero rimasto a Chagall e ci trovammo d'accordo che in fondo la cosa principale non è l'école ma la qualità dell'opera. Fu un non-incontro, perché non accennammo né lui né io a Dachau, sebbene eravamo rimasti segnati tutti e due e io ci fossi stato, a Dachau, perfino due volte. Succede spesso, quando si incontrano due ex deportati, di parlare di tutto all'infuori del Lager; è stato così anche durante l'incontro con Stéphane Hessel: in un'ora di dialogo non abbiamo detto nulla del Campo di Dora che abbiamo ricordato solo con un abbraccio e col darci del tu.
Sì, Zoran poi l'ho seguito quando ce n'era l'occasione, l'ho ammirato alle mostre, scoprii i disegni di Dachau con immensa soddisfazione: un prezioso documento salvato e presentato da un grande artista. E poi quella era una testimonianza dei Campi per politici, dai «triangoli rossi», Campi con più di tre milioni di morti. E fui contento di non aver accennato a Dachau durante l'incontro sul marciapiede di Lubiana; Zoran infatti aveva preso in considerazione i corpi, anzi i corpi distrutti, ridotti a carcasse, a covoni, a mucchi di carcasse, quindi avrebbe potuto dirmi che era normale mi dedicassi a motivi meno esigenti. Tanto più che confessava come l'esperienza del Campo era valsa a modificare radicalmente il modo di considerare l'esistenza e l'essenza della vita.
Fatto sta che da parte mia ci ho messo del tempo per poter descrivere in maniera appropriata e degna il mio passaggio nell'universo concentrazionario, e solo nel 1967 riuscii a testimoniarlo in un testo che intitolai Nekropola, in sloveno, e che in un racconto unisce il Campo di Dachau con quello di Struthof-Natzweiler sui Vosgi, di nuovo Dachau, Dora-Harzungen, Bergen Belsen. Si tratta di Campi ai quali ho già accennato, che insieme a Buchenwald, Mauthausen, e loro dipendenze, sono stati destinati ai politici ai quali ho già accennato, agli antinazisti, ciò che di solito non si fa notare, purtroppo.
Ecco che con Nous ne sommes pas les derniers Zoran Mušic rivede la verità storica, proprio sottolineando che non si è affatto sicuri che i Campi non si ripetano. E questo è il valore maggiore della nuova serie di opere, che sicuramente si presenta con un valore artistico supremo.
Questo per telefono glielo dissi, quando si parlò di un suo disegno per la copertina dell'edizione americana del mio libro a New York, ciò che non si realizzò poiché l'editore aveva un progetto suo, ma non ebbi l'occasione di parlare più a lungo appunto del suo ritorno ai motivi dei Campi. E fu certamente una perdita.
Anche perché a Zoran avrei detto sinceramente che per conto mio le opere datate Dachau 1945 meritavano di avere il titolo che avevano le nuove richiamate dalla memoria, e nate da un lavoro di concentrazione che le arricchiva riguardo all'arte ma ne toglieva l'immediatezza testimoniale. Certo, si sarebbe opposto tanto di più perché i disegni di Dachau li riteneva come dei documenti e sbagliava, perché erano sì documenti, ma di un disegnatore che era il Goya del XX secolo.
Speravo di poter dire della mia impressione da deportato che per un anno era stato con i morenti ed i morti del «Revier», all'inaugurazione della mostra al Grand Palais, ma ho potuto solo stringergli la mano, affermare il grande valore della sua opera in generale e della serie «Noi non siamo gli ultimi», un valore in particolare per la coscienza europea, offerto per merito di un eminente rappresentante della cultura slovena. Non ne ebbi il tempo: un gruppo se lo accaparrò, seguito poi dal presidente Mitterrand.

Repubblica 10.11.11
"Stalin e Hitler, carnefici dell'Est europeo" Ecco il libro che fa discutere gli storici
Esce in Italia "Terre di sangue": nel 2010 è stato, negli Usa, il saggio dell'anno
L'ha scritto Snyder che spiega: "I due regimi condivisero la politica di sterminio"
di Simonetta Fiori


In America è stato il "libro dell´anno 2010", così acclamato e discusso da molte autorevoli testate per il suo sguardo inusuale e anche perturbante. Eccolo ora in Italia con il titolo Terre di sangue. L´Europa nella morsa di Hitler e Stalin (Rizzoli). L´autore è un professore di Yale poco più che quarantenne, Timothy Snyder, specializzato nella storia dell´Europa centro-orientale. Qual è il suo contributo originale? Per la prima volta ha scelto di raccontare una storia come nessuno in sede storiografica l´aveva mai raccontata. O, meglio, ha scelto di analizzare in un´unica cornice atrocità finora studiate separatamente. Questa è la storia delle Bloodlands, ossia delle terre devastate dalla furia nazista e stalinista tra il 1933 e il 1945. Un territorio delimitato non da confini politici, ma dalla geografia delle vittime, «il luogo in cui i più criminali regimi d´Europa operarono nel modo più feroce».
Quattordici milioni di morti in poco più di dieci anni, frutto della politica di sterminio di Hitler e Stalin. Una mappa insanguinata che dalla Polonia centrale si estende alla Russia occidentale, includendo Bielorussia, Ucraina e Stati baltici. Storie di persone uccise non dalla guerra ma da lucide strategie di massacro. «Non uno solo di quei quattordici milioni di morti era un soldato in servizio effettivo. La maggior parte era costituita da donne, bambini e anziani. Principalmente ebrei, bielorussi, ucraini, polacchi, russi e baltici». Persone inermi, molto spesso deprivate di tutto, perfino dei vestiti. «Il più grande disastro nella storia del mondo occidentale», dice Snyder, che lo riconduce alla interazione e alla sovrapposizione dei due regimi totalitari, fotografati nelle loro diaboliche analogie. «Hitler e Stalin condivisero una certa politica tirannica: provocarono catastrofi, scaricarono sul nemico la responsabilità della loro scelta, poi usarono la morte di milioni di persone per dimostrare come le loro politiche fossero necessarie o desiderabili». Anche la costruzione del saggio restituisce questo incrocio mortale, in un crescendo narrativamente molto efficace e anche angosciante.
Professor Snyder, lei rimette insieme storia nazista e storia sovietica, mostrando l´inedita geografia delle Bloodlands. Una prospettiva originale in sede storiografica. Come vi è approdato?
«Quel che deve sorprendere non è certo il mio taglio originale. Chiunque sia vissuto in quelle terre e in quegli anni, sotto il giogo di nazisti e sovietici, non poté scegliere se paragonare o meno i due regimi: fu condannato a farlo, talvolta nel tentativo di sopravvivere. Quel che sorprende, piuttosto, è che ancora oggi sia per noi rassicurante tenere i due regimi separati, e mantenere distinte le singole storie nazionali. Ma questo ci impedisce di vedere la dimensione completa dell´orrore. E ci impedisce soprattutto di spiegarlo».
Come se lei volesse ridare voce alle vittime, a lungo contese dalle diverse memorie e dalle diverse ideologie.
«L´assassinio di quattordici milioni di civili è una tragedia enorme che richiede un serio tentativo di spiegazione. Certo ci è difficile capire fino in fondo ciascuna politica di sterminio, singolarmente intesa. L´elenco è lungo. La carestia deliberatamente provocata da Stalin nei primi anni Trenta in Ucraina. Il Grande Terrore tra il ´37 e il ´38. La mortale aggressione tedesco-sovietica alle classi colte polacche tra ´39 e ´41. I tre milioni di prigionieri sovietici lasciati morire di fame dai tedeschi. Le centinaia di migliaia di civili uccisi nelle rappresaglie naziste. Infine, l´Olocausto. Non comprendiamo completamente le cause di alcune di queste uccisioni di massa, e in che modo possano essere reciprocamente collegate».
Cosa intende?
«Prendiamo la più grande delle catastrofi, l´Olocausto. Lo sterminio degli ebrei ebbe luogo in quei territori, le Bloodlands, dove più di otto milioni di non ebrei vennero uccisi quando Hitler era al potere. Anche senza l´Olocausto questa sarebbe stata la più grande ecatombe nella storia d´Europa. Possiamo davvero comprendere l´Olocausto senza conoscere questo background? No, io penso di no. E ancora oggi nessun saggio sull´Olocausto, tranne il mio, mostra questa parte fondamentale della realtà».
Ma in questo modo non si corre il rischio di annacquare l´unicità della Shoah? Qualche storico americano intervenendo nella discussione su Bloodlands ha detto che, se non c´è niente di sbagliato nel paragonare l´Olocausto ai crimini di Stalin, potrebbe invece turbare l´equivalenza.
«Il mio libro non è una ricerca comparativa, piuttosto lo studio di ciò che accadde in un determinato territorio quando erano presenti sia nazisti che sovietici. Due gli elementi imprenscindibili. Il primo è che in quelle terre ebbe luogo la più grande calamità nella storia d´Europa, oggetto della mia indagine. Il secondo elemento è che le vittime non poterono fare a meno di paragonare i due regimi. Penso a Vasilij Grossman, scrittore sovietico nato in Ucraina da famiglia ebrea. Egli assistette alla carestia lucidamente indotta da Stalin in Ucraina, e più tardi perse sua madre nell´Olocausto nazista, sempre in Ucraina. Gli venne naturale paragonare i due terribili eventi. Così fu per moltissimi ebrei, e così per moltissimi ucraini».
Questo è evidente. Ma un conto è paragonare, un conto riconoscere l´unicità del genocidio degli ebrei.
«Ecco, questo è il punto. Il raffronto non implica assimilazione. Il mio saggio mostra in modo inequivocabile il carattere straordinario dell´Olocausto, la sola politica finalizzata all´eliminazione fisica di un intero popolo. E inoltre dimostro, per la prima volta, che l´Olocausto è stato la peggiore politica di sterminio anche in termini quantitativi. Per decenni – prima che io li fermassi – gli storici dell´Olocausto hanno sostenuto che l´Olocausto manteneva il suo tratto di unicità, anche se Stalin aveva eliminato più persone. In realtà non fu Stalin ma Hitler il responsabile d´un numero maggiore di morti. L´Olocausto fece più vittime della politica assassina di Stalin tra il 1933 e il 1945».
Lei rintraccia molte affinità tra i due regimi totalitari. Con questo vuole suggerire anche un´equivalenza morale tra Hitler e Stalin?
«No, naturalmente no. Nel mio libro lo sguardo è costantemente rivolto alle vite umane, alla singola individualità, e il regime nazista fece il doppio delle vittime rispetto ai morti della dittatura sovietica. Cosa ancor più importante, il nazismo pianificò di uccidere un numero di persone enormemente più grande rispetto alla moltitudine che riuscì a liquidare. Ma dobbiamo stare attenti nel trattare questi problemi morali».
A cosa si riferisce?
«Bisogna conoscere il più possibile la storia. La dittatura stalinista fu assai peggiore di quanto credano molti italiani. Quale regime realizzò il primo sterminio di massa di carattere etnico: quello nazista o quello sovietico? Fu quello sovietico, nelle "operazioni nazionali" del 1937-1938, che uccisero circa 250.000 persone. La stessa riflessione si può fare a proposito del regime nazista: chi oggi ricorda i tre milioni di soldati sovietici fatti morire di fame in condizioni inimmaginabili? Nessuno».
Sarei più ottimista, professor Snyder, sullo stato delle conoscenze in Italia intorno a Stalin e a Hitler.
«Se davvero gli italiani sanno delle "operazioni nazionali" di Stalin o delle strategie di morte per fame e inedia condotte da Hitler, sarei molto impressionato, perché russi e tedeschi generalmente le ignorano. Ma è un problema di tutto l´Occidente. Torniamo un momento all´Olocausto: l´immagine che abbiamo è molto più pallida e diluita rispetto alla realtà. Noi pensiamo alle vittime italiane e tedesche, ma la grande maggioranza degli ebrei sterminati furono polacchi o ebrei sovietici. Noi pensiamo ai campi di concentramento, ma la grande maggioranza delle vittime non vide mai un campo. Furono fucilate o gassate vicino ai luoghi in cui avevano vissuto. Crediamo che l´organizzazione nazista richiamasse l´anonimato di una macchina, e invece gli ammazzamenti degli ebrei venivano eseguiti da vicino. Solo concentrandoci sulle terre di sangue possiamo avere l´idea della piena mostruosità di quel crimine».
Perché secondo lei esiste tuttora una difficoltà nel padroneggiare le Bloodlands?
«È molto più semplice interpretare le catastrofi come tragedie nazionali. Ma le singole storie nazionali possono solo fare domande, non suggerire risposte. E, da una prospettiva europea occidentale, è ancora rassicurante pensare che l´Unione Sovietica abbia cancellato il male del regime nazista. Nei fatti, però, l´inferno avvenne nei luoghi in cui Hitler e Stalin ebbero il potere. Ma questa esperienza è rimasta estranea alla mentalità occidentale, sia in Europa che in America. E ci risulterà sempre più facile immaginare Germania nazista e Unione Sovietica come entità distinte: i due regimi erano molto diversi, ma i territori da loro controllati si sovrapponevano. Bloodlands è la storia degli europei a cui toccò in sorte di imbattersi in entrambi i regimi criminali».

Corriere della Sera 10.11.11
L'intellettuale, eterno antagonista
Daniel Barenboim: «L'Italia non deve credere ai politici»
di Daniel Baremboim


Nel corso di quest'ultimo anno, ovunque nel mondo si è avvertito disagio e esasperazione, Egitto, Tunisia, Libia hanno espresso il loro malcontento, ma anche l'Occidente è stato teatro di espressioni violente e non, di insofferenze, speranze tradite e tanta rabbia. Basti pensare alle scene di Londra ad agosto o Roma tre settimane fa. Siamo di fronte a una crisi globale, sistemica e ideologica, pervasa da incertezza e instabilità.
Mi chiedo se, in questo clima di profonda preoccupazione, non sia arrivato il tempo per tutti noi di ripensare a un nuovo approccio responsabile nei confronti della società che viviamo e alimentiamo.
Dobbiamo promuovere una coscienza civile consapevole delle difficoltà del momento, ma capace di infondere fiducia e sicurezza nel singolo cittadino.
Ma veniamo all'Italia, Paese a cui sono molto affezionato. Ultimamente su tutti i giornali internazionali e non, sentiamo parlare solo di interessi sul debito pubblico troppo alti, livelli di disoccupazione in crescita, di un Paese incapace di crescere. Non sono un economista, ma so che non si può rimanere inermi davanti a tali difficoltà. A mio avviso è necessaria una spinta costruttiva e positiva verso un cambiamento strutturale di atteggiamento e di pensiero.
Tale cambiamento può emergere solo da cittadini illuminati e ben informati, deve pertanto svilupparsi una generazione di intellettuali focalizzati sulla cosa comune, slegati dalle logiche dei poteri, al fine di promuovere una cultura dell'etica e della conoscenza.
Edward Saïd ha definito bene il ruolo degli intellettuali pubblici, sostenendo che la missione dell'intellettuale deve essere quella di sostenere e aiutare lo sviluppo della libertà e del sapere dell'uomo.
Nel 2001, durante una delle sue lezioni, Saïd definì il ruolo dell'intellettuale in opposizione ai governi, specialmente quando i governi vengono reputati privi di credibilità, consenso, cultura e pensiero. Per dirla con le parole di Saïd, «un intellettuale ha il compito non di promuovere semplicemente l'interesse di un singolo, ma deve comprendere responsabilmente lo stato attuale delle cose e pronunciarsi, indirizzare anche se in maniera antagonistica». La missione dell'intellettuale deve essere quella di sfidare ciò che può essere definito come un silenzio forzato o un tacito accordo imposto dai poteri dominanti. Sempre citando Saïd, gli intellettuali devono dare un contributo attivo agendo in prima persona. In questo senso gli intellettuali dovrebbero rappresentare dei punti di riferimento per il resto della società.
Credo fermamente che gli intellettuali debbano essere figure che possono ispirare e spingere al cambiamento.
Un governo in una società democratica è responsabile della qualità della vita dei cittadini. Quando i cittadini non sono contenti, non devono aspettare che i politici intervengano, i politici non lo faranno. Perché loro sono occupati a pensare a come saranno rieletti. Il problema è che siamo diventati troppo dipendenti dai governi e dalla gente di potere. Mio padre mi ha dato un insegnamento unico e prezioso. Mi aveva detto: hai talento, chissà forse sarai famoso un giorno. Forse guadagnerai dei soldi, chi lo sa. Ma c'è una cosa che è molto più importante della fama e del denaro ed è l'indipendenza, l'indipendenza di pensiero. Non ho mai dimenticato questa frase di mio padre. Perché penso che lui abbia avuto eccezionalmente ragione su tutto ciò che mi ha detto. Il suo insegnamento continua a spingermi a fare tutto ciò che faccio.
Nelle varie epoche storiche si è sempre dibattuto sul ruolo e sui confini dell'uomo di pensiero. Ai due antipodi troviamo l'intellettuale desideroso di trasformare la realtà e l'intellettuale silente, che si ritira dal mondo e osserva senza alcun contatto diretto con la realtà che lo circonda. Non è mia intenzione dilungarmi sulla dialettica della figura dell'intellettuale, ma il mio auspicio è che, in un momento storico cosi delicato, non si resti a guardare un'Italia debole e senza guida, ma che rappresenti l'occasione per far emergere una generazione di intellettuali pubblici che possano aiutare i singoli cittadini ad andare oltre i confini di ciò che è accettabile e magari indirizzare l'opinione pubblica verso la comprensione dello stato delle cose, di ciò che veramente conta ed è doveroso fare per il bene pubblico comune.
Mi auguro che le difficoltà del momento diventino l'opportunità per noi tutti di riconsiderare il modo in cui essere cittadini consapevoli e protagonisti. Per questo c'è bisogno di gerarchia. La gerarchia non è obbligatoriamente una legge imposta dall'alto, ma piuttosto una necessità umana.
Dobbiamo tutti pensare attivamente a questo e alla società che stiamo lasciando alle generazioni future e dobbiamo farlo adesso.

Repubblica 10.11.11
Il futuro dell’Unione tra crisi e populismo
I filosofi e l´economia, simposio a Parigi
di Jurgen Habermas


Sul breve termine, tutte le attenzioni devono essere concentrate sulla crisi. Ma al di là di questo, gli attori politici non dovrebbero dimenticare i difetti di costruzione che sono alla base dell´unione monetaria e che potranno essere rimossi non più solo attraverso un´unione politica adeguata: l´Unione Europea non dispone delle competenze necessarie per armonizzare le economie nazionali, che presentano divergenze marcate sul piano della competitività. Il «patto per l´Europa» appena ribadito serve solo a ribadire un difetto antico: gli accordi non vincolanti fra capi di governo sono o inefficaci o antidemocratici e per questa ragione devono essere sostituiti da un´incontestabile istituzionalizzazione delle decisioni comuni.
Da quando l´embedded capitalism è tramontato e i mercati globalizzati della politica stanno evaporando, diventa sempre più difficile per tutti gli Stati dell´Ocse stimolare la crescita economica e garantire una ripartizione giusta degli introiti, e garantire la sicurezza sociale della maggioranza della popolazione. Dopo la liberalizzazione dei tassi di cambio, questo problema è stato disinnescato dall´accettazione dell´inflazione. Dal momento che questa strategia comporta dei costi elevati, i governi utilizzano sempre più la scappatoia delle partecipazioni ai bilanci pubblici finanziate con il credito. La crisi finanziaria che va avanti dal 2008 ha fissato anche il meccanismo dell´indebitamento pubblico a spese delle generazioni future; e nel frattempo non si capisce come le politiche di austerity – difficili da imporre sul fronte interno – possano essere conciliate sul lungo periodo con il mantenimento di un livello sopportabile di Stato sociale.
Dato il peso dei problemi, ci si aspetterebbe che i politici, senza rinvii e senza condizioni, mettano finalmente sul tavolo le carte europee, in modo da chiarire esplicitamente alle popolazioni la relazione fra costi a breve e utilità reale, vale a dire il significato storico del progetto europeo. Dovrebbero superare la loro paura dei sondaggi di opinione e affidarsi alla potenza persuasiva dei buoni argomenti. Invece strizzano l´occhio a un populismo che loro stessi hanno favorito occultando un tema complesso e impopolare. Sulla soglia dell´unificazione economica e politica dell´Europa, la politica sembra esitare e tirarsi indietro. Perché questa paralisi? È una prospettiva prigioniera del XIX secolo, che impone la risposta nota del demos: un popolo europeo non esiste e dunque un´unione politica degna di questo nome sarebbe costruita sulla sabbia. A questa interpretazione vorrei contrapporne un´altra: una frammentazione politica duratura nel mondo e in Europa è in contraddizione con la crescita sistemica di una società mondiale multiculturale e blocca qualsiasi progresso nel campo della civiltà giuridica costituzionale dei rapporti di forza fra Stati e dei rapporti di forza sociali.
Fino a questo momento l´Ue è stata portata avanti e monopolizzata dalle élite politiche e il risultato è stata una pericolosa asimmetria tra la partecipazione democratica dei popoli ai benefici che i loro Governi «ricavano» per sé stessi sul remoto palcoscenico di Bruxelles e l´indifferenza, per non dire assenza di partecipazione, dei cittadini dell´Ue rispetto alle decisioni del loro Parlamento di Strasburgo. Questa osservazione non giustifica una sostanzializzazione dei «popoli». Solo il populismo di destra continua a proiettare la caricatura di grandi soggetti nazionali che si chiudono a vicenda e bloccano qualsiasi formazione di volontà transnazionale.
Negli Stati territoriali si è dovuto cominciare installando l´orizzonte fluido di un mondo della vita diviso in grandi spazi e attraverso relazioni complesse, e riempirlo con un contesto comunicativo rilevante della società civile, con il suo sistema circolatorio delle idee. Va da sé che una cosa del genere si può fare soltanto nel quadro di una cultura politica condivisa che resta abbastanza vaga. Ma più le popolazioni nazionali prendono coscienza, e più i media fanno prendere loro coscienza, della profonda influenza che le decisioni dell´Ue esercitano sulla loro vita quotidiana, più crescerà il loro interesse a esercitare anche i loro diritti democratici in quanto cittadini dell´Unione.
Questo fattore di impatto è diventato tangibile con la crisi dell´euro. La crisi costringe anche il Consiglio europeo, a malincuore, a prendere decisioni che possono pesare in modo squilibrato sui bilanci nazionali.
La conseguenza di un «governo economico» comune, che piace anche al Governo tedesco, significherebbe che l´esigenza centrale della competitività di tutti i Paesi della comunità economica europea si estenderebbe ben al di là delle politiche finanziarie ed economiche e arriverebbe a toccare i bilanci nazionali, intervenendo fino al ventricolo del muscolo cardiaco, cioè fino al diritto dei Parlamenti nazionali di prendere decisioni di spesa.
Se non si vuole violare in modo flagrante il diritto vigente, questa riforma in sospeso è possibile solo trasferendo altre competenze degli Stati membri all´Unione. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno raggiunto un compromesso tra il liberalismo economico tedesco e lo statalismo francese che ha contenuti ben diversi. Se ho ben capito, cercano di trasformare il federalismo esecutivo implicito nel trattato di Lisbona in un predominio del Consiglio europeo (l´organo intergovernativo dell´Unione) contrario al trattato. Un sistema del genere consentirebbe di trasferire gli imperativi dei mercati sui bilanci nazionali senza alcuna reale legittimazione democratica.
L´Unione deve garantire quello che la Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca chiama (art. 106, comma 2): «l´omogeneità delle condizioni di vita». Questa «omogeneità» fa riferimento solo a una stima delle situazioni della vita sociale che sia accettabile dal punto di vista della giustizia distributiva, non a un livellamento delle differenze culturali. Un´integrazione politica fondata sul benessere sociale è indispensabile se si vuole proteggere la pluralità nazionale e la ricchezza culturale del biotopo della «vecchia Europa» dal livellamento nel quadro di una globalizzazione che avanza a ritmo sostenuto.
© Le Monde (tradotto da Denis Trierweiler e Fabio Galimberti)

Repubblica 10.11.11
La terza rivoluzione del Dna
di Umberto Veronesi


Dieci anni fa la scoperta del Codice della Vita nel Dna è stata la più importante rivoluzione non violenta della storia recente. Di fronte al sequenziamento del genoma umano c´è stata un´esplosione di entusiasmo: abbiamo scoperto che il cancro è originato da una mutazione al Dna e tutti i laboratori del mondo si sono concentrati sulla ricerca di farmaci cosiddetti intelligenti, vale dire molecole in grado di raggiungere le cellule tumorali che contengono una certa mutazione, senza danneggiare le altre cellule dell´organismo ( quindi a ridotta tossicità per il malato). E´ apparso come un sogno per la ricerca, ma abbiamo presto capito che il processo per la sua realizzazione è più lungo e complesso di quanto previsto.
Attualmente i farmaci biomolecolari in uso sono circa 40, troppo pochi, anche se sono oltre 100 quelli in sperimentazione in migliaia di studi clinici. Sappiamo che la via è quella giusta, ma il percorso che va dal gene mutato al farmaco deve essere ancora molto migliorato. Negli ultimi anni abbiamo pensato di aprire un altro fronte di ricerca utilizzando le conoscenze genetiche non solo per la cura, ma anche per la diagnosi. È nata così la diagnosi molecolare, che si sta delineando come la seconda rivoluzione in oncologia legata al Dna perché ci permette di scoprire la malattia anticipo. In alcuni casi prima che si manifesti. Abbiamo scoperto che nel processo di sviluppo di molti tumori, le cellule tumorali mettono in circolo frammenti specifici di genoma rilevabili con un semplice esame del sangue. Già il test è disponibile, in via sperimentale, per il tumore del polmone e presto potrebbe esserlo anche per quello del seno.
Una terza rivoluzione è ormai in atto: la vaccinazione antitumorale. Sappiamo che virus che causano tumori sono responsabili del 20% dei casi di malattia. Due sono la causa di tumori molto comuni: l´Hpv (Human Papilloma Virus) causa il cancro della cervice uterina e l´Hbv (il virus dell´epatite B) il cancro del fegato. Poiché per entrambe è stato messo a punto un vaccino efficace, l´applicazione su scala mondiale della vaccinazione contro questi due tumori sarà in grado di cancellarne l´esistenza. Queste prospettive però non si realizzeranno senza una rivoluzione culturale e un´assunzione di responsabilità da parte dei cittadini, che dovrebbero aderire in massa alla prevenzione e alla diagnosi precoce. Senza partecipazione cosciente della gente, la lotta al cancro si ferma.

Repubblica 10.11.11
Anticipiamo l´introduzione di Corrias alla nuova edizione della biografia dello scrittore
Torna la vita di Bianciardi. Una storia anarchica
di Pino Corrias


Era il guastafeste che negli anni del Miracolo economico raccontava quel che andava perduto, a partire dai sogni per un altro mondo, non arreso alla religione del guadagno

Alla fine gli anni macinano coincidenze. Siamo a quarant´anni dall´addio di Luciano Bianciardi al mondo. A quasi venti dalla prima edizione di questo libro che gli tolse la polvere della dimenticanza, restituì un posto ai suoi romanzi e luce al suo viaggio solitario, scoperto da migliaia di nuovi lettori, incantati dalla sua ironia, ma anche dalla sua eccentrica preveggenza.
Con questa nuova edizione, Luciano torna a casa, più o meno dove tutto cominciò, casa editrice Feltrinelli appena nata, anno 1954, lui redattore fresco di Maremme e minatori, sceso da uno dei tanti treni che in quei mesi, in quegli anni, stavano portando le braccia e le teste che avrebbero fabbricato a Milano il Miracolo economico. Era il tempo giovane del Dopoguerra. Il futuro declinato per una volta al presente. Nascevano non solo i palazzi e le fabbriche dalle macerie. Ma anche le case editrici, i giornali, le agenzie di pubblicità e naturalmente la televisione, che in una decina di anni avrebbero svezzato l´italiano medio dandogli uno specchio, una lingua, quattro ruote, una cucina americana, e qualche volta persino una rotonda sul mare. Tutti (o quasi tutti) ne cantavano le lodi, tranne lui. Il provinciale, il guastafeste che di tante addizioni conteggiava quel che andava perduto, a cominciare dai sogni per una Italia diversa, un po´ più giusta, non arresa alla religione del conformismo, del guadagno, dell´arrivismo, del piccolo e del grande potere. Sempre persuaso che il successo "fosse solo il participio passato di succedere".
Il mio viaggio cominciò per caso a Milano, da un nome che condusse a un libro su una bancarella e poi a uno spiraglio. Lo spiraglio rivelò un mondo. Il mondo di Luciano Bianciardi che si era dissolto tra libri introvabili, amici dispersi, racconti mai narrati. E da quel mondo riemerse la sua avventura che ne intrecciava tante altre, dalla ricostruzione all´infatuazione neocapitalistica, dalla provincia dei braccianti, al vetrocemento dei grattacieli milanesi, e poi l´industria culturale, la politica, il 68, tutto filtrato dalla luce della sua radiosa impazienza, ma anche dalla debolezza delle sue rinunce. Fino al buio della solitudine finale, mentre a Milano, di sera, scendeva ancora la nebbia.
In quella nebbia Luciano Bianciardi arrivò giovane e anarchico (alla maniera maremmana), fece la sua bohème in Brera, tra artisti, fotografi e conti da pagare, sgobbò da traduttore a cottimo, inventò libri, digerì pasti in trattoria e delusioni anche politiche. Trovò, infine, la sua traiettoria di narratore. E addirittura un po´ di fama per quella "vita agra" che aveva masticato e seppe restituire, in forma di romanzo, facendone "la storia della diseducazione sentimentale al tempo del Miracolo economico", scagliando le parole dell´invettiva contro i cristalli della nuovissima industria culturale e di tutte le altre industrie che lavoravano l´acciaio e l´anima, che scandivano i tempi nuovi del neocapitalismo e poi anche dell´alienazione. Dai caroselli, ai supermercati, dal traffico delle automobili, ai casermoni di periferia, dalle segretarie secche che intasano i marciapiedi del centro e "le tubature aziendali", ai ragionieri senza pietà, ai preti senza fede, ai pubblicitari senza sogni, agli scrittori senza stile. Sempre raccontandoci il suo stupore per un mondo che capì in anticipo, detestò in anticipo, e che poi smise di rincorrere, scegliendo la camminata lenta del provinciale che se ne va per la sua strada. (...)
Vita agra di un anarchico è uscito nel 1993. Da allora Luciano Bianciardi è ritornato in terra. Tutti i suoi libri dispersi sono stati ristampati. Persino i suoi articoli, un migliaio, che nei suoi anni di inchiostro si lasciava dietro, anche con molta noncuranza e sempre il disincanto di scrivere per vivere, quasi mai il contrario, cacciatore perpetuo di soldi e di ingaggi per scalare il fine mese. Per vivere dentro a quella solitudine affollata anche di conti da pagare, che era il suo destino e il suo tormento. (...) Il libro è rimasto com´era, a parte qualche ripulitura e questa prefazione, farina dei suoi molti amici, e di quel lungo viaggio che intrapresi più o meno trent´anni fa, per rintracciare il testimone perduto di una stagione cruciale della nostra storia, che mai come ora ci riguarda. Una stagione che ha ancora bisogno dell´inchiostro di Luciano Bianciardi per lasciarsi illuminare. E della sua avventura per commuoverci.

Repubblica 10.11.11
Van Gogh Gauguin
Il Viaggio, il dolore, la bellezza di due grandi artisti
Al Palazzo Ducale di Genova sono esposti ottanta capolavori
Cuore del progetto è l´opera chiave del maestro francese prestata solo di rado da Boston
Anche per il pittore olandese c´è un dipinto-evento: "Campo di grano con covoni"
di Lea Mattarella


Un paio di scarpe deformate, logore, sfinite. Vincent Van Gogh le ha indossate nel suo viaggio, in gran parte a piedi, dall´Olanda al Belgio. E poi le ha dipinte, nel 1886 dopo aver raggiunto Parigi, in un quadro pieno di pathos, dono prezioso e carico di significato per Paul Gauguin che ne parla in uno scritto del 1894. Inizia così, con una tela simbolica e struggente, la mostra Van Gogh e il viaggio di Gauguin, aperta a Genova a Palazzo Ducale (fino al 15 aprile), curata da Marco Goldin e accompagnata da un suo libro pubblicato da Linea d´ombra.
Questo dipinto, metafora di un cammino nello stesso tempo fisico e interiore, è allestito in maniera sorprendente. Accoglie infatti il visitatore in un ambiente in cui è ricostruita la celebre camera di Van Gogh ad Arles dove, in un cortocircuito prima ancora emotivo che visivo, è posto accanto a due paesaggi di Giorgio Morandi del 1943. «Il viaggio – spiega Goldin – parte sempre da una stanza. Ma ci sono due strade possibili e io le ho volute indicare immediatamente entrambe. La prima è quella di Van Gogh che si sposta da un luogo all´altro o che cammina nervosamente nella sua camera di solitudine, calzando quelle stesse, struggenti scarpe con cui ha intrapreso un cammino che poi si rivelerà nel colore e nella luce. La seconda è quella di Morandi che resta tutta la vita nello stesso posto e non ha neanche bisogno di uscire perché dipinge ciò che vede dalla sua finestra con il cannocchiale. La sua è un´avventura mentale, sottilmente di sguardi. Ma è pur sempre un viaggio».
Cuore di questa mostra che attraversa l´Europa e l´America, il XIX e il XX secolo, è un´opera chiave di Paul Gauguin, uno dei capolavori della pittura di tutti i tempi: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Un dipinto che ha comunque viaggiato molto poco: il Museum of Fine Arts di Boston, dov´è conservato, lo ha concesso in prestito soltanto quattro volte in un secolo. E solo due in Europa. Quindi l´arrivo di questo monumentale quadro che si estende per quasi 4 metri di larghezza, è un evento che già di per sé varrebbe una visita alla mostra. E che rivela, fin negli interrogativi suggeriti dal titolo e dichiarati da Gauguin in una scritta sul lato sinistro in alto, il significato più profondo di questa rassegna: il viaggio è sempre dentro di sé. E non importa se si attraversi l´Oceano, o una strada, o un pensiero.
Per mostrare tutta la forza visiva di quest´opera nella sala più grande del palazzo si è ricostruita, con un imponente effetto teatrale, la capanna di Gauguin a Tahiti come ci è stata tramandata da alcune fotografie scattate nel 1897. È qui e proprio in quell´anno che Gauguin lo ha dipinto, durante il suo secondo soggiorno – o la sua seconda fuga? – nei mari del Sud.
Sappiamo che nessun artista più di lui incarna la figura del viaggiatore che esplora luoghi lontani per ritrovare un´armonia altrimenti perduta, una riappacificazione con la natura, con il suo io primordiale e primitivo e per questo autentico, inviolato. «Sono un selvaggio, un lupo, senza collare, nella foresta» diceva di sé. E questo quadro doveva essere una specie di testamento, «il sontuoso mantello dei miei sogni». Gauguin lo realizza in un mese di lavoro febbrile che va avanti giorno e notte. Ha infatti saputo della morte della sua amata figlia Aline, è malato, povero e infelice. Vuole togliersi la vita. Prima di farlo però ha intenzione di realizzare il suo capolavoro. È questo: enigmatico, pieno di simboli, costruito come un fregio, dove si incontrano bambini addormentati, figure che si confidano pensieri, idoli, vecchie, animali, vegetazione. Gauguin confesserà all´amico Daniel de Monfreid: «Credo che non solamente questa tela superi in valore tutte le precedenti, ma soprattutto che io non ne farò mai una migliore o che anche solo le si avvicini. Qui ci ho messo, prima di morire, tutta la mia energia, una tale passione dolorosa in delle circostanze terribili, e una visione talmente netta, senza correzioni, che l´aspetto frettoloso scompare e ne emerge la vita». Il tentativo di suicidio dell´artista andrà fallito. Sopravviverà fino al 1903 e di opere ne farà altre. Celebri e bellissime. Ma come aveva preconizzato nessuna raggiungerà mai la potenza espressiva di questo superba tela orizzontale.
La dimensione spirituale del viaggio così ben interpretata dal quadro-culto di Gauguin, scandisce con sicurezza le tappe della mostra. Ma è davvero evidente quando ci si imbatte nei quaranta Van Gogh raccolti per questa occasione, 25 dipinti e 15 disegni a essi collegati, provenienti in gran parte dal Van Gogh Museum di Amsterdam e dal Kröller Müller Museum di Otterlo. Com´è noto un pezzetto del loro cammino l´artista olandese e Gauguin lo hanno fatto insieme. Pochi mesi di convivenza nel 1888 ad Arles, nel Sud della Francia, con un finale tragico.
Anche per Van Gogh la mostra si distingue per un dipinto-evento. Si tratta di quel Campo di grano con covoni dipinto ad Auvers poche settimane prima del suicidio. Questa volta riuscito. Un´opera che a causa della sua fragilità non era esposta al pubblico da più di 40 anni e che per l´occasione è stata sottoposta a un accurato restauro. «Ho voluto rappresentare il suo passaggio dall´oscurità alla luce», dice ancora Goldin parlando della scelta delle opere di Van Gogh. Si parte infatti dal buio appena interrotto dall´apertura di una finestra del Tessitore al telaio del 1884 fino alla luminosità dei frutteti, dei campi di grano, delle barche a Saintes-Maries-de-la-Mer, dei vigneti, gli ulivi, l´immensità del sole che sembra proteggere il Seminatore. Con la stessa pennellata febbrile, nervosa, carica di espressività, Van Gogh ritrae se stesso al cavalletto. Fino alla fine Van Gogh sarà capace di creare allarme e inquietudine nelle cose più semplici: alberi, orizzonti, paesaggi. E quel campo su cui si agitano i corvi sembra dare forma a un chiaro presagio di morte.

Repubblica 10.11.11
In mostra anche Hopper, Morandi, Kandinsky, Rothko
Se lo sguardo è un´avventura interiore
di Carlo Alberto Bucci


Si disegna un itinerario diacronico dentro l´arte dell´Otto e del Novecento

La donna sta seduta sul letto e guarda fuori dalla stanza, verso le prime luci del giorno. È il Sole del mattino che la illumina e che imprime sulla parete disadorna un quadrato luminoso. Un quadrato nel quadro, ma anche la proiezione della città americana "ritagliata" dalla finestra aperta sul paesaggio. L´opera del 1952 di Edward Hopper – arrivata alla mostra di Genova su Van Gogh e il viaggio di Gauguin dal Columbus Museum of Art, Ohio – fotografa una situazione antitetica rispetto al tema del viaggio inteso come movimento; all´incedere solenne del Seminatore di Van Gogh, in quel "primo passo" che porterà agli albori del Novecento i futuristi a sintetizzare le forme dinamiche nello spazio e nel tempo.
In attesa di qualcosa, come le Dame di Carpaccio aspettano gli uomini impegnati nella caccia in valle, la modella di Hopper sta da sola, e ferma, sulla soglia del giorno, in bilico tra realtà e astrazione. Il Sole del mattino è uno degli innesti (35 opere, prestiti internazionali di prestigiosi musei) apportati fuori dal tempo di Van Gogh e Gauguin, il corpo principale della mostra, da Marco Goldin. «Anche quando il viaggio nasce da un luogo, è sempre un viaggio interiore» sottolinea il critico trevigiano.
Viaggiare stando fermi, insomma. Come ha fatto Giorgio Morandi, presente a Genova con, tra l´altro, due paesaggi del 1943 colti sull´Appennino emiliano, uno dei pochi viaggi "reali" che il maestro italiano si concesse lontano dalle nature morte allestite nell´atelier di via della Fondazza a Bologna. E come fanno le "figure che guardano", una delle sezioni che compongono la mostra genovese: la Ragazza che guarda il paesaggio (1957) dell´americano Richard Diebenkorn, ad esempio; o la Figura sulla riva del mare (1952) del francese Nicolas De Staël.
America e Europa sono le due latitudini che si confrontano in questa mostra nella mostra. Ed è il viaggio alla conquista del West quello intrapreso da Albert Bierstadt di cui sono esposti Nella Yosemite Valley (1866) e, dell´anno dopo, Tra le montagne mentre all´esplorazione dell´Est il visitatore è portato da Edwin Church (1826-1900), lungo quella costa del Maine frequentata anche, nel ´900, da Andrew Wyeth (5 opere: da Mattina di Natale del 1944 a Secca nel fiume del 2003). E se l´orizzonte "americano" segnato da Mark Rothko con due essenziali, straordinari dipinti degli anni Sessanta (dalla National di Washington e dallo Stedelijk di Amsterdam) è vicino a quello dei Tre paesaggi marini eseguito il secolo prima da Turner (1827, Londra, Tate), la sezione sulla pittura europea muove del sentimento romantico della Barca sull´Elba nella nebbia del primo mattino di Friedrich (1820-25), si infiamma nelle tempeste di Turner per placarsi nelle Ninfee (1905, Boston, Museum of Fine Arts) del giardino di Monet a Giverny.
Un percorso diacronico dentro l´arte dell´Otto e del Novecento quello disegnato al palazzo Ducale di Genova intorno, e dentro, il faccia a faccia tra Van Gogh e Gauguin. «È una mostra molto personale la mia – spiega Goldin – fatta anche di intrecci di natura letteraria: dai Quattro quartetti di Eliot alla poesia di Attilio Bertolucci». Nel secolo della velocità, un «viaggio interiore, di naturale spirituale». E la strada porta così dritta a Wassily Kandisky, all´autore dello Spirituale nell´arte, il padre dell´astrazione del Novecento, di cui sono esposte cinque dipinti, dal 1908 al 1917, della galleria Tretyakov di Mosca.

Corriere della Sera 10.11.11
Fiera dei piccoli editori senza fondi. Così rischia di lasciare presto Roma
di Paolo Fallai


L a fondazione che organizza la Fiera del Libro di Torino sta discutendo in questi giorni i tagli ai fondi per l'edizione 2012. L'ultimo Festivaletteratura di Mantova ha dovuto fare i conti con le casse «vuote» del Comune. E il Festival della Filosofia di Modena ha talmente stretto la cinghia che per salvare gli appuntamenti ha ridotto all'osso tutto, compresa la stampa dei programmi.
Non c'è appuntamento culturale che non stia facendo i conti con la riduzione dei budget. Ma almeno se ne parla. A Roma, quando mancano meno di quattro settimane alla Fiera della piccola e media editoria «Più Libri più Liberi», per uscire da un silenzio definito «insultante» gli editori si sono rivolti ai giornali. La Fiera, unica riservata ai piccoli editori, avrebbe voluto festeggiare la decima edizione (con tanto di invito al presidente Giorgio Napolitano) al Palazzo dei Congressi di Roma dal 7 all'11 dicembre. Ma dopo mesi di contatti (negati) e lettere (senza risposta) gli organizzatori non hanno notizie del finanziamento del Comune di Roma (100 mila euro), hanno saputo per vie traverse che non avranno quello della Regione Lazio (220 mila euro) e solo ieri hanno avuto conferma che i 100 mila euro della Provincia in qualche modo arriveranno. Confermati anche i fondi del ministero (220 mila euro) e della Camera di commercio (60 mila) che insieme agli altri garantivano una copertura del 50 per cento dei costi. «Roma è la capitale della piccola editoria — ha detto il presidente dell'Associazione editori, Marco Polillo — e questa manifestazione con 430 editori e 50 mila visitatori ogni anno, rappresenta un unicum europeo. Noi garantiremo questa edizione, con uno sforzo gigantesco, ma è evidente che senza garanzie dovremo decidere se chiudere nel 2012 o andarcene da Roma, sperando di trovare altrove maggiore sensibilità».
Ci vuole un anno per organizzare una Fiera del libro seria — insistono gli editori — e per dicembre sono attesi a Roma Amélie Nothomb, Santiago Gamboa, Shun-Luen Bynum, Zachar Prilepin, ma oggi «non sappiamo cosa accadrà e cosa dovremmo tagliare», dice il direttore Fabio Del Giudice. «Due terzi degli editori e un terzo dei visitatori vengono da fuori la Regione Lazio e questa fiera — insiste Polillo — è una gemma di Roma, prima era tagliata fuori dal mondo editoriale. Questo silenzio istituzionale mi stupisce perché va contro gli interessi della città, più che degli editori». La piccola e media editoria nella Regione Lazio, come ha spiegato Enrico Iacometti, presidente del Gruppo piccoli editori dell'Aie, «rappresenta un comparto economico importante: ci sono 500 marchi editoriali e oltre 6 mila addetti».
Oggi partirà una nuova lettera indirizzata al sindaco Gianni Alemanno («che dichiarava il sostegno alla Fiera perfino nel programma elettorale» ricorda Polillo) e alla presidente del Lazio, Renata Polverini. Ma il rischio che Roma perda l'appuntamento nel 2012 resta altissimo. «Nessuno sottovaluta la crisi — insiste il presidente degli editori italiani — eravamo pronti a discutere dei tagli, ma tacere fino alla fine, nascondersi, scappare, è inspiegabile».
Federculture ha stimato in 7,2 miliardi di euro le risorse che i Comuni italiani saranno costretti a tagliare nel 2012: tra il 2005 e il 2009 lo Stato ha ridotto gli stanziamenti del 32,5 per cento, in compenso negli ultimi 10 anni il cosiddetto turismo culturale è cresciuto di oltre il 50. Il risultato è nello sconforto di chi, nonostante tutto, non vuole arrendersi: «Tagliare è una cosa, uccidere un settore è un'altra».

Corriere della Sera 10.11.11
Più amici grazie a Facebook? Quelli veri sono (solo) due
Ma la maggioranza ha un unico rapporto autentico
di Maria Laura Rodotà


Leggere le conclusioni del Tess (Time-sharing Experiments for the Social Sciences, un programma che studia e analizza i rapporti sociali) fa sentire un po' soli; nella media ma soli. Al netto della caterva di amici di Facebook, dei colleghi, di quelli con cui ci si vede periodicamente a cena, degli amici di amici o dei partners, dei compagni di calcetto o di aperitivo, al netto di tutte le scremature esaminate dai ricercatori, gli amici veri restano due o tre. Anzi, a contarne quattro-cinque ci si sente sopra la media, magari a causa dell'età e dell'accumulo; perché secondo Matthew Brashears della Cornell University, che ha coordinato l'ultima ricerca, se venticinque anni fa l'anglosassone medio aveva un trio di amici del cuore, ora sono ridotti a due. Nonostante o forse a causa della continua socialità virtuale. Grazie alla quale si chiacchiera nonstop guardando uno schermo; che però impigrisce, ormai si parla poco al telefono e si esce ancora meno.
Così, il social network online si amplia e crea nuovi comportamenti; e la rete di contatti reali si restringe. Rendendoci, scrive Brashears, «potenzialmente più vulnerabili; anche se non socialmente isolati quanto alcuni studiosi temevano». Insomma, quando ci vorrebbe un amico (come da nota canzone, di Venditti), la maggioranza lo trova. Solo il 4 per cento dei duemila intervistati per la ricerca non è stato in grado di nominare nessuno con cui ha discusso di argomenti personali importanti negli ultimi sei mesi. Il 48 per cento ha nominato un amico, il 18 per cento due, il 29 per cento più di due. La media, scrive Brashears, è perciò di «2.03 confidenti» a persona. Sperando che non abbiano il cellulare staccato.
E i ricercatori di Cornell rassicurano: la percentuale di individui «socialmente isolati» è la stessa di qualche anno fa, dell'epoca pre-Internet. Solo cinque anni fa, uno studio simile prevedeva che sarebbero triplicati. Non è successo; si è avverata un'altra previsione, il numero degli amici del cuore si è ridotto da tre a due. Perché, secondo Brashears, «tendiamo a giudicare un numero minore dei nostri contatti come adatto a conversazioni importanti» e intime. E probabilmente perché vediamo meno gente, e meno spesso, di persona. E così è più difficile aprirsi e fidarsi. Anche perché in molti — e non solo ragazzini — sono rimasti scottati dall'uso sgangherato dei social networks. C'è chi ha raccontato troppe cose personali nel suo status, chi ha litigato sulle altrui bacheche, chi si è comportato come se fosse in un capannello di amici, spargendo dati sensibili e provocando guai. Col tempo, la maggioranza ha imparato a stare attenta. A tenere a bada i rompiscatole, a diffidare di chi si conosce a malapena e s'intromette, a evitare i presunti amici logorroici e/o provocatori. E a parlare di cose importanti solo faccia a faccia, o via messaggi privati.
I più acculturati hanno preso atto che il numero di Dumbar (dal nome dell'antropologo di Oxford che l'ha formulato) è realistico: un individuo non riesce a mantenere relazioni stabili con più di 150 persone. Il resto è chiacchiera su Facebook e Twitter. E tra i centocinquanta, ci sono gli amici verso i quali ci si sente in colpa e con cui si prende un caffè ogni due mesi, i cugini che si vedono a Natale, i conoscenti di cui si sospetta perché nel 1992 si è condiviso una fidanzata, e moltissime persone antipatiche.
Stringi stringi, ci si ritrova con i soliti pochi amici, come da Tess, alla fine. O tra amiche; perché le donne, specie se istruite, hanno più amiche vere (non ci voleva un cattedratico di Cornell, per saperlo).

Corriere della Sera 10.11.11
Sei volte undici Torna dopo un secolo il giorno da cabala
Domani, venerdì, la data palindroma
di Armando Torno


Come si fa a parlare dell'undici? È un numero primo, tra le cifre simboliche è indicato come «la dozzina del diavolo» e chi la sa lunga sui significati di questa delicata disciplina, dedotta dai pitagorici, assicura che dopo il 10 la sfortuna si accanisce. Altri, però, lo considerano simbolo di rinascita. Dopo quel 10 saccente e pieno, finalmente le carte si rimescolano. Domani, neanche a farlo apposta, sarà l'11/11/11 e, fatale combinazione, alle 11, 11 minuti e 11 secondi si creerà il più lungo palindromo con l'1. Già, palindromo. Vale a dire una sequenza di caratteri che, letta a rovescio, rimane identica (dal greco palin, indietro, e drómos, corsa). La storia non vi convince?
Chi scrive è leggermente preoccupato e non vorrebbe trovarsi alle 11, 11, 11 in un luogo sgradevole o con problemi in corso. Parafrasando Benedetto Croce, val sempre la pena ricordare che tali congetture non esistono, ma è bene tenerne conto. E poi la concatenazione è capitata soltanto una volta, e con più forza, nel 1111: fu in quell'anno che Enrico V fece imprigionare papa Pasquale II per ottenere il diritto di investitura e l'incoronazione imperiale, inoltre morì il filosofo al-Ghazali. Aveva 53 anni. Qualcuno, con un pizzico di perfidia, sosterrà che non si era cautelato a sufficienza da talune forze evocate. Proprio con quella combinazione che necessitava di ogni prudenza. Per quel che riguarda l'11 della nostra era, va detto che non ebbe effetti, perché il conteggio cristiano nascerà qualche secolo dopo con il monaco Dionigi il Piccolo. Poi fioccarono gli accostamenti, quali il 7/7/777 (per taluni quel giorno gli alchimisti arabi scoprirono l'acido solforico) o il 9/9/999, quando il sultano turco Mahmud I si insedia in India. Tornando a noi, va aggiunto che domani sarà il sesto momento sestuplo dal 2000 a oggi. Tutti ricordano il 02/02/02 o il 03/03/03. Questa volta però la data conterrà una sola cifra, la qual cosa equivale a un evento unico. L'anno venturo sarà l'ultimo che potrà vantare una data sestupla: il 12/12/12. E per quel giorno non si prevedono cose tranquille.
Ma non tutte le date palindrome sono foriere di sventure. Dipende dal numero che le forma. La corsa indietro che consente quella di domani è incentrata sull'uno. Gran bella cosa, giacché Dio creatore è inteso come «uno originario» che si manifesta nella dualità. Da tale combinazione rampollano tesi e antitesi, che danno vita alla sintesi, a quel 3 che vale come Trinità, triangolo, triade. Una regola dedotta dai Padri della Chiesa: «Tutte le cose buone sono sempre tre».
Per dirla in soldoni e con una considerazione: l'11/11/11 potrà essere un giorno felice e favorevole per i progetti se cercheremo di non realizzarli egoisticamente, con quell'1 sterile che si secca da solo. Che so?, far nascere società che moltiplicheranno i frutti grazie al flusso della triade; contrarre matrimonio, dal quale potrà nascere quel terzo che suggellerà il pronostico. Però è venerdì. E tale giorno è degno di riserve. Recita una massima popolare: «Di Venere e di Marte non ci si sposa né si parte». Che dire?
Sulle partenze, si sa, la disciplina è mutata, a causa del cambiamento dei mezzi per viaggiare. Ma sul matrimonio conviene essere prudenti. Domani chi volesse pronunciare il fatidico sì alle 11, 11 minuti e 11 secondi, non si dimentichi che, appunto, è venerdì (anche se The Guardian annuncia una valanga di intenti sponsali). Calma. Forse è meglio fare altro. E questo senza dare retta al caro Mario Monicelli che considerava matrimonio e parenti le disgrazie peggiori della vita. O al regista Darren Lynn Bousman che sulla singolare circostanza ha gufato realizzando un film horror. Secondo la sua tesi, le combinazioni dell'11 sono in grado di mettere in contatto gli umani con il soprannaturale.
Suggerimento: lasciate perdere questo genere di comunicazioni, quanto al matrimonio è meglio rinviare alla prossima data palindroma. Certo, occorre aspettare qualche secolo. Ma non stanno ripetendo tutti che la vita si è allungata?

l’Unità 10.11.11
È la paranoia che fa la storia
Questa la tesi del nuovo libro di Luigi Zoja in cui analizza come la pazzia del capo si trasmetta alla società incendiando gli animi di folle entusiaste I casi più evidenti? Hitler, Stalin, ma anche la guerra totale degli alleati...
di Romano Madera, analista junghiano


La follia che fa la storia». Il sottotitolo del libro di Luigi Zoja, Paranoia, è una sintesi fulminea: la paranoia non è solo una malattia mentale confinata a una certa percentuale di popolazione, oggetto di cure più o meno efficaci, no, è anche soggetto della storia collettiva, la condiziona, la trascina, attraverso l’epidemia che inizia dai capi per incendiare gli animi di folle entusiaste e possedute dalle Furie.
In un vertiginoso e documentatissimo affondo negli orrori degli ultimi due secoli, si susseguono le prove di una impietosa diagnosi: «la via della nuova cultura va dall’umanità alla bestialità attraverso la nazionalità», questo epigramma di Grillparzer intuisce che il nazionalismo, mischiato al socialdarwinismo (un darwinismo contraffatto, ridotto a predicare la «giusta» prevaricazione dei più forti) produrrà razzismo, pulizia etnica, terrore di massa, genocidio, a destra e a sinistra e al centro, dall’America alla Germania, dalla Russia all’Inghilterra. Il cosiddetto mondo civile, le ideologie politiche fasciste, comuniste, liberali e democratiche, vengono usate da una infezione paranoica che ha al suo centro la trasformazione dell’idea di nazione in odio nazionalista nei confronti dell’altro, scelto come capro espiatorio di ogni fallimento delle patrie. Le ideazioni paranoidee camminano nelle teste di uomini affetti dal male, la scintilla cade sull’oceano nero della disperazione sociale, infetta ogni risentimento, svelle ogni ragionevole obiezione, conquista la guida degli stati.
I ritratti, perfettamente contestualizzati nella sintesi storica, dei generali tedeschi, francesi, russi, alla vigilia della prima guerra mondiale, i vaniloqui di Wilson, la lucida follia di Hitler, l’ossessione sospettosa di Stalin, la guerra totale degli alleati, i calcoli del segretario del Tesoro americano sull’economia delle stragi pianificate e tante altre accurate ricostruzioni, fanno di questo libro la più acuta anamnesi del delirio collettivo che trasforma la storia in uno scannatoio planetario. Ogni volta qualche voce si leva all’altezza della dignità dell’intelligenza umana e del valore della pace, ma è solo un solletico fastidioso per la folla indemoniata.
La malattia è subdola, perché il potenziale paranoico è un prodotto degradato delle nostre comuni capacità critiche e di difesa che cercano spiegazioni di ciò che ci ostacola o ci minaccia. Non si presenta nelle vesti della affabulazione bizzarra o del delirio conclamato, si camuffa sotto una pseudologica e seduce con il frutto avvelenato dello scarico di responsabilità e della proiezione del male sugli altri. Il sospetto scova nemici, spiega gli eventi con i complotti, conquista il posto della vittima e recita la parte del perseguitato, infine cresce prodigiosamente su se stesso, si allarga e si approfondisce legittimando ogni esplosione di distruttività.
Come scrive Levi: «I mostri esistono ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi, sono più pericolosi gli uomini comuni». Dietro le trincee del Grande Macello della prima guerra, dietro Hitler, Stalin, Hiroshima, le bombe intelligenti e i fanatici kamikaze della nuova guerra santa, si deve scorgere il vero complice, i milioni di complici. Hanno il viso grazioso e la perfetta messa in piega di una bella ed elegante giovane donna che sta sulla copertina del libro. Sta scrivendo al fidanzato, un soldato americano, per ringraziarlo di averle inviato per regalo il teschio di un giapponese che «fa bella mostra di sé sulla scrivania della giovane». La donna quasi sorride guardando il teschio. La foto fu pubblicata su Life, il 22 maggio 1944. Zoja commenta: «Non sono state solo le SS di Auschwitz a collezionare orrendi reperti umani».
È difficile sopravvalutare il valore di questo libro, la sua capacità rarissima tanto fra gli analisti che fra gli storici di mostrare, in modo complesso e non riduzionistico, l’intreccio tra la follia paranoica e la storia contemporanea.
Una lezione magistrale di intelligenza psicologica e politica che cerca di aiutarci a discernere i sintomi di questo cancro collettivo, prima che sia di nuovo troppo tardi.