domenica 13 novembre 2011

l’Unità 13.11.11
Da l’Unità a Left, come uscire
 dal berlusconismo
L’editoria progressista, da l’Unità a Left, si ritrova al teatro Eliseo. Discute di sinergie e del dopo Berlusconi. Il rapporto con i movimenti per incidere e ridare dignità alla politica. La minaccia del taglio ai fondi pubblici.
di Roberto Monteforte


«L’informazione con l’apostrofo a sinistra». Un titolo intrigante per fare i conti con i problemi dell’editoria «schierata» nell’area del Partito democratico e ragionare anche sulla fase nuova che si è aperta con la caduta di Silvio Berlusconi. Si sono ipotizzate sinergie e, soprattutto, si è richiamata l’esigenza di un rapporto forte con i movimenti democratici che attraversano la società italiana. È indispensabile per «avere forza e peso» , ridare dignità alla politica democratica e contrastare le derive di destra e le tentazioni tecnocratiche. Lo ha sottolineato il direttore de l’Unità, Claudio Sardo, che con la direttrice editoriale del settimanale Left, Ilaria Bonaccorsi Gardini ha promosso l’iniziativa dopo aver sperimentato una diffusione congiunta del quotidiano con il settimanale. Al teatro Eliseo hanno discusso con loro il vice direttore di Europa, Mario Lavia, con il direttore del rinato quotidiano romano, questa volta on line, Paese Sera, Enrico Fontana, con Chiara Geloni direttrice della Tv del Pd Youdem e il portavoce del Pd Di Traglia e il segretario del Pd romano, Miccoli.
Nel corso dell’incontro non sono mancati i toni autocritici per gli spazi lasciati aperti al berlusconismo e al modello presidenzialista. Troppo spesso ha sottolineato Sardo si è confuso il liberismo con il riformismo. Il direttore de l’Unità ha richiamato il dato «drogato» e «distorto» dell’informazione in Italia: con la tv commerciale che si aggiudica più del 50% della risorsa pubblicitarie e con i principali editori che siedono nei consigli di amministrazione di Mediobanca e delle Generali. «Quello di cui c’è bisogno ha concluso è di un’informazione autonoma dagli interessi forti» e ciò sarà possibile se si avrà un rapporto stretto con i movimenti presenti nel paese.
Una linea condivisa. Ma all’Eliseo si parla anche di crisi del servizio pubblico e dell’esigenza di una sua nuova governace e dei new media. Lo sottolinea Ennio Remondino, ex Rai e ora impegnato in una convention di siti on line ad alta specializzazione Globalist news. Invece Lavia invita a mantenere l’articolazione e la pluralità delle voci all’interno del centrosinistra. Quindi lancia l’allarme per la vita stessa delle testate presenti e per il pluralismo rappresentato dal taglio del finanziamento pubblico. Una denuncia che la Geloni rilancia. Mentre sui valori culturali da proporre per contrastare il «berlusconismo» insiste Mariolina Coccoli, direttrice di Left.

l’Unità 13.11.11
L’«alleluja» degli orchestrali davanti al Quirinale, folla a palazzo Chigi e a palazzo Grazioli
Un congedo concitato Tra festa e rabbia: spumante, fischi, slogan e il brutto bis del Raphael
Bandiere, musica, cori ma anche monetine per l’addio del premier
Folla spontanea davanti ai Palazzi romani: l’attesa a palazzo Chigi e in via del Plebiscito, poi la festa al Quirinale. Cittadini arrabbiati brindano alla «festa di liberazione». Dal Popolo Viola il lancio di alcune monetine
di Natalia Lombardo


«Alleluja! Alleluja! Allelujaaa». È con il coro degli orchestrali di Santa Cecilia, il gruppo di Resistenza Musicale Permanente seduto con violini, archi e fiati nella piazza davanti al Quirinale, che si celebra la «festa della liberazione». 12 novembre, una data «da non dimenticare», neppure per i bambini assiepati davanti alle transenne che chiudono Palazzo Chigi, o per la massa che ha occupato il Colle. Alle 21,40 la notizia: si è dimesso fa scoppiare l’urlo e l’applauso e le bottiglie di spumante giù pronte. Al passaggio di Silvio Berlusconi la folla grida «mafioso» e dal Popolo Viola parte il lancio delle monetine da 10 o 20 centesimi verso il Quirinale. Un lancio «spontaneo», dice il leader Gianfranco Mascia, ma che echeggia quel lontano 1993 nel quale Craxi e la classe politica fu messa alla berlina. L’aria era un po’ quella, alle cinque: «Ce l’hai le monetine?», si informava un ragazzo sulle transenne a Largo Chigi. «Siamo qui per vederlo di-mette-re», la signora ben vestita è venuta «apposta da Sapri per vederlo», e «aspettiamo che se ne evada, perché chi non vede non crede, con un tipo del genere», spiega la figlia.
Dalle prime ore del pomeriggio una folla spontanea si è radunata davanti ai Palazzi: Chigi, Grazioli, il Quirinale, il triangolo di potere nel cuore di Roma. Stretti stretti su via del Corso davanti alla sede del governo in un’aria di festa e di rabbia come se scoppiasse un bubbone represso da anni.
È «gente normale» con bandiere tricolori, cittadini molto informati arrivati lì per esserci. «Siamo romane, aspettiamo che se ne vada. Vede? ho la sciarpa arancione, come ci ha detto quel cantante... Vecchioni». Anziani con la copertina di Time, giovani arrabbiati gridano «Arrestatelo»; più ironico «Bye bye Berlusconi. Party?». Due donne col cartello «grazie Napolitano», sorridono: «Siamo qui armate di carta e penna, da casalinghe...». Uno scanzonato ottentenne osserva: «Io lo devo ancora trova’ uno che l’ha votato...». C’è anche qualche temerario berlusconiano che urla «ecco così il Paese va in mano ai comunisti». Ma quali comunisti, ribatte un ragazzo venuto da Prato. S’infiltrano con le bandiere militanti di Forza Nuova, dopo lo show di un vecchio fascista. Un momento di tensione, poi gli estremisti di destra sono spinti via dai poliziotti in borghese. L’attesa è calda e allegra. «Hanno votato?», dai telefonini qualcuno informa sull’esito: 380 sì. «Oddio ma che c’ha di nuovo la maggioranza?», teme un uomo, «ma no che dici, il voto è trasversale...». Però aveva tentato un colpetto di coda, il Caimano...
LA CACCIATA
Rosy Bindi incassa applausi, Rutelli viene accolto già come ministro degli insegnanti del Gilda davanti a Montecitorio, dove ci sono anche bandiere di Fini-Fli. Non va bene ai pidiellini che escono con i trolley dalla Camera. La tv li ha resi noti. Il grido al «golpe» di Scilipoti viene spento dai fischi. Fra Bella Ciao e l’Inno di Mameli, l’anti-finiano Amedeo Laboccetta si acquatta tra polizia e giornalisti di tutto il mondo, poi si dilegua ma un ragazzo lo riconosce: «E il computer?». C’è l’intrepida nonna Annarella che festeggia le dimissioni, «’N’onorevole m’ha dato questa, che ce faccio?»: è una cravatta verde leghista. C’’è il Popolo Viola che alle sei organizza la staffetta: «Tutti sotto Palazzo Grazioli per l’ufficio di presidenza del Pdl, poi al Quirinale» («ma come non andava prima a dimettersi?»). No.
Dalle finestre al terzo piano di Palazzo Chigi dei funzionari scrutano preoccupati la piazza. L’Audi blu di Berlusconi scivola via da piazza del Parlamento, corre su per via del Tritone ma dalla folla partono fischi e urla. Un’eco sonora li rilancia nella blindata via del Plebiscito, sotto Palazzo Grazioli, dove è accolto da cori di «buffone, a casaaa». Il ministro (ex) Sacconi alza il dito medio: il simbolo del governo morente, Bossi ha fatto scuola. Battibecco tra Mara Carfagna e un donna che le grida «vattene a casa...». «Ci sto andando, da domani starete tutti meglio», risponde la ministra. «Sì ma restaci».
Lì vicino, verso Campo de’ Fiori c’è un’altra folla: davanti alla sede del Pd in via dei Giubbonari si balla sulle note di Bella Ciao, una festa dei militanti in attesa di Pier Luigi Bersani e delle dimissioni con la D maiuscola. Il segretario Miccoli annuncia che al Comune di Roma chiederà il ripristino della fermata dei bus in via del Plebiscito. Era stata tolta per non disturbare i balletti di Silvio.

l’Unità 13.11.11
Il leader del Pd a colloquio con Monti. «Ora discontinuità ed equità»
Faccia a faccia con Di Pietro. Divisione sulla durata del nuovo governo
Bersani riunisce i suoi: «La politica non abdica noi faremo le riforme»
Bersani a colloquio con Monti parla di «discontinuità» ed «equità». Poi riunisce i deputati del Pd: «Emergenza ma la politica non abdica». L’obiettivo è discutere in Parlamento legge elettorale e riforme istituzionali
di Simone Collini


«E questa sera prendiamoci cinque minuti per un brindisi». Bersani riunisce i deputati del Pd al secondo piano di Montecitorio, mentre sotto il Transatlantico inizia ad animarsi in attesa del voto sulla legge di stabilità. Non è una seduta come le altre, quella che sta per cominciare. «È il sipario che scende su una lunga e dolorosa pagina della storia politica italiana», dice Franceschini. Bersani davanti ai suoi gioca la carta dell’orgoglio di partito, perché i due risultati Berlusconi a casa e governo di emergenza non ci sarebbero stati senza l’impegno del Pd, «un partito che dipingono come anarchico ma che si è visto in un momento delicato come questo come è solido».
DISCONTINUITÀ ED EQUITÀ
Ma ora bisogna guardare al futuro. In un colloquio con Mario Monti, Bersani ribadisce la disponibilità del Pd a sostenere il nuovo governo, insistendo sul fatto che il suo partito chiede «discontinuità» rispetto al precedente esecutivo e misure economiche «nel segno dell’equità». Al neosenatore non chiede elementi di garanzia, e anzi prima di andare insieme a Enrico Letta all’incontro aveva spiegato ai suoi che per il Pd «elemento di garanzia è Monti stesso, non c’è bisogno di averne altri». Però il no alla presenza di esponenti del governo Berlusconi, Gianni Letta compreso, viene messo sul piatto nel momento in cui il leader del Pd fa sapere di vedere con favore un governo composto di soli tecnici. Non un vero e proprio veto, ma il Pd sa che alla presenza o meno di Letta nel nuovo governo è legato anche l’atteggiamento dell’Idv. In un colloquio con Di Pietro, Bersani è tornato a sottolineare la necessità di una «assunzione di responsabilità da parte di tutti», e anche se l’ex pm ora ha archiviato il niet dei giorni scorsi (dice anzi «aspettiamo con fiducia il professor Monti»), ha anche fatto sapere che con Letta dentro l’Idv non potrà esserci il suo sostegno: «Non può entrare il Richelieu di un governo piduista come quello di Berlusconi, è come se ci fosse chi ha fatto il palo mentre il complice svuotava la cassaforte».
FASE D’EMERGENZA
Ma è più su un’altra questione che ora Bersani sta lavorando. Tra i parlamentari c’è chi teme una cessione di sovranità di fronte a un governo tecnico. Un timore che il leader del Pd vuole fugare prima ancora che l’operazione entri nel vivo: «Noi siamo generosi, adesso siamo in una fase d’emergenza, ma la politica non abdica e non va a casa come qualcuno scrive sui giornali», dice davanti a tutti i deputati riuniti a Montecitorio. Dice anche che «ognuno si deve prendere le sue responsabilità», che «o si va amessaosistaacasa»,e che il Pd ha «deciso di andare a messa per il bene dell’Italia». Parole riferite all’atteggiamento di chi, come l’Idv, annuncia che potrebbe decidere legge per legge come votare. Ma è anche un ragionamento, quello che fa Bersani, rivolto a chi avrebbe preferito far entrare politici nel nuovo governo. Anche la squadra dei sottosegretari potrebbe essere totalmente composta di personalità autorevoli ma non provenienti dai partiti. E tra i deputati c’è chi si domanda come potrà esserci un positivo raccordo tra Parlamento e governo, in questo caso.
SBAGLIATO FISSARE SCADENZE
Bersani vuole fugare ogni timore e anzi esorta i suoi a «non stare sulla difensiva» in questa partita. Assicura che «la politica avrà i suoi spazi» anche perché nei prossimi mesi «si dovranno affrontare le riforme, quella istituzionale e quella della legge elettorale». Una frase per lanciare due messaggi. Il primo, il Parlamento sarà comunque centrale. Il secondo (tenendo conto del fatto che le riforme costituzionali richiedono almeno dodici mesi di tempo per l’approvazione) il nuovo governo non durerà solo fino a primavera come vorrebbero Berlusconi e anche Vendola e Di Pietro. Sulla linea di un governo Monti che completi la legislatura sono d’accordo anche Franceschini, Letta e Veltroni. E se il Pdl ha condizionato il sì a Monti a patto che non si presenti alle prossime elezioni, nel Pd c’è chi come il deputato Dari Ginefra sostiene che se il nuovo esecutivo sarà subito impallinato, il neosenatore dovrà essere il candidato premier dell’alleanza tra centrosinsitra e Terzo polo.

Repubblica 13.11.11
“Potevamo vincere le elezioni ma avrei trionfato sulle macerie ora governo di caratura tecnica"
Bersani: "Il mio futuro? La vita è lunga e bella"
di Alessandra Longo


ROMA - E´ fatta. E´ finita. Pierluigi Bersani si accende un sigaro nel suo ufficio alla Camera, prima di affrontare l´entusiasmo dei militanti nella sede storica di via dei Giubbonari e prima di scendere, con loro, in piazza. Scorrono i titoli di coda. Il segretario del Pd può lasciarsi andare: «E´ il giorno della liberazione! Tutti, chi più chi meno, hanno portato un sassolino per arrivare a questo passaggio di importanza incalcolabile». Berlusconi - dice Bersani - è caduto in Parlamento nel rispetto delle regole ma dietro c´è la nostra forza, la forza reale del Pd, che non è il partito a impronta personalistica del "ghe pensi mi" ma un partito solido, democratico, che discute, e ha scelto compatto di appoggiare un governo di emergenza». Strana serata per la sinistra, il senso di euforia non scaccia la prudenza. I nodi sono tanti: la composizione del governo, il caso Letta, che poi, però, si risolve nella notte con un passo indietro. E sul quale Bersani dice: «Non ne facevo una questione personale ma a chi chiedeva garanzie politiche ho sempre detto: per noi la garanzia è Monti». E lui, e Bersani? Quale sarà il suo destino politico? Se si fosse andati subito ad elezioni sarebbe stato il candidato premier. Persa l´occasione della vita? Aspira il sigaro e sorride: «Non mi interessa di vincere sulle macerie».
Bersani, un giorno da ricordare.
«Credo che ognuno di noi abbia in questo momento emozioni e riflessioni personali. Io ricordo cosa dissi quando partii con le primarie: "Il più antiberlusconiano di tutti sarà quello che lo manderà a casa..."».
Allora è lei il più antiberlusconiano.
«No, è il Pd. Da due anni a questa parte abbiamo iniziato a denunciare la gravità della situazione e non ci siamo mai accodati ai cori di complemento nella fase dell´omaggio alle fortune berlusconiane».
I cori di chi?
«Non scendo nei dettagli. Parlo di un largo conformismo a cui si è sempre contrapposto il pensiero autonomo del Pd. Abbiamo sempre avuto come punto fermo il tema democratico e sociale e sempre lavorato perché l´opposizione non si dividesse tenendo il filo tra la piazza e il Parlamento. E´ il nostro Dna, nuova o vecchia generazione che sia. Rappresentiamo una cultura politica nazionale e democratica».
E adesso arriva Monti. I sondaggi vi danno vincenti ma non ci saranno elezioni. A metterla sul personale, lei "rischia" di non incassare il risultato del suo lavoro...
«Non mi interessa di vincere sulle macerie. Mi interessa il futuro del Pd, un partito che non ha ancora quattro anni, battezzato al Lingotto e poi con le primarie. Ma il vero battesimo avverrà proprio attraversando questa crisi, la più grande dal Dopoguerra. Un passaggio che non sarà breve. Scommetto che il Pd si affermerà come un grande partito riformista di governo e nazionale. Se non è questo non è».
Come sarà il governo Monti, un governo di tecnici o di politici?
«Me lo aspetto di prevalente contenuto tecnico, direi di caratura tecnica. Se si parla di politica si parla di esperienze d´area, di società civile».
Monti è un liberale, non affronterà la crisi con le vostre ricette...
«Non a caso questo è un governo di emergenza e transizione, né larghe intese né grande coalizione, nel quale potranno esserci le tracce di alcune cose che dobbiamo fare e nel quale ognuno prende la sua parte di responsabilità. E´ chiaro che la grande opera di ricostruzione potrà avvenire solo con il sostegno del popolo, cioè solo con le elezioni».
I detrattori parlano di "governo delle banche".
«Bisogna intendersi su cosa significa banche. Le banche sono i luoghi dei banchieri ma anche i luoghi dove si custodiscono i soldi dei risparmiatori e credo che questa sia una preoccupazione di Monti. Il tema della fiscalità è il tema che ci differenzia dall´Europa, così come l´evasione, la pletora della Pubblica Amministrazione, le liberalizzazioni. Tutto questo è in sintonia con l´ottica liberale di Monti. Credo che sia a lui ben chiaro che la micidiale diseguaglianza sociale che affligge il Paese imbriglia la crescita. Quando Monti parla dell´abolizione dei privilegi, non evoca forse il tema dell´equità?».
Via Berlusconi, rimane il berlusconismo.
«Non abbiamo ancora risolto l´esperienza del berlusconismo. La grande discussione, che avrà i suoi riverberi nella futura campagna elettorale, sarà su due modelli: il modello riformatore di democrazia rappresentativa e costituzionale e il modello populista, dell´uomo solo al comando, diffidente delle regole e della divisione dei poteri, che ha agitato il Paese in questi anni».
Quale sarà, secondo lei, il tratto distintivo, il segno di discontinuità, di questo governo nascente?
«Me lo aspetto improntato a criteri di sobrietà e concentratissimo a risolvere i problemi degli italiani che vivono normalmente, siano essi elettori del Pd o del Pdl».
Torno sul personale. E se Bersani avesse perso definitivamente il treno di una possibile futura presidenza del consiglio?
«Le rispondo così: la vita è bella e lunga». 

Corriere della Sera 13.11.11
Bersani: è l'ora della liberazione
L'esultanza del leader. Di Pietro apre: però si vada al voto nel 2012
di Fabrizio Caccia


ROMA — Il governo Berlusconi si è dimesso «ed è il Pd che lo ha mandato a casa». Pier Luigi Bersani, il segretario dei Democratici, non nasconde la sua soddisfazione: «Una giornata di liberazione dell'Italia, questo è il battesimo del Pd».
Si volta pagina, cambiano gli scenari e così, alla vigilia della sua chiamata al Quirinale, Mario Monti ieri ha sondato di nuovo l'opposizione. Giornata lunga, per lui, cominciata al mattino con un colloquio, definito «informale», con lo stesso Bersani ed Enrico Letta, il vicesegretario del Pd, ricevuti nel suo nuovo studio di senatore a vita, a Palazzo Giustiniani. Poi, l'ex commissario europeo ha incontrato anche il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini e ha parlato al telefono con gli altri esponenti del Terzo polo, il presidente della Camera Gianfranco Fini e il fondatore di Alleanza per l'Italia, Francesco Rutelli.
Il bilancio finale per Monti è lusinghiero: dal Pd, infatti, ha avuto un sostanziale via libera. Bersani e Letta hanno rassicurato il premier in pectore: «Da noi lei deve sentirsi coperto, il Pd le lascia ampia libertà nella scelta della squadra». I Democratici, tradotto, non porranno paletti a un governo tutto composto da tecnici. L'incontro, però, si è chiuso in modo interlocutorio. Le condizioni poste a Monti da Silvio Berlusconi, infatti, come la presenza di Gianni Letta nel futuro esecutivo, non sono piaciute per niente ad Antonio Di Pietro: l'Idv nei giorni scorsi aveva già annunciato il suo «no» a una squadra di governo con «il Richelieu» del Cavaliere di nuovo in campo.
Nel pomeriggio, comunque, finita la seduta della Camera, Bersani ha incontrato per un'ora a Montecitorio lo stesso Di Pietro, incassando l'ok dell'Idv a dare la fiducia al «governo del Professore». Ma restano le distanze. Di Pietro, per esempio, vorrebbe conoscere una data certa di scadenza dell'esecutivo, per tornare a votare già nel 2012. «Per noi va bene se questo governo arriva fino al 2013», è la tesi invece sostenuta dai Democratici. Bersani però ha definito ugualmente «molto positivo» il faccia a faccia con il leader dell'Idv: «Ci è sembrato di cogliere una disponibilità...». Di Pietro, dal canto suo, ha ribadito che non accetterà mai Gianni Letta. «Noi — ha detto — aspettiamo con fiducia di vedere cosa vuole fare Monti, con chi e come». Insomma, se la squadra, il programma e la durata del governo fossero compatibili con le richieste dei dipietristi, sarebbe possibile il voto di fiducia. Altrimenti resterebbe l'appoggio esterno. La linea dell'Idv tuttavia si è notevolmente ammorbidita rispetto ai «niet» iniziali: «Possiamo arrivare a votare la fiducia a Monti se si fanno tre o quattro misure qualificate nel segno dell'equità sociale e se il governo di emergenza durerà finché deve gestire appunto l'emergenza», la sintesi efficace di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dell'Italia dei Valori. Dal Terzo polo, invece, sostegno assoluto: «Non c'è spazio per furberie e giochini sulle spalle degli italiani — ha detto Pier Ferdinando Casini, leader dell'Udc —. Bisogna dare vita a un nuovo governo e Monti è la persona giusta». Fiducioso anche Francesco Rutelli, dell'Api: «Domani (oggi, ndr) si aprirà una nuova era. Non avremo un governo delle opposizioni ma un governo di larga convergenza».

Corriere della Sera 13.11.11
Ma nel Pd dopo la festa è il momento dei timori per la linea dei sacrifici
Il segretario va in sezione: non svenderemo i valori
di Maria Teresa Meli


ROMA — C'è la soddisfazione, perché Berlusconi se n'è finalmente andato. Ma c'è anche la preoccupazione per l'avventura che il Pd si accinge a intraprendere. Pier Luigi Bersani, accompagnato da Enrico Letta, ha cercato di tastare il terreno con Mario Monti, per capire quali sono le sue intenzioni. Soprattutto sulle linee di politica economica. Il segretario ha avanzato le proposte del suo partito, ma non ha ricevuto risposta.
Su un punto, però, il leader del Pd è stato tassativo e dopo l'incontro ha confidato ai suoi di aver strappato almeno questa condizione: «Al governo devono esserci solo tecnici». E se il Pdl dovesse fare muro su Letta? Il «no» del segretario è stato netto. Ma se Berlusconi dovesse insistere veramente fino in fondo? Nel Pd ci si rende conto che non si può far saltare il tavolo del governo: bisognerebbe accettare, benché Di Pietro abbia già fatto sapere che su quel nome lui non può transigere. A quel punto per il Partito democratico potrebbe entrare Enrico Letta oppure Sergio Chiamparino e per il Terzo polo Rutelli.
Sono tanti i problemi che il Pd dovrà affrontare, esaurito l'entusiasmo della prima ora. C'è soprattutto una data che preoccupa Bersani e i suoi. Quella di gennaio, quando gli ammortizzatori sociali saranno esauriti. Allora nella Cgil, inevitabilmente, salirà la tensione. A largo del Nazareno si teme che una politica economica troppo dura crei dei problemi nei rapporti tra il partito, il sindacato e gli elettori. «Se pensano di toccare l'articolo 18, io e molti altri andremo in trincea», minaccia Cesare Damiano. E anche il responsabile economico Stefano Fassina è in allarme. Del resto, in questi giorni non ha mai fatto mistero di ritenere che «un governo d'emergenza non sia necessariamente meglio delle elezioni anticipate».
La paura di una politica «lacrime e sangue» è grande dentro il Partito democratico. E altrettanto forte è quella di non essere capiti dai militanti. Per questa ragione ieri Bersani è andato nella sezione del Pd di via dei Giubbonari, storica sezione del fu Pci. Il segretario vuole rassicurare il «suo» popolo e far comprendere a tutti che il partito non svenderà i propri valori imbarcandosi in questa avventura governativa. L'ansia di spiegare, smussare gli angoli e sopire sospetti e maldipancia è tale che l'altro giorno Bersani ha inviato una e mail a tutti i parlamentari per motivare la ragione del suo sì a Monti: in questa fase è più che mai necessario «un governo di emergenza per i cittadini e i lavoratori». Ha usato un lessico tipico del partito comunista, il segretario, pur di fugare le inquietudini dei suoi. Che sono molte. Persino un bersaniano come il presidente della Regione toscana Enrico Rossi appare molto prudente. Non dice di no al governo Monti, però ritiene che «se l'Italia fosse un Paese normale bisognerebbe andare al voto».
Ma nel Pd non c'è solo chi teme che questa avventura governativa finisca male. I massimi dirigenti, da D'Alema a Veltroni e Letta sono convinti della bontà di questa operazione. Quarantenni come Andrea Martella e Francesco Boccia, addirittura, esultano: «È come se fosse caduto il muro di Berlino, adesso finalmente ci divideremo non su chi è più antiberlusconiano ma sulle cose serie: sulla linea di politica economica e sociale». E in verità il Pd su questa materia si sta già dividendo: il dalemiano Matteo Orfini ha dichiarato che considererebbe una «provocazione» l'ingresso del senatore Ichino nel governo Monti e il veltroniano Tonini lo ha rimbeccato accusandolo di pronunciare «parole sconsiderate».
Ma nonostante le tensioni e le paure, Bersani, pur procedendo con i piedi di piombo, non si tira indietro. Nemmeno di fronte alle obiezioni di chi, come Arturo Parisi, ritiene che con l'esito di questa crisi siano «morte la politica e, forse, anche la democrazia». Sono dubbi che il segretario comprende, ma non condivide. Dubbi a cui replica con queste parole: «Non abbiamo abdicato alla politica: abbiamo messo sopra tutto gli interessi del Paese». E Bersani lo ha fatto sul serio, perché, come diceva l'altro giorno al Senato Marco Follini, «senza sprecare tempo e soldi, abbiamo fatto il congresso del partito». Una battuta che contiene una verità. Con il nuovo governo dei tecnici tramonta, senza bisogno di un congresso o delle primarie, l'ipotesi, osteggiata da una parte del Pd, di Bersani candidato premier: il segretario vi ha rinunciato pur di dare subito un governo al Paese. Alle prossime elezioni, chissà a chi toccherà... forse a quel Renzi che con il suo staff sta preparando la discesa in campo.

l’Unità 13.11.11
Riprendiamoci il campo. Migliaia davanti al Castello Sforzesco per dire «mai più Silvio»
Manifestazione di Cgil, Acli, Arci, Anpi, Popolo viola e le donne di “Se non ora quando”
Milano in piazza Pisapia: «È il giorno della speranza»
Milano in piazza il giorno delle dimissioni di Berlusconi con la manifestazione «Riprendiamoci il campo», organizzata dalla Cgil e da molte associazioni. Sollievo, ma anche tanta preoccupazione per quello che verrà.
di Laura Matteucci


«È un giorno di speranza che può alimentare finalmente una nuova realtà, il rilancio del Paese dal punto di vista economico, sociale e culturale. Ma non chiamiamolo governo tecnico: questo è un governo politico, che intende fare buona politica e non la macelleria sociale che avrebbe fatto Berlusconi». Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia è vicino alla testa del corteo della manifestazione «Riprendiamoci il campo», organizzata da Cgil, Arci, Anpi, Acli e decine di associazioni della società civile per chiedere un nuovo corso della politica, di fatto un’iniziativa di piazza che ha finito per svolgersi in contemporanea con le dimissioni di Berlusconi.
Ma non è solo un sentimento di festa e di liberazione quello che la anima. Troppa la preoccupazione per la situazione in cui il governo Pdl-Lega ci ha precipitati e per quello che verrà. Come dice Nando Dalla Chiesa, sociologo e parlamentare per tre legislature: «Da festeggiare c’è ben poco, però il sollievo almeno di poter affrontare i nostri problemi con persone serie quello non ce lo toglie nessuno». E Maurizio Martina, segretario del Pd lombardo, non la pensa in modo diverso: «È una giornata cruciale, e questa manifestazione incrocia due sentimenti: la preoccupazione per quello che abbiamo di fronte e la consapevolezza che comunque si sta compiendo il passaggio che aspettavamo da tempo».
In mattinata, sempre a Milano al teatro Manzoni, Giuliano Ferrara aveva radunato gli afecionados del pdl per dire no al governo Monti e chiedere elezioni immediate: gli avevano risposto in mille. Nel pomeriggio, per le strade del centro e fino a piazza Castello sfilano in migliaia, molti sotto le bandiere della Cgil arrivati da tutta la Lombardia a ricordare la centralità della questione del lavoro. Diecimila solo i cartellini rossi distribuiti, a significare che il tempo di gioco per Berlusconi e il suo governo è finito. Come scandisce qualcuno dal palco allestito davanti al Castello Sforzesco, «Riprendiamoci il campo, e soprattutto non molliamolo più».
VERE RIFORME
Pisapia riprende la parola: «L’Italia può farcela solo con un governo solido ed una maggioranza ampia e soprattutto con politiche che non facciano macelleria sociale ma garantiscano lavoro per i giovani e sviluppo per il Paese». Tra le «vere riforme» necessarie all’Italia, come le chiama, Pisapia ricorda una normativa sul conflitto di interesse, la patrimoniale, la lotta all’evasione, il taglio dei parlamentari e dei costi della politica, il ripristino di diritti che tutelino i più deboli, misure che consentano ai giovani e ai molti cittadini in difficoltà di sperare in un futuro migliore.
Poco lontano dal sindaco, passa Onorio Rosati, segretario della Camera del lavoro di Milano: «L’Italia delle persone oneste è in piazza per dire basta a Berlusconi e ai suoi, che si facciano da parte una volta per tutte dice È comunque un giorno di festa perchè se ne va a casa, anche se resta la grande preoccupazione perchè ha lasciato solo macerie. Non è la prima volta che il centrosinistra si trova a dover ricostruire il Paese».
Fra gli organizzatori anche il Popolo viola e le donne di «Se non ora quando?», scese in piazza in centinaia di migliaia dopo lo scandalo del bunga bunga. «Lui cade, ma i danni sociali, economici, culturali che lascia sono enormi, e la conta ancora continua dice per il movimento delle donne Assunta Sarlo Nè peraltro rassicura la stagione che si apre».
Dal palco in piazza Castello, prima di fare spazio alla musica, si sono alternati gli interventi di politici, del presidente dell’Anpi regionale Antonio Pizzinato, dell’attore Moni Ovadia, di esponenti della scuola, del mondo del lavoro, delle associazioni, a momenti di musica e letture di brani della Costituzione e riflessioni da Pericle a Gramsci, da don Milani a Jovanotti. Tutti con un filo conduttore: «Adesso che sta per finire, andiamo avanti senza abbassare la guardia».

il Fatto 13.11.11
Giorno di saldi e di commiati
di Furio Colombo


L’evento che porta in aula tutti i deputati sabato pomeriggio ha un titolo che descrive la solennità e l'importanza di ciò che accade oggi: "Voto sul bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2012 e di bilancio pluriennale per il triennio 2012-2014" e "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2012)". In aula la scena si compone e si scompone con un disordine diverso dal solito, che sfugge del tutto al tentativo del presidente Fini di condurre la seduta con un minimo di ordine. Quelli della Lega sono tutti seduti, una sorta di falange compatta, come organizzata da un regista, ma parlano tutti insieme a voce altissima, quasi solo insulti che non si capisce se sono diretti solo verso sinistra. Il settore di scena della Casa della Libertà sembra opera della Guzzanti: voltano la schiena all'aula, alla Presidenza e danno la caccia, indicando e gridando, ai " traditori". Disciplina, almeno dal punto di vista dello spettacolo, sui diversi lati della opposizione. Quelli di Fini voteranno a favore, come quelli della Udc, perché non si possano contare con esattezza i numeri di Berlusconi. Il gruppo di Di Pietro vota contro.
TUTTO IL PD e i Radicali non partecipano al voto restando in aula per non compromettere il numero legale. Nell'attesa dell'atto che dovrebbe chiudere e liquidare il governo, nell'emiciclo c'è un lungo passeggio, piccoli gruppi si formano, parole accennano a una celebrazione, cominciano con la frase "oggi però è diverso...", "Non avrei mai creduto" e si fermano. Oppure un improvviso "Ragazzi, come ci si sente?" "Eh no, uno si sente...", ma non si dice come, e tutto resta in sospeso. È come un cielo pieno di pioggia. O non succede niente o viene giù il mondo. Vedi Maroni seduto con i suoi della Lega, Tremonti al banco del governo, presente come per caso, uno che non c'entra con quel che succede intorno, Bossi sembra in attesa di un treno in ritardo, la testa un po' arruffata perché altri membri del governo lo urtano sbadatamente quando si stringono la mano davanti alla sua faccia o dietro la sua testa, Fini elenca nomi di altri deputati passati all'ultimo istante al Gruppo Misto e sembra un annuncio di treni in ritardo. Milanese viene a dire "Ragazzi, cambiamo i divani. Adesso noi ci riuniamo qui e voi vi prendete il nostro posto là in fondo (indica a destra)". La Mussolini passeggia di fronte al suo seggio come sulla porta di un basso ed è meglio non passarle vicino. Brunetta vorrebbe scherzare, ma dopo un po' si accorge che sta parlando da solo. L'on. Laboccetta si aggira orgoglioso. Vuole ancora raccontare di quella volta che ha salvato il computer dell'indagato Corallo durante una perquisizione, assicurando che era il suo, di un deputato, dunque intoccabile. Ma lo spirito dell'aula ormai si è spostato. La falange compatta della Lega grida all'improvviso "Elezioni!" scandendo le sillabe come in corteo. Poi ciò che resta del Pdl comincia a gridare " Silvio, Silvio" perché è entrato Berlusconi, la testa marrone che splende come un effetto speciale sotto i riflettori delle telecamere. Ma devono smettere perché è inevitabile, per i non credenti, sovrapporre con forza il grido di "Duce, Duce". Tanto più che Berlusconi, sporgendo il petto (che però è piuttosto la pancia) si è alzato per offrirlo alle telecamere del Tg1. Frattini, intanto, deve risalire due sedie (una la urta) per collocarsi vicino al capo. Tremonti, che è l'altro vicino, non saluta e non guarda il primo ministro. Bossi osserva sotto il ciuffo, ma non Tremonti. Soffia qualcosa alla Prestigiacomo che, si vede benissimo, non capisce e osserva perplessa l'alieno accanto. Berlusconi guarda Cicchitto che annuncia un grande complotto contro l'Italia e spiega – persino con pacatezza –, che è quel complotto (moneta, più governi, più speculatori, più banche, quasi tutte americane), non Berlusconi a mettere in pericolo l'Italia. Non ci crederete, ma a un certo punto chiede la parola Scilipoti. Anche l'imperturbabile Fini ha un soprassalto di sorpresa. Si fa silenzio in aula, un silenzio che in tutta la seduta non c'era mai stato. Che cosa dirà? Scilipoti ha coraggio. Annuncia un colpo di Stato, accusa una banda di mercenari. Ma il tema non facile gli fa perdere il filo e il presidente gli toglie la parola. Scilipoti è un uomo ostinato. La protesta è lunga e, benché senza microfono, l'eroe del Pdl arriva al punto da protestare con cartelli. Sta per essere espulso, ma cede prima del terzo richiamo.
OGGI, PERÒ, al pub Montecitorio può succedere di tutto, perché quelli del Pdl (ma non tutti) e quelli della Lega (tutti) si sentono ancora accampati in un loro territorio che non intendono condividere, come se fossero ancora al governo. Poi si vota. Ma c'è ancora una voce che vuole testimoniare, dopo il voto. È quella del deputato Antonione, che spiega come viene trattato un "traditore" nel giro "liberal" del Popolo di Berlusconi: "Fino a mettere in pericolo la mia vita", spiega il deputato e racconta i fatti. È bene che restino nei verbali della Camera, tanto più che i suoi ex colleghi hanno tentato in tutti i modi, con urla organizzate e prolungate, di non far sentire quel che stava raccontando sul regime appena finito.

il Fatto 13.11.11
Gli slogan che avanzano
di Marina Boscaino


A quanto pare, non avremo più modo di commentare fatti e misfatti di B&C. È un problema non da poco: dobbiamo proporre qualcosa di sensato, non ovvio, convincente, culturalmente significativo. Cominciamo sfatando qualche luogo comune, per esempio “nuovo”, “moderno”, aggettivi in nome dei quali sono stati compiuti i maggiori progressi e i più retrivi arretramenti della storia. Il problema nasce quando si è indotti a considerare la modernità aprioristicamente positiva, acriticamente vincente. Non è così. L’appiattimento su letture univoche – se non strumentali – del nuovo che avanza e la dismissione di tutto ciò che è “vecchio” rischiano inevitabilmente di liquidare elementi che possono, devono – continuare a spiegare la propria fondamentale valenza: tradizione, memoria, esperienza, autorevolezza. Per sua natura la scuola non può avallare una lettura del mondo che non transiti attraverso la lezione del passato, indispensabile strumento di interpretazione.
TUTTE LE volte che si è tentato di stratificarvi – spesso in modo pedestre, approssimativo, privo di valenze culturali significative – il must di una malintesa modernità, si è depauperato e non arricchito l’apprendimento. L’innovazione metodologica ha talvolta coinciso non con una riflessione profonda, ma con la deriva dell’approssimazione e del “didattichese”, incomprensibile ai più, possibilmente anglo-derivato. L’epica della modernità pervasiva ha legittimato il ricorrente battage pubblicitario, mistificato e mistificante, delle “nuove tecnologie”, per forza positive, efficaci, penetranti, significative. Lavagne digitali ed eBook sono gli ultimi suggestivi totem, esaltati senza seria riflessione e comparazione critica con le precedenti tecnologie; per di più senza che gli investimenti profusi abbiano riguardato davvero tutti, in modo da propiziare il confronto e le condizioni per un uso intenzionale e culturalmente significativo degli strumenti. La tecnicalità non è modernità. La modernità non è necessariamente positiva.
Speriamo che prima o poi qualcuno lo spieghi a Matteo Renzi che, quanto a sloganismo di maniera, sembra essersi avviato sulla strada più trita: che differenza c’è infatti tra il "Dare un futuro a tutti" del per forza “giovane” Renzi – grazie Crozza! – e le frasi a effetto con cui Berlusconi (quando ancora non eravamo, noi insegnanti, annoverati tra i nemici numero 1, tra i peggiori sovversivi affossatori della “buona novella”) tentava di incantarci nelle sue scenografiche campagne elettorali (salvo poi affossare la scuola più di quanto alcun governo abbia mai fatto in Italia )? Si tratta di una delle 100 idee per il “Big bang”, proposte alla recente convention fiorentina dai rottamatori raccolti intorno al sindaco di Firenze.
IL PROGRAMMA sulla scuola della sedicente new generation che si candida ormai esplicitamente come alternativa al vetero-Pd raccoglie una serie di formulette: prestigio e reddito agli insegnanti capaci, con revisione del reclutamento e premialità (facile: basta non intervenire su quanto ha già disposto Brunetta; e continuare ad omettere chi valuta e cosa valuta) ; eBook (ecco-li!) per tutti, con fornitura gratuita da parte del Miur dei dispositivi necessari per la loro lettura; 5 ore settimanali di inglese dalla quinta elementare (mentre tra i nostri ragazzi le competenze di letto-scrittura e di comprensione del testo in lingua madre diminuiscono ). E poi l’abolizione del valore legale del titolo di studio, che secondo l’avvocato Mauceri (Per la Scuola della Repubblica) “mette in discussione l'assetto istituzionale del sistema scolastico, perché comporterebbe una “liberalizzazione” (oggi molto di moda) dei percorsi formativi sul modello americano e si moltiplicherebbero i “progettifici”, senza un progetto culturale nazionale. La scuola del “fai da te”, proposta demagogica, apparentemente innovativa, in realtà vecchia e in contrasto con l'assetto costituzionale”.
Insomma, un pericoloso florilegio di amenità, probabilmente concepite per garantirsi visibilità, condite da modernità acritica e da ignoranza assoluta in merito a fini e problemi della scuola della Repubblica. O forse solo il solito trattamento riservato alla scuola, fanalino di coda alla quale possono riservarsi poche banalità, basta che sia? Qualunque sia la risposta a questa domanda, dobbiamo invece adoperarci per un cambiamento – necessario - della scuola fondato sulla ricerca e sullo studio, e perché il crollo del berlusconismo apra la strada all’abbandono della politica fatta di slogan: destinare capacità e approfondimento all’indagine di problemi e alla determinazione di prospettive; tornare ad elaborare e pensare in modo critico e divergente rispetto alle mode e alle seduzioni demagogiche del momento.

La Stampa 13.11.11
In Gazzetta Ufficiale le regole per ottenere il permesso di soggiorno
Ecco la patente a punti per diventare italiani
Due anni di tempo per “guadagnare” crediti
di Grazia Longo


Bocciatura automatica per chi raggiunge gli zero punti

Sì al permesso di soggiorno, ma a punti. Lo straniero che vuole coronare il sogno di vivere nel nostro Paese regolarmente, dovrà guadagnarsalo a suon di italiano corretto e conoscenza delle principali regole di educazione civica. Chi impara in fretta accumula bollini, chi no li perde. Il meccanismo è lo stesso della patente a punti e dei crediti universitari. Due anni, il tempo a disposizione per dimostrare di poter soggiornare tranquillamente in Italia. Cinque milioni, gli extracomunitari tirati in ballo da questa lotteria della legalità, pubblicata ieri sulla Gazzetta ufficilale. E che già scatena le polemiche di chi la ritiente una «iniziativa di matrice leghista».
Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci: «Il provvedimento ostacola ulteriormente il diritto degli immigrati ad ottenere un documento indispensabile. Di fatto contribuisce a creare cittadini di serie A e serie B». Al momento della richiesta della carta di soggiorno si ottiene un bonus di 16 punti, 30 quelli da raggiungere alla verifica, dopo due anni. I crediti potranno essere accresciuti o decurtati. Lo stabilisce il regolamento sulla disciplina dell’accordo di integrazione contenuto nel decreto del presidente della Repubblica.
La norma entrerà in vigore fra quattro mesi. A partire da quella data, l’immigrato che fa domanda per ottenere il permesso dovrà sottoscrivere contemporaneamente un accordo di integrazione con lo Stato, con il quale si impegna a maturare una conoscenza della lingua italiana parlata equivalente almeno al livello A2. Mentre al momento dell’iscrizione il livello attestato è A1. Dovrà inoltre dimostrare di conoscere i principi fondamentali della Costituzione, del funzionamento delle istituzioni pubbliche e della vita civile in Italia. Qualche esempio? L’organizzazione basilare di sanità, scuola, servizi sociali, lavoro e obblighi fiscali. Non solo. Lo straniero dovrà anche: garantire l’adempimento dell’obbligo di istruzione dei figli minori; assolvere gli obblighi fiscali e contributivi. Il banco di prova è un mese prima della scadenza biennale: lo sportello unico per l’immigrazione ne avvia la verifica invitando lo straniero a presentare, entro 15 giorni, la documentazione necessaria ad ottenere il riconoscimento dei crediti.
Chi non è in grado di esibire prove scritte, può chiedere di essere sottoposto ad un test ad hoc che verrà valutato dallo Sportello unico per l’immigrazione. Promosso solo chi otterrà un punteggio punteggio pari o superiore a 30. Rimandato, con la proroga di 1 anno, chi ha ottenuto crediti tra 1 e 29. Bocciatura assicurata per chi ha un credito pari o inferiore a 0. Per questi ultimi scatta, quindi, l’espulsione. Non basta, tuttavia, essere sufficientemente informati. I crediti vengono tagliati in caso di condanne penali, anche non definitive e sanzioni pecuniarie di almeno 10 mila euro.
Lievitano, invece, grazie alla partecipazione a corsi, il conseguimento di titoli di studio, onorificenze, svolgimento di attività economico-imprenditoriali. E ancora: attraverso la scelta di un medico di base, partecipazione ad attività di volontariato, sottoscrizione di un contratto di affitto o acquisto di una casa. Lo Stato, da parte sua, si impegna ad assicurare, entro un mese dalla stipula dell’accordo, la partecipazione gratuita ad una sessione di formazione civica e di informazione sulla vita in Italia della durata di un giorno. La buona volontà e l’impegno sono fondamentali: chi non seguirà quell’unico giorno di lezione si vedrà immediatamente cancellati ben 15 dei 16 punti inizialmente assegnati.

il Fatto 13.11.11
Staminali
Dal Vaticano: no alla ricerca

La distruzione anche di una sola vita umana non può mai giustificarsi in termini di beneficio che può plausibilmente portare a un'altra”. Così il Papa ha ribadito il no alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, che “nega l'inalienabile diritto alla vita di tutti gli esseri umani, dal concepimento alla morte naturale”.

il Fatto 13.11.11
La sinistra di papa Ratzinger
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, che cosa pensi dei marxisti che si sono schierati con Ratzinger teologo e docente della verità unica e rivelata e nemico assoluto del relativismo?
Severino

PENSO che la solitudine sia uno dei problemi più gravi della nostra epoca, non tanto e non solo nella vita di tutti giorni ma, in particolare, dentro ogni schieramento o gruppo detto, per una ragione o per l’altra, “di sinistra”. Mi pare di capire che coloro che si sentono o si dichiarano ancora “marxisti” siano ancora più soli. E poiché il marxismo, di cui non puoi parlare più con nessuno, non era una filosofia della discussione, ma la definizione di principi ritenuti scientifici, dunque ovviamente predicati per essere creduti, non per aprire il dibattito, si può capire il percorso. Questo potrebbe essere un modo un po’ banale, ma utile, per spiegare i pensatori marxisti e ratzingeriani. Però le persone in questione – Barcellona, Tronti, Sorbi e Vacca – non sono seconda fila e non si possono immaginare come parte di un pacchetto di viaggio in gruppo. Detto questo, il problema è di più difficile, non di più facile soluzione. Infatti, niente è più assoluto dell’assolutismo di Ratzinger. Nel suo insegnamento non c’è spazio per la minima flessione di principi rigidi e al di sopra di ogni negoziazione. Al punto che tutti devono credere e obbedire e far diventare legge dello Stato o proibizione assoluta il suo insegnamento (di Ratzinger, non della Chiesa, o almeno non della storia della Chiesa) oppure sono fuori. Ecco, credo che il timore di questo “fuori” e, più ancora, il senso di solitudine che si respira in aree che furono di sinistra, siano la grande spinta, più caratteriale che teologica, verso l’affollato vascello del Papa. Certo, molti si imbarcano solo per convenienza. Qui credo che la parola giusta, dopo tanto gelo nel “day after” del post-marxismo, sia consolazione. La consolazione, comprensibile e umana, di essere parte, con qualcuno, di qualcosa. Era da tanto tempo che un marxista non poteva concedersi questa consolazione. Così tanto che si può spiegare (o almeno capire) l’inspiegabile.

Repubblica 13.11.11
"Bebè in provetta, è colpo di mano" nuovo stop alla diagnosi preimpianto
Roccella: era già vietata. I ginecologi: falso, la fanno in tutta Italia
Le nuove linee guida firmate dal sottosegretario in extremis. I radicali: norme illegittime
di Caterina Pasolini


ROMA - «Prima di crollare questo governo cerca con un colpo di mano di vietare la diagnosi preimpianto sugli embrioni. In barba alla legge, alle sentenze del Tar e della Consulta». È Filomena Gallo, avvocato, presidente dell´associazione Luca Coscioni, da anni in prima linea in difesa di coppie con malattie genetiche, a far divampare la polemica in un pomeriggio in cui l´attenzione è tutta rivolta alle ultime ore di Berlusconi premier.
Secondo l´esponente radicale le nuove linee guida sulla fecondazione assistita, inviate ieri al Consiglio superiore di sanità, prevedono il divieto alla diagnosi preimpianto. Non tarda la risposta del sottosegretario alla Salute Roccella: «La diagnosi preimpianto è vietata dalla legge 40 sulla fecondazione assistita, non c´è niente di nuovo».
Una frase che tra stupore e sdegno provoca reazioni a catena. Tra medici del calibro di Carlo Flamigni e avvocati che citano sentenze contrarie alle parole del sottosegretario, raccontano dei centri dove questi esami si fanno abitualmente, circa cento l´anno, mentre in Toscana si studia una convenzione. Perché chi ha problemi di salute non debba pagare 3mila euro a diagnosi oltre alla fecondazione assistita.
«Abbiamo appreso che le nuove linee guida della legge consegnate al Consiglio superiore di sanità sono illegittime sul piano scientifico e giuridico. Vieterebbero infatti le indagini cliniche sull´embrione restringendo l´applicazione di tecniche consolidate». Non ha dubbi l´avvocato Gallo, secondo lei la diagnosi è consentita proprio dagli articoli 13 comma 2 e 14 comma 5 della legge 40. «Prevedono che la coppia possa chiedere di conoscere lo stato di salute dell´embrione e poi ci sono 10 sentenze che confermano questa interpretazione».
Sulla stessa linea l´avvocato Costantini, che con le associazioni Hera e Cittadinanza attiva ha curato e vinto i ricorsi contro il divieto alla diagnosi. «Con la sentenza del Tar del Lazio del 2008 e con quella della Consulta del 2009 è stato possibile aumentare il numero degli embrioni prodotti aprendo la strada alla diagnosi pre impianto che altrimenti non avrebbe avuto alcun valore medico».
Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella non ci sta. «Nelle nuove linee guida io ho solo accolto le direttive europee sulla tracciabilità delle cellule e dei tessuti, sul funzionamento dei centri per la fecondazione assistita. Di diagnosi non mi sono occupata. È già vietata dalla legge 40 che impedisce qualunque intervento che non sia indirizzato al bene dell´embrione. E le sentenze del Tar o della Consulta non cambiano la legge».
Contestano le certezze del sottosegretario medici come Carlo Flamigni, pioniere della fecondazione assistita, ed Ettore Cittadini, membro della Consiglio superiore di sanità che dovrà valutare le nuove linee guida: «Nella legge 40 non c´è un impedimento preciso alla diagnosi. Tanto che nel mio centro a Palermo lo facciamo alle coppie con talassemia». Lo stesso succede a Bologna, nella clinica diretta da Andrea Borini. «Mai avuto problemi, Nessuna denuncia. Quello che mi stupisce casomai è che nessuno protesti contro uno Stato che non passa questi esami. Anche perché chi vi si sottopone non lo fa per avere un figlio biondo o con gli occhi blu, ma per non trasmettere gravi malattie». 

La Stampa 13.11.11
Ministri, nella lista tre poltrone “pesanti” per il mondo cattolico
Riconoscimento alla Chiesa per il ruolo nella caduta del governo
di Fabio Martini


Michele, il fidatissimo chef ciociaro di Berlusconi, ha dovuto cucinare quello che resterà l’ultimo pranzo a Palazzo Chigi del Cavaliere per un ospite molto particolare: il più probabile successore del suo capo. Per due ore Mario Monti è stato ricevuto a Palazzo Chigi (e non a Palazzo Grazioli) da Silvio Berlusconi nel corso di un pranzo che è servito a chiarirsi le idee, spianare gli ultimi ostacoli verso la nascita del nuovo governo. Il pranzo tra un premier ancora in carica e uno in pectore è stata una delle tante originalità di una crisi politica che, oramai da mesi, sta cambiando la Costituzione materiale del Paese.
Nel corso della giornata di ieri Mario Monti, ad appena 24 ore dalla sua prima giornata da senatore a vita, ha impresso una decisa accelerazione in vista del conferimento dell’incarico del Capo dello Stato, svolgendo quel giro esplorativo tra i potenziali leader della maggioranza che di solito viene compiuto non prima ma dopo il mandato presidenziale. Prassi inedita, imposta dalla emergenza-mercati: il Quirinale vorrebbe che nel corso della giornata di domani, alla riapertura delle Borse, l’Italia avesse già un nuovo governo, che abbia espletato la prima formalità, quella del giuramento dei ministri.
Proprio per evitare vuoti di potere, Monti si è imposto una giornata da politico a tutto tondo: in mattinata si è incontrato con Pier Luigi Bersani, a pranzo si è visto con Silvio Berlusconi e nel pomeriggio ha avuto colloqui con Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Francesco Rutelli, in altre parole con tutti e cinque i leader del «pentapartito di unità nazionale». Un lavoro di bulino, che spesso viene esercitato dagli sherpa appositamente incaricati e che invece Monti ha dovuto svolgere in prima persona. Col macigno di Gianni Letta da rimuovere, una grana aggravata dal fatto che il «Richelieu» di Berlusconi ha partecipato al pranzo nel quale Monti ha dovuto comunicare che non c’erano i margini per quella soluzione.
Nel corso della giornata Monti ha proseguito anche il lavoro di composizione della sua squadra, nel caso in cui oggi venisse incaricato di formare il nuovo governo. Un lavorio che dura da diversi giorni e che si è andato componendo secondo lo schema di gioco iniziale: quello di un governo di soli tecnici. Uno schema che nei giorni scorsi era stato condiviso da Pdl e Pd ma che nelle ultime ore ha vacillato per effetto della pressione del Popolo della libertà a favore di Gianni Letta, ma che alla fine ha tenuto. I ministri con portafoglio saranno dodici come imposto dalla riforma Bassanini, ma quasi certamente se ne aggiungeranno uno o due senza portafoglio, con una drastica riduzione rispetto agli attuali dieci. Forte dimagrimento anche per quanto riguarda i sottosegretari: anche questi tutti tecnici, dovrebbero essere non più di venticinque.
Interessante anche la filosofia che presiede alla struttura del governo. Molta attenzione al mondo cattolico, che dovrebbe contare due, forse tre ministri chiaramente identificabili. Un’attenzione che sarebbe semplicistico etichettare come «quota Todi», ma che ha due motivazioni. Anzitutto il riconoscimento, certo non esplicito, al contributo che la Chiesa italiana ha dato all’erosione culturale e alla fine anche politica del berlusconismo. Ma c’è un motivo in più: Oltretevere guardano con interesse ma, per ora, senza particolare afflato all’operazione-Monti. Come dimostra quanto scrive il direttore di «Avvenire» Marco Tarquinio: «Non serve solo “tecnica”, ma anche moltissima buona politica» e in ogni caso «l’Italia nonpuò essere commissariata da qualcuno o qualcosa». Dovrebbero entrare nel governo Monti, come Guardasigilli il professor Cesare Mirabelli (docente alla Lateranense e consigliere generale presso la Città del Vaticano), ma anche Stefano Zamagni, bolognese, vicino a Romano Prodi, che ha collaborato alla stesura della enciclica «Caritas in veritate». In corsa anche il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi. In alternativa a Zamagni - più difficile, ma non impossibile - l’ingresso di Andrea Riccardi, leader della Comunità di Sant’Egidio, mentre sono in caduta le azioni di Umberto Veronesi, una sorta di «uomo nero» per Santa Romana Chiesa.
Per quanto riguarda il comparto economico, la candidatura di Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia, si sarebbe indebolita per effetto della contrarietà del centrodestra, ma da via Nazionale potrebbe arrivare lo stesso un ministro, meglio una ministra: Anna Maria Tarantola, il cui nome era entrato nel toto-governatore dopo la nomina di Mario Draghi alla Bce. La Tarantola potrebbe andare allo Sviluppo economico. Per quanto riguarda il ministero-chiave, l’Economia, suspense fino all’ultimo. Potrebbe essere lo stesso Monti a tenere per sé l’incarico con un interim, ma il presidente della Bocconi potrebbe chiedere di occupare quella poltrona a Guido Tabellini, dal 2008 rettore alla Bocconi. Molto probabile anche l’ingresso di Giuliano Amato, da tre anni e mezzo non più parlamentare e presidente della Treccani: per lui si continua a ipotizzare un incarico da ministro degli Esteri. Alla Difesa resta forte la candidatura del generale Rolando Mosca Moschini. Come sottosegretario alla presidenza, il favorito è Enzo Moavero Milanesi, già capo di gabinetto di Monti a Bruxelles e prima, consigliere a Palazzo Chigi di Amato e Ciampi.

l’Unità 13.11.11
Intervista a Nichi Vendola
«Festa dimezzata. Il Pd vigili sulle scelte del governo Monti»
Il leader di Sel a Pechino, segue dal web: «La gente in piazza mi emoziona, ma il berlusconismo resta ed è una minaccia incombente per il Paese»
di Andrea Carugati


È una festa dimezzata, o forse rinviata. Berlusconi esce da Palazzo Chigi ma il berlusconismo è saldamente insediato nelle istituzioni e nel potere, l’Italia non si sta ancora congedando da un ciclo politico-sociale durato 15 anni e che avrebbe meritato di arrivare al naturale punto di consunzione attraverso il voto democratico». Nichi Vendola risponde al telefono da Pechino, dove è in missione con una delegazione di imprenditori pugliesi.
Eppure le immagini dal Colle e da Palazzo Chigi mostrano un popolo in festa.
«Ho visto su Internet le immagini dei cori di “Alleluia” al Quirinale e mi sono emozionato. Mi unisco a quei cori, ma non dimentico che il berlusconismo è ancora una minaccia incombente sulla vita del Paese. È un’uscita da palazzo Chigi, non un’uscita di scena. Il Cavaliere viene messo alla porta da banche e mercati, e non dalle opposizioni. È il liberismo che si libera dal populismo. E poi: è credibile un governo di discontinuità che abbia come vicepremier una persona come Gianni Letta, che è stato l’ombra del Cavaliere? Il Pdl deve fare un passo indietro radicale».
Come giudica il passaggio a un governo tecnico, di larghe intese?
«Mi inquieta la ricerca di soluzioni extrapolitiche, l’invocazione, che leggo da tante parti, di un demiurgo dotato di poteri quasi sovrannaturali, l’evocazione della Tecnica come medicina necessaria per curare i dolori del Paese. C’è il rischio di un suicidio della politica. E un clima di intimidazione che colpisce chiunque osi mettere paletti: io sono stato insultato in tv, Di Pietro è stato fatto oggetto di un assedio».
Un giudizio molto severo.
«Mi aggrappo con tutta la forza ad una parola chiave usata da Bersani e da Susanna Camusso: discontinuità. Se un governo di transizione serve per fare il primo passo in questa direzione, allora evviva».
Cosa dovrebbe fare il nuovo governo?
«Bisogna intervenire sulla struttura della ricchezza, non solo per ragioni di giustizia sociale, ma anche per stimolare la crescita e ridurre il debito. Noi lo sosterremo se sarà un governo di scopo e a termine: tre mesi per fare la patrimoniale, tassare le rendite e tagliare le spese militari».
Più che il programma del governo Monti sembra quello di Vendola candidato alle primarie...
«Non sto pensando a me o alle primarie, ma alle necessità vitali del Paese. E la vera emergenza sono povertà e precarietà. O si colpiscono i ricchi o i poveri: tertium non datur. E se si colpiscono i ricchi sarò il più appassionato sostenitore del governo. Non mi voglio mettere pregiudizialmente di traverso. Ma il governo di transizione, per tre mesi, deve servire a mettere in campo i binari per una discontinuità. Il centrosinistra, quando vincerà le elezioni, sarà il treno che camminerà su quei binari».
Solo tre mesi?
«Non ci vuole più tempo per fare queste cose».
E poi che succede?
«Si può votare nella primavera 2012».
Con quale legge elettorale?
«Non vorrei che questo tema servisse per menare il can per l’aia. Per tornare il Mattarellum bastano due giorni di lavoro in Parlamento. Così si dà una risposta a chi ha firmato i referendum, e si salvano il pluralismo e le coalizioni».
Che rischi vede per il Nuovo Ulivo in questo passaggio?
«Se il governo Monti farà cose di destra, il rito di sepoltura del nuovo Ulivo sarà immediato. Penso ad esempio a norme per rendere più selvaggio il mercato del lavoro. Ma non credo che accadrà, perché ho visto molta determinazione in Bersani».
Anche quelle norme fanno parte delle richieste dell’Europa.
«Non si parli genericamente di Europa, ma di governi di destra che chiedono cose di destra».
Tutto il suo ragionamento porterebbe a un “no” al nuovo governo. Quanto le costa la non belligeranza verso Monti?
«I miei alleati, a partire dal Pd, hanno deciso di investire sulla personalità di Monti per una fase di decongestione della vita politica per uscire dal tunnel e dare segnali di speranza e di decoro. Per questo, in coscienza, ho deciso di non avere atteggiamenti pregiudiziali. Mi sento vincolato alla foto di Vasto e all’immensa speranza che il Nuovo Ulivo ha creato nel Paese».
Si parla di Monti anche come prossimo candidato del centrosinistra. «Mi sembra fantapolitica. Il centrosinistra farà le primarie, quella via è segnata. La sinistra dovrebbe smettere di camuffarsi e di delegare e candidarsi a governare.
Nel caso, Monti dovrebbe candidarsi alle primarie?
«Non ha il phishique du role per le primarie. E poi, mi creda. Non ci sarà un centrosinistra tecnocratico, semmai un centro di quel tipo e una grande sinistra».
E il Pd dove starà?
«Spero che starà dove ha cercato di portarlo Bersani, a organizzare un’alternativa reale».

il Fatto 13.11.11
Pressione nucleare
Ex capo del Mossad: “Bibi è ossessionato dall’attacco all’Iran”


Sono 17 le persone morte ieri per l’esplosione avvenuta in un deposito di munizioni di una base militare dei Guardiani della Rivoluzione a ovest di Teheran, a circa 40 chilometri dalla capitale. Panico nel mondo, ma il nucleare non c’entra nulla. Nel frattempo il segretario di Stato americano Hillary Clinton ha intimato all’Iran di fornire risposte entro i prossimi giorni al rapporto dell’Aiea che accusa Teheran di volersi dotare di armi nucleari. di Ronen Bergman e Juliane von Mittelstaedt Da mesi l’ex capo del Mossad, Meir Dagan, fa di tutto per sventare la prospettiva di un attacco contro l’Iran che a suo giudizio potrebbe tradursi in una catastrofe. Ovviamente le sue dichiarazioni hanno mandato su tutte le furie il premier Netanyahu. Ma Dagan non molla: “Dobbiamo pensare a quello che succederebbe il giorno dopo”, dice. Secondo voci che circolano in Israele, mercoledì scorso alcuni caccia israeliani avrebbero eseguito esercitazioni sulla Sardegna.
NELLE STESSE ORE giungeva notizia di progetti della Gran Bretagna: inviare navi di guerra armate di missili cruise nel Golfo Persico e nel mare arabico. Siamo in presenza di una semplice guerra psicologica o Israele intende davvero attaccare l’Iran? O si tratta di pressioni esercitate sugli Stati Uniti e l’Europa? In settimana l’Aiea dovrebbe confermare per la prima volta che l’Iran starebbe effettuando esperimenti allo scopo di costruire una bomba nucleare. Non è possibile al momento escludere nessuna ipotesi. Israele ritiene di avere al massimo 9-12 mesi per bloccare militarmente il programma nucleare iraniano. Secondo gli Stati Uniti i mesi di tempo sono 18-21. In Israele il dibattito sull’opportunità di lanciare un attacco aereo è più aperto che in passato. Non solo sono i giornalisti a occuparsene, ma anche uomini politici, vertici militari, funzionari sei servizi. Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth è uscito con un titolo a caratteri cubitali: “Pressione atomica”. E l’editoriale iniziava con queste parole: “Il primo ministro e il ministro della Difesa hanno già deciso di attaccare le installazioni nucleari iraniane? ”. E qui entra in gioco Dagan che per otto anni è stato ai vertici del Mossad dove lo chiamavano “l’uomo con il coltello tra i denti”. Ma dal 6 gennaio 2011 il taciturno Dagan ha deciso di uscire allo scoperto. Il giorno in cui ha lasciato l’incarico, per la prima volta ha convocato i giornalisti nella sede del Mossad e ha detto che gli iraniani avrebbero messo a punto una bomba nucleare non prima della metà del decennio in corso e che quindi un attacco al momento appariva insensato. Un attacco avrebbe potuto avere conseguenze tremende e spingere l’Iran ad accelerare la corsa agli armamenti. Per non parlare della possibilità di ritorsioni con il lancio di missili da nord per mano di Hezbollah e di Hamas. Alla fine di quella conferenza stampa un funzionario del Mossad disse ai giornalisti presenti che non potevano pubblicare nemmeno una parola di quanto avevano sentito.
Il fatto era clamoroso: per la prima volta nella storia di Israele il capo dei servizi dichiarava pubblicamente di non fidarsi del suo governo e di temere che avrebbe potuto trascinare il Paese in una guerra inutile e dagli esiti imprevedibili. Comunque sia, se Dagan ha detto il vero il primo ministro Netanyahu e il suo ministro della Difesa hanno veramente intenzione di attaccare l’Iran. Malgrado i tentativi di censura le parole di Dagan sono finite sui giornali. Ma Dagan ormai è un fiume in piena e interviene su tutti i temi politici caldi. Ha definito un “grave errore” la liberazione di oltre mille prigionieri in cambio di Shalit, ha criticato il governo per il suo rifiuto di negoziare con i palestinesi, per il peggioramento delle relazioni diplomatiche con la Turchia e il crescente isolamento di Israele. Alcuni lo considerano un eroe, altri un nemico dello Stato. È stato costretto a restituire il passaporto diplomatico e alcuni politici di destra hanno chiesto la sua incriminazione.
Dal canto suo il premier Netanyahu è impegnato a fugare l’impressione che ci sia ancora molto tempo a disposizione per impedire all’Iran di costruire una bomba nucleare. Per Netanyahu la bomba nucleare in mano all’Iran è un evento paragonabile all’Olocausto.
MA CHI È DAGAN? È nato nel gennaio 1945 su un treno merci in viaggio dalla Siberia alla Polonia. A 26 anni comandava una unità speciale dell’esercito israeliano ed era noto perché “non faceva prigionieri”. Durante tutta la sua permanenza ai vertici del Mossad ha tenuto una foto nel suo ufficio: la foto ritraeva un anziano ebreo con la barba in ginocchio con le mani alzate e un ufficiale delle Ss che gli puntava la pistola in testa. “Era mio nonno. Fu assassinato dai nazisti il 5 ottobre 1942”. In realtà molti israeliani sono convinti di essere parenti dell’uomo ritratto nella foto, ma Dagan è certo di avere ragione e, non diversamente da Natanyahu, considera Ahmadinejad il nuovo Hitler. Secondo Dagan, Netanyahu è incapace di governare il Paese che è più forte che mai militarmente, ma ha leader politici inadeguati al compito. Sempre secondo Dagan, Netanyahu ha un’unica ossessione: l’Iran. “E per raggiungere lo scopo di attaccare l’Iran, il premier e il suo ministro della Difesa Ehud Barak stanno tentando di soffocare tutte le voci critiche”. A giudizio di Dagan, Netanyahu e Barak vogliono decidere senza coinvolgere il resto dell’esecutivo. Comunque sia Dagan è deciso a portare avanti la sua lotta solitaria: “Continuerò a parlare. Costi quel che costi”.

© 2011 Der Spiegel Distributed by The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto 

l’Unità 13.11.11
Io e mio fratello Sigmund
Un ritratto inedito di Freud dal punto di vista della sorella Adolphine
È l’esordio di Goce Smilevski
di Michele De Mieri


La sorella di Freud, Goce Smilevski, traduzione di Davide Fanciullo pagine 334, euro 18,00 Guanda

Nella Vienna occupata dai nazisti, a Sigmund Freud è concesso il privilegio di fuggire all’estero, portando con sé i propri cari, ma non le quattro anziane sorelle. È la voce di Adolphine, deportata, a rievocare il rapporto privilegiato col fratello.

Se come il sottoscritto vi siete annoiati, contrariamente alle attese, col recente Freud cinematografico versione Cronenberg, potete rimediare con un romanzo che soddisfa più curiosità e genera più domande sulla figura del padre della psicanalisi di quanto non faccia il piatto racconto cinematografico.
La sorella di Freud è stato scritto da un esordiente autore macedone, Goce Smilevski classe 1975; il libro uscito in Macedonia nel 2007 viene notato da Zadie Smith che ne inserisce un estratto nel volume Best European Fiction 2010. Presto i diritti vengono acquistati in moltissimi paesi, versione cinematografica inclusa. Questo per dire che un buon romanzo scritto in una lingua minore può impiegare, se tutto va bene, tre o quattro anni per arrivare in lingue di paesi non lontanissimi. La sorella di Freud in questione, fra le quattro, è Adolphine «la vecchietta persa nei ricordi», come lei stessa si auto presenta nelle prime battute della storia da lei narrata.
Siamo a Vienna nei giorni post Anschluss e Sigmund Freud, insieme ad una carovana di parenti vari (cane compreso), riesce a partire da Vienna per Londra, lasciando intrappolate le sorelle che periranno presto nei campi di sterminio nazisti; il romanzo ci parla di Adolphine, in particolare dei sentimenti e dei risentimenti di casa Freud e poi, più in generale, di un’esistenza viennese al culmine del mito asburgico fino ai disfacimenti prima del conflitto mondiale ’14-18, poi della piccola Austria inghiottita dal mito tedesco. Fra tutti i risentimenti familiari primeggia una sorta di litania che la madre di Adolphine le riserva per alcuni decenni: «Sarebbe stato meglio se non ti avessi partorito».
È un Freud che legge gli interventi di Thomas Mann. Ha ottantadue anni e come una corte gli è schierata intorno una folta famiglia, amici e allievi. Le pagine più belle sono quelle in cui Adolphine cerca di fargli capire che se vengono lasciate lì sarà la fine, ma il genio sicuramente stanco, forse troppo preso dai suoi ultimi scritti, non sente. Pochi mesi dopo Freud morirà a Londra e nel giorno in cui le sorelle lo vengono a sapere Adolphine perde anche l’amica di una vita, Klara Klimt (sorella del pittore), poco dopo arriverà la deportazione e l’epilogo, il 29 settembre 1942 a Terezin.
DIALOGO A DISTANZA
Mentre il gas comincia a fuoriuscire dalle ingannevoli docce ad Adolphine scorre tutta la vita davanti: la vita in famiglia, il legame da piccoli fra lei e Sigmund, le illusioni amorose, l’incontro con Klara e poi gli anni di auto reclusione al Nido, il manicomio di Vienna diretto dal dottor Goethe che rifiuta molte delle idee di Freud sulla follia.
Adolphine tesse un dialogo minuzioso con lo sviluppo delle idee del fratello, ne illustra i punti di partenza negli studi e nella vita reale, le diramazioni culturali fra Nietzsche, Gerard de Nerval, Holderlin, Schopenhauer. Accompagna il fratello, che oramai vede pochissimo, in un dialogo con il suo pensiero che è anche una forma di accudimento estremo. Nei sette anni dell’internamento volontario Adolphine assiste alle patologie dei ricoverati del Nido, vede quei corpi che muoiono nella stanza dei terminali: si sono come divisi le sofferenze, il fratello gli incubi della psiche, la sorella gli strazi del corpo.
È bravo, credibile e documentato Smilevski nel racconto di questa donna intelligente e poco toccata dalla felicità, mette a frutto nel romanzo la sua conoscenza della cultura asburgica, tenendosi bene in equilibrio fra la dimensione inventivo romanzesca e quella saggistico esplicativa.

Corriere della Sera La Lettura 13.11.11
L'Anticristo abita in America
Una figura centrale dell'immaginario apocalittico, oggi dimenticata in Europa, dopo la Riforma si è trasferita nel Nuovo Mondo. Dov'è tuttora viva e vegeta
di Marco Rizzi


«Gesù Cristo è Dio, Obama è l'Anticristo». In Europa, un simile slogan farebbe ridere. In America, il presidente ha sorriso, ma ha ribattuto serio: «Concordo che Gesù è il Signore». La risposta non è banale: nelle Lettere di Giovanni, Anticristo è chi nega che Gesù sia il Signore. Non deve sorprendere la precisione di Obama: negli Stati Uniti, Bibbia ed escatologia sono molto presenti nel dibattito pubblico, a differenza di quanto accade in Europa. Per indagare le ragioni di questa divaricazione, occorre dunque seguire l'Anticristo nelle sue migrazioni.
Intorno al 170 d.C., ad opera di Ireneo di Lione, l'Anticristo assunse il volto del persecutore dei tempi finali, che dopo aver ricostruito il tempio di Gerusalemme sarebbe stato annientato dal ritorno di Cristo. Ireneo fuse in una sola le varie figure apocalittiche: il drago, l'empio, la bestia. Gli autori successivi moltiplicarono i dettagli del ritratto, aggiornandolo al mutare dei tempi.
Nel XII secolo, Gioachino da Fiore slegò la geografia dell'Anticristo da Gerusalemme, collocandone le gesta nel cuore della cristianità: a Roma. Voleva forgiare monaci che sostenessero il Papa nel vicino scontro con l'Anticristo, identificato con l'imperatore o il Saladino o i catari, e impedissero l'inaudito: che l'Anticristo non solo insidiasse il Papa, ma si insediasse al suo posto, attuando il più terribile inganno. Pochi decenni dopo, Federico II rovesciò la prospettiva; gli eruditi della sua corte decifrarono il numero della bestia: il 666 dell'Apocalisse indicava Innocencius papa, (Innocenzo III, avversario dell'imperatore). Un'arma polemica era pronta per tutti gli avversari del papato sino a Lutero, quando, ancora una volta, sembrava giunto il tempo ultimo: bisognava smascherare e combattere il nemico finale, il Papa e la Babilonia romana o Lutero e i suoi sgherri, a seconda del punto di vista.
Le rivolte contadine e anabattiste imposero cautela nel maneggiare un immaginario rivelatosi esplosivo. Calvino commentò tutta la Bibbia, non l'Apocalisse; la Chiesa romana al Concilio di Trento eliminò l'Anticristo dal suo vocabolario. La vicenda europea si consumò in Inghilterra; per motivare l'esecuzione di Carlo I nel 1649, William Aspinwall lo definì il «piccolo corno della bestia» del libro di Daniele; ma il rifiuto di Cromwell di seguirne il radicalismo apocalittico mostrò che il futuro dell'Anticristo era altrove.
Già i primi frati missionari in America Latina avevano rinnovato la topografia degli ultimi giorni: Francisco de la Cruz annunciò l'imminente castigo dell'Europa e la fuga del pontefice a Lima, la nuova Gerusalemme. Fu però l'America settentrionale a offrire stabile dimora all'Anticristo. Esuli dall'Inghilterra, i puritani vi portarono il loro afflato escatologico, avviando un'ininterrotta indagine sui segni della sua venuta dalla nuova prospettiva storico-geografica. Nel 1793, David Austin identificò nei neonati Stati Uniti la «pietra staccatasi dalla montagna» che atterra la statua del sogno di Nabucodonosor nel libro di Daniele: a breve, il ritorno di Cristo avrebbe inaugurato il regno universale, non più di Dio, bensì degli Usa, portatori di libertà e giustizia.
Lì, non si è mai interrotta l'attesa della fine: nuove rivelazioni si aggiungono alle antiche profezie, indifferenti alle puntuali smentite, sino all'identificazione del marchio della bestia nel codice a barre dei supermercati. Ne risente la cultura di massa, da Rosemary's Baby di Polanski alla trilogia anticristologica inaugurata nel 1976 da The Omen, al rovesciamento del racconto biblico in 2012 di Emmerich, dove i salvati non sono i giusti, bensì altrettanti anticristi che hanno tenuto all'oscuro dell'imminente fine del mondo il resto dell'umanità.
Nel 1927, Oswald Smith pubblicò a New York Is the Antichrist at Hand?, in cui si domandava se Mussolini fosse l'Anticristo o solo un precursore, ma annunciava la fine per il 1933. In quell'anno sinistro, alla domanda se Hitler fosse l'Anticristo, Dietrich Bonhoeffer rispose che era cosa troppo seria per riferirla ad un politico, fosse pure Hitler. Nel 1931, era apparso il romanzo Gog di Giovanni Papini: qui l'ultima incarnazione dell'Anticristo è un meticcio americano, nato alle Hawaii. Curiosamente, un personaggio che assomiglia a Obama.

Corriere della Sera La Lettura 13.11.11
Quando la scienza diventa teologia
E Hawking sembra Philip Dick
di Sandro Modeo


Le teorie cosmologiche recenti conducono in territori vicini al mito Ma così Penrose non si distingue più da Murakami

In Gioventù bruciata di Nicholas Ray (1955) si spalanca, come un film nel film, la grande scena dell'Osservatorio: la scena, cioè, in cui i volti degli studenti (ridacchianti per esibire un distacco esorcistico) si fermano in uno stupore angosciato, rischiarati dai bagliori rossastri del crash trascorrente sullo schermo, quello della Terra inghiottita dal Sole, fra 5 miliardi di anni; il tutto mentre la voce dell'anziano professore ricorda come in quest'ottica i «problemi dell'uomo» siano «del tutto insignificanti» e l'uomo stesso «un episodio di scarso rilievo».
Per molti di noi, quello stupore viene via via solo addomesticato, non reciso per sempre: tra le pieghe della quotidianità, capita di reinterrogarsi sull'origine e la fine dell'universo o sul senso ultimo delle cose, specie se non ci si accontenta delle protesi filosofiche o religiose. Ed è proprio la diffusione di questa «domanda» a giustificare la fortuna dell'«offerta» più cool della scienza contemporanea: un mix di fisica, cosmologia e astrofisica in cui si promette al lettore una descrizione-spiegazione totalizzante dell'universo, fino alla risoluzione di certe domande primarie (perché esiste «qualcosa anziché il nulla», per citare il titolo del cosmologo Mario Novello).
Dopo la «Teoria del tutto» (tesa a unificare le forze fondamentali) e quella delle «stringhe» (ipotetiche strutture sub-atomiche in grado di conciliare meccanica quantistica e relatività), si è approdati di recente a teorie cosmologiche estese, che per andare oltre il Big Bang e il Big Crunch — la genesi e il collasso finale del «nostro» universo — hanno condotto la fisica e la cosmologia in regioni più prossime alla teologia o al mito, se non sul bordo di derive new age. In un quadro simile è difficile, per un lettore non specialista, distinguere tra ipotesi spericolate come quella di Roger Penrose (il susseguirsi di universi infiniti chiamati «eoni», termine usato in geologia ma anche nei visionari sistemi gnostici) da teorie più rigorose e perimetrate come quella di Martin Bojowald, in cui il Big Bang sarebbe la fase di «rimbalzo» di una contrazione-addensamento della materia cosmica.
Il nucleo del problema — ben riassunto in un libro in uscita l'anno prossimo dell'inglese Jim Baggott, sintomatico già dal titolo: Farewell to Reality, «Addio alla realtà» — è la progressiva divaricazione, in fisica e in cosmologia, tra le astrazioni (filosofiche e matematiche) e l'evidenza sperimentale. Attaccando molte star della disciplina (da Barrow a Hawking) e molte teorie controverse da lui inscritte in una fisica «fiabesca» (a partire proprio dalle «stringhe»), Baggott ha il merito di restituirci a un universo non solo ordinato e simmetrico, ma anche casuale e distruttivo, un universo la cui «eleganza» (per richiamare il geniale libro di Brian Greene) si nutre di morte e negazione. Un universo, inoltre, le cui forze e leggi decifriamo con lentezza carsica, tra acquisizioni sicure e reversibili, sequenze illuminanti e resistenze esasperanti (il 90% di «massa mancante» tra energia e materia oscura). Posizioni come quella di Baggott ci ricordano come la scienza — la fisica prima di tutto — arrivi a conquiste così controintuitive e perturbanti da non aver bisogno di additivi sensazionalistici: la meccanica quantistica, per esempio, sfida a tal punto il senso comune anche senza le sue implicazioni più fantastiche, dal multiverso (gli universi paralleli) al teletrasporto. Intendiamoci: simili implicazioni hanno pieno diritto nella letteratura o nel cinema, non solo di fantascienza (da Philip Dick a Murakami); ma nel momento in cui vengono prese alla lettera esercitano una mescolanza indebita, uno snaturamento dei metodi e degli oggetti della scienza.
Anche se, a ben guardare, la tensione a cercare spiegazioni ultime è comprensibile e in parte necessaria. Comprensibile perché il nostro corredo evolutivo ci ha dotati di schemi cognitivi (la ricerca dell'ordine e di nessi causa-effetto) che estendiamo naturalmente dai contesti quotidiani ai limiti dell'universo e oltre. In parte necessaria, perché anche la creatività scientifica si alimenta di visioni e paesaggi in partenza poco credibili: non dimentichiamo che Einstein era scettico sia sulla concezione di un universo dinamico, sia sulla stessa meccanica quantistica. A volte, un temporaneo «addio alla realtà» è il solo mezzo per scoprirne nuovi stati (e strati); per correggerne o ampliarne il significato.

Corriere della Sera 13.11.11
Nathaniel Hawthorne
Se la vera realtà è invisibile
di Franco Cordelli


Scritto nel 1836, a trentadue anni, Il velo nero del pastore di Nathaniel Hawthorne è obiettivamente un rebus, ma non fino al punto che Romeo Castellucci pretende. Come lui, Attilio Bertolucci o Pietro Citati ne rifiutarono l'interpretazione: al poeta era sufficiente la «parabola», così com'è; il critico quella parabola si limitava a riassumerla. Un'ipotesi la troviamo nelle ultime righe del suo articolo: «Hawthorne conosce soltanto la nostra esistenza nella tenebra, non quella che forse condurremo nella grazia».
Se così è, il «velo» sarebbe di natura teologica, un simbolo dell'impossibilità di contemplare oltre l'umano, ciò che ci divide dalla vera realtà, quella invisibile. Ma ci sono altre ipotesi, che direi proprie di un racconto morale. Il velo nero che il pastore Hooper indossa per tutta la vita è un segnale della sua prossimità a Dio, un segnale di umiltà — come (di timidezza) il cappuccio dei ragazzi di oggi, per esempio il cappuccio del protagonista di Paranoid Park. Rovesciando le apparenze, potremmo considerare il velo un'immagine critica: Hawthorne ci suggerisce l'arroganza di quella umiltà (siamo nel New England, il mondo puritano dei Padri Pellegrini). C'è una terza ipotesi, critica anch'essa: nel Romanzo di Valgioiosa, l'uomo che potrebbe liberare dalla schiavitù una misteriosa Signora Velata con un bacio, senza guardare sotto il velo, si rifiuta: e chi è costui se non un uomo cauto, privo di slancio, di coraggio?
A proposito di veli, il giovane scrittore americano Rick Moody nel 2004 pubblicò un romanzo, Il velo nero, nel quale supponendo che Hooper lo avesse ispirato il suo avo Joseph Moody, osserva come nell'intera opera di Hawthorne ricorra il «veil»: la parola trae origine dall'Inglese Medio «veile», e da essa si può risalire fino al latino «vela», che è anche la bandiera. Ed ecco, così, un nesso con la bandiera che si vede nello spettacolo di Castellucci, un'altra versione del precedente Sul concetto di volto nel figlio di Dio. Ma se in quel caso la sgradevolezza dominava il campo, qui lo domina l'arbitrio. Poiché (come sostiene il regista princeps della Socíetas Raffaello Sanzio) Il velo nero del pastore è un racconto che si nega all'interpretazione, e non si può quindi tradurre in una qualche figura mimetica, tutto è possibile. Si comincia con un vortice d'acqua, che occupa l'intero quadro, come in una performance dei Santasangre. Si finisce con la macchina che avanza paurosa, come in uno spettacolo di Lorenzo Mazzocchi. E se è plausibile che la lunga scatola di vetro con i topolini bianchi rinvii a una nevrosi ossessiva, quella dell'«uomo dei topi» di Freud, o la bandiera si possa collegare al velo di Hawthorne — la farfalla è davvero un simbolo della solitudine che pervade il racconto?
Il sipario si chiude sul vortice rumoroso di Scott Gibbons, il tecnico del suono, poi arretra lentamente. Di nuovo avanza e di nuovo arretra. Infine si apre. Una ragazza si copre il viso di rosso (per la vergogna di ciò che è o di ciò che deve fare?). Due tizi la ripuliscono dopo che quaranta colpi di luce, non saprei come altrimenti definirli, l'hanno fatta barcollare — senza che lei cadesse. L'ultima immagine, a sipario chiuso, è la più indisponente (ovvero insignificante): un asse con nove lampadine che si fulminano una dopo l'altra. Segnalano la fine dell'evento? O che ad essere menzognere sono le confessioni, falsi sono gli svelamenti, filistea l'idea stessa di quell'obolo/merce che di fatto è uno spettacolo, uno spettacolo come reiterata prova d'identità?

Repubblica 13.11.11
Walter Benjamin. Aria Fresca
di Antonio Gnoli


A meno di non essere folli, o criminali, nessuno si augurerebbe la distruzione di un paese, di un individuo, di una società. Ma ci sono momenti della storia in cui assistiamo alla rottamazione di pezzi di mondo, al loro lento o rapido disgregarsi. Un´economia che frana, una classe politica che sparisce, un partito che implode, una verità indiscussa che si cancella. Improvvisamente ci troviamo sulla soglia di un nuovo di cui, tuttavia, sappiamo ben poco. Ottant´anni fa, Walter Benjamin in un succinto articolo, dal titolo eloquente "Il carattere distruttivo" (ora in Scritti politici degli Editori Internazionali Riuniti), scriveva che "Il carattere distruttivo conosce una sola parola d´ordine: fare spazio; una sola attività: sgombrare. Il suo bisogno di aria fresca e di spazio libero è più forte di ogni odio". Ecco. Ci sono momenti in cui occorre aprire strade, farsi largo tra le macerie (anche tra quelle mentali), sospettare che dal vecchio non arrivi sempre la saggezza ma l´impotenza, non l´esperienza ma la rigidità, non l´altruismo ma l´egoismo. Siamo un paese intasato. E alla fine di un ciclo, se non proprio di un´epoca. L´idea benjaminiana di fare spazio giunge a proposito.

Repubblica 13.11.11
Le nuove regole del genio
Meglio visionari che intelligenti
Da Benjamin Franklin a Steve Jobs come l´immaginazione va al potere
di Water Isaacson


Che cosa unisce uomini come Benjamin Franklin, Albert Einstein e Steve Jobs? Che cosa li rende diversi da Bill Gates? I primi hanno avuto una "visione" del mondo, il secondo è solo molto intelligente. "Think different" diceva il padre della Apple, ma non era solo uno slogan pubblicitario. Gli studi scientifici sulla creatività dimostrano il ruolo fondamentale del "pensiero divergente". E il segreto potrebbe risiedere nella capacità di comunicazione delle diverse regioni del cervello. Ecco perché intuito e immaginazione sono più importanti della razionalità

Una delle questioni con le quali mi sono dibattuto quando ho iniziato a scrivere di Steve Jobs è quanto fosse intelligente. A prima vista non dovrebbe sembrare una questione complessa e si potrebbe dare per scontato che la risposta ovvia sia: era un uomo davvero, davvero intelligente. Forse anche tre o quattro volte "davvero". In fin dei conti, è stato il leader dell´azienda più innovativa e di maggior successo e ha incarnato più che a meraviglia il sacro sogno della Silicon Valley: ha avviato una start-up nel garage di casa dei genitori e l´ha trasformata nell´azienda di maggior valore al mondo.
Ricordo però di aver cenato con lui pochi mesi fa, in cucina come era solito fare tutte le sere in compagnia di moglie e figli. Qualcuno a tavola ha tirato fuori uno di quei rompicapo nei quali si deve risolvere il problema di una scimmia che trasporta un carico di banane attraverso il deserto, ma ha tutta una serie di restrizioni, per esempio la distanza che deve percorrere e una quantità fissa di banane alla volta, e bisogna indovinare quanto tempo le occorrerà per riuscirci. Jobs ha buttato lì alcune risposte brillanti, ma non ha palesato alcun interesse a venire a capo del rompicapo in modo rigoroso. Ho pensato a come Bill Gates avrebbe messo in moto le sue rotelle (clik-clik-clik) e fornito una risposta logica nel giro di una quindicina di secondi. Ho pensato anche a Gates che in vacanza divora libri scientifici come passatempo. Poi però mi è venuta in mente anche un´altra cosa: Gates non ha mai creato l´iPod. Ha creato lo Zune (lettore mp3, ndt).
Insomma: Jobs era intelligente? Non in senso convenzionale. Ma era un genio. Lo so, il mio potrebbe sembrare un insensato gioco di parole, ma di fatto il suo successo mette in luce in modo eclatante l´interessante distinzione che esiste tra intelligenza e genialità. I suoi sforzi di immaginazione erano istintivi, incredibili, di tanto in tanto prodigiosi. Erano innescati dall´intuizione, non dal rigore analitico. Esperto di buddismo zen, Jobs era arrivato a dare maggior importanza alla saggezza che nasce dall´esperienza più che all´analisi empirica. Non studiava dati, non masticava numeri, ma al pari di un esploratore sapeva fiutare il vento e presagire che cosa avrebbe incontrato più avanti.
Mi raccontò di aver iniziato ad apprezzare il potere dell´intuizione, antitetico a quello che egli definiva il "pensiero razionale occidentale", mentre vagabondava per l´India, dopo aver abbandonato il college. «Nelle campagne indiane la gente non usa l´intelligenza come facciamo noi» mi disse. «Preferisce ricorrere all´intuizione, qualcosa di molto potente. Ancora più potente dell´intelligenza, dal mio punto di vista. E questo ha avuto un´enorme influenza sul mio lavoro».
L´intuizione di Jobs non aveva i suoi presupposti nella cultura tradizionale, bensì nella saggezza esperienziale. Aveva oltre a ciò una grande immaginazione e sapeva come sfruttarla. Come disse Einstein: «L´immaginazione è più importante della conoscenza».
Einstein, naturalmente, incarna l´archetipo per eccellenza del genio. Ebbe contemporanei che quasi certamente avrebbero potuto rivelarsi alla sua altezza nella pura produzione intellettuale in campo matematico e nel processo analitico. Henri Poincaré, per esempio, individuò per primo alcune componenti della relatività speciale (o ristretta) e David Hilbert fu in grado di tirar fuori in modo abbozzato alcune equazioni per la relatività generale più o meno nello stesso momento di Einstein. Ma nessuno dei due ebbe la genialità immaginativa che ebbe Einstein e che gli consentì di compiere lo sforzo creativo conclusivo per arrivare al cuore stesso delle loro teorie, nello specifico determinare che il tempo assoluto non esiste e che la gravità è una distorsione del tessuto spazio-temporale. (Ok, non è così semplice, ma questo spiega perché Einstein era Einstein e noi no).
Einstein aveva le inafferrabili qualità del genio, tra le quali intuizione e immaginazione, che gli consentivano di pensare in modo diverso (ovvero, come proclamano le pubblicità stesse di Jobs, "Think Different"). Benché non fosse particolarmente religioso, Einstein descriveva questa sua genialità intuitiva come la capacità di penetrare nella mente di Dio. Quando valuto una teoria – diceva – mi chiedo sempre se quello è il modo usato da Dio per progettare l´universo. Einstein era a disagio con la meccanica quantistica, che si basa sull´idea che la probabilità riveste un ruolo chiave nell´universo, e dichiarava di non poter credere che Dio avesse giocato a dadi. (A una conferenza di fisici, Niels Bohr si sentì indotto a suggerire a Einstein di smettere di dire che cosa dovesse fare Dio).
Sia Einstein sia Jobs sono stati pensatori con una spiccata visione mentale. Einstein imboccò la strada che l´avrebbe portato alla scoperta della relatività da adolescente, quando cercò ripetutamente di immaginarsi come sarebbe stato viaggiare accanto a un fascio di luce. Jobs trascorse quasi ogni pomeriggio a camminare avanti e indietro nello studio del suo brillante designer Jony Ive e a modellare con le dita prototipi di gomma espansa dei prodotti che stava mettendo a punto.
Il genio di Jobs non era – come ammettono anche i suoi fan – della stessa natura di quello di Einstein. Quindi probabilmente è meglio ridurre di un livello tale definizione, e parlare di ingegno. Bill Gates è super intelligente, ma Steve Jobs era super-ingegnoso. La distinzione principale credo che stia nella capacità di applicare a una sfida la creatività e la sensibilità estetica.
Nel mondo dell´invenzione e dell´innovazione ciò equivale ad abbinare la comprensione delle materie umanistiche alla conoscenza della scienza. A saper mettere insieme arte e tecnologia. Poesia e processori. Questa era la vera specialità di Jobs. «Da ragazzino ho sempre pensato di essere portato per le materie umanistiche, ma mi piaceva l´elettronica. Poi lessi qualcosa riguardante Edwin Land della Polaroid, uno dei miei punti di riferimento preferiti: sottolineava l´importanza di coloro che riescono a collocarsi al punto di incontro tra le materie classiche e le scienze. E decisi che era proprio quello che intendevo fare io».
L´abilità di far confluire la creatività nella tecnologia dipende dalla capacità individuale di essere emotivamente sulla stessa lunghezza d´onda degli altri. Jobs era spesso impertinente e indelicato quando si rivolgeva agli altri e ciò ha indotto alcuni a considerarlo sprovvisto di sensibilità emotiva. In realtà, era vero proprio il contrario. Jobs sapeva capire le persone, riusciva a carpirne i pensieri più intimi, sapeva blandirli, intimidirli, prendere di mira i loro punti deboli più reconditi e compiacerli a volontà. Sapeva intuitivamente come creare prodotti che fossero in grado di piacere, interfacce che risultassero di facile impiego, messaggi marketing affascinanti.
Negli annali dell´ingegno, le nuove idee sono soltanto una parte della formula magica: il genio esige anche l´esecuzione. Mentre gli altri producevano computer a forma di scatola con interfacce che intimidivano e si ponevano di fronte agli utenti con messaggi verdi intermittenti che dicevano più o meno "C:\>", Jobs si rese conto che esisteva un mercato pronto ad accogliere un´interfaccia paragonabile a una gioiosa e luminosa sala giochi. Ed ecco nato il Macintosh. Certo, Xerox se ne uscì poi con la metafora grafica del desktop, ma il personal computer che costruì fu un fiasco totale e non innescò la rivoluzione dell´home computer. «Tra l´idea e la realtà cade l´ombra» diceva T. S. Eliot.
Per taluni aspetti l´ingegno di Jobs mi richiama alla mente quello di Benjamin Franklin, uno degli altri protagonisti delle mie biografie. Tra i grandi capiscuola, Franklin non fu il pensatore più profondo – quell´onore spetta a Jefferson o a Madison o a Hamilton – ma fu ingegnoso.
Ciò dipese, in parte, dalla sua bravura a intuire i rapporti tra cose ed eventi anche molto diversi tra loro. Quando inventò la pila, per esempio, fece con essa l´esperimento di provare a produrre scintille con le quali ammazzare un tacchino per le feste di fine anno insieme ai suoi amici. Nel suo diario annotò tutte le somiglianze tra quelle scintille e i fulmini che si scatenano durante un temporale e così concluse: «Che l´esperimento si faccia». Fece volare un aquilone sotto la pioggia, attrasse l´elettricità dal cielo e finì con l´inventare il parafulmine. Come Jobs, anche Franklin si divertì con il concetto di creatività applicata, prendendo idee brillanti e design intelligenti e utilizzandoli per realizzare validi strumenti.
È molto probabile che Cina e India sforneranno molti rigorosi pensatori analitici e tecnici di grande spessore. Ma non sempre l´innovazione nasce da gente brillante e istruita. Il vantaggio dell´America – se mai ce n´è ancora uno – è che potrà dare alla luce persone anche più creative e dotate di immaginazione. Persone che sapranno come collocarsi al punto di incontro tra le materie umanistiche e le scienze. Questo, come dimostra l´intera carriera di Jobs, è il segreto della vera innovazione.
(Traduzione di Anna Bissanti)
© 2011, The New York Times Per gentile concessione dell´editore Mondadori

Repubblica 13.11.11
Tra quozienti intellettivi e studi sulla mente umana Perché resta difficile svelare il segreto dei "cervelloni"
Se la formula del genio è l’ultima sfida scientifica
di Marco Cattaneo


Si fa presto a dire genio, un termine con cui – secondo i criteri quanto mai flessibili della natura umana – riusciamo a etichettare di volta in volta Einstein, Mozart, Van Gogh, ma anche Maradona e, se permettete, Groucho Marx. In realtà, ci sono almeno tante definizioni diverse di genio quanti sono gli scienziati che cercano di studiare questa enigmatica facoltà. L´intelligenza da sola non basta. Si può essere considerati un genio senza necessariamente avere un quoziente intellettivo da iscrizione al Mensa, il club dei cervelloni. E viceversa si può avere un QI di 150 e non lasciare un segno del proprio passaggio nemmeno in un condominio. D´altra parte anche la sola creatività, l´intuizione, può far imboccare vie poco frequentate ma anche deragliare in territori tanto onirici quanto improduttivi.
Perché il genio non è solo in una miscela di facoltà cognitive, caratteriali e ambientali, ma anche – o forse soprattutto – nell´immagine che proietta. Ma andiamo per gradi. Secondo le più aggiornate ricerche in psicologia e neuroscienze, gli ingredienti della ricetta sono numerosi, e tutti essenziali. Certo, una buona dose di intelligenza è utile. Poi ci vogliono conoscenze nel campo in cui si finisce per emergere, ma non troppe, perché potrebbero impedire di uscire dai solchi già tracciati. L´eccessiva padronanza di una materia comporta infatti il pericolo di chiudersi nelle conoscenze acquisite. Altro tratto intellettivo da non sottovalutare è il cosiddetto "pensiero divergente", vale a dire il processo mentale che permette di produrre molte idee – la maggior parte delle quali magari fuorvianti – da un unico stimolo. Occorre immaginazione, ma anche perseveranza, perché come sosteneva Thomas Edison «il genio è uno per cento ispirazione e 99 per cento sudore».
Più complicato, e forse inestricabile, è scoprire le dosi, di questi ingredienti. E peggio che mai pensare di poter individuare un luogo fisico dove ha sede il genio. Probabilmente perché non c´è. Il cervello di un genio funziona esattamente nello stesso modo del nostro. Secondo ricerche condotte anche con le più moderne tecniche di neuroimaging le dimensioni e l´attività di specifiche aree cerebrali sono del tutto ininfluenti. Secondo altri studi il segreto potrebbe trovarsi nella materia bianca, i fasci di fibre nervose che connettono tra loro aree distanti del cervello, e in particolare nel corpo calloso, la struttura che collega i due emisferi. In una parola, il segreto del genio potrebbe stare nella comunicazione tra le diverse regioni del cervello. Qualcuno, come Richard Plomin, dello University College di Londra, ha provato a indagare anche l´influenza del patrimonio genetico, dando la caccia ai geni dell´intelligenza, ma i risultati sono stati frustranti. Su mezzo milione di marcatori genetici analizzati, solo sei sembrano avere qualcosa a che fare con l´intelligenza, ma non spiegherebbero più dell´1 per cento delle differenze individuali. E poi c´è un ultimo fattore che riguarda l´impatto che la personalità di un genio ha sull´immaginario collettivo. Perché siamo più portati a considerare un genio chi ha prodotto innovazioni che hanno avuto un impatto rivoluzionario nella vita di tutti noi. E dunque chi sia un genio lo decidiamo tutti insieme, prima ancora che la natura dell´uomo.

Repubblica 13.11.11
Surrealismo
Da Dalí a Miró, da Magritte fino a Picasso ed Ernst Alla Fondazione Beyeler i capolavori del movimento
La pattuglia di Breton che voleva dare una forma all´inconscio
di Achille Bonito Oliva


Tanto credito prestiamo alla vita, a ciò che essa ha di più precario – la vita "reale" naturalmente – che quel credito finisce per perdersi». Così nel 1924 André Breton apriva il Primo manifesto del Surrealismo, nel quale l´arte teorizzava una strategia di avvicinamento alla vita proprio per risolverne la realtà "mancata". Vivo e perenne rimane questo tentativo, come si desume dalla straordinaria mostra Surrealismus in Paris a cura di Philippe Büttner alla Fondazione Beyeler di Basilea fino al 29 gennaio 2012.
Breton assume e teorizza il verbo di Freud, la lezione di una letteratura risalente a Sade, di una filosofia negativa che recupera Schopenhauer e Nietzsche, di una pittura metafisica che ha in De Chirico il suo più splendente esecutore, per dare la scalata alle profondità della psiche. La mano di alcuni pittori, come Max Ernst, Salvador Dalí, Joan Miró, Magritte, Masson, Tanguy, Brauner, Matta, Bellmer, Delvaux, Oppenheim e (per un periodo) anche Picasso e si mette all´opera per fondare l´immagine di una discesa agli inferi.
La materia dell´arte surrealista è l´inconscio con la sua energia, l´immaginario che vola in tutte le direzioni, disseminato a tutte le altezze e le bassezze. L´automatismo del gesto è direttamente proporzionale all´automatismo della psiche, al moto inconsulto e involontario del profondo.
L´immaginario dunque sprigiona energia, che poi l´arte si incarica di condensare diversamente secondo le differenze che separano la diversa creatività degli artisti. Come dice Breton, il Surrealismo apre una doppia strada, al simbolico e al materico. Dispiega procedimenti e strategie dell´immagine che approdano a risultati complementari, tutti dettati dall´impulso a prendere forma della disarticolata surrealtà: esemplare il Paysage au coq (1927) di Joan Miró.
Per fare affiorare il rimosso è necessario grattarsi sotto la pelle. E grattare è letteralmente ciò che fa Ernst, scoprendo per l´arte ciò che il gioco infantile pratica mediante il frottage, una maniera di strofinare l´anima dell´oggetto per farla affiorare come ombra e immagine sublimale, come nella sua La grande forêt (1927). Ma le vie dei surrealisti sono infinite, e ogni artista del gruppo adotta una sua personale strategia figurativa.
In Dalí e Miró l´immagine esprime la doppia valenza di portatrice di simbolo e di deterrente materico. L´automatismo funziona sia come associazione libera e aperta di dati che si potenziano reciprocamente, sia come prodotto della casualità e della crescita spontanea. Vedi in Dalí Rêve causé par le vol d´une abeille autour d´une pomme-grenade, une seconde avant l´evil (1944). Più mentale è l´opera di Magritte (L´empire des lumieres, 1962) nel quale l´automatismo psichico fonda un tipo di immagine raffreddata sulla soglia di una rivelazione che mette a nudo i paradossi del linguaggio. Lo conferma anche Delvaux con la sua Aurore (1937).
In Tanguy (Les jeux nouveaux, 1940) e Masson (Métamorphose des amants, 1938) la materia si organizza al livello più basso, l´immaginario vola radente alla sostanza organica assumendo i travestimenti della stessa materia pittorica fino a identificarsi con essa. Con il Picasso di Le sauvetage (1932) il quadro diventa invece il campo d´azione di una continua metamorfosi, di una proliferazione che non significa soltanto crescita ma anche disseminazione mobile e dislocazione aperta di segni.
Victor Brauner organizza il simbolico intorno ad archetipi visivi che non tendono alla stasi ma rimandano alla ciclicità e alla ambigua consistenza e coesistenza di immagini che si raddoppiano oppure si danno l´una dentro l´atra: Les siecles reculon comme des ouragans (1932). Sebastian e Matta e Wilfredo Lam riescono a spostare la geometria dal suo "luogo comune" per spogliarla e consegnarla alla prorompenza di forze naturali e cosmiche che ne fanno esplodere la capacità di misura.
I surrealisti hanno con l´inconscio un rapporto quasi colloquiale, per il tramite di tecniche elementari che riducono la puntigliosa complessità del procedimento tradizionale: essi vogliono dare spazio direttamente all´incedere del caso e della disinvolta eccedenza delle pulsioni interne.
Per definizione il Surrealismo è esuberante, è un gesto affermativo che ristabilisce il primato del fantasma contro l´evidenza statica delle cose: un fantasma che si insinua nei mille modi del linguaggio, in forma germinale, larvale oppure sotto le spoglie di un´immagine perturbante.
Le tecniche automatiche sono gli irriducibili tramiti, gli scandagli che vanno a pescare proprio nel torbido nell´opera di Max Ernst: Fleurs de neige (1929). Il frottage e il dripping, grattare e sgocciolare, costituiscono la materializzazione di tale necessità tecnica, l´azzeramento di ogni complessità a favore di movimenti elementari che privilegiano l´autonomia della mano rispetto all´occhio, l´indipendenza dell´opera rispetto alla vigile accortezza dell´artista.

La Stampa 13.11.11
Foa, è l’automobile che ha liberato gli operai
Dal nuovo libro di Riotta, una lezione del vecchio partigiano, coscienza critica della sinistra, tornato dopo 70 anni tra i ragazzi del suo liceo a Torino
di Gianni Riotta


PRIMA DELLE QUATTRO RUOTE «Il lavoratore era incatenato al luogo della fatica. Emigrava ma la catena lo riacchiappava»
TUTTI IN CODA SOTTO IL SOLE «Per noi, sinistra e intellettuali, l’ingorgo dell’autostrada è l’inferno. Loro vedono il mare»"

Vittorio Foa il 13 dicembre 1998 davanti al liceo Massimo d’Azeglio di Torino, che aveva frequentato negli Anni Venti, e tra i suoi compagni di scuola di 70 anni dopo. Nato a Torino nel 1910, Foa è stato partigiano azionista, deputato alla Costituente, dirigente della Cgil e segretario nazionale della Fiom, dirigente dello Psiup, quindi del Pdup e di Dp, membro della direzione del Manifesto, senatore indipendente nelle liste del Pci. È morto a Formia nel 2008 Le cose che ho imparato Uscirà martedì da Mondadori il nuovo libro di Gianni Riotta, Le cose che ho imparato (pp. 304). Si tratta di una rivisitazione, sul filo della memoria, delle «storie, incontri ed esperienze che mi hanno insegnato a vivere» (così il sottotitolo), avvenuti nell’arco di una carriera giornalistica ultratrentennale da Palermo a Roma e a New York, dal Manifesto all’ Espresso, al Corriere della Sera, alla direzione del Tg1 e del Sole-24 Ore, alla Stampa, dove è ritornato come editorialista dopo esserne stato condirettore tra il 1998 e il 2002. Proprio al periodo torinese risale l’episodio ricordato nel brano che anticipiamo in questa pagina.
Lavorando al quotidiano La Stampa, a Torino, nel dicembre 1998, incontrai il preside del liceo Massimo d’Azeglio, sui cui banchi hanno insegnato o studiato Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, politici come il leader comunista Pajetta, volti tv come Piero Angela e il Nobel per la medicina Salvador Luria, la traduttrice della beat generation Fernanda Pivano (rimandata a settembre in italiano con il suo compagno di banco, il futuro autore di Se questo è un uomo, Primo Levi) e il beato della Chiesa cattolica Frassati. Anche l’avvocato Gianni Agnelli e suo fratello, il senatore Umberto, avevano studiato al D’Azeglio, e furono gli studenti del terzo e quarto ginnasio a fondare, nel 1897, una squadra di calcio chiamata Juventus. Con il preside nacque l’idea di far tornare Vittorio Foa, uno dei padri della Repubblica italiana, per la prima volta dagli anni Venti nelle vecchie aule, a incontrare gli studenti del XXI secolo. Foa era stato compagno di banco di Giancarlo Pajetta, il leader del Pci, del cui fratello Gaspare, medaglia d’argento al valor militare per la Resistenza, Pavese era stato mentore. Espulso Pajetta per antifascismo, Foa, amareggiato, decise di presentarsi da privato alla maturità e saltare così la terza liceo. Una scuola storica della Repubblica, e i ragazzi si presentarono a frotte, con domande intelligenti. [... ]
Fu un incontro allegro, intenso, con Foa pronto a narrare e ascoltare. Finché un ragazzo, dagli ultimi banchi, testa riccia, camicia bianca, occhi emozionati, non chiese: «Onorevole, quale considera il suo più grande errore? Che cosa non ha visto, quale cambiamento decisivo non ha saputo riconoscere nella sua lunga vita politica? ».
Il preside, io, Sesa [la compagna di Foa, ndr], ci girammo verso Foa, non ancora cieco come negli ultimi giorni ma già costretto a intuire solo luci e ombre. Seguendo il suono della voce, alzò la testa senza incertezze verso lo studente, si fece schermo della mano larga, e disse: «L’automobile».
Nell’aula del D’Azeglio cadde il silenzio. Eravamo a Torino, la capitale dell’automobile italiana, la nostra Detroit. Qui il senatore Agnelli, nonno dell’avvocato Gianni, aveva importato dalla Ford americana i modelli di organizzazione del lavoro, «fordismo e taylorismo», studiati nei Quaderni dal carcere eSotto la Mole da Gramsci; qui i contadini erano diventati operai dopo l’esodo dal Sud, costruendo alla catena di montaggio auto in serie; qui i radicali di Quaderni rossi con Raniero Panzieri avevano criticato «il modello di sviluppo neocapitalistico» legato alla Cinquecento, la geniale vetturetta disegnata nel 1957 da Dante Giacosa, il cui prototipo di legno lucido ha la bellezza di una compatta scultura di Eliseo Mattiacci. Qui il regista Scola aveva girato nel 1973 il film dal titolo fosco Trevico-Torino… Viaggio nel Fiat-Nam mentre, sempre in astio all’automobile, Federico Fellini aveva realizzato nel 1972, sul raccordo anulare della capitale, la scena magistrale di, con la troupe prigioniera del traffico, tra ultras, prostitute, sirene spiegate, lamiere contorte e un cavallo bianco solitario in fuga, simbolo di libertà naturale, perduta dall’automobile. Romanzi, quadri, opere teatrali avevano denunciato l’«alienazione» dell’ingorgo sulle strade e, proprio a Torino, da Einaudi, erano state tradotte le rampogne della Scuola di Francoforte contro l’«uomo a una dimensione», casa-lavoro-vuoto interiore. Ora Foa, antifascista, partigiano, padre costituente, capo operaio, profeta della nuova sinistra, proclamava che la Cinquecento era stata una rivoluzione e lui non l’aveva vista!
Vittorio fece appena una pausa, da oratore nato prima della tv, quando la piazza si accendeva ragionando e recitando: «Vedete», e illustrava il punto con gesti delle mani alla platea per lui invisibile, «dalla notte dei tempi agli anni Sessanta il lavoratore, contadino, schiavo, bracciante, artigiano o operaio che fosse era incatenato al luogo della fatica. Il servo della gleba nasceva e moriva nello stesso villaggio, dove zappava la stessa zolla per tutta la vita. Quando il feudalesimo si chiuse, e i lavoratori furono affrancati sulla carta, i principi, i borghesi, gli intellettuali potevano viaggiare, Goethe va fino in Sicilia, Lord Byron nuota da piazza San Marco fino al Lido di Venezia. I contadini, gli artigiani, gli operai no. Emigravano, ma poi la catena del lavoro li riacchiappava. È l’automobile a liberarli. In agosto, alla chiusura di Mirafiori, stipano in macchina famiglia, fagotti e valigie, si mettono in coda lungo l’Autostrada del Sole e vanno al mare. Noi, sinistra, sindacato, intellettuali, vediamo l’ingorgo come l’inferno. Gli operai vedono il mare. Per la prima volta nella storia non sono più schiavi del territorio, costretti al riposo dove lavorano. Una straordinaria liberazione, e così loro la vissero, ignorando il traffico e contando le ore verso la libertà, la casa familiare, un diverso panorama che per la prima volta nell’umanità si schiude loro».
Lo studente annuì incantato. Foa capovolgeva la teoria elitaria, semplicemente guardando alla realtà non con gli occhi snob di chi si cruccia del turismo di massa, ma riconoscendo il «valore d’uso» che l’utilitaria, la Cinquecento, la Seicento avevano avuto nella vita concreta di tante persone, famiglie, bambini che per la prima volta avevano costruito un castello di sabbia sulla spiaggia, guardati da una papà metalmeccanico, in canottiera bianca, bracciante-operaio che diffidava delle onde, non sapeva magari nuotare, ma aveva conquistato una, sia pur piccola, libertà di spazio fino ad allora regno di imperatori, principi, magnati. [... ]
L’assemblea con Foa al D’Azeglio avvenne a pochi mesi dalla fine del Novecento, degno epitaffio al secolo. L’ottimismo di Vittorio si fissava già nel modo corretto al terzo millennio, scommettere sul bene che può venire dalla tecnologia, dai liberi commerci e dalle nuove democrazie, dal mutamento e dalle migrazioni, senza barricarsi nella paura. Nel santino che tanti uomini e donne, ovunque sul pianeta, conservano del possente papato di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, un messaggio resiste tra i viaggi, le encicliche, i libri, le battaglie morali contro il nazismo, il comunismo, il materialismo: il «Non abbiate paura» della prima messa da pontefice, il 22 ottobre 1978.

La Stampa 13.11.11
Gobetti editore ideale tutto tipografia e biblioteca
di Bruno Quaranta


Piero Gobetti (Torino 1901 - Parigi 1926) in un’illustrazione di Paolo Galetto

“Fu Monti a tenere sempre desto il magistero di Gobetti, via via a suscitarlo e a resuscitarlo. Ricordo che costrinse, amichevole coazione, noi dazeglini della A (la mia sezione) e della B (Mila e Pavese i più noti) ad abbonarci al Baretti, la rivista sopravvissuta a Piero, fino al 1928. Con il Baretti ci accompagnarono nella formazione i libri dell’editore ideale. Li rinvenivamo sulle bancarelle: non di bella fattura, ma di assoluta utilità, fondamentali nel modellare le coscienze antifasciste, tra gli autori Sturzo, Amendola, Salvatorelli, Nitti».
È un frammento di intervista, l’ultima sullo scarruffato eroe della Rivoluzione liberale, di Norberto Bobbio, che in questi giorni rivivrebbe le emozioni adolescenziali sfogliando le anastatiche fresche di stampa di quattro capisaldi del catalogo gobettiano, fra le 114 opere in tutto che saranno riproposte nell’arco di dieci anni per le Edizioni di Storia e Letteratura, una sicura eco dell’editore ideale (fondate da don De Luca nel 1941, fanno ora riferimento a Federico Codignola).
Gobetti, Sturzo, Prezzolini, Mill inaugurano il progetto. Autori, rispettivamente, Piero Gobetti di Risorgimento senza eroi (con uno scritto di Carlo Azeglio Ciampi, postfazione di Giancarlo Bergami), Luigi Sturzo di La libertà in Italia (a cura di Bartolo Gariglio), Giuseppe Prezzolini di Io credo (lo presenta Emilio Gentile), John Stuart Mill di La libertà (nella lettura di Nadia Urbinati, lo aveva introdotto Luigi Einaudi).
Direttore della collana è Bartolo Gariglio, docente di Storia contemporanea nell’Università di Torino, l’anima «popolare» del Centro studi Gobetti, autore di Progettare il postfascismo. Gobetti e i cattolici (1919-1926). Tra coloro che lo affiancano, Gabriela Cavaglià, direttore del Centro di via Fabro 6, da cui il 3 febbraio 1926 il prodigioso intellettuale mosse verso l’esilio parigino.
È lo stesso Gobetti a delineare l’editore ideale in un frammento che nel 1966 Franco Antonicelli accolse in un volumetto per Scheiwiller: «Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni più tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana... Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca... ».
Dal 1922 (l’anno della Marcia su Roma, che ispirerà l’elogio della ghigliottina) al 1929 (le edizioni proseguiranno per tre anni dopo la morte dell’intellettuale) si dispiega la missione di Gobetti editore, inanellando una varietà di ragioni sociali: Edizioni de La Rivoluzione liberale, Arnaldo Pittavino e C., Piero Gobetti Editore, Edizioni del Baretti. Da
Collaborazionismo di Umberto Formentini a Borghesismo. Paradosso contro il mio tempo di Dino Fiorelli.
Nel centocinquantenario dell’Unità s’impone come primo titolo Risorgimento senza eroi, quale epigrafe «Mon langage n’était pas celui d’un esclave», riecheggiante la divisa greca della casa editrice «Che ho a che fare con gli schiavi? », suggerita da Monti. Gobetti che non esalta il Risorgimento (la conquista regia) né indulge al rimpianto gramsciano (una rivoluzione passiva, che ignora le masse popolari). Bensì lo considera una rivoluzione fallita, il soliloquio di Cavour che non si fa coro.
Luigi Sturzo, il fondatore del Partito Popolare che nel 1919 rivolse l’appello «ai liberi e ai forti», riconduce per li rami al mentore di Gobetti, a Vittorio Alfieri eroe della libertà (in una sua tragedia, Virginia, avverte: «Ai pochi, ai liberi ed ai forti io parlo»). Prezzolini è, infine, l’antitesi di Gobetti, la compagnia degli Apoti, di chi non la beve, opposta alla compagnia della morte («Di fronte a un fascismo che con la libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della nostra azione formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma la compagnia della morte»). Mill è l’ascendenza ottocentesca di Luigi Einaudi, che a Piero, lo
«scolaro maestro», trasmetterà un’idea di Stato non protezionista e non interventista, né tutore né cocchiere, ma suscitatore di energie.
La storia, la politica, l’economia, il diritto, la religione, da Amendola a Passerin d’Entrèves, da Missiroli a Salvemini, da Francesco Ruffini a Gangale. Ma non solo. Non meno nitide, nell’officina dell’editore ideale, sono le orme letterarie e artistiche. A svettare, nel 1925, i montaliani Ossi di seppia e, nel 1923, la prima monografia critica (autore lo stesso Gobetti) di Felice Casorati, ovvero la «perfetta classicità».
A Parigi, nella notte fra il 15 e il 16 febbraio del 1926, il «commiato» di Gobetti, ma non la sua sconfitta. C’è un verso di Montale che supremamente lo innalza e lo trasfigura nelle stagioni: «Non muore più il Febbraio».

l’Unità 13.11.11
Con l’Unità la vostra biblioteca digitale
Libri elettronici A partire da domani e per un mese una coppia al giorno di saggi e romanzi: novità e classici, da scaricare sul sito del nostro giornale Si comincia parlando di crisi e si prosegue con Michela Murgia e Italo Svevo
di Maria Serena Palieri


Si parte domani con una coppia di libri che, insieme, ci portano nell’occhio dell’odierno ciclone (la Crisi) ma che ci insegnano anche a leggerla in una prospettiva storica e senza cedere a un paralizzante pessimismo: i titoli sono Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria di due economisti in prima fila, Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, un saggio uscito per il Saggiatore, con cui viaggiamo dalla prima svalutazione monetaria, nel Medioevo, alle economie del Sud Est asiatico, e Ripartiamo! Discorsi per uscire dalla crisi, raccolta di riflessioni edita da Add di Franklin Delano Roosevelt, il presidente che fronteggiò la crisi Grande per antonomasia, uscendone inventando il New Deal con l’abilità di un prestigiatore.
Secondo appuntamento, martedì, con l’opera di esordio di una delle nostre scrittrici più brave e più amate, Michela Murgia: è Il mondo deve sapere (Isbn edizioni), il libro in cui l’autrice dell’Accabadora e di Ave Mary, tra i primissimi giovani narratori a contribuire col suo tassello al «romanzo del precariato», raccontava con il suo classico mix di colta intelligenza e dissacrante comicità l’esperienza, appena laureata, da lavoratrice stagionale nel paradiso del Kirby (il super aspirapolvere che promette agli acari stermini senza pietà), cioè nell’inferno del telemarketing. In coppia, e qui le parentele si fanno più sottili, con quel precario della vita che è il protagonista primonovecentesco del romanzo di Italo Svevo La coscienza di Zeno, mai sicuro delle sue scelte si tratti del matrimonio o del dire no al vizio del fumo e depositario nella prosa dello scrittore triestino di un mix di ironia e sagacità da cui è possibile che la giovane autrice sarda abbia imparato qualcosa.
LA NOSTRA INIZIATIVA
Ecco il primo «collaterale edicola» digitale, la biblioteca di e-book che l’Unità, in collaborazione con Bookrepublic e Readmelibri.com offre ai lettori tra domani e martedì, al prezzo di tre euro a coppia di titoli. Trenta sono saggi di fresca e freschissima attualità, altrettanti, ad accompagnarli giorno dopo giorno, romanzi e trattati classici che faranno da controcanto temporale. La prima uscita, domani, sarà gratuita.
Ma analizziamo la notizia nelle sue molte facce. Primi, i dettagli tecnici: i lettori potranno leggere, consultare e scaricare (sul proprio e-reader) i libri da www.bookrepublic.it. Mentre è stata Readmlibri. com a offrire in questi giorni un’anticipazione della collana, nella sua piattaforma con varie funzioni avanzate di ricerca. Bookrepublic è la prima piattaforma digitale che, a luglio 2010, scommettendo sull’editoria più interessata a esplorare le nuove possibilità di distribuzione offerte dal digitale, cioè i piccoli e medi editori, nel cartaceo penalizzati da distributori ed esercizi, ha messo in vendita in Italia libri in formato elettronico. Solo poi sarebbero arrivate quelle dei grandi gruppi editoriali. Convoglia 130 editori indipendenti per un totale, a oggi, di 15.000 titoli che spaziano in tutti i generi, dai ragazzi alla varia, dalla narrativa alla saggistica.
L’Unità, da parte sua, è stato il giornale che negli anni della direzione di Veltroni (1992-1996) ha inventato l’allegato: i primi film, libri, album venduti con un quotidiano sono andati in edicola con questa testata. Eccoci ora alla seconda «rivoluzione»: l’allegato digitale, appunto. Aggiunge Marco Ferrario, fondatore di Bookrepublic: l’Unità ha anche una presenza online particolarmente significativa. E questo ci consente di dare un segnale chiaro al mercato.
Ma ci sono altre cifre da analizzare. Primo, il bacino di potenziali utenti. Chi sono? I lettori che possiedono un e-reader, o che «leggono» via IPad. In tutto i possessori di questi devices in Italia sono 450.000, di cui, visto che nel numero sono compresi 350.000 possessori di IPad, apparecchio multifunzione, i lettori digitali «certi» sono 100.000. Mentre negli Usa il mercato dei libri digitali viaggia ora su percentuali a due cifre, da noi il cambiamento è più lento: Ferrario spiega che si prevede che per Natale la percentuale di e-book sull’acquisto complessivo di libri arrivi all’uno virgola X per cento.
Certo è che il libro elettronico (e quindi anche questa serie), benché penalizzato sul piano dell’Iva e benché oggetto di nuovi maggiori appetiti, in termini di royalties, da parte degli agenti letterari, può essere messo in vendita a prezzi minori. Questo è uno dei motivi per cui la serie dell’Unità la prima serie digitale di un quotidiano, ripetiamolo nasce con una tempistica molto diversa da quella delle serie classiche di libri cartacei arrivate in edicola nell’ultimo decennio. Ovvero con questa cadenza quotidiana e con ogni uscita in coppia.
UNA SECONDA RIVOLUZIONE
Ma i motivi sono anche altri e hanno a che fare con la natura stessa di quanto avviene in Rete: «I tempi nel web sono strettissimi e la comunicazione non avrebbe retto la tradizionale cadenza settimanale», spiega Ferrario.
Quella che parte domani è, quindi, l’offerta per fabbricarsi un primo ampio scaffale digitale, nell’arco di un mese e a costi contenuti e sostenibili. Ovviamente, su misura per chi legge e ama il nostro giornale, su carta oppure online. E, dunque, con un mix di titoli che aiutano a esplorare i marosi del presente o che ci riportano a delle radici in un passato recente, di lettura fresca o col valore dei capolavori classici.
Gli editori coinvolti sono il Saggiatore, Isbn, Sironi, Codice, Nottetempo, Nutrimenti, Francesco Bevivino, Add, Guerini e associati, Dalai, La Meridiana, Francesco Brioschi, Alphaville, Iperborea, il Festival della Mente. Per gli autori si va da Zygmunt Bauman a Stéphane Hessel, da Franco Basaglia a don Colmegna, da Luciana Castellina a Daniel Cohn-Bendit, da Giorgio Napolitano e Gustavo Zagrebelski a Giuliano Pisapia... E poi Conrad, De Roberto, James, Roth, Swift, Dostoevskij, Tolstoi, Stendhal, Carroll, Hawthorne, Wilde, Kafka, Austen, Bulgakov, Fitzgerald, Stevenson, Dumas. Parola d’ordine? A modico prezzo, tre euro al dì, creiamo la nostra prima biblioteca per e-reader, facciamo la nostra prima, comune, abbuffata digitale di pamphlet, saggi, romanzi.