lunedì 14 novembre 2011

l’Unità 14.11.11
Bersani: «Fiducia in Monti, per noi la bussola è l’equità sociale»
Il leader Udc: «Per le riforme serve tempo, sacrifici per chi può farli»
Pd: governo tecnico totalmente nuovo Casini: obiettivo 2013
Bersani: «La crisi è seria, governo di emergenza a forte caratura tecnica». Casini: resti in carica fino al 2013. Nel Pd si discute su durata e agenda di Monti. Orfini: no a riforme strutturali, si voti presto. Letta: niente veti.
di Andrea Carugati


Tra le ormai ex opposizioni, il più sorridente è senza dubbio Pier Ferdinando Casini. Il primo a proporre un governo di larghe intese per uscire dall’agonia del berlusconismo, subito dopo il clamoroso strappo tra Fini e il Cavaliere nella primavera 2010. Un auspicio che ora ha preso forma, e infatti ieri il leader Udc è uscito dall’incontro con Napolitano al Quirinale con l’aria di chi ha fatto “13”. «Noi auspichiamo la nascita di un governo fino a fine legislatura perchè tatticismi e furberie non sarebbero ammessi», ha detto Casini, a nome del Terzo polo. «I partiti italiani sono al bivio: o speculano sulla situazione sperando in qualche tornaconto elettorale o si assumono la responsabilità di salvare il paese.
Berlusconi è stato un alibi per tutti, ora bisogna fare le cose». Insomma, una delega sostanzialmente in bianco al presidente incaricato Monti. E l’intenzione di far vivere il governo fino al 2013. «Per fare le riforme che chiede l’Europa serve tempo. Ed è giusto chiedere sacrifici a chi è in condizione di dare». Tra le ipotesi del Terzo polo, anche quelle di inserire politici di un certo peso tra i sottosegretari.
BERSANI: PRIMA L’ITALIA
Nel Pd, archiviato il breve brindisi di sabato sera per l’uscita di Berlusconi da palazzo Chigi, ora inizia una navigazione per certi versi esaltante, per altri irta di spine. «L’italia prima di tutto», ha ribadito ieri Bersani nel breve comunicato all’uscita dallo studio alla Vetrata del Quirinale. «Siamo sul punto più esposto di una crisi difficile e seria. La nostra preoccupazione è quella del lavoro, del reddito, del risparmio delle famiglie». Di qui la disponibilità per un «governo di emergenza e di transizione, totalmente nuovo e a forte caratura tecnica, che metta l’Italia in condizione di affrontare l’emergenza». Niente ministri politici, dunque. Ma Bersani invita anche gli altri partiti a «mettere mano in Parlamento a urgenti riforme», come la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari e i regolamenti di Camera e Senato.
Il leader Pd non mette alcuna scadenza al nascituro governo Monti. Ed è consapevole che per il Pd si tratta di un passaggio delicato, perché l’agenda delle riforme potrebbe toccare anche punti spinosi per il suo partito, come il mercato del lavoro. E anche esporre il Pd alla concorrenza a sinistra della Sel di Vendola, che ha concesso un via libera pieno di paletti e di “se”, e soprattutto l’intenzione di tornare al voto già all’inizio del 2012. Ma, accanto agli inevitabili sacrifici, Bersani confida nella personalità di Mario Monti. «Ha perfettamente a fuoco i temi della redistribuzione e dell’equità sociale, senza questi pilastri non ci può essere crescita», ragionano al Nazareno. E proprio la parola «equità sociale», ribadita ieri da Napolitano e dallo stesso Monti, rappresenta per Bersani una rassicurazione pesante. Accanto alle spinte dell’area più liberale che immagina una futura coalizione Pd-Terzo polo con Monti candidato premier, c’è una robusta fetta del partito, a partire dai quarantenni “laburisti” vicini a Bersani come Fassina e Orfini, e la stessa Rosy Bindi, che non ha nessuna intenzione di archiviare il Nuovo Ulivo, di perdere per strada Vendola e di rompere i ponti con la Cigl. «Da Napolitano sono arrivate parole forti e chiare», commenta a caldo Bersani. Nel partito il tema della durata del governo è oggetto di valutazioni differenti. Enrico Letta, come Veltroni e gli altri Modem, spingono perché Monti arrivi al 2013. E perché possa mettere mano anche a temi scomodi, come alcune delle misure contenute nella lettera della Bce. Pensioni, flessibilità e salari, in particolare, sono capitoli sensibili. «Il governo dovrà affrontare alcuni totem», dice il Modem Gero Grassi. «Io sono disposto a ragionare anche sull’articolo 18. Il Pd deve diventare pienamente riformista». «L’articolo 18 non si tocca, è assurdo parlare di licenziamenti», ribatte dal fronte opposto Cesare Damiano. Orfini rincara: «Monti non potrà fare le grandi riforme strutturali, perchè non ha il mandato popolare. Deve solo mettere in sicurezza il Paese, poche cose essenziali e poi si vota nel 2012». Bersani, che oggi riunirà i big prima di incontrare Monti, si attrezza alla traversata cercando di mettere in primo piano i temi condivisi, come patrimoniale e lotta all’evasione. E puntando sulle proposte che il Pd farà al nuovo governo, come una nuova lenzuolata di liberalizzazioni.

l’Unità 14.11.11
D’Alema: con le riforme economiche si faccia anche la legge elettorale
Il presidente del Copasir: il governo Monti è un’occasione per rilanciare la politica Prudenza sugli esiti della crisi: «Ma in Italia riescono le imprese eccezionali...»
Le alleanze? «La coalizione con Idv e Sel ha tenuto anche in questa difficile fase»
di Francesco Cundari


Iprimi passi sono stati compiuti. Con le dimissioni di Berlusconi e l’incarico a Monti si apre una nuova fase, delicatissima, ma tutta da giocare. Certo, non sarà facile». Al termine di una giornata scandita dall’andirivieni delle delegazioni di partito al Quirinale e conclusa con l’incarico a Mario Monti, nel primo giorno dell’era post-berlusconiana, il sentimento predominante tra gli esponenti del Partito democratico è la prudenza, a cominciare da Massimo D’Alema.
«Non c’è un gran clima di unità nazionale», dice il presidente del Copasir scorrendo le agenzie che in serata riassumono le varie dichiarazioni. Non per niente, lo stesso Pier Luigi Bersani lo ha dichiarato esplicitamente, deludendo, dicono, lo stesso Monti: «Né larghe intese né grande coalizione», bensì «governo di emergenza e transizione».
Non c’è il clima per niente di più, insomma. Ed è comprensibile, osserva D’Alema. «Non per nulla veniamo da un’esperienza drammaticamente divisiva come quella del centrodestra, che porta responsabilità immense per la situazione in cui ora si trova il Paese». Anche se l’ondata di antipolitica, diffondendo l’idea che la colpa sarebbe dei partiti in generale, ha dato a Berlusconi uno schermo dietro cui nascondersi, la realtà è che il Paese si è trovato drammaticamente indebolito perché «Berlusconi ha invertito la rotta del risanamento che i governi di centrosinistra avevano portato avanti sin dagli anni 90, e ora si presenta come se non avesse nulla di cui scusarsi...».
Questa è la ragione per cui nel governo Monti non ci saranno esponenti politici di primo piano: un governo di grande coalizione oggi non sarebbe credibile agli occhi dei cittadini. «Ma lo avete sentito Cicchitto alla Camera? È evidente che nel centrodestra non c’è una svolta politica tale da rendere comprensibile agli italiani una collaborazione di governo tra di noi».
Questo è il fattore che pesa maggiormente, perché «in un clima simile il futuro del nuovo governo è incerto». Tuttavia, D’Alema pensa che si debba fare ogni sforzo perché possa prendere forma. «Bisogna rendersi conto ripete che siamo effettivamente in condizioni di emergenza».
Il problema è che sui dati strutturali della crisi, secondo l’analisi del presidente del Copasir, si è innestata la caduta verticale caduta di credibilità del Paese, con effetti potenzialmente catastrofici. «Sarebbe folle, da irresponsabili, prescindere dalla necessità di arginare questi rischi...».
Certo però il clima non sarà l’unico ostacolo davanti al governo Monti. Al momento, le richieste avanzate dal Pdl e quelle del Pd non sembrano collimare del tutto, anche se nel corso della giornata molte distanze sembrano essersi improvvisamente accorciate.
D’Alema è convinto che si possa ragionare su un’accelerazione nella messa a regime della riforma previdenziale, con un più rapido passaggio al sistema contributivo. Naturalmente, a condizione che questo si accompagni a misure significative sotto il profilo dell’equità, a cominciare dal riequilibrio del peso della fiscalità, dal lavoro dipendente verso la rendita, i grandi patrimoni, e quanti sin qui non hanno pagato o hanno pagato di meno il costo della crisi. E occorrono, naturalmente, interventi a sostegno della crescita.
Non sarà facile, certo. Ma per quanto nel Pd prevalga la prudenza, D’Alema può essere iscritto senz’altro alla corrente degli ottimisti. «Il nostro è un Paese nel quale spesso riescono le imprese eccezionali, mentre non di rado è difficile fare le cose normali», dice. Gli domandano se il motto si possa estendere anche alla sinistra. Il presidente della fondazione Italianieuropei resta per un attimo interdetto. Poi risponde: «Forse sì. In fondo, anche la sinistra spesso si trova più in difficoltà nella vita di ogni giorno, mentre nei momenti davvero difficili mostriamo il senso della nostra responsabilità nazionale. Infatti, come si vede, di fronte alle vere difficoltà dell’Italia le nostre discussioni sono passate giustamente in secondo piano, anche dentro il Pd. Ed è molto importante che nel partito si mantenga questo clima».
Ma D’Alema non è meno ottimista sul futuro del centrosinistra. Si dice anzi «abbastanza colpito» dal fatto che la nascente coalizione con Sel e Idv abbia mostrato una certa tenuta anche in una fase obiettiva-
mente complicata come questa. Sia Antonio Di Pietro sia Nichi Vendola, pur con i loro distinguo e le loro legittime richieste, si sono dimostrati leader di forze «che vogliono collaborare, non porre ostacoli».
Il tema più delicato su cui i partiti dovranno misurarsi, nelle previsioni dalemiane, è però la «qualità del bipolarismo». Un tema potenzialmente dirompente non solo nell’alleanza, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sui quesiti referendari, ma innanzi tutto nel Partito democratico (che sui suddetti quesiti si è diviso). «Indipendentemente da cosa deciderà la corte, le forze politiche non possono rinunciare al loro ruolo, devono fare una legge elettorale in grado di rispondere alla richiesta di cambiamento, e cioè una legge elettorale di tipo europeo».
La posizione di D’Alema è nota. Una possibilità è un sistema maggioritario alla francese, quindi con il doppio turno (perché «il maggioritario senza doppio turno non risolve nessuno dei due problemi fondamentali, e cioè la stabilità dei governi e la frammentazione politica»), magari nella variante «meno costrittiva» già presentata dal Pd. Oppure, ed è la seconda possibilità, si può «ragionare su altri sistemi, come quello tedesco». Questo, secondo D’Alema, è anche il modo migliore per aiutare il governo Monti. «Noi dice vogliamo essere protagonisti di questo dibattito per dare una risposta alla domanda seria di riforme che viene dal Paese. E dovremmo cercare di dare una mano al governo anche in questo modo, avviando un processo riformatore». Se si riuscisse anche a fare una riforma costituzionale, allora si imporrebbe la riduzione del numero dei parlamentari. Comunque, anche per via non costituzionale, «si può ridurre un sistema di privilegi, non solo della politica».
Di sicuro, ragiona D’Alema, il governo Monti è «un’occasione da utilizzare per uno sforzo di rilegittimazione della politica, anziché lamentarsi perché la politica è commissariata... se si coglie l’occasione per mettere mano a riforme significative, il ruolo della politica ne sarà rilanciato. È un’occasione che sarebbe un vero peccato sprecare».

Repubblica 14.11.11
Italia prima di tutto
Il sì di Bersani: "Siamo in emergenza" ma il partito è diviso sulla cura anti-crisi
Di Pietro: governo a tempo. L´Udc: no, fino al 2013
di Giovanna Casadio


Sì a un governo di emergenza, totalmente nuovo, a forte caratura tecnica
Abbiamo espresso l´auspicio che il governo duri fino alla fine della legislatura

ROMA - La disponibilità del Pd c´è tutta. Dopo l´incarico a Monti, Bersani ribadisce l´appoggio convinto che ha già espresso al presidente Napolitano nella consultazione al Quirinale. La questione della squadra è avviata sui binari giusti: «C´è il nostro impegno per un governo di transizione che sia totalmente nuovo e con una forte caratura tecnica». Ma è il programma a costituire l´altro scoglio per i Democratici. Sia il segretario che il vice Enrico Letta hanno chiesto che il criterio ispiratore sia «equità, equità, equità». E oltre ad affrontare l´emergenza economica, nell´agenda della nuova fase ci deve essere anche «il cambiamento della legge elettorale e mettere mano alle riforme istituzionali», con la riduzione dei costi della politica. Condivisione sulle liberalizzazioni: appena il governo si insedierà il Pd presenterà il pacchetto di proposte finora bocciate. Ma i "nodi" da sciogliere sono su pensioni, flessibilità del lavoro, e su quali misure per la crescita. «Non c´è crescita senza redistribuzione», ha detto più volte il segretario, che si fa garante affinché non ci sia macelleria sociale. «La nostra preoccupazione - dice - è quella del lavoro, del reddito, del risparmio delle famiglie».
A Napolitano Di Pietro ha chiesto che il governo Monti sia a tempo. Casini, il leader del Terzo Polo, ritiene impensabile un governo con la data di scadenza: «Siamo sulla luna se non capiamo qual è la situazione. La lettera della Bce ha parlato di riforme che richiedono tempo». Emma Bonino, la leader dei radicali, rilancia: «Serve coraggio e ambizione. Bisognerà vedere se nei prossimi giorni nasce una maggioranza capace di lavorare fino al 2013 e fare le riforem di cui l´Italia ha bisogno da vent´anni o se sarà in mano ai tecnocrati». Oggi lo stato maggiore dei Democratici (segretario, vice, la presidente Bindi e i capigruppo Anna Finocchiaro e Dario Franceschini) si riunisce al Nazareno. «Ora andiamo al confronto sui contenuti», spiega Franceschini. A Orvieto, dove c´è l´assemblea di "Libertà eguale", Walter Veltroni incalza: «Serve il vero Pd, al centro dello schieramento dei riformisti, e che detti non la sua agenda, ma l´agenda del paese, anche quando si tratta di verità scomode come quella di Ichino, che tutti devono rispettare». Ovvero flessibilità, flexsecurity.
Un alt a forzature arriva da Stefano Fassina, il responsabile economia del Pd: «C´è un problema di equità che va ripristinato. Non mi aspetto un intervento sull´articolo 18. Monti è una persona equilibrata e sa che non c´entra con i problemi dell´Italia». Le questioni strutturali dell´economia e del funzionamento dello Stato sono quindi sul tavolo. Letta afferma: «Monti sarà una sorpresa per tutti; ritengono che sia il liberista bocconiano: è il miglior interprete dell´economia sociale di mercato». Ma i Democratici fino a che punto saranno disposti a spingersi nella modernizzazione del welfare e dell´economia? Cesare Damiano, l´ex ministro del lavoro, ad esempio, sulle pensioni frena. Casini sull´ingresso al governo. «Ci vado solo se eletto». E annuncia che telefonerà a Berlusconi.

La Stampa 14.11.11
Il Pd preoccupato si interroga: e poi con chi parliamo?
Per Bersani quello del Cavaliere è un “commiato” E i Democrat temono un Pdl privo di leadership
di Carlo Bertini


Come spesso accade nei momenti topici della storia, può capitare che d’un colpo le parti si rovescino e quello che da tre anni a questa parte è stato il refrain di Berlusconi nei suoi conversari privati, «nel Pd non si sa chi comanda», oggi è diventato il timore principale dei suoi ex avversari.
Giornate convulse come queste consegnano momenti che restano impressi e la nottata di sabato ne ha prodotti almeno un paio: il primo è l’immagine di Gianni Letta che da mezz’ora attende nell’anticamera di Napolitano l’arrivo di Berlusconi, il quale si presenta in ritardo preceduto dai flash d’agenzia che riportano la richiesta perentoria del Pdl di un ruolo di vicepremier proprio per Letta. Che invece ha già fatto sapere a chi di dovere che lui sarà fuori dalla partita senza alcun dubbio. Un esempio di sbandamento nella conduzione apicale di quel partito che la dice lunga e non passa inosservato in casa Pd. Il secondo è il «predellino» improvvisato da Bersani alle dieci di sera davanti alla storica sezione, che fu del Pci, di Via dei Giubbonari. Dove il leader pianta la bandiera di una sua personale vittoria, «è il Pd che lo ha mandato a casa»; sciogliendo le emozioni più intime in casa propria, come per dire “non scordatevi che il vincitore sono io”, provando a suonare la carica al suo popolo nel «giorno della liberazione», placando per quanto possibile le tante ansie sul «dopo».
Ecco da queste due istantanee si capisce meglio la preoccupazione dei vertici Democrats su come verrà gestita una partita epocale; quando la spinta del nuovo esecutivo potrebbe invertire il ruolo del Parlamento, da studio notarile a epicentro di votazioni su temi cruciali per la tenuta dei conti: patrimoniale o pensioni; e di trattative febbrili nelle commissioni su riforme ardue e sempre rinviate: legge elettorale per anticipare il referendum, dimezzamento dei parlamentari, taglio delle province e così via. E il videomessaggio del premier, considerato da tutti nel Pd come «un commiato» o meno benevolmente come «un testamento», lasciato scivolare via senza sparare bordate di reazioni pre-confezionate, non costituisce un buon viatico sulla possibilità di avere sotto l’asse piramidale del Pdl un unico interlocutore. Anche perché l’uscita dall’agone di colui che ha gestito per anni i delicati rapporti con l’opposizione, Gianni Letta, crea un problema in più in tal senso.
Il tono solenne e gravoso di Bersani al Quirinale cela infatti questo timore non espresso: anche se Berlusconi dice «raddoppierò il mio impegno in Parlamento» chi garantisce che una grossa fetta del Pdl, partito che resta maggioritario nelle Camere, non voglia seguire la Lega staccando la spina alla prima occasione? Ai suoi, il leader Pd ricorda che le «lenzuolate» di liberalizzazioni nacquero proprio dalle indicazioni del commissario alla Concorrenza Monti e che la sintonia col nuovo premier sarà scontata; e confida di tenere unito, grazie all’equilibrio di cui sarà capace Monti, il suo partito, dove già si scontrano le fazioni, con il responsabile economico Fassina sicuro che «non sarà toccato l’articolo 18» e i liberal ed ex Dc che lo invitano al silenzio. Ma c’è chi prevede che «più Monti marcerà bene, più dovrà temere gli agguati del Pdl per farlo saltare, magari con la scusa che l’emergenza è finita». E anche in Senato, dove l’asse Pdl-Lega ha la maggioranza, i Democrats ragionano sul fatto che «questo governo rischia di nascere azzoppato dall’interrogativo insoluto su chi comanderà il Pdl nei prossimi mesi». Salvo che la paura di tutti quelli che non hanno e non portano voti possa garantire lunga vita a Monti fino al 2013.

l’Unità 14.11.11
Una nuova storia per un Paese pronto a cambiare
Ci è già capitato di rimboccarci le maniche dopo le macerie della guerra. È la sfida che dobbiamo vincere anche oggi
di Clara Sereni


Non c’è dubbio: se abitassi ancora a Roma, sabato sera sarei stata di fronte al Quirinale, a cantare e applaudire, a manifestare soprattutto gratitudine nei confronti del Presidente della Repubblica, di cui ci sentiamo in qualche modo tutti un po’ figli: perché lui si è costituito in Padre della Patria.
Da lui ci siamo sentiti protetti, e ne avevamo davvero bisogno. La sua tranquilla durezza nell’indicare la strada da percorrere è stata – è – un’assunzione di responsabilità tremenda che ci ha ricondotto tutti alla realtà, fuori da perifrasi e bizantinismi. Come quando un padre ti prende per mano, la tiene saldamente nella sua e – magari strattonandoti un po’ – ti fa incamminare nella direzione che serve.
Invece davanti a palazzo Grazioli probabilmente non sarei andata, perché malgrado le monetine io non le abbia mai tirate di fronte al Raphael in quel certo giorno idealmente c’ero anch’io, e non ne sono fiera, per quella rabbia nei confronti di Craxi che aveva dentro un elemento di violenza e ferocia. Lo stesso che ho sentito crescere dentro di me per ogni insulto, per ogni menzogna, e che nella gioia di ieri sera, per fortuna, non ho visto. E lo considero un piccolo miracolo, il segno di una maturità che non ero certa avessimo conquistato.
Oggi siamo in un altro mondo, dentro un’altra storia. In qualche modo più vicina, se è possibile un paragone, alla fine del fascismo che non ad eventi che la mia generazione ha vissuto in prima persona: come se martedì la maggioranza abbia vissuto il proprio 25 luglio, fra sabato e oggi stia accadendo qualcosa che assomiglia all’8 settembre, ma poi toccherà a tutti noi arrivare fino al 25 aprile. È facile obiettarmi che quel primo Cavaliere ha portato l’Italia in guerra, e che il secondo Cavaliere non ci lascia con i carri armati nelle strade: certo, ma le metafore e i parallelismi sono sempre approssimativi, la storia non si ripete mai nello stesso modo, anche se si può dire senza tema di smentita che i cavalieri, a questo nostro Paese, non portano fortuna. Del resto, mi sembra che almeno due elementi ci riportino a quei tempi, a quelle date, a quelle sfide. A tempi di guerra.
Intanto, perché la crisi in cui ci troviamo è una ferita, perdiamo sangue e le trasfusioni non bastano mai. Poi, perché il panorama che vediamo è di devastazione, di macerie: fisiche (lo scempio del territorio e le sue conseguenze), materiali (l’economia non è solo questione di banche, riguarda quel che riusciamo a mettere nel piatto oggi e domani e in futuro), istituzionali (Costituzione e Parlamento così strapazzati e stiracchiati non li avevamo mai visti), morali. E forse nel novero della macerie ho dimenticato qualcosa. Gli italiani sono come le olive, capaci di tirar fuori il meglio di sé quando sono sotto pressione, dunque credo che ce la faremo anche stavolta, e anche bene: le energie e le competenze dissipate in questi anni non sono perdute per sempre, si può ben tornare a coltivarle e farle crescere. Ma c’è almeno un elemento di difficoltà, rispetto al secondo dopoguerra: allora eravamo un Paese giovane, mentre ora siamo invecchiati e male.
E inoltre allora ereditavamo una struttura statuale devastata e fortemente inquinata e condizionata dal fascismo. Certo, niente di paragonabile a oggi. Eppure non possiamo dimenticare che i bombardamenti più duri hanno colpito in questi anni proprio le strutture portanti dello Stato: il Parlamento, l’istruzione e la cultura, la magistratura, il lavoro, il farsi stesso di leggi e provvedimenti.
Ci vuole lucidità, nell’affrontare tutto questo: non cedere al panico, non aspettarsi miracolistiche vie d’uscita. Prodi (che continuo a ritenere il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia avuto) pagò la delusione di aspettative messianiche non suscitate certo da lui: vediamo di non ripetere l’errore. L’auspicabile governo Monti può cominciare a fare un primo ordine, e sarà già molto se riuscirà a far questo da qui alla scadenza naturale della legislatura – e insisto su naturale.
Dopo, toccherà a tutti noi – di fronte a un panorama un po’ sgombrato dalle macerie – ricominciare a progettare. Sapendo di dover smettere di essere figli e farci compiutamente adulti. Sapendo di doverci liberare con un’analisi seria delle cellule di berlusconismo che si sono radicate dentro di noi, nessuno escluso. Con le radici profonde del fascismo l’Italia non ha mai fatto i conti fino in fondo, e non smettiamo di pagarne le conseguenze; ma proprio perché ne abbiamo già fatto l’esperienza, perché su questo nodo mai sciolto tante speranze si sono infrante e tanto dolore è nato, stavolta possiamo non ripetere l’errore. Se ne saremo capaci, allora sì che veramente potremo festeggiarci a pieno titolo, ed essere soggetti di una Storia nuova.

Repubblica 14.11.11
Il senatore va a messa e poi al Colle "Puntare tutto su crescita e equità"
di Alberto D’Argenio


Entro mercoledì la lista dei 12 ministri. L’incontro con Berlusconi
Ai giornalisti una battuta: "Visto che splendida giornata oggi?". Poi la funzione
Oggi e domani le consultazioni, il voto di fiducia giovedì al Senato, poi alla Camera
Occorre risanare e riprendere il cammino della crescita in un quadro di equità. Lo dobbiamo ai nostri figli, per dargli un futuro di dignità e speranza

ROMA - «In un momento di grande difficoltà, il Paese deve vincere la sfida del riscatto, deve tornare ad essere elemento di forza e non di debolezza di un´Unione europea di cui siamo stati fondatori e di cui dobbiamo essere protagonisti». Mario Monti accetta con riserva l´incarico di presidente del Consiglio. In serata - dopo l´incontro con Giorgio Napolitano - parla alla stampa per la prima volta dall´inizio della sua avventura romana. Il suo obiettivo è quello di «risanare la situazione finanziaria e riprendere il cammino della crescita in un quadro di accresciuta attenzione all´equità sociale per dare ai nostri figli un futuro concreto di dignità e di speranza». Se la giornata del Professore era iniziata a messa, si chiude con un colloquio a Palazzo Chigi da Silvio Berlusconi.
I tempi per la formazione dell´esecutivo saranno meno veloci del previsto. Napolitano ricorda che nessuno ha mai parlato di un governo da fare in tre ore. Il calendario che Monti illustra negli incontri riservati con i leader politici parla chiaro: le consultazioni con i partiti, che iniziano oggi alle 10, si protrarranno per tutta la giornata di domani. Quindi, domani sera, il Professore si recherà al Colle per sciogliere la riserva. Non ha ancora deciso se con sé porterà la lista dei ministri, meditando di presentarla a Napolitano mercoledì mattina. Giovedì la fiducia al Senato. Venerdì alla Camera. Un percorso che Monti si sarebbe ritagliato perché - dice alla stampa - intende condurre le consultazioni «con senso di urgenza ma con scrupolo». Ma c´è dell´altro, spiegano i politici che ieri gli hanno parlato: così mira ad allontanare dalla sua figura l´alone di tecnico e conquistarsi quel consenso parlamentare che vive come la possibile spina nel fianco del suo futuro governo. «Il problema sarà la quotidianità in aula e nelle commissioni», spiega il capo di un partito che appoggia Monti. Per questo il presidente della Bocconi vorrebbe ancora portarsi in squadra qualche parlamentare da affiancare ai tecnici, ma i veti incrociati tra i partiti sembrano ormai aver azzerato le sue speranze.
Anche per parlare di questo in serata Monti torna da Berlusconi a Palazzo Chigi. Un incontro dopo il pranzo di sabato. Chissà se il Cavaliere ha confidato al Professore il soprannome che ormai gli ha appiccicato nei colloqui con amici e collaboratori: «Mr. Spread». Se Berlusconi vede nei mercati il motivo della sua caduta e dell´ascesa di Monti, l´ex commissario Ue punta proprio nella forza della sua credibilità per portare il futuro governo fino a fine legislatura. «Di fronte alle difficoltà di governare con soli tecnici e alle mille insidie parlamentari - racconta un senatore di rango che nei giorni scorsi gli ha parlato - il Professore confida che il suo prestigio e le prime mosse del governo aiutino a far ripartire l´economia, in modo da portare a termine il suo programma».
Certo è che proprio pensando alle insidia che lo aspettano a Montecitorio e Palazzo Madama che nella conferenza stampa al Colle Monti rimarca «il senso di responsabilità» e lo «spirito di servizio per il nostro Paese» che lo ha portato ad accettare l´incarico e chiede a tutti «uno sforzo comune» per uscire da una situazione «che ha aspetti di emergenza». Consapevole di quanto cruciale sarà il comportamento dei cinque partiti che sosterranno il suo esecutivo, rimarca «il profondo rispetto nei confronti del Parlamento e delle forze politiche».
Intanto sale l´attesa per il programma del nuovo premier. Si prevede un intervento sulle pensioni di anzianità, si parla di una possibile reintroduzione dell´Ici sulla prima casa e di una patrimoniale sopra gli 1,5-2 milioni. Secondo alcuni parlamentari in contatto con il Professore il primo passo del governo, entro un paio di settimane dal suo insediamento, sarà un decreto economico con riforme forti accompagnato da quella manovra correttiva dei conti, la quinta dell´anno, da 25 miliardi chiesta dall´Ue per rispettare gli impegni di bilancio presi da Berlusconi e che lo stesso Cavaliere dopo poche settimane non è stato in grado di mantenere.
Un compito difficile per Mario Monti, quello di ridare al Paese la credibilità perduta con Berlusconi. Destino vuole che in mattinata quando si reca a messa con la moglie Elsa ascolti la parabola dei talenti del Vangelo di Matteo. Poi ai giornalisti che ormai non lo perdono d´occhio un solo istante con garbo dice: «Avete visto che splendida giornata?». Quindi, sempre riferendosi al codazzo di cronisti e telecamere, chiede simpaticamente alla scorta: «Ma sarà sempre così?». Intorno qualche applauso dei passanti.

l’Unità 14.11.11
Studenti e disoccupati
i ceti traditi: dal sogno all’incubo berlusconiano
Nel nuovo corso bisogna recuperare questa parte di tessuto sociale che rischia di rimanere apolide e ciò sarebbe un problema grave per la democrazia. Ma questo sarà compito dei partiti, non di Monti
di Carlo Buttaroni


L’incarico che il Presidente della Repubblica ha dato a Mario Monti non è quello di rilanciare l’Italia dal punto di vista politico e sociale, per quello ci vorrà tempo e un governo con caratteristiche diverse. Adesso l’emergenza è mettere in sicurezza il Paese e gestire uno scenario di guerra il cui campo di battaglia è rappresentato dai mercati.
Nelle prossime ore i bollettini provenienti da Piazza Affari e dalle altre piazze finanziarie ci aggiorneranno sull’evolversi della situazione e vedremo come reagiranno. Nel frattempo, come in tutte le guerre, il morale fa la differenza e i primi segnali sono confortanti: giù lo spread, i tassi d’interesse sul debito alleggeriscono la morsa, cresce la fiducia nella tenuta del fronte italiano. Ma siamo solo all’inizio, dobbiamo esserne consapevoli, perché gli attacchi alle strutture economiche del nostro Paese non si esauriranno a breve. Al contrario, saranno ancora violenti e dalla capacità di risposta del nuovo governo dipenderanno le sorti del nostro Paese.
Se l’Italia ha ancora delle carte da giocare il merito è soprattutto del Presidente della Repubblica. In questi lunghi mesi il Quirinale ha rappresentato il vero punto di riferimento per gli italiani e per le cancellerie europee. Di fatto, il settennato di Giorgio Napolitano si sta caratterizzando come il più politico nella storia della Repubblica.
Se quello di Mario Monti è un gabinetto di guerra, voluto dal Presidente della Repubblica, la partita che si gioca in Parlamento, su cui però Giorgio Napolitano nulla può, rischia di complicare il quadro e rendere più debole il nuovo esecutivo.
La Lega e parte del Pdl sono dichiaratamente contrari e anche tra chi non fa mancare parole di sostegno a Mario Monti, ci sono distinguo e precisazioni, che lasciano intuire che molti pensano già al dopo e alle prossime elezioni politiche.
D’altronde il nuovo Presidente del Consiglio dovrà mettere in campo misure straordinarie per rafforzare la tenuta del nostro Paese, misure che probabilmente molti considerano inconciliabili con un consenso ancora tutto da confermare o ricostruire.Si parla di patrimoniale e di nuovi tagli alla spesa pubblica, d’interventi sulle pensioni. Sicuramente la situazione richiede interventi forti e l’unica cosa certa è che Monti dovrà agire tempestivamente, come ha chiesto lo stesso Presidente della Repubblica. Anche perché gli ultimi mesi del Governo Berlusconi sono stati drammatici proprio per le incertezze, i ritardi, le marce indietro, i provvedimenti annunciati e mai presi. Incertezze che hanno fatto anda-
re in fumo gran parte delle risorse che, da giugno in poi, sono state attivate per far fronte alla crisi economica. Un prezzo che gli italiani pagheranno, per lungo tempo, di tasca propria in termini di pressione fiscale, diminuzione del potere d’acquisto, tagli dei servizi, disoccupazione.
Adesso, per far fronte alla guerra, il nuovo esecutivo cercherà un sostegno senza incertezze, senza distinguo, senza tentennamenti, senza marce indietro improvvise, senza imboscate da parte di chi siede in Parlamento. Al di là delle parole di circostanza non sarà facile, anche perché la disgregazione del Pdl e il comportamento dell’ex maggioranza, divisa tra chi vuole dare sostegno al nuovo Premier e chi vuole evitare contagi in vista di future elezioni, complicano ulteriormente il quadro. E questo la dice lunga sul prevalere degli interessi individuali rispetto a quelli del Paese, almeno in una parte di coloro che siedono nelle aule di Camera e Senato.
È proprio questo, probabilmente, il lascito peggiore del crepuscolo berlusconiano: non nei conti pubblici, quanto nel venir meno di quel senso di responsabilità e dello Stato al quale sempre più spesso Napolitano ha fatto richiamo.
Una degenerazione culturale e politica che si rispecchia nelle forme espressive di un potere che, in questi ultimi anni, è stato prossimo a un morbido assolutismo e quasi indifferente al bene comune.
L’eredità di Berlusconi è nell’aver trasferito la democrazia nel perimetro tecnologico dei media, instaurando un regime spettacolare che ha cambiato il modo stesso di governare, mettendo al posto della politica, nuovi apparati e nuovi rituali basati sulle tecniche del marketing: alimentare i bisogni trasformandoli in sogni, sostituire il ragionamento con le emozioni, sedurre anziché convincere.Quello di Berlusconi, più che un governo, è stato un regno, con tanto di palazzi e ville, guardie, giardinieri, cortigiani, feste di corte. Un sovrano, con tratti narcisisti e megalomani, che passeggiava sui palchi, dispensava investiture e indulgenze, raccontava barzellette, dando corpo a una dittatura dell’intimità e a una rappresentazione pornografica della quotidianità che si è via via popolata di personaggi improbabili.L’uscita di scena di Berlusconi, che si è consumata sabato, è pro-
babilmente l’ultima puntata di una serie di trasformazioni che ne hanno più volte annunciato la fine e poi la rinascita. Il Berlusconi che ha chiesto il voto nel 2008 per un nuovo miracolo italiano, è diverso da quello del ’94 e del 2001, perché diversa è la base del suo consenso: non più la massa di lavoratori autonomi, di casalinghe e pensionati ma i lavoratori dipendenti con un inquadramento medio e basso, se, a dar corpo al consenso, è stato il miraggio di un nuovo miracolo annunciato dai teleschermi in formato 16:9. Oggi quel sogno si è trasformato in un incubo. I lavoratori dipendenti, compresi quelli pubblici, non hanno più la sicurezza del posto fisso; gli studenti vivono l’ansia di un futuro incerto; tra i disoccupati la prospettiva di riscatto si è trasformata in rassegnazione.
Il rischio è che la delusione del sogno tradito li trasformi in apolidi e li porti a rinunciare alla cittadinanza politica. Questo l’Italia non può permetterselo. E purtroppo a questo Monti non potrà porre rimedio perché è compito della politica e dei partiti ricostruire quel tessuto democratico sfilacciato che oggi minaccia le fondamenta della democrazia.

Corriere della Sera 14.11.11
Le convulsioni di un'epoca che finisce
di Paolo Franchi


Se ci sei, batti un colpo. Correva l'anno 1944, e così titolava (provocatoriamente, e anche coraggiosamente) il suo editoriale un fascista sui generis, il direttore della Stampa Concetto Pettinato. Lo spirito evocato perché finalmente tornasse a manifestarsi era, si capisce, quello del duce. Che in effetti, seppure a qualche mese di distanza, si manifestò a Milano, al teatro Lirico. Fece un discorso importante, riscaldò il cuore intirizzito dei suoi, ebbe un successo imprevisto e imprevedibile. Destinato a durare, però, solo pochi giorni: difendere «con le unghie e con i denti la valle del Po» era impresa patentemente impossibile.
Ogni raffronto tra Silvio Berlusconi e Benito Mussolini, e tra il cosiddetto berlusconismo e il fascismo, non è soltanto fuorviante, ma del tutto insensato. Però ci deve essere un motivo, se i vibranti appelli di questi giorni a Berlusconi perché rompesse gli indugi, si sottraesse alla trappola dell'unità nazionale, e tornasse a vestire subito i panni a lui più congeniali, quelli del combattente, hanno fatto venire in mente (forse non solo a me) il famoso editoriale di Pettinato. Silvio, se ci sei, batti un colpo. Forse in fondo a questo (inascoltato) appello c'è anche qualcosa che ha a che fare con un aspetto non secondario dell'ideologia e persino dell'antropologia italiana. Qualcosa di non digerito, o di non elaborato, che ci portiamo appresso un po' tutti, se è vero, come è vero, che il fascismo è parte decisiva dell'autobiografia della nazione, ma che a destra, ovviamente, è più forte, come se non ci fosse «svolta» in grado di archiviarlo una volta per tutte. Qualcosa che si manifesta soprattutto nel momento della sconfitta, quando tutto sembra perduto.
Sì, certo, quando Berlusconi nel '94 vinse per la prima volta le elezioni, il manifesto chiese e ottenne che la celebrazione milanese del 25 aprile si trasformasse in una grande giornata di lotta contro il nuovo Mussolini: diluviava, ma, quanto a partecipazione, quel corteo fu ugualmente un trionfo. Per restare al passato prossimo, è dalle parti della sinistra che nei mesi scorsi ci si arrovellava non su un possibile 25 aprile, ma su un 25 luglio prossimo venturo. Però da quando la Camera, l'8 novembre, ha lasciato Berlusconi senza uno straccio di maggioranza fino alle dimissioni del Cavaliere e oltre, è a destra che, come per un riflesso condizionato, sono tornate in auge categorie a quanto pare immarcescibili, e un lessico antico. «Ci risiamo coi traditori. Dopo quelli storici del 25 luglio, ecco i traditori dell'8 novembre», ha annotato giustamente (Corriere, 10 novembre) Ernesto Galli della Loggia. Traditori che, parola di Francesco Storace, «meriterebbero di essere fucilati alla schiena». Vigliacchi. Badogliani. Cagoia. Politicanti marci dentro che, per panciafichismo e miserabile tornaconto personale hanno violato il patto sacro che li legava al capo. Nonché, naturalmente, venduti allo straniero e alla grande finanza internazionale. Povero Berlusconi. Ha tutti i difetti del mondo, ma per storia, inclinazioni, gusto con questa roba avrebbe, del suo, poco da spartire: in ogni caso, non ha mai avuto l'aria di chi vorrebbe andare in cerca della bella morte, e infatti si è ben guardato dal farlo. Non meriterebbe che lo trascinassero dentro un mondo che non gli appartiene, se non fosse che, sempre quella maledetta sera dell'8 novembre, ci si è infilato da solo, rispondendo alle domande del direttore della Stampa, Mario Calabresi: «Stavo leggendo un libro sulle lettere di Mussolini a Claretta Petacci, lui a un certo punto le dice: "Ma non capisci che io non conto niente, che posso fare solo delle raccomandazioni"»? Certo, si riferiva alla pochezza dei poteri di cui, secondo lui, dispone, nonostante sia un uomo del fare, il presidente del Consiglio. Peccato che, pescando nelle sue letture, abbia scelto proprio quella. E peccato pure che, sul momento, non gli sia nemmeno passato per la testa di non poter nemmeno invocare come alibi, a differenza del duce, né l'invadenza del valoroso alleato germanico né le beghe del fascismo di Salò.
Non c'è troppo da sorprendersi, dunque, se a Ben e a Claretta, immedesimandosi nella seconda, abbia pensato anche la giovane deputata del Pdl Barbara Mannucci. Che però, quanto a «onore e fedeltà», ha subito dovuto vedersela con la collega Alessandra Mussolini: niente Claretta, il modello italianissimo di fedeltà al capo è e resta nonna Rachele. E non c'è troppo da sorprendersi nemmeno se Franco Frattini si è lasciato sfuggire una battutaccia su «questi fascisti», avendosene in cambio un ringhio di Ignazio La Russa sul suo passato di «militante del manifesto». La Seconda Repubblica, priva com'è di un mito fondativo e di una storia, muore così, non solo di spread. A vederle da vicino, in tempo reale, le sue crisi convulsive, ritorni di fiamma compresi, possono sembrare anche ridicole. Ma rischiano di gettare un'ombra sinistra sul futuro.

Corriere della Sera 14.11.11
I primi tagli: iniziare dalla politica. Ecco dove
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella


L'agenda di governo di Mario Monti non può che cominciare dalla B. Berlusconi? No: Burocrazia.
Racconta il progettista della stazione Tiburtina di Roma di una conferenza dei servizi, «decisa per accelerare», con 38 partecipanti: trentotto! Un delirio: i 456 mila euro per dare
le fotocopie del progetto a tutti gli invitati sono o no un costo della politica? Sì.
Ed è lì che, per fare le altre riforme necessarie, il nuovo premier dovrà mettere mano.
Anzi, proprio per toccare il resto, dovrà «prima» affondare il bisturi lì: nel grasso della cattiva politica.

A Auto blu
«Le abbiamo già dimezzate!», ha detto la ministra della Gioventù Giorgia Meloni mercoledì a La7. Il ministero della Difesa, che ha un centinaio di auto blu e 700 auto «grigie» nonostante solo in 14 avrebbero diritto al privilegio aveva appena acquistato 13 Maserati quattroporte blindate: alla faccia della manovra di luglio, che aveva stabilito la cilindrata massima di 1.600. Se ha ragione Brunetta si potrebbe risparmiare un miliardo l'anno. Da subito.
B Bilanci
È la riforma più urgente: i bilanci di Stato, Regioni, Province, Comuni sono un caos. Voci diverse, capitoli diversi, strutture diverse: ognuno fa come gli pare. Il tutto nella nebbia volutamente più fitta. Cosa c'è nei 50 milioni di euro della voce «fondo unico di presidenza» di palazzo Chigi? I soldi per le operazioni «discrete» degli 007 o la tinteggiatura dei muri? Servono bilanci unici, trasparenti, che lascino piena autonomia politica ma siano leggibili da tutti (le fognature si chiamino fognature, le consulenze consulenze) dove si capisca quanti soldi si spendono e per che cosa. Così i cittadini potranno fare dei confronti innescando una spirale che porterà a risparmi veri.
C Conflitto d'interessi
L'Italia è diventata una Repubblica fondata sul conflitto d'interessi. Basta con presidenti del Consiglio proprietari di reti televisive, ma anche assessori alla salute titolari di aziende fornitrici della sanità pubblica, sottosegretari proprietari di società che gestiscono la pubblicità per i giornali, sindaci geometri che presiedono giunte che approvano i loro progetti, avvocati-assessori che fanno causa alla propria amministrazione.
D Doppio lavoro
Se valessero a Roma le regole americane, ci sarebbero 186 parlamentari «fuorilegge»: tutti coloro che, pagati per fare i deputati o i senatori fanno pure altri mestieri, moltiplicando i propri affari grazie alla politica. E sottraendo tempo al proprio impegno istituzionale. Ecco: copiamo gli americani.
E Europa
Con la manovra di luglio si è deciso di equiparare gli stipendi dei nostri parlamentari alla media europea, sia pure corretta in base al Pil e limitata alle sei nazioni più grandi. Anche i rimborsi elettorali andrebbero adeguati a quella media. È inaccettabile che un italiano spenda in media 3 euro e 38 centesimi l'anno per mantenere i partiti, contro 2,58 degli spagnoli, 1,61 dei tedeschi e 1,25 dei francesi.
F Fisco
Una leggina infame permette a chi finanzia un politico di avere uno sconto fiscale 50 volte superiore a quello di chi dà soldi a un ente benefico o alla ricerca sul cancro. Avevano giurato di cambiarla, non l'hanno mai fatto. E tutte le proposte di legge presentate per correggere questo abominio giacciono mestamente in parlamento. Vanno tirate fuori e approvate. Subito.
G Gettoni
Un consigliere comunale di Padova incassa per ogni seduta 45,90 euro, uno di Treviso 92, uno di Verona 160. Per non dire delle regioni a statuto speciale, dove con trucchi vari un membro del consiglio municipale di Palermo può prendere 10mila euro al mese. Stop. L'autonomia non c'entra e non può essere usata a capriccio: regole fisse per tutti, da Lampedusa a Vipiteno.
H High speed
I ritardi sulla velocità di download, dove nella classifica netindex.com siamo al 70° posto dopo Kazakistan e Rwanda, sono così abissali da far sospettare a una scelta inconfessabile: meno funzionano gli sportelli elettronici, più i cittadini dipendono dai «piaceri» della burocrazia e della politica. Con costi enormi, da tagliare.
I Indennità
Le «buste paga» devono essere trasparenti, commisurate alla media europea, per tutte le cariche: l'assessore alla sanità altoatesino non può guadagnare 6mila euro più del ministro della sanità di Berlino. Basta furbizie, come certi rimborsi esentasse a forfait (magari anche a chi non ha la macchina, come nel Lazio) o il contributo per i portaborse che troppo spesso, incassato dal parlamentare, è girato ai collaboratori solo in minima parte e in nero. Si faccia come a Strasburgo, dove gli assistenti sono pagati direttamente dall'Europarlamento.
L Limiti
Il governo Prodi nell'infuriare delle polemiche aveva fissato un limite massimo agli stipendi dei superburocrati: 289 mila euro. Quel tetto, tuttavia, non è mai stato applicato. Tanto che il presidente delle Poste Giovanni Ialongo nel 2009 di euro ne ha presi 635 mila. Urgono nuove regole.
M Municipalizzate
Le società miste dei servizi pubblici locali sono state troppo spesso usate per aggirare le regole su assunzioni e appalti causando paurosi buchi finanziari ripianati dalla collettività. Basta. È inammissibile che un comune, socio principale, approvi un bilancio in rosso senza risponderne. Le regole devono essere le stesse del settore privato: chi truffa paga.
N Nomine
Il «manuale Cencelli», in base al quale vengono ripartite fra i partiti le poltrone pubbliche, vada al macero. Le nomine devono obbedire esclusivamente a criteri di merito. Va fissata la regola che chi ha ricoperto una qualsiasi carica elettiva non può essere nominato in un'azienda pubblica almeno per cinque anni. Sennò ogni poltrona diventa merce di scambio per i riciclati o per comprare un'alleanza.
O Onorevoli
Una legge costituzionale che preveda il dimezzamento dei Parlamentari e il superamento del bicameralismo perfetto si può approvare in 90 giorni. Sono tutti d'accordo, come dicono da mesi? Lo dimostrino.
P Province
Quante volte destra e sinistra hanno promesso che avrebbero abolito le Province? Costano fra i 14 e i 17 miliardi di euro l'anno e alla fine aveva accettato il taglio, sia pure a malincuore, anche la Lega. Passino dalle parole ai fatti. Anche in questo caso basterebbero tre mesi.
Q Quadruplo
Il mercato dell'auto in Italia è sceso ai livelli del 1983. Da quell'anno preso ad esempio il Pil pro capite è cresciuto del 40% ma il costo della Camera e del Senato in termini reali è quadruplicato. Un delirio megalomane. Da ricondurre a una maggiore sobrietà. Anche mettendo fine al principio dell'autodichia, in base al quale nessuno può mettere becco sui conti di Camera, Senato e Quirinale. Un controllo esterno, visto quanto è successo, è obbligatorio.
R Regioni
È intollerabile che rispetto agli abitanti i consigli regionali della Lombardia o dell'Emilia-Romagna costino circa 8 euro pro capite, quello sardo 51 o quello aostano 124. Identici servizi devono avere identici costi. Il «parametro 8 euro» farebbe risparmiare 606 milioni l'anno. Tolto l'Alto Adige per l'accordo internazionale da rispettare, andrebbero riviste inoltre alcune regole delle autonomie: non possono essere occasione di ingiusti squilibri e privilegi.
S Scorte
Da decenni ogni ministro dell'Interno dice d'averle tagliate, ma è una bufala. A Roma il rapporto fra auto di scorta e volanti della polizia, lo dice il Sap ma il prefetto concorda, è di otto a uno. Di più: la benzina per le scorte non manca mai, quella per le volanti o le gazzelle devono pagarla talvolta di tasca propria i poliziotti e i carabinieri.
T Trasparenza
Facciamo come gli inglesi: prendiamo le loro stesse regole sulla situazione patrimoniale di parlamentari, consiglieri regionali, sindaci e altre cariche elettive. Tutto trasparente, tutto sul Web. A partire dai finanziamenti privati ai partiti, oggi non solo limitati alle somme sopra i 50 mila euro, ma inaccessibili on-line. In più, la certificazione dei bilanci dei partiti va resa obbligatoria.
U Uniformità
È la regola aurea della buona amministrazione. I costi devono essere uniformi: dalle «liquidazioni» ai deputati alle siringhe delle Asl. Per mantenere i suoi dipendenti la Regione siciliana non può far pagare a ogni cittadino 353 contro i 21 euro della Lombardia. E se si stabilisce il blocco delle assunzioni, questo deve riguardare, a maggior ragione, anche palazzo Chigi.
V Voli blu
Nel 2009 le ore volate per ogni membro del governo sono state del 23% superiori al record del 2005 e addirittura del 154,2% rispetto al 2007 (gabinetto Prodi). La recente norma voluta da Tremonti che limita i voli blu ai massimi vertici dello Stato va applicata subito. Con l'obbligo di pubblicare su internet i dettagli di ogni viaggio: nome dei passeggeri, destinazione, costo. Una disposizione che dovrebbe essere retroattiva, perché i cittadini si possano rendere conto di quello che è successo negli ultimi anni.
W Welfare
Prima di toccare le pensioni dei cittadini va radicalmente cambiato il sistema dei vitalizi, che oggi vede da 11 a 13 euro di uscite per ogni euro di contributi in entrata. Vale per il Parlamento, vale per le Regioni: 16 anni dopo la riforma Dini è scandaloso che qua e là si possa andare in pensione ancora a 51 anni con quattro di contributi.
Z Zavorra
Vanno tagliate subito sul serio tutte le spese esagerate. I dipendenti di palazzo Chigi sono attualmente più di 4.600 contro i 1.337 del Cabinet Office di David Cameron. La sola Camera paga per affitti 35 milioni di euro l'anno: 41 volte più che nel 1983. Una megalomania estesa alle Regioni. Dove negli ultimi anni gli investimenti immobiliari sono stati massicci. La Puglia «sinistrorsa» ha appaltato la costruzione della nuova sede per 87 milioni, la Lombardia «destrorsa» per il Nuovo Pirellone con un mega-eliporto ne ha spesi 400. Per non dire di certi contratti extra lusso: ogni dipendente medio del Senato costa 137.525 euro. Cioè 19 mila più dello stipendio dei 21 collaboratori stretti di Barack Obama.

l’Unità 14.11.11
Beni culturali, cambiare ora
di Vittorio Emiliani


Tutti riconoscono che la più grande ricchezza del nostro Paese è quella che si sostanzia in oltre 3.500 musei, in quasi 100.000 fra chiese e cappelle, in 40.000 torri e castelli, in 20.000 centri storici di cui almeno mille strepitosi (italici, etruschi, greci, romani), ecc. e in paesaggi tanto belli e diversi, “fatti a mano” (una «seconda natura», scrisse Goethe) che, malgrado una demenziale cementificazione, affascinano ancora tanti turisti.
Tutti lo riconoscono, però questo Ministero che una volta saggiamente ricomprendeva anche i beni ambientali -, già cenerentola dei Ministeri, coi tagli feroci del governo Berlusconi-Tremonti vede ridotte al lumicino le risorse finanziarie e quelle umane e tecniche: gli archeologi di ruolo sono 341, al pari degli storici dell’arte e degli architetti.
Perché si arresti questa suicida spoliazione e il dilagare dell’ignoranza nelle scuole di ogni grado ribadita dal ministro Gelmini («ex» per sempre speriamo), un gruppo di associazioni e di persone che si battono per la salvezza di tanto patrimonio hanno rivolto un appello al presidente Napolitano sempre tanto sensibile ai problemi della cultura. Si tratta, oltre a chi scrive, di Desideria Pasolini dall’Onda (fondatrice di “Italia Nostra”), dell’urbanista Vezio De Lucia, del sociologo Luigi Manconi per il Comitato per la Bellezza, della presidente della storica “Italia Nostra”, Alessandra Mottola Molfino, di Marisa Dalai, importante storica dell’arte, presidente della Bianchi Bandinelli, di Fulco Pratesi fondatore e presidente onorario del Wwf-Italia, dell’urbanista Edoardo Salzano e dell’archeologa Maria Pia Guermandi che animano Eddyburg, sito battagliero.
Chiedono che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (ma il discorso vale pure per l’Ambiente) venga affidato «a una persona di alto profilo culturale e morale, di sicura competenza politico-amministrativa e di provata autonomia rispetto alle due più recenti, negative gestioni del Ministero stesso». Cioè rispetto alle gestioni Bondi e Galan. Il MiBAC affermano è al disastro: risorse per la mera sopravvivenza, investimenti ormai inesistenti, tecnici ministeriali, in assenza di concorsi, pochi e anziani, promosse ad alti incarichi persone bocciate nei rari concorsi ledendo ogni meritocrazia, decine di Soprintendenze gestite ad interim, commissariamenti diffusi e dannosi, co-pianificazione Ministero-Regioni per il paesaggio bloccata mentre la speculazione imperversa, educazione all’arte sempre più inadeguata, ecc.
Da qui l’indispensabilità che, per risalire da tanto disastro e per sanarlo, al Collegio Romano vada una persona di alta competenza e moralità che nulla abbia a che fare col recente devastante passato che ha pure disattivato alcune buone leggi. Un nome potrebbe senz’altro essere quello di Salvatore Settis, studioso di fama, già al Getty e alla Normale di Pisa, dimessosi dalla presidenza del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e subito sostituito da Bondi. In questo mondo non mancano personaggi qualificati.
Uno di questi è certamente l’archeologo Stefano De Caro appena nominato, primo italiano, direttore generale dell’ICCROM, istituto internazionale per il restauro, malgrado l’opposizione udite, udite del delegato italiano inviato a fare quella figura barbina dal Gabinetto dell’ormai perente ministro Giancarlo Galan. Presumibilmente dallo stesso Salvo Nastasi che a Venezia ha spalleggiato l’improvvida scelta di Galan di non confermare alla Biennale Internazionale di Venezia il presidente in scadenza Paolo Baratta (che ha fatto benissimo) per metterci un amico del Cavaliere. Quel Malgara che, davanti a 4.500 firme contrarie da tutto il mondo e a un parere negativo della Camera, ha almeno avuto la dignità di farsi da parte.
Due episodi fra i tanti che confermano l’indispensabilità di imprimere una svolta che salvi insieme il patrimonio di competenze pubbliche, di tecnici tanto bravi quanto sottopagati (1.700-1.800 euro per dirigenti con trenta’anni di carriera) e una fonte di cultura che è anche economica (se la si tutela): il turismo fornisce una quota di PIL vicina a quella della tanto decantata edilizia e una bella fetta di essa viene dal turismo culturale.

l’Unità 14.11.11
Morire in prigione: gli ultimi due casi sabato scorso a Poggio Reale e all’Opg di Reggio Emilia
Il totale dei decessi 2011 sale a 58. Sindacato Uil-Pa: «Sistema penitenziario non più gestibile»
Altri due suicidi in carcere: 5 morti al mese nelle celle «Contro la dignità»
Senza fine il dramma dei suicidi in carcere. Con gli ultimi due episodi di sabato scorso, una media di 5 casi al mese dall’inizio dell’anno. I sindacati di categoria denunciano condizioni disumane anche per gli agenti.
di Felice Diotallevi


Non finisce mai il dramma dei suicidi, veri o presunti, nelle carceri italiane. Anche ieri, sul fronte di questa guerra silenziosa e spietata,due nuovi casi che portano a livelli da record le cifre della strage. Gli episodi, avvenuti nel reparto osservazione del carcere napoletano di Poggioreale e nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Con queste morti, sale a 58 il totale dei suicidi nelle celle italiane in questo 2011. «Il dramma penitenziario con il suo carico di disumanità indegnità e dolore» sia una delle «priorità» del prossimo governo. A chiederlo è il sindacato Uil-Pa penitenziari che ha denunciato questi ultimi due casi. Ossia quello nella struttura in Emilia, un camionista che aveva fatto una strage nel mantovano, e quello di un detenuto del carcere napoletano di Poggioreale, che era stato arrestato venerdì scorso per tentativo di omicidio e che ha utilizzato per togliersi la vita brandelli della coperta in dotazione. Una spirale drammatica su cui incide «l’incapacità del sistema penitenziario di garantire una detenzione dignitosa e umana oltreché‚ l’impossibilità di adempiere al dettato costituzionale di rieducazione e risocializzazione».
Il degrado strutturale ed il sovraffollamento delle strutture penitenziarie «contribuiscono al sistematico calpestio della dignità umana». E la mancanza di risorse umane, logistiche ed economiche «nega qualsiasi possibilità di agire sul fronte del
recupero e della risocializzazione dei rei». «Una situazione al limite dell’ingestibilità», sottolinea il segretario Eugenio Sarno, che ringrazia il leader dei Radicali Marco Pannella per aver definito «eroico» l’impegno della polizia penitenziaria. Questa la ricostruzione di Sarno: «A Poggioreale continua Sarno a suicidarsi, con dei brandelli della coperta in dotazione, è stato R.G., 50enne originario di Napoli, arrestato nella giornata di venerdì per tentato omicidio. A Reggio Emilia, verso le 11.15, a suicidarsi un pluriomicida che si è impiccato al rientro in cella dopo aver effettuato un colloquio con i propri cari». Per la Uil Penitenziari la spirale di suicidi è solo uno degli indicatori delle condizioni in cui versa il sistema penitenziario italiano. «È sempre difficile, se non impossibile, comprendere le motivazioni che portano a queste auto soppressioni in cella aggiunge Sarno riteniamo, però, di poter affermare che molto incida l’incapacità del sistema penitenziario di garantire una detenzione dignitosa e umana oltreché l’impossibilità di adempiere al dettato costituzionale di rieducazione e risocializzazione».
Lo ha ben compreso il quasi ex ministro Palma, secondo Sarno «che, in occasione del discorso pronunciato a Roma durante la cerimonia del giuramento dei 756 neo agenti di polizia penitenziaria, non ha sottaciuto le criticità operative e amministrative che ammantano l’Amministrazione penitenziaria. Queste criticità sottolinea Sarno impediscono di fatto gli alti e nobili obiettivi che la Costituzione affida al sistema penitenziario».
Il degrado strutturale ed il sovraffollamento delle strutture penitenziarie contribuiscono al sistematico calpestio della dignità umana. «La mancanza di risorse umane, logistiche ed economiche nega qualsiasi possibilità di agire sul fronte del recupero e della risocializzazione dei rei conclude Sarno sul fronte della sicurezza le tante evasione ed i moltissimi tentativi di evasione, le molteplici aggressioni in danno del personale da parte dei detenuti, le tante risse e gli innumerevoli episodi di violenza certificano una situazione al limite dell’ingestibilità, per poliziotti penitenziari sempre più abbandonati nelle frontiere delle prime linee penitenziarie».

l’Unità 14.11.11
«Prigioni malate» Antigone presenta il suo ottavo rapporto


TORINO Si svolgerà oggi dalle 14 alle 17 presso il Consiglio regionale del Piemonte, in via Alfieri 15 a Torino la presentazione dell'ottavo rapporto annuale dell'Associazione Antigone “Prigioni malate”, nel ventennale della sua nascita, sulle condizioni di detenzione in Italia. Interverranno tra gli altri Roberto Placido, presidente del Comitato Resistenza e Costituzione. Sarà anche presentata la video-inchiesta «Giustamente-viaggio nella carceri italiane», di Valentina Ascione, Simone Sapienza e Paco Anselmi per Radio Radicale .L’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone è nato nel 1998 e da allora ogni anno il ministero della Giustizia ha rinnovato l’autorizzazione a visitare le carceri. Nel corso del 2010-2011 sono stati 37 i volontari coinvolti nell’attività di controllo e monitoraggio.

l’Unità 14.11.11
Paese sotto choc dopo le rivelazioni di una serie di omicidi xenofobi
Il ministro dell’Interno: estremismo di destra. Intelligence coinvolta
Germania, «terroristi nazisti» coperti dai servizi segreti?
di Paolo Soldini


Una serie di omicidi. Vittime: solo turchi e greci. Dietro ci sarebbe un nuovo gruppo neonazista, operante sin dal 2000. In Germania è allarme e sconcerto: anche perché sarebbe coinvolto il servizio segreto interno.

I servizi segreti tedeschi hanno coperto gli omicidi di un gruppo neonazista? Il sospetto, terribile, da ieri dilaga sulle prime pagine di tutti i giornali della Repubblica federale. È stato lo stesso ministro federale dell’Interno Hans-Peter Friedrich a sollevare la questione. Esiste una seria minaccia proveniente dall’estremismo di destra, ha detto il ministro che proviene dalle file della conservatrice Csu, e ha fatto esplicito riferimento alle indagini che hanno portato al chiarimento di ben nove omicidi di matrice xenofoba e all’uccisione di una poliziotta. Nel corso di queste indagini è emerso che i tre componenti del gruppo eversivo «Nationalsozialistischer Untergrund» (Nsu: Underground nazionalsocialista) accusati dei delitti erano noti al Bundesverfassungsschutz (Bvs), il servizio segreto interno della Repubblica già alla fine degli anni ’90. Ai tre, che tra il settembre del 2000 e l’aprile del 2006 avrebbero ucciso otto turchi e un greco e nel 2007 una poliziotta, funzionari dei servizi avrebbero fatto avere passaporti falsi e altri documenti, forse con l’obiettivo di utilizzarli come agenti di contatto con il variegato mondo delle organizzazioni neonaziste. Sta di fatto che Uwe Mundlos, Uwe Bönhardt e Beate Zschäpe si sarebbero serviti delle coperture per mettere in atto la lunga serie di omicidi, chiamati in Germania i Döner-Morde, gli assassinii dei venditori di doner-kebab, dal mestiere esercitato da due delle vittime.
La svolta nelle indagini è avvenuta ieri, dopo la cattura di un presunto complice dei tre. L’interrogatorio dell’uomo, Holger G., ha permesso di riannodare le fila delle ultime vicende. Venerdì della scorsa settimana, dopo un tentativo di rapina fallito, Mundlos e Bönhardt si suicidano in un camper ad Eisenach, in Turingia, mentre a Zwickau, nella vicina Sassonia, salta in aria la casa dove i due avevano vissuto insieme con Beate Zschäpe. Questa viene arrestata mentre cerca di fuggire con un passaporto fornito, pare, da Holger G. Nelle macerie dell’esplosione vengono trovati la pistola «Ceska» cal. 7,65 con cui sono stati commessi tutti i «delitti del doner-kebab», un dvd con la rivendicazione e materiale che fa pensare alla preparazione di nuovi attentati.
CELLULA EVERSIVA
Gli investigatori riprendono in mano i dossier custoditi sotto il nome dei tre negli archivi del Bvs in Turingia e salta fuori una storia inquietante. Mundlos, Bönhardt e Zschäpe erano noti ai servizi fin dal 1997 come componenti della cellula eversiva «Thüringer Heimatschutz» (difesa della patria turingia), un piccolo gruppo di fuoco responsabile di diversi agguati ed attentati. L’anno successivo erano entrati in clandestinità dopo che nel garage della donna la polizia aveva trovato una grossa quantità di esplosivo. Ma non erano stati persi d’occhio: secondo quanto riferiscono da fonti del Bvs vari giornali, ai tre da parte di uomini del servizi erano stati
forniti documenti falsi e protezione di cui sarebbe restata traccia in ben 24 fascicoli conservati negli archivi. La cosa più inquietante è che la connivenza non cessò neppure quando il terzetto, forse affiancato da altri, cominciò ad uccidere. La prima vittima fu, il 9 settembre del 2000, Enver S. un venditore di kebab di Norimberga. Seguirono altri otto omicidi in varie città: altri due a Norimberga, due a Monaco e poi a Rostock, Amburgo, Dortmund, Kassel. Ai tre viene addebitata anche l’uccisione di un’agente di polizia avvenuta durante una rapina nel 2007 a Heilbronn.
Dopo le rivelazioni e l’allarme lanciato dal ministro Friedrich c’è stata una valanga di dichiarazioni e prese di posizione. Il presidente della commissione di controllo del Bundestag sulle attività dei servizi segreti, il socialdemocratico Thomas Oppermann, ha chiesto un’indagine severa sulla Bvs. Richieste analoghe sono venute anche da esponenti degli altri partiti e molti hanno rilanciato la proposta di mettere fuori legge la Ndp, il partito neonazista «ufficiale» con cui il Nsu sarebbe legato. «La Repubblica federale è in uno stato di choc», titolava ieri lo Spiegel on line. La storia certo non finisce qui.

Repubblica 14.11.11
Armata Bruna
Germania, in azione i killer neonazisti
di Andrea Tarquini


Attivi da anni, hanno ucciso immigrati e agenti. Due del gruppo scoperti si suicidano
In un dvd il racconto delle brutali esecuzioni Polizia accusata di non averli fermati

BERLINO - Per tredici anni hanno vissuto alla macchia, hanno ucciso almeno nove stranieri e una poliziotta. Odiavano i migranti e l´ordine democratico, il loro mito era il Terzo Reich. E in un giuramento registrato su un Dvd si erano impegnati a uccidersi, se scoperti. Un partito armato neonazista è il nuovo incubo che fa tremare la Germania. Di terrorismo di estrema destra parla apertamente il ministro dell´Interno Hans-Peter Friedrich, la stessa cancelliera Angela Merkel si dice allarmata. Ma i media lanciano gravi accuse: da anni i servizi segreti per l´interno sapevano del gruppo, e non si capisce se abbiano sottovalutato la minaccia o, addirittura, fornito loro passaporti falsi.
Il trio infernale veniva dall´est, dalla Turingia. Uwe Mundlos, Uwe Boernhard e una ragazza, Beate Zschaepe, formavano il gruppo di fuoco. Hanno avuto il sostegno di più fiancheggiatori. Come Holger G., 37enne turingiano ma vivente a Hannover, che gli forniva i camper per vivere quasi alla macchia. O giovani ultrà della Kameradschaft Jena, e della Thueringer Heimatschutz, un´associazione di vigilantes volontari. Torna la paura, ricorda quella degli "anni di piombo", i terribili Settanta in cui la Rote Armee Fraktion, meglio nota come Banda Baader-Meinhof (il terrorismo rosso) seminò il terrore, e fu sconfitta solo dalla linea della fermezza del cancelliere Helmut Schmidt. Adesso, l´attacco al cuore dello Stato parte dalla galassia neonazista, da una "Braune Armee Fraktion" come titola Der Spiegel.
Rete clandestina nazionalsocialista, si chiamava il gruppo. In un Dvd ha rivendicato anni di crimini, compiuti con corse folle con i camper prestati da un capo all´altro della Repubblica federale. «Il nostro motto è azioni e non più parole, finché la situazione non cambierà le attività proseguiranno». Il Dvd continua con scene macabre: «Oggi azione Doener», «nono turco ammazzato». Furono loro, Beate e i due Uwe, a uccidere la poliziotta 22enne Michèle Kiesewetter, troppo attiva nella lotta ai neonazisti, furono loro a uccidere otto turchi e un piccolo imprenditore greco. «Se verremo scoperti, ci toglieremo la vita», giurarono i tre nel video.
Così è finita. Per finanziare il partito armato, i due Uwe, incappucciati e armati, avevano rapinato una banca a Eisenach, in Turingia. Fuggirono in bicicletta verso il loro camper-nascondiglio, ma scoperti da una volante, hanno dato alle fiamme il veicolo e si sono uccisi sparandosi a vicenda. Beate, che era rimasta nell´appartamento in cui vivevano in ménage-à-trois, non se l´è sentita di eseguire tutti gli ordini. Ha provato a dare alle fiamme la casa, poi si è consegnata alla polizia. Nel locale, c´erano tutti i loro video di propaganda, pistole, granate, un fucile a pompa.
Beate Zschaepe è l´unica sopravvissuta, e come testimone-chiave tenta il patteggiamento con la giustizia in cambio della confessione. «Li abbiamo sottovalutati troppo a lungo, i servizi sono investiti dallo scandalo», dicono alti esponenti democristiani, «questi giovani pensavano a una lotta organizzata a livello militare». In nome dei miti hitleriani, 66 anni dopo la disfatta del Reich.

La Stampa 14.11.11
La Cina profonda non vuole svenarsi “Soldi ai nostri poveri”
Sul Web la prima preoccupazione è l’inflazione
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG Mentre Obama alza i toni nei confronti delle politiche economiche cinesi, ieri l’agenzia Nuova Cina e il Quotidiano del Popolo riportavano solo frasi ingessate del Presidente cinese, informando i lettori che Hu Jintao aveva inneggiato al «miglioramento della governance globale, una crescita consapevole della protezione ambientale, e maggiore integrazione economica regionale per stimolare l’economia globale». Altri lanci, appena meno laconici, respingevano l’idea che svalutare la moneta possa aiutare l’economia americana a risolvere i suoi problemi (come suggerito da Obama), rispondendo anzi che d’aiuto sarebbe una maggiore apertura americana agli investimenti cinesi, e la vendita alla Cina di tecnologie avanzate (due temi delicati, trattandosi di scambi che, secondo il Congresso, danneggerebbero la sicurezza americana).
Mentre il mondo spinge affinché la Cina si faccia maggiormente carico delle difficoltà economiche globali, di nuovo viene a galla la differenza fra come la Cina è vista dai suoi partner internazionali, e come i leader del Paese la vedono: forte per gli uni, vulnerabile per gli altri. Oggi, l’inquietudine e la priorità economica di Pechino, da cui dipende parte della stabilità interna, è l’inflazione, testarda ormai da anni. Questa, infatti, dopo dieci mesi di sforzi dolorosi da parte del governo centrale che ha ristretto il credito e imposto misure severe per calmare la bolla speculativa immobiliare, è scesa solo di un punto percentuale arrivando alla fine di ottobre al 5,5% (con punte dell’11% nel settore alimentare).
Dato il risentimento suscitato dalle violente disparità di reddito nel Paese, le difficoltà causate dall’inflazione sono solo in parte controbilanciate dalla crescita ormai pluridecennale. Il coro di richieste di sostegno finanziario rivolte a Pechino tanto dal G20 di Cannes, fino all’appello di Obama affinché la Cina rivaluti la sua moneta e crei un terreno più favorevole alle aziende internazionali nel Paese, è letto in Cina con sorpresa. In alcuni casi, anche con rabbia: dopo il summit di Cannes migliaia di commenti sui siti di microblogging, come Sina Weibo (simile a Twitter), attaccavano infatti l’ipotesi di una Cina povera che andasse a soccorrere finanziariamente un’Europa ricca. Prima, diceva il Web, la Cina avrebbe dovuto pensare alle proprie disparità e ad aiutare i cinesi stessi.
Da settembre, quando la crisi dell’euro ha scosso i mercati, e la Cina ha cominciato ad essere vista come una possibile àncora di salvezza, Pechino ha cercato di ottenere alcune concessioni per le quali preme da anni: essere riconosciuta come un’economia di mercato – ciò renderebbe più difficile all’Europa applicarle sanzioni commerciali contro (Pechino, accedendo all’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001, accettò di farlo non come «economia di mercato») - e che sia cancellato l’embargo sulle armi, imposto dall’Unione Europea nel 1989, quando l’esercito cinese schiacciò nel sangue le proteste di Tiananmen, considerato dal governo cinese offensivo e obsoleto. Finora, Pechino non ha fatto progressi su nessuna delle due richieste, ma non si tratta di argomenti di cui si può discutere a voce alta, né in patria, né con i partner europei. Secondo Chen Baizhu, ricercatore all’Istituto di Finanza dell’Accademia di Scienze Sociali cinese Altrove, si tratta di problemi reali: «La Cina deve affrontare l’ipocrisia di mercati che professano di essere per il liberismo più totale, come gli Usa, che invece bloccano le acquisizioni da parte di aziende cinesi citando fantomatici interessi strategici nazionali», dice. «Spesso, si tratta solo di populismo. Ma penso che quello che sta emergendo sia un deficit educativo: per la Cina si tratta di conoscere meglio come funzionano i Paesi nei quali vuole investire, ma anche il resto del mondo deve rendersi conto che è ora di imparare a conoscere la Cina, e la sua situazione economica, un po’ meglio».
Corteggiata la Cina si mostra felice dell’interesse, ma anche perplessa: che davvero i grandi del mondo siano così incapaci di mettere a posto le loro finanze?

La Stampa 14.11.11
A San Francisco due agenti feriti con armi da taglio
Usa, scontri indignados-polizia: decine di arresti


Weekend di scontri per gli indignati a stelle e strisce. Sono almeno quattro le città americane dove la protesta è sfociata in disordini e violenze, facendo scattare decine di arresti. Nella maggior parte dei casi i tafferugli sono stati causati dai dimostranti dopo aver ricevuto l’ordine di sfratto della polizia, che sta cercando di ripulire le aree diventate più sporche e pericolose. A Salt Lake City, dove le autorità hanno intimato agli indignati di lasciare il parco dopo che un barbone è stato trovato senza vita all’interno di una tenda, sono state fermate 19 persone. Sedici gli attivisti finiti dietro le sbarre a Denver durante l’operazione di sgombero del loro quartier generale. A San Francisco due poliziotti sono rimasti feriti in uno scontro. A Portland le autorità hanno arrestato oltre venti persone dopo che i manifestanti si sono trincerati nel loro quartier generale creando barricate di fortuna per non essere cacciati. Il sindaco aveva ordinato la chiusura del campo per le condizioni insalubri e la presenza sempre maggiore di ladri e tossicodipendenti.

Corriere della Sera 14.11.11
Moby Dick nuota a Zuccotti Park
Melville, papà di Occupy Wall Street
di Matteo Persivale


Lavorava a Wall Street, in uno studio legale, efficiente e disciplinato e sempre ubbidiente al suo capo. Finché un giorno decise di rispondere, semplicemente: «Preferirei di no». È facile capire come mai la storia di Bartleby lo scrivano, racconto pubblicato nel 1853 da Herman Melville, sia stata scelta l'altro giorno per un'estemporanea e molto seguita lettura pubblica tra gli occupanti di Zuccotti Park a New York. Perché quel travet che all'improvviso decide di rovesciare le gerarchie, rifiutandosi di lavorare e occupando fisicamente il suo ufficio è in qualche modo il pioniere del movimento Occupy Wall Street.
Un antenato atipico per un movimento atipico: l'evento, organizzato da due librerie cittadine (Housing Works e McNally Jackson) e dallo scrittore Justin Taylor ha fatto sì che nella piccola improvvisata biblioteca creata dagli occupanti il testo di Melville sia subito diventato il più richiesto (ce n'erano soltanto due copie: ma l'ebook in inglese è scaricabile liberamente da computer e telefonini, i diritti sono abbondantemente scaduti). E se Bartleby è il pioniere del movimento Occupy Wall Street il suo autore, Herman Melville (1819-1891), di quegli occupanti è diventato il padre spirituale.
In fondo, di sfide impossibili a nemici giganteschi lui sapeva tutto: il suo libro più famoso, Moby Dick, parla proprio della caccia a una gigantesca balena bianca. Resta il «grande romanzo americano» per alcuni, per altri più semplicemente — a prescindere dal finale malaugurante per Occupy Wall Street — è la guida che racconta la nobile follia di dare la caccia a un nemico infinitamente più grande, più potente e più crudele di noi.

Repubblica 14.11.11
Bauman: “Possiamo cambiare il mondo imitando le farfalle”
di Zygmunt Bauman


L´anticipazione/ Un inedito del sociologo su "Vita e Pensiero": "Per costruire una vera comunità non tralasciamo i piccoli gesti"
La globalizzazione negativa non considera abitudini e necessità locali abbraccia poteri come la finanza e il capitale
C´è un numero di donne e uomini coraggiosi che possono cambiare la storia. Aiutiamoli a sbattere le ali

In quale mondo vorrei vivere? In verità, non posso dire molto. Ciò perché, prima di tutto, in 60 anni di impegno nella sociologia, non sono mai stato bravo a profetizzare. In secondo luogo, alla fine di una vita imperdonabilmente lunga, l´unica definizione di buona società che ho trovato dice che una buona società è tale se crede di non essere abbastanza buona. Pertanto, preferisco concentrarmi non tanto sul mondo nel quale vogliamo vivere, quanto sul mondo in cui dobbiamo vivere, semplicemente perché non abbiamo altri mondi nei quali scappare. Mi riferisco a una citazione di Karl Marx, il quale affermava che le persone fanno la loro storia, ma non nelle condizioni da loro scelte. Ogni volta che la sento, mi ricordo anche una storiella irlandese che ci racconta di un guidatore il quale ferma la sua auto e chiede a un passante: «Mi scusi, signore, potrebbe cortesemente dirmi come posso arrivare a Dublino da qui?». Il passante si ferma, si gratta la testa e dopo un po´ risponde: «Bene, caro signore, se dovessi andare a Dublino non partirei da qui». Questo è il problema: sfortunatamente, noi stiamo iniziando da qui e non abbiamo nessun altro punto dal quale partire.
Intendo pertanto sottolineare come il mondo dal quale partiamo "diretti a Dublino", qualsiasi cosa Dublino qui voglia dire, è pieno di sfide e di compiti urgenti, in sostanza improcrastinabili. Penso che se il XX secolo è stata l´epoca in cui le persone si chiedevano "cosa" bisogna fare, il XXI secolo sarà sempre di più l´era nella quale le persone si faranno la domanda su "chi" farà ciò che va fatto. Esiste una discrepanza tra gli obiettivi e i mezzi a nostra disposizione. Mezzi che sono stati creati dai nostri antenati, che hanno dato vita allo Stato-nazione e lo hanno dotato e armato di molte istituzioni estremamente importanti, fatte su misura dello Stato-nazione. Per quanto concerne lo Stato-nazione, esso era veramente l´apice dell´idea di autogoverno e sovranità, l´idea di essere a casa e così via. Soprattutto, lo Stato-nazione era un affidabile e impeccabile mezzo di azione collettiva, strumento per raggiungere gli obiettivi sociali collettivi. Questo veniva creduto al di là della differenza tra "destra" e "sinistra". Lo Stato-nazione era in grado di implementare le idee vincenti. Perché era così? Perché lo Stato-nazione veniva considerato, e in larga misura lo fu per abbastanza tempo nella storia, la fattoria del potere e della politica. Quello tra potere e politica è un matrimonio celebrato in cielo, nessun uomo può distruggerlo. Potere significa abilità nel fare le cose. Politica significa abilità nel dirigere quest´attività di fare le cose, indicando quali cose devono essere fatte. Ora, ciò che sta accadendo oggi è l´indubbia separazione, una prospettiva di divorzio, tra potere e politica. Potere che evapora nello cyberspazio e che si manifesta in ciò che chiamo "globalizzazione negativa". Negativa nel senso che si applica a tutti gli aspetti della vita sociale che hanno una cosa in comune: si tratta dell´indebolimento, l´erosione, la non considerazione delle abitudini locali, delle necessità locali. La "globalizzazione negativa" abbraccia poteri come la finanza, il capitale, il commercio, l´informazione, la criminalità, il traffico di droga e d´armi, il terrorismo, eccetera. Non è seguita dalla "globalizzazione positiva". A livello globale, non abbiamo niente di lontanamente somigliante all´efficacia dello strumento del controllo politico sul potere, dell´espressione della volontà popolare, cioè la rappresentanza e la giurisdizione, realtà sviluppatesi e bloccatesi al livello dello Stato-nazione.
Alla luce di questa discrepanza, ogni volta che sento il concetto di "comunità internazionale", piango e rido allo stesso tempo. Non abbiamo nemmeno iniziato a costruirla. I nostri problemi sono davvero globali, ma possediamo solo i mezzi locali per affrontarli; ed essi sono spudoratamente inadeguati al compito. Perciò la domanda che suggerisco sarà probabilmente questione di vita o di morte per il XXI secolo. Chi se ne occuperà? Quella sarà la questione.
Non ho la risposta a questa domanda, posso solo proporre alcune parole di incoraggiamento. È abbastanza noto Edward Lorenz, con la sua tremenda scoperta che persino gli eventi più piccoli, minuscoli e irrilevanti potrebbero – dato il tempo, data la distanza – svilupparsi in catastrofi enormi e scioccanti. La scoperta di Lorenz è conosciuta nell´allegoria di una farfalla, a Pechino, che scuoteva le ali e cambiava il percorso degli uragani nel Golfo del Messico sei mesi più tardi. Questa idea è stata accolta con orrore perché andava contro la natura della nostra convinzione che possiamo avere piena conoscenza di quello che verrà dopo. Andava contro la teoria del tutto. Che possiamo conoscere, predire, addirittura creare, se necessario con la nostra tecnologia, il mondo. Ricordo che in questa scoperta di Lorenz c´è anche un barlume di speranza ed è molto importante. Consideriamo cosa sa fare una farfalla: una gran quantità di cose. Non trascuriamo i piccoli movimenti, gli sviluppi minoritari, locali e marginali. La nostra immaginazione va lontano, oltre la nostra abilità di fare e rovinare cose. Nella nostra storia umana abbiamo un numero rilevante di donne e uomini coraggiosi che, come farfalle, hanno cambiato la storia in maniera radicale e positiva. Davvero. L´unico consiglio che posso dare allora: guardiamo le farfalle, sono di vari colori, sono fortunatamente molto numerose. Aiutiamole a sbattere le loro ali.
(Traduzione di Lorenzo Fazzini ed Elisa Tomba)

La Stampa 14.11.11
Lo straniero decaffeinato
La paura degli immigrati contagia anche il multiculturalismo progressista disposto ad accettare l’Altro a patto di privarlo della sua Alterità
si Slavoj Žižek


Slavoj Žižek, 62 anni, sloveno di Lubiana, è un filosofo (e psicanalista) tra i più popolari d’oggi. Il testo di cui qui proponiamo uno stralcio è pubblicato sull’ Almanacco Guanda 2011 (pp. 149, 25), curato da Ranieri Polese, che ha per titolo «Con quella faccia. L’Italia è razzista? Dove porta la politica della paura». Tra gli altri autori Gianni Biondillo, Andrea Camilleri, Luciano Canfora, Franco Cardini, Marcello Fois, Edoardo Nesi. L’ Almanacco sarà presentato oggi alle 18,30 presso lo Spazio Krizia di Milano. Nell’occasione si terrà una raccolta di firme per una proposta di legge per dare la cittadinanza ai figli di stranieri residenti in Italia.

Dopo decenni di speranza sostenuta dallo Stato sociale, durante i quali i tagli finanziari venivano spacciati per temporanei, e compensati dalla promessa che le cose sarebbero presto tornate alla normalità, stiamo entrando in una nuova epoca nella quale la crisi - o, meglio, una specie di stato economico d’emergenza, con il relativo bisogno di misure d’austerità d’ogni tipo (tagli dei sussidi, riduzione dei servizi sanitari e scolastici, maggiore precarietà dei posti di lavoro) - si è fatta permanente. La crisi sta diventando uno stile di vita. Dopo la disintegrazione dei regimi comunisti, nel 1990, siamo entrati in una nuova era nella quale un’amministrazione tecnica, depoliticizzata, e il coordinamento dei diversi interessi sono diventati la forma predominante di esercizio del potere statale. L’unico modo di introdurre passione in questo tipo di politica, l’unico modo di mobilitare attivamente le persone, è fare leva sulla paura: la paura degli immigrati, la paura del crimine, la paura dell’empia depravazione sessuale, la paura di uno Stato invadente (con il suo fardello di tassazione elevata e controllo), la paura di una catastrofe ecologica, e inoltre la paura delle molestie (il politicamente corretto è la forma progressista esemplare della politica della paura).
Una politica di questo tipo si fonda sempre sulla manipolazione di una moltitudine paranoica: la spaventevole mobilitazione di donne e uomini spaventati. Per questo il grande evento del primo decennio del nuovo millennio è stato il momento in cui la politica anti-immigrazione è diventata largamente diffusa e ha reciso il cordone ombelicale che la legava ai partiti minoritari di estrema destra.
Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, cavalcando il nuovo spirito di orgoglio della propria identità storica e culturale, i partiti maggioritari ora trovano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti tenuti a adattarsi ai valori culturali che definiscono la società ospite: «È il nostro Paese, prendere o lasciare», questo è il messaggio.
I progressisti, ovviamente, sono inorriditi da questa forma di razzismo populista. Tuttavia, un esame più attento rivela quanto la loro tolleranza multiculturale e il loro rispetto delle differenze condividano con coloro che si oppongono all’immigrazione il bisogno di tenere gli altri a debita distanza. «Gli altri sono okay, li rispetto», dicono i progressisti, «ma non devono invadere troppo il mio spazio. Nel momento in cui lo fanno, mi molestano... Sostengo senza riserve l’affermazione della propria identità, ma non sono disposto ad ascoltare musica rap ad alto volume». Ciò che si sta imponendo come diritto umano centrale nelle società del tardo capitalismo è il diritto di non essere molestati, ossia il diritto di essere tenuti a distanza di sicurezza dagli altri. Il posto di un terrorista i cui piani micidiali debbano essere sventati è a Guantánamo, la zona vuota sottratta all’esercizio della legge; un ideologo del fondamentalismo dovrebbe essere ridotto al silenzio perché istiga all’odio. Persone simili sono soggetti tossici che compromettono la mia tranquillità.
Sul mercato odierno troviamo un’intera serie di prodotti privati delle loro proprietà nocive: caffè senza caffeina, panna senza grassi, birra senza alcol. E la lista potrebbe continuare: che dire del sesso virtuale, ossia sesso senza sesso? E della dottrina di Colin Powell sulla guerra senza vittime (del nostro schieramento, naturalmente), ossia guerra senza guerra? E dell’attuale ridefinizione della politica come arte dei tecnici dell’amministrazione, ossia politica senza politica? Tutto ciò conduce all’odierno tollerante multiculturalismo progressista come esperienza dell’Altro privato della sua Alterità: l’Altro decaffeinato.
Il meccanismo di questa neutralizzazione è stato teorizzato nella maniera migliore possibile, come ho detto spesso, nel 1938 da Robert Brasillach, l’intellettuale fascista francese, che si vedeva come un antisemita «moderato» e inventò la formula dell’antisemitismo ragionevole. «Ci concediamo il permesso di applaudire Charlie Chaplin al cinema, un mezzo ebreo; di ammirare Proust, un mezzo ebreo; di applaudire Yehudi Menuhin, un ebreo... Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore di intralciare le sempre imprevedibili azioni dell’antisemitismo istintivo sia organizzare un antisemitismo ragionevole». Non è forse lo stesso atteggiamento che troviamo diffuso nel modo in cui i nostri governi trattano la «minaccia immigrazione»?
Dopo avere sdegnosamente respinto il razzismo populista esplicito in quanto «irragionevole» e inaccettabile per i nostri standard democratici, appoggiano misure «ragionevolmente» razziste, ovvero, come ci dicono i Brasillach del giorno d’oggi, alcuni dei quali persino socialdemocratici: «Ci concediamo il permesso di applaudire atleti africani ed est-europei, medici asiatici, programmatori di software indiani. Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore di intralciare le imprevedibili, violente azioni istintive anti-immigrazione sia organizzare una protezione anti-immigrazione ragionevole».
Questa prospettiva di disintossicazione del prossimo suggerisce un netto passaggio dalla barbarie diretta alla barbarie dal volto umano. Rivela la regressione dall’amore cristiano del prossimo all’istinto pagano di privilegiare la propria tribù rispetto all’Altro, il barbaro. Seppure travestita da difesa di valori cristiani, costituisce la minaccia maggiore all’eredità culturale del cristianesimo.
[Traduzione di Alba Bariffi]

Corriere della Sera 14.11.11
Vilfredo Pareto
Lo sfogo di un liberale contro il moralismo
di Armando Torno


Anche se Vilfredo Pareto (1848-1923) è un pensatore non particolarmente ricordato oggi in Italia, le sue idee sono un riferimento obbligatorio per chi studia economia, sociologia o politica. La distinzione da lui lasciata tra azioni logiche e non logiche (ma non per questo insensate) o la teoria della circolazione delle élite (la cui alternanza caratterizza i fatti della storia) sono due esempi dei tanti possibili.
Di lui ora sta per tornare in libreria un'opera brillante e intelligente: Il mito virtuista e la letteratura immorale (Liberilibri, pp. 248, 18). Vide la luce a Parigi nel 1911 e in italiano nel 1914 con non poche integrazioni, ma anche — come scrisse lo stesso Pareto all'economista Maffeo Pantaleoni — con «molti, moltissimi errori materiali» commessi dal traduttore. Liberilibri, editore di Macerata, la ripropone eliminando le antiche mende, con un'introduzione di Franco Debenedetti. Il quale ricorda che il libro è «lo sfogo del liberale positivista contro le repressioni dei conservatori, e l'esempio di come analizzare le irrazionalità del comportamento umano in modo scientifico».
L'opera, sottolinea ancora Debenedetti, nasce contro le misure repressive che Luigi Luzzatti, il protezionista della scuola padovana divenuto presidente del Consiglio, prenderà nel 1910 contro la letteratura immorale. Sono gli anni in cui Pareto sente l'influenza di Pantaleoni e dei suoi Principi di economia politica pura; il tempo nel quale rinuncia (1899) alla cattedra che fu di Léon Walras, l'economista matematico di Losanna, per scrivere un trattato di sociologia. Disciplina che don Benedetto Croce giudicava al tramonto, dopo il declino del positivismo e delle filosofie della storia. Del resto, questa povera sociologia non era forse, per il pensatore napoletano, un «mezzo inferiore» della vita intellettuale?
Pareto era uno dei pochissimi che potevano permettersi una polemica con Croce senza uscirne con le ossa rotte, e questo libro su Il mito virtuista, sia pamphlet che opera scientifica, nasce mentre egli attende al Trattato di sociologia generale (1916) nell'«eremo» di Céligny e medita, tra l'altro, le idee di Georges Sorel. Già, Sorel. Aveva visto — usiamo frasi dello stesso Pareto — «molto bene l'importanza capitale del mito nella vita dei popoli», giacché l'ideale «manifestandosi sotto la forma di mito, li eccita, li trascina, li sostiene e li rende capaci di grandi azioni storiche». Colto, informatissimo, in quest'opera riproposta da Liberilibri mostra la sua indole liberale e libertaria, sbugiardando le ipocrisie che si celano nel proibizionismo. Del resto, nel 1911 e oggi, il comportamento dei «virtuisti» non cambia. Comincia con qualche appello alla morale collettiva e finisce declinando i verbi vietare e proibire.
Nell'appendice viene riportato il testo di un paio di sentenze di tribunali italiani dell'epoca e la circolare Luzzatti sulle pubblicazioni pornografiche. Sono documenti che aiutano a comprendere le tesi del libro di Pareto. Lui stesso ricorda che in un processo si vedrà l'incriminazione di due brani, l'uno tolto dalla Bibbia e l'altro dai Dialoghi delle cortigiane di Luciano. Che dire? Nel Belpaese, dove per decenni ci si è regolati alla meglio con il «comune senso del pudore», senza che nessuno avesse bene in mente cosa fosse, l'immoralità non è mai mancata e opere come Il mito virtuista si sono ignorate. Al pari delle parole di Oscar Wilde del Ritratto di Dorian Gray: «Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Tutto qui».

Corriere della Sera 14.11.11
Lucio Colletti
L'anticonformismo della (vera) cultura
di Pierluigi Battista


Quanto ci manca Lucio Colletti. E che tristezza i giornali che dimenticano il decennale della sua morte. L'accademia filosofica che non ricorda il pensiero cristallino di un intellettuale che non era schiavo delle mode e dei tic mentali apparentemente più cool. Gli anticonformisti in miniatura che non riconoscono in Colletti un maestro dell'anticonformismo e del pensiero libero e rigoroso. Il centrodestra che non può compromettersi sottolineando la distanza tra l'onorevole Colletti eletto in Forza Italia, sempre critico e sarcastico fino all'ultimo dei suoi giorni, e la ressa di cortigiani e analfabeti che ne hanno affollato i corridoi, le camere e le anticamere prima del grande crollo di questi giorni.
Quanto ci manca il Colletti degli editoriali del Corriere, l'analista politico che sulle pagine dell'Espresso duellava con eleganza contro l'egemonia culturale del Pci e per una sinistra moderna e sgombra di pregiudizi. Il filosofo che si congedò dal marxismo quando il marxismo trionfava, che dimostrò l'infondatezza filosofica degli assunti di Marx, ma invitava con calore a leggersi con attenzione Das Kapital per decifrare in quel capolavoro della letteratura politica «l'anatomia della società civile». Quanto ci mancano quelle straordinarie lezioni universitarie in cui Colletti, con la sigaretta sempre accesa tra le dita e quasi sempre senza nemmeno un foglietto di appunti, spiegava con una limpidezza unica la tentazione totalitaria sottesa al pensiero di Rousseau, l'esaltazione statolatrica della grande architettura dialettica di Hegel, e il materialismo dialettico di Marx che da Hegel, passaggio dopo passaggio, avrebbe inesorabilmente portato a Stalin. Quanto ci mancano le sue battute contro i «romanticoni» della Scuola di Francoforte, contro gli aedi del «pensiero debole» e il pensiero nebbioso dei neo-heideggeriani alla vaccinara. Lui che aveva chiuso con il comunismo e con il marxismo senza dover attendere Arcipelago Gulag, non sopportava le pose dei «nouveaux philosophes». Lui che si considerava un «cattivo maestro», perché quando incrociava i giovani dirigenti del Pds (poi Ds) nel Transatlantico di Montecitorio esclamava: «Questi hanno tutti studiato con me, e guarda che disastro è venuto fuori». Lui che sul Berlusca che lo aveva fatto eleggere era capace di dire, pubblicamente e senza impacci, cose irriferibili.
Quanto ci manca Lucio Colletti. Ma che fortuna avere oramai qualche anno alle spalle, in tempo per aver comprato i suoi libri, perché in libreria non si trovano più e gli editori alla moda non pensano che sia un buon affare puntare su un pensatore fuori moda. E che peccato non averlo qui, per commentare, in questi tempi in cui la cultura va indietro con il passo del gambero, il Michele Serra che trova il modo di rinverdire il passato lanciando nuovamente invettive contro il fantasma dell'«anticomunismo». Nientemeno. Cosa  non si darebbe, per una battuta del grande Colletti, che ci manca da dieci anni.

Corriere della Sera 14.11.11
L’era dell’emancipazione è rimasta senza eroine
La strana contraddizione femminile dell'epoca moderna: dopo Medea, Elena, Euridice... nessun grande personaggio
Dialogo con Margherita Rubino
di Claudio Magris


Molti anni fa, al liceo, discutevamo tra amici — con la rigida e struggente passione metafisica dell'adolescenza — cercando di classificare i sentimenti amorosi, i modi in cui si presenta e viene vissuta (per noi, dal nostro punto di vista maschile) la fascinazione dell'amore.
Le categorie di Eros sono due o tre? I diversi filosofi in calzoni alla zuava concordavano in genere nel distinguere la categoria dell'appetitio (le definizioni erano rigorosamente in latino) ossia l'attrazione meramente sensuale e assai forte da quella della perditio, il perduto abbandono alla figura amata e l'oblio oceanico di tutto il resto. Qualcuno ne introduceva una terza, l'affectio, l'amore-amicizia fondato sull'unione di attrazione fisica e affinità intellettuale privo tuttavia d'incanto tristanico.
L'Odissea forniva i modelli di queste classi: Circe era l'appetitio, Calipso la perditio, Penelope l'affectio. In età più matura, qualcuno si sarebbe ricordato di Nausicaa e avrebbe tentato di istituire una quarta categoria, quella della fioritura ancora indeterminata e aperta a divenire l'una o l'altra incarnazione dell'amore, immagine per eccellenza del vagheggiamento di una felicità destinata ad altri — come Nausicaa per Ulisse — e che, con l'avanzare dell'età, non è strano si presenti sempre più spesso.
In ogni caso, era, è la letteratura greca l'espressione più alta di queste pulsioni e sentimenti universali. C'è una forte contraddizione tra la posizione subalterna e spesso disprezzata della donna nell'antica Grecia e la presenza nella letteratura greca di grandissime figure femminili cui sono affidati, come forse in nessun'altra letteratura, significati e valori assoluti. Da un lato c'è la sottovalutazione della donna e del suo ruolo in famiglia — necessaria per la continuazione della stirpe, ma secondaria nella vita intellettuale — e in quella affettiva ed erotica; l'amore passionale, spirituale è soprattutto omosessuale, maschile. La visibilità sociale dell'etèra, della donna di cultura e di liberi costumi, non corregge questa visione, anche perché scinde la figura femminile in due ruoli, famigliare e pubblico, entrambi privi di piena dignità, anche se a titolo diverso.
Ma da questa società e da questa cultura greca nascono le più grandi figure femminili della letteratura mondiale, che incarnano l'assoluto o meglio gli assoluti della vita più di ogni uomo e che per secoli, millenni, nutriranno la creatività occidentale, che sempre ritornerà ad esse per dar voce e figura all'universale-umano. Tanti personaggi femminili indimenticabili, che danno volto a tutte le sfaccettature dell'umano. Antigone vive, dopo Sofocle, in centinaia di testi di tutti i tempi e di tutte le lingue, a esprimere i comandamenti assoluti e il loro conflitto, eroico e talora colpevole, con le leggi positive. E Alcesti, Medea, Elena, Ifigenia, Fedra, Euridice, Elettra, Persefone e tante altre, senza le quali non sapremmo cosa siano l'amore, il sacrificio, la purezza, la colpa, il dolore, lo strazio, la sublimità e la ferocia della passione, la vita e il suo svanire.
Com'è possibile che una società patriarcale e maschilista per eccellenza abbia generato la più grande letteratura sulla donna, identificando quest'ultima, più che l'uomo, con l'universale? Lo chiedo a Margherita Rubino, che incontro a Genova, dove insegna Teatro e drammaturgia dell'antichità e Tradizioni del teatro greco e latino presso la Facoltà di Lettere. Allieva di Umberto Albini, docente, critica teatrale, impegnata nella vita culturale della sua città, Margherita Rubino ha scritto, con puntiglioso rigore filologico, effervescente originalità e inquieta sensibilità, saggi su Medea e su Wagner e i modelli greci, su Eschilo e su Antigone, sul rapporto fra classicità e letteratura cristiana, sulla tradizione classica nelle più diverse letterature, come rivela — ma è solo un esempio — lo splendido studio Fedra. Per mano femminile. Come si spiega dunque, le chiedo, questa straordinaria presenza femminile in una cultura non certo femminista?
Margherita Rubino — È vero, la donna in Grecia visse reietta e poco considerata... mentre in teatro le figure femminili sembrano travalicare testi pur creati da soggetti di avversa sessualità ed emergono come protagoniste assolute, come in una inspiegabile ribellione virtuale. Nessun altro genio del teatro — non Shakespeare, non Strindberg e neppure Ibsen — ha creato mai donne destinate a divenire degli universali come le figure che tu hai citato. Vale anche per la commedia, dove le eroine di Aristofane prendono il potere, come ne Le donne al parlamento oppure fanno lo sciopero del sesso per imporre la pace, come in Lisistrata e come oggi fanno nella realtà la colombiana Ruth Macias o il premio Nobel 2011, la liberiana Leymah Gbowee. Queste eroine ritornano, nella realtà o nell'arte. Nella tua stessa scrittura ricorrono echi delle eroine greche tragiche, Medea in Alla cieca o Alcesti in tutto il tuo teatro.
Claudio Magris — Tu parli di «eroine», specialmente nella tragedia greca. Cosa intendi per «eroine»? Alcune sono positive, modelli supremi di umanità (Alcesti, Ifigenia); altre colpevoli, come Clitennestra, sebbene quest'ultima, ha osservato di recente Eva Cantarella, sia anche vittima e il suo delitto abbia origine pure nella violenza da lei subìta. Pure Medea è complice e vittima... È forse questa simbiosi di male subìto e inflitto una chiave del personaggio femminile?
Rubino — Il male subìto costituisce la motivazione drammaturgica del crimine, del sacrificio, della vendetta, ma nulla conta di fronte all'agire tragico, che è quello che crea o no le eroine.
Per eroine intendo protagoniste assolute, capaci di decidere la sorte propria o quella del partner, capaci di trionfare come Medea, o di scegliere la bella morte come Antigone o Alcesti, o la morte quale soluzione-rivalsa, come Fedra. I tragici greci hanno costruito testi di fascino estremo, in cui il pubblico sta dalla parte dell'infanticida o dell'uxoricida. È vero, anche le eroine «buone» sono insidiose, perfino Alcesti ricatta in qualche modo lo sposo chiedendo che resti solo per sempre. Maria, la tua Alcesti de La mostra, ha tutto del modello tranne questa punta di fiele.
Magris — Ma ce l'ha forse un po' la mia Euridice in Lei dunque capirà... A parte la mescolanza di male e di innocenza in uno stesso personaggio (per esempio Fedra, da te mirabilmente studiata), perfino un supremo valore incarnato da un'eroina può implicare aspetti di colpa: ad esempio Antigone, figura dell'umanità più alta e universale che Hegel paragona a Cristo ma pur colpevole nel suo conflitto con la legge. Del resto, il tragico consiste in questa impossibilità di innocenza, in una condizione in cui ogni azione comporta una colpa. Medea è forse la più terribile dimostrazione di come l'ingiustizia patita possa condurre alla colpa tremenda; cercare ingenuamente di considerarla innocente, solo vittima, come ha fatto Christa Wolf, distrugge il senso e il valore del suo destino...
Rubino — ...Medea. Voci della Wolf se pur termina con un infanticidio, non è tragico. Manca la componente che tu ricordi, la condizione per cui ogni scelta comporta una colpa. La Medea greca è tragica perché è dilaniata da opposte scelte. Cuore del tragico è l'impossibilità di risolvere i conflitti. «Giustizia combatte contro Giustizia» scrive Eschilo. Diritti legittimi e opposti si scontrano e quello scontro, interiore oppure tra due persone, come tra Antigone e Creonte, è mortale. L'eroismo di Antigone è anche poetico, ed è irriducibile — qualcosa di simile traluce lieve nelle tue diverse donne, Maria, Steffi, l'ospite del Presidente… La capacità di assoluto è greca...
Magris — «Noi siamo divenuti barbari e brameremmo di nuovo essere elleni», ha scritto lo studioso gesuita Hugo Rahner...
Rubino — Il teatro greco non mette in scena l'amore, crea però eroine animate da passioni estreme, dove il conflitto tragico può essere tra la muta repressione di eros e lo svelamento. Fedra patisce un eros divorante che inizialmente tace, e in questa repressione sta la sua innocenza. Quando parla diviene colpevole: «Hai portato alla luce il tuo male, sei rovinata» le dice il coro.
Magris — Solo la donna, hai detto, rivela questa capacità di assoluto. Dopo la grecità, questo assoluto femminile, hai detto ancora, è improbabile e difficilissimo: è difficile un'Alcesti moderna (anche se Savinio l'ha scritta, la tragedia della moglie ebrea che si sacrifica per proteggere il marito durante la persecuzione nazista). E le altre, le Andromache, Ecube, Elettre, Persefoni, Euridici…? Come le ha rivissute nei secoli la letteratura europea? Ci sono eroine moderne che possono reggere il confronto?
Rubino — Rifacimenti oppure grandi protagoniste «ispirate a» colgono solo alcuni aspetti di quei modelli, ed è fisiologico che sia così. A volte nasce il capolavoro, per esempio Fedra di Racine o Elettra di Strauss-Hofmannsthal. Fuor dai Greci però, nel mondo moderno, dove stanno le protagoniste teatrali o letterarie capaci di esprimere a quel modo un assoluto, capaci di far convergere ogni tensione e sentimento e sacrificio verso un'unica ideologia o persona? Quale eroina moderna diventa un universale, come Medea o Lisistrata, Antigone o Fedra? Quali modelli folgoranti di sacrificio o di crimine al femminile, animati da una passione unica, con la quale si identificano, esistono nel teatro o nella letteratura degli ultimi secoli? A Faust, don Giovanni, Otello quali eroine di pari altezza corrispondono, eroine-mito intendo, il cui nome identifichi? Forse Traviata, o Anna Karenina...
È suggestivo riflettere che nell'epoca della grande rivalsa femminile si attendono ancora universali della forza di quelli del V secolo a. C...

Corriere della Sera 14.11.11
Nel nome di Ipazia un festival dell'eccellenza


Il dialogo tra Claudio Magris e Margherita Rubino che qui pubblichiamo verrà sviluppato in un incontro dal titolo Grecia al femminile. Le eroine tragiche che si terrà sabato 19 novembre a Genova, a Palazzo Spinola (via Garibaldi 5, ore 17) nell'ambito della VI edizione del «Festival dell'eccellenza al femminile» dedicata a Il Futuro di Ipazia (www.eccellenzalfemmi nile.it). Prendendo spunto proprio dalla figura della scienziata e filosofa greca trucidata dai cristiani e divenuta simbolo della libertà di pensiero e della forza delle donne, il Festival diretto da Consuelo Barillari affronterà il tema del «futuro» dal punto di vista femminile e si aprirà ufficialmente mercoledì 16 novembre per concludersi lunedì 21. In programma una novantina di eventi (incontri, teatro, arte, cucina) tutti dedicati all'universo femminile in tutti i suoi aspetti e le sue espressioni. Tra le novità anche Lady Truck: imprese eccellenti al femminile, una mostra fotografica multimediale interattiva (a cura di Annamaria D'Ursi). Tra gli ospiti del festival genovese: Livia Turco, Susanna Camusso, Marina Piperno, Carlo Verdone (che parlerà delle donne nei suoi film). All'attrice Elisabetta Pozzi il «Premio nazionale Ipazia» mentre alle due blogger Lina Ben Menni e Asmaa Mahfouz, portavoce della Primavera araba, il primo «Premio internazionale Ipazia».

Corriere della Sera 14.11.11
Schiava o angelica, a regola d'arte
di Pierluigi Panza


Uno che dell'argomento se ne intende, Vittorio Sgarbi, pubblica un libro sulla forza seduttiva della figura femminile nella pittura. Piene di grazia. I volti della donna nell'arte (Bompiani, pp. 310, 20, in libreria dal 16 novembre) è una vasta carrellata di immagini di donne scelte, senza pretese esaustive, dall'autore. Il testo, corredato da utili indici dei nomi e delle immagini, affianca descrizioni di quadri a suggestioni letterarie. È scritto con l'acutezza e la brillantezza di Sgarbi, è discorsivo e avulso da scientificità e pedanterie.
È, però, una carrellata non scontata, perché orientata dalle conoscenze e dal gusto del critico ferrarese. Si presenta più omogenea e tradizionale nelle selezioni fino all'età barocca; selettiva e di orientamento molto personale nella modernità. Alcuni capitoli presentano opere di artisti coevi o di analoga tendenza, altri di singoli artisti, in alcuni casi minori.
La forza «poietica» della figura femminile si concretizza in alcune tipologie ricorrenti, quasi tutte rappresentate nel libro. La donna «piena di grazia», ovvero la Madonna o le vergini, domina, ad esempio, nella pittura cristiana. Ricorrenti sono le opere di «compianto» sulla donna amata e scomparsa, un genere che si inaugura con lo straordinario gruppo scultoreo di Ilaria del Carretto scolpito da Jacopo della Quercia. Ci sono poi i grandi modelli delle mogli amate, come la Gioconda, e delle amanti immortalate, come Cecilia Gallerani in La dama con l'ermellino, entrambe di Leonardo. Ci sono le raffigurazioni di donne vittime di abusi, raffigurazioni inaugurate dal tratto forte e vermiglio di Artemisia Gentileschi, e quelle angelicate, come la Ofelia di Dante Gabriel Rossetti. Infine c'è la desacralizzazione della donna, iniziata dalle avanguardie con Les demoiselles d'Avignon di Picasso e proseguita con le donne bambine di Balthus. Altre tipologie si potrebbero, ovviamente, aggiungere a questa carrellata. Penso, ad esempio, a Babylonian Marriage Market di Edwin Long, che propone un approccio alla bellezza femminile che anticipa i casting di oggi. Oppure all'immagine — anch'essa contemporanea — della donna anoressica, dagli affreschi di Santa Caterina a John Currin...
Il carnet proposto da Sgarbi all'appassionato d'arte parte da Cimabue e Piero della Francesca con la Madonna del parto, che diventa spunto per censurare la cattiva pratica del distacco e disambientamento degli affreschi. Prosegue con Leonardo e Raffaello che sono alcuni dei grandi interpreti dei moti dell'anima femminile. Più approfondita è la disamina delle donne in Parmigianino: la sua Schiava turca, nella quale «Stendhal avrebbe potuto sentire una premonizione del Rossini del Turco in Italia o del Mozart di Così fan tutte», introduce al fascino per la donna esotica e fatale che divamperà in pieno orientalismo ottocentesco. La Madonna di Loreto di Caravaggio, invece, offre una riflessione sul rapporto tra pittore e modella. L'opera, infatti, scatenò una violenta reazione del Merisi contro l'aiuto notaio Pasqualoni, che aveva accusato la madre di Lena (la convivente del pittore) di aver ceduto la figlia a «uno scomunicato e maledetto». Sgarbi vede in Vermeer e Cagnacci due interpreti dell'universo femminile domestico, così come in Murillo e Ceruti quelli della donna popolare.
In questo divertissement poteva essere accordato uno spazio anche all'autoritratto femminile, magari con Angelica Kaufmann, pittrice che rivela una consapevolezza emancipata del suo essere nei confronti di molti uomini, compreso il grande Goethe, che la definì «un talento veramente immenso».

La Stampa 14.11.11
Cézanne
Tu chiamale se vuoi sensazioni
A Palazzo Reale di Milano in vetrina i lavori del pittore-architetto della visione
di Marco Vallora


MILANO Capiterà anche a voi di sentir dire della mostra milanese di Cézanne, meglio, sentenziare: «Una meraviglia, non perderla, certi quadri...», oppure: «Per carità, non andare nemmeno a vederla, non c'è nulla, te la vedi in due minuti».
Va da sé, questo fa parte della schizofrenia odierna dei giudizi, quella che manda in disorientamento il grande pubblico. Ma non soltanto: qui c’è più, da scavare, e figurarsi come si sente un cosiddetto «addetto ai lavori», che sostanzialmente dovrebbe dispensare consigli. Allora, onestà per onestà, e non solo salomonica, ma con un po’ d’obiettivo equilibrio: certo, già avere, di questi momenti desolanti, a Milano, alcune opere, sia pure non troppe, di un vertice come Cézanne, è un lusso da non snobbare e bisogna dar atto, in un momento di contrazione, al Comune di Milano, insieme alla casa editrice Skira (che non produce soltanto il catalogo ma anche la mostra stessa, curata da Rudy Chiappini) di un certo coraggio, forse un po’ azzardato (non sarebbe meglio una mostra a tema, meno generalista?).
È vero, forse la mostra te la gusti un po’ troppo «all’ultimo respiro», come un’ostrica al cucchiaio, che scivola via e ti lascia un certo retrogusto amarognolo di rammarico, perché ne vorresti ben di più. Non ti stanchi mai, di quest’instancabile maestro della variazione (vibrazione) infinita, mai soddisfatto, sempre pronto a ricominciare da capo e a fare qualcosa di similissimo. A morire come Molière, sul palcoscenico del lavoro, di fronte all’ennesimo ritratto del suo monte preferito. Questo unicum, che per quanto perennemente inquieto di sé, frustrato, scontroso e solitario, assicurava i pochi amici: «Qui ci vorrebbe un grande maestro, e io sono l’unico».
Perché Cézanne, in effetti, quando decolla (e ci vuole molto, perché avvenga) è una di quelle cime solitarie, innevate d’ossigeno, necessario alla storia dell’arte per sbloccarsi, né sai come la pittura avrebbe retto e svicolato, senza di lui. Senza la sua sterzata geniale, che ne ascolti ancora il rumore di dérapage, persino in queste sale, ambientate con agio. E se ne rendono subito conto tutti, non soltanto i proverbiali Picasso e i Matisse, che accorrono, nel 1906, a celebrare la sua retrospettiva postuma, nel 1906 (il cubismo fa la cova qui, si sa). Forse qui, in mostra, è un po' sproporzionata, con i suoi impeciati esperimenti di pittura materica, la sua sbilanciata operazione di decollo. Dura un po' troppo, rispetto al tormentato ma meraviglioso suo esito di sorvolamento definitivo e libero, anche della pittura impressionista, coeva (all’inizio espone con loro, ma si sente comunque un diverso, un superiore). L’impressione «monetiana», che decompone e sfarina il reale, non gli basta più. Lui conia la formula ossessiva delle «sensazioni», che consiste non soltanto nel riprodurre su tela le sue reazioni ottico-interiori (sarebbe troppo simile) ma nel costruire - dal momento che è un architetto della visione - qualcosa di diverso, di grandioso, di concettuale. Toccare le strutture profonde del mondo, per questo Rilke dirà: «si è sporto verso l’estremo». Oppure: «Riportare Poussin nella natura», cioè riscongelare i fantasmi (da lui a lungo ricopiati) che muoiono nei musei. Rimetterli «a bagno», nel flusso della storia. I modelli anche umani (i volti paragonati a delle mele immobili) non esistono più. Esistono solo «linee e contrasti». L’astrattismo è alle porte. Lui si limita ad astrarre, ad estrarre i volatili, solidissimi elisir del reale. Dalla spatola di pece ai mormorii della materia. Il pretesto del suo rapporto con il Sud è un po’ labile, lui non s'è mai mosso dalla sua Aix, anche quando passa per Parigi. Forse era preferibile insistere sul tema arte/architettura (affrontato da Gregotti, in un vivo saggio Skira) o, con qualche tela in più, mostrare Cézanne padre-provocatore e pozzo del moderno: da De Stael a Soutine, dal fauvismo a Boeckl. Persino di Bacon.
CÉZANNE. LES ATELIER DU MIDI. MILANO, PALAZZO REALE. FINO AL 26 FEBBRAIO 2012

Repubblica 14.11.11
«Così vi ho regalato Internet»
Vent´anni fa nasceva il www. L´inventore della Rete, Tim Berners Lee, racconta come. "Cercavo uno spazio dove mettere le informazioni per tutti. E l´ho trovato"
di Riccardo Luna


"Con la mia invenzione non mi sono arricchito, e c´è ancora una sfida da vincere: il divario digitale" Tim Berners Lee, il padre del www, parla del futuro di Internet, della necessità che tutti abbiano accesso alla Rete E a Roma oggi festeggia i 20 anni della sua creatura C´è un abisso di opportunità tra chi è connesso e chi non lo è: deve essere considerato un diritto universale È nato come piattaforma per lavorare insieme ma servono strumenti di collaborazione adeguati perché sia efficace

«Non c´è stato un momento "eureka" nella creazione del Web. Un momento preciso in cui ho detto: è fatta! È stato piuttosto un percorso lungo. Se devo indicare un inizio potrebbe essere addirittura il 1980 quando scrissi un programma che si chiamava Enquire: io ero un giovane fisico e lavoravo al Cern di Ginevra. Quel programma mi serviva a tenere traccia del complesso di relazioni fra persone, idee, progetti e computer di quella straordinaria comunità di scienziati. Era solo ad uso personale. Poi nel 1989 scrissi un memo ai miei capi, un memo storico anche se allora non potevo saperlo. Proponevo di creare uno spazio comune dove mettere le informazioni a disposizione di tutti: lo chiamai il Web. L´idea era avere una rete dove chiunque potesse facilmente avere accesso a qualunque informazione, e dove aggiungere informazioni fosse altrettanto facile. Nel 1991 già funzionava fra gli scienziati e ho iniziato a diffonderla nel resto del mondo. Sono passati vent´anni esatti e posso dire che abbiamo avuto un certo successo...».
Tim Berners Lee ha 56 anni, è nato a Londra ma ormai da tempo vive e insegna al MIT di Boston; ha vinto il Millennium Prize, è considerato una delle 100 persone più importanti del secolo scorso e la regina Elisabetta II lo ha nominato cavaliere nel 2004. Per questo è diventato "sir". Ma il titolo più importante glielo ha dato la Storia, con la maiuscola: è il creatore del World wide web. Stenta a credere che per molti Internet e il Web siano sinonimi. «Qualche giorno fa in Polonia stavo cercando di spiegare ai traduttori la differenza fra Internet e il Web. Visto che non ci riuscivo, ho chiesto: come spiegate il periodo che passa fra l´invenzione di Internet, 40 anni fa, e quella del Web, 20 anni dopo? E loro mi hanno risposto: 40 anni fa avevamo il comunismo e quindi per noi i due concetti sono sinonimi. In Italia la sapete la differenza?».
Per parlare del futuro di Internet, della necessità che tutti abbiano accesso alla rete e per soffiare sulle prime venti candeline del www, sir Tim oggi è a Roma dove aprirà una conferenza a lui dedicata: "happybirthday web".
Wikipedia indica nel 6 agosto 1991 la nascita del Web, ovvero la messa in rete del primo sito:info.cern.ch. È una data speciale che dobbiamo trasmettere ai nostri figli? Avete in qualche modo festeggiato?
«A dire il vero non molto. Il 6 agosto 1991 ho solo mandato un messaggio al newsgroup alt.hypertext per far conoscere il Web al resto del mondo. Ma era già disponibile all´interno della comunità del Cern. Per me già esisteva».
Molti dicono: Berners-Lee è stato bravo, ma il Web l´ha creato per caso mentre cercava di costruire un sistema per la gestione delle informazioni.
«Assolutamente no! Infatti lo chiamai subito World wide web, la grande rete del mondo, anche se molti mi diedero del presuntuoso. E gli indirizzi dei siti, le Url, le volevo chiamare Universal resource identifier. Ma quel nome fu bocciato dalla comunità degli ingegneri. Mi dissero: come puoi definire questa cosa "universale"? E io, che ero l´ultimo arrivato in quell´ambiente, cedetti: ok, chiamiamolo Uniform, dissi, così almeno non cambiava sigla».
Per difendere l´apertura del Web, spesso si dice: è una piattaforma per l´innovazione. Difficile dirlo a chi pensa che Internet serva solo a mandare mail o aggiornare lo status su Facebook.
«Intanto va detto che quando la gente manda una mail o sta in un social network, spesso ha uno scopo creativo. L´idea del Web, quello che sta dietro tutto, è che se una persona ha una mezza buona idea e l´altra metà sta nella testa di un altro, il Web è il connettore che permette alle due metà del cerchio di unirsi. L´idea è una rete da tessere».
È un´arma di costruzione di massa.
«Bella definizione. Questa è l´innovazione del Web. Non tutte le tecnologie portano innovazione. Una tecnologia può essere di "fondamenta" o di "soffitto". La prima è la base che supporterà sviluppi sempre più importanti. L´altra no: è progettata per creare un valore immediato e quindi denaro al suo fornitore. Il Web è una tecnologia "fondamentale"».
Sul fronte opposto stanno sistemi come quelli adottati da Apple e Facebook?
«C´è una battaglia, o meglio, una tensione costruttiva, fra l´esigenza di fare soldi e quella di innovare. Un´azienda può avere la necessità di controllare l´intero sistema per fornire buone prestazioni e acquisire clienti e quindi pagare bene i propri programmatori. Ma se finisce con l´essere troppo dominante e chiusa limitando la libertà della gente, perderà mercato. Un giardino meraviglioso ma chiuso non può competere con la bellezza di una folle e indomita giungla».
Il giardino della Apple ha perso il suo giardiniere. Qual è stata la sua reazione alla notizia della morte di Steve Jobs?
«Ho scritto un post sul mio blog. Una volta ci siamo quasi incontrati in una riunione di sviluppatori di NeXT in Francia. Lui osservò molte cose in quella stanza, ma andò via prima di poter notare il World wide web».
Il NeXT era il computer visionario che Jobs realizzò quando venne licenziato dalla Apple. E su un NeXT lei ha scritto il codice del Web. Insomma, era un po´ anche roba sua...
«È vero, scrissi il progetto su un NeXT e fu incredibilmente facile. Era un computer che veniva dal futuro. Ricordo lo stupore quando mi arrivò e lo scartai, nel settembre 1990. La mail era già configurata e si apriva automaticamente con un messaggio audio di Jobs in persona che iniziava così: "Non stiamo più parlando di personal computer ma di interpersonal computing, collaborazione fra le persone". Geniale! In quegli anni chi aveva un computer era molto frustrato. E Steve Jobs lo aveva capito. Aveva capito che i computer dovevano essere utili, collaborare con l´utente e fare ciò che l´utente si aspetta; e poi essere lineari, facili da usare e belli da vedere. Oggi lo diamo per scontato: del resto il sistema operativo del Mac e dell´iPhone si basa sul NeXT...»
Parliamo dell´Italia: siamo molto indietro per la diffusione della Rete. Che cosa ci stiamo perdendo?
«Prima di tutto penso che l´ubiquità della Rete sia più importante della velocità. La velocità è importante se vuoi vedere un video in alta definizione; ma l´ubiquità, anche con connessioni più lente, significa che puoi ricevere e spedire la posta e far parte dell´economia digitale. E poi: dando una banda larga minima a tutti si possono spostare i pagamenti pubblici online risparmiando un sacco di soldi. Insomma, penso che dovreste fare un grosso sforzo per colmare il divario digitale, per portare la Rete anche nelle aree rurali e in quei luoghi dove c´è gente che semplicemente non ha ancora imparato ad usare questa tecnologia. Questo significa anche creare luoghi pubblici dove tutti possono usufruire della Rete: immagino Internet-Point nelle piccole città e nei paesini dove andare per pagare il bollo dell´auto online, o cercare un lavoro, ritrovare i parenti che si sono persi di vista da tempo, mettere in vendita la macchina, insomma fare quelle cose che la gente ancora non sa fare online».
La scelta che sta facendo l´Italia sembra l´opposto: portare la banda ultralarga nelle grandi città e nelle aree industriali, e lasciare indietro gli altri.
«Non è solo una questione di altruismo, il punto è come rendere il Paese più operativo e funzionale. Si tratta di capire se un Paese è serio oppure no. È un Paese serio quello in cui non si riescono a raggiungere contemporaneamente tutte le persone, e la gente non è informata tempestivamente su quello che succede, e non è in grado di rispondere alle emergenze? No, non è un Paese dove investire».
L´Open government, ovvero quella serie di politiche che coinvolgono i cittadini nella amministrazione attraverso trasparenza e strumenti di partecipazione, può contribuire a diffondere l´uso del Web?
«Un governo digitale è molto più efficiente di un governo basato sulla carta, perciò prima il Paese abbatte il digital divide e meglio è. Ma l´Open government vuol dire arrivare a coinvolgere i cittadini per ottenere un feedback e magari una consulenza spontanea. È molto di più. Poi, c´è tutta la questione degli Open Data...».
A che punto è arrivata la campagna per liberare i dati pubblici?
«I dati che il governo ha nei suoi archivi sono una risorsa preziosa per migliorarci la vita. Sapere, ad esempio, se un certo treno è in funzione e sta viaggiando, quali strade hanno delle buche, dove si trova la posta più vicina, il numero di crimini commessi in una determinata area del Paese, dove sono custoditi i piani di emergenza anti-alluvione... Essere in possesso di questo tipo di informazioni può far prendere decisioni migliori. E poi, c´è la trasparenza, che alcuni mettono al primo posto. In Gran Bretagna sta diventando normale che i dati relativi alla spesa pubblica siano "aperti". Il Web è il luogo dove tutti possono verificare come vengono spesi i soldi dei cittadini».
Dopo 20 anni, il Web è diventato quello che aveva immaginato?
«Sono molto contento della quantità incredibile di cose successe, ma purtroppo non vedo tanta gente che usa il Web in modo efficace per realizzare nuove idee. Internet è nato come piattaforma per lavorare insieme, e invece quasi tutti si limitano a usarlo per leggere e basta. Evidentemente gli strumenti di collaborazione che abbiamo non sono ancora adeguati».
Dice "ancora" perché sta lavorando a un progetto di questo tipo?
«Sì, sono entusiasta di progettare, tra le altre cose, strumenti per il Web semantico che si basano sul concetto di dati collegati fra loro. Il Web semantico riguarda i dati, mentre i motori di ricerca lavorano con documenti ipertestuali. La sfida dei motori di ricerca è stata di cercare di creare una struttura dove non c´era alcuna struttura, tentando di infondere ordine e significato laddove non vi erano né ordine né significato; mentre con i dati l´ordine e il significato ci sono già. Quando si dispone di dati in un archivio, essi sono già ben ordinati e ben strutturati e hanno un significato molto più definito di gran parte dei contenuti presenti sul Web. Adesso finalmente sempre più persone stanno capendo il valore dei "linked open data". Sarà così il nuovo Web e sarà più intelligente».
Il Web ha creato moltissimi ricchi: ha rimpianti di non essersi arricchito?
«No. Se qualcuno mi vuole dare un sacco di soldi, a me non dispiace. Ma a me non dà fastidio che la gente abbia aperto attività sul Web e sia diventata ricca, anzi».
Oltre due miliardi di persone usano il Web. Percepisce l´apprezzamento della gente per quello che ha fatto?
«Sì, un apprezzamento immenso. Però sono anche molto contento di non essere riconosciuto per strada! Vorrei dire un´ultima cosa...»
Prego.
«Vorrei solo ricordare il sito "WebFoundation.org". Si tratta di una nuova Fondazione per combattere il divario digitale: c´è un vero abisso di opportunità tra coloro che hanno Internet e utilizzano il Web in modo efficace, e tutti gli altri. Di fatto, il collegamento alla Rete sta diventando così importante per l´umanità che ormai potremmo pensare all´accesso ad Internet come a un diritto universale. Il Nobel per la pace Liu Xiaobo ha definito Internet un dono di dio; bello, ma io preferisco parlarne come di un diritto dell´uomo».

Repubblica 14.11.11
A Venezia
Il Festival dei Matti nel segno di Basaglia


VENEZIA – A mezzogiorno di oggi, al Teatro Goldoni di Venezia, si terrà la conferenza stampa di presentazione della terza edizione del "Festival dei Matti. Incontri e invenzioni dentro la follia", organizzato dalla cooperativa Con-Tatto. Il Festival, che quest´anno avrà come tema "Stare fuori", nel segno di Basaglia, si svolgerà da mercoledì a sabato prossimi alla Basilica dei Frari e al Teatro Goldoni. Tra i protagonisti: Umberto Galimberti, Peppe Dell´Acqua, Franco Rotelli. Alessandro Bergonzoni sarà in scena al Goldoni, alle 21 di giovedì, con lo spettacolo "Urge", e Giuliano Scabia proporrà "La luce di dentro. Viva Franco Basaglia", sempre al Goldoni, nella serata conclusiva.

Su Repubblica anche un paginone: l’accoppiata Susanna Tamaro e Mariapia Veladiano...