martedì 15 novembre 2011

l’Unità 15.11.11
Il merito del Pd
di Alfredo Reichlin


Questo è davvero un grande passaggio per l’Italia. Sul governo (ministri, programmi, governo di emergenza, di transizione ecc.) non ho nulla da aggiungere. Sono molto colpito dal modo come si è mosso il Presidente della Repubblica: uno statista. Propongo solo qualche riflessione sull’insieme della situazione. Prima di tutto sul ruolo che ha giocato il Pd e che è stato a mio parere molto grande.
Con serietà e pacatezza la nostra leadership ha ben compreso la grandezza del problema. Di fatto, noi stiamo pilotando una crisi che è anche la crisi di un semi-regime, durato quasi un ventennio. Qualcosa che ricorda il passaggio del 1901. Di questo si tratta. Non solo di ritrovare la fiducia dei cosiddetti mercati ma di sgombrare le macerie create anche (ma non solo) da un lungo regime populistico, guidato dall’uomo più ricco d’Italia.
Non l’hanno ancora capito quelli che adesso si stracciano le vesti perché la “politica uscirebbe umiliata dal governo dei professori” Sciocchezze. Che cos’è per costoro la politica? La politica non è quel triste gioco per cui una bella donna può indifferentemente passare dai night club alla direzione di un ministero della Repubblica e non è la formazione di una maggioranza parlamentare grazie alla compravendita di alcuni deputati. La politica è quello che abbiamo visto, finalmente, in questi giorni. È l’assumere la responsabilità di governare questo passaggio drammatico in nome della polis (la politica, appunto) e cioè degli interessi generali e della consapevolezza dei rischi terribili che corre questo Paese.
La politica è l’idea dell’Italia. Questa nostra Italia che è arrivata a un appuntamento con la sua vicenda storica. Dopotutto, una grande storia. Poche settimane fa nel salone della Banca d’Italia Gianni Toniolo ci ricordava che il reddito per abitante, al momento dell’unità d’Italia era grossomodo equivalente a quello medio attuale dell’Africa sub-sahariana. La vita media era di circa 30 anni, una famiglia operaia viveva nelle stamberghe e spendeva solo per il cibo tre quarti del suo salario. In 150 anni il reddito per abitante è aumentato di 13 volte e la vita media è arrivata a 82 anni.
Ci rendiamo conto di cosa significa soprattutto per i nostri figli e nipoti la paurosa marcia indietro che è avvenuta sotto i nostri occhi in questi ultimi anni? Sta tornando la povertà, quella vera. Il nostro debito pubblico è arrivato a 1900 miliardi di euro e su questa montagna di soldi dobbiamo pagare interessi crescenti che si mangiano le spese per i servizi sociali, l’occupazione, il sostegno all’economia reale. Per pagare gli interessi stiamo bruciando i mobili di famiglia: il capitale umano, i giovani. E ci siamo così indeboliti che i francesi si sono già comprati a prezzi di saldo la Bnl, la Parmalat, la Edison, le industrie della moda e tanto altro. La Fiat sta traslocando in America. Anche questo è il lascito del lungo regno del “bunga-bunga”. Adesso basta. Deve finire, anche a sinistra il chiacchiericcio su chi comanda e sui piccoli giochi di schieramento. Il bisogno di restituire all’Italia una dignità perduta e di impedire la bancarotta di un grande Stato che dopotutto è la settima economia del mondo, è assoluto.
È del tutto evidente che dobbiamo affrontare l’emergenza e che da qui è necessario partire. Ma per andare in quale direzione? Il bisogno che sento è questo. È rendere molto chiara la direzione di marcia e la svolta che è ormai necessaria. Basta guardare al dibattito europeo per capire che sta diventando evidente il fatto che non solo l’Italia ma l’Europa rischiano di essere travolte se il potere politico non riesce a imporre una nuova regolazione allo strapotere di una certa oligarchia finanziaria. Una finanza che si mangia l’economia reale e il capitale sociale e umano. È chiaro che il mondo non può essere governato in questo modo. Ed è per una ragione di fondo, oggettiva, non ideologica che proprio da questa stessa crisi, ormai conclamata, può nascere l’esigenza di un nuovo compromesso tra il capitalismo e la democrazia. È solo una speranza ma il grande tema del riformismo europeo è questo: la lotta per un nuovo ordine economico, ciò che fece Roosevelt.
Resta da capire se le classi dirigenti italiane e i loro intellettuali si rendano conto che non solo i poveracci ma l’insieme di quella che chiamiamo civiltà occidentale rischia di non sopravvivere se continua questa crescita spaventosa e immorale delle disuguaglianze. Il rapporto tra il salario di un operaio e i guadagni di un grande manager sono passati da un rapporto di 1 a 30 a un rapporto di 1 a 300. Stiamo molto attenti. Questa non è più solo un problema di equità, sta diventando una questione antropologica. Ce lo dicono tante cose: della massa dei giovani cacciati nel limbo di chi ha finito gli studi e non ha prospettive di lavoro, alla vergogna dei braccianti di colore ridotti nelle campagne del Sud a quasi schiavi. Anche la Chiesa si è resa conto (uso le sue parole) che siamo di fronte a gravi perdite di identità dell’individuo, sempre più indotto a consumare a debito cose di cui non ha bisogno, che perde il senso della cittadinanza, cioè dei diritti e dei doveri, e al limite non sa più distinguere tra il bene e il male.
Queste sono le macerie. Certo non è colpa solo di Berlusconi. Ma è in questo quadro più ampio che il populismo di quel signore straricco si è inserito portando al governo l’Italia delle “veline” e delle consorterie. Rimuovere queste macerie non sarà facile. Ma chi può farlo? Ed è così che arrivo a una grande domanda che mi preme assai. Io penso che proprio alla luce di questo interrogativo può (e deve) cambiare parecchio il modo di essere del Pd e la sua cultura politica ancora in formazione. Ma deve cambiare anche il modo di guardare ad esso da parte di mondi diversi dalla sinistra storica. Dovete farvene una ragione, cari amici con la puzza sotto il naso. Dovete riconoscere che per fortuna c’è Napolitano ma dovete aggiungere che per fortuna è rimasta in vita la grande tradizione democratica del vero riformismo italiano. Parlo di una idea anti-notabilare della democrazia intesa come democrazia che si organizza perché solo così essa offre alle classi subalterne lo strumento per contare, per lottare in nome della giustizia, per partecipare alla vita statale, per dare uno sbocco di governo ai movimenti.
Lo sforzo di mescolare questa tradizione con quelle del mondo cristiano e del cattolicesimo, raccogliendo anche il meglio della cultura liberale e repubblicana, è stata una grande idea. Certo non ci siamo ancora e c’è un grande lavoro da fare. Però in solo quattro anni siamo già diventati il primo partito italiano. Se ne facciano una ragione i nostri critici che affollato i talk show televisivi. La ricostruzione dell’Italia non è un problema di tecnici più bravi. Essa dipende in larga misura dalla capacità del Pd di dar vita a un nuovo blocco storico in alternativa a quello della destra. Io non dimentico che la destra ci ha governato per tanto tempo non solo perché c’è una cattiva legge elettorale ma perché i riformisti avevano perso l’egemonia culturale e sociale.

l’Unità 15.11.11
Il Pd è stato bravo ma ora affronti le sue debolezze
di Francesco Piccolo


In pochi giorni, è cambiato tutto. Guardare i telegiornali, andare in edicola, è tornato interessante, coinvolgente, addirittura eccitante. Aver assistito alle mosse del presidente della Repubblica ci ha fatto capire che le strategie politiche possono essere ancora alte, concrete, appassionate. E di conseguenza, appassionanti. Non sono finiti i mesi difficili, gli anni difficili: questo governo ci farà soffrire, è lì per quello; ma soffriremo in proporzione alla necessità, e soprattutto soffriremo con lo scopo evidente di trovare una via d’uscita. Sono condizioni molto diverse da quelle nelle quali vivevamo fino alla settimana scorsa.
Ma cosa possiamo aver imparato da questi ultimi giorni, dalla precipitosa uscita di scena di Berlusconi e dal cambio repentino, persino forzato, dello scenario politico?
Per quanto riguarda tutti noi che non abbiamo mai votato o apprezzato Berlusconi, non è cambiato nulla. In qualsiasi circostanza fosse andato via, con qualsiasi risultato, e in qualunque momento della storia di questi ultimi anni, ci sarebbe stata comunque tanta gente a fischiarlo fuori al Quirinale, e a fare i trenini per festeggiare. Voglio dire che il giudizio su Berlusconi dal ’94 a oggi, per noi che non lo abbiamo votato, non è mai cambiato nella sostanza. Quindi, non giudicherei i fatti dal punto di vista di coloro che stavano davanti al Quirinale, pur essendo quella scena significativa e potente, con immagini che passeranno alla storia.
Il problema riguarda coloro che hanno votato Berlusconi, coloro che ci hanno creduto, soprattutto coloro che ci hanno creduto onestamente, a qualsiasi livello di ingenuità. Quando Berlusconi e i suoi riflettono su questi anni, non dovrebbero indicare i contestatori, ma dovrebbero osservare i propri elettori. Sono loro che sono delusi, che non hanno ottenuto né privilegi né una speciale e liberale (e liberata dalle tasse) giustizia sociale. Così come gli elettori della Lega non hanno ottenuto, in quasi vent’anni di alleanza con lui, l’unica cosa che volevano in cambio dei mille compromessi che hanno fatto: il federalismo.
Nessuno ha ottenuto nulla, e i suoi elettori hanno osservato colui che credevano il salvatore mostrarsi poca cosa giorno dopo giorno. Credo che gli ultimi scampoli di fiducia in Berlusconi siano stati sepolti da quel voto di fiducia risicato in cui si salvò di un soffio comprando voti da chiunque e dando gloria passeggera a personaggi insignificanti. Lì la pochezza politica è diventata chiara anche per chi lo aveva votato per anni.
Sono i suoi elettori che adesso vagano per il paese confusi e piuttosto traumatizzati. E sono loro, con ogni probabilità, che, essendo la maggioranza, determineranno le alleanze e i risultati concreti delle prossime elezioni politiche.
Veniamo all’opposizione. Cosa hanno insegnato questi giorni? Prima di tutto, è risultato chiaro ancora una volta che la sinistra si divide in coloro che sanno prendersi la responsabilità del Paese (e stavolta è la stragrande maggioranza, che va dalla Camusso al Pd), e coloro che sono tentati continuamente di fare opposizione a vita. Di Pietro ha subito liberato il suo istinto demagogico, salvo poi fare marcia indietro perché i suoi stessi elettori hanno mostrato più senno di lui. Di queste cose si potrà far finta in seguito di dimenticarsene, perché converrà, ma ciò che le forze politiche hanno mostrato in questi giorni, nel bene e nel male, si vedrà anche tra sei mesi o un anno. E l’istinto all’irresponsabilità di Di Pietro è quello che è venuto fuori il primo giorno.
Il Partito democratico e il suo segretario, invece, hanno mostrato tutta la capacità di prendersi carico delle responsabilità, e l’attitudine cromosomica del partito a essere forza di governo. Il Pd si è fatto subito carico delle necessità del Paese e ha guidato con sicurezza e senza esitazioni verso l’ipotesi Monti. Non aver mai avuto l’istinto animalesco di approfittare del momento per scopi elettorali, è la dimostrazione di una affidabilità inequivocabile della dirigenza politica. Non si capisce però perché facendo tutto così bene, Bersani abbia avuto necessità di dichiarare che la caduta di Berlusconi fosse merito del Pd. Essendo un’affermazione del tutto falsa, dimostra una debolezza di fondo e una mancanza di umiltà: due fattori non soltanto problematici, ma che oltretutto non sono in sintonia con la qualità delle azioni politiche messe in atto in questi giorni. Bastava non dire nulla, e agire esattamente nel modo come ha agito, per il bene del Paese. Perché nella realtà, se il Pd o le forze di opposizione (compreso Fini) avessero prodotto qualche effetto, l’Italia non sarebbe arrivata a questo punto e Berlusconi sarebbe stato cacciato via prima dei troppi danni che ha fatto.
Il governo Monti serve a tutti, adesso. Perché conviene che faccia quelle mosse necessarie e impopolari che qualsiasi governo avrebbe dovuto fare, e che Berlusconi è stato incapace di fare. Perché dà il tempo al Paese di rifiatare e ai partiti di riposizionare le nuove alleanze (soprattutto nel centrodestra) e trovare un leader credibile per gli elettori. E serve anche al Pd, che così ha il tempo di prendere coscienza delle sue debolezze e di ricostruire quella capacità centripeta che è necessaria a tutto il centrosinistra per aspirare a governare direttamente il Paese.

Repubblica 15.11.11
Il Pd: serve una cabina di regia governo-partiti
"Non possiamo mischiare le nostre facce col Pdl". Bersani: sosteniamo Monti
Di Pietro insiste per un esecutivo a tempo: se passa il referendum si deve andare al voto
di Giovanna Casadio


ROMA Alla fine della serata, Bersani è un po´ più sollevato. Stamani nel salottino della Sala Zuccari a Palazzo Giustiniani, dove Mario Monti riceverà i Democratici alle 9,30, il segretario dovrà rispondere alla richiesta del professore, che suona come un ultimatum («Senza l´appoggio dei partiti non mi accingerei neppure al compito di governo, anche se non è indispensabile la presenza dei leader nel governo») con una dichiarazione di lealtà: «Noi ci siamo e sosterremo il governo con convinzione. Sappiamo benissimo che sono ore delicatissime, che ci vuole senso di responsabilità e non sotterfugi». I sotterfugi, secondo i Democrat, sono quelli che il Pdl starebbe tentando di mettere in atto, per impallinare presto il governo in formazione, o addirittura non farlo decollare. Ma basterà la promessa di appoggio responsabile di Bersani per rassicurare Monti?
Ieri nella lunga riunione dello stato maggiore del Pd (con Bersani, il vice Letta, la presidente Rosy Bindi, i capigruppo Anna Finocchiaro e Dario Franceschini) si parla di creare una "cabina di regia" politica che raccordi il Parlamento con il governo. Questa "cabina di regia" non dovrebbe occuparsi solo di legge elettorale e riforme istituzionali, ovvero delle materie su cui i partiti si sono lasciati le mani libere, ma coordinarsi con il lavoro dell´esecutivo. Finocchiaro però invita ad andarci cauti: cosa significa? fare rientrare dalla finestra il triumvirato Bersani-Casini-Alfano, appena fatto uscire dalla porta? «Dovremo sperimentare modi nuovi con cui assicurare questo raccordo, a partire dalle sedi che ci sono: il Parlamento tornerà centrale», raccomanda la presidente dei senatori democratici.
Insomma, il problema di quale sarà il rapporto (e la garanzia) tra governo tecnico e la maggioranza politica che lo sosterrà, esiste. Ma mente il Terzo Polo (Casini, Fini, Rutelli) nella consultazione già avuta hanno ribadito che danno carta bianca a Monti su tutto, Idv e soprattutto il Pd hanno stabilito una linea del Piave: il governo deve essere di tecnici, i politici no. «Non ci sono subordinate», si è confidato Franceschini. Anche se nella riunione dei big democratici di subordinate ne sono state prese in considerazione, ad esempio quella dell´ingresso nel governo dei vice presidenti di Camera e Senato di Pd e di Pdl. «Non possiamo compromettere la prospettiva politica, le facce nostre mescolate a quelle del Pdl sarebbero difficili da capire», è stato il leit motiv. Bindi dichiara, poi: «Non è de-responsabilizzarci. Se non vogliamo ministri di partito nel governo è per dare all´esecutivo ancora maggiore autonomia nelle scelte che dovrà fare». Fioroni: «Il Pd è coeso su questo». D´Alema ribadisce: «Sarà tecnico ma dal Pd massimo sostegno».
"Montiana" del tutto, è invece Emma Bonino. La leader dei Radicali, ricevuta con Maurizio Turco e Rita Bernardini alle 17,30 ieri, avverte: «Ci vuole un governo autorevole e con un impegno diretto delle forze politiche: ho una lunga esperienza per sapere che non è più il tempo di prese di distanza e imboscate, e quindi il governo Monti deve essere altamente politico per evitare il Vietnam parlamentare. Né bastano 3 o 4 mesi per rimettere in carreggiata l´Italia e quindi deve durare fino al 2013». Quello che il professore vuole, temendo una campagna elettorale strisciante mentre il governo è impegnato pancia a terra a fare uscire l´Italia dalle sabbie mobili di una crisi economico-finanziaria senza precedenti. Di Pietro invece apre alla fiducia («Ma vogliamo vedere squadra e programma»), però insiste per un esecutivo a tempo: «Se passa il referendum o cambia la legge elettorale, subito al voto». Sul programma, il Pd metterà paletti, insisterà sull´equità. Chiederà che non si tocchi l´articolo 18. Monti ha rassicurato. Per il resto, Bersani porterà a Monti il dossier delle proposte democratiche.

Repubblica 15.11.11
Ma i democratici sono già divisi su pensioni e mercato del lavoro
Il gelo della Cgil su Monti spaventa il partito
Posizioni opposte sulle ricette anti crisi. Morando: ma non siamo succubi della Camusso
di Roberto Mania


ROMA La Cgil ago della bilancia. La posizione che Corso d´Italia assumerà sul nascituro governo Monti peserà eccome sul Partito democratico, sui suoi equilibri interni e sulle sue alleanze future. Questa è una partita inedita per Susanna Camusso e per Pier Luigi Bersani. Un crocevia decisivo. Perché i «sacrifici» richiamati già ieri dal presidente del Consiglio incaricato si possono tradurre, più semplicemente, in interventi sulle pensioni e sul lavoro per quanto temperati da un´eventuale patrimoniale in versione soft.
Il Pd potrà votare misure severe di un governo tecnico, sostenuto anche dal centro destra, con la Cgil in piazza a protestare? Un dilemma. O addirittura il dilemma di queste ore per la sinistra laburista italiana. Si confida nella tradizionale lentezza di maturazione della confederazione rossa e sulla cautela che ha già mostrato Monti. Ma le incognite restano tutte. Non è lo scenario dei primi anni Novanta con i partiti in ritirata per via di Tangentopoli e le forze sociali costrette ad assumere un ruolo di supplenza attraverso la concertazione. Oggi c´è il bipolarismo e ci sono i partiti, ciascuno pronto a giocarsi le sue carte in vista delle prossime elezioni.
Ieri la Camusso ha riunito fino a sera la segreteria confederale per prepararsi all´incontro di oggi a Palazzo Giustiniani. La Cgil è stata l´unica organizzazione di interessi a non aver sottoscritto la scorsa settimana l´ultimo appello a favore di un governo Monti in tempi rapidi. Uno sganciamento che ha lasciato perplessi i piddini. Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, aveva personalmente telefonato alla Camusso per convincerla. «No, noi non firmiamo», è stata la risposta. D´altra parte all´inizio di questa crisi politica, Camusso ha sposato l´idea delle elezioni subito, per poi ripiegare sull´opzione del governo di emergenza. In ogni caso non aveva e non ha alcuna intenzione di schierarsi a sostegno di un esecutivo che dovrà ridurre in tempi rapidi la spesa corrente i cui capitoli sono sanità, pubblico impiego e previdenza. E, infatti, il leader della Cgil anche ieri ha ribadito la linea: «Non si fa cassa con le pensioni». Altro discorso ha aggiunto è parlare delle future pensioni dei giovani. Su questo concorda la maggioranza del Pd. Dice Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, esponente di AreaDem, la componente di Dario Franceschini, ma soprattutto uomo di cerniera con la Cgil: «Le pensioni non debbono di nuovo essere toccate. Mi piacerebbe che si contassero i miliardi che si sono risparmiati con gli ultimi interventi sulle pensioni e se ne cercassero altrettanti dai grandi patrimoni, dalle rendite e dagli speculatori. Vorrei proprio vedere se si vuole obbligare chi è entrato in fabbrica a quindici anni a rimanerci per 45 e passa anni». Barricate, dunque. Al pari di quelle della Cgil. O di quelle innalzate sull´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, un altro campo socialmente sensibile, dal giovane membro della segreteria bersaniana Matteo Orfini: «Nominare Ichino ministro sarebbe, per il Pd, una vera e propria provocazione». Parole molto gradite alla Cgil ma che hanno indignato i veltroniani. Ancora ieri il liberal Enrico Morando: «Parole veramente tristi. Questo governo può essere un´occasione formidabile per affrontare i temi del mercato del lavoro senza pregiudizi. È finita la stagione della nostra subalternità nei confronti della Cgil». Ma se saltasse il patto di non belligeranza Bersani-Camusso cambierebbe la geografia del Pd. E Vendola e Casini sono gli spettatori più interessati.

il Riformista 15.11.11
Passa la linea di Bersani sui ministri «solo tecnici»
Fassina chiede il voto nel 2012. Amato in corsa
Tensione nel Pd sulla durata del governo
di Tommaso Labate


Gli ultimi ad arrendersi sono stati Veltroni e Letta, i più convinti sostenitori della teoria secondo cui «i politici sarebbero dovuti entrare nel governo d’emergenza». Nel braccio di ferro sotterraneo andato in scena dentro il Pd, per ora passa la linea di Bersani: «I ministri saranno solo tecnici». Ma c’è tensione sul voto anticipato.
E dire che il tira e molla all’interno dei Democratici va avanti da venerdì scorso. Da prima, cioè, anche Mario Monti manifestasse la sua preferenza ad avere nella squadra qualche politico di peso. «Walter» ed «Enrico», che negli ultimi giorni sembrano gli esponenti del Pd meglio sintonizzati con le antenne del Colle e con quelle del premier incaricato, l’avevano spiegato al segretario: «Pier Luigi, guarda che Monti preferisce averli, i ministri politici».
Bersani ha ascoltato le ragioni dell’ex leader e quelle del suo vice. Poi, citando i veti che arrivavano da Berlusconi, ha impresso lo stop: «Non possiamo mica muoverci da soli». Una spiegazione che, nel pomeriggio di sabato, «Pier Luigi» aveva opposto anche al premier in pectore: «Noi ci sentiamo garantiti da lei, presidente. Non abbiamo bisogno di altro».
Per il Pd, insomma, la partita dei ministri politici si può considerare chiusa. Lo dice Massimo D’Alema, rispondendo alle domande di Lucia
Annunziata a In mezz’ora: «Per noi deve essere un governo tecnico, senza uomini dei partiti. Ma questo non è un disimpegno. Daremo il sostegno a Monti con tutte le nostre energie». Lo conferma anche uno dei principali esponenti della minoranza interna, Beppe Fioroni: «Al 99,9 per cento siamo tutti d’accordo sul governo esclusivamente tecnico. E questo, secondo me, può anche essere un segnale di forza. Il dibattito sui ministri politici rischiava solo di incasinarci la vita». Come ha capito perfettamente anche Mario Monti. Che in serata, al termine del primo giro di consultazioni, ha ribadito la volontà di avere dei politici in squadra precisando però che «capirei i loro no».
Eppure, nonostante il tormentone sulla natura del governo sia destinato a eclissarsi, dentro il Pd la tensione rimane alta. Colpa dei sospetti incrociati che circolano tra i Democratici sulle reali intenzioni di sostenere il governo fino alla fine della legislatura. Sul punto Monti ha rotto tutti gli indugi e tolto ogni residuo di ambiguità: «L’orizzonte temporale in cui il futuro governo si colloca è da
oggi alla fine della legislatura». Certo, ha precisato, «è ovvio che il Parlamento può decidere in qualunque momento che l’esecutivo non è più degno della sua fiducia». Ma attenzione. «Se però venisse prefissata una data al di qua del 2013», ha scandito l’ex commissario europeo, «questo toglierebbe credibilità all’orizzonte del governo. E non lo accetterei».
Basta confrontare le parole del prossimo presidente del Consiglio con quelle messe a verbale dal responsabile economico del Pd Stefano Fassina per intercettare la buriana che tornerà a soffiare al Nazareno. Ventiquattr’ore prima della conferenza stampa di Monti, Fassina ha rilasciato un’intervista uscita ieri sul Quotidiano nazionale. Per dire, senza troppi giri di parole, che «questo governo dovrà risolvere le emergenze, calmare le pressioni internazionali e poi portare il Paese al voto». La tempistica? «Qualche mese dovrebbe essere sufficiente».
La posizione di Fassina, ovviamente, non piace né a Veltroni né a Letta, né a Franceschini e nemmeno alla Bindi, tutti ormai sintonizzati sul
voto nel 2013. «Dobbiamo smetterla con il gioco dei veti incrociati», spiega il veltroniano Tonini. «E soprattutto, visto che in ballo ci sono le sorti del Paese, dobbiamo affidarci a quello che vogliono Monti e il presidente della Repubblica Napolitano. Siamo nelle loro mani». Nessuno, e men che meno Tonini, si spinge fino a una chiamata in correità di Bersani, di cui Fassina è uno dei fedelissimi. D’altronde, dentro il partito, in tanti hanno riconosciuto la «generosità» dimostrata dal segretario nel favorire l’esecutivo Monti scartando il ricorso alle urne. Però i punti interrogativi rimangono. Al pari dei sospetti su chi, puntando sui sondaggi che danno il Pd a un passo dal 30 per cento (come quello di Termometro politico, pubblicato ieri dalla Stampa), potrebbe spingere per chiudere la legislatura nel giro di pochi mesi. E il totoministri? In attesa dell’incontro tra Monti e la delegazione del Pd, le voci sui “papabili” si sono arrestate. Non quelle su Giuliano Amato, che pare sempre più in pole position per un posto nella squadra.

La Stampa 15.11.11
Pd in crisi: sfiora il 30% ma il voto è tabù
E dopo il pressing di Monti spiragli sui sottosegretari ma solo «di area»
di Carlo Bertini


Che nel Pd ci sia una larga schiera di fautori della tesi «elezioni al più presto possibile» non è un mistero. Lo stesso Bersani, che oggi in verità si presenta al cospetto di Monti dopo aver stoppato queste pulsioni da giorni, «imporre una scadenza ad un governo significa farlo nascere azzoppato», al comizio di San Giovanni disse che un esecutivo di transizione sarebbe stato un passaggio, ma il vero orizzonte politico è il voto. Che poi in queste ore uno dei refrain sia «purtroppo si voterà solo nel 2013» è conseguenza diretta della lettura di sondaggi come quello pubblicato sulla Stampa, in cui sembra che il partito viaggi verso la soglia psicologica del 30%. Dati che hanno contribuito a sovraeccitare gli animi, come sembrano dimostrare uscite tipo quella del responsabile economico del Pd Fassina. Il quale ieri, in un’intervista a Qn e Nazione, si diceva convinto che «per risolvere le emergenze, calmare le pressioni internazionali e poi andare al voto, qualche mese sarà sufficiente». Apriti cielo. Enrico Letta, che tra i Democrats è forse quello che vanta una maggiore familiarità con il premier incaricato, ancor prima che Monti avvertisse che non accetterebbe un mandato a termine, è intervenuto a gamba tesa sui Tg mattutini per dire che «non bisogna mettere nessuna scadenza al governo Monti». Ma la frenesia di andare a votare presto per capitalizzare i consensi indicati dai sondaggi potrebbe essere contagiosa, al punto che Rosy Bindi, mentre usciva in serata dalla Camera, ammoniva con il dito alzato «è meglio che tutti si diano una calmata». Confermando che oggi al premier incaricato il Pd andrà a ripetere le cose già ribadite in questi giorni, massimo impegno, massima collaborazione, nessuna scadenza al governo.
Ma è evidente che sotto il pelo dell’acqua si muovano tensioni ben maggiori di quelle visibili alla luce del sole. «Come ci regoliamo sull’ingresso dei politici? Già è dura così, figuriamoci se dovessimo far stare insieme i nostri con i loro...», ammetteva ieri uno dei massimi dirigenti Pd. Perché la preoccupazione è che un Di Pietro svincolato, che ancora non assicura nulla, e un Vendola pronto a saldarsi con la Cgil della Camusso che già dice «se si comincia con l’Ici si parte male...», possano cavalcare una prateria indisturbati di qui alle elezioni. Per questo la linea del Pd resta «se ci sono solo tecnici è meglio», anche se il pressing di Monti sulla presenza dei politici ha sortito una cauta disponibilità all’eventuale ingresso nei ruoli di sottosegretari di personalità «di area», che non devono essere parlamentari, casomai, ma solo ex. Una questione che, dopo le aperture «senza se e senza ma» di Casini e Fini che hanno rotto l’argine del «fronte del no», ha tenuto banco tutto il giorno. Comunque il Pd si presenterà domani da Monti tenendo il punto, fissato ieri da Bersani con i suoi capigruppo: niente politici e massima attenzione all’equità sociale per le misure da prendere. Con un rilancio delle riforme, legge elettorale in primis, che si concilierebbe ben poco con un governo a scadenza ravvicinata ed elezioni a giugno...

Corriere della Sera 15.11.11
I rimpianti del Pd al 30 per cento Bersani tra sondaggi positivi e primi sintomi di «vittoria dimezzata»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il Pd, dopo mesi di penuria, sfiora finalmente il 30 per cento. E a largo del Nazareno qualcuno si mangia le mani: le elezioni non ci sono e quel bottino di consensi serve a poco o a niente. Dà qualche soddisfazione a Bersani, che ha fatto crescere la forza politica da lui guidata, ma niente di più, giacché tra un anno e mezzo non è detto che il Pd si trovi a quella percentuale, né che il segretario possa candidarsi a premier.
Forse è ancora presto per dire che al Partito democratico si soffra di sindrome da vittoria dimezzata, dopo la caduta di Berlusconi, però i segnali di questa sintomatologia possono già riscontrarsi. Generano confusioni e contorcimenti. Un esempio per tutti la doppia presa di posizione di ieri di Stefano Fassina. Il responsabile economico del Pd, uno e bino, sull'Unità definisce il sì a Monti «una scelta politica di portata storica». Intervistato lo stesso giorno dal Quotidiano nazionale, Fassina ridimensiona, e di molto, la «portata storica» dell'esecutivo: non è «necessario», dice, che arrivi a fine legislatura, «qualche mese dovrebbe bastare».
Ma il responsabile economico non è l'unico a manifestare lo stato di disagio in cui sta vivendo il Pd. Anche il governatore della Toscana Enrico Rossi vorrebbe elezioni a breve termine: sì a «un governo autorevole» che porti il Paese alle urne, è la sua posizione. Persino D'Alema, il più grande fautore dell'esecutivo, colui che fino a pochi giorni fa puntava addirittura a inserire dei politici nella compagine governativa, ammette le difficoltà. E con un amico si lascia sfuggire: «Non c'è un gran clima di unità nazionale». Perciò, meglio soprassedere sulla sua idea originaria: «Nel centrodestra non c'è una svolta tale da rendere comprensibile una collaborazione tra noi e loro al governo». A conferma della confusione di questi giorni, va aggiunta un'altra notazione: secondo il governatore ligure Claudio Burlando, invece, nel governo «ci sarebbe stato bene Gianni Letta». Ossia il sottosegretario alla presidenza del Consiglio su cui Bersani ha messo il veto (e altri ne ha posti su alcuni esponenti del mondo bancario). Insomma, il Pd sembra procedere in ordine sparso. E mentre l'ala veltroniana è pronta a un confronto costruttivo su una linea di politica economica dura, Fassina, invece, avverte che, se dovessero pagare «i lavoratori dipendenti e il ceto medio», le «tensioni sarebbero inevitabili».
Nel Pd c'è anche chi pensa che con questo governo si farà «finalmente tabula rasa» della vecchia classe dirigente. Ed effettivamente i progetti di molti rischiano di essere sconvolti. Non c'è solo il caso di Bersani, che potrebbe veder sfuggire la candidatura a premier, se è vero quel che teme Berlusconi, e cioè che il prossimo candidato dell'alleanza tra il centrosinistra e il Terzo polo sarà Monti. Anche le carte della sfida per il Quirinale potrebbero essere scompaginate. Prodi ha sempre negato di aspirare al Colle, e a questo punto c'è da credergli perché difficilmente potrebbe essere lui il candidato del centrosinistra. Ha più chance Casini, che potrebbe cementare in questa fase l'alleanza con il Pd.
Del resto, cambiano inevitabilmente anche i piani di chi sta fuori dalla politica nazionale e vorrebbe però entrarci. Matteo Renzi sembrava aver preso la rincorsa per le elezioni del 2012, ma ora che questa prospettiva sfuma, deve ripensare alle proprie mosse. Il sindaco di Firenze, che ha subito inviato a Monti un telegramma di felicitazioni, dovrà ricalibrare tutto. «Vediamo che succederà», si limita a dire per ora. Ma Renzi non ha rinunciato al progetto di girare l'Italia con il suo «Big bang»: Milano e Palermo saranno le sue tappe future.

La Stampa 15.11.11
Quei privilegi non più tollerabili
di Mario Calabresi


Mario Monti ha pochissimo tempo davanti, l’Italia non può stare a lungo senza un governo in questa situazione, ma per cominciare la sua navigazione deve riuscire a conquistarsi un patrimonio di credibilità con i cittadini e a costruirsi una tenuta politica che ne eviti il naufragio precoce.
Una sfida difficile in un Paese che ancora oggi mostra di non avere consapevolezza delle difficoltà che affrontiamo: lo dimostrano quei leader politici che continuano a giocare e a opporre veti e tutti quei cittadini che sono pronti ad accettare ogni sacrificio, basta che tocchi qualcun altro e non loro.
Il premier incaricato però, pur con quella sua aria distante e un po’ lunare, ha mostrato ieri sera di essere un attento ascoltatore degli umori degli italiani, ha capito che stava crescendo il malessere per un governo che si prevedeva composto solo da uomini e di grande esperienza. Così ha corretto l’impressione sottolineando che la sua squadra sarà orientata a dare risposte ai bisogni delle donne e dei giovani, che perseguirà la crescita e l’equità e non avrà come motto: «Lacrime e sangue». Se tende ancora l’orecchio allora gli sarà chiaro che, per conquistarsi un ampio consenso e il sostegno della maggioranza degli italiani, dovrebbe mettere al primo punto del suo programma un intervento vero sui costi e sui privilegi della politica.
In tempi di sacrifici e di tagli l’esempio deve venire dall’alto, da chi ci governa: solo se si hanno le carte in regola allora si può chiedere agli italiani di fare rinunce o pagare nuove tasse. La maggioranza uscente ha sottovalutato il problema in questi anni, non ha capito quanto fosse grande nel Paese l’insofferenza verso la cosiddetta «casta», e anche per questo ha perso il consenso di chi l’aveva votata.
E’ necessario un gesto di discontinuità, le possibilità sono moltissime perché moltissimi sono i privilegi e i costi delle burocrazie e della politica (lo hanno spiegato con grande chiarezza ieri Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, ricordandoci tra l’altro che a Palazzo Chigi ci sono ben più del triplo dei dipendenti che nella sede del primo ministro britannico). Molte sono le cose inaccettabili, per esempio non si capisce perché ogni cittadino italiano abbia una trattenuta sulla liquidazione del 23 per cento (fino a 15 mila euro, perché sopra questa cifra l’aliquota sale al 27) mentre i parlamentari invece non pagano tasse sulla loro indennità di fine mandato. E, come abbiamo raccontato in un’inchiesta di Carlo Bertini, dopo una sola legislatura l’indennità è di ben 46 mila euro netti. E’ chiaro che i tagli alla politica non faranno la differenza nel bilancio dello Stato e non saranno certo determinanti per ridurre il nostro debito, ma è certo che faranno un’immensa differenza nella percezione dei cittadini e nella loro propensione ad accettare i sacrifici necessari a rimettere in equilibrio il Paese. E’ un’impresa difficile e coraggiosa a ogni latitudine (ieri i parlamentari francesi hanno rigettato la proposta di tagliarsi gli stipendi del dieci per cento, preferendo un ben più modesto 3 per cento e non da subito), ma è il necessario punto di partenza.
Ma se ha bisogno dei cittadini, Monti ha bisogno anche del sostegno convinto del Parlamento, per questo ieri sera è stato attento a mostrare rispetto per la politica, i suoi tempi e i suoi percorsi necessari. Anche se non può sfuggire che se la giornata è stata nuovamente drammatica ciò è accaduto perché non c’è ancora un nuovo governo e non ci sono certezze sui tempi.
Alla politica l’ex commissario europeo si è rivolto mostrando la possibilità di trasformare un momento difficile in una vera opportunità di rilancio e speranza. Dovrebbe essere chiaro a tutti i nostri leader di partito che Monti è l’ultima scialuppa di salvataggio sia per loro sia per l’Italia. Ma non tutti l’hanno capito e questa mattina sarà cruciale per misurare la reale volontà dei due partiti maggiori di sostenere il nuovo governo.
Monti avrebbe voluto avere nel suo esecutivo esponenti di peso legati alle tre maggiori forze politiche del Parlamento, non voleva dire tornare indietro o chiedere ai segretari di partito di farne parte, ma costruire un filo diretto con il Parlamento che desse maggiore tenuta al nuovo esecutivo. Si parlava di Gianni Letta e Giuliano Amato, ma questa soluzione è rimasta schiacciata tra i veti incrociati di Pd e Pdl, che non riescono a uscire dalla stagione della contrapposizione e della battaglia. Monti non ha ancora abbandonato la speranza di rafforzare il suo governo, cosciente insieme al Presidente della Repubblica che ad un governo puramente tecnico è più facile «staccare la spina», e ai partiti ha detto chiaramente che è «indispensabile un appoggio convinto».
Quest’uomo, che appare un marziano delle scene politiche per come risponde o non risponde alle domande, sembra avere presente meglio di quasi tutti noi la gravità del momento. Intorno a lui, nei partiti e nell’opinione pubblica, la memoria sembra essere brevissima, non più lunga di una giornata. Accade perché il cambiamento non ce lo siamo conquistato, perché questa situazione è figlia di spinte esterne più che di una consapevolezza maturata all’interno. Ora abbiamo davanti una seconda occasione, dopo quella seguita al crollo della Prima Repubblica, per riformare il sistema, per ripartire e per ricostruire. Una terza probabilmente non ce la darà nessuno.

il Riformista 15.11.11
Il 21 per cento del paese mantiene tutti gli altri
Il sociologo De Masi. L’Italia ha bisogno di un’operazione chirurgica. Dopo lo scampato pericolo il concerto potrà essere eseguito dall’orchestra. La politica è un’arte, non una scienza
di Cinzia Leone


Il sociologo Domenico De Masi, studioso della società post-industriale, ci aiuta a decodificare la slavina della crisi e a traguardare una decrescita, se non “felice”, almeno sostenibile.
La sua ricetta?
Una vita meno obesa. Cambiano i consumi e il concetto di lusso. Il tempo, lo spazio, la sicurezza, la convivialità e la bellezza, sono i grandi lussi. Longevità e tecnologia ci regalano un tempo che non sempre sappiamo gestire, redistribuire e organizzare. La potenza dell’informatica raddoppia ogni 18 mesi: tra navigatori satellitari, wi-fi e hard disk, non potremo più perderci, né dimenticare, né isolarci. E neppure annoiarci. Perderemo però la privacy e l’imprecisione: e insieme il vuoto e il caso.
Cosa se ne va con Berlusconi, e cosa arriva con Monti?
Se ne va il caso. E arriva la precisione. Quello che avvenne nel seicento con Galileo, Cartesio e Bacone. L’universo della precisione soppiantò il mondo del “pressappoco”.
Crisi o passaggio epocale?
Le risorse “finite” del pianeta sono agli sgoccioli. Ma quella “infinita”, la creatività umana, non può che crescere. 7 miliardi di bocche da sfamare ma altrettanti cervelli, connessi come non era mai accaduto nella storia dell’umanità. Se l’intelligenza è equamente distribuita, non altrettanto il prodotto interno lordo. Se l’Italia ha 30 mila dollari pro capite, l’America 40 mila e il Brasile 12 mila, alla Cina meno di 5 mila. La redistribuzione è obbligata. In passato abbiamo usato il surplus per soddisfare i bisogni quantitativi e per sprecare. Se non vogliamo subire una decrescita imposta, dobbiamo programmarla: un’urbanistica e un’architettura diverse, una accorta pianificazione dell’economia, una quotidiana economia domestica. Non dobbiamo ridurre il tasso di felicità, ma il rammarico di essere spreconi. E gestire le condizioni positive della contemporaneità.
Un esempio?
La longevità, è un vantaggio, ma non avendo progettato una risposta al fenomeno, ampiamente prevedibile, invece che profittarne finiamo per subirlo. Mette in crisi l’occupazione, perché siamo in più a poter lavorare, e il tempo libero mal gestito si trasforma in una bolla di noia e di infelicità. Il lavoro è un settimo della vita di un essere umano. Uno studente di 20 anni ne ha davanti circa 60: 530 mila ore. Se trova lavoro a 25 anni (caso rarissimo) e lavora fino a 65, avrà lavorato 40 anni: 2 mila ore di lavoro all’anno per un totale di 80 mila Le altre 450.mila cosa farà? Sottraendone 8 o 9 per dormire e la “care”, ne restano 230 mila di tempo libero. E in futuro non potranno che aumentare.
Pensavamo di dover triplicare lo sforzo lavorativo...
Il padre lavora 10 ore al giorno e il figlio è disoccupato. Non sarebbe meglio lavorare 5 ore per ciascuno? Abolirei l’età pensionabile: rimane al lavoro chi è in condizione di farlo e lo desidera: nasciamo tutti uguali ma moriamo diversi. Su 100 italiani solo 22 sono “popolazione attiva”, e di questi l’8 per cento è disoccupata. Dunque il 21 per cento mantiene tutti gli altri. 2 milioni di giovani senza lavoro: dannati del consumo e condannati all’ozio. Keynes nel 1930 aveva già messo a fuoco il problema. E Giovanni Agnelli aveva avuto l’intuizione di portare a 15 ore settimanali l’orario di lavoro. Ma Einaudi glielo impedì.
La generazione “né-né” l’unica faglia sociale pericolosa?
Si sta creando una pericolosa dicotomia, quella tra digitali ed analogici. I digitali hanno dimestichezza con l’informatica, non hanno paura del nuovo, degli immigrati e dei gay. Gli analogici hanno il rifiuto della tecnologia, del nuovo e del diverso. Tra i due gruppi si sta creando un abisso.
Due modi di guardare l’orologio della storia ugalmente ripartiti negli schieramenti politici?
Più diffusi a destra gli analogici. Basta pensare alla campagna elettorale di Letizia Moratti, incentrata sulla paura di gay, immigrati e rom: tragicamente analogica.
Analogici o digitali, abbiamo i salari più bassi d’Europa: e si lamenta la poca flessibilità.
Il salario è basso per il lavoratore ma alto per l’azienda: quasi metà se la piglia lo Stato. Quando si parla di flessibilità i datori di lavoro pensano subito ai licenziamenti facili. Mentre io penso al telelavoro per le mansioni intellettuali e al part time per chiunque lo voglia. I capi ufficio resistono perché hanno la sindrome di Clinton: la mania di avere i dipendenti sempre a disposizione e sotto controllo, come l’ex presidente le stagiste. Il lavoro non va solo controllato ma sopratutto motivato. Più sei licenziabile più hai paura e sei demotivato: la licenziabilità è il veleno della fidelizzazione e della creatività del lavoro.
Rigore e crescita: un accoppiata difficile.
La dieta è mangiare in modo più equilibrato. Bisogna tagliare le spese inutili e dirottare le risorse sulla ricerca, la creatività e l’estetica. I tre motori del nostro successo dal Rinascimento ad oggi.
Comunismo e capitalismo: regimi ugualmente imperfetti?
Il comunismo sapeva distribuire e non produrre ricchezza. Il capitalismo, al contrario ha saputo produrre ricchezza, ma non distri-
buirla. Perciò il comunismo ha perso e il capitalismo non ha vinto. Produrre e distribuire una pistola a testa risolve solo il problema dell’industria delle armi. Bisogna cominciare a produrre solo quello che vale la pena di distribuire.
Meglio i governi tecnici o quelli politici?
Nell’antichità c’erano due tipi di pensiero che nascevano da due geografie. In Egitto il Nilo dalla fonte alla foce con una linea diritta taglia il paese. In Mesopotamia due fiumi con un percorso frastagliato e molte confluenze attraversano. La geografia diventa forma simbolica e di pensiero: per i primi gerarchico e lineare, per gli altri labirintico. I greci seppero coniugare entrambe. La politica è il pensiero gastrico, labirintico e capace di mediazioni creative. I tecnici sono la linea retta.
Arrivano i Bocconiani.
L’Italia ha la peritonite e occorre un’operazione chirurgica. Solo dopo, scampato il pericolo, il concerto potrà essere eseguito dall’orchestra. La politica è un’arte, non una scienza.

l’Unità 15.11.11
Intervista a Dario Fo
«Il dramma del Cavaliere è stare dietro le quinte»
«Satira in lutto dopo Berlusconi? Macché. Nessun comico usava quello stereotipo per farci ridere. Ora tramerà per tornare protagonista in scena»
di Toni Jop


Scusi mastro Fo, non le pare che il protagonista sia precipitato dietro le quinte? E adesso che accade? Chi ha il copione? Come va a finire? Anzi, permetta, come faremo? Già si intravvedono caratteri e situazioni in sofferenza, è tempo di orfani, ma siamo davvero di fronte a un lutto? Fortuna “che Dario c'è”, lui sa, a lui possiamo chiedere lumi su questo Fulmine Ex-Machina che ha fratturato la scena.
Dario, dovremo davvero abituarci alla sparizione di una maschera fondamentale nella nostra storia, quella dell'amato premier Berlusconi? «Insomma, non direi “maschera”. Con Berlusconi abbiamo assistito a un teatro diverso da quello gestito dalle maschere. Benché nell'uscire di scena – è uscito, è verissimo com'è vero il teatro – abbia adottato la soluzione del “draghinasso”: capisce che è alla fine e allora va giù più pesante che può, per salvarsi come attore».
Triste fine, un protagonista nato, uno che mai accetterebbe di far l'attore costretto a fare l'attore, perché sta fuori gioco, per ora, non credi? «Infatti, soffre molto, si gonfia, il corpo gli si gonfia...»
Ma è vero! Mai visto così largo dovunque...
«Ecco: non stiamo offendendo nessuno, men che meno lui. La verità è che il corpo non gli sta dietro. Sta subendo qualcosa che mai avrebbe voluto accettare e il corpo gli dice di no. Intanto, lui media con il corpo come può: gli sta promettendo che ora deve stare in secondo piano giusto per gestire diabolicamente e magistralmente la situazione. Ma il suo corpo non deve essere stupido, mangia la foglia..».
Nel senso che questa parte in commedia è una balla, un pretesto, non sta in piedi? Vuoi dire che sta mentendo a se stesso? Se è vero ora, ammetterai che lo ha sempre fatto, così come fa sistematicamente Narciso...
«No, no: lui fa sul serio. Ora, deve solo dimostrare che è ancora in grado di produrre tragedie, deve dimostrarlo a se stesso, al pubblico, alla satira che si ciba di tragedie. Il fatto è che non mi sembra così duttile come interprete, lo fa morire star dietro le quinte. Perché è incontestabile che sia finito fuori. Peggio che peggio: ora sta tra il pubblico, capisci? Anzi, non sta neppure in platea perché in platea siede la gente che paga il biglietto, lui è nel loggione, con i suoi servi...».
Chiaro come il sole: quando la tragedia si accende per lui, per noi va bene, quando la tragedia si accende per noi è lui che torna in scena...
«Esatto; pensa: ora c'é Monti che sta facendo il governo tecnico per fermare l'emorragia di risorse che ha colpito il paese. In questa fase, di Berlusconi non c'è nemmeno un frammento di copione, non va in scena nemmeno una parola scritta da lui. Questa è la sua tragedia...». Veramente, ha detto che ci sta alla proposta del governo Monti... «Grazie. Aveva alternative che gli avrebbero consentito di dialogare col suo povero corpo con un briciolo di speranza di farcela? No. Se voleva conservare il sogno di continuare a fare l'interprete principale di tragedie altrui, le nostre, doveva fare esattamente come ha fatto: dir di sì a Monti. E poi, tessere e tessere, prendere tempo, risalire la china dell'assenza dalla prima scena condizionando l'azione del nuovo governo, magari per metterlo in difficoltà al momento opportuno...». Sì, ma così non si ride più...
«Non ti eri accorto che di lui non si rideva già più da un pezzo? E nessun artista, mi sembra, ce lo raccontava per strapparci il sorriso. E come si fa con un protagonista con entrambi i piedi ben piantati nel grottesco? Lui è un maquillage, non una maschera, una maschera senza maschera, con quel cerone sul volto, il cuoio capelluto finto, un maquillage in agguato col suo bel copione in tasca...».
Quindi, conviene fare il tifo per Monti e per il suo governo, giusto?
«Ovvio che sì. Anche senza entrare apertamente in politica, dal punto di vista drammaturgico non noti che la platea italiana non può che fare naturalmente il tifo per questa esperienza? A parte il fatto che si avverte come necessaria per frenare la speculazione finanziaria, la situazione sul “palco” orienta il “pubblico” in modo semplice e chiaro: si opera per far del bene al paese, quasi un intervento medico, come si fa dir di no, a non fare il tifo? Sapendo, tra l'altro, che se mai dovesse cadere Monti accadrà – speriamo di no – solo perché lui, Berlusconi, vuole uscire a ogni costo dalla sua tragedia...».
Ma scusa: sarebbe terribile per l'Italia e per tutti noi....
«Vedi che hai capito? Il suo copione è stato e sarà – speriamo di no – la nostra tragedia».

La Stampa 15.11.11
Le nuove rotte dell’immigrazione
Sarà l’Asia la nuova America
La crisi ha ribaltato i flussi: ora si migra molto più da Sud a Sud . I Paesi del Golfo, l’Australia e persino il Messico attraggono lavoratori che Ue e Usa non possono accogliere. Ma come faremo quando ne avremo di nuovo bisogno ?
di Paolo Mastrolilli


È in corso una rivoluzione epocale che ci toccherà tutti da vicino, ma di cui poco si parla, se non in termini superficiali e spesso condizionati dal pregiudizio. È quella che sta cambiando i flussi migratori in tutto il mondo. La crisi economica e i cambiamenti climatici stanno avendo un impatto contingente, frenando o accelerando alcuni spostamenti, ma il vero problema di lungo termine sta diventando la competizione tra i vari Paesi per la forza lavoro. Una gara che l’Occidente rischia di perdere, scivolando indietro nella scala della ricchezza globale.
Per inquadrare il fenomeno partiamo dai dati dell’International Organization for Migration (Iom), l’agenzia partner dell’Onu specializzata nello studio e nella gestione degli spostamenti delle popolazioni. Al momento nel mondo ci sono oltre 241 milioni di immigrati internazionali: nel 2005 erano 191 e nel 2050 saranno 405 milioni, tanto per capire qual è la tendenza generale. A questo numero bisogna aggiungere oltre 700 milioni di persone che si sono trasferite all’interno dei confini del proprio Paese, portando ad oltre un miliardo il totale degli immigrati internazionali e nazionali.
Dove sta andando questa enorme massa di esseri umani? In passato la strada sembrava obbligata: dal Sud verso il Nord del mondo, comunque volessimo poi definire queste regioni sul piano geografico. Quindi Stati Uniti ed Europa sembravano le destinazioni predilette. Ora sono in corso delle trasformazioni storiche, in parte contingenti e in parte di lungo termine.
Sul piano contingente la crisi economica ha frenato i flussi, perché ci sono meno posti di lavoro da andare a prendere. Negli Stati Uniti, ad esempio, la disoccupazione tra i cittadini americani è al 9%, mentre quella tra i messicani è all’11,4%: ovvio che molti ispanici tornino a casa o non partano proprio. Anche il numero delle domande per la carta verde attraverso la lotteria è precipitato, dai 15 milioni dell’anno scorso agli 8 di quest’anno, ma questo fenomeno dovrebbe dipendere dal fatto che nel 2011 il Dipartimento di Stato ha vietato le richieste provenienti dal Bangladesh, che nel 2010 erano state 7,6 milioni. L’immigrazione legale negli Usa ha subito una leggera flessione, da un milione e 107 mila nel 2008 a un milione e 42 mila quest’anno. La crisi, però, ha avuto effetti simili anche in Europa e nei Paesi asiatici che importano forza lavoro, come Singapore, Malaysia e Thailandia, e si spera sia transitoria.
Un fenomeno di lungo termine, invece, rischia di essere quello legato ai cambiamenti climatici, come ha scritto sulla rivista Science lo studioso dell’Earth Institute della Columbia University Alex de Sherbinin. L’Onu ha calcolato che nel 2008 20 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni a causa dei disastri naturali, e prevede che il numero potrebbe salire a 200 milioni entro il 2050.
Il vero cambiamento epocale di lungo termine, però, riguarda i rapporti di forza tra i vari continenti, e quindi l’aumento dell’immigrazione dal Sud al Sud. Nel suo rapporto mondiale l’Iom nota che i Paesi del Golfo Persico stanno diventando un magnete per i lavoratori del Medio Oriente, così come Thailandia, Malaysia e Singapore per quelli dell’Estremo Oriente. Il Messico, da sempre visto come una fonte di emigrazione legale e illegale verso gli Usa, sta diventando una destinazione per i latino-americani. Stesso discorso per il Sudafrica nell’area subsahariana. In sostanza, a mano a mano che i Paesi emergenti crescono, i lavoratori delle regioni povere più vicine li scelgono come destinazione preferita, per ovvi motivi di comodità. Ma la cosa più interessante è che il fenomeno potrebbe riguardare presto anche la Cina, se è vero che la sua popolazione in età di lavoro diminuirà di 264 milioni tra il 2015 e il 2060. Se questa tendenza verrà confermata, anche il Paese più popolato al mondo diventerà un importatore di manodopera straniera. Dal 2000 al 2010 l’Asia è stata la prima «esportatrice di persone», con 65 milioni di partenze contro 30 milioni di arrivi: se anche Pechino comincerà ad attirare immigrati dall’esterno, i saldi potrebbero invertirsi.
Perché tutto questo ci interessa da vicino? Perché le tendenze che abbiamo descritto minacciano di scatenare una competizione per la forza lavoro, di cui l’Occidente potrebbe pagare le spese. È vero che in tutta l’Europa, non solo in Italia, la gente si lamenta degli immigrati che vengono a «rubare il posto». Ma questa è una percezione sbagliata, anche sul piano numerico: la realtà è che tra breve rischiamo di doverli pregare, per venire. Secondo l’Onu, a causa del calo della fertilità, la forza lavoro nei Paesi sviluppati resterà ferma a 600 milioni di persone fino al 2050. Quella nelle regioni in via di sviluppo, invece, aumenterà dai 2,4 miliardi del 2005 ai 3,6 miliardi del 2040. L’Occidente avrà un disperato bisogno di attirare queste persone, per conservare i propri livelli di produttività e ricchezza: basti pensare che oggi in Europa ogni pensionato è sostenuto da quattro lavoratori, mentre nel 2060 il rapporto sarà di due a uno. Il problema è che gli immigrati di cui avremo bisogno saranno sempre più lontani, e forse non avranno più tanta voglia di venire da noi.

La Stampa 15.11.11
«Gli immigrati non sono un peso ma una risorsa fondamentale»
«In futuro ci contenderemo gli stranieri, non solo i cervelli ma anche gli operai”
«Gli italiani credono che gli extracomunitari siano il 25%, ma sono solo il 7%»
di P. Mas.


Jean-Philippe Chauzy esperto di migrazioni è il direttore per la comunicazione dell’International Organization for Migration, che pubblica un rapporto sui pregiudizi verso l’immigrazione

Gli immigrati sono una risorsa fondamentale per l’economia globale, ma invece di ragionare su come attirarli e integrarli, stiamo a combattere ogni giorno con dei miti negativi che hanno radice solo nel pregiudizio. Intanto il mondo cambia, e molti Paesi rischiano di perdere per sempre il treno della ricchezza». Jean-Philippe Chauzy è il direttore della comunicazione per l’International Organization for Migration, l’agenzia di Ginevra che da 60 anni studia i flussi migratori, e ha preparato il nuovo «World Report» che verrà pubblicato alla fine del mese.
Quali sono i miti di cui parla?
«La maggior parte degli immigrati arriva attraversando i confini internazionali: falso, il grosso delle migrazioni è interno. Il flusso va dai Paesi in via di sviluppo verso quelli sviluppati: falso, l’80% degli spostamenti nel Sud del mondo avviene tra Stati confinanti. Il numero degli immigrati internazionali è fuori controllo: falso, aumenta in maniera progressiva, ma è sempre rimasto intorno al 3% della popolazione mondiale complessiva. L’immigrazione rappresenta un peso per le economie dei Paesi di destinazione: falso, negli Stati Uniti i cittadini nati in America guadagnano 37 miliardi di dollari all’anno grazie alla ricchezza prodotta dai lavoratori stranieri, in base ai dati del Council of Economic Advisers della Casa Bianca. L’immigrazione prosciuga le risorse dei Paesi d’origine: falso, nel 2010 le rimesse verso i Paesi in via di sviluppo sono arrivate a quota 325 miliardi di dollari, cioè il doppio di tutti gli aiuti internazionali, e spesso fanno la differenza se una famiglia riesce a mettere il cibo sulla tavola o no. Secondo uno studio fatto in Italia, la gente crede che gli immigrati siano il 25% della popolazione, mentre arrivano solo al 7%. Lo stesso rilevamento ha dato risultati ancora più preoccupanti negli Usa: 40% di presenza percepita, contro il 14% di presenza reale. Vado avanti? ».
Passiamo a quello che sta accadendo ora. Che impatto ha avuto la crisi economica sulle migrazioni mondiali?
«Meno di quanto ci si potesse aspettare. E’ vero che le rimesse sono un po’ scese, ma stanno già risalendo. La flessione nel numero degli immigrati poi è stata molto ridotta, anche perché la maggior parte di loro non ha le risorse per tornare nel Paese d’origine. La verità è che la forza lavoro serve ovunque, e non è prevedibile una riduzione a breve dei flussi».
Coma sta cambiando, nel lungo termine, l’immigrazione?
«Due elementi soprattutto: l’aumento degli spostamenti delle donne come capo famiglia, e i flussi Sud-Sud. Faccio degli esempi pratici: il Messico ormai viene visto come una destinazione, al posto degli Stati Uniti, per chi viene da Venezuela, Colombia, Bolivia, Guatemala e vari altri Paesi centramericani. Nel Sud-Est asiatico, chi lascia Vietnam, Cambogia, Laos, Birmania, va soprattutto in Thailandia. Le migrazioni dell’Africa subsahariana hanno ormai da tempo il Sudafrica come obiettivo principale. Anche nell’Africa occidentale molti lavoratori poveri preferiscono andare dal Burkina Faso al Ghana, piuttosto che lanciarsi in pericolose avventure fuori dal loro continente. Più crescono i Paesi in via di sviluppo, più diventano la meta preferita per i vicini».
Quanto influiscono i cambiamenti climatici?
«Sempre di più. Le migrazioni stagionali non sono una novità, ma ora sono spesso determinate dagli effetti dei cambiamenti climatici e diventano permanenti. Nel caso dei piccoli Stati insulari, poi, si corre il rischio che spariscano dalla faccia della Terra».
Se questo è il quadro, nel futuro dobbiamo aspettarci una competizione serrata tra i diversi Paesi per attirare la forza lavoro?
«Sì, soprattutto nel senso che cambieranno i settori ai quali dovremo applicare questo concetto. La competizione per i lavoratori altamente qualificati, gli scienziati, i cervelli, c’è sempre stata, almeno nel mondo occidentale. Ora però si allargherà ai lavoratori di livello più basso, come il personale che baderà all’anziana popolazione europea, mentre la corsa ai cervelli si estenderà ai Paesi emergenti, che cercheranno di portarli via agli altri».

il Fatto 15.11.11
Stazione di Auschwitz, ultima fermata
Soppresso il treno della memoria che ogni anno portava gli studenti nel campo di sterminio nazista
di Paolo Nori


Cinque anni fa, nel 2006, mi ha chiamato Silvia Manto-vani della fondazione Fossoli; Fossoli è una località vicino a Carpi dove c'era il campo di concentramento dal quale, nella Seconda guerra mondiale, partivano i deportati per i campi di sterminio del nord Europa.
Silvia mi ha detto che la fondazione Fossoli organizzava, da qualche anno, un viaggio per 600 studenti delle scuole superiori della provincia di Modena, e che questi studenti erano accompagnati da storici, musicisti, registi, scrittori e testimoni; un viaggio in treno da Carpi ad Auschwitz; lo stesso viaggio fatto, settant'anni fa, da Primo Levi e da tanti altri insieme a lui.
SILVIA mi ha chiesto, cinque anni fa, se volevo andare anch'io, si partiva il 25 gennaio in modo da essere sui campi il giorno della memoria, il 27.
Io mi ricordo di averle detto che a me, il giorno della memoria, era una cosa che mi ricordava un po' le notti bianche. Le notti bianche, per come le capisco io, son delle notti che dall'alto, il sindaco, per dire, ti ordina di uscire e di star fuori tutta la notte; il giorno della memoria è un giorno che dall'alto, il Parlamento, per dire, ti ordina di ricordare e ti dicono anche che cosa, devi ricordare. “Ecco – ho detto a Silvia cinque anni fa, – a me, per come son fatto, viene da uscire un altro giorno, e da ricordare un'altra cosa, in quei giorni lì”. E mi aspettavo che Silvia mi dicesse “Ho capito, grazie, scusa se ti ho disturbato”, e mettesse giù. Invece mi ha detto: “Ma sai che un po' anch'io la penso così? Perché non vieni a dirle sul treno, queste cose qui? ”. E allora, non so, sono andato.
E quando son stato poi lì, ci son stati dei momenti che mi è venuto da voltare le spalle, come quando la nostra guida polacca ci ha indicato una specie di baldacchino di legno e ci ha detto che l’ex direttore nazista del campo, Rudolf Franz Höss, dopo essere stato arrestato in Germania, dove si era nascosto, era stato trasferito in Polonia e lì processato e condannato all’impiccagione e la sentenza era stata eseguita ad Auschwitz ed era stata costruita appositamente una forca “che è quella lì”, ci aveva detto la nostra guida indicando il baldacchino, e a me era venuto da voltare le spalle, e poi c'eran stati degli altri momenti uguali e contrari, quando ad esempio, durante la cerimonia ufficiale, i primi che si sono avvicinati al monumento che c’è alla fine del viale di Birkenau, per deporre le loro corone di fiori, era un gruppetto di dieci-dodici ex deportati, dei vecchietti, e delle vecchiette, con i fazzoletti biancoazzurri al collo, e uno camminava con le stampelle, e facevan fatica, e uno ha fatto cadere il lumino che aveva, e a me è venuto da pensare che bisognava far delle fotografie a quelle facce lì e metterle in tutte le case e negli uffici pubblici. E quando poi, tra tutte le altre delegazioni ufficiali degli Stati che si son succedute, rappresentanti dei paesi che hanno avuto delle vittime ad Auschwitz, armeni, croati, ungheresi, francesi, slovacchi, maltesi, cechi, serbi, svedesi, tedeschi, sloveni e altri ancora (l’Italia non era rappresentata), si sono avvicinati due signori, rappresentanti del popolo rom, che avevan due cappelli a tesa larga, come si dice, un po’ da cow boy, e uno dei due aveva il pizzetto e il codino, e un’aria un po’ da puttaniere, e uno si immaginava una Mercedes un po’ impolverata che l’aspettava fuori, e vedere la proprietà con la quale quei due stavan lì dentro, era una cosa e che riempiva gli occhi, e non ti stancavi mai di guardarli.
E NON ti stancava quel viaggio stranissimo in treno, l'andata, quando in testa ti girava la consapevolezza, ottusa e stupefacente, che era lo stesso viaggio che avevan fatto loro, 70 anni prima, ed era così diverso, è così un'altra cosa, e il ritorno, quando ti saltava fuori la voglia di raccontare quello che avevi visto, che ti sembrava di aver visto chissà che cosa, e avevi visto una forca, e dieci signori con un fazzoletto al collo, e una delegazione di zingari con due cappelli a larga tesa, e tutti quelli che eran sul treno avevan la stessa voglia di raccontare quello che avevan visto loro, che a loro sembra stranissimo, e avevate tutto il tempo che volevate per raccontarvi le cose.
Ecco. Quest'anno, quel viaggio in treno, non ci sarà. Perché Trenitalia ha rifiutato di dare i treni. Non si capisce bene il motivo: nella lettera ufficiale, del 15 luglio 2011, si dice che a Trenitalia mancano i mezzi; non intesi come soldi (la fondazione Fossoli i treni li ha sempre pagati, più di centomila euro) ; Trenitalia non ha più i mezzi intesi come treni. Ultim’ora: a seguito di un’interrogazione parlamentare e dopo febbrili consultazioni, la stessa Trenitalia ha acconsentito a dare un treno, ma fino a Tarvisio. Da lì si proseguirà con convogli tedeschi.

l’Unità 15.11.11
Norvegia Il massacratore di Oslo e Utoya per la prima volta in un’udienza a porte aperte
Lo «show» Di fronte a 500 persone si è detto colpevole, ma non pentito. Il processo ad aprile
Breivik, il mostro perfetto «Sì, sono il capo dei Templari»
Il suo programma «Il multiculturalismo? È un’ideologia dell’odio I delitti? Necessari...»
Dice di essere il comandante in campo della resistenza. Dice di essere il capo dei templari. Per la prima volta appare in pubblico l’uomo che ha massacrato 77 persone il 22 luglio scorso. E per la Norvegia è uno choc.
di Roberto Arduini


Una camicia bianca e la cravatta blu. Sicuro di sé. Si è alzato, ha guardato il giudice, passandosi una mano nel capelli. «Sono comandante militare nel movimento di resistenza norvegese e dei cavalieri templari», ha detto semplicemente. Anders Behring Breivik, l’uomo che il 22 luglio scorso ha massacrato 77 persone in un duplice attentato, a Oslo e a Utoya. Con voce calma ha sconfessato la corte che lo sta giudicando: «Voi avete ricevuto il mandato da parte di coloro che sostengono il multiculturalismo. Questa è un’ideologia dell’odio, che vuole lo smantellamento della società norvegese». Breivik ha poi guardato verso le oltre 500 persone presenti all’udienza, tra i quali parenti e genitori delle vittime, ma è stato interrotto dal giudice prima di poter dire qualcosa. La corte ha stabilito che Breivik dovrà restare in prigione altre 12 settimane, ma molto probabilmente vi rimarrà fino all’inizio del processo, che dovrebbe cominciare nell’aprile del 2012. Probabilmente, anche questa scena era stata organizzata.
Gli investigatori hanno ricostruito le azioni di Breivik: il 22 luglio ha fatto esplodere una bomba al fertilizzante al di fuori della sede del governo, uccidendo otto persone, prima di dirigersi verso un rifugio sull’isola di Utoya, dove erano riunite le sezioni giovanili del Partito laburista del governo norvegese per il campo estivo annuale. Travestito da agente di polizia, ha aperto il fuoco su decine di giovani in preda al panico, sparando su alcuni di loro mentre fuggivano nel lago. Sessantanove persone sono state uccise a Utoya prima che Breivik si arrendesse a una squadra speciale della polizia. La carneficina ha scosso l’intero Paese e continua a perseguitare un popolo che si sente normalmente tollerante. Breivik ha confessato gli attacchi, dicendo che gli omicidi sono stati «crudeli, ma necessari», non si è però dichiarato colpevole delle accuse di terrorismo, sostenendo di essere in uno stato di guerra per proteggere l’Europa dall’immigrazione musulmana.
Bisogna partire da lontano per raccontare di Utoya, in Norvegia. Breivik ha passato nove anni a pianificarla, da solo, frequentando pochissime persone. Breivik non era un agricoltore di professione, ma aveva acquistato una fattoria nel cuore della regione agricola di Hedmark, a 150 chilometri dalla capitale. Ad aprile aveva lasciato l’appartamento di Oslo e si era ritirato nella sua fattoria di Asta, dove si era dedicato a tempo pieno alla preparazione dei massacri di Utoya e Oslo. Approfittando della licenza di agricoltore, aveva così acquistato le sei tonnellate di nitrato d’ammonio, il fertilizzante usato per preparare le bombe.
SOLITUDINE IN RETE
È in quei luoghi isolati, forse proprio nel silenzio dei campi, che il 32enne ha alimentato il suo ego e coltivato le sue teorie. Solo un ex compagno di scuola, e in parte i suoi genitori sono stati in grado di raccontare qualcosa sul suo conto. Il padre non lo vedeva da 15 anni. La solitudine fisica di Breivik si contrapponeva a un’intensa attività in internet: sui forum la polizia norvegese ha trovato migliaia di suoi contatti e interventi. Il 32enne norvegese ha pubblicato in rete anche una sorta di Manifesto, intitolato «2083: una dichiarazione d’indipendenza per l’Europa». Il documento folle e al contempo lucidissimo, in cui ha spiegato la sua visione del mondo: un progetto per una rivoluzione a più fasi, puntando contro le élite politiche di sinistra accusate di distruggere la società, ammettendo un gran numero di immigrati, soprattutto provenienti dai paesi musulmani.
Ma questa è la superficie. Andando a fondo si trovano molte contraddizioni, un miscuglio di idee che traggono spunto dalla destra, dal capitalismo e dai suoi movimenti contrari, dalla stessa società scandinava con le sue norme a tutela delle donne. Se si passa al setaccio, si trova il vuoto. Perché l’uomo è nudo. «Perry Smith. Mio Dio. Ha avuto una vita così spaventosa...», avrebbe detto Truman Capote in A sangue freddo...

il Fatto 15.11.11
Breivik in tribunale
Lo show censurato del killer norvegese


I suoi modelli, ma non c’era da dubitarne, sono i gerarchi nazisti a Norimberga o i criminali di guerra alla sbarra della Corte dell’Aia: alla prima udienza pubblica, affollata da almeno 500 persone, giornalisti, ma anche familiari delle vittime, Anders Behring Breivik, l’autore reo confesso delle stragi di Oslo del 22 luglio, 77 vittime, s’è presentato in aula in abito scuro, camicia bianca e cravatta blu, barba curata e colpi di sole fra i capelli, e ha tentato di leggere una sua dichiarazione. Il giudice Torkjel Nesheim lo ha bloccato: il tribunale non doveva diventare una tribuna da cui l’estremista di destra potesse diffondere le proprie idee. Al termine dell’udienza, durata 45 minuti, la custodia cautelare dell’assassino è stata prorogata per altre 12 settimane. Per la Corte non c’è, al momento, motivo di ritenere che Breivik, 32 anni, sia malato di mente, né che sia stato aiutato da complici nelle sue imprese omicide.
S’era pensato a un’udienza in video-conferenza con il carcere di massima sicurezza di Ila, vicino a Oslo, dove Breivik è rinchiuso, ma poi il killer è stato portato in aula ammanettato ai polsi e alle caviglie, tra misure di sicurezza rinforzate. L’estremista, versione nordica dei suprenazisti bianchi dell’America razzista, è parso, ai presenti, “freddo”, “distaccato”, “patetico” o addirittura “professionale” – come se esistesse la professione di fondamentalista, o di assassino. Le visite e la posta di Breivik resteranno soggette a controlli per altre 8 settimane, l’accesso ai media gli sarà ancora vietato per le prossime 4. Sebbene non sia più soggetto da circa un mese all’isolamento totale, l’omicida vive segregato perché è l’unico detenuto in regime di massima sicurezza.
IN AULA, BREIVIK ha affermatodinonriconoscerel’autorità del tribunale in quanto espressione di quella società multiculturale cui lui si oppone. Il giudice lo ha interrotto ogni volta che tentava di auto-definirsi “comandante militare del movimento di resistenza anticomunista norvegese e capo dei cavalieri templari”, il titolo usato nel memoriale-manifesto di 1.500 pagine reso noto dopo le stragi. “Volevo mantenere l’attenzione sulle questioni al centro dell’udienza – ha spiegato Nesheim ai giornalisti: si doveva semplicemente decidere la sua permanenza in carcere fino al processo vero e proprio”, il cui inizio è previsto per il 12 aprile. In vista del processo, l’edificio del tribunale distrettuale di Oslo sarà ristrutturato, perché l’aula possa accogliere tutto il pubblico atteso.
Breivik compì le stragi nel centro di Oslo con un’autobomba 8 vittime e poi sull’isola di Utoya, a un rally di giovani laburisti 69 vittime. Uno dei superstiti dell’isola, Hermann Holmoy Heggertveit, 18 anni, ha detto al quotidiano Dagbladet: “Dopo il 22 luglio, pensavo a lui come a un demonio, un uomo forte… Ma dopo averlo visto ora, mi sono reso conto quanto sia piccolo e patetico”. (G. G.)

Repubblica 15.11.11
La Cei loda le sue parole-chiave "Sì a responsabilità e servizio"

ROMA Positivo l´esordio di Mario Monti per il Sir, l´agenzia di stampa che fa capo alla Conferenza episcopale italiana. «Due parole spiccano nel breve discorso tenuto dopo aver accettato l´incarico: sono "servizio" e "responsabilità"» commenta una nota del Sir. Una terza espressione considerata importante nel lessico del neosenatore è «bene comune». E anche don Sante Torretta, parroco di San Pietro in Sala a Milano (dove Monti va a messa) dice: «Da qualche mese inserisco nella preghiera dei fedeli un pensiero per chi governa l´Italia e adesso il ricordo per lui sarà quotidiano da parte mia e di tutta la comunità».

l’Unità 15.11.11
Se il vento della crisi arriva al vertice della Chiesa cattolica
Nel libro del vaticanista Marco Politi su Joseph Ratzinger un’analisi severa su qualità e limiti dell’attuale Pontefice
di Lorenzo Scheggi Merlini


Un Papa che suscita «tenerezza». Da ammirare per la tenacia con cui affronta le fatiche del pesante ministero petrino; decisamente morigerato nei costumi e quasi ascetico nello stile di vita; uno studioso appassionato; un intellettuale che raggiunge mirabili vette di pensiero e che, come tale, fa breccia negli ambienti intellettuali soprattutto europei. Un ottantaquattrenne coerente che ha già fatto sapere, in caso di impedimento per motivi di salute fisica o mentale, che non esiterà a dimettersi.
Ma anche intransigente nel riaffermare il corpus tradizionale della dottrina cattolica, incurante (o impermeabile) dei segnali che vengono dall’interno dalla Chiesa stessa in materia di morale sessuale, bioetica, sacerdozio femminile, celibato, e che gridano ormai come sia tempo di aprire una discussione senza pregiudizi su tutti questi fronti. E ancora: un uomo che pur essendo stato un protagonista da posizioni innovatrici del Concilio, si colloca ora alla testa di tutti coloro che caparbiamente negano la portata rivoluzionaria che ebbe.
Un Papa eurocentrico, terrorizzato dagli «ismi» che vive come una minaccia mortale per la Chiesa e mai come una occasione. E per questo fu in fondo eletto. Un Papa, ed è il motivo ricorrente di ogni capitolo, incapace e forse anche disinteressato al governo concreto di una comunità mondiale di un miliardo e duecento milioni di fedeli sparsi in tutto il mondo, che per di più si è circondato di collaboratori non all’altezza del compito e non lo aiutano nemmeno ad evitare errori diplomatici.
L’ultima fatica di Marco Politi forse il più acuto, informato e colto fra i vaticanisti italiani giunta da pochi giorni in libreria (Joseph Ratzinger Crisi di un papato, Edizioni Laterza, pagine 328 , euro 18) è un libro che merita tutta l’attenzione richiesta dalla sua complessa, anche se scorrevolissima e appassionante, lettura.
Si presenta con un titolo netto ma non gridato, parla di un papato in «crisi». Ma a ben vedere, nel ripercorrere gli episodi più salienti del settennio ratzingheriano, tutti documentati in maniera certosina, con una messe di materiali davvero imponente, degna di uno storico più che di un giornalista, viene fuori un affresco impietoso che fa spesso pensare ad un vero e proprio fallimento. Sfilano capitolo dopo capitolo la crisi col mondo islamico, quella, ricorrente, con gli ebrei, la revoca della scomunica comminata agli ultraconservatori negazionisti anticonciliari di Marcel Lefebvre, nomine inopportune di vescovi indegni e, il cancro della pedofilia, tollerato, occultato per tanti, troppi anni.
Politi dà atto ovviamente a Benedetto XVI delle ultime, durissime posizioni e dei provvedimenti conseguentemente adottati contro la pedofilia e i preti pedofili ma, constata suffragando l’affermazione con moltissimi documenti, con colpevole ritardo. Ecco, questi aspetti negativi hanno ormai caratterizzato il papato e prevalgono, sostiene il vaticanista, su quelli, pure importanti, positivi.
Una tesi certamente opinabile che ovviamente non è da tutti condivisa. Da parte soprattutto di chi pensa che debba prevalere, nel giudizio, il ruolo di denuncia del Papa contro il capitalismo finanziario impazzito, contro il liberismo che produce miseria e povertà, contro la deriva di un mondo che sembra avere smarrito i valori forti e che si muove senza bussola. Ma certamente le argomentazioni e i fatti sciorinati da Politi, sono macigni che non possono assolutamente essere elusi.

il Fatto 15.11.11
Noi e loro
Perché il Papa andrà a Cuba
di Maurizio Chierici


L’annuncio è una sorpresa che nel tumulto della festa italiana anche l’Avvenire (il giornale dei vescovi) per il momento trascura. In primavera papa Ratzinger va all’Avana. Incontrerà Raul, fratello presidente. Incontrerà Fidel, grande malato, incontrerà l’ingegner Payà e altri cattolici ai quali è concessa la libertà di un’opposizione propositiva. Possono parlare anche se le parole si sciolgono nel vento. Benedetto XVI celebrerà messe solenni nelle piazze di ogni città, trasmesse in diretta tv come per Giovanni Paolo II. Dodici anni fa il viaggio di Wojtyla cambia i rapporti tra la costituzione avvolta nell’ateismo di Stato ispirato da una Mosca sepolta nei brutti ricordi, e la Chiesa non proprio clandestina ma rinchiusa nella definizione di “istituzione privata”, ai margini di ogni interesse pubblico. Fino al 1998 giornali e televisioni non potevano parlarne. Il peregrinare di Woytyla suscita l’illusione di un’apertura che subito impallidisce: concessioni marginali, niente di più anche se la commozione di Fidel accompagna il pontefice alla scaletta dell’aereo per Roma. Piove e il leader maximo sussurra: “Cuba piange perché il Papa se ne va”. Quattordici anni dopo l’Avana e il Vaticano sono alle prese con realtà più complicate dei dogmi armati l’uno contro l’altro. Cuba resta il lampadario fioco di una rivoluzione delusa non solo politicamente: povertà, isolamento insopportabile, illusioni che invecchiano mentre i latini dell’America accanto marciano col passo di democrazie realizzate. Anche i protagonisti esercitano ruoli diversi: il cardinale Ortega (internato negli anni del dominio sovietico nei campi di lavoro forzato) è il mediatore scelto da Raul Castro nel dialogo difficile con oppositori nutriti dalle lobby di chi a Miami insegue da mezzo secolo la distruzione “del regime comunista” in sintonia con le politiche delle famiglie Bush. Soffiano su rabbie e frustrazioni, scioperi della fame di politici (non sempre e solo politici) oscurati in prigioni impossibili. Soffiano su madri e mogli che hanno copiato frettolosamente il velo bianco delle madri dell’Argentina della dittatura, 30 mila desaparecidos. Ortega ha l’incarico di sanare gli errori con lentissime sfumature consuete alle abitudini cubane. Di trattare scarcerazioni, di provare dialoghi. E attraverso la Chiesa il regime si apre a una normalità che dovrebbe acquietare inquietudini ormai complicate da contenere. Il Papa che arriva non deve rimettere il cardinale agli occhi del mondo, come è successo a Giovanni Paolo II. Entrato nell’ufficialità, Ortega è punto di incontro di due concezioni di vita così lontane e per necessità ormai vicine. Sarà curioso capire come Miami e Washington interpreteranno i risultati del viaggio papale. Ma Benedetto va all’Avana forse col proposito di rilanciare l’immagine di una Chiesa umiliata dagli scandali e preoccupata per l’invasione delle sette protestanti “fai da te”, ormai significative anche nell’isola. “Missionari” colombiani, messicani hanno goduto del permissivismo di una politica che apriva ponti con realtà esterne segmentate per non rimpicciolire l’autorità dello Stato. Perfino la massoneria ha privilegi insospettabili: permesso di un ospedale privato per fratelli anziani. Il viaggio di papa Ratzinger può avere anche lo scopo di rimettere ordine nella priorità dei rapporti con i portatori di pace. Non solo: sia pure meno importante del passato, Cuba resta un megafono che apre le orecchie al continente cattolico più popoloso del mondo, ma in crisi per perdita di fedeli e vocazioni. Da protagonista, la Chiesa allunga la mano al regime appeso alla rielezione di Obama. E il governo sembra felice. Vedremo perché.

Repubblica 15.11.11
"Perché ai credenti servono gli esempi e non più i dogmi"
La saggista, che studia i temi religiosi, interviene sul cambiamento dei punti di riferimento nella fede
"È difficile parlare di accoglienza e di povertà vivendo nel chiuso dei palazzi"
"Molti cattolici oggi rivendicano la libertà di interpretare le Sacre Scritture"
di Franco Marcoaldi


Senza tema di sbagliare, Uomini e Profeti di Radio Tre, che Gabriella Caramore conduce con appassionata competenza da ben diciotto anni, è un vero e proprio programma di culto. Tra i molti meriti di questa trasmissione c´è anche quello di offrire una sorta di radiografia ravvicinata e costante della spiritualità e della religione, sia in Italia che nel mondo. Perciò è quanto mai opportuno l´incontro con chi, come Caramore, affronta quotidianamente il problema dell´autorità di Dio, delle Sacre Scritture, della Chiesa. E da qui potremmo partire. Cercando di delineare una prima mappatura generale sulle diverse modalità di accostarsi alla figura dell´autorità in ambito religioso.
«Focalizzando l´attenzione sull´Occidente, ci troviamo di fronte a un quadro molto articolato, se non addirittura frantumato. Viviamo in società sempre più secolarizzate, ma che conoscono il costante innesto di nuove comunità religiose. Così, da un lato siamo in presenza di quei tradizionalisti cristiani, o islamici o di altre appartenenze, i quali continuano a riconoscersi nelle autorità che da sempre contrassegnano il loro mondo e la loro fede: si tratta di realtà magari molto estese, ma comunque residuali. Dall´altro monta invece, sempre più forte, una domanda di libertà, di ricerca spirituale individuale, che spesso e volentieri stenta a trovare figure autorevoli capaci di indicare il percorso lungo cui muoversi. Questa divaricazione si moltiplica in un mondo sempre più composito e quindi si moltiplica anche una sensazione di smarrimento».
In Italia, però, c´è la Chiesa cattolica. Con tutto il suo immenso peso.
«Fatte salve le diverse sensibilità presenti all´interno della gerarchia ecclesiastica, il volto autoritario con cui la Chiesa si mostra è ancora forte. Ma anche all´interno del mondo cattolico si avverte una nuova esigenza di libertà. È una realtà sotterranea, ancora priva di voce e di rappresentanza pubblica. Però esiste. C´è tutto un pullulare di pensieri e iniziative che non riconoscono più l´autorità ecclesiastica come un´autorità indiscussa. E la cercano altrove, nello studio della Bibbia, nel tentativo di vivere una vita maggiormente improntata al Vangelo. D´altronde: come puoi definirti cristiano, se non ti abbeveri alla fonte prima della cristianità?».
La Chiesa dovrebbe venire soltanto dopo.
«Dovrebbe. Ma storicamente è accaduto, per passaggi che non stiamo qui a ricostruire, che la parola della Chiesa ha finito per sovrapporsi a quella del Vangelo. Per custodire se stessa e la sua storia, la Chiesa si è in parte sostituita all´autorità del Vangelo».
Se l´autorità vive anche di distanza e mistero, non v´è dubbio che la Chiesa parta avvantaggiata.
«A meno che la distanza e il mistero non diventino eccessivi. Se ci si distacca troppo dalla vita comune e si utilizza un linguaggio troppo lontano da quello della gente, si finisce per perdere credibilità. È difficile parlare di accoglienza, vivendo nel chiuso dei palazzi. Difficile parlare di povertà, se poi non la si vive. Detto questo, so bene che il credente non ha sempre la maturità necessaria ad accostarsi in prima persona, autonomamente, alle Sacre Scritture. Talvolta è una persona semplice, che ha bisogno di strumenti semplici. E qui torna d´attualità la temibile lezione del Grande Inquisitore di Dostoevskij, che contrapponendosi al Cristo che aveva offerto al popolo una libertà impossibile da raggiungere, decide al contrario di colmargli il ventre, facendolo passare "all´allegria e al riso, alla gioia spensierata e alle allegre canzoncine infantili. E così – dice noi li renderemo felici"».
È la linea d´ombra rappresentata dall´abisso della libertà.
«Però non si può abusare troppo dell´innocenza del credente "bambino". Come si fa a tenere alto il livello teologico del discorso e poi lasciar correre sui miracoli di Padre Pio? Senza mai raffreddare, senza mai contenere un miracolismo dilagante? Cosa dice il Santo Inquisitore? Io sì che so sedurre il popolo e attrarlo a me. Lo faccio attraverso il miracolo, il mistero e, per l´appunto l´autorità. Ora, la Chiesa, forse, dovrebbe essere più accorta e coerente con le parole che vuole conservare e tramandare. Altrimenti, continuerà magari a sedurre le masse e a intrattenere rapporti con la politica, ma perderà in autorevolezza presso i credenti "adulti"».
Veniamo alla parola di Gesù.
«Di lui si dice spesso nei Vangeli: parlava con autorità, agiva con autorità, leggeva le Sacre Scritture con autorità. Non come gli scribi. Con autorità, io credo, in questo caso vuol dire "con coerenza", "in verità", perché gesti, parole, cuore e intenzione, in Gesù procedono insieme. Quale lezione dobbiamo trarne? Che l´autorità – l´autorevolezza – viene riconosciuta come tale, se propone parole e azioni fondate sulla convinzione, la coerenza, la verità e il rischio».
Quanto invece all´autorità che emanano i testi, le Sacre Scritture?
«Ama la Torah più di Dio, diceva Lévinas, a rimarcare l´assoluta centralità del Testo. Ma proprio gli ebrei ci hanno insegnato che anche di fronte alla parola della Legge si può e si deve esercitare la propria intelligenza, attraverso l´interpretazione di ogni singola pagina, di ogni singolo versetto, di ogni singola lettera. Il credente ebreo è – o dovrebbe essere libero nell´interpretazione, così come lo sarà poi il cristiano che risponde all´invito dell´apostolo Paolo: "siete stati chiamati a libertà". Quanto a Lutero, rifonderà la libertà cristiana nel momento in cui la Chiesa sembra essersene dimenticata. Molti gruppi di cattolici, oggi, è questo che rivendicano. La possibilità di leggere e interpretare liberamente le Sacre Scritture. È importantissima la tradizione, ma se la si tramuta in norma, in dogma, la si snatura. Perché la tradizione è calata nel tempo e dunque soggetta a un´ermeneutica infinita. Spesso, ascoltando la musica, mi vien da pensare che in fondo i musicisti procedono allo stesso modo. Interpretano un testo, certo rispettandolo e conoscendolo con minuzia filologica. Ma lo interpretano. Dopodiché, se sei troppo ligio, verrà fuori una cosa piatta, fredda. Se sei eccessivamente arbitrario, verrà fuori una cosa strampalata. Bisogna metterci cuore, cervello e abilità tecnica, per raggiungere il perfetto equilibrio tra rispetto del testo e interpretazione soggettiva. Ecco, lo stesso accade, credo, leggendo la Bibbia».
Resta che quel testo è il fondamento della verità e ad esso si deve obbedienza.
«Anche qui, con il necessario discernimento critico. Gli esegeti contemporanei ci ricordano che la maggior parte delle affermazioni storiche contenute nella Bibbia non rispondono al vero. Ma è vera quell´intenzione, è vera l´istanza di liberazione dell´uomo che il Libro ci propone attraverso l´idea di Bene e di Dio. Naturalmente non è l´unica storia possibile, ma noi ci riconosciamo in essa perché ne riconosciamo il linguaggio. In tal senso, è perfetta la definizione di Simone Weil: ogni religione è l´unica vera, come unico vero è quel paesaggio, quel quadro, il volto della persona amata».
Quanto invece all´obbedienza?
«Ob-audire vuol dire ascoltare. In un versetto fin troppo citato dei Salmi è scritto: "Dio una parola ha detto, io due ne ho udite". E in un altro passo del Deuteronomio si afferma: "oggi ho posto davanti a te il bene e il male, la vita e la morte. Tu scegli la vita". Ovvero: io ti dico cosa devi fare, a te scegliere di farlo. Dunque la tua libertà non è violata dall´obbedienza».
C´è un punto in cui credenti e non credenti possono trovare lo stesso fondamento di autorità?
«Esiste un passo di Dietrich Bonheffer che amo molto e che dice più o meno così: la tradizione cristiana mi ha insegnato a guardare il mondo dal basso. L´autorità politica, religiosa, morale di oggi si presenta come un guscio vuoto? Ebbene, io la cercherò nella tradizione e contemporaneamente nel volto dell´altro che soffre. Perché sia un testo autorevole del passato, sia gli occhi di un bambino che ha fame, mi trasmettono lo stesso messaggio: mi invitano ad agire e mi indicano come farlo. Il mio compito sarà quello di offrire una risposta all´altezza della domanda che mi viene rivolta».

E tre pagine di Repubblica sul viaggio di BXVI in Benin

il Fatto 15.11.11
Iran
Khatami: “Contro Israele? La democrazia”


Democrazia ed elezioni libere sono la garanzia migliore per tenere l’Iran unito, in un momento in cui è nel-l’occhio del ciclone per il suo programma nucleare. È la posizione di alcune voci riformiste, mentre in Occidente si continua ad evocare anche un possibile intervento militare. “Tenere elezioni libere è la strada migliore per rafforzare la sicurezza del Paese e avere un futuro migliore”, ha detto l’ex presidente riformista Mohammad Khatami, che sul sito Kaleme esprime preccupazione per “le minacce dall’esterno e i pericoli” che fronteggiano l’Iran. “Se un giorno i poteri stranieri volessero venire a interferire – dice Khatami – i riformisti e i non riformisti li affronteranno”. Il Paese sarà dunque unito di fronte a un minaccia esterna, assicura l’ex presidente, che chiede però anche la liberazione dei prigionieri politici, la fine degli arresti domiciliari cui sono sottoposti i leader riformisti Mehdi Karrubi e Mir Hossein Musavi, e un clima politico aperto.
Intanto, secondo il Time, ci sarebbe Israele dietro l’esplosione che in un deposito di munizioni dei pasdaran ha ucciso sabato scorso 17 soldati, tra i quali il generale Hassan Moaqaddam, uno dei protagonisti del programma missilistico del regime degli ayatollah. Riferendo le confidenze di una fonte anonima di un servizio di intelligence occidentale il Time collega l’esplosione ai tentativi israeliani di mettere fuori gioco le figure chiave della Difesa militare di Teheran. “Non credete agli iraniani”, ha spiegato la fonte, che ha aggiunto: “Israele ha ancora altre pallottole pronte in magazzino”. Moqaddam, a capo del programma di ricerca industriale per garantire l’autosufficienza militare ai Guardiani della Rivoluzione, corpo d’elite e semiautonomo anche in termini di finanziamento delle forze armate iraniane, si specializzò in realizzazione di pezzi di artiglieria durante la guerra con l’Iraq e poi diresse il programma balistico di Teheran.

Repubblica 15.11.11
Iran, la guerra del Mossad è già iniziata
Omicidi mirati e sabotaggi per fermare i test atomici. "Israele dietro l´attacco ai pasdaran"
Dal 2007 ad oggi uccisi scienziati e messi fuori uso i sistemi informatici dei siti nucleari
di Fabio Scuto


GERUSALEMME Sanzioni economiche, crediti internazionali bloccati ma anche sabotaggi, attentati, omicidi, mirati, virus informatici. Quando si dice che tutte le opzioni per fermare la proliferazione nucleare iraniana restano sul tavolo si parla di questo. Se un esercito di diplomatici è al lavoro per mettere la comunità internazionale unita di fronte alla minaccia atomica degli ayatollah – con la Russia e la Cina sempre contrarie a ogni misura di contenimento – un esercito "di ombre" è in attività per rallentare in ogni modo i progressi nell´arricchimento dell´uranio ormai chiaramente orientato verso l´uso militare e impedire che l´Iran si doti anche di missili balistici in grado "di trasportare" la bomba verso obiettivi lontani come Riad o Tel Aviv.
Ieri i Paesi europei si dicono pronti a rafforzare le loro sanzioni contro l´Iran – ieri una decisione di Bruxelles in merito è slittata al 1 dicembre ma restano però divisi sulla opportunità di un´azione militare. Se la Francia giudica un intervento militare «un danno irreparabile», la Gran Bretagna per mantenere forte la pressione internazionale sostiene che «tutte le opzioni sul tavolo», posizione condivisa anche dagli Stati Uniti. In Israele, dove la minaccia nucleare iraniana è particolarmente avvertita, la leadership è convinta che solo l´opzione militare possa fermare, o rallentare, quel programma nucleare. Siamo più vicini a un punto di non ritorno «di quanto la gente non pensi», l´ultimo monito attribuito al premier Benjamin Netanyahu. Per questo la "macchina della guerra" israeliana è pronta e i piani di un attacco aereo e missilistico vengono aggiornati ogni 36 ore.
Ma intanto l´intelligence, il "mondo delle ombre", non sta con le mani in mano. Ci sarebbe la mano del Mossad, il servizio segreto israeliano, dietro l´esplosione di sabato nella base missilistica iraniana che ha provocato 17 morti. Nell´impianto di Bigdaneh c´erano i missili Shahab, quelli su cui potrebbe essere montata una testata nucleare. Un attacco al "cuore del nemico" nel quale è stato ucciso fra gli altri il "padre" del sistema balistico iraniano, un colpo perfetto, che solo un alto livello di penetrazione nel territorio nemico può dare. Nell´esplosione è morto il generale di divisione Hassan Moghadam, fondatore dell´artiglieria e delle forze balistiche iraniane. Una figura di primo piano del "programma", alle sue esequie ieri a Teheran c´era anche la Guida suprema della Rivoluzione Ali Khamenei.
«Non bisogna credere agli iraniani che dicono sia stato un incidente, c´è Israele dietro l´attacco di sabato», afferma una fonte confidenziale di un servizio di intelligence occidentale del settimanale Time, aggiungendo che «questo non sarà certo l´ultimo atto di sabotaggio per impedire agli iraniani di dotarsi di armi nucleari». «Ci sono altre pallottole di riserva», il virus informatico Stuxnet, che quest´anno è riuscito a bloccare per mesi i computer degli impianti nucleari iraniani, per esempio è il frutto di una collaborazione fra Mossad e Cia.
Interpellato ieri su un coinvolgimento israeliano nell´attentato alla base iraniana, il ministro della Difesa Ehud Barak ha replicato con un sorriso enigmatico e una sola frase: «Certo ce ne vorrebbero di più». In ogni caso incidenti, attentati, uccisioni di scienziati si sono moltiplicati negli ultimi quattro anni. Il primo caso nel novembre del 2007 con una esplosione in una base missilistica a sud di Teheran con decine di morti. L´ultimo nel giugno di quest´anno: un aereo che trasportava i tecnici russi alla centrale atomica di Busher si è schiantato al suolo, fra le vittime 6 importanti scienziati. Fatalità? Un caso? A gennaio dell´anno scorso a Teheran con una moto-bomba è stato assassinato Massud Ali-Mohammad fisico nucleare di grande importanza lo scorso novembre è toccato a Majid Shahriari e in luglio a Daryush Rezaei, altri due scienziati impegnati nel programma atomico. Tre conferme che "un esercito di ombre" è al lavoro per fermare con ogni mezzo la corsa iraniana, forse in maniera più efficace di quanto sarebbe un attacco aereo e missilistico contro le basi iraniane che sconvolgerebbe completamente la regione. Perché l´unica certezza che abbiamo è che non appena la prima bomba colpirà l´Iran, il Medio Oriente che abbiamo conosciuto finora si dissolverà.

Corriere della Sera 15.11.11
Il Don Giovanni segreto nelle lettere di Amadeus
Quando il genio scrisse: attori pigri per la mia opera
di Armando Torno


P er la prima volta esce in italiano l'epistolario completo della famiglia Mozart. Tutto quello che resta delle lettere di Wolfgang ma anche di papà Leopold, né mancano talune missive di parenti, utili o meglio indispensabili per capire la vita, gli spostamenti e soprattutto le creazioni del sommo musicista. Ma anche i giudizi su di lui. È il caso del biglietto che il segretario del British Museum, Matthew Mary, invia nel luglio 1765 allo stesso Leopold parlando delle composizioni «del vostro ingegnosissimo figlio». Il quale, allora, ha 9 anni.
La fatica si deve a una sola persona, un notaio di Bolzano: Marco Murara. L'editore, nonostante gli annunci che si sono rincorsi in questi anni, è Zecchini di Varese. L'opera, tre volumi in cofanetto di circa 2000 pagine, comincia dal 10 aprile 1755 — Wolfgang Amadeus non è ancora nato — e si chiude il 28 dicembre 1791, quando Mozart è morto da 23 giorni e la moglie Constanze scrive a Luigi Simonetti a Bonn. Sono in tutto 826 lettere. Preziose, cariche di notizie, di dettagli musicali. Perché — usiamo le parole del curatore — «sono il primo commento e una fonte di informazioni fondamentale sulle opere di uno dei più grandi compositori di ogni tempo». Il destinatario, di solito, è un familiare o un amico; quindi il tono è confidenziale, con licenze nel parlato e uno stile non elevato. Murara, che redige atti in tedesco e conversa quasi sempre in questa lingua con i suoi clienti, sottolinea le difficoltà: «Nel Settecento le regole erano ancora in evoluzione, in formazione, e Wolfgang Amadeus sovente si diverte a giocare con i termini, i significati, i suoni e le sconcezze».
Queste lettere aiutano, tra l'altro, ad affrontare con una prospettiva corretta i segreti del Don Giovanni o a meglio comprendere la fortuna che avrà l'opera. Il 21 ottobre 1787 Mozart, per esempio, scrive a Emilian Gottfried von Jacquin a Vienna (uno dei suoi amici intimi) notizie sul debutto: «Era stabilito per il 24, ma una cantante, che si è ammalata, ha provocato un ulteriore ritardo; poiché la compagnia è piccola, l'impresario deve sempre vivere nella preoccupazione e avere cura il più possibile della sua gente, per non trovarsi, a causa di un'inattesa indisposizione, nella più critica di tutte le situazioni critiche, quella di non poter dare alcun spettacolo!». E ancora: «È per questo che qui viene tirato tutto per le lunghe, giacché gli attori (per pigrizia) non vogliono provare nei giorni dell'opera e l'impresario (per timore e angoscia) non vuole costringerli». Don Giovanni andrà in scena il 29. Ed ancora, il 19 dicembre di quel 1787, Mozart scrive alla sorella «signora Maria Anna» ricordando «tutto il successo possibile» del debutto di Praga e di aver ricevuto un'offerta dall'imperatore Giuseppe II (800 fiorini annui). Di più: le chiede di inviargli la cassetta con le sue partiture, le parla di una nuova musica per pianoforte e le ricorda che da un momento all'altro che sua moglie dovrebbe partorire.
Si seguono poi evoluzioni e variazioni dell'opera, ma anche le esecuzioni avvenute o cancellate. Da Dresda, per fare un altro esempio, confida alla moglie nella notte del 16 aprile 1789 che il soprano Josepha Duschek ha cantato molte arie del Don Giovanni; da Francoforte sul Meno il 3 ottobre 1790 annuncia alla stessa un'esecuzione in suo onore, che mai si farà. Infatti il 5 di quel mese la compagnia teatrale di Magonza avrebbe portato in teatro Die Liebe im Narrenhaus, ovvero L'amore al manicomio, un'opera comica di von Dittersdorf che faceva ridere più che pensare. C'è anche il Requiem, o almeno compare come un fantasma in una lettera alla moglie dell'8-9 ottobre 1791, a meno di due mesi dalla morte. «Questa mattina — scrive Mozart — ho composto così assiduamente che mi sono attardato sino all'una e 1/2». C'è il lavoro frenetico su cui si fantasticherà, ma si incontra anche un uomo che sta bene, ha ancora molto appetito e smentisce taluni biografi che lo vorrebbero malato da tempo. Non si spiegherebbero diversamente queste parole: «Mi sono gustato un mezzo cappone che l'amico Primus mi ha portato».
Sono costate circa quattro anni di lavoro. Marco Murara, che in precedenza aveva curato con Bruno Bianco l'integrale dei testi messi in musica da Mozart, con originale e traduzione di opere, arie, Lieder, cantate, oratori eccetera (per l'editore Marco Valerio di Torino), ora ha fatto tutto da solo. Si è dedicato a queste lettere «ogni giorno per qualche ora», senza dirlo alla moglie Francesca. In un certo senso, voleva essere una sorpresa e la versione è diventata «un regalo per il suo ultimo compleanno». Insomma, ha tradito la consorte per amore. Ma se tutte le infedeltà ci regalassero simili frutti, bisognerebbe caldeggiarne la diffusione. E coloro che le commettono non finirebbero all'inferno come Don Giovanni.

La Stampa 15.11.11
Artemidoro ultimo atto
Dopo una battaglia durata cinque anni, la sentenza: il papiro è falso. E oltre a Simonis, che operò nell’800, spunta un secondo falsario: avrebbe agito di recente
di Silvia Ronchey


TORINO Oggi all’Università di Torino «Ultime notizie sul cosiddetto papiro di Artemidoro» è il titolo del convegno ospitato oggi all’Università di Torino (ore 17, Aula magna di via Po 17), in occasione delle ultime pubblicazioni sull’annosa vicenda del controverso documento. Dopo il saluto del prorettore Sergio Roda interverranno Carlo Ossola, Luciano Canfora, Luciano Bossina, Federico Condello, Silvia Ronchey, Amedeo A. Raschieri e il vicequestore aggiunto della Polizia di Stato Silio Bozzi.
C’ è un secondo falsario, oltre a Simonidis, nell’intrigo del cosiddetto Papiro di Artemidoro. Che in realtà non è un papiro ma a quanto pare sono tre. I tre falsi papiri confezionati nell’800 da Simonidis e rimasti a lungo chiusi nel fondo omonimo del Museo di Liverpool — ossia i «tre grossi sigari» descritti da James Farrer all’inizio del ‘900, poi risultati scomparsi — sono con ogni probabilità gli stessi che, accorpati tra loro, modificati e arricchiti di nuovi elementi grafici, ricompaiono a formare il cosiddetto Artemidoro. Che non è dunque quella «gigantesca unità» che ci è sempre stata presentata. Ma che un unicum è davvero, se ha dato filo da torcere agli studiosi di tutto il mondo e se da cinque anni, dal debutto sui media nell’autunno del 2006, ha incuriosito anche il grande pubblico. Il quale, dopo tanta attesa, merita dunque di conoscere la soluzione del mistero.
Che il caso sia risolto è ormai opinione scientifica diffusa. Non a caso l’Università di Torino ospita oggi una varietà di studiosi di disparate competenze e provenienze, a presentare le rispettive conclusioni in un confronto che pare dover portare a quella che in un romanzo di Agatha Christie sarebbe la scena finale, in cui Poirot, riunendo in una stanza i testimoni, illustra nei dettagli la soluzione e ricostruisce la dinamica del misfatto indicando a sorpresa il vero colpevole.
Ma nei gialli che si rispettano le sorprese alla fine sono almeno due. Come quelle che verranno introdotte oggi dal prorettore Sergio Roda, a suggellare l’ipotesi che il manufatto sia frutto dell’assemblaggio dei tre «sigari» e delle aggiunte di un secondo falsario tardonovecentesco (la teoria del «Simonidis maggiorato» o «Simonidis auctus» già da anni diffusa tra i filologi dopo essere stata avanzata da Luigi Lehnus).
Il primo smascheramento riguarderà il lato B del cosiddetto papiro, l’unico nel manufatto a mostrare coerenza, in contrasto con il bislacco disordine che l’assemblaggio dei tre falsi originari sembra avere prodotto nel lato A. Nel rovescio invece si succedono disegni di animali, tanto strani quanto strategicamente disposti, si direbbe, a suggerire che i frammenti provengano da un supporto unico. Si tratta però, a quanto pare, di un lavoro malfatto: starà agli esperti mostrare definitivamente come questi disegni non solo siano opera di un falsario, ma siano stati prodotti nella seconda fase di falsificazione e cioè dopo l’accorpamento dei tre «sigari». In effetti anche agli occhi di un profano risalta la differenza tra i due ordini di figure: sul lato A, in quelle di gusto ellenistico tipiche dello stile di Simonidis, si apprezza un tratto ottocentesco che imita l’antico; sul lato B, negli animali fantastici come il cosiddetto «papero» o chenalopex, si scorge uno stile in cui qualche studioso è arrivato ironicamente a ravvisare l’influsso di Walt Disney.
Il che ci porta al secondo smascheramento annunciato per oggi pomeriggio. Già quanto anticipato finora suggerisce che il compito del secondo falsario novecentesco — far credere in un rotolo unico, «oggetto miracoloso» e strepitoso — puntasse a giustificarne il prezzo inverosimile, mai praticato nella storia del mercato dei papiri: i 2 milioni e 750 mila euro sborsati dalla Fondazione per l’Arte della malcapitata Compagnia di San Paolo di Torino e messi a disposizione come riportato da Bärbel Kramer e Claudio Gallazzi, due degli editori dell’Artemidoro a opera di un notissimo studio legale torinese.
Si arriverà oggi pomeriggio a identificare il secondo falsario, che avrebbe agito dopo l’acquisizione dei tre rotoli prodotti da Simonidis unificandoli e disseminando il collage di elementi introdotti ad hoc per depistare gli studiosi e distoglierli dall’attribuzione al falsario ottocentesco? Più che di un’identificazione si tratterà di un identikit. In quest’ipotesi, il secondo falsario — che si presuppone tuttora vivente e attivo — dev’essere un grande frequentatore della papirologia. Deve avere agito nell’ultimo ventennio del Novecento, in stretto contatto con quel «mercante» Simonian che ha venduto l’Artemidoro alla Compagnia torinese nel 2004, quando la sua reputazione era peraltro già incrinata dal contenzioso giudiziario avuto col Museo di Hildesheim negli Anni 80. Deve avere avuto il manufatto tra le mani per un congruo lasso di tempo. Se Ludwig Koenen, principe della papirologia mondiale, ha riferito di aver visto immagini del reperto che contenevano dettagli differenti da quelli della versione attuale, il cosiddetto papiro era noto agli egittologi Shelton e Grimm come rivelano gli stessi editori critici fin dal 1981: ben prima che uno di loro, Claudio Gallazzi, cominciasse a perorarne appassionatamente l’acquisto.
Chi mai può corrispondere a questo identikit? Di chi è stato «uomo di paglia» l’armeno-amburghese Simonian? Ci si aspetta che il convegno di oggi getti su questi interrogativi un folgorante fascio di luce.

Repubblica
I satrapi e le donne
Da Mao all’Italia, le oscure seduzioni del potere
di Francesco Merlo


Un libro della francese Diane Ducret racconta le vicende quasi sempre tragiche di mogli, amanti e compagne dei dittatori del Novecento
"L´Imperatore" Bokassa era talmente sicuro del proprio fascino che provò a esercitarlo anche su Brigitte Bardot
L´era del berlusconismo ha visto la denuncia della moglie Veronica e le ragazze reclutate per le serate ad Arcore

Che fine ha fatto l´eroina romantica, da Claretta a Eva Braun, dalla Krupskaja alla Balabanov, la donna tutta passione che perdeva se stessa accanto ai grandi dittatori del Novecento, al duce, al führer, al piccolo padre, al grande timoniere, all´imperatore, domatori domati e persino dominati da giovani e ardenti innamorate? Chiudo il libro di Diane Ducret, un bestseller francese pubblicato da Garzanti e penso che un italiano non può leggere Femmes de dictateur senza che gli venga continuamente in mente Berlusconi che è il leader democraticamente eletto che più si è comportato da satrapo, al punto da somigliare persino al vecchio Mao, per esempio, che voleva solo ballerine minorenni e ogni sera organizzava feste nella grande Sala del Popolo con un centinaio di invitati finché «veniva comunicato ad alcune ragazze di essere state scelte». Ossessionato dall´impotenza, Mao si sottoponeva a quotidiane iniezioni a base di corna di cervo. E anche Bokassa era convinto di essere irresistibile tanto che ci provò persino con Brigitte Bardot e poi con Marie Laforet e si fece costruire due palazzi per le sue favorite, due Olgettine, accanto alla sua villa fortino, e pagava le donne, anche le loro mamme, e lo chiamavano "Papa". E lui diceva: «Mi amano tutte».
Forse i dittatori non sono cambiati, ma è inutile cercare la giostra del fuoco e del ghiaccio delle protagoniste di allora nelle compagne dei tiranni di oggi. E infatti non sta in questo libro la terribile vecchietta Suzanne Mubarak che, con la sua aria da assennata cassiera in pensione, è stata scarcerata versando una cauzione fatta di case, ville e 20 milioni di sterline egiziane (3,37 milioni dollari). Né c´è la sofisticata moglie inglese del sanguinario siriano, la bellissima Asma Assad, educata al King´s College, ribattezzata da Vogue "Rosa del deserto", che a 35 anni ha accumulato nelle banche straniere alcuni miliardi di sterline sottratti alla Siria, e più che a un´affarista della City somiglia alle inespugnabili parigine rive gauche: bon chic bon genre.
Di sicuro le donne dei dittatori di oggi non sono le replicanti delle donne ritratte in questo libro piacevole e compiaciuto. Femmes de dictateur è infatti la summa delle biografie delle muse del dispotismo del Novecento. Racconta – senza troppo teorizzare – il potere della donna sul potere dell´uomo a partire dalla frase di Hitler: «L´importante è conquistare le donne, il resto arriva dopo». E certo Veronica Berlusconi non somiglia a Rachele che non lasciò mai il suo Benito, chioccia che tollerava amanti e "pollastre" e "figlie del mare" e "prigioniere" perché «la donna è come la folla, è fatta per essere violata». Probabilmente Veronica non somiglia a nessuna di queste mogli della storia. È infatti, caso unico al mondo, la moglie che rivela e denunzia le degenerazione del marito, la strapotente e impotente indecenza di Stato, con una lettera-scandalo a Repubblica, scandalo perché mise sotto gli occhi di tutti quel che nessuno voleva vedere, ma anche rivolta moderna dell´eroina di Aristofane contro il maschio che ostenta in pubblico l´amore per la moglie e pratica in privato il sordido vizio da pornografia. Un outing, dunque, contro la malinconia e la violenza che sarebbe piaciuto a Nadja Stalin la quale contro Josip le tentò davvero tutte: avesse avuto un giornale a cui rivolgersi!
E invece Nadja si avvicinò ai trotzkisti e agli altri maledetti dal regime, poi divenne religiosa e devotissima nel paese dell´ateismo, e una volta fuori dal Cremlino negava di essere la moglie di Stalin, e trovò pure un lavoro in incognito. Ma poi tornava a casa e… Infine, dopo l´ultimo tradimento del marito, si sparò al cuore vestita con il suo abito migliore. E chissà se è vero che Stalin era anche il suo padre naturale.
Ci sono dunque le amanti e le mogli, ma anche le lettere delle ammiratrici di Mussolini, Lenin, Stalin, Salazar, Bokassa, Mao, Ceausescu e Hitler. Non ci sono – come dicevo – le satrapie di oggi e dunque non ci sono le donne contro le quali sono scoppiate le rivolte della primavera araba. Nel libro c´è invece il modello della amazzone femminista, come Margherita Sarfatti, «la voluttuosa bionda dagli occhi smeraldo» che a Benito insegnò tutto, a lavarsi e a leggere, a vestirsi e a «marciare per non marcire», ma nel 1938 venne spogliata di ogni bene e cacciata dall´Italia perché era ebrea.
Ma non c´è il modello oggi vincente della moglie manolesta, la signora Ben Ali per esempio, formosa e allegra e con le gote sempre rosse, che è fuggita a Dubai con una tonnellata e mezzo di lingotti d´oro in valigia, 45 milioni di euro, né la signora Arafat, inseguita da un mandato internazionale e sospettata di avere fatto sparire i risparmi dell´Olp. C´è invece Inessa, la rivoluzionaria amante del puritano Lenin, tollerata dalla Krupskaja in un ménage a trois. Inessa avrebbe potuto vivere senza il socialismo ma non senza l´amore. Disse Lenin: «Non ho alcuna fiducia nella sicurezza e nella perseveranza nella lotta delle donne il cui romanzo personale si intrecci alla politica». Si suicidò al Cremlino il 4 settembre del 1920 e morì dopo una notte di agonia. Lenin seguì la bara a piedi per tre chilometri: «Sembrava fosse diventato più piccolo, il berretto gli copriva il volto …, camminava con gli occhi chiusi e pareva che fosse sul punto di cadere a terra ad ogni passo».
Non c´è nel libro la donna "sciupa dittatori", la provocante "mangia tiranni" Mehriban Aliyeva, anche lei nata a Londra, moglie del signore assoluto dell´Azerbaijan e amante, poco segreta, di quello della Bielorussia, il famigerato Lukashenko, che incontra all´hotel Adlon di Berlino. Ci sono ovviamente i singhiozzi di Claretta: «Chi ama, muore. Io seguo il mio destino che è il Suo». E c´è il sentimento di Eva Braun: «Quando mi guardava sentivo gocce di sudore scendermi tra i seni». C´è anche Magda Goebbels che nel bunker si fa abbattere con un proiettile nel cuore: «Amo anche il mio sposo. Ma il mio amore per Hitler è più forte». E sono tutte aspiranti al suicidio, anche le copie auto riprodotte del marito come Jiang che realizzò in Cina il modello della donna neoplatonica del Rinascimento "amor transformat amantem in amatum" diventando più maoista di Mao, oltre la paranoia e sino ai "pensieri": «Il contributo dell´uomo alla storia si limita ad una goccia di seme».
C´è la donna del genocidio, Elena Ceausescu. E si tengono mano nella mano Elena e il marito, sono i due mostri, i due affamatori del popolo rumeno ma si scambiano sguardi atterriti di tenerezza, slanci e soavità di cuore nell´attesa dei cento colpi di fucile: «Andate all´inferno tutti» gridò Elena al plotone di esecuzione.
Ed era una pantera di bianco vestita la bella Catherine Bokassa che per sottrarsi al marito gli presentò un certificato rilasciato da un medico compiacente di Neully che le ordinava di astenersi dai rapporti sessuali. E chissà se è vero che era l´amante di Giscard d´Éstaing, allora presidente della Repubblica. Meno bella dell´imperatrice Catherine è la lolita nera Nothundo, lunghi capelli ossigenati, a 17 anni dodicesima moglie del dittatore dello Swaziland, re Mswati (il padre di Mswati si sposò 70 volte), che è stata sorpresa a letto con il ministro della Giustizia. Lui è in carcere, lei è rimasta sul trono.
Al loro confronto le lupe di Arcore "briffate" dalla favorita, dalla maîtresse di Stato Nicole Minetti, sono tutte bellezze acciaccate dal risentimento, raramente hanno il cipiglio, il fascino vero e l´intelligenza combattiva delle donne sedotte e non comprate. Berlusconi ha comprato a peso d´oro anche il loro silenzio che nelle eroine del Novecento è sempre offerto per amore, un silenzio fatto di gorgoglii, tumulti di parole, lunghe subordinate senza la preposizione principale, incisi, frasi mozzafiato, emozioni, nervosismo ed eccessi soffiati in un sospiro.
Ma c´è anche il silenzio di Ludmilla Putin, un silenzio supersaturo di rancore. Ludmilla è l´ex hostess, insegnante di spagnolo, moglie misteriosa al punto da alimentare la leggende di una fuga in convento e di un divorzio segreto quando il marito si fidanzò con la bellissima ginnasta olimpionica Alina Kabayeva, e, berlusconiano sino in fondo, la premiò facendola eleggere alla Duma. E fece il giro del mondo la terribile gaffe di Berlusconi che, alla giornalista russa che poneva coraggiosamente a Putin una domanda sulla ginnasta, mimò con le mani il gesto di sparare con un mitra. La giornalista scoppiò in lacrime nel paese in cui era stata uccisa Anna Politkovskaya. Silenzio delle donne, dunque, da ottenere anche a colpi di mitra.
E va notato che sono sempre più mogli e amanti che madri le donne dei satrapi, tranne appunto Rachele che solo su questo punto è come Veronica perché l´Italia rimane il paese dove mogli parlanti e mogli silenti sono comunque mamme. Nel nostro paese è l´economia domestica che garantisce la scienza politica, l´Italia è fondata sulla teologia mammaria anche se, come sappiamo, il berlusconismo ha avvelenato pure questo, con tutte quelle mamme che offrivano le loro bambine al signore di Arcore e le spingevano a lucrare di più, a darsi a tariffa. Solo in Italia un poeta profetico come Pasolini poteva chiedersi in ballata «Mi domando che madri avete avuto…», e raccontare madri vili, madri mediocri, madri feroci e «madri servili, abituate da secoli / a chinare senza amore la testa / a trasmettere al loro feto / l´antico, vergognoso segreto / d´accontentarsi dei resti della festa».

il Fatto 15.11.11
Ieri il ventennale
Breve storia del web e della Rete
di Federico Mello


Si è svolto ieri a Roma “Happy Birthday Web”, un’iniziativa, organizzata dal giornalista di Repubblica ed ex direttore di Wired Italia Riccardo Luna, che ha coinvolto decine di realtà e relatori per festeggiare i vent’anni del world wide web con il suo “papà”, Tim Berners-Lee.
Unendoci agli auguri, cogliamo l’occasione per ripercorrere brevemente la storia della Rete e del WWW, il sistema di siti e ipertesti che su questa si è appoggiata. Una storia che, come ha spiegato Manuel Castells, ci ha proiettato dalla “Galassia Gutenberg” alla “Galassia Internet”.
Le origini e i mainframe
TUTTO comincia negli anni cinquanta. L’obiettivo di far parlare tra loro computer diversi, lo stesso che porterà alla rete Internet, nasce dalla scarsità di macchine a disposizione nei primordi dell’informatica. Fino agli anni Settanta, per computer non si intendeva il “pc” che ora popola tutte le nostre scrivanie, ma grandi “mainframe” (che occupavano intere stanze) o “minicomputer” che, per quanto “mini” erano grandi grossomodo come un moderno frigorifero. All’inizio degli anni Sessanta questi computer erano costosi da acquistare e da manutenere, ed erano perciò ad appannaggiosolodigrandiaziende, università e centri di ricerca. Per permettere ai ricercatori e pionieri dell’informatica di utilizzare il più possibile queste risorse scarse, la prima soluzione fu quella del “time sharing”: il computer era uno solo, ma a questo venivano attaccati numerosi terminali “stupidi”, che condividevano la stessa potenza di calcolo del computer centrale.
Ben presto venne l’esigenza di far parlare tra loro le macchine. Il problema era che ogni computer costituiva un mondo a sé, in termine di progettazione, programmazione e linguaggi. Hanno spiegato gli storici della Rete Hafner e Lyon: “Se gli scienziati che si occupavano di grafica a Salt Lake City, volevano usare i programmi sviluppati al laboratorio Lincon, dovevano andare a Boston”. Servivaunasoluzionepiùpratica: “In una rete di risorse condivise, per esempio, un ricercatore interessato a un programma di grafica su una macchina sita a tremila chilometri di distanza si sarebbe semplicemente collegato a quella macchina”.
Dati a pacchetto e rete distribuita
LA PRIMA soluzione fu quella di affiancare a ogni computer un altro che avrebbe fatto da interprete. Il dialogo diventava quindi computer-traduttore-altrotraduttore-altrocomputer. Queste tecnologie vennero realizzate soprattutto presso la Darpa, un’agenzia della Difesa americana creata nel 1958 in risposta al lancio dello Sputnik in orbita da parte dell’Unione Sovietica. A una sezione speciale della Darpa (IP-TO), chegestivacircaundieciper cento delle risorse totali, venne assegnato il compito di connettereivariufficidellaDifesanegliStates. Cercando un modello di rete efficace, la scelta cadde su quella di“commutazioneapacchettodistribuita” elaborata da Paul Baran, uno studioso impiegato da un’agenzia dell’aviazione Usa. L’idea di Baran era quella di una rete in grado di resistere a un attacco nucleare: una rete senza centro, ma “a maglia” formata da molti nodi con collegamenti tra loro “ridondanti”. Baran, inoltre, aveva immaginato che questa comunicazione avvenisse “a pacchetto”. Spieghiamo. I dati viaggiano tra i computer attraverso la linea telefonica. Solo che, se utilizziamo il telefono per una conversazione, una piccola interferenza non disturba la nostra comprensione di quanto sta dicendo l’interlocutore. Se invece a “parlarsi” sono due computer, una piccola interferenza può compromettere la trasmissione di dati. Ecco l’idea di Baran: smontare ogni file in pacchetti, spedirli singolarmente e poi ricomporli in ordine all’arrivo. Ogni “pacchetto” segue il principio della “patata bollente”: seguelastradapiùbreve. Lastessa idea, inoltre, era stata sviluppata in Inghilterra dal fisico Donal Davies: uno dei tanti casi di “scoperta simultanea” della storia della scienza.
Il protocollo e il decollo
QUESTE intuizioni andavano trasformate in uno standard che ognicomputerpotesseusare. Nel 1968 i nodi della rete “Darpa”, Darpanet (poi Arpanet), erano già quattro, ognuno provvisto di computer affiancato da un altro computer “traduttore”. Si trovano all’Università di California a Los Angeles e a Santa Barbara, allo Sri di Menlo Park e all’Università dell’Utah, a Salt Lake City. Nel 1972, la svolta: Bob Khan della Darpa, e Vint Cerf dell’Università di Stanford, progettano il protocollo Tcp/ip. Con questo protocollo, tutto cambia: ogni computer lo può utilizzare e non ha piu bisogno di un computer “traduttore”. Ad Arpanet si aggiungono altri nodi, altre reti si collegano tramite dei computer chiamati “Gateway”. Tutti utilizzano una lingua comune: il Tcp/Ip. Intanto èstatolanciatoilprotocolloperlo scambio di file (Ftp) che contiene quello per lo scambio di mail. Nel 1983 Arpanet conta 113 nodi, e questi vengono divisi tra militari e civili. Scende in campo la National Science Foundation che prendesullespallelaprincipaleretecivile, interconnessa alla altre, dando al progetto un taglio esplicitamente scientifico. Nascono reti come funghi e si connettono alla rete madre. Ben presto non c’è più un centro: sono ormai comparsi i personal computer sulle scrivanie e l’attività di “internetworking” ora è un luogo distribuito di singoli nodi connessi: è “The Internet”.
Il web di Tim Berners-Lee
SIAMO a solo vent’anni fa. Nel 1989ungiovanefisicodelCerndi Ginevra ha il problema opposto a quello che si era verificato ai primordi dell’informatica. Allora il problemaeralascarsitàdirisorse, ora che ci sono troppe informazioni e pochi strumenti per catalogarli e consultarli rapidamente. L’idea di usare a questo proposito un “ipertesto” – un testo con collegamenti non tra pagine, ma tra parole (i link) –, era già stato avanzato tempo prima (uno fra tutti, dall’inventore del mouse Doug Engelbart). Ma ora i tempi sono maturi: c’è una rete connessa sempre più diffusa nel mondo e il Cern è il nodo più grande d’Europa. “Avevo già tutti gli strumenti a disposizione. I personal computer, Internet, gli ipertesti: dovevo solo metterli insieme proponendo un nuovo salto concettuale” dirà in seguito. La sua prima proposta del 1989, viene perfezionataeaccettatanel1990eil6agosto 1991 viene realizzato il primo sito web (naturalmente quello del Cern). Berners-Leerealizzaanche il primo server connesso alla rete mondiale che ospita il sito; il linguaggio di programmazione tuttora in uso (HTML) e un browser che serve a navigare (e inizialmente funziona anche da editor). Per quest’ultimo ha scelto un nome altisonante: World Wide Web. La grande ragnatela mondiale. Il resto è storia. Anche se sono passati solo vent’anni.

La Stampa 15.11.11
“Dottore, sogno il fax Che dice, sono grave?”
E-mail, tappeti, orsi: ecco come interpretare le nuove ossessioni
di Roselina Salemi


Il consiglio Per non dimenticare nulla al risveglio meglio tenere un diario con date e stranezze: mai averne paura La casa In tempi di ristrettezze rimane il luogo più frequentato anche nel sonno: in tutte le sue stanze, mobili compresi

Forse un giorno scopriremo che i sogni sono soltanto scarti, polvere di ricordi da buttar via, ma sarebbe triste. Intere culture, dai Sumeri a Freud, passando per Walt Disney («I sogni son desideri / di felicità», canta Cenerentola) ci hanno raccontato che dormire e sognare è un atto sacro e rivelatore.
Perciò, nessuna sorpresa se il manuale della terapeuta americana Pamela J. Ball («10.000 sogni interpretati») arriva in Italia con un corredo di due milioni di copie vendute e senza il facile ammiccamento di trasformare la nostra produzione onirica in numeri da giocare al lotto.
Ci servono ancora, i sogni? Il romanzo di Gianrico Carofiglio appena arrivato in classifica, «Il silenzio dell’onda» (Rizzoli) è tutto imperniato sulla psicanalisi e suggerisce di sì. Giacomo, ragazzino introverso incontra in sogno il cane parlante Scott, surrogato del padre, che gli permetterà di tirar fuori le sue emozioni e aiutare Ginevra, compagna di scuola.
Certo, non è semplice. Spesso i sogni ci restano incomprensibili o li dimentichiamo. Per questo, Pamela J. Ball suggerisce di tenere un diario con le date, i dettagli, le stranezze e di non averne paura, anche se abbiamo visto l'intera serie di «Nightmare». Ci sono sogni ricorrenti: la casa, le stanze, perdere i denti, nuotare, correre, essere inseguiti. Ma le combinazioni sono infinite. Può essere rassicurante sapere che la balena è un simbolo di resurrezione, che il cavallo rappresenta l’energia a nostra disposizione (e, se bianco, la consapevolezza spirituale), che dietro l’orso si nasconde una madre possessiva, mentre il serpente indica l’impulso primordiale del desiderio, il bisogno di scendere a patti con l’istinto.
Non c’è solo il bestiario: la casa è luogo più frequentato anche nel sonno Rem. Sognare la cabina armadio non vuol dire essere ossessionati dal cambio guardaroba, ma da un segreto. Un tappeto può indicare un rapporto emotivo con il denaro, una stanza spoglia un senso di incompletezza. E il bacio non è un apostrofo rosa, è la sigla di un patto. Il sesso c'è sempre, sotto forma di torre o di fuoco (bruciare vivi non è un incubo tremendo, ma un segno di passione), anche se la moderna interpretazione dei sogni non somiglia più a quella di cento anni fa.
Nel film «A Dangerous Method», presentato alla Mostra del cinema di Venezia, Carl Jung e Sigmund Freud, in viaggio verso l’America, parlano di sogni. Jung racconta il suo: trascina con gran fatica un enorme tronco. «Non ha pensato che potrebbe essere il suo pene? », gli chiede il fondatore della psicanalisi, ed è chiaro che non ha dubbi. Oggi chi studia i sogni li collega a momenti di transizione, di cambiamento (l’aeroporto, la stazione, il taxi, i denti che si staccano, il viaggio), voluti o necessari, che ci piacciano oppure no. Scoraggiate le implicazionipratiche: il sogno della scala, che ossessionava tanto Dino Buzzati, rappresenta lo sforzo per accedere al lato mistico e non un suggerimento per la ristrutturazione.
Gli aggiornamenti più curiosi riguardano l’aspetto hi-tech: ormai si sognano computer, fax, posta elettronica. Un documento archiviato nel web ci dice che «siamo in cerca di un legame con i ricordi del passato o di informazioni che dobbiamo recuperare», un computer danneggiato indica «un problema di comunicazione in sé» (e non un memo implicito per chiamare l’assistenza), inviare un’email sottintende la coscienza di possedere informazioni utili per gli altri. E così sognare personaggi famosi rispecchia una delle ansie del presente: «Essere amati e ammirati, essere salvati dall’ordinaria vita quotidiana». Poi uno si sveglia, si presenta al casting per il «Grande Fratello» o altro reality e si illude di aver avuto un sogno profetico. Buona notte.

Repubblica Salute 15.11.11
Depressi ma non troppo
Psicofarmaci, la denuncia degli specialisti: "Spesso prescritti senza motivo"

Meglio le Psicoterapie, pillole nei casi gravi
di Francesco Bottaccioli


Boom di farmaci, ma in molti casi non servirebbero

Anche in Italia vertiginoso aumento dei malati mentre il consumo di antidepressivi è cresciuto del 114% negli ultimi dieci anni. Ma secondo esperti autorevoli "spesso si tratta di un eccesso di diagnosi"
Il paradosso è che solo un terzo dei casi severi viene trattato adeguatamente

Negli Stati Uniti il rapporto di fine ottobre dei Cdc di Atlanta (Centro governativo di statistiche sulla salute) documenta che negli ultimi 20 anni c´è stato un aumento del 400% del consumo di antidepressivi. In Italia l´ultima statistica governativa è del luglio 2010 e documenta un incremento degli antidepressivi del 76% nel periodo 2000-2009. Statistica aggiornata dal Censis che calcola un aumento del 114% nel primo decennio del secolo.
Che sta succedendo? Sembra che l´America e tutto il mondo ricco siano nel mezzo di un´epidemia di malattie mentali. Le diagnosi di disturbi mentali, nei bambini, sono cresciute di ben 35 volte. Le malattie mentali sono diventate la principale causa di disabilità nei bambini, soppiantando il Down e la paralisi cerebrale. Oggi più di 500.000 bambini assumono antipsicotici e il 10% di piccoli di 10 anni assume farmaci per il Disordine da deficit di attenzione e iperattività (Adhd). Il mondo sta impazzendo?
Due autorevoli studiosi come Allen Frances e Marcia Angell sostengono che si tratta di un eccesso di diagnosi e di uso sospetto ed maldestro di farmaci, dati a chi non ne ha bisogno. Marcia Angell, già direttore del New England Journal of Medicine, in un saggio pubblicato in due puntate su The New York Review of Books, ricostruisce la storia recente della psichiatria americana: l´eccesso di diagnosi e di prescrizioni di psicofarmaci dipende dalla larga penetrazione dell´industria tra i medici. La svolta sarebbe intervenuta nel 1980, con la pubblicazione del Dsm-III, il Manuale diagnostico statistico delle malattie mentali che ha "rimedicalizzato" la psichiatria sottraendola alla psicoanalisi e al movimento di critica psichiatrica, che ha avuto in Ronald Laing (nel Regno Unito) e Franco Basaglia (in Italia) i suoi leader. Per l´attuale presidente dell´Associazione psichiatrica americana, Carol Bernstein, infatti, la svolta del Dsm-III fu necessaria «per abbinare i pazienti ai nuovi trattamenti farmacologici emergenti». Con il Dsm-III le diagnosi di disturbi mentali salgono a 265, raddoppiando rispetto alle precedenti edizioni, e nella successiva edizione (Dsm-IV), rivisitata nel 2000, passano a ben 365. Ora Robert Spitzer, che fu a capo della task force del Dsm-III e Allen Frances, capo della task force del Dsm-IV, sono in prima fila nel denunciare i rischi di aumento della sovradiagnosi nel campo dell´ansia, depressione e psicosi, relativamente alla stesura del Dsm-V (previsto per il 2013). Un solo dato: gli antipsicotici negli Usa hanno rimpiazzato le statine (farmaci anticolesterolo) nella classifica dei farmaci più venduti in assoluto. Frances, su Psychiatric Times, denuncia l´aggressività delle case farmaceutiche che diffondono a piene mani il fasullo modello per cui i disturbi dell´umore sarebbero riducibili a uno squilibrio di molecole chimiche nel cervello "risolvibili" con i farmaci. Per contro solo un terzo dei depressi gravi viene trattato adeguatamente. Trattamento che, ormai è sempre più chiaro, se affidato ai soli farmaci è assolutamente fallimentare. La psicoterapia, che può anche accompagnarsi ai farmaci, è la strada maestra: nel lungo periodo è nettamente superiore ai farmaci nel ridurre le ricadute della depressione.
* Presidente on. Società It. Psiconeuroendocrinoimmunologia

Repubblica Salute 15.11.11
Un sondaggio in cinque paesi europei su crisi economica e patologia: in Italia quasi l´11% di diagnosticati
Donna, 50enne e precaria l´identikit del malato italiano
di Elena Dusi


Affrontare la crisi economica è più difficile per i 5,4 milioni di adulti italiani diagnosticati come depressi: il 10,6% della popolazione. E non stupisce affatto che fra di loro ben 7 su 10 non abbiano un impiego a tempo pieno, né che una su 4 colleghi il suo disagio a un reddito scarso.
Sono alcuni dei dati contenuti nel rapporto di Kantar Health che (per conto della famaceutica Astra Zeneca) ha analizzato tra marzo e maggio 58mila persone di cinque paesi europei. Fra essi, 7.600 italiani, di cui 800 diagnosticati come affetti da depressione. Cinquantuno anni è l´età media della diagnosi e i pazienti senza impiego sono quasi equivalenti a quelli che lavorano (47% contro 53%). Dall´identikit tracciato da Kantar Health emerge anche che il male di vivere incide sulle donne assai più che sugli uomini (nel 62% dei casi) e che l´età più colpita (41% delle diagnosi) è quella tra i 35 e i 54 anni.
La depressione è un male che azzoppa sia gli individui che i paesi anche perché raramente si presenta da sola. Il 20 per cento delle persone colpite è obeso e il 29% è sovrappeso. Quasi un paziente su due (46%) ha disturbi del sonno, e in questo caso è difficile stabilire quale sia la causa e quale l´effetto, visto che una ricerca presentata al congresso dell´Associated Professional Sleep Societies a giugno lega un sonno regolare di 6-9 ore a un tono dell´umore decisamente più alto.
Né si può dire con certezza se la mancanza di attività fisica che si registra fra i depressi (solo il 4,5% fa movimento regolarmente) sia una conseguenza del disagio psichico o piuttosto non contribuisca ad approfondirlo. Lo ha osservato l´indagine Share dell´Unione Europea pubblicata all´inizio di novembre. «Non sappiamo quale sia il rapporto tra attività fisica e depressione, ma è chiaro che le persone anziane fisicamente attive sono anche meno depresse», spiega Magnus Lindwall, università di Goteborg, uno degli autori della ricerca Ue. Più che correre, però, in questo periodo l´Europa ristagna. E contro la depressione economica punta il dito anche l´organizzazione Mental Health Europe, che ha denunciato: «I paesi più colpiti dalla crisi finanziaria sono quelli in cui i sintomi si manifestano in modo più preoccupante. In Grecia i suicidi sono cresciuti del 17% dal 2008 e gli individui con problemi mentali sono aumentati del 55%». A focalizzare ancor più l´occhio sul rapporto perverso tra recessione e depressione è un rapporto di luglio uscito su Bmc Medicine: l´incidenza della depressione maggiore affonda la sua lama nel 15% degli individui nelle nazioni ricche, ma solo nell´11% di quelle povere.

Meglio le psicoterapie, pillole nei casi gravi

Primo: corretta diagnosi di depressione maggiore (vari tipi) e minore e disturbo bipolare (alternanza di fasi maniacali e depressione). La depressione maggiore riunisce 9 sintomi: tristezza, perdita di interesse e piacere, senso di colpa, disprezzo di sé, sonno e appetito disturbati, mancanza di forze, incapacità di concentrazione. Cura: psicoterapia associata a farmaci che agiscono sui neurotrasmettitori (inefficaci nella depressione lieve, per i farmacologi britannici). Utilizzati inibitori della serotonina (Ssri: capostipite il Prozac) o anche della noradrenalina (Snri), i triciclici, gli inibitori Imao. A luglio anche un antipsicotico atipico (quietapina, Seroquel) è stato approvato nella depressione maggiore, in mancanza di risposta agli antidepressivi. Quando l´autorità europea (Emea) diede il primo ok, molta cautela fu avanzata dal bollettino indipendente Dialogo sui farmaci.
(m. pag.)

Poesia come cura
Tecnica dagli Usa


Il ritmo delle parole per curare il male di vivere. È la poesia-terapia o poetry therapy
L'idea è quella di utilizzare il linguaggio e la narrazione per aiutare i pazienti colpiti da depressione. Un lavoro di questo tipo riunisce terapeuti, psicologi, psichiatri, ma anche scrittori e giornalisti. Il terapeuta valuta il disagio, con la lettura e scrittura poetica, e in seguito interviene sugli atteggiamenti negativi del paziente. Negli Stati Uniti la "cura con i versi" esiste dagli anni '60 e nel 1987 è nata la rivista specializzata: The Journal of Poetry Therapy. In Italia anche alcune strutture pubbliche hanno dato spazio alla poesia-terapia. Del rapporto fra scrittura e terapia si occupa anche il Centro italiano studi arte terapia. Esistono poi diversi gruppi di sostegno online, fra i quali il Blog di Poeio (http://poieo.tumblr.com/). Ma, precisano, «non si tratta qui di una terapia medica, ma di un modo di condividere emozioni e tormenti. Perché la poesia è quello che rimane quando hai perso tutto il resto»
(valeria pini)

Disturbo bipolare, sfida per la diagnosi

«Nella diagnosi la sfida principale è capire se un paziente depresso ha o meno un disturbo bipolare» così Giulio Perugi, università di Pisa, «La maggior parte dei pazienti bipolari va dal medico in fase depressiva perché è quella che produce più sofferenza, mentre vive le fasi espansive come periodi di benessere. Se trattato solo con antidepressivi può peggiorare». E a proposito della nuova indicazione terapeutica dell'antipsicotico quetapina (sia nel disturbo bipolare che nella depressione maggiore) l'esperto parla di «uno strumento in più un vantaggio da un punto di vista clinico»

I farmaci
Rischi cardiaci, dose massima ridotta


Riduzione della dose massima raccomandata e avvertenze per rischi cardiaci (aritmie, anomalie della frequenza e ritmo cardiaco) per gli antidepressivi Seropram ed Elopram (Citalopram messo in vendita anche come farmaco generico). È il recente alert dell'Agenzia del farmaco emanato dopo ricerche condotte durante la commercializzazione