mercoledì 16 novembre 2011

l’Unità 16.11.11
L’incontro con la Nazionale e con gli immigrati «nuovi cittadini italiani»
Napolitano: «Non deve preoccupare che abbiano una cultura complessa»
Il Colle e gli Azzurri «Sì alla cittadinanza ai figli degli stranieri»
Bersani: non saremo noi a mettere ostacoli al premier incaricato
Governo tecnico Un profilo diverso esporrebbe l’esecutivo a fibrillazioni
Sembra un politico di rango l’emozionato Gigi Buffon che davanti al Presidente della Repubblica chiede «una classe politica coesa e responsabile». Al Colle, con gli Azzurri, anche gli immigrati «nuovi italiani».
di Marcella Ciarnielli


È visibilmente emozionato il portiere della Nazionale cui tocca portare il saluto dei giocatori al presidente della Repubblica che li ha ricevuti al Colle poche ore prima della partita amichevole con l’Uruguay, nella giornata dedicata ai «nuovi cittadini italiani», i giovani immigrati che hanno ricevuto la cittadinanza. Gigi Buffon è teso come se dovesse parare un rigore. Parla. E «fa gol», come gli riconosce lo stesso Napolitano, cui la squadra ha regalato la maglia azzurra con il numero uno e la scritta «presidente». Nel pallone come nella vita a volte bisogna stare in attacco e a volte in difesa. E questi sono tempi in cui la necessità di difesa decisamente prevale.
«All’Italia occorre una classe politica che dimostri di essere responsabile, colta e coesa, con l’unico scopo di ripartire tutti insieme e superare le grosse difficoltà che stiamo vivendo in questo periodo» dice l’uomo barriera della nazionale. Ed il Presidente, che sulla necessità di coesione e responsabilità insiste da sempre, apprezza e si congratula.
L’IMPEGNO ALL’UNITÀ
«Credo che mai come nel corso di queste celebrazioni l’idea d’Italia e la parola Italia hanno risuonato con tanta forza fra tanti italiani. C’è stato un grande impegno ad essere uniti e questo deve valere per tutti, al di là delle divisioni e della dialettica. Buffon ha fatto un magnifico discorso e ha fatto gol» ha replicato il Presidente.
Tutta la squadra, in cui ci sono anche alcuni «nuovi italiani», ha poi partecipato all’incontro dedicato a quanti hanno ottenuto la cittadinanza, ancora un piccolo numero, perché davanti ad una presenza di stranieri che negli ultimi venti anni è aumentata di dodici volte «gli immigrati che sono diventati cittadini sono ancora relativamente pochi» e «all’interno dei vari progetti di riforma delle norme sulla cittadinanza, la principale questione rimane ancora quella dei bambini e dei ragazzi. Molti di loro non possono considerarsi formalmente nostri concittadini perché la normativa italiana non lo consente, ma lo sono nella vita quotidiana, nei sentimenti, nella percezione della propria identità». Una identità che non deve veder sacrificata quella d’origine nel rispetto di culture e diversità, nel rispetto di un fenomeno, quello migratorio «che coloro che non ne comprendono la portata dimostrano di non saper guardare alla realtà e al futuro». E «non deve preoccupare il fatto che la loro sia un’identità complessa, non necessariamente unica, esclusiva. Se noi desideriamo che i figli e persino i nipoti o pronipoti dei nostri cittadini emigrati all’estero mantengano un legame con l’Italia e si sentano in parte anche e ancora italiani, non possiamo chiedere invece ai ragazzi che hanno genitori nati in altri paesi di ignorare le proprie origini».
I NUMERI
Il bilancio del fenomeno fatto dal presidente è puntuale. «Superano il mezzo milione i nati in Italia ancora giuridicamente stranieri e complessivamente i minori stranieri residenti in Italia sono quasi un milione, più di settecentomila studiano nelle nostre scuole. Senza questi ragazzi il nostro Pese sarebbe decisamente più vecchio e avrebbe minore capacità di sviluppo. Senza il loro contributo futuro alla nostra società e alla nostra economia, anche il fardello del debito pubblico sarebbe ancora più difficile da sostenere». Quella di cui Napolitano parla con convinzione è una sfida per il futuro, una scommessa che tutti debbono impegnarsi a vincere.
Diritti e doveri. Uguali opportunità per i giovani italiani e per quelli che possono diventarlo, che non debbono «essere viziate da favoritismi. Occorre smontare la convinzione che la nostra sia una società nella quale le occasioni sono riservate solo a chi appartenga a certi ambienti, solo a chi abbia i contatti giusti». I «nuovi italiani» è necessario che non cadano nell’opinione pessimistica e abusata che le «famose raccomandazioni, parola che chi arriva in Italia impara troppo presto servano più dell’impegno personale». Bisogna che i giovani si impegnino, che studino mentre chi ha il compito di far funzionare l’ascensore sociale che è rimasto troppo a lungo bloccato, deve impegnarsi a rimetterlo in moto. «Lo Stato e le famiglie debbono credere e investire nell’istruzione, nell’educazione, nella formazione». E questo vale anche per i «nuovi cittadini italiani».

l’Unità 16.11.11
Italiani si nasce
di Luigi Manconi


E se il Presidente incaricato, Mario “super Mario” Monti, decidesse di stupirci? E se questo governo “tecnico”, nel mentre che assolve i suoi compiti tecnici, volesse realizzare una di quelle riforme europee, ma davvero europee, che il nostro infelice paese sembra destinato a rinviare all’infinito?
Se, in altre parole, quello che giustamente viene definito «governo del Presidente» ritenesse di ascoltare il messaggio che proprio ieri il Presidente della Repubblica ha inviato alla società e alla classe politica? Davanti a una rappresentanza di “nuovi italiani” (giovani stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza) Giorgio Napolitano ha invitato a considerare la «possibile riforma delle modalità e dei tempi per il riconoscimento della cittadinanza ai minori», a partire da quanto già emerso nel corso della «discussione del gennaio 2010 alla Camera dei Deputati». Perfetto. Perché non ascoltarle, quelle parole del Capo dello Stato? Siamo in una situazione di emergenza (non sull’orlo del baratro, ma dentro il baratro, come graziosamente dice Emma Marcegaglia) e il lavoro richiesto al nuovo governo è quello pesante e faticoso, e dall’esito incerto, di chi scava sotto le macerie per trovarvi tracce di vita. Ma, come c’è stato detto e ridetto, lo scopo è realizzare su ciò che resta le condizioni della ripresa e della crescita. E la crescita ha bisogno, come il pane, di energie nuove e di nuove intelligenze. Ha bisogno di volontà di emancipazione e di disponibilità al rischio e all’innovazione. Dove trovare tutto ciò? Nelle grandi potenzialità di cui dispone tuttora la nostra comunità nazionale, mortificata ma non vinta, e in quel mezzo milione di «nati in Italia e ancora giuridicamente stranieri», in quei 700mila che frequentano le nostre scuole, ovvero in quei tanti che si sentono cittadini italiani «nella vita quotidiana, nei sentimenti, nella percezione della propria identità». Insomma, «senza questi ragazzi il nostro Paese sarebbe decisamente più vecchio» (Napolitano). E può, un paese vecchio, crescere? La folle distopia (l’incubo, il sogno negativo) di leghisti, xenofobi e isolazionisti che il governo Berlusconi ha blandito l’Italia come piccola “patria” fondata sulla politica dei respingimenti ha contribuito significativamente alla nostra decadenza nazionale: quella di una società ridotta a fortezza (peraltro agevolmente penetrabile) che presidia una popolazione tendenzialmente sedentaria e senescente, immobilista e inerte. Per questo, ora che gli «imprenditori politici dell’intolleranza» sono tornati all’opposizione, per leccarsi le ferite di un ventennio totalmente fallimentare, ora finalmente è tempo di cambiare la legge sulla cittadinanza. La quale potrebbe rappresentare, oltre che un atto di civiltà giuridica, una fondamentale “riforma economica”. Sì, propriamente economica, in quanto capace se accompagnata da un’intelligente politica dell’accoglienza di incentivare sviluppo e investimenti, risorse fresche e nuovo lavoro; e in grado di ampliare il sistema della cittadinanza, la sua capacità di tutela e, di conseguenza, la sua possibilità di produrre ricchezza. Perché questo è il punto: quando si parla di rigidità del mercato del lavoro, la pigrizia intellettuale e politica sembra incapace persino di cogliere come altre forme di rigidità immobilizzino il nostro sistema. L’attuale normativa sulla cittadinanza ne è un esempio, ancor prima che iniquo, ottuso: una legge pensata per una società in cui gli stranieri presenti si riducevano a poche decine di migliaia. Ora che la percentuale di Pil prodotta dal lavoro di milioni di stranieri viene valutata intorno all’11%, una razionale legge sulla cittadinanza può costituire un’importante leva sociale ed economica. Perché non crederci?

La Stampa 16.11.11
Migranti
Domani s’inaugura a Genova il museo di quelli che sognavano di essere italiani
29 milioni. È il numero di italiani che con moto quasi biblico lasciarono il loro Paese per trasferirsi a New York e in Argentina
di Domenico Quirico


Ci sono musei che sono costruiti con sapienza, eleganza, erudizione. Scintillano, ammaliano. E ci lasciano freddi, le bacheche gli oggetti i capolavori non fanno rivivere l’intimo di un uomo, la vita segreta di un cuore. E altri, invece, che si mettono insieme con rabbia, cedendo al grido della Furia che si fa lodevolmente sirena, dove la potenza apparente del Male risalta senza camuffamenti, dove i vinti, gli assassinati hanno per vendicarsi una prima arma: la memoria.
Da quei musei, inspiranti come sono al dissidio, al dubbio se ne esce consapevoli, pronti al corpo a corpo con la realtà che sta fuori per afferrarla e battersi, a viso aperto; e trasformarla.
La nuova sezione del benemerito Museo del mare a Genova dedicata alla migrazione, che si inaugura domani, appartiene appunto, e con lode, a questa schiera. Farà discutere: merito encomiabile.
Gesto di coraggio, davvero, inchiodare, trivellare raspare una materia così rovente, in cui l’attualità irrompe, prepotente, nelle sale, si può dire le prolunga e moltiplica. Perché le migrazioni descritte così minutamente fin quasi a diventar vive, a fianco e dentro il visitatore, non sono solo quelle italiane; quelle cioè dell’evo di De Amicis: «ascendon la nave/ come si ascende il palco della morte/ vanno carne da cimitero/ vanno, ignari di tutto ove li porta la fame/ in terra ove altra gente è morta», cantava l’autore del «Cuore». Che abbiamo, forse un po’ sveltamente, rincattucciato tra gli encomiatori di una Italietta borghese e caritativa e fu invece vigoroso reporter di infamie sociali come appunto la emigrazione.
Il Museo del mare con estensione implacabile connette a questo esodo moderno (29 milioni di italiani verso il Plata, New York, il mondo; fu davvero moto biblico) quello nuovo e altrettanto prepotente che rimonta dal Sud verso l’Europa, verso di noi scavalcando il Mediterraneo. Barche continuano ad ammucchiar miseria, povera gente che vi si stringe perché si adatta a tutti i vani come l’acqua, ieri lombardi, veneti, cafoni del nostro Sud, oggi senegalesi, tunisini, eritrei, fame e coraggio di tutti i tempi e di tutti i paesi. Gente che conosce la tristezza dei suoli miseri, la melanconia delle terre che sono ricche del loro male. Sì, alla fine un popolo solo: a Ellis Island e a Lampedusa, alla Boca e a Gran Canaria, gente, tutta, i clandestini africani e i nostri bisnonni, costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente sotto l’artiglio della disperazione.
E questa sacrosanta mescolanza sconnette, se non si è ciechi, il pregiudizio: esser cioè la nuova migrazione altra cosa che quella nostra. Sì, questo sarà un museo che racconta uomini, le loro tristezze, melanconie, stupefazioni. Uomini purificati dal dolore.
Come spiega il direttore del «Galata», Pierangelo Campodonico, «Genova ha un debito con l’emigrazione»: perché fu con i soldi dei veneti, dei piemontesi, dei lombardi che partirono per l’America, che gli armatori di qui, i Boccardo, gli Ellero, i Virgilio, i Lavarello, finanziarono l’oneroso passaggio dalla vela al carbone, dal legno all’acciaio, modernizzarono flotte e riempirono le saccocce svuotate dalla crisi, quell’altra, di fine Ottocento.
I migranti di allora erano merce da spolpare, come quelli di oggi. Sensali li rastrellavano nelle terre della fame, che fu all’inizio il Nord e poi, dopo, il Sud; li portavano a Genova dove sudici alberghi (il museo ricostruisce un vicolo nella zona di Brignole) perfezionavano il saccheggio prima dell’imbarco. Tanto che nei mielosi baedeker per l’emigrante scritti da intellettuali alla moda come Paolo Mantegazza si suggeriva di dormire all’aperto, per tenersi lontani dall’angiporto. Chissà se gli diede giudiziosamente retta un certo Rodolfo Guglielmi destinato, laggiù, a diventare Rodolfo Valentino.
Poi era la nave, e il mare. Per duemila espatrianti pigiati in terza classe (maschi e femmine, anche gli sposati, separati ogni sera e presidiati dal marinaio più brutto, i capitani non volevano storie di gelosie, amore e coltello): come racconta ancora lui, De Amicis, in un memorabile reportage. Vecchi bastimenti riadattati o affittati con il time-charter: apprezzerebbero l’ingegno nel «ridurre i costi» gli imprenditori del nuovo traffico, i passeur tunisini dagli stipati barconi a mille euro il posto.
Partivano sognando il paese della cuccagna, l’eldorado perché l’altro mondo era un mondo rovesciato dove essere non più servi, mezzadri, badilanti ma padroni («anderemo in Merica/ in tel bel Brasil / e qui i nostri siori / lavorarà la terra col badil! » irrideva giocosa una canzone trevigiana). Andarsene era dunque fare la rivoluzione, come i giovani magrebini che abbandonano le loro terre infette da dittature troppo recenti, per vedere l’eldorado europeo.
Il mare: vissuto nelle viscere di questi cetacei-cellulari di inizio Novecento e sul ponte dei barconi di Lampedusa (uno è esposto nelle sale), non è quello epico di Conrad o di Hugo ma solo paura angoscia morte. Come una marea che ritirandosi lascia una lunga linea nera di alghe e di meduse morte, ecco gli oggetti raccolti dentro le barche: un Corano, una scarpa, un biberon. Segni di gente che non conosciamo, numeri, non persone.
La parte del museo dedicato all’immigrazione è fitta anch’essa di «cartoline di viaggio», scritte da uomini del Sud del mondo che narrano la loro odissea. E poi foto di Uliano Lucas (di 40 anni fa! Quanto è antica questa Storia) e le istantanee del «team donna fotografa» di Giuliana Traverso con i volti di una Genova che gli stranieri hanno già silenziosamente mutato: come la ragazza africana che vende la focaccia! E poi una classe composta dove gli allievi leggono i temi (quest’anno che gli allievi stranieri saranno un milione). E c’è perfino la cucina migrante del «gastronomade» Vittorio Castellani.
Alla fine del percorso, una serie di nicchie, quasi confessionali da «Grande Fratello»: dove rispondere a sei domande sull’immigrazione. Per scoperchiare i luoghi comuni, per rivelare soprattutto a noi stessi se abbiamo capito, se abbiamo asciugato quella colpa terribile: la durezza, il disprezzo, il rifiuto di capire, il piacere di umiliare, di abbassare ai propri occhi altri uomini.

l’Unità 16.11.11
Il Pd: stop a Letta «La discontinuità aiuterà Monti»
Bersani ribadisce nei colloqui con Monti e Napolitano la disponibilità del Pd a sostenere un governo tecnico e che segni una netta «discontinuità». Finocchiaro: «La candidatura di Amato non è nostra».
di Simone Collini


«Noi chiediamo discontinuità e siamo anche convinti che la presenza di politici rischi di portare tensioni all’interno del nuovo esecutivo». Dopodiché, Pier Luigi Bersani ha anche sollecitato tempi rapidi per la fine della crisi e assicurato a Mario Monti: «Non saremo certo noi a porre ostacoli alla formazione del suo governo». Ma la richiesta di una squadra «totalmente nuova» e quindi l’implicito no a Gianni Letta, il leader del Pd l’ha esplicitata sia nel colloquio a Palazzo Giustiniani con il presidente del Consiglio incaricato che in quello, avuto poco più tardi al Quirinale, con Giorgio Napolitano. Due incontri a cui Bersani è andato ben sapendo di doversi muovere lungo uno stretto crinale, avendo l’esigenza da un lato di convincere i suoi interlocutori che sarebbe «un errore» considerare la presenza di politici come una garanzia di tenuta, e dall’altro di dimostrare che il suo partito è pronto a dare «pieno e convinto sostegno» al nuovo governo senza porre «termini» dal punto di vista temporale.
SÌ A UN GOVERNO TECNICO
Per questo Bersani, accompagnato da Anna Finocchiaro e Dario Franceschini, ha ribadito nell’incontro di primo mattino a Palazzo Giustiniani che il suo partito è favorevole a «un governo di autorevole e forte caratura tecnica, non per sostenerlo meno, ma per sostenerlo meglio». Un diverso profilo renderebbe infatti più complicato, secondo il leader del Pd, avere un’ampia maggioranza in Parlamento e una compagine governativa che sia al riparo dalle fibrillazioni che possono essere innescate tra partiti che si sono aspramente combattuti fino all’altra settimana.
Anche la presenza di Gianni Letta, caldeggiata dal Pdl, non necessariamente renderebbe più tranquilla la vita del nuovo esecutivo, anzi. E questo, al di là del fatto che una simile ipotesi farebbe già mancare il sostegno di un settore del Parlamento, cioè i deputati e i senatori dell’Idv (e già Antonio Di Pietro mette in chiaro che in ogni caso «l’alleanza sui programmi e il patto di Vasto non sono assolutamente in discussione»).
IL GIALLO LETTA-AMATO
Non a caso, quando Bersani è andato al Quirinale per parlare con Napolitano del colloquio avuto con Monti e da fonti parlamentari è stato fatto trapelare il via libera dei Democratici all’entrata di Gianni Letta e Giuliano Amato, dal quartier generale de Pd è partita una secca smentita: «Il Pd sostiene pienamente il governo Monti ma smentisce nel modo più netto la notizia». Anna Finocchiaro ha messo in chiaro che «la candidatura del presidente Amato non è del Pd». Quanto a Letta, al Nazareno spiegano che non è una questione personale e anzi ricordano che Bersani ne fece l’elogio dal podio dell’assemblea di Confindustria al suo primo discorso da ministro dello Sviluppo economico. «È necessario avere discontinuità è stato però il ragionamento di Bersani e poi non è portando elementi politici nel governo che si garantisce solidità, anzi».
ANCHE RIFORME DI CIVILTÀ
Il governo, ha detto il leader del Pd a Monti, va messo al riparo da ogni possibile fibrillazione proveniente dai partiti, visto che si dovrà affrontare l’emergenza economica ma bisognerà anche avviare riforme istituzionali (riduzione del numero dei parlamentari e Senato federale) e approvare una nuova legge elettorale. «E poi servirebbero delle riforme di civiltà», ha detto Bersani a Monti parlando della necessità di «dare all’Italia un volto nuovo in Europa non solo dal punto di vista economico». Un esempio messo sul tavolo dal leader del Pd è l’approvazione di una legge che dia la cittadinanza ai bambini che nascono in Italia da genitori stranieri.
Il no ai politici insomma resta, e Bersani in serata ha ricevuto rassicurazioni sul fatto che Gianni Letta non farà parte della squadra. Ma queste sono ore frenetiche, in cui tutto può cambiare. E anche l’ipotesi di un secondo tempo, con un rimpastino nel quale potrebbe entrare l’ex sottosegretario di Berlusconi, non è escluso. A quel punto? Nel Pd si chiude il discorso con un aperto «vedremo». «Il Pd non ha posto pregiudiziali o veti, non saremo noi a impedire la formazione del governo Monti», dice Rosy Bindi. «Non c’è il minimo, seppure impalpabile ostacolo da parte del Pd», insiste Finocchiaro. Come dicono entrambe, «serve discontinuità rispetto al precedente esecutivo» e come sottolinea la presidente del Pd, l’ex sottosegretario di Berlusconi «rappresenta più di altri la continuità». Ma i Democratici non arriveranno al punto di far saltare l’operazione. Spiega Enrico Letta: «Il Pd ha confermato in questi giorni di essere un pilastro per l’uscita dell’Italia dalla crisi e sostiene compiutamente il lavoro del presidente della Repubblica e del senatore Monti».
I nomi del nuovo governo si sapranno questa mattina. Ci vorrà più tempo invece per capire come il nuovo esecutivo affronterà i temi del lavoro e anche come imposterà le relazioni con i sindacati. Viste le prime mosse, nel Pd prevale la fiducia che Monti sceglierà il modello dell’accordo del 28 giugno, non quello «tendente a dividere» del governo Berlusconi, e si aspetta la convocazione in tempi brevi, dopo l’insediamento, di un tavolo tra le parti sociali.

Corriere della Sera 16.11.11
La grande trattativa e il «no» di Bersani
Ma il Cavaliere: Letta sarebbe di grande aiuto a Monti. E anche Amato

di Francesco Verderami

ROMA — «L'avevo detto più volte a Della Valle e Montezemolo», e l'ha detto anche a Monti appena l'ha incontrato nei panni di presidente del Consiglio incaricato. Così racconta Berlusconi, «gli ho detto di averlo pensato al mio posto e mi è venuto male. Chi pensa che al governo si possa operare come in una azienda, si sbaglia: provare per credere». E l'ex commissario europeo lo sta provando, forgiato dalla trattativa sulla compagine ministeriale che per una volta non è (solo) una questione di nomi ma un nodo politico. Un nodo che alla vigilia della presentazione della lista al Quirinale non è stato sciolto, perché la presenza o meno di Gianni Letta oltre che di Amato nell'esecutivo, produrrebbe scenari e reazioni diverse negli schieramenti.
Ecco il motivo delle frenetiche consultazioni tra esponenti del Pdl, del Pd e del Terzo polo, l'incontro al Quirinale tra il capo dello Stato e Bersani: un faccia a faccia difficile, nel corso del quale il leader dei Democratici ha spiegato a Napolitano quali sono le colonne d'Ercole oltre le quali non può portare il suo partito. Il Cavaliere è a parte delle trattative, se spiega che «il capo dello Stato e il premier incaricato sono favorevoli alla presenza di Gianni Letta nel governo. E non è vero che Bersani è contrario. Il problema glielo pongono una parte del Pd e Di Pietro». Perciò il leader dei Democratici — dopo averlo detto a Monti — ha ribadito i termini della questione a Napolitano.
A parte il fatto che il Pd «non reggerebbe un segno di continuità con il governo Berlusconi», e che l'Idv «con Letta nell'esecutivo non appoggerebbe più Monti», Bersani contesta il fatto che «Amato sia considerato uno dei nostri». E non può ricercare un alter ego di Gianni Letta nel partito, per evitare uno scontro interno. La preoccupazione maggiore è la collocazione dell'ormai ex sottosegretario, dato che la delegazione del Pdl è stata chiara con Monti alle consultazioni: «È necessaria la pari dignità tra Amato e Letta». E se il primo va agli Esteri...
L'incubo di Bersani è che il braccio destro di Berlusconi possa finire alla Giustizia. E comunque teme che Monti si possa avvalere dei poteri garantitigli dalla Costituzione, inserendo Letta nella lista dei ministri, e costringendo così il Pd a subire la decisione, visto che — per usare le parole della Bindi — «noi non poniamo condizioni o veti».
Se è vero che il caso ha imposto un rallentamento dei tempi alla nascita del governo, il professore bocconiano non è parso scomporsi. Anzi, al termine delle consultazioni ha fatto un elogio dei suoi neocolleghi: «Ah, le fatiche della politica», ha esclamato. E in quel commento c'era tutta la comprensione di chi vedeva per la prima volta in presa diretta il lavoro di macchina dietro le quinte. Aveva già avuto modo di dire che «per il bene del governo» è favorevole alla presenza di Letta e Amato nel suo gabinetto: «Amato è una mia proposta, quanto a Letta è un amico».
Il vertice del pomeriggio tra esponenti del Pdl e del Terzo polo, terminava però con una fumata nera. Bersani, furibondo, non aveva voluto prendervi parte ma per telefono aveva ribadito la propria contrarietà, offrendo così una sponda a quanti — negli altri partiti — avevano interesse a sfruttare il veto. Tutto fatto, quindi? Niente affatto. Perché a tarda sera il nodo politico non era stato ancora sciolto, e i nomi di Letta e Amato comparivano e scomparivano sulla lista dei ministri, dove per ogni dicastero ci sono ancora adesso due opzioni: «Tutte personalità di alto profilo — secondo il Cavaliere — che incontrano il nostro consenso».
È chiaro che a Berlusconi interessi Letta «e spero che alla fine faccia parte del governo. La questione è ancora aperta, ma credo che Gianni sarebbe di grande aiuto a Monti, come lo stesso Amato. Hanno una caratura, un'esperienza che sarebbe opportuna. La loro presenza rafforzerebbe il nuovo esecutivo per la capacità che hanno di comprendere la politica». Perché «Monti può fare bene», ma sia il futuro premier che i tecnici che faranno parte del governo avrebbero bisogno — secondo il Cavaliere — di una guida: «Se ne accorgeranno. Piombano in un mondo che non conoscono». Ecco il motivo per cui «Letta e anche Amato» sarebbero loro d'aiuto. Chissà se l'endorsement di Berlusconi porterà bene ai due, ma «entrambi — dice — sarebbero utili a Monti. Eppoi Gianni è davvero un uomo delle istituzioni, più di quanto non lo sia Giuliano: non è mai stato eletto né iscritto a partiti, ed è soprattutto un uomo di unione».
Il Cavaliere di lotta e di elezioni sembra scomparso per lasciare posto al Cavaliere di governo, anzi di governissimo: «Auguro a Monti di riuscire nel suo compito. La difficile giornata sui mercati ha dimostrato che non ero io il problema, anche se con le mie dimissioni sono convinto di aver fatto la scelta giusta. Non oso pensare cosa avrebbero detto se ci fossi stato ancora io a Palazzo Chigi, cosa sarebbe successe nel Paese, quali pressioni ci sarebbero state su di me e sul mio partito». Smessi i panni del presidente del Consiglio, sembra voler indossare quelli del consigliere del «presidente Monti, un mio amico, una persona intelligentissima e stimatissima». Sembra, appunto: «Per quanto mi riguarda, andrò a sedermi al mio scranno di deputato. Chi è stato al governo sa che le leve sono in Parlamento. E io sarò lì. Ci sono tante cose da fare: la legge elettorale, la riforma delle intercettazioni»...

Repubblica 16.11.11
Bersani al Colle per spiegare il no a Letta "Il nostro mondo non può accettarlo"
Lite Bindi-Casini: "Lui è il berlusconismo". "Sei irrispettosa"
Il partito smentisce un via libera, ma non pone veti e assicura di voler dare pieno sostegno a Monti
di Giovanna Casadio


ROMA - «Non l´accetterebbero i movimenti, i nostri militanti, Di Pietro e Vendola, mezza società civile di sinistra...». Non accetterebbero Gianni Letta nel governo Monti tutti quei mondi che fanno riferimento al centrosinistra. Sono le 12,40 e Bersani al Quirinale spiega al presidente Napolitano le ragioni del "no" del Pd al sottosegretario, eminenza grigia del governo di Berlusconi. Aggiunge pure che non c´è nessuna intenzione offensiva, che fu proprio lui, Bersani, nel 2006, quand´era ministro dello Sviluppo economico, in un´assemblea di Confindustria a chiamare gli applausi per Gianni Letta seduto in platea. Per dire, che non è mancanza di rispetto per la persona. Però i Democratici vogliono un governo di tecnici: «La nostra intenzione è sostenere un esecutivo a forte caratura tecnica - ha detto Bersani uscendo dalla consultazione con Monti alle 10,30 di ieri - E non per sostenere meno ma per sostenere meglio». Ma è una giornata di fibrillazioni e colpi di scena, in cui due cose restano ferme: la richiesta di «discontinuità» da parte del Pd e il timore di dovere ingoiare il "rospo" in nome del senso di responsabilità.
Poco prima delle 13 l´agenzia Ansa lancia la notizia che il Pd ha dato il via libera alla coppia Letta-Amato nel governo. Dal partito piovono smentite: «È una trappola, una polpetta avvelenata. Il Pd non ha dato affatto il suo assenso». Nella sede del Nazareno c´è una riunione in corso, e i colloqui si susseguono. Rosy Bindi in un dibattito dichiara che «non ci sono veti o pregiudiziali su Letta», però ci sono persone che più di altre rappresentano la continuità con il berlusconismo. Letta rientra in questa fattispecie: «Il Pd chiede discontinuità». Casini, il leader dell´Udc, protesta: «La presa di posizione di Bindi è gravemente irrispettosa». Controreplica di Bindi: «Ma Gianni Letta ha fatto un passo indietro».
In un´ennesima telefonata tra Bersani e Di Pietro la linea del "no" ai politici e a Letta viene rafforzata. Il leader Idv fa sapere: «Non credo proprio che Gianni Letta sarà nel governo, Monti è troppo intelligente per cadere in un trabocchetto, perché il motore della macchina tornerebbe nelle mani del clan berlusconiano». I Democratici il problema del raccordo tra governo di tecnici e Parlamento se lo pongono, eccome. Si pensa a una cabina di regia, a un "filtro" tra il cdm che sarà e i gruppi parlamentari. C´è già chi pensa a rafforzare la squadra dei vice capigruppo democratici che dovranno raccordarsi con ministri e vice. Buttando ancora oltre lo sguardo, si ragiona ieri anche sulle commissioni e sulle presidenze: il Pd non chiederà cambiamenti, neppure in quelle commissioni guidate dai leghisti (esteri, ambiente, bilancio, attività produttive), che saranno all´opposizione. Roberto Rao, udc, su twitter lancia l´ashtag Tt, "Tutti tecnici". Finocchiaro precisa: «Amato non è il candidato del Pd», a proposito della caratura tecnica dei politici.

Repubblica 16.11.11
Il messaggio a Monti
I democratici fissano i paletti programmatici. Tra i temi "non negoziabili" l´articolo 18
E Pier Luigi avverte il Professore "Sul welfare stop alla linea Sacconi"
di G. D. M.


Se verrà seguita la strada dell´accordo di giugno che ha coinvolto la Cgil, allora noi ci staremo. Sennò per noi diventa impossibile darle retta

ROMA - «Se la linea che seguirà, sarà quella dell´accordo del giugno scorso con la Cgil, allora noi ci staremo. Se invece pensa di accogliere la linea Sacconi, per noi diventa impossibile darle retta». Tra i punti più spinosi che il governo Monti dovrà affrontare ci sarà la riforma del mercato del lavoro e forse un intervento sull´articolo 18. Pierluigi Bersani ne è consapevole e nell´incontro di ieri con il premier incaricato ha messo subito sul tavolo le sue carte. Lanciando un preciso segnale.
Nell´accordo siglato 5 mesi fa con i sindacati e Confindustria, il principio della concertazione è stato deciso. E infatti la Cigl ha sottoscritto il patto pagando anche la frattura con la Fiom. «Se lei vorrà intervenire su quella materia - ha spiegato il segretario Pd - va fatto in quel modo». A quel punto si può discutere e l´unico aspetto da salvaguardare, concerne la scelta del ministro del Welfare che dovrà essere compiuta con un «un po´ di accuratezza».
Del resto il nodo-lavoro costituisce un tema delicato per il Pd. E il segretario democratico non vuole rimanere imbrigliato su un terreno minato per il centrosinistra. Ne ha parlato anche nel vertice segreto di lunedì tra i leader della nuova maggioranza: Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini.
In quella occasione l´ex ministro della Giustizia e il numero uno del Terzo polo hanno soprattutto messo alle strette Bersani sul nome di Gianni Letta. L´oggetto del colloquio era in primo luogo la "squadra". La preferenza per la presenza di un dirigente del Pd era venuta in maniera esplicita e reiterata dallo stesso Mario Monti. Il presidente della Bocconi voleva nella sua "squadra" Enrico Letta, il vicesegretario. Ma questa candidatura si è scontrata con il niet ai politici da parte del suo partito.
La resistenza contro ministri espressione dei partiti e soprattutto del passato è stato confermato con nettezza da Bersani. «Alla fine c´è la Costituzione», ha detto lasciando aperto uno spiraglio. Vuole dire che la Carta prevede che sia il premier a scegliere il suo gabinetto. Tanto più in questa fase, con un governo che come dice Massimo D´Alema «non è frutto di un accordo politico».
Da lunedì sera però un accordo più stretto ha fatto passi avanti. L´impegno politico chiesto da Monti e Napolitano ha preso forma nel vertice notturno della nuova maggioranza. Si è parlato anche di misure anti-crisi. A maggior ragione con l´appuntamento aperto di Pd e Pdl che hanno visto Monti per le consultazioni solo ieri mattina. Alla fine Casini e Alfano hanno capito che il Partito democratico non si tirerà indietro comunque. Ma l´avvertimento di Bersani è arrivato forte e chiaro: «Se c´è un cambio vero degli uomini al governo questo gioverà anche al cammino di Monti». Ma la questione che Bersani seguirà con più attenzione è proprio la riforma del mercato del lavoro.

Repubblica 16.11.11
la linea Maginot del leader Pd e i guai del Pdl
di Claudio Tito


Alfano non ha difeso più di tanto l´ingresso di Letta temendo le correnti del partito

«Il governo è più forte senza politici». La battaglia condotta dal Pd contro l´ingresso di Gianni Letta e Giuliano Amato nell´esecutivo Monti si è basata su questa considerazione. Una frase che Pierluigi Bersani ha ripetuto costantemente nelle ultime 48 ore. I democratici hanno dunque alzato la loro linea Maginot per evitare di dover sostenere un ministro che rappresenta il principale collaboratore di Silvio Berlusconi.
Sul ruolo del sottosegretario uscente e di Amato, però, si è giocata una partita che ha provocato qualche scossone al nascente gabinetto tecnico. La paura di Napolitano e dello stesso premier incaricato si fondava sul rischio di gettare nella mischia parlamentare un governo senza "difesa politica". Per Bersani, però, l´esigenza di dare un segno di effettiva «discontinuità» alla nuova fase politica costituiva l´unico e inderogabile atout di fronte all´elettorato di centrosinistra che non avrebbe compreso la partecipazione ad una responsabilità comune con uno dei principali esponenti del mondo berlusconiano. Il segretario pd aveva bisogno di non arretrare di fronte alla sua "resistenza" proprio per giustificare le larghe intese davanti a tutto il partito. L´assenza di Letta, insomma, veniva considerata la precondizione per rendere più agevole il percorso di adesione del centrosinistra ad un esecutivo che molto probabilmente sarà chiamato ad approvare una serie di misure decisamente impopolari anche se indispensabili per evitare il collasso economico del Paese.
Del resto, l´idea che Letta potesse rappresentare una sorta di "deus ex machina" in grado di blindare politicamente Monti e dare prestigio interno e internazionale al nuovo gabinetto, non convinceva i democratici e nemmeno gli uomini del Pdl. Il segretario Alfano non ha fatto nulla per difendere il braccio destro del Cavaliere. Non lo ha fatto perché il clima che si è ormai creato nel suo partito sta diventando insostenibile. Le probabilità che il Popolo delle Libertà vada incontro ad una vera e propria diaspora stanno progressivamente aumentando. La guerra delle correnti sta prevalendo sulla precedente linea di condotta interna: quando Berlusconi decideva di fatto ogni cosa. Adesso gli "scontenti" sono la nota principale del Pdl. E indicare un solo esponente per la futura compagine governativa equivaleva a provocare una sanguinosa battaglia intestina. Il pressing dei colonnelli su Alfano, infatti, è stato costante e lo ha indotto a non sponsorizzare Letta con la forza che anche Napolitano si aspettava. Una difficoltà che lo stesso segretario piediellino ha esposto nelle conversazioni con il "collega" Bersani.
L´intesa raggiunta da Pdl, Pd e Terzo polo per un governo composto interamente da "tecnici", non cancella però tutti i dubbi che anche Napolitano ha coltivato sulla robustezza dell´esecutivo Monti. Gli ostacoli che dovrà affrontare alla Camera e al Senato restano tutti intatti. E molto dipenderà dalla lealtà dei gruppi parlamentari. I Democratici e l´Udc non potranno fare a meno di fornire il loro pieno sostegno anche in virtù di un progetto politico che per entrambi si baserà sul successo di questo governo. Ma per il Pdl il discorso è completamente diverso. Il futuro del partito berlusconiano si configura sempre più come una variabile. Le incertezze interne potranno riflettersi su Palazzo Chigi. A meno che il ruolo di Casini e Fini non si trasformi progressivamente in quello di catalizzatori dei moderati del centrodestra. Anche a livello parlamentare.
In questo quadro, il capo dello Stato e il presidente del consiglio incaricato hanno comunque deciso di accelerare sulla formazione della squadra accogliendo le garanzie fornite da Bersani e Casini. Monti probabilmente si appoggerà in primo luogo su di loro sapendo che ormai il tempo a disposizione è ridottissimo e i mercati - molto negativi ieri - attendono oggi una risposta concreta.

La Stampa 16.11.11
Bersani nervoso teme di perdere Di Pietro e Vendola
Il veto su Letta per tenere unita l’alleanza
di Carlo Bertini


«Sarebbe una forzatura e un errore, spero lo capiscano in tempo perché sarebbe un problema per tutti. Non c’è una questione personale nei riguardi di Gianni Letta, ma il problema è quello che rappresenta, cioè la continuità con il governo Berlusconi»: alle nove di sera dopo una giornata frenetica, Bersani non è dell’umore migliore e con i suoi dirigenti analizza le conseguenze che «la prova di forza» di mettere nel governo Letta comporterebbe non solo per il Pd, ma per il governo che sta per nascere. E quindi anche se non intende arrivare al punto di ritirare il suo sostegno a Monti, il segretario punta i piedi. In nottata si sparge la voce che Letta e Amato siano fuori dal governo e se così fosse sarebbe il risultato di un braccio di ferro durissimo. Di un Pd consapevole che deve dire di sì comunque, ma che la presenza di Letta comporterebbe una serie di conseguenze: uno strappo con tutta una serie di mondi vicini e collaterali; il no alla fiducia di Di Pietro finora convinto a fatica; l’apertura di fronti polemici con Vendola, con la sinistra e con quella fetta di elettori non disposta a ingoiare un boccone del genere. Con un Pd più esposto e quindi meno in grado di parare gli attacchi esterni e interni al governo. Perché i Democrats considerano Letta «il premier ombra» di Berlusconi e sospettano che questa forzatura sia alimentata «da chi vuol far saltare tutto», cioè dal Pdl. Per questo fino a tarda notte i vertici del Pd insistono nella moral suasion dando pure il placet all’ingresso di Catricalà come sottosegretario alla presidenza del Consiglio per sminare il terreno da Letta.
Ma se non bastasse, il tam tam di un tandem di Letta e Amato complica le cose, perché l’ex premier non viene considerato espressione del Pd. Come spiega uno dei pochi che sta seguendo da vicino la partita, «se vogliono, mettano anche Giuliano, ma sia chiaro che non sarebbe attribuibile a noi, non è che con lui dentro ci sentiamo più rassicurati». Una presa di distanze, della serie «certo non va lì a difendere gli interessi del partito» confermata anche da un ex diessino di lungo corso, convinto che «sia Amato che Letta sarebbero entrambi una garanzia per Berlusconi...». Per tutto il giorno il segretario tiene i contatti con lo stato maggiore, Letta, Bindi, Veltroni, Fioroni e i capigruppo che lo hanno accompagnato di mattina all’incontro con Monti. Al quale conferma la ferma richiesta di «discontinuità». Con parole chiare espresse dal «podietto» di Palazzo Giustiniani: «Abbiamo confermato la nostra intenzione di un sostegno a un governo a forte caratura tecnica. E non per sostenere meno, per so-ste-ne-re meglio», scandisce bene il segretario alzando la voce. Mezz’ora dopo la situazione si aggroviglia, perché le agenzie attribuiscono al Pd un via libera a Letta e Amato proprio mentre escono dallo studio di Monti i vertici del Pdl. Passano dieci minuti e dal partito arriva una secca smentita e a quel punto Bersani sale da solo al Quirinale per manifestare a Napolitano tutte le sue preoccupazioni. Su una questione che fin da sabato sembrava chiusa col passo indietro di Letta e che invece d’improvviso si è riaperta. Creando polemiche anche con i centristi, perché quando Gianni Letta si chiude in uno studio con Fini e Casini e Alfano per il Pd è la conferma che loro non si mettono di traverso. E infatti dal Terzo Polo filtra la condizione che «se ci sono Amato e Letta ne deve entrare anche uno nostro». Esce pure l’ipotesi che Amato da solo possa garantire tutti, ma poi sfuma.
E nella confusione generale tutti camminano sulle uova: a Porta a Porta la Bindi prima dice che il Pd non mette «veti, né pregiudiziali» facendo seguire a queste parole la richiesta di discontinuità; poi frena e dice che «ci sono persone che più di altre rappresenterebbero la continuità». Casini a quel punto si stizzisce e prende le difese di Letta. Insomma un bailamme, in cui alla fine resta solo una nota di buonismo di Bersani, che propone a Monti «una legge per la cittadinanza ai bimbi di immigrati nati in Italia».

l’Unità 16.11.11
Apprezzata da tutti la consultazione. Il premier chiede la più ampia collaborazione
Il via libera delle parti sociali
Novanta minuti con Mario Monti che «ascolta attento». Una ventina di rappresentati delle parti sociali «appoggiano» il premier designato e si dicono disposte a «equi sacrifici».
di Massimo Franchi


Al tavolo affollato da una ventina di rappresentanti, le parti sociali danno «pieno appoggio» al presidente incaricato. Mario Monti ascolta «con attenzione», promette che «nessuna riforma sarà fatta senza riconvocare le parti sociali», ma non dà «indicazioni sul programma di governo». A Palazzo Giustiniani la lunga carovana arriva mentre Mario Monti è ancora al Quirinale per aggiornare Napolitano durante la pausa pranzo nelle consultazioni.
Alle 15 il presidente incaricato riunisce attorno al tavolo rettangolare coperto da una tovaglia color indaco una serie infinita di categorie. Un’ora e mezzo precisa in cui Monti apre, spiegando le ragioni dell’incontro e richiamando tutti alla gravità della situazione, e chiude, abbozzando le priorità e ringraziando del supporto. Nel mezzo prende appunti senza perdere mai l’attenzione, mentre gli interventi si susseguono senza interruzioni.
Poi inizia la lunga sfilata davanti a telecamere e taccuini. Sono ben sedici i rappresentanti che si presentano sotto le luci della ribalta.
Parte Raffaele Bonanni e dà lavoro ai colleghi delle agenzie annunciando che «Monti ci ha detto che ha raggiunto un’intesa con le principali forze politiche in modo da avere una consistente forza parlamentare che lo appoggia e che rapidissimamente sarà in grado di presentare la lista dei ministri». Per il resto il segretario della Cisl ha «insistito sul fatto che il rigore sia accompagnato da equità sociale», rilanciando l’idea di «un patto sociale tra governo e parti sociali per definire un itinerario per arrivare alla fine della legislatura».
La delegazione più corposa è quella delle imprese. A parlare per nove rappresentanti è Ivan Malavasi, portavoce di Rete imprese:
«Equità e rigore saranno le caratteristiche di questo governo, cercando nelle parti sociali l’appoggio e il sostegno per le riforme. Il professore punta alla costituzione di un governo che abbia un orizzonte temporale che è quello della legislatura, che sappia guardare oltre quella temporalità e ha sottolineato che ci sarà bisogno, non di lacrime e sangue, ma di sacrifici», ha aggiunto. Al premier incaricato Mario Monti «abbiamo detto che siamo disposti ad assumerci le responsabilità, in termini anche economici e, quindi, di sacrifici». Parlando anche a nome di Abi, Ania e Alleanza nazionale delle cooperative, Malavasi non ha potuto evitare la domanda di rito a Emma Marcegaglia, in piedi alla sua sinistra: «Farà il ministro?». «No», risponde lei sicura, spostando il microfono.
Susanna Camusso è voluta partire dell’«apprezzamento per l’invito di Monti, un gesto non istituzionalmente dovuto». Il segretario della Cgil ha spiegato come il professore «ci ha illustrato l’idea di lavorare su riforme in linea con la crescita». Su questa parola chiave, «crescita», Camusso ha voluto specificare bene il significato che ha per la Cgil, declinandola in questo modo: «La crescita deve partire dal lavoro, dalla riduzione della precarietà, da una politica industriale e, infine, da un rilancio delle infrastrutture». In quanto a risposte, anche il segretario della Cgil ha ammesso che Monti si è limitato «ad affermazioni di metodo, volontà, non di programma», rimandando al discorso alle Camere per ottenere la fiducia «il banco di prova per valutare» le proposte del premier designato.
Angeletti ha invece esordito ricordando come «la situazione sia più seria di quella che la stragrande maggioranza dei cittadini pensa». Per questo motivo la Uil si è detta «disponibile a discutere ogni riforma senza mettere alcun veto». Unico «laccetto» messo da Angeletti è un principio molto semplice: «Prima di parlare di modifiche alle regole per i lavoratori, applicarle a tutti».
La lunga carovana prende la via dell’uscita con una consapevolezza positiva. Come sintetizza il segretario dell’Ugl Giovanni Centrella: «Le forze sociali d’ora in poi saranno tenute in debita considerazione».

l’Unità 16.11.11
La vera chiave sarà il fisco Cisl e Cgil in contrasto
di Bianca Di Giovanni


Non un patto sociale (come vuole Bonanni), ma un patto di cittadinanza. Questo ha chiesto Susanna Camusso al presidente designato Mario Monti. Per la Cgil, insomma, bisogna ricostruire quel delicato rapporto tra cittadino e Stato, deteriorato alle fondamenta dal ventennio berlusconiano. Si riparte da lì. Ma proprio questo dato di partenza potrebbe essere il primo scoglio per il futuro governo Monti. Perché sul fisco, al di là delle quasi scontate convergenze, le posizioni dei due maggiori sindacati divergono profondamente. La Cisl punta dritta sulla delega fiscale presentata da Giulio Tremonti in Parlamento. Il suo cardine è «dalle persone alle cose», cioè dalla tassazione dei redditi a quella indiretta sui consumi. Per la Cgil questa scelta significa colpire in uguale misura (e quindi ingiustamente) ricchi e poveri. Quella stessa delega, poi, contiene incognite molto forti sul fronte dell’assistenza. E qui entra in gioco un altro scoglio. Forse per la prima volta a un tavolo istituzionale tra governo e parti sociali si è parlato di lotta alla povertà assoluta. Lo ha fatto Andrea Olivero, presidente Acli e convocato come rappresentante del Terzo settore. «Non c’è solo lo spread ha detto all’uscita Ci sono anche i poveri che aumentano, e le nostre associazioni non ce la fanno più a sostenerli. L’Italia è l’unico Paese d’Europa a non avere un sostegno per i poveri».
Così al menù del futuro fisco si aggiungerebbe un’altra voce, quella del reddito minimo di cittadinanza, oltre alle rischieste sindacali di sgravi fiscali per dipendenti e pensionati, e di nuove misure contro la precarietà. Berlusconi lascia al suo successore una montagna da scalare: quella dell’equità fiscale. E anche una scelta fondamentale sul come costruire questa equità. Non sarà facile con i conti in rosso. Ma la crescita potrebbe partire proprio da qui.

l’Unità 16.11.11
Il modello tedesco smentisce molte filosofie italiane
di Ronny Mazzocchi


In queste convulse giornate politiche colpisce positivamente il fatto che Mario Monti abbia voluto incontrare le parti sociali e gli altri corpi intermedi durante il suo giro di consultazioni. Incurante delle critiche di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi.
Mentre i due, pochi giorni fa, lo invitavano a lasciare perdere sindacati e associazioni industriali e professionali in quanto ormai scarsamente rappresentative, il nuovo premier ha voluto rimarcare la sua fiducia nel modello concertativo che rappresenta come hanno dimostrato anche recentemente sindacati e Confindustria un pilastro imprescindibile di un moderno sistema di relazioni industriali.
Lo ha fatto facendo esplicito riferimento alla Germania e indicandola come esempio di quella coesione capace di garantire allo stesso tempo pace sociale e crescita economica. Questo ritorno del gigante tedesco nel ruolo di modello da seguire ha dell’incredibile: fino a pochi anni fa la Germania era unanimemente considerata un malato terminale, bloccata da una struttura produttiva ancora largamente basata sulla manifattura, frenata da relazioni industriali profondamente corporative e oberata dai costi di un sistema di sicurezza sociale fin troppo generoso. Sicuramente a determinare questo repentino cambio di giudizio sulla Germania ha contribuito la caduta in disgrazia di tutti quei Paesi che, nell’ultimo decennio, erano stati indicati da molti come esempio da seguire, Irlanda e Spagna in testa.
Ma a colpire sono state senza dubbio le brillanti performance economiche che, almeno fino a pochi mesi fa, vedevano la Germania muoversi in controtendenza rispetto al resto dell’Europa sia per ricchezza prodotta che per posti di lavoro creati. Prendere come riferimento un modello sociale ed economico rende però necessario avere coscienza di quei pilastri fondamentali senza cui non si reggerebbe in piedi.
Innanzitutto andrebbe ricordato come nell’ultimo decennio la Germania ha provveduto ad una profonda ristrutturazione del proprio tessuto produttivo, delocalizzato le fasi meno intensive della ricerca e più intensive di lavoro a basso contenuto tecnico verso i paesi dell’Est Europa e anche verso il Nord Italia. Contemporaneamente, però, ha sviluppato sul proprio territorio nazionale grazie a massicci investimenti pubblici e privati i comparti più tecnologicamente avanzati delle stesse industrie, garantendosi così la permanenza in settori che altrimenti avrebbe dovuto abbandonare. Una strategia chiaramente antitetica a quella portata avanti ad esempio da Sergio Marchionne, che mira invece ad importare ciò che era già prodotto in Polonia la Panda negli stabilitmenti di Pomigliano.
A sostenere l’accumulazione di capitale e la continua innovazione tecnologica oltre alla diffusa rete di centri di ricerca pura ed applicata ha contribuito anche la peculiare forma di organizzazione del mercato del lavoro scelta dalla Germania. Mentre Italia e Spagna puntavano tutto sulla flessibilità esterna, pagando oggi un pesante prezzo in termini di disoccupazione e precarietà, le riforme introdotte da Schröder e poi rafforzate dalla Merkel hanno invece mirato ad accrescere la flessibilità interna alle imprese, mediante la variazione dell’utilizzo dell’impiego già presente nelle strutture produttive. Il vasto ricorso alla contrattazione aziendale è garantito però da forme di compartecipazione delle parti sociali alle decisioni delle imprese e dalle continue attività di training-on-the-job che i datori di lavoro, proprio per garantirsi la permanenza nei settori di frontiera, forniscono ai lavoratori, accrescendone il capitale umano. Basti pensare che, mentre in Germania la quota di lavoratori che può accedere a programmi di formazione nell’industria e nei servizi è prossima al 40%, in Italia siamo fermi ad un misero 17%. La progressiva perdita di centralità del contratto nazionale, da molti indicato come la chiave del successo tedesco, non è quindi l’origine, ma piuttosto la conseguenza del modello di sviluppo scelto a Berlino.
Mentre le classi dirigenti tedesche hanno deciso di accrescere la competitività puntando su produzioni ad alto valore aggiunto, sulla crescita del capitale innovativo e sulla flessibilità interna, nel nostro Paese ci si concentra ancora oggi su settori maturi o superati e si pretende di rilanciare l’occupazione e la produttività seguendo una strada diametralmente opposta, ovvero facilitando ancora di più i licenziamenti. Non vorremmo che la popolarità del modello tedesco in Italia sia il frutto di un equivoco: la Volkswagen non è la Wal Mart e le ruggenti fabbriche del Baden Württemberg non ricordano nemmeno lontanamente la desolante de-industrializzazione dell’Ohio.

La Stampa 16.11.11
La stima dell’Istat
«In Italia l’evasione vale 270 miliardi»


L’evasione fiscale in Italia, nel 2008, è stimata fra il 16,3% e il 17,5% del Pil (fra 255 e 275 miliardi) anche se manca una stima ufficiale che invece sarebbe necessaria. Lo sostiene il presidente dell’Istat Enrico Giovannini (nella foto), che ne ha parlato a Bologna ad un convegno sulla «compliance», ovvero la fedeltà dei contribuenti. «L’evasione - ha spiegato Giovannini - è diminuita in termini percentuali fino al 2007, poi è tornata a crescere, anche se è calata in termini relativi, perché è complessivamente calato il gettito. Si stima che ci sia il 30% di evasione in agricoltura, il 21% nei servizi e il 12% nell’industria, anche se ci sono settori, come il turismo, dove supera il 50%». Le soluzioni, secondo Giovannini, partono dalla stima precisa del fenomeno, ovvero il calcolo del cosiddetto «tax gap», cioè la differenza tra quello che dovrebbe essere il gettito e quello che è in realtà. «Non si può certo dire che i controlli siano pochi - ha aggiunto - è necessario però integrarli e metterli in comune perché ci sono un pò di schizofrenie, che sono comunque in via di superamento. Servono, quindi, un rapporto annuale sull’evasione che dia cifre scientificamente corrette, il miglioramento degli studi di settore, il tutoraggio dei grandi contribuenti, il drastico abbassamento del limite per la tracciabilità dei pagamenti e il rafforzamento del contrasto di interessi».

Corriere della Sera 16.11.11
Da Ciampi a Draghi e al neo premier
La classe dirigente a scuola dai gesuiti


ROMA — Lo stretto rapporto che unisce Mario Monti a Mario Draghi non ha come sfondo solo l'Unione Europea, l'alta finanza, i colossi bancari. Di mezzo c'è sant'Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù nel 1534. Monti è ex alunno dell'istituto milanese «Leone XIII» (studiarono lì Massimo Moratti, l'ex sindaco di Milano Gabriele Albertini e Gabriele Salvatores). Anche Draghi è un ex, ma del romanissimo Istituto Massimiliano Massimo, erede del Collegio Romano fondato nel 1551 e chiuso nel 1870, dopo la caduta del potere pontificio, dal nuovo governo sabaudo.
Un terzo personaggio completa il quadro di ex alunni approdati ad alti impegni istituzionali: Carlo Azeglio Ciampi. Negli anni 30 studiò al «San Francesco Saverio» di Livorno. Nel 1999, quando Ciampi venne eletto presidente della Repubblica, l'allora novantenne padre Angelo Matini, suo istitutore di greco, lo ricordò come un tipo timido ma ottimo portiere. Invece padre Uberto Ceroni, 89 anni, ex assistente spirituale del «Leone XIII», ha tuttora in mente un giovane Monti eccellente in tutte le materie tranne che in educazione fisica. Il contrario di Mario Draghi, atleta di punta della squadra di basket del «Massimo», maturità classica 1965 come Luigi Abete (sezioni diverse). Sia Monti che Draghi, come Ciampi, hanno conservato stili di vita e abitudini familiari assai simili nonché una solida fede, coltivata senza ostentazione, come insegnano i padri gesuiti. In un'intervista rilasciata a Radio Vaticana nel dicembre 2010 così Draghi spiegava il «metodo» gesuitico: ovvero far capire che «tutti noi al di là di quello che potevamo fare come scolari, al di là di quanto noi potessimo apprendere, avevamo un compito nella vita. Un compito che poi il futuro, la fede, la ragione, la cultura, ci avrebbero rivelato». Un «metodo» che a Roma si incarnò in padre Franco Rozzi, prima insegnante di greco e latino, preside del Classico, poi per anni assistente degli ex alunni. Gesuita severo, colto, esigente ma anche straordinariamente ironico.
Fino al V ginnasio Draghi studiò con Luca Cordero di Montezemolo e Cristiano Rattazzi. Nel 1966 si licenziarono il prefetto Gianni De Gennaro, capo dei Servizi segreti italiani, e monsignor Antonio Mennini, nunzio apostolico in Gran Bretagna. E fino alla I liceo Draghi studiò in classe con Giancarlo Magalli poi espulso dall'Istituto per aver tentato di evitare un pesante compito in classe sigillando i bagni nel corridoio, fingendo una improvvisa disinfestazione.
Sempre all'Istituto romano, in annate diverse, studiarono Francesco Rutelli, Paolo Cuccia, il francesista Alberto Beretta Anguissola, il direttore de «Il Fatto» Antonio Padellaro, Luigi Mastrobuono, neodirettore generale di Confagricoltura. Giuseppe De Rita, altro ex, ricorda sempre di aver assimilato una regola fondamentale: «Quando è necessario, si obbedisce perinde ac cadaver, come un cadavere, senza discutere...»
Paolo Conti

Corriere della Sera 16.11.11
«Diktat della finanza». Barricate sui giornali comunisti
di Alessandro Trocino


ROMA — Uno spettro si aggira per l'Europa, lo spettro del capitalismo tecnocratico, della dittatura delle banche, dell'imperialismo finanziario. In due parole, del governo Monti. Non era ancora finita l'esultanza per la caduta del Cavaliere — l'uomo contro il quale Alberto Asor Rosa aveva invocato, sia pure in chiave paradossale, il colpo di Stato —, che già a sinistra si alzava l'allarme per la tenuta della democrazia. E della politica. In prima fila i quotidiani comunisti Liberazione e Manifesto, a condurre una battaglia solitaria visto che la sinistra riformista ha scelto Monti senza esitazione. Ma al loro fianco, hanno trovato compagni di strada insoliti, ovvero i quotidiani della destra berlusconiana Foglio, Libero e Giornale e giornali leghisti come la Padania.
Sabato Liberazione spara in prima pagina un disegno di Mauro Biani che raffigura il successore di Berlusconi come «Goldman», l'uomo d'oro, con riferimento a Goldman Sachs, ovvero il novello «unto del Signore» alfiere di quelle correnti che portano dritte al «dirigismo tecnocratico» e ai «diktat affamapopoli». Il quotidiano diretto da Dino Greco intervista Alfonso Gianni, di Sinistra e libertà, che dà un'interpretazione autentica del «ni» di Nichi Vendola al governo, virando decisamente sul no a un esecutivo che «ha l'obiettivo di creare un nuovo corpaccione moderato». Il Manifesto è schierato nettamente contro Monti. Alberto Burgio è chiaro: «Con il governo tecnico si torna al dispotismo illuminato. E la democrazia?». Tutto il giornale si schiera compattamente contro i «poteri franchi, non soggetti al controllo di legittimità», contro «il regime a doppia sovranità», «i diktat della grande finanza» e la «regressione oligarchica». Un quotidiano che forse non si può definire di sinistra tout court, il Fatto, non è da meno e parla di «mannaia bocconiana» e di «politica ferma ai box». Trova ampio spazio l'intervista al sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che stigmatizza un governo che «asseconda le banche e la finanza».
Che la sinistra comunista sia allergica alla grande finanza non è una novità, come ci ricorda un pezzo del Manifesto di domenica. Si rievoca la «sagacia e il sarcasmo» dell'articolo di un giornalista molto speciale, Karl Marx, che nel lontano 1852, sul New York Tribune prese di mira un lontano predecessore di Mario Monti, Aberdeen, protagonista di uno dei primi governi tecnici della storia. Ma in Italia siamo davvero alla sospensione della democrazia? E soprattutto davvero, come ha titolato il Giornale un'intervista a Marco Ferrando, «Monti è peggio del Cavaliere»? «Come stile, che non è una cosa da poco, è sicuramente meglio Monti — risponde Loris Campetti, del Manifesto —. Per il resto non è peggio ma neanche meglio. In effetti i due hanno in testa la stessa ricetta liberista. Il dominio delle banche non risolve la crisi e non riduce il livello di diseguaglianza». Frase, quest'ultima che ne riecheggia un'altra letta altrove: «Alla comunità internazionale non importa nulla dell'intrinseca risoluzione dei nostri problemi, non dell'aumentata disuguaglianza sociale, non delle nuove sacche di povertà». Strano a dirsi, ma sono parole di Filippo Facci, che su Libero parla di «golpe postmoderno», più o meno il «colpetto di Stato» descritto dall'editoriale di fuoco di Maurizio Belpietro, direttore di Libero, tra i più accesi nemici dell'«eurotrappola». Intanto la Padania si scatena contro il Club Bilderberg, spauracchio del complottismo della sinistra radicale. «Non mi preoccupa avere questa compagnia — spiega Galapagos, commentatore economico del Manifesto — Noi abbiamo al Manifesto sempre sostenuto queste tesi, loro le usano soltanto per convenienza e opportunismo, per resuscitare Berlusconi». Comunque sia, conclude Campetti, «questo è un momento delicato per la democrazia»: «L'espropriazione delle scelte in nome dell'emergenza è un fatto grave, un restringimento della libertà». Tanto più, aggiunge Galapagos, che «vogliono fare questa cosa fessa di mettere un generale al ministero della Difesa. Per quanto possa essere una brava persona, non va bene: una volta c'era la primazia della politica».

l’Unità 16.11.11
Per uscire dalla crisi investiamo nella cultura
di Vittorio Emiliani


Di fronte a Palazzo Madama di colpo mi si para davanti Francesco Sisinni, a lungo direttore generale dei Beni Culturali, negli anni 80-90, da noi spesso criticato. «Mi rimpiangete, eh?...», ghigna beffardo. Esito un attimo e poi, teatralmente, in un soffio: «Sì, Francesco, sì!». In realtà, non rimpiangiamo lui quanto un Ministero dei Beni Culturali e Ambientali che, nonostante difetti di base, assicurava, col sacrificio personale di «fedeli (e competenti) servitori dello Stato», una rete di tutela invidiata all’estero. Non sarebbe stato possibile all’epoca promuovere d’autorità ai più alti incarichi persone pluribocciate ai concorsi. Né degradarsi a decine di avvilenti gestioni “ad interim” di Soprintendenze, avendo nel contempo una direzione centrale macrocefala, né disattivare i concorsi per anni, né lasciar tagliare il personale con l’accetta: 19.000 unità (presto 16.000) per tutelare un patrimonio tanto sontuoso quanto aggredito. «Ogni funzionario della Soprintendenza architettonica di Milano, la più esposta ai pericoli, dovrebbe esaminare al giorno 79,24 progetti di ogni tipo», ha ammesso, come se lui piovesse da Marte, l’8 novembre al bel convegno di Assotecnici il segretario generale del MiBAC, arch. Roberto Cecchi che negli anni decorsi non ha mai aggrottato un sopracciglio.
«Ma non le fa male l’osso del collo a forza di dire sempre di sì?», domandò Antonio Cederna a un alto burocrate negli anni 50.
La stella di Berlusconi si offusca e subito c’è chi si “riposiziona”. Dei 19.000 ministeriali, appena il 2% è rappresentato da architetti, ingegneri, tecnici (circa 350), altrettanti gli archeologi e gli storici dell’arte. Una miseria. Tutto ciò, ha concluso il riposizionato Cecchi, non consente di attuare l’articolo 9 della Costituzione. Una tranquilla confessione di terribile impotenza.
È comprensibile che quanti sono stati nel cuore del potere ai Beni e alle Attività Culturali (nel frattempo perenti), attorno a Bondi, come i Cecchi, i Nastasi, i Carandini, confermati da Galan, difendano le postazioni, patiscano candidati “pericolosi” come Settis (che contro Bondi si dimise), e magari indossino nuove casacche affinché nulla cambi. Dove invece molto deve cambiare, altrimenti si va a fondo. Il buon documento di base presentato da Assotecnici per il suo convegno è un valido pro-memoria per il prossimo (speriamo) titolare del Collegio Romano. Nell’ultimo biennio di crisi nera in Germania, per formazione e ricerca, la quota di PIL è salita dal 2,40 al 2,78 %. Sullo stesso livello gli Usa, poco sotto la Francia. Noi? In coda. Sono, secondo Matteo Orfini, responsabile del Pd per la cultura, tipici «settori anticiclici» nei quali i Paesi avanzati investono proprio per uscire dalla crisi. Facciamolo anche noi, riqualifichiamo il sistema di tutela, eliminiamo “tutti i commissariamenti”
Costosi e spesso disastrosi (vedi Pompei). Inversione di rotta possibile però se le scelte per la cultura (così Giulia Rodano, responsabile Cultura dell’Idv) non saranno più subalterne a una valutazione di redditività. Dovremo abituarci a «fare bene con meno», ha ammonito l’ex ministro Giovanna Melandri, malgrado quello in cultura sia un investimento in civiltà e con una redditività differita certa. Occorre ridiscutere il modello di Ministero (Marisa Dalai presidente della Bianchi Bandinelli): decentrato com’era o duramente accentrato come l’ha voluto Urbani? E poi basta coi compartimenti stagni, con la sconnessione fra Ambiente-Paesaggio-Patrimonio storico/artistico-Turismo.
Connessione reclamata dai continui, angosciosi drammi ambientali. Il nostro è un paesaggio “rifatto a mano”, modificato dall’uomo al 90%, con un gigantesco sistema di terrazzamenti dalla Valtellina a Pantelleria in molti punti dissestato. L’esodo di 7 milioni di ex contadini delle terre alte ha accelerato lo sfascio: alvei non ripuliti, sottobosco non curato, canali di scolo abbandonati, torrenti (per disperazione e insipienza) cementificati. Così la montagna “si vendica” a valle. In una Italia per due terzi montagna e collina. Nel contempo sono state disattivate o devitalizzate: la legge Galasso sui piani paesaggistici dell’85, la legge dell’89 sui bacini fluviali, la Bucalossi del ’77 che riservava gli oneri di urbanizzazione ai soli investimenti, lo stesso Codice per il paesaggio.
«Fare bene con meno»? Si può, ma garantendo la sopravvivenza all’Amministrazione dei Beni Culturali (e Ambientali) e attuando, aggiornate, le leggi solide e civili che ci sono. Su ciò dobbiamo ragionare presto per “ricostruire l’Italia” della cultura in forma seminariale (non seminarile). Con cultura di governo, con laico coraggio. Nell’analisi e nella proposta.

Repubblica 16.11.11
Tagli alla memoria
di Alessandra Longo


Oggi sapremo il nome del nuovo ministro dei Beni Culturali, erede di Bondi e Galan. E sarà interessante vedere se confermerà i tagli ai fondi destinati al Museo di S. Anna di Stazzema, non un museo qualsiasi ma il contenitore della memoria di un eccidio (furono 560 le vittime della strage nazifascista del 12 agosto 1944). Mancano all´appello i cinquantamila euro da sempre erogati dallo Stato per consentire il funzionamento della struttura. Nei giorni scorsi, le turbolenze di fine impero hanno coperto ogni cosa ed è stato il governatore della Toscana Enrico Rossi ad intervenire scongiurando la chiusura del Museo. Ma non basta, come denuncia l´Anpi, che il prossimo 20 novembre lancia una grande campagna di tesseramento, nel segno delle «radici».

La Stampa 16.11.11
-17  per cento di matrimoni
+41 per cento di unioni libere
La sociologa Torrioni
“Lui e lei insieme scoprono più libertà”
Paola Torrioni Ricercatrice di Sociologa della famiglia a Scienze politiche a Torino

di Fra.Rig.

Lei è una che con i numero ci sa fare. Paola Torrioni, ricercatrice di Sociologia della famiglia a Scienze politiche a Torino, ne elenca una serie ma poi mette in guardia. «Non basta guardare alle percentuali, ai dati estratti dai vari rapporti Istat, bisogna contestualizzarli». E per esempio occorre tenere conto che gli italiani invecchiano drammaticamente. Un fatto che deve moderare ogni nostra idea sul diminuire dei matrimoni. Insomma, questi ultimi calano perché la popolazione disponibile diminuisce. Ecco cosa significa contestualizzare, ambientare un dato. Ciò non toglie che i matrimoni calino lo stesso. Meno di quanto sembri, ma diminuiscono. D’altra parte «si può dire che calino meno di quanto aumentino altri tipi di unioni». Insomma «si continuano a cercare forme di affettività solide. E più di prima». Per i giovani la convivenza è un modo di consolidare la vita di coppia. «Oggi inizia prima. E a piccoli passi». Perché c’è più autonomia di una volta. L’amore, la coppia, il come si definisce, è da sempre materia che rivela la politica e la società di un tempo. «Gli anni 2000 sono quelli della maggiore negoziazione tra genitori e figli. Non solo. In coppia ora si entra in maniera più equa. Il che invoglia le ragazze. E poi va aggiunto che se i giovani sono purtroppo dipendenti dal mondo adulto in molti campi, proprio nel privato cercano di recuperare nuovi spazi, per un processo di individualizzazione su altri fronti ancora bloccato».

La Stampa 16.11.11
Intervista. La crisi tra passato e futuro
“Il berlusconismo è finito ma se l’élite non ce la fa temo un leader populista”
De Rita: “Non amo il governo che sta nascendo ma lo sosterrò perché è l’unica supplenza possibile”
«La libertà di essere se stessi è stata la forza trainante degli ultimi cinquant’anni»
«Berlusconi a cavalcato l’onda lunga di don Milani e Pannella fino agli estremi del libertinismo»
«Il rischio dei tecnocrati. Se non riusciranno a parlare alla gente potrebbe esserci una forte reazione popolare»
di Mattia Feltri


La rabbia e il rancore in piazza nascondono che un ciclo è finito Alla fine il Cavaliere non ha più trovato il linguaggio giusto Comunque non vedo nessuno in grado di rimpiazzarlo Sarà un governo figlio delle scelte europee legittimato dal Colle Ci vorrebbe un leader autorevole, capace e anche sorridente...
I cartelloni «Con Silvio» presenti ad uno degli ultimi congressi dei giovani di Forza Italia

Il sociologo del «sommerso» Giuseppe De Rita, 79 anni, fra i fondatori e oggi presidente del Censis, è un sociologo italiano noto per le sue indagini sui distretti industriali e sull’economia sommersa

Roma. Professore Giuseppe De Rita, la seconda Repubblica e il bipolarismo paiono finiti. C’è un cambio di scenario nella nostra società?
«Sì ma non sono sicuro che la coscienza collettiva lo stia cogliendo. Le contrapposizioni, la rabbia, il rancore e i giudizi morali come abbiamo visto nelle manifestazioni di piazza dell’altra sera, al Quirinale e davanti a Palazzo Chigi - sono ancora predominanti e non fanno capire che il ciclo del berlusconismo si è chiuso».
Lo dà per chiuso?
«Il ciclo del berlusconismo come soggettivismo etico è chiuso. Il ciclo del berlusconismo come tendenza a cavalcare la cultura popolare forse non ancora, anche se l’ultimo messaggio di Berlusconi era così ripetitivo che si aveva l’impressione di un leader incapace di trovare un linguaggio nuovo adeguato ai tempi nuovi».
Che cosa intende per ciclo del soggettivismo etico?
«Intendo la libertà intesa come libertà di essere se stessi. Non è una tendenza recente. Secondo me diventa predominante nei primi Anni Sessanta con don Milani e l’obiezione di coscienza, quando si diffonde il primato del soggetto e della coscienza. L’obbedienza non è più una virtù, dice don Milani. Poi c’è Marco Pannella con le sue battaglie referendarie: questa moglie non mi garba più, la cambio; non mi sento madre, abortisco. Poi anche l’azienda è mia e me la organizzo io. E il lavoro è mio e me lo organizzo io. Le vacanze sono mie. Il tempo è mio. Finché negli Anni Settanta finisce il mito della confessione perché anche il peccato è mio».
Il risultato finale è Berlusconi?
«Sì. Berlusconi non ha inventato niente: ha trovato un’onda alta e se l’è intestata. Ha portato il soggettivismo etico agli estremi, fino alla cultura libertina, alla licenza personale».
Viene in mente quel gran genio di Corrado Guzzanti: nel 2001 recitava il forzitaliano che faceva pipì sul sofà perché aveva vinto Berlusconi e tutto era concesso.
«Non ricordo quello sketch ma mi pare molto centrato. Soltanto che adesso la gente è stanca, si è stufata dell’abuso che Berlusconi ha fatto del soggettivismo etico. Attenzione, è un ciclo durato quasi cinquant’anni, è naturale che sia in via di estinzione».
Ritiene che stia nascendo una società più collettivista?
«È da vedere, non è detto che succederà ma è possibile. Io sono un sostenitore del ciclo comunitario, della società che coglie la sua dimensione. Bisogna vedere che cosa succede adesso».
Cioè?
«Come accennavo, credo sia finito anche il ciclo della cavalcata degli umori popolari. Non vedo nessuno da un certo punto di vista in grado di rimpiazzare Berlusconi. Mi spiego: sta arrivando un governo delle élite, costituito da rettori, prefetti, giuristi. È un governo che avrà la capacità di rappresentare la gente comune? Perché questo governo, dobbiamo dirlo, è figlio delle scelte di Francoforte e di Bruxelles ed è stato legittimato dal Quirinale. Quindi se un governo così non sa capire e non sa parlare alla gente comune, un reazione nazional popolare non sarebbe del tutto folle prevederla».
Insurrezioni di piazza?
«Non mi spingo a tanto, però il popolo italiano in fondo non è un popolo meraviglioso. Berlusconi lo ha reso per quindici anni un popolo sorridente, questo è stato il suo capolavoro. Non lo ha indurito come lo hanno indurito i suoi avversari. Ecco, i più sono rimasti sorridenti, ma il nostro è un popolo che tende a radunarsi nella piazza più stupida. Ci vorrebbe un leader autorevole, capace, sorridente... ».
Oh, un Berlusconi senza difetti.
«Beh, il vero problema è se le élite deputate a quel compito sanno fare le élite per qualche anno. Me lo auguro. In fondo in Italia hanno fatto delle cose ottime. Hanno retto il paese dal 1824, l’anno in cui Giacomo Leopardi scrisse il “Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani”, fino all’avvento del fascismo e anzi, al contrario di quello che si pensa anche il fascismo fu elitario: fu una dittatura all’acqua di rose, se paragonata a quelle russe o tedesche o spagnole, perché era un’élite che decideva con mano leggera. Introdusse il welfare dall’alto, ecco un esempio di governo elitario. Credo che le élite sappiano governare e spero che ci riescano, altrimenti c’è il pericolo di scuotere le piazze».
Insisto: lo schema sembra abbastanza classico: crisi della democrazia, tentativo di supplenza delle oligarchie, dittatura.
«Non credo. Sto parlando soltanto di una cultura populista e nazionalista che a naso nel Paese c’è e periodicamente si sfoga, come dicevo prima, nelle piazze più stupide. Il governo che sta nascendo non lo amo, ma bisogna crederci altrimenti salteranno fuori tutti quei sentimenti da vittoria dimezzata, da imposizione calata dall’alto, da orgoglio violato, coi precari arrabbiati, gli industriali arrabbiati, i dipendenti arrabbiati. Se questo governo non ce la fa, non vedo un altro sbocco».
Cioè, si tornerebbe a cavalcare gli umori popolari.
«Esatto. Il ciclo berlusconiano è finito come soggettivismo etico ed è finito come cavalcata dell’umore popolare. Ma se c’è il fallimento delle élite, al posto di Berlusconi, potrebbe spuntare un altro leader capace di instaurare col popolo il medesimo rapporto, un leader che avrebbe nell’orgoglio nazionale e popolare i suoi riferimenti, che condurrebbe gli italiani a reagire all’eterodirezione e a contestare il sistema in quanto tale. Questo è il nuovo scenario che vedo davanti a noi».

Corriere della Sera 16.11.11
Il segreto della classe perfetta? La diversità tra gli studenti
Le differenze socio-culturali fanno ottenere risultati migliori
di Lorenzo Salvia


ROMA — Fare una classe di bravi e una di somari oppure due classi miste, dove la pupa e il secchione sono vicini di banco? E ancora: mettere nella sezione A tutti i ragazzi di (presunta) buona famiglia e nella sezione B quelli con provenienza meno pregiata oppure seguire la regola della nonna, di tutto un po'? Non sono questioni accademiche ma le domande che tolgono il sonno a presidi, insegnanti e soprattutto genitori, preoccupati di trovare non solo la scuola giusta ma anche la sezione migliore.
In realtà la regola del «di tutto un po'» non porta la firma solo della nonna ma anche della legge italiana che invita a rispettare il principio dell'equi-eterogeneità. E cioè formare classi che siano il più possibile differenziate al loro interno e quindi simili fra loro. Pupe e secchioni per tutti, come ricchi e poveri, italiani e stranieri e così via. Ma questa regola viene spesso ignorata, come dimostra una ricerca della Fondazione Giovanni Agnelli. Ed è un peccato perché così le classi funzionano peggio. Non solo per le pupe ma anche per i secchioni, visto che è il rendimento generale a perdere colpi.
Lo studio della Fondazione Agnelli, piccolo tassello del rapporto annuale che sarà presentato il 29 novembre a Roma, si concentra sulla formazione delle sezioni di prima media. I ricercatori hanno costruito un indice che misura il grado di varietà all'interno della classi per ogni provincia. E l'hanno confrontato con i risultati dell'Invalsi, i test uguali per tutti gli studenti che servono a misurare in modo obiettivo il livello degli studenti. Il risultato è una linea retta: più le classi mischiano al loro interno pupe e secchioni, più i risultati generali della classe migliorano. Come mai? «Alcuni pensano — dice Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli — che a scuola si impari solo dagli insegnanti o dai libri. E invece si impara, moltissimo, anche dai compagni».
Ora, è chiaro che una sezione di soli somari fatichi a migliorare: manca il traino dei primi della classe e alla fine pure gli insegnanti possono arrendersi, considerarla una causa persa. Ma perché anche i migliori, se chiusi nel loro mondo, rischiano di fermarsi? «Un po' — dice ancora il direttore della Fondazione — è il cosiddetto effetto tetto. Se tutti sono già ad un livello alto diventa difficile fare progressi». Ma c'è un altro motivo, più importante: «Gli atteggiamenti competitivi possono prendere il sopravvento su quelli cooperativi, la rivalità sulla propensione a lavorare in gruppo». E questa è una perdita per tutti, non solo per chi non viene aiutato ma anche per chi non aiuta. Parliamo di ragazzini di 12 anni, del resto, e a quell'età imparare a stare con gli altri è forse più importante che prendere buoni voti. Gli studiosi della Fondazione Agnelli — guidati da Gerard Ferrer Esteban — sono arrivati alla conclusione che l'abitudine di separare pupe e secchioni è più frequente al Sud che al Nord, anche se in cima alla classifica, a sorpresa, c'è Piacenza. «Forse in alcune zone del Mezzogiorno — dice Gavosto — c'è una maggiore permeabilità dei presidi alle richieste pressanti delle famiglie. In altri casi si usa il sorteggio ma i genitori non dicono niente». Forse hanno ragione loro.

l’Unità 16.11.11
Con un colpo di coda il governo uscente vara le linee guida in materia di fecondazione
Non recepite le sentenze di diversi tribunali. Consentita invece ai malati di Aids
«Niente procreazione assistista per chi ha malattie genetiche»
Niente fecondazione assistita per chi è portatore di malattie genetiche e non vuole rischiare di avere un figlio gravemente malato. Lo ha deciso il governo uscente varando le linee guida. Critiche dalle opposizioni.
di Cristiana Pulcinelli


Con il governo dimissionario, il ministero della salute non rinuncia a un ultimo atto: l’invio delle nuove linee guida per l’applicazione della Legge 40 sulla procreazione assistita al Consiglio Superiore di sanità per un parere obbligatorio. Il documento è stato presentato ieri, ma ha già suscitato polemiche.
Secondo quanto si è appreso, le nuove linee guida, che aggiornano quelle del 2008 firmate dall’allora ministro Livia Turco, non prevedono che i portatori di malattie genetiche possano far ricorso alle tecniche di procreazione assistita. L’uso delle tecniche è concesso alle coppie infertili, oppure alle coppie nelle quali l’uomo abbia un’infezione da Hiv (il virus dell’Aids) oppure da Hbv e Hcv (rispettivamente i virus dell’epatite B e C), come previsto del resto già dalle linee guida del 2008. Non si cita quindi la possibilità di accedere alla procreazione medicalmente assistita le malattie genetiche, nonostante alcune sentenze abbiano riconosciuto il diritto a ricorrere a queste tecniche ad alcune coppie fertili che però rischiavano di avere figli con gravi malattie ereditarie come la talassemia e la fibrosi cistica. Il ricorso alla fecondazione assistita consente infatti in questi casi di effettuare una diagnosi pre-impianto in modo da utilizzare solo l’embrione non affetto dalla mutazione genetica che causa la malattia.
Nel 2010, il tribunale di Salerno autorizza per la prima volta in Italia la diagnosi genetica pre-impianto a una coppia fertile, ma portatrice di una grave malattia ereditaria. A ruota seguono le decisioni analoghe dei tribunali di Firenze e Bologna. Ma di questo non c’è traccia nel documento presentato dal sottosegretario Roccella.
La mancanza è tanto più strana perché, d’altro canto, un’altra sentenza viene recepita dalle linee guida. In particolare, la sentenza 151/2009 della corte costituzionale che eliminava l’obbligo di avere «un unico e contemporaneo impianto di embrioni, comunque non superiori a tre» per chi accede alla fecondazione assistita.
L’avvocato Filomena Gallo, Segretario dell’ associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica e Presidente Associazione Amica Ci-
cogna, si è detta fortemente critica nei confronti di queste nuove linee guida perché «stravolgono completamente le decisioni dei giudici che fino ad oggi e in piena osservanza della giurisprudenza costituzionale hanno obbligato i medici ad impiantare solo l’embrione sano».
Inoltre, spiega sempre Gallo, comportano uno spreco di denaro pubblico: «Gli embrioni abbandonati che, per decreto del ministro Sirchia del 2004 sarebbero dovuti essere inviati nella biobanca di Milano, costata circa 700mila euro e che costa annualmente circa 80mial euro pur essendo inutilizzata, dovranno essere conservati, invece, a spese delle Regioni, che già in materia sanitaria sono in grave disavanzo».
REAZIONI
Contro le nuove linee guida si scaglia anche Livia Turco definendole un «grave arretramento culturale». «Ancora una volta le linee guida, che dovrebbero riguardare solo gli aspetti tecnici commenta Turco in una nota – vengono usate in modo improprio per interpretare la legge 40 che non vieta l’analisi preimpianto». Ma le critiche arrivano anche da donne di altre forze politiche. Flavia Perina, deputato di Futuro e Libertà ha dichiarato: «Per impedire che le coppie ricorrano alla diagnosi preimpianto, si favorirebbe di fatto il ricorso all’aborto. Una politica che dice alle donne “se volete, potete abortire dopo l’amniocentesi, ma non potere in alcun caso prevenire il rischio di trasmissione di malattie genetiche” non è solo stupida, ma innanzitutto crudele».
Ma il sottosegretario Roccella respinge le accuse: «Non c`è stato alcun golpe per la predisposizione delle linee guida della legge 40. Semplicemente, come prevede la legge, è stata inoltrata al Consiglio Superiore di Sanità la richiesta di un parere su un testo sul quale abbiamo lavorato, in assoluta trasparenza, da almeno due anni». Inoltre, ribadisce Roccella, le linee guida possono fornire solo indicazioni per l`applicazione della legge e non possono quindi vietare né consentire più di quanto sia già previsto dalla legge vigente.

Corriere della Sera 16.11.11
Le mogli, gli amici, i giornalisti Ecco le nomine in zona Cesarini
di Sergio Rizzo


ROMA — Succedendo a se stesso, Sergio Trevisanato sarà il prossimo presidente dell'Isfol. Era stato messo a capo dell'istituto che dipende dal ministero del Lavoro nel 2004 dal secondo governo Berlusconi. Trascorsi indenni gli scampoli del terzo esecutivo del Cavaliere e lo scialbo biennio di Prodi, ecco la riconferma nel 2008. Finché a luglio di quest'anno l'ente viene commissariato e chi diventa commissario? Ovvio, Trevisanato. Il commissariamento scadrebbe il 31 dicembre quando il 28 ottobre il Consiglio dei ministri procede alla designazione del presidente, su proposta del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Il suo nome? Ovvio, Trevisanato. Il 28 ottobre è il giorno in cui il quarto Berlusconi comincia a traballare di brutto. Circola infatti una lettera dei dissidenti del suo partito («una bufala», dirà sprezzante il Cavaliere) che gli chiedono un passo indietro.
Difficile dire se Trevisanato debba dire grazie a quella «bufala», fermo restando che l'iter della sua nomina è appena iniziato e non si sa come finirà. Per il disturbo di presiedere l'Isfol lo pagano 101.700 l'anno più un gettone da 90 euro a seduta: soldi che si sommano al suo stipendio da dirigente. Perché si dà il caso che il presidente dell'ente pubblico Isfol sia anche direttore della segreteria regionale per l'Istruzione, il lavoro e la programmazione del Veneto. Altri 167.543 euro.
Ma è scontato che nei giorni del fuggi fuggi generale accadano cose un po' strane. La nomina di Vincenzo Santoro a commissario del Parco delle Cinque Terre, proprio dopo l'alluvione, ha suscitato d'indignazione dei senatori «ecodem» Francesco Ferrante e Roberto Della Seta: «Mentre la nave del governo affonda il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo cerca di piazzare in extremis un suo uomo».
Intanto Gian Paolo Sassi, avvocato varesino legatissimo al ministro dell'Interno Roberto Maroni, esponente dell'unico partito (la Lega Nord) ora all'opposizione, saliva al vertice dell'Inail. Per occupare il posto lasciato vacante dalla improvvisa e prematura scomparsa di Fabio Marco Sartori, ex deputato del Carroccio e già segretario particolare di Maroni al Welfare. Uomo competente, Sassi: è stato presidente dell'Inps. Ma la tempestività di questa decisione stona con l'indolenza di un esecutivo che ha impiegato mesi per sciogliere un nodo ben più urgente come quella del governatore della Banca d'Italia.
Ed è francamente impossibile non mettere in relazione gli smottamenti governativi con alcuni episodi. Come la designazione da parte di Mariastella Gelmini di un nuovo consigliere del Cnr nella persona di Gennaro Ferrara: già capogruppo dell'Udc al Comune di Napoli e rettore dell'università Parthenope, l'ateneo che aveva sottoscritto con la Uil un accordo per fare sconti fino a 60 crediti agli iscritti al sindacato e vanta fra i docenti il record degli intrecci familiari. «Certi consigli di facoltà sembrano Natale in casa Cupiello», commentò con Conchita Sannino di Repubblica il predecessore del ministro Gelmini, Fabio Mussi.
Per non parlare di quanto è successo al ministero dei Beni culturali, con le nomine delle commissioni per il cinema. Si dice che fossero pronte da tempo: se è così, il ministro Giancarlo Galan è stato sfortunato. Il quotidiano Secolo XIX non gli ha risparmiato davvero nulla, sottolineando perfino come uno dei nominati, il giornalista politico di Panorama Carlo Puca, fosse autore di una lunga intervista al ministro. Altri pezzi forti del pacchetto di nomine? Gigi Marzullo, conduttore su Rai 1 del contenitore notturno «Cinematografo». Il critico del Mattino Valerio Caprara, ospite fisso della trasmissione nonché presidente della Campania Film commission. Gianvito Casadonte, nome altrettanto familiare agli aficionados del marzulliano «Cinematografo» e presidente del Magna Grecia film festival. Valeria Licastro, salottiera (dice il Secolo XIX) responsabile romana delle relazioni istituzionali della Mondadori di Berlusconi, consorte del commissario dell'Agcom Antonio Martusciello, ex parlamentare ed ex giovane leone di Forza Italia. Alessandro Voglino, figura nota fra i militanti della destra aennina, capo della direzione cultura della Regione Lazio. Rosaria Marchese, ex dirigente Rai. Dario Viganò, che il quotidiano genovese qualifica come «presidente delle industrie tecniche dell'Anica». Lasciamo giudicare ai lettori se la presenza di un critico del calibro di Enrico Magrelli basti a riscattare una performance non esattamente esaltante.
D'altra parte, si sa, nelle commissioni ministeriali c'è sempre un po' di tutto. In queste, per forza di cose, abbondano nomi che si associano a volti. Per esempio c'è Anselma Dall'Olio, altra frequentatrice del «Cinematografo», incidentalmente moglie di Giuliano Ferrara. Per esempio, c'era Gianluigi Paragone, vicedirettore in quota Lega di Rai 2. E c'era anche Francesco Pionati, ex mezzobusto del Tg1 trapiantato in politica. Poco nota al grande pubblico invece, Antonia Postorivo. Ma non proprio una illustre sconosciuta: suo marito è il senatore del Pdl Antonio D'Alì.

Corriere della Sera 16.11.11
L'ultimo regalo del ministro Gelmini
di Gian Antonio Stella


Merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito, merito. Fa impressione metterle tutte in fila, vero? Bene: per trentasette volte Mariastella Gelmini, poco prima di diventare ministro dell'Istruzione, scrisse la parola «merito» nella sua proposta di legge 3423. E in questi anni non ha fatto che ripetere: «Non è più possibile andare avanti con il nepotismo dentro le università».
Fedele ai convincimenti granitici, ha raccontato sul Secolo XIX Francesco Margiocco riprendendo una denuncia del sito web «Articolo 33», la signora ha dunque deciso di chiudere l'esperienza ministeriale con una nomina impareggiabile. E ha piazzato nel consiglio di amministrazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche un giovane astro nascente della politica del merito: Gennaro Ferrara, 74 anni, collezionista di poltrone di ogni genere ma soprattutto per 23 anni rettore di quella che probabilmente è l'università più nepotista d'Italia, la napoletana «Parthenope».
Oltre a finire sui giornali come il peggiore ateneo del Paese nella classifica del Sole 24 ore o per una stupefacente convenzione con la Uil che assicurava ai suoi iscritti un riconoscimento fino a 60 crediti per la laurea triennale in giurisprudenza con uno sconto di un anno su tre, il prof. Ferrara è celeberrimo tra gli amanti dell'«University Horror Show» per il grappolo di parenti piazzati nel suo regno. E per la strepitosa intervista data a Nino Luca, autore di Parentopoli / Quando l'università è affare di famiglia.
Un'intervista dove, vistosi rinfacciare di aver sistemato nella «sua» università «la seconda moglie, il di lei fratello, una figlia e i mariti delle due figlie», l'allora rettore rispondeva così: «Io vorrei parlare con un giornalista che faccia un articolo forse più stucchevole ma che, con argomentazioni e approfondimenti, possa farsi capire dal lettore. Se noi trattiamo "Parentopoli" in termini scandalistici non va bene. Glielo dice sa chi? Il secondo di otto figli di un operaio. Io invidiavo quelli che nascevano nelle famiglie di un certo... Le posso dire con orgoglio che nessuno può chiedermi chi mi ha aiutato. I miei parenti, mia figlia, devono dimostrare ogni giorno di valere. Ma perché non intervistate loro?».
«Chi?», gli chiedeva Nino Luca: «i due generi Federico Alvino (che tutti danno come il suo successore designato) e Gabriele Carbonara? Sua figlia? La sua seconda moglie e suo fratello? Chi devo intervistare?». «Tenga presente una cosa. Se vuole, lei può parlare con loro ma non è giusto “stare scritti” sui giornali...».
Grazie per il regalo d'addio, signor ministro: proprio l'uomo giusto per rilanciare il Cnr e la politica del merito.

Corriere della Sera 16.11.11
«Indovina» i 13 vincitori di un concorso
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Non ne ha sbagliato uno. Tredici su tredici. Ognuno con nome e cognome. Antonio Amorosi, ex assessore nella giunta Cofferati e ora battitore libero tra politica e giornalismo, ha compilato, a modo suo, la schedina perfetta, anticipando i vincitori di un concorso-selezione indetto dal Comune di Bologna per individuare «profili di alta specializzazione» da assumere con contratti a tempo determinato. Amorosi ha snocciolato i 13 nomi ai primi di novembre, sul sito affaritaliani.it, quando la selezione dei 275 candidati non si era conclusa, anzi, era nel pieno delle procedure. Una schedina senza milionari e che ora si porta dietro una teoria di polemiche e ombre. La Procura della Repubblica ha aperto un fascicolo conoscitivo senza indagati, né ipotesi di reato, per capire come e su quali basi Amorosi, che sarà presto sentito dai magistrati, ha costruito la sua profezia.
Il sindaco di Bologna, il pd Virginio Merola, non l'ha presa affatto bene. Di fronte all'avverarsi della previsione, il primo cittadino si è difeso con irruenza, non sempre con ordine. Prima ha parlato di «coincidenza». Poi, a chi gli ha fatto presente che quei 13 (altra coincidenza) già lavoravano per il Comune, ha ammesso: «In effetti, parlando di alte specializzazioni, le possibilità che quelle persone potessero vincere le selezioni erano molto alte».
Quindi ha giurato che «non c'è stato alcun papocchio e che, quanto a trasparenza, le procedure sono state rafforzate: abbiamo fatto anche un bando, nonostante non fosse obbligatorio dato che non si trattava di un concorso, ma di una selezione». Infine, battagliero, ha escluso ripensamenti sulla querela inizialmente annunciata contro Amorosi: «L'affermazione che esisterebbe una struttura clientelare — ha affermato Merola — deve essere motivata da fatti e prove. La querela non vuole essere una minaccia, ma un modo per tutelare persone ingiustamente indicate come raccomandate».
Amorosi, novello indovino, non pare particolarmente intimorito. Presente in prima fila, con tanto di telecamera, quando il sindaco ha annunciato alla commissione comunale i nomi dei 13 vincitori, l'ex assessore ha ribadito i suoi sospetti: «I profili richiesti per le singole posizioni sono così dettagliati da coincidere con i dirigenti del Comune che già ricoprono quei ruoli: il tutto per lo sconforto dei partecipanti esterni, consapevoli che non c'è gara».
Ma la schedina di Amorosi prevede anche i supplementari. Altro concorso, altra profezia. In ballo, stavolta, 3 posti da dirigente. Il 18 novembre si conosceranno i vincitori. Ma lui, guarda un po', li ha già anticipati: «E al 99% saranno loro...».

l’Unità 16.11.11
Sgomberato con la forza l’accampamento di Occupy Wall Street
Oltre duecento arresti, spazzata via la grande biblioteca frutto di donazioni «Non è la fine», gli occupanti si danno appuntamento in altre piazze della città
di Viviana Devoto


NEW YORK Di Zuccotti è rimasto il nome, un parchetto di pochi alberi e panchine, tra il cantiere delle Torri e la City finanziaria, sconosciuto due mesi fa ai turisti che ora fotografano i resti lasciati dagli occupanti: tende e sdraio, tazze e pentoloni, e scritte di cartone. Sgomberati nel mezzo della notte, i militanti di «Occupy Wall Street» che osarono provocare con una protesta pacifica il sistema finanziario, contagiando l’America e il mondo, hanno ricevuto l’ordine di evacuazione dal sindaco Michael Bloomberg.
La polizia è arrivata all’una, in tenuta antisommossa, obbligando i manifestanti a lasciare il campo «per ragioni igieniche». Chi ha resistito è stato arrestato, circa duecento persone, ma il numero cresce ora che il movimento non ha più indirizzo e il cuore della protesta viaggia senza meta, organizzando marce spontanee tra Chinatown e Cityhall, sede del comune di New York.
Uno sgombero, non un sipario. «Se questo è tutto? È solo l’inzio. Occupy è nato come movimento non violento, per questo non abbiamo resistito all’evacuazione. Giovedì preparavamo l’anniversario dei due mesi. Andremo avanti, coinvolgendo tutti i distretti di New York, ci saranno conferenze e concerti, e pubbliche discussioni. Non si smette qui, oggi. Troveremo altre forme di protesta, il bavaglio non funziona». Kevin Sheneberger è stato un inquilino della tendopoli a Wall Street dal primo giorno, il 17 settembre, ha un lavoro full-time come chef in un ristorante, ha subaffittato casa sua a Brooklyn trasferendosi sul marciapiede, dormendo avvolto in un sacco di plastica: «Inizio a soffrire di reumatismi, ma lavoro a Manhattan: da Wall Street impiegavo ormai la metà del tempo per timbrare il cartellino». È tra i portavoce della protesta («Non un leader, please», ché è contro il manifesto politico di Zuccotti, solo individui e pochi slogan). «La polizia ha spruzzato gli spray contro gli occupanti, ha arrestato chi rientrava nel parco per recuperare le proprie cose. Abbiamo vissuto qui per due mesi. Non ci hanno dato il tempo di riorganizzarci».
Dismessa la cucina, che serviva i pasti regolari ai dimostranti, colazione-pranzo-cena: «Ho perso lo sgombero mentre mi spostavo per rifornire la dispensa», racconta Cam, vent’anni, che ha imparato a cucinare il rancio per l’armata pacifica. «Ho continuato a studiare in questi mesi da qua, dalla strada. Mi sono sentita parte di un’azione reale di cambiamento».
Spartita la biblioteca di Occupy tra i cassonetti e tra le mani di chi è riuscito a salvare qualche volume di una collezione costruita tramite le donazioni. Il cartello dice: «Bloomberg, dove sono finiti i miei libri?»: Matthew Bolton, docente al dipartimento di Scienze e Politiche della Pace University, dove insegna economia, lo tiene appeso davanti all’impermeabile e la cravatta. Ha regalato alle biblioteca molti suoi libri «credendo nell’investimento culturale. La protesta deve nutrirsi leggendo, informandosi. Non ho mai passato la notte a Zuccotti, ma ho partecipato come singolo, credendo nel principio che è questa generazione che deve decidere come fare andare l’economia. E non il contrario. Occupy ha fatto in modo che iniziassimo a parlarci, a discutere pubblicamente. Il dialogo è tutto, questo certo non sparirà».
Il parco è transennato e ripulito, non più una tenda, il circo dei manifestanti spinge ancora distribuendo nuovi volantini: «Occupy Wall Street, occupy everywhere», occupare, dappertutto, mentre la polizia circonda il perimetro dietro alle transenne. La marcia si sposta a Canal Street, infiamma la Sesta Avenue con l’adagio che è diventato manifesto: «Siamo il 99 per cento», mentre arrivano le notizie dei manifestanti arrestati, a Oakland, in California, dove la manifestazione anti Wall Street ha alzato i toni.
Solidarietà ne è arrivata anche dal quartiere più in e ricco della città. Sandy English è un blogger originario di Brooklyn, ha coperto tramite video e articoli l’intera protesta: «Qualcosa sta cambiando, anche guardando l’Italia. Immagino Wall Street come una rivoluzione: è una battaglia di idee. Una rivoluzione senza violenza». Kit Guill ha 70 anni, ha partecipato alle proteste contro il Vietnam, ammette di vivere in un bel palazzo residenziale sulla Quinta Avenue: «Sono una di quelle che chiamano upper class, mi interesso di politica, mi stanno a cuore i giovani». Distribuisce fotocopie del New York Times sulla «nascita di un nuovo movimento progressista», ieri notte ha raggiunto i ragazzi sgomberati per portare un po’ di cibo: «Questa generazione non ha futuro. Partecipo per portare il mio supporto, per essere parte di una rivolta che trovo giusta nelle fondamenta. Questa occupazione è stata più che una passeggiata in un parco. Entra nella storia: è una nuova era».

La Stampa 16.11.11
“Anche senza piazza le nostre idee potranno vincere”
I manifestanti: altri modi per farci sentire
di Paolo Mastrolilli


E adesso? Sfidare la polizia e rischiare lo scontro violento, oppure inventare una nuova strategia che sorprenda ancora gli avversari? In altre parole: Robespierre, che era pronto a tagliare teste, oppure Sun Tzu, che predicava di non restare mai dove il nemico si aspetta di trovarti? A Zuccotti Park e dintorni si ragiona su questa domanda, dopo il raid di lunedì notte.
Sarà un caso, ma proprio lunedì il sito del magazine Adbuster, che per primo aveva lanciato l’idea di occupare Wall Street imitando piazza Tahrir, aveva posto così il dilemma: «Con l’inverno che si avvicina, le cose potrebbero mettersi male: cosa fare per tenere viva la magia? Ecco due idee emergenti. Strategia numero 1: raccogliamo le forze e sopravviviamo eroicamente nella neve, e quando vengono i poliziotti offriamo i nostri corpi per resistere in maniera non violenta. Strategia numero 2: dichiariamo vittoria e lanciamo un party, un festival, un giubileo per celebrare la strada fatta. Tipo il 17 dicembre, anniversario del terzo mese di protesta. Poi ripuliamo e andiamo al coperto a riflettere. Usiamo l’inverno per fare brainstorming, networking e riemergere rinfrancati con nuove tattiche, filosofie e progetti pronti per rimbombare a primavera».
L’appuntamento che il sito Occupy Wall Street aveva dato per domani, secondo anniversario della protesta, poteva essere propedeutico a questa strategia: alle 7 di mattina, manifestazione davanti a Wall Street; alle 15, dimostrazioni nelle principali stazioni della metropolitana; alle 17, raduno a Foley Square, davanti al comune, per un festival di protesta musicale con cui chiudere la giornata. «Il sindaco Bloomberg dice il manifestante Tim Gordon, che dopo il raid è tornato a Zuccotti Park ha avuto paura di questo progetto e ha ordinato lo sgombero prima che avvenisse. Ma noi andremo avanti, il raid aumenta solo il rischio di violenze».
Dalla National Lawyers Guild, l’associazione non profit di avvocati progressisti che difende i manifestanti, Margaret Kunstler risponde che adesso è troppo presto per pensare nuove strategie: «Siamo impegnati a proteggere il Primo emendamento della Costituzione, che garantisce a tutti il diritto alla libertà di espressione. Poi, vinta questa battaglia, vedremo».
John Murdock, uno dei manifestanti arrestati e poi liberati, non esclude un cambio di strategia: «Ormai abbiamo un successo planetario, non siamo più legati al luogo fisico della protesta. L’importante è trovare nuovi argomenti e nuove forme». Una risposta a chi accusa Ows di avere molta pubblicità, ma nessun messaggio coerente. Chuck Helms, sindacalista del New Jersey, la articola così: «Bloomberg riapre il parco e noi torniamo a protestare, magari senza tende, così evitiamo lo scontro fisico. Poi trasformiamo Occupy Wall Street in “Occupiamo le case degli americani”: chiediamo a tutti coloro che ci sostengono di esporre un segno di solidarietà. Saremo milioni, e a quel punto voglio vedere come risponderà la politica».

Corriere della Sera 16.11.11
La Wolf: «Senza un leader il movimento rischia la fine»
La scrittrice: le proteste devono avere un volto
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Quando ha saputo dello sgombero di Zuccotti Park ordinato dal sindaco Bloomberg, Naomi Wolf ha avuto «un sussulto di paura». «Mi hanno proibito di unirmi ai manifestanti», racconta al Corriere la 49enne scrittrice e femminista autrice di bestseller quali Il Mito della Bellezza. «Dopo il mio arresto, lo scorso 20 ottobre, la polizia ha minacciato di incriminarmi in sede federale se, prima dell'udienza del 5 gennaio, dovessi rifinire dentro per incitazione alla rivolta».
Come è stata trattata in cella?
«Sono finita in manette e poi in un commissariato irregolare senza avvocati con l'accusa di aver violato la legge occupando il marciapiede durante una manifestazione. Quando ho tirato fuori il codice del Comune secondo cui nel corso di una protesta le autorità sono tenute a lasciare libero l'accesso ai marciapiedi, gli agenti si sono azzittiti. Conosco bene gli abusi della polizia Usa che ho approfondito scrivendo The End of America, da cui il mio compagno producer Avram Ludwig ha tratto l'omonimo film».
Perché arrestare proprio lei?
«Il messaggio è chiaro: "Non importa quanto famosi, ricchi o influenti siete; se scendete in piazza vi arrestiamo". È finito dentro anche Cornel West, uno degli intellettuali più rispettati d'America, ben più illustre di me».
È possibile fare un bilancio di Occupy Wall Street?
«È uno dei più significativi movimenti globali a ridare speranza e potere alle masse spodestate. Per la prima volta da decenni anche l'americano della strada ha l'opportunità, storica, di riappropriarsi della democrazia, scippata dall'erosione di libertà che, grazie al Patriot Act, ha spianato la strada allo stato di polizia».
Per questo ha deciso di unirsi al movimento?
«Non sono un membro formale di Occupy Wall Street ma una cittadina qualsiasi che, seguendo la lezione impartitami dai miei nonni e genitori, uso la protesta pacifica per cambiare il mondo. Dal nazifascismo alle dittature comuniste al movimento per i diritti civili Usa, la storia ci insegna che i movimenti spontanei di massa sono l'unico antidoto efficace per riaprire società chiuse e repressive».
Si può paragonare Occupy Wall Street al movimento per i diritti civili?
«Certo. Sono entrambi movimenti grassroots pacifici che usano marce, sit-in e occupazioni come arma politica. Proprio come per Occupy Wall Street, all'inizio i media erano ostili anche nei confronti dei seguaci di Martin Luther King Jr».
Perché l'attuale movimento non possiede leader?
«La storia dei movimenti di protesta Usa insegna che l'Fbi prende sempre di mira i leader: basta braccare questi per decapitare il movimento. Ma ciò non significa che sia un bene per Occupy Wall Street restare senza un vero portavoce».
Cosa intende dire?
«Stamane, quando ci siamo svegliati, Avram e io abbiamo immaginato un programma improrogabile per salvare Occupy Wall Street da morte sicura. Il primo passo è trovare subito, se non proprio un leader, almeno dei testimoni che possano dare un volto alla protesta. Per spiegare all'America che a protestare sono casalinghe, pensionati, veterani di guerra, cioè madri, fratelli e cugini, tutti patrioti perseguitati dalla polizia nonostante amino la bandiera e seguano gli insegnamenti dei padri fondatori».
Basterà?
«Certo che no. Se non vuole morire, Occupy Wall Street deve correre a registrare subito tra i 5 e i 10 mila elettori, creando un formidabile blocco di voti con un potere condizionante sulla politica che tutti cercherebbero di corteggiare. La mossa successiva dovrebbe essere quella di organizzare petizioni per buttar fuori con qualche migliaio di firme i sindaci alla Bloomberg. Si chiama Recall Election ed è contemplata dalla costituzione. Dal 1911 a oggi ci ha liberato di dozzine di politici tra cui il governatore della California Gray Davis nel 2003».
Che ruolo sta giocando il presidente Obama in tutto questo?
«Ha usato un linguaggio ad hoc per tranquillizzare la base democratica. Ma se Occupy Wall Street non saprà muoversi subito per rilanciarsi e sopravvivere, il presidente non esiterà a cestinare il movimento, come ha fatto in passato con tutte le sue promesse tradite».

Repubblica 16.11.11
La sfida della piazza fa paura all’America
Per decenni ci hanno intimato di lasciare la leadership alle élite È ora di cambiare
di Naomi Wolf


Sembra proprio che i politici americani ne abbiano avuto abbastanza di democrazia. In tutto il paese la polizia, che interviene su disposizione delle autorità locali, smantella gli accampamenti dei manifestanti che appoggiano il movimento Ows (Occupy Wall Street), e talvolta lo fa con una violenza sconvolgente e del tutto gratuita. Come è successo a Oakland, nei giorni scorsi, quando centinaia di poliziotti in assetto antisommossa hanno circondato l´accampamento e hanno aperto il fuoco con proiettili di gomma (che possono essere letali), granate abbaglianti e gas lacrimogeno.
Il mio recente arresto, avvenuto mentre rispettavo i termini previsti da un permesso e mi trovavo tranquillamente in una strada di Lower Manhattan, ha portato alla ribalta come non mai la realtà della repressione in corso. L´America sta aprendo gli occhi su ciò che si è andato amplificando mentre dormiva: alcune società private hanno pressoché reclutato le forze di polizia per mobilitarle per sé (JPMorgan Chase ha effettuato una donazione da 4,6 milioni di dollari alla New York Police Foundation); il Dipartimento federale per la sicurezza interna ha distribuito ai piccoli contingenti delle polizie municipali armi e attrezzature in dotazione all´esercito; i diritti della popolazione alla libertà di parola e di riunione sono stati compromessi in modo dissimulato da fumose richieste di autorizzazioni.
All´improvviso, l´America pare uguale al resto del mondo che è arrabbiato, che protesta, che non è completamente libero. In realtà, molti commentatori non hanno ancora capito che è in corso una guerra mondiale, diversa da qualsiasi altro conflitto che ha segnato la storia del genere umano: per la prima volta, infatti, i popoli di tutto il mondo non si identificano e non si organizzano in base a rivendicazioni nazionali o religiose, bensì per una nuova consapevolezza globale, per chiedere pace, un futuro sostenibile, giustizia economica, democrazia. Loro nemico è la "corporatocrazia" globale, che si è comprata governi e legislature, ha istituito proprie forze armate, si è dedicata a una truffa economica sistematica. In tutto il mondo i pacifici manifestanti sono esecrati, accusati di essere dirompenti. Ma la democrazia è rottura. Martin Luther King Jr. sosteneva che la rottura pacifica di «ciò che è consuetudine invalsa» si dimostra proficua perché svela le ingiustizie nascoste, alle quali si può quindi porre rimedio. Teoricamente, i manifestanti dovrebbero dedicarsi a una rottura disciplinata e non violenta in questo senso, specialmente sconvolgendo il traffico. Ciò serve a tenere alla larga i provocatori e al contempo a mettere in risalto l´ingiusta militarizzazione della reazione della polizia.
Oltretutto, i movimenti di protesta non hanno successo nel volgere di qualche ora o di pochi giorni: di norma implicano di procedere a lunghi sit-in o all´occupazione di aree pubbliche sul lungo periodo. Questa è una delle ragioni per le quali i manifestanti dovrebbero fare collette e assumere loro legali. La "corporatocrazia" è terrorizzata dall´eventualità che i cittadini pretendano legalità. I manifestanti di ogni paese dovrebbero schierare in campo un loro esercito di avvocati, e dovrebbero avere anche media loro, invece di affidarsi a quelli mainstream. Dovrebbero tenere blog, inviare tweet, scrivere editoriali o comunicati stampa, e così pure riportare e documentare i casi di maltrattamento da parte della polizia (e di chi commette violenze).
In fin dei conti, il principio di fondo più importante di questi movimenti di protesta non sta nelle loro istanze, bensì nelle nascenti infrastrutture di un´umanità comunitaria. Per decenni al popolo è stato intimato di abbassare la testa e di lasciare la leadership alle élite. Protestare diventa di conseguenza cambiare, proprio perché la popolazione si fa avanti, si incontra faccia a faccia, re-impara cosa significhi libertà, dar vita a nuove istituzioni e organizzazioni e ancor più allacciare rapporti. Niente di tutto ciò è possibile in un clima di violenza politica e poliziesca contro pacifici manifestanti democratici. È risaputo che, in seguito alla brutale repressione del giugno 1953 dei lavoratori comunisti della Germania est che manifestavano, un giorno Bertolt Brecht chiese: «Non sarebbe più semplice […] per il governo disperdere la gente ed eleggere qualcun altro?». In tutta l´America, e in fin troppi paesi, sembra proprio che i leader, presunti democratici, stiano prendendo fin troppo sul serio l´ironica domanda di Brecht.
Traduzione Anna Bissanti Copyright: Project Syndicate, 2011

Repubblica 16.11.11
Unioni in calo e politica del figlio unico rischiano di trasformare la Cina in un Paese di vecchi Lo Stato corre ai ripari e organizza una Expo per single. Divisi per censo e provenienza. Ed è un successo
Troppi cuori solitari a Shanghai una fiera per la caccia al partner
L’esposizione è stata letteralmente presa d´assalto Già mezzo milione i visitatori
di Giampaolo Visetti


«Quarantenne dello Shandong, impiego fisso, 14mila yuan mese (1400 euro ndr), appartamento e auto, amante shopping». Damon Tu è uno dei pezzi forti del mercato, ma non ha ancora trovato una donna interessata a lui. Il suo biglietto, dotato di numero di cellulare e link per l´album fotografico online, campeggia su un tabellone rosso assieme ad altre migliaia di profili. Un fiume di folla scorre lentamente nei padiglioni e si ferma per appuntare diligentemente nomi e patrimonio dei candidati. «Potrebbe andare - dice Huang Yushu, commessa di 21 anni - ma ne cerco uno più ricco e che sia del Sud».
La Cina è travolta dall´incubo di invecchiare prima di diventare ricca e si mette in mostra per commerciare anche matrimoni. I "bastoni nudi", come qui si chiamano gli scapoli, iniziano a diventare un´emergenza nazionale e anche il partito-Stato è costretto a combinare incontri. La prima Expo di Shanghai riservata ai single è già la più grande fiera mondiale di cuori solitari. Le autorità pensavano che avrebbe attirato qualche migliaio di visitatori. Alle 10.30 del mattino la polizia è invece costretta a bloccare gli ingressi, presi d´assalto da decine di migliaia di donne e uomini in cerca di un partner. Fino ad oggi ha attirato oltre cinquecentomila persone.
Può sembrare un folle mercato sospeso tra romantiche illusioni, cinismo materialista e irriducibile maschilismo d´Oriente. Gli stand sono invece lo specchio del profilo nuovo della nazione più popolata del pianeta, ma afflitta dalla più grave crisi di matrimoni e nascite della sua storia. Scapoli e nubili in offerta, invitati a registrarsi, sono divisi per età, regione di origine, stato sociale, reddito e caratteristiche fisiche, a partire da peso e altezza. L´ingresso ai padiglioni è a pagamento e il prezzo del biglietto sale in proporzione alla "qualità dei single", risultato di una media di caratteristiche garantite da seicento agenzie matrimoniali di tutto il Paese. Esistono anche spazi gratuiti, gremiti da "sheng nu", gli "avanzi": contadine di villaggi remoti e oltre i 27 anni, manovali cinquantenni emigrati nelle metropoli, singoli con prole a carico, o anziani sprovvisti di pensione. Miliardari e miserabili divisi solo da una tenda, ma uniti dal primo problema degli urbanizzati cinesi contemporanei: trovare qualcuno con cui trascorrere la vita.
«E´ l´effetto megalopoli - dice Zhai Zhenwu, direttore della facoltà di sociologia dell´università Renmin di Pechino - zero rapporti umani e aspettative di tenore di vita alle stelle». Il risultato, unito alle conseguenze della legge sul figlio unico, è una Cina sconvolta, dove in dieci anni i matrimoni sono calati del 37%, le famiglie mononucleari sono cresciute del 48% e il tasso d´invecchiamento del 14%. Un rapporto, presentato all´Expo dei single, rivela che senza una casa, un´auto e uno stipendio che garantisca ferie all´estero, ormai è inutile presentarsi anche alle agenzie per incontri. Donne in cerca di anziani sempre più ricchi e uomini attratti da povere sempre più giovani: la nuova superpotenza del mondo, dimenticato il socialismo, si scopre disperatamente sterile e sola, come un qualsiasi capitalismo dell´Occidente sul viale del tramonto.

La Stampa 16.11.11
La Merkel prova a mettere fuori legge l’Npd
Germania, l’ombra dei servizi dietro i delitti dei neonazi
Gli 007 avrebbero coperto tre loro informatori nell’estrema destra
di Alessandro Alviani


BERLINO. Emerge il sospetto di servizi deviati dietro gli omicidi commessi in Germania tra 2000 e 2006 da un gruppo di estrema destra scoperto solo adesso. In almeno un caso - la Bild parla di sei - un dipendente dei servizi segreti del Land dell’Assia si trovava sul luogo del delitto: era seduto nell’Internet point di Kassel in cui il 6 aprile 2006 venne freddato il 21enne di origini turche Halit Yozgat. Gli agenti rintracciarono lo 007 dieci giorni dopo: era l’unico testimone che non si era presentato alla polizia. A casa sua furono ritrovate diverse armi e alcuni brani del «Mein Kampf» di Hitler. Nella sua città la spia, poi sospesa, veniva chiamata «Piccolo Adolf». Dopo il suo fermo non ci furono altri «omicidi del kebab».
In un Paese sotto choc i servizi segreti finiscono dunque sempre più nella bufera. Il timore è che possano aver coperto i neonazisti Uwe Mundlos, Uwe Böhnhardt (entrambi suicidi) e Beate Zschäpe (arrestata), che hanno rivendicato in un dvd l’assassinio di otto turchi e un greco, più un attentato a Colonia nel 2004 con 22 feriti. A questi va aggiunta l’uccisione di una agente nel 2007. Il sospetto è che i tre fossero sul libro paga degli 007, come informatori. Sotto accusa è finito ora l’intero sistema degli informatori infiltrati nell’estrema destra.
Al congresso di Lipsia la Cdu ha approvato una mozione voluta dalla cancelliera Merkel che chiede di verificare l’ipotesi di mettere al bando la Npd, il principale partito di estrema destra. Un simile procedimento era fallito nel 2003: allora si scoprì che buona parte delle frasi che dovevano dimostrare l’incostituzionalità del partito erano state in realtà pronunciate da informatori pagati dai servizi segreti.
Prima di tentare di nuovo di vietare la Npd gli 007 dovrebbero ritirare tutti i loro infiltrati. È un rischio, in quanto resteremmo all’oscuro degli sviluppi nel partito, ha frenato il ministro degli Interni, Friedrich. La Germania teme inoltre che un nuovo flop possa rafforzare la Npd.
Intanto, mentre Friedrich studia un registro centrale degli estremisti neri più pericolosi, il Tagesspiegel rivela che i tre neonazisti progettavano forse attentati anche a politici tedeschi.

Corriere della Sera 16.11.11
L’Iran e l’arma nucleare
Le reazioni di Israele
risponde Sergio Romano

qui
http://www.scribd.com/doc/72882732

La Stampa 16.11.11
“Rischio protettorato Usa per il Vaticano” Andreotti scoperchia l’archivio della Dc
Il senatore: “Lo scongiurammo inserendo i Patti Lateranensi in Costituzione”
di Fabio Martini


ROMA. Dopo il Pci, ora è la volta della Dc. Il declino della Seconda Repubblica sta accelerando la riscoperta dei partiti della prima stagione della Repubblica e così, dopo la ricca mostra itinerante dedicata alcuni mesi fa alla storia del Partito comunista italiano (e preparata dai «legittimi eredi» di quella storia, gli ex Ds), da oggi al Tempio di Adriano di Roma si apre una analoga iniziativa che in questo caso ripercorre, per immagini e documenti, la storia della Democrazia cristiana. Promossa dalla Associazione «I Popolari», la mostra intende «valorizzare il ruolo dei cattolici impegnati in politica - spiega l’ideatore della iniziativa Pier Luigi Castagnetti - che, dopo non aver partecipato alla stagione risorgimentale, nel secondo dopoguerra furono i protagonisti della rinascita del Paese e della sua unificazione, anche grazie alla scolarizzazione di massa, all’Ina-casa di Fanfani, all’autostrada in sei anni, all’effetto unificante sul linguaggio realizzato dalla prima Rai».
Un soprassalto di orgoglio democristiano che, più o meno consapevolmente, trae alimento anche da una piccola maledizione che perseguita il buon nome della Dc: nell’immaginario collettivo il termine democristiano oramai è diventato sinonimo di compromesso al ribasso, di sottogoverno deteriore. Un’immagine che finisce per associare in un unico «calderone» la stagione del declino - l’ultimo ventennio, dal 1974 al 1993 - con l’intera storia del partito, che copre un cinquantennio e che comprende tutta la prima fase della Repubblica, la ricostruzione e il boom economico.
Nel lavoro di preparazione della mostra, gli organizzatori hanno avuto la fortuna di acquisire una testimonianza storicamente assai interessante sulle ingerenze straniere sull’Italia, tema in questi giorni assai dibattuto, sia per motivi molto diversi. Richiesto di ricordare la stagione della Assemblea costituente, Giulio Andreotti, rivela un dettaglio che lui stesso riconosce essere stato finora «mai considerato». Racconta Andreotti, in quegli anni molto vicino al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi: «Inserendo nella Costituzione i Patti lateranensi, si allontanò definitivamente l’ipotesi di una garanzia internazionale alla Santa Sede, per la quale avevano fatto sondaggi in Segreteria di Stato tanto il governo americano che quello irlandese, con esito per loro non incoraggiante da parte di monsignor Montini».
In parole povere, uno dei passaggi più importanti nella storia del dopoguerra, l’inserimento dei Patti lateranensi in Costituzione col voto congiunto della Dc e del Pci e quello contrario dei socialisti e degli azionisti, sarebbe stato preceduto e accelerato anche dall’opzione di una sorta di «protettorato» straniero, con una esplicita candidatura non solo dell’Irlanda cattolica, ma soprattutto di una delle due superpotenze uscite vittoriose dalla guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America. In sostanza, la Chiesa attraverso il futuro Paolo VI, la Dc di De Gasperi e il Pci filosovietico di Palmiro Togliatti si ritrovarono d’accordo nel concedere alla Chiesa la «protezione» nazionale piuttosto che affidare il Vaticano alle cure degli Stati Uniti d’America. Nella mostra che si apre oggi sono esposti 170 documenti, tra manifesti, volantini, audiovisivi e alcune lettere di speciale valore storico.

La Stampa 16.11.11
Einaudi i mercoledì da leoni
In vista del centenario del fondatore, nel 2012, lo Struzzo pubblica i verbali delle riunioni editoriali ’43-’52
di Bruno Ventavoli


TORINO. Il rito del mercoledì ha continuato a essere celebrato anche oltre gli anni di cui parlano i verbali in uscita Proponiamo qui accanto una rielaborazione grafica del «tavolo» einaudiano nei primi Anni Sessanta da uno schizzo di Ernesto Ferrero, uno dei partecipanti. Al centro Giulio Einaudi Italo Calvino cesella la parte dell’oratore imbranato, insegue la parola trinciando gesti per aria, sembra cercare una strada nella nebbia. Rarissimi i suoi entusiasmi dichiarati Norberto Bobbio: se deve proporre qualche titolo, ne sottolinea i difetti prima delle eventuali qualità. Così vuole il bon ton einaudiano, che tutti rispettano scrupolosamente Natalia Ginzburg era l’unica donna presente alle riunioni einaudiane L’autrice di Lessico Famigliare era vedova di Leone Ginzburg che fu tra i fondatori della casa editrice Giulio Bollati presiede gli incontri del mercoledì, ha l’aria meditativa quasi un contraltare alle risate di Franco Venturi che gli siede accanto con la sua barbetta mefistofelica Massimo Mila non è uomo di dubbi: gli piace recitare la parte del bastian contrario, dice cose anche dure con finto candore e la lagna bonaria del socio di una bocciofila lungo il fiume
Aciascun libro è dedicato un piccolo paragrafo. Poche righe per dire quanto vale, e se è opportuno pubblicarlo. Talvolta la registrazione è analitica e meticolosa, per divulgare come nasce il titolo di una collana («I gettoni»), altre volte è più elusiva. Se quelle carte fossero finite a Forster Wallace sarebbero un romanzo, il canovaccio di come si forgia la cultura dell’Italia democratica e repubblicana. Così, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952 (appena raccolti per Einaudi, a cura di Tommaso Munari, prefazione di Luisa Mangoni, primo omaggio delle iniziative per il centenario della nascita del fondatore Giulio nel 1912), sono invece un viaggio frammentato, balbettante, focoso, pieno di curiosità (nessuno scandalo inedito) dietro le quinte di grandi libri. Raccontano i periodici incontri, sempre il mercoledì, che furono cuore e vertebre della casa editrice torinese, fin dagli esordi. Se del periodo in cui piovevano ancora bombe sulla Torino in guerra, e su Giulio Einaudi e i suoi giovani amici, non restano praticamente scritti, dopo, la Riunione divenne un rito, e il verbale uno strumento per far circolare idee nelle varie sedi («con la massima discrezione»), e istruzioni pratico-metodologiche.
Giulio Einaudi è il sovrano dei mercoledì. Un po’ megalomane, un po’ snob («Continuare con gli scrittori più validi, eliminando il criterio di amena lettura»). Intorno siedono Pavese, Bobbio, Calvino, Vittorini e molti altri. La meglio gioventù delle lettere italiane (siamo alla fine degli Anni 40). L’adunata è nel salone dell’editrice, che profuma di carta, silenzio, vecchia aristocrazia piemontese, ed è innervata da baldanzose simpatie comuniste. Si discute di tutto lo scibile, arte bizantina, anatomia, forza atomica, Kant e Sinclair, vette poetiche, miserie umane, dodecafonia, con la pacatezza sapiente di chi ha le spalle cariche di infinite letture. Si pensa vulcanicamente a pagine e copertine, mai a tirature e prezzi. Ogni tanto l’ideologia corsara, che tinge di bel rosso mediocrità pesantissime, porta ad accogliere con sbrigativo unanimismo opere di Marx, Storie del cinema sovietico, idee di Stalin, e altre volte a lasciare perdere un Heidegger che, dopo Jaspers e Kojève, «sposterebbe decisamente il già pericolante equilibrio della collana», e magari a respingere scioccamente Se questo è un uomo .
Certo, nella scoperchiatura dei preziosi archivi einaudiani si troverà conferma, persino rude nel suo stenografismo, di imbarazzanti genuflessioni all’egemonia del Pci. Il collaboratore Renato Poggioli, per esempio, non viene difeso come si deve dagli attacchi della falce e martello. Se si parla di autori russi, c’è una lista consegnata dall’ambasciata di Mosca con i buoni e i cattivi. L’ideologia spesso è forte. Magari è una censura, anche se si preferisce parlare di «scelta». Magari è solo questione di mood: Lo Gatto propone di pubblicare articoli di Dostoevskij, e assicura che sono tutti «compresi nell’edizione critica sovietica». Ma alla fine quello che conta davvero è che i libri abbiano «leggibilità e fantasia».
Al di là dei peli dell’uovo che gli eterni polemisti vorranno rintracciare nella formidabile macchina da cultura einaudiana, trasuda l’immenso amore, la cura, la valutazione del peso letterario o scientifico che sta dietro ogni libro, e che forse nella prossima era sbrigativa dei libri digitali non ci sarà mai più. Le traduzioni, per esempio, sono fondamentali. Per il Don Chisciotte il nome di Macrì «suscita dubbi e diffidenze», il lavoro che mai farà deve essere ripulito prima dagli esperti traduttori della Casa, e poi «attentamente vagliato filologicamente». Per mandare in catalogo gli scritti di Cavour, segue «un’esauriente discussione» di Einaudi, Cantimori, Serini, Bobbio, Scassellati, Bollati.
La riunione, «Il consiglio», del mercoledì era una cerimonia di altissima eucaristia. Da lì usciva ogni decisione, nasceva il libro come tassello di una casa editrice, «era un respiro di gruppo che lavora e scopre le cose, ancora tutto proteso in avanti per cui, anche se con divergenze, ogni cosa che scopre è un’avventura». C’era amicizia, stima, passione intellettuale, naturalmente anche gelosia e amor proprio. Spesso veniva battuto un pugno, una guancia diventava paonazza. Essere ammessi al tavolo era un sigillo d’onore. Cantimori «si meraviglia e si scandalizza violentemente per essere stato annoverato tra le persone non comprese tra i “consulenti abituali della Casa”».
Pavese, sardonico e icastico, è di fatto «il direttore editoriale». Bollati, il grande mediatore culturale. Mila, un lettore attento, ironico, rassegnato di fronte ai disguidi. Natalia (Ginzburg), una voce sempre concreta, puntigliosa, estrosa. Bobbio, un consigliere severo. Muscetta, intermediario, con Giolitti, del Pci, si scaldava subito, irrequieto di temperamento, per l’ortodossia marxiana, ma la stemperava in migliaia di interessi, ideò i Millenni, e volle fare una collana di sceneggiatura di film. Calvino promuoveva opere della Resistenza, curava i libri postumi di Pavese con amore da discepolo, raccomandava sempre narratività, anche quando si trattava di saggi molto seri. Bocciò Frankenstein, promosse Sherlock Holmes. Chissà perché. Era il segreto dell’Einaudi.

La Stampa 16.11.11
Il testimone
Alla corte di Giulio teatrino di senatori maestri del “no”
di Ernesto Ferrero


Il Senato einaudiano tiene puntualmente le sue riunioni ogni mercoledì alle 18. Ci sono i dirigenti, redattori scelti, consulenti, collaboratori esterni, ospiti illustri di passaggio. Ultimo arrivato, tocca a me verbalizzare. Cerco di conservare su carta anche il tono dei discorsi, le battute, i momenti umoristici. L’aria è insieme consapevole e famigliare, molto british. Mentre viene servito il tè (Twinings affumicato) in bellissime tazze bianche di Rosenthal. Giulio Einaudi, pipa alla mano, saluta gli ospiti con deferenza un po’ ironica, cercando l’occasione di una qualche provocazione scherzosa; sogghigna come un grosso gatto in agguato. Si sa che la sua tecnica è quella: l’unanimità lo annoia e lo insospettisce, detesta lo specialismo fine a se stesso, vuole la discussione anche dura, lo scontro, convinto com’è che solo una dialettica serrata sia produttiva. Sogna una rivoluzione culturale permanente, e la mette in pratica ogni giorno.
Alla sua destra è solito accomodarsi Norberto Bobbio, con il suo forte profilo granducale. Qualche giovane redattore lo ha ribattezzato «il Gran Rapace», ma il Maestro non ha nulla del predatore che si fionda sulla vittima. È l’uomo del dubbio metodico, delle misurazioni scrupolose. Dice che gli piace venir lì perché così si aggiorna. Ascolta Calvino che parla di romanzi, Carena di classici latini e greci, Castelnuovo e Fossati di storia dell’arte, Gallino di sociologia, Strada di autori russi. Se deve proporre qualche titolo, ne sottolinea i difetti prima delle eventuali qualità. Così vuole il bon ton einaudiano, che tutti rispettano scrupolosamente. Spesso ha un’aria divertita. Sorride alle provocazioni dell’editore, alle gags e alle imitazioni di Davico Bonino, alle argute metafore contadine del tenero Daniele Ponchiroli, redattore capo. Accanto Bobbio sta Calvino, che cesella la parte dell’oratore imbranato, insegue la parola trinciando gesti per aria, sembra cercare una strada nella nebbia. Rarissimi i suoi entusiasmi dichiarati.
Alla sinistra di Einaudi si è accampato Massimo Mila. Ha l’aria tonica di un alpinista appena rientrato da un’ascensione impegnativa, appare serafico e quasi distante, traffica a testa bassa nel borsone pieno di libri. Lui invece non è uomo di dubbi. Gli piace recitare la parte del bastian contrario, dice cose anche dure con finto candore e la lagna bonaria del socio di una bocciofila lungo il fiume.
Si ride spesso, in riunione. Esplodono come fucilate le risate di Franco Venturi, sistemato accanto al meditativo Bollati che presiede. Ha una barbetta mefistofelica, denti bianchi e fortissimi, fisico d’atleta anche lui. Con le sue risate esorcizza la stupidità, l’ignoranza, la disorganizzazione che vede in giro. Proverbiale è lo humour di Cesare Cases, di sottile eleganza illuminista, malgrado lui sia il profeta di Lukàcs, Adorno e Horkheimer, che l’Illuminismo lo hanno fatto a pezzi. Giorgio Manganelli, tapiro baffuto e malinconico, cerca di spacciare certi classici minori delle letterature antiche con la complicità un po’ losca di chi ti mostra sottobanco un libro erotico. Dirige una collana sperimentale e quasi si indigna quando un titolo vende qualcosa in più del poco che si prevedeva.
Il mercoledì è un teatrino di primattori che non cercano di sopraffarsi o rubare la scena, ma è anche una miniera a cielo aperto in cui si setacciano tonnellate di scorie da cui estrarre una pietra che ancora non si sa quanto preziosa. L’editoria si fa in primo luogo con i «no», e anche in questo i senatori einaudiani sono maestri.

Corriere della Sera 16.11.11
Einaudi, nei verbali segreti il tormento dell'ideologia
La regia di Giulio per moderare le diverse anime e il tentativo di Vittorini, Bobbio e Felice Balbo per sottrarsi alla morsa del Partito comunista
di Paolo Di Stefano


Il tratto distintivo della Einaudi venne riassunto da Cesare Pavese in un ossimoro che chiarisce bene anche il senso delle riunioni editoriali di via Arcivescovado e poi di via Biancamano. A proposito della casa editrice torinese, di cui era ormai di fatto il direttore editoriale oltre che una delle anime originarie, Pavese parlò di «concordia discorde». Fosse stato più malizioso, avrebbe potuto anche dire «discordia concorde». Ma insomma, dopo aver letto questi primi Verbali del mercoledì 1943-1952 perfettamente curati da Tommaso Munari, non si troverebbe di meglio per definire il senso profondo di quelle riunioni intellettuali finalizzate a scopi editoriali. Lo ricorda opportunamente, nell'introduzione, Luisa Mangoni, cui si deve una irrinunciabile storia della casa editrice dalla fondazione agli anni Sessanta, il cui titolo, Pensare i libri, dice in sé già moltissimo. Alludendo al metodo di lavoro peculiare dello Struzzo, la Mangoni ricorda, del resto, una tarda riflessione di Giulio Bollati (ormai lontano dalla Einaudi da qualche decennio), che indicava nella crisi allora in corso in casa editrice un errore per lui fondamentale: quello di avere infranto, con la famosa (o meglio famigerata) Enciclopedia, la regola aurea della condivisione. Cioè il fatto che quella impresa fosse il frutto, insolito per un'opera Einaudi, di un'elaborazione pressoché individuale (totalmente delegata a Ruggero Romano) e perciò estranea a «quella mediazione culturale in cui consiste il compito e l'abilità di una casa editrice».
Di una casa editrice come la Einaudi soprattutto, nata nel 1933 da un gruppo di amici, Pavese, Leone Ginzburg, Massimo Mila, raccolti attorno al loro più giovane compagno di liceo Giulio Einaudi e ben presto raggiunti da Natalia Ginzburg e da Giaime Pintor. Ora, su quella «mediazione», di cui lo stesso Bollati è stato grande artefice dal 1949, abbiamo una documentazione preziosa. Con la speranza che contribuisca a «disintossicare l'atmosfera» (parole della Mangoni) attorno a un'iniziativa intellettuale su cui da sempre si accendono, a intervalli regolari, discussioni e polemiche, siano esse legate al rapporto con il Partito comunista, alla censura dello slavista Renato Poggioli, al nodo dell'egemonia culturale, alla imprudenza della conduzione economica o alla «megalomania» del padrone. La necessità di verbalizzare le riunioni editoriali nasce per un'esigenza di comunicazione interna, quando il nucleo dei «senatori» è disperso per via delle persecuzioni belliche e le sedi della casa editrice sono diventate tre: Torino (presidiata dal solo Mila), ma anche Milano (con Vittorini dal '43) e Roma (dove si trova Pavese), mentre Giulio Einaudi, per diversi mesi, è rifugiato in Svizzera.
Si parte con una lettera di Carlo Muscetta, datata 7 agosto 1943, in cui l'editore viene messo al corrente dell'idea di pubblicare alcuni «volumetti formato "universale"» sulle condizioni dell'Italia e dell'Europa. Di lì a qualche mese Giaime Pintor morirà dilaniato da una mina e Leone Ginzburg resterà vittima a Regina Coeli delle torture tedesche. Intanto, l'editore ha arruolato Vittorini, con il proposito di affidargli un «periodico di educazione popolare», un «giornale spregiudicato e vivo», che si tradurrà nel «Politecnico» settimanale e poi mensile. Nella fase calda della rivista, i verbali testimoniano il contrasto tra Pavese e Vittorini che incarna il desiderio di rinnovamento alimentato da Einaudi: un contrasto già noto grazie alle lettere editoriali, ma che qui trova alcune emergenze interessanti. Per esempio, quando Pavese lamenta con sarcasmo una lacuna di comunicazione con la redazione di Milano: «Ma in generale osserviamo che parlate di testi a noi sconosciuti. Questo è bello ma scomodo. Se dobbiamo dare un parere dobbiamo informarci. In linea di massima ci fidiamo della vostra scelta. Comunque alla prima occasione vedremo i testi e saremo sempre in tempo a dire la nostra». O la visibile insofferenza allorché si profila il progetto della «Vittoriniana», ovvero dei «Gettoni». La regia di Giulio Einaudi si percepisce ovunque. Persino nel suo silenzio. Se l'editore non può fare a meno di Pavese, non vuol rinunciare alle novità che promette il nuovo consulente da Milano.
Regia che tende a favorire le «discordie» per portarle a soluzione concorde. Le presenze, già nel '45, sono impressionanti: a Torino, con Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat e Felice Balbo, a Roma con Muscetta, con Antonio Giolitti, a Milano con Vittorini e con Micha Kamenetzki (Ugo Stille) si ripensa all'intero catalogo, si discute di «collanologia», dalla «Biblioteca di cultura filosofica» ai «Saggi», dei «Poeti», della «Collana marxista», della «Biblioteca di cultura storica», perché ogni titolo acquisito deve entrare nel giusto contesto. E se non c'è il contesto adatto, cioè la collana pronta ad accoglierlo, meglio rinunciare. Non si parla mai di tirature e di vendite: non è questa la sede; si parla solo di idee e di libri. A proposito delle idee, è sempre vivo il tema dell'attualità, del confronto con la società e con la politica: si pensa a nuove iniziative d'intervento polemico e graffiante, dei «Corpuscoli» che facciano uscire la casa editrice dall'isolamento, ma dopo tante discussioni non se ne farà nulla, come capita spesso. A proposito di «Problemi italiani», una collana economica, l'indirizzo politico della casa editrice viene identificato nella coesistenza tra comunisti, azionisti e cattolici comunisti, «le sole ideologie, del resto, oggi vitali e che possono dare soluzioni di problemi secondo un reale piano costruttivo». Ma il rapporto con il Pci non manca di provocare motivi di tensione, tra cui la difficoltà a pubblicare libri sovietici di storia o economia, anche quelli suggeriti da Franco Venturi, allora addetto culturale in Urss. Se si tratta di un libro di «critica negativa» alla Russia, si preferisce soprassedere.
Il fatto è che le anime della Einaudi sono tante, forse più di quelle che potevano intuire gli einaudiani stessi. E la regia di Giulio deve essere accorta e sorniona al punto da delegare solo a sé e a nessun altro la gestione dei contatti con il Pci. Un «volume fatto da scrittori che, pur accettando il comunismo, fanno le loro obbiezioni», come suggerisce Vittorini nella seduta del 12-13 gennaio 1949 cadrà nel vuoto. Il partito «non deve prendere posizione, avallando la collana», avverte il «dissidente» Balbo, «la Casa deve svolgere la funzione di Casa editrice e non può fare biblioteche di partito». Lo stesso Calvino sconsiglia di «partire pensando di diffondere questa collezione nelle sezioni di partito; ma di tenere conto delle esigenze del pubblico in genere». Con la morte di Pavese, sarà Bollati ad assumerne la funzione di eminenza grigia, intelligentissimo suggeritore a tutto campo (specie nella saggistica), diplomatico risolutore dei maggiori nodi editoriali. Calvino, con Vittorini, sarà il punto di riferimento per la narrativa e per i classici. I nomi delle presenze attorno al tavolo delle riunioni si moltiplicano: sono redattori, ma anche direttori di collana. L'unico nome di battesimo che figura nei verbali, accanto a quelli di tanti dott. e prof., è quello di Natalia (forse malcelata spia di misoginia intellettuale).
È una riunione di linea, quella del 23-24 maggio 1951, a svelare le singole posizioni politiche. Per esempio quelle dell'ex azionista Muscetta, divenuto marxista ortodosso, o di Antonio Giolitti, presenza togliattiana nell'Einaudi romana. Sono loro i due custodi dell'ortodossia comunista, che all'apertura auspicata da Bollati, Calvino, Bobbio e Balbo oppongono delle «esclusioni di principio»: la prima, dice Giolitti, è quella «di libri ideologici anticomunisti», la seconda «riguarda le posizioni di ideologia religiosa di qualsiasi genere si presentino». Natalia risponde a modo suo: «Non si deve partire da preconcetti, ma "prendere quel poco di buono che il mondo dà e dove lo dà». Lo stesso Vittorini non ci sta e ritiene che «qualsiasi esclusione di principio sia arbitraria». Ma è Bollati ad articolare un discorso più lucido e complesso esprimendo la necessità di superare la cultura antifascista come «funzione di avanguardia» per proporla come «funzione di direzione». È il momento del ripensamento e dei bilanci e si tratta di aprire nuove discussioni in tutti i campi, dalla cultura alla società, dalla medicina alla tecnica attraverso «opere fondamentali», classici, saggi, manuali. L'egemonia, secondo Bobbio, non vuol dire governo ma orientamento, pubblicando «tutti i libri che hanno una certa importanza».
Questioni di fondo che vanno al di là della politica editoriale intesa in senso stretto e che si erano già poste con la polemica tra Pavese ed Ernesto de Martino a proposito della collana etnografica, la famosa «Viola», che aveva aperto una frattura interna e una polemica esterna non da poco, relativa in particolare alla pubblicazione di Mircea Eliade e a un libro sul cannibalismo con prefazione di Giulio Cogni (definito da Muscetta «una nullità intellettuale e un famoso razzista fascista»). La stessa frattura (questa volta tutta interna) che sarà provocata dal dissenso su Nietzsche (su cui si vedano in questa pagina le posizioni inflessibili di Cantimori). La stessa frattura che si verificherà con l'uscita nei «Saggi» dei Prosatori e narratori del Novecento italiano, un libro di Enrico Falqui, che nel '50 scatenò l'ira furibonda dello stesso Muscetta.
«Concordia discorde» o «discordia concorde» che fosse, questo metodo colora molte pagine dei Verbali: non c'è dubbio che la Einaudi sia cresciuta sul confronto tenace, sulla discussione anche aspra e apparentemente insanabile. Il metodo, del resto, aveva anche le sue crudeltà. Tanto da sacrificare lungo la storia della casa editrice alcune delle menti più acute. È il caso di Paolo Boringhieri, redattore inascoltato della sezione scientifica, o di Felice Balbo, animatore interno della prima ora che a un certo punto si trovò costretto a gettare la spugna nel febbraio 1956: «In questi ultimi anni — scrive a Einaudi — si è venuta sempre accentuando la divergenza d'indirizzo ideologico, e i miei pareri, le mie proposte e i miei tentativi di nuove iniziative più larghe e aperte hanno trovato crescenti difficoltà. Intendiamoci, non incolpo e non mi lamento con nessuno e tanto meno con te. Constato il fatto». Bisognava stare al gioco, accettare i duelli, sperando prima o poi di spuntarla. Solo a Einaudi e a Pavese erano riservati «ambiti editoriali non sottoposti a giudizi altrui», osserva la Mangoni. Anche Vittorini lavorò in parte su un territorio franco per «I gettoni». Ma le vie del Signore, in casa Einaudi, erano infinite e a volte imperscrutabili: ci si poteva intestardire su un argomento per anni (per esempio l'indice del «Millennio» Goldoni, vero leitmotiv di questi verbali); si potevano manifestare entusiasmi unanimi per proposte che non avrebbero mai visto la luce; si poteva stroncare senza rimedio la Pivano che proponeva un saggio sui neri d'America («molto debole» per Calvino); si poteva rimanere freddi rispetto alle Memorie di Adriano, che Paolo Serini non si sentì di raccomandare e che poi divennero un bestseller; si poteva bocciare il Dossi delle Note azzurre proposto da Dante Isella; si poteva rimandare al mittente un libro di Comisso, di Patti, di Alvaro, una traduzione di Fortini. Si poteva sbagliare, come quando, nel luglio 1952, per la seconda volta fu rifiutato Se questo è un uomo di Primo Levi, considerato di difficile successo, poiché già edito da De Silva. Però, nonostante gli errori, gli inciampi, le rinascite, i litigi e i dissesti, nessuno potrà negare che la «concordia discorde» o la «discordia concorde» di Giulio Einaudi abbia prodotto un patrimonio culturale inestimabile per gli italiani.

Corriere della Sera 16.11.11
La guerra dello storico Cantimori contro Nietzsche e Adorno
di P. Ds.


È lo storico Delio Cantimori, tra i consulenti einaudiani, il più accanito avversario di Friedrich Nietzsche. Sarà Felice Balbo il 16 ottobre 1950 a riferire la proposta di Giorgio Colli di pubblicare le opere postume del filosofo tedesco del nichilismo. Verbale: «Dopo breve discussione il Consiglio unanime chiede a Bobbio che precisi le ragioni positive per cui oggi vale la pena di pubblicare un volume di scritti giovanili di Nietzsche. Si desidera che Bobbio si assuma cioè la responsabilità diretta del volume e non che si sobbarchi a giustificarlo in una prefazione. Senza questo parere chiaramente positivo di Bobbio, Cantimori, Giolitti e Muscetta non vedono l'opportunità di tale pubblicazione». Il parere di Bobbio è positivo, purché si operino tagli significativi. Ma Cantimori tuona a commento del verbale torinese del 25 ottobre: «Chi ha proposto Nietzsche giovanile ha detto come tutto argomento "perché non farlo?". A Roma è stato risposto: "perché farlo?". Invece di farci lezioni sul modo di argomentare dovreste rispondere perché sarebbe necessario o utilissimo farlo. Se c'è bisogno di documentarsi meglio attraverso le nostre repliche vuol dire che non ci sono reali argomenti positivi». E qualche giorno più tardi, il 31, quando viene a sapere del rifiuto di Colli a operare tagli, Cantimori è ancora più chiaro: «Mi oppongo decisamente. La proposta Bobbio meritava d'essere discussa, ma una edizione integrale di N. giovanile come "testo sacro" sarebbe così evidentemente tendenziosa...». Nel verbale dell'8 novembre, la questione Nietzsche si dichiara risolta: «Si è d'accordo per lasciar perdere la proposta». Un'altra tassativa presa di posizione di Cantimori è quella che riguarda T.W. Adorno, i cui Minima moralia vengono proposti nel 1952 da Renato Solmi: «A confronto delle cose che già conosco, l'Adorno mi sembra scadente: è una lontana risonanza di quella letteratura del periodo "weimariano", con la novità dell'impostazione dell'esilio; ma se l'esilio non gli ha insegnato altro... (con tutto il rispetto, mi raccomando bene!) Perciò permettetemi di sorridere della ingenuità di chi trova qualcosa di così importante da doverlo tradurre...».
Verbale: «Il Consiglio prende atto della esauriente e gustosa relazione di Cantimori e invita il primo relatore, Solmi, a preparare un'"apologia" da inviare a Cantimori». Impossibile dire se l'apologia ci fu, ma i Minima moralia, dopo un parere positivo di Bobbio, sarebbero usciti nella traduzione di Cesare Cases.
Cantimori, non pago della sconfitta, avrebbe poi posto un inutile veto anche a L'uomo senza qualità di Musil, considerato «pesante e noioso» e consigliato anche, con qualche riserva, da Bobi Bazlen.

Repubblica 16.11.11
Così Einaudi dettava la linea
Rifiuti, liti e confronti i verbali che svelano un’egemonia culturale
di Paolo Mauri


Esce la prima raccolta degli incontri dei "senatori" della casa editrice, i famosi resoconti del mercoledì. C´erano i grandi intellettuali dell´epoca
Non fu difesa più di tanto l´antologia "Il fiore del verso russo" che il Pci aveva attaccato
Il volume rientra nelle celebrazioni per il centenario della nascita del fondatore

Nel 1990 Norberto Bobbio rievocò su Tuttolibri il rituale delle famose riunioni del mercoledì in casa Einaudi: «Eravamo una ventina di "dotti", un tempo ci chiamavamo scherzosamente "senatori" e ognuno aveva di fronte a sé al proprio posto i libri o i manoscritti da presentare. Giulio era in mezzo ma non presiedeva… Quelle sedute a volte lunghissime, intercalate ma non interrotte da vari generi di conforto, furono per me una utilissima scuola di aggiornamento. Calvino parlava di romanzi, Cases di letteratura e saggistica tedesca, Carena di classici greci e latini, Fossati e Castelnuovo di storia dell´arte. Renato Solmi e Panzieri per alcuni anni, poi Ciafaloni, di problemi economici e politici del giorno… Quando si farà la storia della casa editrice, i verbali di quelle sedute saranno un documento prezioso da molti punti di vista».
Già consultabili dagli studiosi, quei Verbali del mercoledì per ora relativi agli anni dal ´43 al ´52 escono in volume a cura di Tommaso Munari e con un´ampia, informatissima prefazione di Luisa Mangoni (Einaudi, pagg. 533, euro 40). Ed è proprio la Mangoni, autorevole studiosa della Einaudi, a ricordare quanto siano cicliche, "implacabili e regolari", le polemiche sulla casa editrice e per i più diversi motivi: dal rifiuto iniziale di Se questo è un uomo di Primo Levi, dirottato sulla casa editrice De Silva nel ´47 e divenuto einaudiano solo negli anni Sessanta, agli attacchi del Pci contro l´antologia di Renato Poggioli, Il fiore del verso russo, che la Einaudi non difese più di tanto mentre arrivò quasi a pubblicare un´altra antologia riparatrice a cura di Bianca Maria Gallinaro Luporini, alimentando l´opinione che la casa editrice fosse troppo legata alla politica culturale di Botteghe Oscure.
I verbali ora pubblicati sono solo in minima parte il compendio delle discussioni, anche aspre, intorno ai libri proposti: si mirava piuttosto a riassumere in poche righe e per uso interno il senso di una proposta e, quando c´era, il suo esito. Poi i verbali circolavano e raggiungevano anche consulenti lontani da Torino, come Delio Cantimori che non mancava mai di esprimere il suo parere. Fu Cantimori, come ha di recente ricordato su queste pagine Ernesto Franco, attuale direttore editoriale della Einaudi, a bollare la grande opera di Braudel sul Mediterraneo, come una sorta di "Via col vento" della storiografia. Cantimori si disse contrario anche alla pubblicazione di Adorno (Minima moralia) di cui Renato Solmi, che la proponeva e l´avrebbe poi realizzata, era stato allievo. Frecciate indirizzò anche a Musil e al suo Uomo senza qualità (lo trovava noioso) sul quale però i pareri favorevoli erano stati diversi. Bobi Bazlen aveva detto che il livello non si discuteva e andava pubblicato ad occhi chiusi, anche se, trattandosi di ben duemila pagine restavano le incognite commerciali. Ma si sa che Einaudi non voleva che alle riunioni si parlasse di soldi.
La prima cosa che si apprende leggendo i verbali dei mercoledì, a cui partecipò una sola donna, Natalia Ginzburg, è che la discussione intorno a un libro non vale di per sé una condanna senza appello. Sollecitare pareri diversi, meglio se contrastanti, era una prassi. Certo, molte proposte cadono, ma in genere si tratta di libri minori o lontani dai gusti einaudiani come il Frankenstein di Mary Shelley. Ad altre segnalazioni, anche cospicue, non si presta la dovuta attenzione: Dante Isella, per esempio, propose di ristampare Le note azzurre di Carlo Dossi, ma la cosa cadde nel vuoto, nonostante un ritorno di Carlo Muscetta sulla questione. Non si fece nulla di un Millennio (la grande collana di classici) dedicato a Carlo Porta. La proposta veniva da Franco Antonicelli.
Nei verbali non c´è traccia della scomparsa di Cesare Pavese, che pure a quel tavolo ovale si era seduto fino a pochi giorni prima. È però opinione comune che il verbale fiume delle riunioni del 23 e 24 maggio del 1951 rifletta la volontà comune circa una sorta di rifondazione o ripensamento della Casa editrice e del suo ruolo dopo la scomparsa di Pavese. Apre il dibattito Carlo Muscetta rifacendo la storia della casa editrice che si caratterizza per essere stata antifascista, democratica e laica. Secondo Muscetta, bisogna rifarsi a Gramsci nella linea di una cultura nazionale e popolare, stando attenti a non perdere in organicità. Sarà Felice Balbo ad alludere concretamente a Pavese parlando delle gravi perdite subite dalla Casa editrice. Giulio Bollati propone di analizzare la situazione culturale italiana, oggi in stato di disordine o addirittura di anarchia. Bisogna, aggiunge Bollati, rendere concreta una politica di effettiva direzione culturale, uscendo dalla lotta condotta sul piano della polemica e dell´azione di pura avanguardia.
Curiosamente, ma non troppo, il problema del contrasto tra governo della cultura di sinistra e posizioni, diciamo così, di avanguardia sarebbe durato nel tempo. Nel ´63 la Casa editrice rifiutò il libro inchiesta di Goffredo Fofi sull´immigrazione meridionale a Torino che Raniero Panzieri aveva proposto. Ci furono tre giorni di discussione, poi il libro non si fece e Fofi lo pubblicò da Feltrinelli. Di recente Renato Solmi nella sua autobiografia (Quodlibet, 2007) ha insinuato che forse, alla radice di tutto, c´era un aiuto in danaro venuto alla Einaudi dalla Fiat, il che rendeva sconveniente pubblicare un libro anti-Fiat. La conclusione fu però che Solmi e Panzieri furono di fatto licenziati. A Severino Cesari, molti anni dopo, Einaudi parlò delle due anime della sinistra: quella di governo che voleva gestire la cultura e l´altra che voleva rompere tutto. «Anch´io mi sentivo imbalsamato tra quelli di governo».
Il 14 ottobre 1998 Einaudi tenne a Torino una lezione magistrale e la dedicò alle origini della sua casa editrice, nata a Torino nel 1933, quando lui aveva 21 anni. In mente aveva la breve ma cospicua avventura di un altro ragazzo precoce, visto una sola volta nella vita quando di anni ne aveva 14: Piero Gobetti. Il fascismo non aveva tollerato la casa editrice voluta da Gobetti, che in soli due anni aveva pubblicato un centinaio di volumi tra cui Ossi di seppia di Montale, e poi libri di Salvatorelli, Dorso, Nitti, Luigi Einaudi, Ruffini, Sturzo e Gobetti stesso. Quello era il seme, che si sarebbe incrociato più tardi con la lezione di Gramsci.
Questi verbali escono a ridosso del centenario di Giulio Einaudi, nato il 2 gennaio del 1912. Non sono un monumento, ma la documentazione talvolta impervia, comunque sempre affascinante di un grande lavoro collettivo che aveva per scopo libri e cultura. In altri termini civiltà: quella civiltà che cominciava dall´eleganza delle copertine. Sarebbe bello portare questi Verbali a Dogliani, dove l´editore è sepolto sotto una lapide su cui sta scritto soltanto "Giulio".

Repubblica 16.11.11
Pubblicare libri "Organici" o "Buoni"? quando discutevano Bollati e Bobbio
Verbale della riunione editoriale Einaudi 23-24 maggio 1951


Muscetta
Per fare il punto della situazione, è necessario ripercorrere brevemente la storia della Casa editrice. Richiamandosi all´attività svolta dalle origini fino alla guerra, Muscetta ritiene che la fisionomia peculiare della Casa editrice sia risultata dal suo carattere di Casa antifascista, democratica e laica, particolarmente impegnata nel compito di sprovincializzare e aggiornare la cultura italiana e di aprirla a nuove prospettive e conquiste culturali, come ad esempio nel campo trascuratissimo della ricerca e della conoscenza scientifica.
Nuovi problemi si sono aperti con la liberazione, quando la funzione già specifica ed esclusiva della Casa editrice divenne quella di un più vasto settore dell´editoria italiana. La Casa editrice da allora ha esteso la sua attività a campi ed esperienze culturali non toccati prima, ma ha perso in organicità e in linearità di indirizzo. Di qui qualche sbandamento. Un´impostazione culturale omogenea e organica potrebbe essere suggerita (...) dall´opera di Gramsci, la cui pubblicazione da parte della Casa editrice non è né deve restare fatto casuale. (...)
Bollati
Sostiene la necessità di insistere ancora sul problema fondamentale, quello dell´indirizzo della Casa nella situazione attuale, perché soltanto una chiara soluzione di esso può permettere di affrontare e di risolvere gli altri problemi.
Non si può rispondere alla domanda «cosa deve fare la Casa oggi?» senza analizzare la situazione culturale italiana. La caduta del fascismo, la guerra, e la lotta di liberazione hanno determinato una profonda frattura nella cultura italiana: la cultura preesistente (crocianesimo, ermetismo, università, ecc.) si è disgregata, e si è giunti a uno stato di disordine e di separazione anarchica che doveva essere provvisorio, ma che invece dura tuttora. Secondo Bollati se la cultura antifascista ha assolto pienamente la sua funzione di avanguardia e di rottura è mancata nel momento della ricostruzione e non ha saputo passare a una funzione di direzione. Il problema odierno è dunque questo: riuscire a concretare una politica di effettiva direzione culturale (...).
Serini
Pensa che una Casa editrice come la nostra debba avere una linea culturale salda e omogenea, che non escluda una certa varietà di correnti (...)
Natalia (Ginzburg)
È del parere che non si deve partire da preconcetti, ma «prendere quel poco di buono che il mondo dà e dove lo dà». (...)
Bobbio
Riassume: Vi sono due modi di tendere alla egemonia della Casa editrice; per qualcuno egemonia vuol dire governo, direzione della cultura; per altri significa pubblicare libri di cultura in senso assai vasto, che abbiano una certa validità e che possano affermare la Casa editrice come una Casa che pubblica tutti i libri che hanno una certa importanza. Ora Bobbio crede che appianare queste divergenze sia molto difficile perché derivano da due modi assai diversi di concepire la cultura oggi in Italia. Ma queste due concezioni possono sovrapporsi e coesistere.
Bobbio sostiene che il problema della sprovincializzazione è il problema attuale della Casa mentre il promuovimento della cultura è per ora soltanto un´esigenza. Ritiene che se siamo in grado di fare il primo lavoro, potremo sempre affrontare il secondo; ma che se oggi abbandoniamo il primo compito probabilmente rimarremo a mani vuote.

Repubblica 16.11.11
Intervista a David Lodge
"Solo arte e scienza insieme ci salvano dal pensiero mitico"
di Daria Galateria


Lo scrittore e il suo saggio sulla coscienza. Dal bisogno di narrazione dell´uomo fino alle ricerche sull´intelligenza artificiale
"La letteratura ci fa capire l´esperienza umana e questo serve anche agli esperti di biologia. E viceversa. Il punto è evitare spiegazioni oscure"
"Fare storie è spesso una tattica di autoconservazione: tutta la nostra vita ha bisogno di un filo che viene costruito su passato, presente e futuro"

David Lodge ci ha insegnato a sorridere del mondo accademico: l´umorismo, che considera un genere "tipicamente britannico", è una forma della passione quando la si mette a distanza. Per 25 anni Lodge ha insegnato letteratura inglese a Birmingham, scrivendo contemporaneamente i suoi esilaranti romanzi (Scambi, Il Professore va al congresso, Il Prof è sordo) e scritti accademici, pure amabili. Ora che ha da tempo abbandonato l´università, esce appunto un suo saggio, La coscienza e il romanzo (Bompiani). Nel suo modo lieve e profondo, Lodge vi paragona la resa letteraria della coscienza con i più brillanti studi di cognitivismo e Intelligenza Artificiale. I due modelli, scientifico e letterario, di descrivere la coscienza sono complementari: ma non è difficile immaginare quale lezione Lodge preferisca.
Quali sono le sue principali fonti scientifiche e letterarie?
«Due libri mi hanno spinto a scrivere, nel 2001, il mio romanzo Pensieri, pensieri: Coscienza. Che cos´è? di Daniel Dennett e Un´ipotesi sulla coscienza di Francis Crick. Questi studi danno una visione scientifica e materialistica della coscienza umana che era una vera sfida per le nostre abitudini mentali, la maniera artistica, umanistica e religiosa di spiegare il fenomeno. Francis Crick, famoso per aver partecipato alla scoperta del DNA, sosteneva che "proprio ‘Tu´, con le tue gioie e i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e il tuo libero arbitrio, in realtà non sei altro che la risultante del comportamento di una miriade di cellule nervose e delle molecole in esse contenute». Dennett, un filosofo interessato all´Intelligenza Artificiale, sosteneva a sua volta che la nostra sensazione di costituire un´individualità unica è un´illusione. Ho pensato di scrivere un romanzo in cui uno scienziato cognitivo e una romanziera (e docente di scrittura creativa) si incontrano e dibattono dei loro rispettivi punti di vista sulla coscienza – e nello stesso tempo cominciano a provare una certa attrazione... Già allora ho cominciato a esplorare il campo degli "studi sulla coscienza", e oggi sono debitore di troppi trattati per poterne fare qui la lista».
Lei cita Noam Chomsky: "E´ assolutamente possibile che sulla vita umana e la personalità anche in futuro si impari più dai romanzi che dalla psicologia scientifica". E´ d´accordo?
«Sì, penso che sia sostenibile – e per un romanziere è incoraggiante avere il potere espressivo della letteratura accreditato da uno specialista di linguistica, all´estremità "dura", scientifica dello spettro degli studi umanistici. Le neuroscienze e l´Intelligenza Artificiale hanno fatto progressi enormi negli ultimi anni, ma non sono riusciti a risolvere il problema di fondo che ha affaticato i filosofi da Cartesio in poi: come può un cervello fisico produrre il fenomeno della mente? E non sono riusciti neanche a avvicinarsi alla rappresentazione sottile e sofisticata dell´esperienza umana che troviamo nella grande – e perfino nella meno grande – letteratura».
La scienza cognitiva ha cambiato il modo in cui la narrativa descrive l´esperienza soggettiva del mondo?
«No, non penso. Il motivo è stato succintamente definito da Gerald Edelman, un neuroscienziato che rispetta le arti. Ha rilevato che la scienza punta a definire le leggi fisiche che spiegano perché il mondo è quello che è, "ma queste leggi non possono spiegare in modo esaustivo l´esperienza, o sostituire la storia o gli eventi che avvengono nelle vite individuali". Per questo dobbiamo rivolgerci alla letteratura e alle arti. L´estensione della nostra comprensione del mondo tramite la scienza comunque finirà inevitabilmente per influire sulla nostra esperienza soggettiva, e quindi per riflettersi in letteratura».
Nel romanzo Pensieri, pensieri lo scienziato cognitivo Ralph argomenta: "Il cervello è come un computer che ‘gira´ un mucchio di programmi contemporaneamente": e dice anche che la coscienza è un software che lavora nell´hardware della macchina cerebrale. Paradossi o definizioni plausibili?
«Ralph qui riecheggia Daniel Dennett. Il progetto dell´A.I. è basato su questa analogia, o metafora, della mente come software e del cervello come hardware. Era un modello non disponibile, semplicemente, fino all´invenzione del computer. Ha la sua utilità, per esempio nella robotica, ma per ora non è riuscita a replicare la "densità di eventi" dell´esperienza umana».
Si legge ne La coscienza e il romanzo: "Raccontare storie è un istinto (immaginare cosa un nemico potrebbe stare pensando è uno strumento di sopravvivenza per gli uomini primitivi)". Raccontare storie è una tattica di autodifesa?
«E´ sempre più evidente che l´homo sapiens è una creatura che – a differenza degli altri animali – vede la propria vita essenzialmente in termini narrativi, con un passato, un futuro e una fine. Perciò noi proiettiamo mentalmente scenari differenti di cosa potrebbe derivare da varie possibili decisioni in una certa situazione, e questa può essere una tattica di autoconservazione».
Nel saggio lei "usa" autori come Dickens, Henry James, Waugh, Martin Amis e Philip Roth; e il cinema. Quanto influisce il cinema sulla letteratura moderna?
«L´influenza è stata subito evidente già nella prima generazione di romanzieri cresciuti col cinema – Hemingway, Graham Greene, Evelyn Waugh, e tanti altri. Ma nel rendere la coscienza, il cinema è limitato alle parole, alle immagini e alla musica. Il dettaglio del costante flusso di pensieri inespressi nella mente dei personaggi resta escluso negli adattamenti cinematografici dei romanzi».
Si sente ancora impregnato dagli studi sulla coscienza?
«Sì, decisamente; anche ora che scrivo un romanzo sullo scrittore H.G. Wells. Studiare il dibattito contemporaneo sulla coscienza è stata un´esperienza molto formativa, e per quanto io naturalmente mi identifichi con il modello offerto dalla letteratura, ora apprezzo appieno il potere chiarificatore delle spiegazioni scientifiche del mondo, e sento i pericoli inerenti alle spiegazioni mitiche. Arte e scienza sono vie complementari all´indagine sul mistero dell´esistenza e del nostro posto nell´universo».

La Stampa TuttoScienze 16.11.11
Analisi
Le radici del pensiero magico
Facciamo le corna come i nostri parenti animali
di Maurilio Orbecchi


Non c'erano certezze, solo precauzioni da adottare. Nonostante tutto, i blindati potevano saltare in aria per l'effetto di un'autobomba. Per questo motivo ogni macchina aveva anche un ferro di cavallo. Tutti i soldati avevano un portafortuna personale e, quando camminavano in quelle terre infide, dove un ordigno poteva esplodere in qualsiasi momento, adottavano posizioni particolari: chi posava i piedi in un certo modo, chi avanzava tenendo una mano sotto il giubbotto. Brent Cummings seguiva la regola di non stare mai nella sua stanza con un piede a metà tra il tappeto e il pavimento, perché si trovava in quella posizione quando fu avvisato che era morto un suo caro amico.
David Finkel, premio Pulitzer per le sue cronache della guerra in Iraq, descrive questi e altri riti superstiziosi nel suo inquietante libro «I bravi soldati», che racconta la storia del battaglione americano 2-16, di stanza a Baghdad.
L’ampliamento del pensiero magico in situazioni di precarietà non stupisce chi ne conosce lo sviluppo. La scaramanzia è radicata in noi, perché ha lontane origini biologiche preumane, tanto che la troviamo in molte specie animali. Famosa è la descrizione di Lorenz dell'oca superstiziosa: un'oca, che aveva deviato dal percorso abituale per tornare al nido, fu colta da un attacco d'ansia che la costrinse a tornare indietro e a riprendere la solita strada. Riti simili ai gesti dei soldati descritti da Finkel possono essere riprodotti sperimentalmente: in una gabbia, la «Skinner box», dal nome dell’inventore, vengono gettate alcune manciate di miglio. Il piccione all'interno tende a ripetere lo stesso movimento compiuto l'attimo prima che arrivasse il cibo, perché, con una correlazione impropria, lega quell'atto all'arrivo del cibo stesso.
Esempi come questi mostrano che la scaramanzia ha un significato quanto mai comprensibile e va fatta risalire alla ripetizione di operazioni che hanno dato buon esito nel passato evoluzionistico. In un mondo biologico che si sviluppa sotto la ghigliottina della selezione naturale nel corso delle generazioni emergono meccanismi neurali che orientano gli organismi a trovare cibo e salvezza. Tra questi la ripetizione degli atti che si sono rivelati favorevoli nel passato è tra i più importanti. Tuttavia gli animali non possono sapere se gli atti che hanno portato benefici siano correlazioni casuali o rapporti di causa-effetto. Non avendo la possibilità di ragionarci sopra con attenzione, né tantomeno di verificarlo, si limitano a ripetere ciò che facevano quando hanno ottenuto buoni risultati, confidando che si riveli utile anche nel presente.
I neuroscienziati hanno riscontrato che un simile comportamento si è conservato anche negli esseri umani. Famose sono le ricerche di Antonio Damasio, Joseph LeDoux e altri sull'incapacità di decidere, riscontrata nei soggetti che hanno perduto le vie nervose che conducono all' amigdala, sede della memoria emozionale, ossia il ricordo delle sensazioni positive o negative prodotte dalle scelte del passato. Questi individui, pur mantenendo un alto livello intellettivo, non riescono a prendere elementari decisioni nella quotidianità, perché non sono guidati dall' esperienza emotiva dei comportamenti che si sono rivelati funzionali in precedenza.
Se ripetere atti che hanno ottenuto successo è un meccanismo genetico innato, si può comprendere perché nelle situazioni di stress, dalla partita di calcio alla guerra, gran parte degli individui assumono comportamenti rituali, dal ferro di cavallo ai piedi posati in un certo modo come facevano i soldati del battaglione 2-16. La ripetizione di alcuni atti diventa una credenza con valenze protettive e autorassicuranti, che sono ritenute irrazionali solo da chi non riesce a ricostruirne lo sviluppo. Lo stesso rito religioso collettivo è in buona parte un'estensione del meccanismo genetico che consiste nell'assicurare fedeltà al comportamento che si è rivelato utile, nel caso specifico l'identità dei membri di un gruppo culturale.
Le origini preumane di tali meccanismi psicologici rendono improbabile che scaramanzia e magia scompaiano con un semplice atto di volontà. Più probabile è che vengano sostituite credenze ormai logore con altre più attuali, così come si sta verificando: i folletti dei boschi con gli Ufo; le pozioni magiche con la medicina alternativa; le magie medioevali con le energie New Age. Sembra, dunque, che anche per la psicologia valga la legge di conservazione della massa enunciata da Lavoisier: «Nulla si crea, nulla si distrugge».

La Stampa TuttoScienze 16.11.11
I denti che rifanno la storia
“Ecco la prova che i Sapiens convissero con i Neanderthal”
di Gabriele Beccaria


Cinque denti possono bastare per intrecciare una storia e riaprire un «cold case» - un caso che si credeva chiuso con l’inevitabile colpo di scena. Tre sono ancora attaccati a un frammento di mascella, gli altri due sono da latte. C’è voluta un’esplosione di meraviglie high tech - dal radiocarbonio alle simulazioni tridimensionali fino ai modelli statististici baynesiani - per scoprire che gli studiosi avevano preso un bel po’ di abbagli e che il passato dell’Europa non è quello dell’ortodossia ufficiale.
Noi Sapiens siamo arrivati nel Vecchio Continente prima di quanto si pensasse e abbiamo convissuto con gli amici-nemici Neanderthal per molto tempo, almeno 10 mila anni. Un periodo così esteso da sfidare l’immaginazione, visto che equivale al succedersi di 400 generazioni, più del doppio di quelle che ci separano dai faraoni delle grandi piramidi. E di colpo si è diradata la nebbia anche su un altro problema finora irrisolto: quando ci si addentrava negli strati del periodo chiamato Aurignaziano (tra 45 mila e 35 mila anni), archeologi e paleontologi trovavano spesso oggetti - e anche pitture - più antichi dei reperti umani. Un giallo che tormentava gli studiosi. Dov’erano finite le ossa di quei primi artigiani e di quegli artisti, arcaici ma tutt’altro che primitivi?
Ora si delinea una risposta multipla, che può essere questa: i Sapiens c’erano eccome, molto prima della data «ufficiale» di 40 mila anni fa, ma chi li aveva trovati non li aveva riconosciuti. I due denti da latte emersi tempo fa nella Grotta del Cavallo, in Puglia, e classificati come neanderthaliani sono in realtà di bambini Sapiens, mentre i tre provenienti dalla Kent’s Cavern, nel SudOvest dell’Inghilterra, datano tra 41 e 44 mila anni fa. Li avevano tirati fuori nel 1927 e tuttavia all’epoca, prima del Dna e degli acceleratori di particelle, con le datazioni si pasticciava molto e ancora nell’89 un gruppo di Oxford li classificò come reperti di 35 mila anni fa. Solo adesso i test hanno rivelato che il fossile era stato contaminato nel tentativo di restaurarlo e che il viaggio a ritroso nel tempo ha commentato su «Nature» Tom Higham - era da rifare un’altra volta.
Si è cominciato tentando di estrarre il Dna mitocondriale (senza successo), si è proseguito con maggiore profitto studiando le ossa di lupi, cervi e orsi riemersi accanto al pezzo di mascella e poi si sono fatte dialogare le misure degli isotopi di carbonio con le scannerizzazioni delle Tac e le approssimazioni dei modelli matematici. Il risultato di questa maionese di dati ed elaborazioni - assicura il team inglese - è proprio un arco temporale retrodatato di 41-44 mila anni fa, ma anche un inedito database anatomico (realizzato con il Natural History Museum inglese): e qui il verdetto racchiude una sorpresa nella sorpresa, dal momento che i tre denti ancora attaccati all’osso hanno caratteristiche moderne (e quindi uguali alle nostre), ma ne presentano anche altre ambigue. E’ possibile che le tecniche utilizzate non siano ancora abbastanza sofisticate per decifrare ogni dettaglio o, forse, 400 generazioni fa non eravamo così identici - al 100% - al «modello standard» delineato dagli antropologi del XXI secolo.
Oppure - ed è la terza ipotesi e naturalmente la più intrigante - i tre denti sarebbero l’indizio degli intimi rapporti tra Sapiens e Neanderthal: nella mescolanza dei geni non è affatto strano che sia stato coinvolto anche qualche aspetto, per quanto minimo, del look fisico. Ciò che è certo, invece, è l’«antichità» della nostra specie, che dev’essere arrivata in quella che avremmo battezzato Europa prima del previsto e che dev’essersi diffusa e moltiplicata con grande rapidità (uno dei tanti elementi di vantaggio rispetto ai cugini neanderthaliani).
Nella mascella - ha scritto Higham - «c’è una prova significativa»: appartiene a un progenitore che sperimentò sulla propria pelle l’ultima glaciazione, quella di Würm, quando le Alpi erano sigillate in enormi calotte glaciali, le pianure apparivano come tundre terrificanti e i mari erano più bassi anche di un centinaio di metri. Come si sopravvivesse nell’inferno bianco è uno di quegli interrogativi a cui non ci sono ancora risposte convincenti.

La Stampa TuttoScienze 16.11.11
Quante vite hanno salvato le cellule di Henrietta?
di Giovanni Nucci


Sono passati 21 anni da quando George Gey diede inizio in coltura alla famosa linea HeLa. Si è stimato che il peso complessivo di queste cellule oggi in giro per il mondo sia superiore a quello del negro americano dal cui tumore alla cervice uterina provengono. La signora in questione ha raggiunto la vera immortalità, sia nelle provette sia nei cuori e nelle menti degli scienziati di tutto il mondo, poiché l'importanza delle HeLa nella ricerca, nella diagnostica, ecc. è inestimabile. Eppure non sappiamo chi sia. C'è qualcuno che abbia notizie certe? Sarebbe forse contrario all'etica medica, oggi che le cellule HeLa diventano maggiorenni, dichiarare il vero nome e restituire a He... La... la fama così ampiamente meritata? ».
Questa lettera, pubblicata su «Nature» da un biologo della Brunuel University a metà degli Anni 60, è esemplare di questa storia: la quale storia, a sua volta, è esemplare degli enormi problemi scientifici, etici ed umani che spesso la ricerca comporta.
È la storia di Henrietta Lacks e delle cellule HeLa, sulle quali è stata, fisicamente, fatta buona parte della ricerca biomedica degli ultimi 50 anni. Vale a dire che gli enormi progressi della scienza a riguardo sono stati possibili grazie alle cellule (straordinariamente predisposte alla sopravvivenza in coltura e alla proliferazione) prelevate a questa signora afroamericana morta di tumore all'inizio degli Anni 50.
Il fatto è che per un lungo periodo, almeno 20 anni dopo che erano state prelevate dal suo utero per motivi diagnostici, quelle cellule non sembravano appartenere a nessuno, meno che mai alla signora Lacks. Etichettate in laboratorio come HeLa, le cellule hanno cominciato a godere di un'esistenza propria e indipendente da quella del corpo di cui erano state parte: sopravvivendogli (Henrietta morì dopo poco) e diventando la base per le ricerche in centinaia di laboratori, senza però che nessuno sapesse a chi appartenessero. È ovvio che sul piano scientifico la «proprietà», se così si può dire, di quelle cellule era irrilevante. Ma dagli altri punti di vista, per cominciare quello umano, non lo erano affatto: visto che appartenevano ad una persona.
In questo equivoco (di chi sono le cellule HeLa?) si nascondono, ancora adesso, buona parte delle problematiche etiche e morali legate alla ricerca biotecnologica. Ed è su questo equivoco che si fonda il racconto del libro di Rebecca Skloot «La vita immortale di Henrietta Lacks» (Adelphi). Un libro ricco, pieno di storie, problemi e dubbi, districati su numerosi piani, come nella migliore tradizione romanzesca: la passione dei ricercatori che coltivano le cellule HeLa e riescono a farle sopravvivere; la straordinaria propensione alla sopravvivenza e perfino alla contaminazione di altre colture da parte di quelle cellule; i progressi che su quelle cellule ha fatto la scienza medica e biologica; i problemi etici che alcuni scienziati hanno posto riguardo alla provenienza di quelle cellule; per non parlare dell'altro lato della medaglia: la vita reale di Henrietta e, dopo la sua morte, dei suoi famigliari.
Il libro si fonda su un continuo passaggio, come se ogni problema scientifico ne comportasse uno umano, cioè etico, e viceversa. E nello stesso modo, se il centro di questa storia, della «vita immortale di Henrietta Lacks», è in come quella vita sia proseguita nelle sue cellule, continua a valere il suo opposto: finché Henrietta (e la sua vicenda) continuerà a rimanere «attaccata» alle cellule HeLa sparse per i laboratori (e il libro è un contributo perché ciò avvenga), la scienza e gli scienziati non potranno esimersi dal dover considerare l’umanità che permane in quelle cellule, come in qualunque altra.

Repubblica 16.11.11
La storia di una paziente da cui furono prelevati campioni determinanti per la medicina
Le cellule generose della signora Henrietta
di Massimiano Bucchi


La vicenda è spiegata nel testo di Rebecca Skloot che mostra come tante scoperte, nel corso del tempo, siano state fatte grazie a quella, inconsapevole, donna

Testimoni modeste, le definì una volta la studiosa Donna Haraway. Si riferiva ad esempio alle signore che durante un esperimento sulla pompa ad aria, condotto da Robert Boyle soffocando degli uccellini in un contenitore, interruppero la dimostrazione per salvare gli animali. Onde evitare che questo disturbo si ripetesse, Boyle riconvocò i colleghi maschi a tarda notte per terminare l´esperimento e verificarne i risultati. Le donne erano così diventate "testimoni modeste" della rivoluzione scientifica.
Henrietta Lacks fu molto di più che una testimone modesta. Fu - ed è tuttora, a 60 anni dalla morte - la protagonista involontaria di una serie di ricerche in campo biomedico da cui hanno tratto beneficio milioni di pazienti in tutto il mondo. Afroamericana di umili origini, la Lacks si vide diagnosticato un carcinoma uterino a 30 anni. Durante la degenza, l´ospedale prelevò un campione dei suoi tessuti. Dopo alcuni giorni, i tecnici di laboratorio notarono qualcosa di strano. Le cellule cancerose della Lacks, anziché "morire" o "vivacchiare" in coltura, continuavano a crescere, "diffondendosi come la gramigna". Le cellule HeLa iniziarono a circolare tra i ricercatori: sopravvivevano alle spedizioni (perfino con la posta tradizionale) e consentivano esperimenti che avrebbero richiesto materiale biologico umano vivente. La svolta avvenne nel 1952, poco dopo la scomparsa di Henrietta. Salk aveva annunciato il primo vaccino contro la poliomelite, ma sperimentarlo sulle cellule di scimmia, come era prassi. avrebbe comportato costi e tempi molto elevati. Le colture di HeLa si rivelarono molto reattive al virus e quindi perfette per lo scopo. Economiche, adattabili e "infaticabili", le cellule di Henrietta furono in seguito utilizzate per studiare patologie infettive quali morbillo e parotite; per testare la sicurezza di prodotti cosmetici e farmaceutici; per analizzare gli effetti di steroidi e inquinanti ambientali. HeLa ebbe addirittura un ruolo rilevante nelle fasi iniziali degli studi in campo genetico. Per soddisfare la domanda crescente da parte dei ricercatori, in un capannone del Maryland due imprenditori crearono una "fabbrica di cellule" in grado di spedire i campioni in tutto il mondo. Da allora, miliardi di cellule HeLa sono state utilizzate nei laboratori, fornendo il materiale per più di sessantamila pubblicazioni scientifiche.
Rebecca Skloot nel libro La vita immortale di Henrietta Lacks (Adelphi) racconta con grande precisione documentaria e capacità narrativa la straordinaria storia delle cellule di Henrietta Lacks, vissute "fuori dal suo corpo più a lungo di quanto abbiano vissuto dentro di lei". Dando voce alla protagonista e ai suoi familiari che oggi non possono permettersi le visite mediche. E portando nel contempo alla luce il lavoro, talvolta quasi altrettanto oscuro, di centinaia di ricercatori, medici e tecnici che contribuirono a rendere possibili l´utilizzo e la circolazione delle linee cellulari. E´ una storia che, letta oggi, incrocia dilemmi cruciali tra scienza e salute, etica ed economia. Dilemmi esplosi nel dibattito pubblico e giuridico in seguito a vicende più recenti, come quella di John Moore - il paziente che nel 1988 citò in giudizio, senza successo, la University of California per aver utilizzato, insieme a una casa farmaceutica, la sua milza per un brevetto di linea cellulare. Qual è il confine tra i diritti individuali dei pazienti, l´interesse collettivo al progresso della conoscenza e gli interessi economici delle aziende del settore?
Oggi la storia di Henrietta Lacks suscita scalpore anche perché i pazienti e le loro associazioni sono divenuti, almeno in alcuni contesti, soggetti attivi come finanziatori e perfino come committenti di ricerche; ben più consapevoli di quanto poteva esserlo una donna poco istruita nel dopoguerra. Eppure, osserva l´autrice, oggi "gran parte degli americani", spesso senza rendersene conto, "ha un proprio campione di tessuto conservato da qualche parte (…) nei centri di ricerca militari, all´FBI e ai National Institutes of Health, nelle aziende biotech e in molti ospedali". Non si può fare a meno di chiedersi come sarebbe cambiata la storia - e il destino di molti pazienti - se Henrietta Lacks avesse negato il consenso al prelievo delle proprie cellule.

La Stampa 16.11.11
Roma al tempo di Caravaggio


Da Caravaggio ai Carracci, da Guido Reni ai Gentileschi: il ’600 romano nel suo pieno fulgore è di scena da oggi al 5 gennaio a Palazzo Venezia di Roma. Esposte 140 opere provenienti da chiese, musei, collezioni private internazionali, come quella che ha concesso in prestito un dipinto inedito attribuito a Caravaggio. Il Sant’Agostino (foto) scoperto dalla storica dell’arte Silvia Danesi Squarzina, al centro di un vivace dibattito, è infatti esposto per la prima volta e sarà oggetto di un incontro a gennaio.