giovedì 17 novembre 2011

l’Unità 17.11.11
Il leader dei Democratici parlerà alla Camera per la fiducia. «Pieno sostegno»
Di Pietro: «L’Idv vota sì ma non entra nella maggioranza». Freddo Vendola
Bersani parla di svolta «Il Pd ci ha lavorato e l’ha ottenuta»
Bersani soddisfatto: «Abbiamo lavorato per la svolta, e c’è stata». Bindi: «Governo sostenuto non da una coalizione ma da forze che lavorano in autonomia». Di Pietro: «L’Idv vota la fiducia ma non entra in maggioranza».
di Simone Collini


Il Pd sosterrà questo governo, ben sapendo dall’inizio che non tutte le misure che varerà saranno pienamente condivisibili, ma mettendo fin d’ora in chiaro che l’attuale situazione non consente una politica “dei due tempi”. Pier Luigi Bersani scorre con soddisfazione la lista dei nuovi ministri uscita dopo due ore di colloqui tra Giorgio Napolitano e Mario Monti. Non solo perché ha incassato la «discontinuità» (assenza di Gianni Letta compresa) richiesta. O per la scelta «da dieci e lode» della «dirimente presenza femminile». Il leader del Pd dà un giudizio positivo del nuovo governo in tutti i colloqui che ha dalla mattina alla sera, con Pier Ferdinando Casini («questo è un governo ottimo», dice il leader Udc), con Antonio Di Pietro (che fa sapere che «l’Idv darà la fiducia ma non farà parte della maggioranza» e deciderà di volta in volta come votare), con Massimo D’Alema, Walter Veltroni e poi con tutti gli altri membri del coordinamento del Pd che si riuniscono fino a tarda notte nella sede del partito.
Bersani è «soddisfatto» perché, dice dopo il giuramento al Quirinale del nuovo esecutivo, «abbiamo lavorato per la svolta e la svolta c’è stata», perché sa per conoscenza diretta quanto valgano diversi ministri (da Francesco Profumo, col quale il Pd aveva discusso della candidatura a sindaco di Torino, a Corrado Passera a Elsa Fornero, ospite abituale ai convegni del partito dedicati al tema del welfare) e perché, nella gestione della crisi il Pd si è mosso «compattissimo» («sono orgoglioso del mio partito e ringrazio tutti i dirigenti»).
Per questo Bersani vuole dare una forte legittimazione politica da parte del Pd al governo Monti, intervenendo in Aula prima del voto di fiducia definitivo, domani alla Camera. «Siamo pronti a dare tutta la nostra collaborazione e il sostegno attivo a questo governo», assicura il leader dei Democratici. Dal nuovo governo non si aspetta «macelleria sociale», ma fa sapere di voler discutere con la stessa «generosità» mostrata fin «portando le nostre proposte». Bersani sa bene che quello insediato «non è certo un governo del Pd ma un governo che il Pd vuole sostenere», che «non tutto sarà collimante con quello che pensiamo noi» e che però per uscire dalla crisi può essere necessario votare misure condivise solo in parte: «Se ognuno ragionasse che vota solo se è al 100% d’accordo, non saremmo qui a fare tanta fatica. Dobbiamo dare un segnale all’Italia e al mondo che è una cosa seria».
MAGGIORANZE VARIABILI
Di Pietro, che in alcune nomine vede il «rischio di conflitti di interesse», la pensa diversamente e annuncia che l’Idv oggi al Senato e domani alla Camera darà la fiducia al governo ma poi deciderà volta per volta come vo-
tare (anche Nichi Vendola vede «segni di continuità con il passato). Questo vuol dire che in Parlamento ci saranno maggioranze variabili. Nel Pd però nessuno drammatizza, e anzi la situazione può consentire di far emergere meglio è un governo non di larghe intese ma «di emergenza e di transizione», come insiste Bersani. Non a caso Rosy Bindi, a Casini che dice che «è finita la diaspora della Dc», risponde che «oggi non è che ci siamo riunificati»: «Questo governo non è sostenuto da una coalizione ma da forze politiche che lavorano ciascuna nella propria autonomia». Un’impostazione che consente al Pd di continuare a lavorare al Nuovo Ulivo.
NO ALLA POLITICA DEI DUE TEMPI
La partita entrerà nel vivo quando si inizierà a discutere di questioni programmatiche. E Bersani, pur assicurando che il Pd potrebbe votare anche misure con cui sarà d’accordo «al 50 o 60%», mette subito in chiaro che giudica sbagliata una politica dei “due tempi”, che «senza redistribuzione non si esce dai guai», che pur nei necessari sacrifici sarà indispensabile «uno sforzo in chiave di equità», che se si vorrà mettere mano alle pensioni andrà fatto all’interno di una più complessiva riforma del welfare. Sono queste le questioni che interessano a Bersani. Come si raccorderanno Parlamento e governo (assumeranno maggior peso i capigruppo, anche quelli in commissione) e chi saranno i sottosegretari (l’ipotesi prevalente è che si cercherà tra gli ex parlamentari ma Bersani lascia la scelta a Monti e dice «no al bilancino»), sono questioni che interessano meno.

Repubblica 17.11.11
Ora Bersani si intesta la svolta "Pd generoso ma niente macelleria"
Di Pietro: fuori dalla maggioranza. Vendola pessimista
Pisapia apprezza la squadra di Monti: le persone giuste La Bonino: la luna di miele finirà
di Giovanna Casadio


ROMA E ora viene il bello. Bersani non nasconde che non sarà una passeggiata, che ci sarà da digerire molto: «Ci potranno essere problemi sulle misure che il governo Monti dovrà varare, è evidente». Ma il Pd è stato generoso in tutta questa fase, anteponendo agli interessi di partito quelli del paese, «e sarà generoso anche dopo». Appoggerà cioè, i provvedimenti del "governo dei professori" anche se i Democratici ne fossero convinti solo in parte, «al 50 o al 60 per cento, e non al cento per cento». Il segretario lo dice in una conferenza stampa dopo il giuramento del governo, ma i leader democratici se lo sono ripetuto nelle tante riunioni della giornata, a cominciare dal vertice mattutino di Bersani con Enrico Letta, Rosy Bindi, Anna Finocchiaro e Dario Franceschini. Qui sono arrivate le telefonate di Monti, mentre era al Quirinale, sulla composizione della squadra: sciolto il "nodo" Gianni Letta (indigeribile per i Democratici perché avrebbe rappresentato la continuità berlusconiana), il Pd non condivideva l´accorpamento di Sviluppo economico e Ambiente. Scorporati, alla fine .
«La cosa che abbiamo voluto è seria ribadisce Bersani e seriamente lo sosterremo ben sapendo che non è certo un governo del Pd. Però non mi aspetto macelleria sociale». Il leader democratico si intesta la svolta di avere mandato a casa Berlusconi: «Abbiamo lavorato da tempo per una svolta e ci siamo arrivati attraverso l´iniziativa politica e parlamentare. Abbiamo chiesto che si affrontassero le emergenze con un governo a forte caratura tecnica e del tutto nuovo. Guardando i fatti siamo soddisfatti». Inoltre c´è la squadra che «ci rassicura sulle possibilità di trovare una strada». Ad esempio? «Conosco il ministro dell´Istruzione Francesco Profumo e sono sicuro che farà per il meglio». E sul banchiere Corrado Passera: «Potere ai banchieri? Se uno faceva il mestiere di banchiere, ora ne fa un altro...sono sicuro che farà politiche per la crescita». Dai Democratici auguri e fiducia per Elsa Fornero al Welfare e Andrea Riccardi all´Integrazione.
Tuttavia i problemi ci saranno. I Democratici hanno un´altra riunione di big (ci sono D´Alema, Veltroni, Fioroni, Fassina) e di segretari regionali a sera, che si conclude con un applauso al segretario, ma non si stappa spumante. Per quello si aspetta di vincere le elezioni. Che saranno presto o tardi? «Non poniamo vincoli temporali al governo Monti», ripete Bersani. Vincoli che invece ci devono essere per Di Pietro. Superata l´emergenza afferma il leader Idv si vada al voto. Annuncia inoltre che darà la fiducia a Monti ma «poi voteremo provvedimento per provvedimento, e non entreremo nella maggioranza». Il risultato potrebbe essere che le maggioranze per il governo Monti saranno "variabili". Nichi Vendola (Sel) è pessimista: «Ci sono segni di continuità con il passato che resiste e che continua a danzare attorno a Monti». Al contrario il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia giudica che nel governo Monti ci siano «le persone giuste al posto giusto nel momento giusto». Emma Bonino, la leader radicale e vice presidente del Senato, avverte: «Monti come premier è la persona più appropriata in questo momento, ma la luna di miele finirà presto»; il fatto che i politici si siano tenuti le mani libere può significare «il Vietnam in Parlamento».
Però la scelta di "tutti tecnici" è stata voluta da Bersani che la difende e cita Ovidio («Nec sine te nec tecum vivere possum»): «La discussione sui politici sì o no è schizofrenica, dà l´idea che la politica non va mai bene». Su Amato precisa: «Non ho mai pensato che non fosse in grado di rappresentare la tradizione riformista del Pd, la mia stima è altissima». Soddisfatto il Terzo Polo. Fini ringrazia Monti «per le scelte competenti e di valore». Rutelli, come Casini, parlano dell´«inizio di una nuova epoca politica; siamo felici».

il Fatto 17.11.11
Il Pd crede che il governo sia anche suo
Bersani esulta per il compromesso sui nomi, ma ora deve votare tutto
di Wanda Marra


“Orgoglioso”. Così si definisce Pier Luigi Bersani nel primo giorno del governo Monti. “Sono orgoglioso del Pd e voglio ringraziare tutti i dirigenti. Siamo un partito compattissimo”, dice, davanti alle telecamere di una conferenza stampa convocata per esprimere non solo “il pieno sostegno” all’esecutivo nascente, ma anche per rivendicare “soddisfazione” perché “la svolta c’è stata”. Con il segretario ci sono il vicesegretario, Enrico Letta, tessitore dell’operazione governo tecnico e il portavoce, Stefano Di Traglia. Bersani, per una volta, assomiglia quasi a un nocchiero che ha condotto la navicella lungo mari agitati. Più che sorridente, sembra alleggerito. É stato l’ultimo nel suo partito a sposare la causa del governissimo. Si è visto sparare addosso e tirare da tutte le parti da veltroniani e franceschiniani. Sono passate poco meno di tre settimane da quando Matteo Renzi lo metteva inesorabilmente in ombra (e in discussione) con il suo Big Bang. In un pomeriggio italiano in cui i parametri sembrano rovesciati, quello della Leopolda sembra uno scenario lontanissimo. Come resta sullo sfondo la manifestazione di piazza San Giovanni a Roma in cui Bersani andò da solo sul palco a chiedere alla sua gente sostegno per un governo tecnico. Una cosa mai vista. Parlava di “responsabilità” e “devozione” Bersani ed ora le rivendica.
NEI DIECI GIORNI che hanno visto Giorgio Napolitano tessere la tela per portare Berlusconi alle dimissioni e Mario Monti al governo, Bersani si è schierato “senza se e senza ma”. E ha giocato la partita sua e del Pd. Fino all’ultimo giro, quello che ha visto rimanere fuori Gianni Letta. Sul colloquio del segretario al Colle l’altroieri, a consultazioni ancora aperte, sono state date le versioni più disparate, persino una ufficiale, che si trattasse di cosa prevista. Il giorno dopo raccontano che non era così e che il segretario è andato a dire a Napolitano (dopo averlo spiegato a Monti) che Gianni Letta no, che portarlo al governo avrebbe comportato non il mancato voto di fiducia del Pd, ma avrebbe rischiato di incrinare il rapporto di fiducia tra il Professore e il partito che lo sostiene con più convinzione.
Il Capo dello Stato stava chiedendo loro di ingoiare un boccone troppo amaro. Tra le pressioni di Bersani e il no implicito di una parte del Pdl, alla fine la linea “niente politici” è passata. E nel Pd ora abbondano i sorrisi. E però. “Noi sosteniamo il governo, ma questo non è il governo del Pd”, ricorda il responsabile Economia, Stefano Fassina, uomo di fiducia del segretario. “Certo, c’è una componente cattolica molto forte”. A leggere la lista dei ministri, non ci sarebbe troppo da esultare. Raccontano al Nazareno che Bersani dopo aver trattato su Amato e Letta ha trattato pure sul resto, anche ieri mattina. Sui nomi, ma anche sulla loro collocazione, per spostare Lorenzo Ornaghi dall’Istruzione alla Cultura. Alla fine, gli unici nomi che il Pd in qualche modo riconosce come suoi sono il neo ministro dell’Università, Francesco Profumo, Fabrizio Barca, alla Coesione territoriale e Piero Giarda, ai Rapporti con il Parlamento. Stima e approvazione per Corrado Passera, l’uomo che da ministro dello Sviluppo Economico si troverà in mezzo a una serie di conflitti d’interesse, arrivano direttamente da Bersani: “Conosco Passera e sono sicuro che farà politiche per la crescita”. E Catricalà? “Sempre meglio di Letta”, è il commento più frequente.
IL RESPONSABILE Giustizia Andrea Orlando si affretta a esprimere “apprezzamento” per la nomina della Severino alla Giustizia. Sulla falsariga del “sempre meglio di prima”, Bersani ha chiarito una serie di punti: il Pd voterà anche i provvedimenti che “non lo convincono al cento per cento”; “non si aspetta macelleria sociale”. Quindi “non rischia di perdere la sua identità”.
Alla fine, la precisazione, evidentemente dovuta: “Non ho mai detto che Giuliano Amato non fosse adatto di rappresentarci. Ma le condizioni della sua presenza non erano accettabili”. Non è il governo del Pd, ma di certo il Pd è il partito che più degli altri si sente in questo momento di governo. Chissà però quanto il governo si sente del Pd.

l’Unità 17.11.11
Profumo archivia la Gelmini: «Comincerò da studenti e ricercatori»
L’ex rettore del Politecnico di Torino, da pochi mesi presidente del Cnr chiarisce subito le priorità: «La scuola pubblica in Italia è molto importante»
di Pietro Greco


ROMA Da cosa comincerò? Dagli studenti e dai giovani ricercatori: è necessario sentire le loro ragioni e aspirazioni». Basterebbero queste parole, rispondendo ai giornalisti dopo il giuramento al Quirinale, per capire la distanza tra Maria Stella Gelmini e Francesco Profumo, da ieri alla guida del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Un’ottima scelta, per almeno tre motivi: è una persona competente ed esperta; gode del riconoscimento e del consenso sia della comunità scientifica che di quella universitaria; ha un’idea chiara del ruolo dell’istruzione («La scuola è la scuola, e la scuola pubblica in Italia è
molto importante», ha detto ieri) e di quello che la scienza e l’alta educazione rappresentano nella società e nell’economia della conoscenza.
Per capire che sia una persona esperta e competente basta sfogliare il suo curriculum. Nato a Savona nel 1953, si è laureato nel 1977 in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino, dove è poi diventato professore, preside di dipartimento e (dal 2005) rettore. Ha fatto parte del primo comitato di valutazione dell’università e della ricerca (Civr). Del mondo dell’università conosce davvero tutto. Compreso il valore dei suoi docenti, dei suoi ricercatori e dei suoi studenti. Profumo vanta anche una notevole esperienza internazionale: ha frequentato atenei e centri di ricerca negli Stati Uniti, in Giappone, in Argentina, nella Repubblica Ceca. E ha conosciuto direttamente il mondo dell’industria: ha infatti iniziato la sua carriera come ingegnere progettista all’Ansaldo di Genova. Ha poi col-
laborato con giganti mondiale dell’hi-tech, come Motorola e Microsoft. Infine, anche se da pochissimi mesi, è il presidente del nostro massimo Ente di Ricerca, il Cnr.
Francesco Profumo vanta anche il “riconoscimento dei pari” e il consenso del mondo accademico. Non solo è stato eletto rettore dai suoi colleghi al Politecnico di Torino, ma è diventato presidente del Cnr scelto da un “search commitee” da una commissione di colleghi ricercatori esperti che ne ha valutato le capacità scientifiche e gestionali. Inoltre gode nel mondo universitario di un apprezzamento trasversale, che va dai suoi colleghi rettori al mondo sindacale.
C’è infine una terza ragione che rende ottima la scelta di Francesco Profumo. La piena consapevolezza, più volte manifestata, del valore strategico della scienza e dell’alta educazione nell’economia della conoscenza; dei limiti del sistema produttivo italiano, che a causa della sua specializzazione produttiva questa consapevolezza nei fatti non ce l’ha. Ma Profumo, come docente, preside e rettore del Politecnico di Torino ha dimostrato anche di saper creare un rapporto reciprocamente vantaggioso tra industria, università e ricerca. Preservando l’indipendenza e i caratteri di ciascuno. Lui non ama parlare di differenza tra ricerca di base e ricerca applicata, perché oggi questa differenza è molto sfumata. Ma conosce bene l’importanza sia della ricerca libera e curiosity-driven che si conduce nei laboratori pubblici sia dello sviluppo tecnologico che è necessario per innovare il sistema produttivo.
Alla luce di queste cose, possiamo porgli una domanda e tre richieste. Come intende risolvere il problema della guida del Consiglio Nazionale delle Ricerche che aveva appena assunto? Non è un problema da poco. E dalla sua soluzione dipenderà anche la capacità del ministro di conservare il consenso avuto come docente, ricercatore e dirigente della ricerca. Le tre richieste sono queste. Non semplici da soddisfare, in un periodo di crisi finanziaria drammatica. Primo: abbia il coraggio di chiedere non meno soldi, ma più soldi per l’università pubblica (e laica) e per la ricerca scientifica pubblica. Secondo: abbia la forza di affermare principi di merito, ma anche di equità e di indipendenza dell’università e della ricerca italiana. Terzo: abbia il coraggio di pretendere che il nuovo governo acceleri con ogni mezzo il cambiamento della specializzazione produttiva del nostro paese. Perché è solo partendo dal lavoro e dall’economia reale che possiamo sperare di uscire dal tunnel della crisi finanziaria.

l’Unità 17.11.11
Gli auguri di Azione Cattolica

«Occorre tirar fuori il Paese dal baratro nel quale sembra precipitare per rilanciarne la vitalità». Lo sottolinea la presidenza nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, nel fare «gli auguri a Mario Monti e al suo governo, nella speranza che si apra per il Paese una stagione nuova. Le sfide alle quali l'Italia è chiamata a rispondere sono gravi e urgenti, serviranno sacrifici».

«La breve formula del giuramento risuona quindici volte nel salone delle feste del Quirinale. “Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della nazione”.... si alza Andrea Riccardi, fondatore e “ambasciatore” internazionale della comunità di Sant’Egidio. Riccardi è cattolico e legge la formula del giuramento saltando l’aggettivo “esclusivo” accostato a “interesse della nazione”. Un caso di conflitto interiore tra Dio e Cesare? Il mistero dura un paio d’ore. Dice al Fatto, Mario Marazziti, portavoce di Sant’Egidio: “Ho sentito Riccardi qualche minuto fa e quando gli ho riferito la cosa, lui ha risposto: ‘È successo davvero?’. Non se n’è accorto, questa è la verità”. Più tardi, poi, la precisazione ufficiale dello stesso neoministro alla Cooperazione internazionale e all’integrazione: “È stato uno scherzo dell’emozione o della luce. Ma è chiaro che io agirò nel-l’interesse esclusivo della nazione”. Mistero risolto e caso chiuso». da il Fatto di oggi

l’Unità 17.11.11
Il cardinale Bertone: «Una bella squadra». Dalle Acli all’Azione Cattolica reazioni soddisfatte
Casini si spinge a dire: «È la fine della diaspora della Dc». Replica Bindi: «Ti sbagli»
Il Vaticano benedice
Per i cattolici è l’«effetto Todi»
I «professori cattolici» nella squadra del governo Monti rassicurano la Chiesa. La novità dell’esecutivo «tecnico» risponde allo spirito di Todi. Apprezzamenti dal cardinale Bertone, dal Sir, dall’Azione cattolica e dalle Acli.
di Roberto Monteforte


«Una bella squadra alla quale auguro buon lavoro. Si tratta di un lavoro difficile, ma penso che la squadra sia attrezzata per affrontare questo lavoro». È stata questa l’autorevolissima «benedizione» del segretario di Stato vaticano, cardinale Bertone al «governo tecnico» presentato ieri dal professore Mario Monti che ha giurato ieri al Quirinale. Un governo forte. Con personalità «tecniche» di grande competenza che con si mettono al servizio del Paese per favorire il superamento della crisi con un’imprevista accelerazione, almeno stando ai commenti e ai messaggi di augurio rivolti dal mondo dell’associazionismo cattolico al governo. Dal settimanale Famiglia Cristiana all’agenzia dei vescovi Sir, dalle Acli all’Azione cattolica è comune il sostegno convinto a Monti.
«Un governo tecnico» lo descrive il Sirnato da un passo indietro delle forze politiche che «tuttavia, fin d’ora sono chiamate ad accompagnare con serietà e senso di responsabilità il lavoro dei tecnici». «Coniugare rigore ed equità, sacrifici e crescita conclude il Sir comporta da parte di tutti uno spirito di coesione e di collaborazione. Plaudono anche il Terzo Settore e il presidente delle Acli, Andrea Olivero che lo definisce «un esecutivo convincente», con «figure di alto profilo» che «non nasce contro la politica, ma al servizi della buona politica».
Quello che si sottolinea è la sintonia con le indicazioni «politiche» avanzate dal laicato cattolico al seminario di Todi. Rafforzata dalla presenza di «ministri» di area. Il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini si spinge a parlare di «fine della diaspora della Dc», visto che ora i cattolici si ritrovano uniti nello stesso al gover
no. Gli risponde Rosy Bindi (Pd). Non vi è stata «alcuna riunificazione» dei cattolici. «Questo governo puntualizza -non è sostenuto da una coalizione, ma da forze politiche che lavorano in autonomia, ciascuna con le proprie caratteristiche».
QUELLI DELL’«INCONTRO»
Una cosa è certa. Tra i ministri che hanno giurato al Quirinale, vi sono protagonisti dell’«incontro di Todi» che hanno accolto l’invito delle gerarchie e dello stesso pontefice a mettersi al servizio del paese e del «bene comune». Vi è il banchiere Corrado Passera, neo-ministro allo sviluppo economico. Il professore Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di sant’Egidio, a cui il presidente Monti ha affidato la responsabilità di un nuovo dicastero che comprende la «cooperazione interna e internazionale», due emergenze che hanno contraddistinto l’«azione sociale» della comunità di Trastevere. «L’impegno per la coesione sociale, per l’integrazione nazionale e per la cooperazione internazionale ha spiegato Riccardi fanno parte della mia cultura e dell’esperienza da me maturata in questi anni. Credo siano elementi decisivi per un Paese che ritrova la forza per uscire dalla crisi».
Alla guida dei Beni culturali vi è il rettore della università Cattolica professore Ornaghi, l’uomo chiave del «progetto culturale» della Cei voluto dal cardinale Ruini, intellettuale apprezzato anche dal presidente dei vescovi, Bagnasco. Del governo fa parte anche Piero Giarda, formatosi alla Cattolica di Milano: sarà il ministro per i rapporti con il Parlamento. Espressione autorevole dell’associazionismo cattolico è il professore di diritto costituzionale, Renato Balduzzi già presidente del Meic, il movimento di impegno culturale legato all’Azione cattolica. Sarà a capo di un ministero strategico per la Chiesa: la Salute. Non gli manca l’esperienza. È stato esperto giuridico della Bindi alla Sanità e alle Politiche per la famiglia.

il Fatto 17.11.11
Da Todi a Palazzo Chigi
di Marco Politi


I cattolici di Todi vanno al governo. Prima ancora che la carovana umbra riesca a darsi un’organizzazione, l’area bianca assume il volto della consistente pattuglia di personalità cattoliche che faranno parte del Consiglio dei ministri guidato dal cattolico Monti. È una squadra di tutto rispetto: Andrea Riccardi, leader della Comunità di Sant’Egidio alla Cooperazione internazionale, il banchiere Corrado Passera allo Sviluppo, Lorenzo Ornaghi rettore dell’Università Cattolica ai Beni culturali, Renato Balduzzi già presidente dei Laureati cattolici (Meic) alla Salute. Al di là delle differenti caratteristiche, la loro presenza testimonia l’avvento di una cultura politica radicalmente diversa da quella del governo di centro-destra. Al posto di una compagnia di ventura ispirata a faziosità, aggressività, ideologismo e nutrita di un’incosciente disattenzione al Paese reale, salgono sulla scena personaggi riunitisi a Todi sulla base del “Manifesto per la buona politica e il bene comune”.
“SIAMO ORGOGLIOSI di essere italiani, portatori di valori, di cultura, di tradizioni, apprezzati nel mondo e consapevoli di avere un destino comune... (impegnati ad) avviare una nuova stagione di sviluppo e per dare risposte positive alle giovani generazioni, ai territori meno sviluppati, alle persone bisognose”. Così recita il manifesto, su questo si misureranno e saranno misurati.
Il solo fatto di vedere persone che non alzeranno il dito medio (marchio Bossi), non manderanno ‘affanculo oppositori (Romano), non parleranno di élite di merda (Brunetta) o elettori coglioni (Berlusconi) è antropologicamente un sollievo. Il loro stesso modo di esprimersi rappresenta un ritorno a un linguaggio basato sul pensiero e non ispirato a spot pubblici-tari o furbizie da comizio.
La foto di Monti e dei suoi boys di parte bianca (al di là delle specifiche esperienze di ognuno) rappresenta plasticamente l’immagine del contributo di risorse cattoliche che si è sempre manifestato nei tornanti decisivi delle vicende italiane. Persino durante il Risorgimento, nel quale – nonostante la scatenata opposizione papalina e clericale – il cattolicesimo liberale è stato ben presente. Sul piano della cronaca politica più recente, il loro arrivo marca la sconfitta definitiva del tentativo di Berlusconi di costruire il suo governo del 2008 rifiutando superbamente il rapporto con forze cattoliche autonome. Tutti si accorsero, quando fu presentato l’ultimo governo di centrodestra, che i cattolici erano stati esclusi dai ministeri che contano. (Letta, uomo vaticano, è un caso a parte). La ricreazione del partito padronale, ateo devoto e intrinsecamente cinico, ora è finita. La benedizione di Ruini e di Bertone – è bene ricordarlo – ha portato al disastro attuale.
Il conciliaboli antecedenti alla formazione del governo hanno lasciato tuttavia uno strascico avvelenato. Il veto prepotente pronunciato da parte della Chiesa nei confronti dell’ipotesi che uno scienziato come Veronesi andasse al ministero della Salute. Vera o no l’ipotesi, rimane reale il veto. Sintomo preoccupante di una visione ideologica dei problemi della sanità (e della famiglia, possiamo aggiungere) che con un governo di stampo “europeo” non è assolutamente in sintonia.
È bene riflettere subito su problemi che toccano la vita quotidiana di milioni di uomini e donne. Un governo liberalizzatore di stampo europeo non può e non dovrà permettere che un farmacista si arroghi il diritto – contro la legge – di vendere o meno la pillola del giorno dopo. Non può tollerare ostruzionismi capziosi, che nulla hanno a che fare con la cura delle persone, nei confronti della pillola del giorno dopo o della Ru486. Dovrà riformulare urgentemente le assurde linee guida, varate come ultima raffica, per impedire la diagnosi preimpianto degli embrioni mortalmente malati. Soltanto il cinismo di una radicale pentita come Eugenia Roccella può dichiarare che l’assistenza alla procreazione è per le coppie sterili e non riguarda padri e madri che hanno la responsabilità di non mettere al mondo bimbi condannati a morire per talassemia o fibrosa cistica.
QUESTA VERGOGNA ideologica deve finire. Sarebbe poco logico predicare la libera concorrenza e ampliare la libertà di gestione delle imprese ad esempio nel campo dei licenziamenti, sarebbe poco comprensibile voler spezzare i lacci delle caste e delle corporazioni, e poi mortificare la libertà di responsabile decisione di uomini e donne nello spazio vitale della propria esistenza. Il profilo stesso delle personalità cattoliche arrivate nel governo Monti dimostra che questo governo è tutt’altro che tecnico. Al contrario, è altamente politico perché portatore di una visione generale di riorganizzazione sociale all’insegna di sviluppo, modernizzazione, equità e coesione. Dai cattolici, che siederanno ai banchi del governo, ci si aspetta che sappiano misurarsi con i problemi della modernità con l’indipendenza di un De Gasperi e della migliore tradizione di autonomia della Dc, trovando soluzioni concrete orientate al bene comune. Con l’accento su “comune”.

Corriere della Sera 17.11.11
«Bella squadra»: la soddisfazione della Chiesa
Tre ministri del Forum di Todi e «mix» tra le anime cattoliche. Gli auguri (compiaciuti) di Bertone
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Mai come in questi giorni è stata evidente la sintonia tra i due Colli, qualcosa che va oltre il rispetto istituzionale tra Vaticano e Quirinale e si accompagna alla stima che lega i due quasi coetanei Giorgio Napolitano e Benedetto XVI. L'Osservatore Romano che chiedeva «decisioni rapide e senso di responsabilità» riportando quasi solo le parole del presidente italiano, la Radio Vaticana a sostenere la necessità d'un «governo di transizione e di tregua». Naturale che ieri sera, uscendo dall'ateneo di Urbino dopo aver presentato il libro di Ratzinger su Gesù, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone abbia commentato con favore («vedo anche che le università sono state trattate molto bene») la nascita del governo Monti: «È una bella squadra alla quale auguro un buon lavoro, perché c'è tanto da fare». Un «lavoro difficile», certo, «ma penso che la squadra sia attrezzata per affrontarlo».
C'è un senso di attesa, ai vertici della Chiesa, fiduciosa ma consapevole che la situazione generale è assai poco simpatica. «Il momento di difficoltà che attraversa l'Europa sollecita una nuova assunzione di responsabilità e un rinnovato impegno comune dei popoli e delle istituzioni», osservava ieri il cardinale Angelo Bagnasco a un seminario dei vescovi sulla Ue. La Cei si è tenuta distante senza esprimere giudizi, in questi giorni, ma la linea «incoraggiata» era chiara: no a elezioni o «ribaltoni» di sorta, sì a larghe intese. Il direttore di Avvenire Marco Tarquinio ha scritto che «dal governo Monti ci si attende molto»: e l'«attesa» è «segno di una fiducia che, sommata a quella del Parlamento, spero gli sia di viatico lungo l'arduo percorso che attende il nuovo esecutivo».
In questo senso, la «competenza» e lo «spessore» dei ministri e la «presenza qualificata» di cattolici nell'esecutivo, si fa sapere, è «apprezzata» e rassicura le gerarchie. Del resto si parla di uno «spirito di Todi» che aleggia sul governo Monti. Tre dei nuovi ministri — Corrado Passera, Lorenzo Ornaghi e Andrea Riccardi — hanno partecipato come relatori al Forum dei cattolici che un mese fa si concluse con la richiesta di un «governo più forte» e di larghe intese, considerata l'«inadeguatezza» di quello allora in carica e il fatto che «le elezioni anticipate sarebbero la soluzione peggiore». Di qui la soddisfazione di vari esponenti del Forum, che già aveva espresso «sostegno convinto ad un governo di responsabilità nazionale». La «fondazione Achille Grandi» delle Acli, presieduta da Michele Rizzi, ha commissionato a Ipsos un sondaggio dal quale risulta che l'88 per cento dei praticanti impegnati e l'85 dei non praticanti sostiene il nuovo premier.
Del resto, il cattolico liberale Mario Monti ha scelto con finezza. Il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi è vicinissimo al cardinale Ruini, sostenuto dalla forte componente ciellina dell'ateneo e apprezzato nella Cei; Andrea Riccardi è fondatore della comunità di Sant'Egidio e ha eccellenti rapporti Oltretevere. Milano e Roma, Vaticano e Chiesa italiana, «conservatori» e «progressisti». C'è anche Renato Balduzzi, già presidente del «Movimento ecclesiale di impegno culturale», che collaborò con Rosy Bindi come capo dell'ufficio legislativo e partecipò alla stesura del disegno di legge sui «Dico», inviso alle gerarchie ecclesiastiche. Dalla Cattolica arriva Piero Giarda, vicini al mondo cattolico sono Paola Severino, Piero Gnudi e Francesco Profumo, che proprio questo pomeriggio presenterà il libro dell'Editrice Vaticana curato da monsignor Lorenzo Leuzzi su «I grandi discorsi di Benedetto XVI»: invitato da tempo come presidente del Cnr, tra gli altri relatori troverà il predecessore all'Istruzione, Mariastella Gelmini.
L'incontro più atteso, però, sarà domani: a una tavola rotonda di «Scienza e Vita» sulla bioetica, dopo l'intervento del cardinale Bagnasco, sono attesi Alfano, Bersani, Casini e Maroni. Tutti assieme, almeno lì.

Repubblica 17.11.11
I cattolici
Riccardi, Ornaghi e Balduzzi la pattuglia della svolta di Todi che un mese fa disse "basta"
A Palazzo Chigi Monti potrebbe portare Toniato, che accompagnò Schifani dal Papa
Il rettore della Cattolica auspicò una "scomposi-zione di tutte le forze politiche"
di Goffredo De Marchis


ROMA A nostra insaputa il seminario dei cattolici a Todi (17 ottobre, esattamente un mese fa) era un piccolo consiglio dei ministri. Tre volti del nuovo governo Monti parteciparono ai lavori del convegno che mise una pietra sopra al governo Berlusconi e anticipò la richiesta di un governo tecnico. Quel giorno presero la parola Lorenzo Ornaghi, rettore dell´Università Cattolica e oggi ministro della Cultura, e Corrado Passera, neo titolare dello Sviluppo Economico e Infrastrutture. Andrea Riccardi non volle mancare pur avendo in programma un viaggio all´estero. Adesso siede al ministero della Cooperazione e Integrazione. Non sorprende perciò un certo entusiasmo del Segretario di Stato Tarcisio Bertone: «È una bella squadra».
C´è un filo "bianco" che lega l´esecutivo tecnico al cuore della Sante sede e delle gerarchie vaticane. Se Passera non si può certo definire un cattolico militante lo è invece a tutti gli effetti il ministro della Salute Renato Balduzzi, costituzionalista già presiedente del Movimento dei laureati dell´Azione cattolica. Balduzzi è vicino a Rosy Bindi, è stato un suo strettissimo collaboratore ai dicasteri della Sanità e della Famiglia. A Todi non c´era, ma è solo un dettaglio.
Accanto a questi nomi va inserito quello di Federico Toniato. Non si vede nelle foto ufficiali del Quirinale, ma negli ultimi giorni è stato spesso inquadrato alle spalle del presidente del Consiglio. È l´uomo ombra di Monti, è il funzionario del Senato dal curriculum impeccabile che ha preso appunti durante le consultazioni. Il premier vuole portarlo con sé a Palazzo Chigi. Apprezza le sue capacità già dimostrate a Palazzo Madama dove è il capo della segreteria. Senza dimenticare i suoi rapporti molto solidi con il Vaticano. Toniato, 36 anni, organizzò l´incontro di Renato Schifani con Papa Ratzinger nel novembre del 2008. E accompagnò il presidente del Senato all´udienza privata.
Potevano essere ben quattro i ministri reduci da Todi. Carlo Dell´Aringa, candidato al Welfare, è saltato all´ultimo secondo per il veto secco della Cgil e della sinistra del Pd. Indigeste le sue posizioni sul mondo del lavoro espresse anche nel seminario umbro. Ma tre cattolici impegnati nella società sono comunque un grande risultato per una Chiesa che ha archiviato il berlusconismo, dopo avergli fatto sponda in passato, rivendicando un ruolo dei credenti molto più attivo e molto più visibile. Ornaghi è da sempre vicino a Camillo Ruini e alla Cei. Non a caso un grande conoscitore delle stanze vaticane come Dino Boffo, direttore di Tv2000, a ottobre pronosticava: «Il professor Ornaghi oggi o domani può far bene all´Italia tutta». Il discorso del rettore della Cattolica a Todi fu uno dei più politici. Divenne quasi uno slogan la sua ricetta per un nuovo protagonismo cattolico: «Abbiamo bisogno di una scomposizione e ricomposizione delle forze politiche». Riccardi non è da meno. Centrale come fondatore della Comunità di Sant´Egidio è il suo ruolo nella politica estera. Ma le sue ramificazioni nella politica italiana sono estese e vanno soprattutto dal Terzo polo al Pd. La prova del governo può diventare la palestra della leadership cattolica per il futuro. Il Sir, l´agenzia di stampa della Cei, lo dice senza ipocrisie: «Nasce un esecutivo di livello. Deve disegnare la nuova fase del sistema politico che si sta aprendo». Festeggia il Forum delle associazioni cattoliche. «Era quello che volevamo», dice il portavoce Natale Forlani. A Todi forse il governo Monti era già pronto. Non a loro insaputa.

Repubblica 17.11.11
Il Pontefice conosce personalmente almeno due ministri del nuovo esecutivo: Ornaghi e Riccardi
Ratzinger apprezza la squadra Monti. Bertone: buon lavoro, ha tanto da fare
Sondaggio Ipsos-Acli: l’88% dei cattolici è favorevole al governo Monti
di Marco Ansaldo e Orazio La Rocca


Citta´ del Vaticano C´è soddisfazione nell´Appartamento papale quando arriva la notizia della lista dei ministri. E´ una «buona giornata» per il Pontefice che scorre incuriosito la composizione dell´esecutivo. Benedetto XVI è soprattutto felice della nomina di Andrea Riccardi, uomo che apprezza e conosce bene, ora responsabile di un dicastero nuovo di zecca (Cooperazione internazionale e Integrazione), nel quale lo storico della Chiesa e fondatore della Comunità di Sant´Egidio potrà esprimere al meglio anche le sue doti di tessitore del dialogo interreligioso.
Ma la soddisfazione del Papa teologo si allarga a tutta la squadra-Monti. Ci sono molti accademici e una presenza cattolica robusta. Così le nomine del rettore della Cattolica, Lorenzo Ornaghi, di un manager considerato «non ostile» come Corrado Passera, e di personaggi per formazione vicini a quell´ambiente come Profumo, Severino, Balduzzi e Giarda, rappresentano una garanzia verso il Vaticano.
Difatti il braccio destro del Papa, il Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, rivolge alla nuova compagine un auspicio dato fino all´altro giorno niente affatto per scontato. «E´ una bella squadra a cui auguro un buon lavoro, perchè c´è tanto da fare».
Positiva anche la valutazione del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco. Segreteria di Stato e Cei guardano entrambe con fiducia al governo, anche per i tre incarichi che la Chiesa considera tradizionalmente chiave. Per cui «bene» per l´ambasciatore Giulio Terzi agli Esteri, per il prefetto di ferro Anna Maria Cancellieri agli Interni, e ovviamente l´Economia «nelle mani esperte» del nuovo premier.
Un esecutivo che sembra respirare l´aria del recente convegno di Todi («occorre purificare l´aria», aveva richiesto Bagnasco con un chiaro riferimento al vecchio governo).
E il governo Monti piace anche alla base cattolica. E´ quanto emerge da un sondaggio svolto dall´Ipsos per conto della Fondazione «Achille Grandi» delle Acli, la più grande organizzazione di lavoratori cattolici. Su un campione di 10000 persone, l´88 per cento dei cattolici «impegnati» ha detto di «gradire» il nuovo esecutivo, contro il 9 contrari e il 3 che «non sa». «Sono dati significativi e sorprendenti commenta Michele Rizzi, presidente della Fondazione che dimostrano come sia grande l´attesa che il popolo cattolico nutre verso il nuovo esecutivo». «Nove cattolici su dieci favorevoli alla nuova compagine governativa varata ieri aggiunge Rizzi significa che praticamente tutti i cattolici, sia i praticanti che quelli scarsamente impegnati, sono tornati a guardare alla politica con occhi diversi, archiviando quella lunga fase di astensionismo e di distacco esplosa negli ultimi tempi a causa di vicende poco edificanti. Dopo il seminario di Todi e i richiami che il cardinale Bagnasco ha ripetutamente fatto ai cattolici invitandoli ad essere più attivi sulla scena politica, il popolo dei credenti ha acquistato fiducia, ritrovandosi in pieno nella sobrietà e nella competenza di Mario Monti».

Repubblica 17.11.11
Casini alla mostra dell´orgoglio Dc "Oggi è la fine della nostra diaspora"
E il leader Udc elogia democratici e Pdl: "Lungimiranti"
di Antonello Caporale


ROMA Quelli in prima fila hanno i capelli bianchi. Tutti. Giovani e vecchi. Uomini e donne. Vista da qui, dal tempio di Adriano, cento passi da Montecitorio, la Democrazia cristiana è identica a quella che lasciammo quasi vent´anni fa. Il partito dell´Italia si ritrova in mostra nel momento esatto in cui Silvio Berlusconi raggiunge per l´ultima volta palazzo Chigi. Lui fa le valigie, Pierferdinando Casini le disfa: «Questa è la fine della diaspora della Dc», dice col piacere di ritrovare, nel giorno dell´orgoglio scudocrociato, il braccio di Arnaldo Forlani, la sfinge di Emilio Colombo, l´immutabile eloquio di Ciriaco De Mita. C´è tutta la Dc che festeggia, la vecchia e la nuova, con il neo ministro Andrea Riccardi che garantisce certo col sorriso che non si tratta di una nuova avventura, semmai «forse è la vecchia che continua».
Sono coincidenze. Ma fanno effetto. Fa effetto registrare l´entusiasmo di Cirino Pomicino, uno dei più attivi costruttori del monumentale deficit di Stato, verso il governo del rigore. E dà un brivido aggiungere Lorenzo Cesa, il segretario dell´Udc, nel battaglione che contrasterà sprechi e privilegi. Ma la Democrazia cristiana è stata sempre una e trina. Alcide De Gasperi, Don Luigi Sturzo insieme alla minuta virtù clientelare: voti casa per casa e favori secondo il caso. L´ispirazione europeista e la conservazione, le intuizioni riformatrici (la riforma fondiaria, la sanità pubblica) e il passo clericale di ogni iniziativa.
Il partito Stato, il partito della Chiesa e dei contadini, il partito dei buoni e dei cattivi. Lo slancio della democrazia costituzionale e la cura della vandea elettorale meridionale («quando facemmo il centro sinistra Moro ci invitò a tenerci ben stretti i voti reazionari del Mezzogiorno», ricorda De Mita). C´è la Dc grande, e le immagini di Zaccagnini, la grandezza disperata di Moro, la passione lucida di Martinazzoli, e la Dc piccola. Di ieri e di oggi. La sala è piena per merito di Pierluigi Castagnetti, promotore dell´iniziativa, ma gli occhi non sono lucidi. C´è la voglia di ricordare ma di tornare a combattere. «La cosa che più mi ha colpito è la facilità con la quale la Dc è stata vittima delle bugie, di grandi menzogne», dice Arnaldo Forlani tradendo la voglia di riscrivere non solo la storia ma anche la cronaca di Tangentopoli. La sala è piena e dentro c´è, come il fortunato slogan della Rai, di tutto e di più. Destra, sinistra, centro. Liofilizzati e ridotti all´unica polvere democristiana. Rosy Bindi che bacia Casini che bacia Pisanu. Gerardo Bianco, l´irpino fieramente demitiano, sonnecchia oramai sazio. E la falange cislina, il sindacato di collegamento, con tre segretari (Marini, Pezzotta e D´Antoni) e poi i portavoti del sud. C´è Michele Pisacane, il deputato al quale Berlusconi negli ultimi giorni di vita si è dovuto appellare, e Saverio Romano, che è divenuto persino ministro in ragione della forza elettorale personale.
Casini giura che «nulla è come prima». Ma qui sembra, ed è un´impressione naturale, tutto come prima. Persino il signor Massimiliano Cencelli, autore del memorabile indice di compatibilità spartitoria (da qui "manuale Cencelli") si affaccia e saluta. Sono felici, ed è giusto. Lontane le luci psichedeliche del berlusconismo che pure tanti hanno suggestionato, rivive, nella sobrietà immutabile di un partito di potere, la speranza che al potere, di riffa o di raffa, la Democrazia cristiana ritornerà. E´ Casini il più convinto testimonial della riscossa, e infatti si comporta da padrone di casa. Accudisce ed esalta. Dà i voti ad Angelino Alfano e a Pierluigi Bersani che hanno mostrato «straordinaria lungimiranza», ed è felice di questo nuovo governo denso di personalità cattoliche, ispirate al centro: «E´ un esecutivo di larga convergenza e l´effetto immediato è la fine della diaspora Dc», sintetizza. Sembra già avere gli occhi rivolti al Quirinale il giovane Pierferdinando, con i capelli bianchi al punto giusto. Sale e pepe. Come quelli di Forlani e quelli della Bindi. Bianchi come lo scudo prezioso della Dc che «fece l´Italia».

Repubblica 17.11.11
Dentro il Pd esultano gli ex democristiani
Prodiani e bindiani ben rappresentati. Bersani esce soddisfatto. Silenzio totale dei “giovani turchi” della segreteria.


Il Pd, formalmente e, anche, sostanzialmente è soddisfatto della squadra di governo. Gianni Letta e, anche, Giuliano Amato non ci sono. È una prima vittoria, per il Pd. Bersani, che rivendica in una conferenza stampa l’appoggio del Pd e «i segnali di competenza, esperienza e sensibilità» dei ministri, contesta i veti del Pd su Amato, come in realtà ha fatto, mentre evita atteggiamenti farisei, glissando sul pesantissimo veto messo sullo zio di Enrico Letta. Il vicesegretario del Pd è il vero, massimo, sostenitore della nascita di questo governo assieme all’ex segretario Walter Veltroni (amico del neo ministro Andrea Riccardi da quando era sindaco di Roma) e al capofila degli ex ppi, Beppe Fioroni. Il quale di ministri, pur se in comproprietà con la Cei e i cattolici di Todi, ne può sentire vicini ben quattro: Ornaghi, Riccardi, Severino e Passera. Per non dire del ruolo dietro le quinte del presidente del Copasir, Massimo D’Alema e della sua soddisfazione per la nomina di Fabrizio Barca, brillante figlio dell’illustre economista di area riformista del Pci, Luciano Barca. La seconda, mezza, vittoria del Pd sta nell’aver evitato nomi indigeribili nei ruoli-chiave. Passera, che «potrà coltivare ambizioni da leader, in futuro», dice un peso massimo del Pd che conta, votò alle primarie di Prodi. Piero Gnudi e, soprattutto, Piero Giarda hanno il pedigree da ex amici e sodali di Romano Prodi e del prodismo. Sono, inoltre, due cattolici democratici. Renato Balduzzi (ex Meic ed ex Ac), ministro alla Salute, poi, non solo è un cattolico-democratico, ma è stato anche uno dei più fidati ufficiali di collegamento tra l’ex ministro Rosy Bindi e il ministero, quando Rosy lo guidava, di cui coordinava l’ufficio legislativo. Infatti, i prodiani e i bindiani cantano vittoria. Per il resto, però, si va a tentoni. E cominciano i distinguo.
Al di là delle parole di Bersani, infatti, i “giovani turchi” della sua segreteria ieri tacevano mentre le agenzie erano inondate di telegrammi di felicitazioni in arrivo da tutte le parti del mondo Pd: gli Eco-Dem brindavano al neo-ministro dell’Ambiente, i Pop-Dem ai super-cattolici, i veltroniani al governo in sé, i lettiani non stavano più nella pelle per la contentezza. Ieri sera, troppo tardi per darne conto qui, si riuniva il coordinamento politico del Pd, stamane ci saranno le riunioni dei gruppi democrat di Camera e Senato e, in chiaro, escono solo manifestazioni di giubilo. Tutto bene, dunque? No. Cesare Damiano, che pure ha il curriculum del riformista doc, si prepara a incrociare le spade con la neo ministra al Welfare, Elsa Fornero, di cui è stato compagno di classe al liceo, a Torino: «I pensionati con 41 anni di lavoro alle spalle non si toccano», fa secco al Riformista. Un deputato democrat meridionale lamenta «un governo sull’asse Milano-Torino. Dov’è finito il Sud?!». E c’è anche chi storce il naso per il fatto che in tre ruoli-chiave (Interni, Esteri e Difesa), «ci sono un prefetto, un ambasciatore e un ammiraglio...». In merito agli altri partiti, l’Idv valuterà il governo “atto per atto”, annuncia Di Pietro, mentre Casini, Fini e Rutelli cantano vittoria: questo è il nostro governo. Ed è vero.

il Riformista 17.11.11
Chiesa: nihil obstat con qualche riserva
Il sostegno esterno di Cei e Vaticano
di Ubaldo Casotto


«I nomi sono di prestigio ed esprimono sensibilità diverse del cattolicesimo italiano, ma da qui a definirlo un governo targato Bagnasco ce ne corre». Così si esprime, a microfoni spenti, un autorevole osservatore di cose politico-ecclesiali.
In queste poche parole sono sinteticamente riassunti tutti i sentimenti che attraversano quello che suole definirsi “mondo cattolico”, volendo dare rappresentanza unitaria di una realtà invece molto variegata.
L’aria ufficiale è quella dell’apertura di fiducia e insieme dell’attesa. Avvenire uscirà domani con un editoriale del direttore, Marco Tarquinio il cui tono è deducibile dalla simpatia con cui in questi giorni il quotidiano della Cei guardava al tentativo Monti. Ieri sera, poi, Tarquinio era alla presentazione di un libro dove avrebbe avuto come vicino Corrado Passera, il neo ministro dello Sviluppo e delle Infrastrutture, già presente al convegno di Todi. L’Osservatore Romano, nel suo stile, ha dato notevole risalto alla notizia della formazione del governo, ma limitandosi alla cronaca più asettica. Oltretevere guardano con attenzione particolare alle vicende italiane, e al tentativo di Mario Monti. Non è un mistero la stima di cui gode nei Sacri palazzi il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e la sua moral suasion non pare estranea alla disponibilità dei vertici della Chiesa per questo governo. Né si può pensare che il rettore dell’Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi, uomo di punta del progetto culturale della Cei, apprezzato dal cardinale Camillo Ruini e dal suo successore Angelo Bagnasco, non abbia preventivamente fatto le sue telefonate a chi di dovere per chiedere, se non una benedizione, almeno un nihil obstat all’ingresso nel nuovo esecutivo. Lo stesso ragionamento vale per Andrea Riccardi, storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, protagonista di una diplomazia “della pace” che a volte ha disturbato la Santa Sede, ma che nondimeno gode di ottimi rapporti in Vaticano. Per lui, fanno notare in molti e con diverso accento, è stato costituito un ministero ad hoc, quello della Cooperazione internazionale e integrazione. Un politico del centrodestra, che ha seguito da vicino le trattative notturne, dice che per entrambi la richiesta era il ministero dell’Istruzione, che i due si sono elisi a vicenda e che una volta scelto di non darlo a un cattolico (in Viale Trastevere è arrivato l’ex rettore del Politecnico di Torino Francesco Profumo) per Ornaghi decisiva è stata l’insistenza del Pdl. Perché? «Perché è l’icastica risposta è uno che era a Todi non nello spirito di Todi».
Poi, inevitabili, i malumori. C’è chi prevede che, dopo il doveroso apprezzamento perché non si mettono in gioco simili personalità direttamente espressione del mondo ecclesiale, come forse mai in precedenza, senza la volontà di sostenerle le «discussioni interne» saranno animate. Altri sottolineano come il mancato approdo di Ornaghi all’Istruzione è un rifiuto di fronte all’unica vera richiesta proveniente dai vertici ecclesiali. Né consola l’essere stati ascoltati nel veto a Umberto Veronesi alla Salute. Il designato, il giurista Renato Balduzzi, viene sì dalla Cattolica («ci è appena arrivato, ed è espressione della facoltà di Giurisprudenza, l’unica che in Largo Gemelli fa resistenza a Ornaghi» segnala una voce dall’ateneo) ma è considerato più un uomo dell’ex ministro della Sanità Rosy Bindi che un portavoce delle istanze ecclesiali, nonostante sia stato sino al 2009 presidente del Meic, il movimento dei laureati dell’Azione cattolica. Infatti, le associazioni cattoliche, più che il suo schierarsi per l’astensione nel referendum del 2005 contro la legge 40 sulla fecondazione assistita, ricordano la sua opposizione al Family Day e il suo contributo alla stesura del disegno di legge sui Dico.
Ma quelle descritte sono interna corporis che nel mondo cattolico si agitano da anni, quella che può essere, in questo momento, definita la “volontà politica” prevalente era riassunta in una nota del Forum delle aassociazioni cattoliche, nella quale si diceva che l’Italia «ha bisogno di riconquistare la sua credibilità fortemente compromessa sui mercati in Europa e nel mondo. Operazione che non può passare attraverso le elezioni anticipate ma dal sostegno convinto a un governo di responsabilità nazionale». Questo, il rapporto di stima (ricambiato) con il Quirinale, una congenita cultura della responsabilità e alcune partite da giocare con il nuovo governo, possono fare ingoiare qualche rospo.

il Fatto 17.11.11
Su Monti sventola Balena Bianca
La Dc si riunisce a Roma Casini: “La diaspora è finita”
di Carlo Tecce


Arnaldo Forlani (86 anni) e Ciriaco De Mita (83 anni) che tagliano un nastro tricolore per fingere un'antica amicizia. Emilio Colombo (91 anni) e Gerardo Bianco (80 anni) che stringono la cravatta per tradire la tensione. Franco Marini (78 anni) e Nicola Mancino (80 anni) che riflettono assopiti e anche annoiati. Smorfie e facce di copertine usurate, fotografie in bianco e nero, documentari liceali che tornano insieme per celebrare il vecchio e benedire il nuovo. Poi arriva Pier Ferdinando Casini, promettente allievo fra tanti maestri, e capisci che soltanto la Democrazia cristiana è immortale: “Il governo di Monti è ottimo. La diaspora Dc è finita”. E se capita di confondere il busto di don Luigi Sturzo con De Mita o Mancino, pazienza. Al Tempio di Adriano di Roma, il giovane Pier Luigi Castagnetti (66 anni), erede dei Popolari che furono Balena Bianca, presenta la mostra “Democrazia cristiana per l'Italia”. E i protagonisti, evento metafisico, si fanno vedere due volte: nei filmati d'archivio e seduti in platea. Il passato avanza, il futuro retrocede. Ancora prima di giurare al Quirinale, il ministro Andrea Riccardi omaggia ex deputati e senatori a riposo o in servizio, abbraccia con affetto l’avanguardia, la seconda, la terza e l'ultima fila. E riscalda la folla: “La mia è una nuova avventura? Forse è il vecchio che continua”.
Casini fa centro con un bacio scoppiettante a Rosy Bindi che, imbarazzata, sospira: “Ci siamo separati nel '94. È passato tanto tempo... ”. Parole profumate che raddrizzano le schiene più curve.
“QUESTO di Monti è un esecutivo costituente. Qualcuno potrebbe obiettare che manca un'impronta dei partiti, però se la politica sparisce, c'è sempre qualcuno che la richiama”, dice De Mita con tono profetico. E i ragazzotti di correnti e compromessi si offrono per aiutare le generazioni di Casini e Franceschini. Rischiando fratture scomposte, i reduci Dc si spingono col gomito. Ammiccano: “È nato un monocolore democristiano”. Che può durare sei mesi o un anno, non importa. Perché il Parlamento di grandi intese e grandi ritrovi è qui con le stesse cravatte scure e le stesse montature
anni 70, di occhiali s'intende: c'è l'Udc al completo con Lorenzo Cesa, Franco Follini, Enzo Carra, Rocco Buttiglione; c'è il Pd con Giuseppe Fioroni e Da-rio Franceschini; c'è il Pdl con Beppe Pisanu; c'è l'Api con Francesco Rutelli, Pino Pisicchio e Franco Bruno. E in onore del proporzionale, nemmeno i “resti” mancano: c'è il Partito dei popolari domani con l'ex ministro Saverio Romano e Pippo Gianni. E soprattutto c'è l'uomo del manuale, Massimiliano Cencelli che, finalmente, può dividere cariche e poteri senza mollare troppo: “Non c'è un solo socialista al governo”. Che soddisfazione. Mentre i socialisti Brunetta, Cicchitto, Tremonti e Sacconi vanno in pensione, la Democrazia cristiana torna al comando. Persino il tavolo di legno è originale, proviene direttamente dai saloni di piazza del Gesù: non è dorato né di pregio, precisano. Forlani che coccola Casini trasmette nostalgia. Proprio Pier, il discepolo (e portaborse) che ricorda a memoria la lezione, una parte di scena scritta 30 anni fa: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ma è fondamentale restare uguali: “Noi ci siamo sempre stati”. Non si vedevano bene, erano dispersi: “Ora è finita”, ripete Casini. E Forlani si sforza per sorridere a De Mita: “Andavamo d'accordo, andavamo... ”. Giuseppe De Rita è pronto per l'esame sociologico italiano. Non politico, pare sia complicato. Aspettando la Terza Repubblica, trionfa la terza età.

il Fatto 17.11.11
“La massoneria di Goldman Sachs”
Monti, Draghi, Papademos e il “capitalismo di relazioni della banca d’affari Usa
di Roberta Zunini


Governatori dal capo cinto d’alloro finti inviati a redimere le corrotte province dell’Impero, sull’orlo della bancarotta, piuttosto che massoni tanto spietati quanto fedeli della “loggia americana Goldman Sachs”. Il neo establishment europeo, forte dell’ingresso di Mario Draghi, Mario Monti e Lucas Papademos alla testa rispettivamente della Banca centrale europea, del governo italiano e di quello greco, lascia perplessa la stampa internazionale. L’inglese Financial Times e il francese Le Monde, due giganti della stampa mainstream, hanno riportato alla luce il loro comune passato ai piani più alti della banca d’affari Goldman Sachs. Uno degli istituti bancari corresponsabili della crisi finanziaria mondiale scoppiata nel 2008. Per una volta il documentatissimo quotidiano francese vicino alla sinistra si trova d’accordo con i no-strani Giornale, Libero o il Manifesto.
Ecco allora una storia dettagliata e ragionata del “capitalismo di relazioni” – come lo definisce il corrispondente da Londra, Marc Roche – di cui la banca d’affari Goldman Sachs sarebbe l’apostolo in Europa. I crociati più agguerriti sarebbero per l’appunto il governatore della Bce, Draghi e i neo premier Monti e Papademos.
IL PRIMO fu addirittura vicepresidente della Goldman Sachs International per l’Europa tra il 2002 e il 2005, con il compito ufficiale di occuparsi delle imprese dei paesi sovrani, ma corso in aiuto alla Grecia “camuffando i suoi conti grazie a prodotti finanziari swap”. Monti, dal 2005 a ieri consigliere internazionale di Goldman, sarebbe stato a lungo un “apritore di porte” con il compito di entrare nel cuore del potere europeo per difendere gli interessi di GS.
Dal catalogo Goldman, il neo premier aveva la missione di consigliare i vertici della banca su non meglio specificati “affari europei e i grandi dossier della politica mondiale”.
Papademos, già governatore della Banca centrale greca tra il ‘94 e il 2002, avrebbe invece giocato un ruolo importante con l’aiuto della Goldman nel nascondere i rovinosi conti pubblici ellenici. Ma la banca d’affari, al contrario degli istituti suoi concorrenti, non cerca di fare pressione sui deputati, sui ministri, insomma sugli esponenti delle compagini politiche europee, bensì cerca di mettere direttamente i suoi consiglieri o gli ex esponenti del suo vertice a capo delle Banche centrali o delle commissioni europee. Mario Monti è stato infatti a lungo commissario europeo.
Il loro compito è di raccogliere informazioni sulle operazioni che le Istituzioni europee stanno mettendo a punto e sulla politica dei tassi d’interesse in via di realizzazione da parte delle Banche centrali. Tutto ciò per avvantaggiare gli stessi soci della Goldman. La banca privata quindi usa i suoi uomini come api per impollinare esponenzialmente le istituzioni pubbliche e far fiorire governi compiacenti.

il Fatto 17.11.11
Larghissima intesa
Dai treni di Montezemolo all’operazione Alitalia. I conflitti d’interesse del neo ministro Passera
di Vittorio Malagutti


Milano. Il suo "sogno per l'Italia" Corrado Passera lo ha raccontato in un'intervista a Panorama nel gennaio del 2008, agli sgoccioli del governo Prodi. Ed era un Corrado Passera più che mai ispirato, quello che si abbandonava tra le braccia dell'allora direttore Maurizio Belpietro per illustrare all'house organ berlusconiano Panorama la sua ricetta per il risanamento di un “Paese in declino” e con un “sistema politico bloccato”. Da allora il capo di Banca Intesa ci ha preso gusto e nelle successive interviste ha sempre recitato da statista. “Un piano da 50 miliardi per l'Italia”, era il titolo scelto dal Sole 24 Ore per un lungo colloquio del banchiere con Ferruccio De Bortoli, direttore (a quell'epoca) del quotidiano confindustriale. E ancora, il 5 settembre scorso, dalle colonne del Corriere della Sera, il manager invocava un "Patto per crescere".
Così, adesso che finalmente è approdato a una poltrona di governo (anzi, due in una), riesce facile affermare che Passera studiava da ministro ormai da anni. Uscite pubbliche sempre più frequenti, discorsi, interviste, perfino la gestione mediatica del suo (secondo) matrimonio nel maggio scorso (tra i selezionatissimi invitati anche Mario Monti e Mario Draghi).
TUTTO SEMBRAVA rientrare in una sapiente strategia d’immagine studiata apposta per cucire addosso al banchiere un ruolo politico. Strategia culminata, solo un mese fa, con la partecipazione da riverita superstar al forum delle associazioni cattoliche riunite a Todi, dove la Chiesa ha mandato l'avviso di sfratto a Berlusconi. Come politico, Passera ha dimostrato di cavarsela ottimamente con lo slalom. Nel 2007 votò alle primarie del centrosinistra, per poi impostare, l'anno successivo, una manovra d'avvicinamento al governo di centro destra culminata con il salvataggio dell'Alitalia in cui Intesa guidò la cordata degli investitori patrioti. Ma mentre il Cavaliere affondava in un mare di debiti e scandali, Passera si era già procurato un salvacondotto verso i tempi nuovi. Quelli del governo tecnico guidato dall’amico Monti. Che ieri a domanda precisa sull’opportunità di scegliere proprio Passera ha negato “che ci siano nelle sue nuove funzioni possibili intralci legati alla sua attività passata”.
DI SICURO, però, per il manager bocconiano, classe 1954, già assistente, ormai vent’anni fa, di Carlo De Benedetti e amministratore delegato del Gruppo L’Espresso e dell’Olivetti, non sarà facile lasciarsi alle spalle il suo ingombrante passato da primo banchiere d’Italia. Con questo ruolo Passera ha finanziato e gestito affari miliardari che ora sarà chiamato a valutare da una poltrona di governo e nell’interesse pubblico. Prendiamo i treni superveloci della Ntv controllata da Diego Della Valle e Luca di Montezemolo, entrambi in ottimi rapporti con il neo ministro. Intesa ha sostenuto sin dall’inizio l’avventura della compagnia ferroviaria che vuol far concorrenza al Frecciarossa di Trenitalia. E adesso l’ex amministratore della banca socia e finanziatrice del gruppo privato è chiamato, in qualità di ministro, a fare da arbitro nella contesa con l’azienda di Stato. “È un bel progetto di sistema, sano, solido, messo insieme da quattro amici”, disse Passera tre anni fa a proposito di Ntv. Questione di opinioni, ma il neo-ministro ora dovrà convincere anche Mauro Moretti, il numero uno di Trenitalia.
Poi c’è la questione Alitalia, che ha evitato il crac grazie ai soldi pubblici e a quelli di Intesa. Fino a ieri Passera faceva il tifo per la compagnia guidata da Roberto Colaninno dove la sua banca era pesantemente impegnata. Adesso invece il manager diventato ministro è chiamato a tutelare i cittadini viaggiatori. Mica facile dare un taglio netto con il passato, senza esporsi a prevedibili sospetti alimentati dalle sue precedenti attività. Non è mistero, per esempio, che Intesa è di gran lunga l’istituto più coinvolto nei finanziamenti delle opere pubbliche. Nel 2007 fu un’idea di Passera quella di sviluppare, sotto l’ombrello di Intesa, la nuova Banca delle Infrastrutture, pensata apposta per affiancare Stato ed enti locali. Grandi progetti come la Brescia-Milano, la Pedemontana lombarda e la Brebemi, per citare solo le autostrade, vedono Intesa nel ruolo di finanziatore e azionista.
Altro capitolo delicato è quello dei telefoni. Intesa è uno dei soci di riferimento di Telecom Italia, partecipata attraverso la holding Telco. A suo tempo Passera ebbe un ruolo decisivo nella manovre finanziarie che traghettarono il gruppo di telecomunicazioni, ceduto da Marco Tronchetti Pro-vera, nell’orbita del salotto buono di Mediobanca e Generali. Solo che adesso il banchiere grande socio di Telecom Italia è diventato il ministro competente nel delicato settore delle telecomunicazioni. Difficile che i concorrenti, da Vodafone a Wind, abbiano accolto con gioia la notizia. Così come Mediaset, Rai e gli altri rivali di Telecom (che controlla La7) in vista della fase finale finale del beauty contest che assegnerà gratis le frequenze televisive liberate dal passaggio al digitale.

Corriere della Sera 17.11.11
«Ora lo show è finito Ma anche il Pd ha deluso le mie aspettative»
De Benedetti: Monti unica scelta, Napolitano geniale
di Aldo Cazzullo


MILANO — Ingegner De Benedetti, che impressione le ha fatto la caduta di Berlusconi?
«La fine di uno show. Berlusconi è stato, ed è, un serial tv durato troppo a lungo. Tutto è cominciato su un set televisivo, con la messinscena del tavolo di noce e del contratto con gli italiani, alla presenza di un notaio fasullo anche quello. Termina con la tragedia di un Paese eticamente distrutto, economicamente sfiancato, finanziariamente sull'orlo del fallimento. Ora lo show è finito».
Ma Berlusconi non è ancora stato battuto.
«Sia chiaro che è caduto in Parlamento, dove non aveva più i voti per governare. L'analisi storico-politica si farà carico di spiegare come un Paese si sia convinto a dare il proprio consenso a un illusionista, e poi abbia tollerato una figura retrò che impersonava la vecchia corruzione, il vecchio sessismo, il vecchio machismo. Nel mondo ormai veniva definito "buffoon". A me rimane una tristezza: come una classe dirigente abbia tollerato-favorito-tratto vantaggi personali dal rapporto con lui, mentre l'Italia andava a picco al suono del suo pifferaio magico che addirittura negava la crisi».
Cos'ha provato nel vedere la folla che lo insultava sotto casa?
«Gli insulti sono sempre un elemento di inciviltà. Ma talvolta il popolo ha bisogno di uno sfogo, più folkloristico che sostanziale. Nel serial tv il finale prevede, come nelle grandi opere musicali, la parte del coro; ed è proprio a quel punto che si chiude il sipario. Comunque, è una cosa che sarebbe stato meglio non fosse successa».
La crisi è davvero così drammatica?
«Sì. Ho passato la scorsa settimana tra Washington e New York. E ho scoperto che l'Italia è importante come mai in passato: la crisi del suo debito può destabilizzare il mondo intero; a cominciare dalla Francia. Non a caso Obama ha auspicato una soluzione tecnocratica per Grecia e Italia. Un grande banchiere mi ha confidato che la sera non riesce a dormire, in preda a cattivi pensieri; e il primo è l'Europa. È stato allora che mi sono reso conto che stavamo precipitando nel baratro, l'orologio della politica non coincideva con l'orologio dei mercati, e occorreva una grande accelerazione».
Monti è una «soluzione tecnocratica»?
«Non so fino a che punto gli italiani siano riusciti a capire la straordinarietà di quanto ha fatto Napolitano la settimana scorsa. La lucidità, il tempismo, la determinazione, e la vera genialità politica con cui ha trasformato un professore in un padre della patria. Monti era l'unica scelta. Ho molta fiducia in lui».
Eppure in questi giorni la Borsa ha continuato a soffrire, lo spread e i rendimenti dei titoli di Stato a salire.
«Perché non basta cambiare l'etichetta; la gente vuol sapere cosa c'è dentro la bottiglia. La questione non è solo italiana, il problema della leadership è mondiale. Salvare la democrazia dalla tecnocrazia è un grande compito. Io penso che Monti rappresenti il meglio che la tecnocrazia può offrire: è la nostra ultima occasione, guai a perderla; viva Monti, mille volte. Ma la gente come me, che sono un democratico vero, spera che la tecnocrazia venga presto sostituita dalla politica. Altrimenti si apre l'orizzonte inquietante della demagogia, amplificata dalla grande rete comunicativa di Internet. È nato così un fenomeno come Obama: ottimo candidato, pessimo presidente; al punto che alcuni tra i suoi grandi finanziatori del 2008 stavolta voteranno Romney».
I partiti italiani sosterranno davvero un governo da cui sono esclusi?
«I più grandi beneficiari di un governo tecnico saranno i partiti. Un governo tecnico darà loro respiro, consentirà di recuperare quella capacità di parlare ai cittadini che tutti hanno perso, a destra ma anche a sinistra».
Anche il Pd, la cui nascita lei aveva salutato con favore?
«Il Pd non ha corrisposto alle aspettative mie e a quelle di tanti entusiasti alla sua nascita. Bersani è un'eccellente persona, è stato un ottimo ministro, si è dimostrato anche in questa circostanza un politico eccellente, fermo e intransigente sui suoi principi ma duttile come la circostanza richiedeva; ma, in un'epoca in cui la comunicazione è così importante, lui è più efficace comunicativamente nella versione Crozza che in quella originale. Ringraziamo però che ci sia Bersani perché, al di là delle amicizie personali, troppi a sinistra non sopportano più le liti trentennali D'Alema-Veltroni».
Renzi non la convince?
«Assolutamente no. La rottamazione può essere la condizione per un progetto. Non può essere un progetto in sé. Di Berlusconi ne abbiamo già avuto uno. E ci è bastato».
Cosa pensa della composizione del governo?
«Mi sembra una squadra con grandi professionalità. L'importante ora e che li lascino lavorare perché il compito che li attende è drammatico».
Quanto dura, secondo lei?
«Parlare di governo a termine è ridicolo. L'unico termine sono le elezioni del 2013. Ma in 15 mesi Monti potrà solo iniziare un lavoro che durerà molto di più. Ci vorranno cinque, forse dieci anni per riparare ai guasti degli ultimi venti».
Questo significa che Monti potrebbe tornare a Palazzo Chigi sostenuto da un nuovo centrosinistra?
«Non credo che Monti abbia intenzione di schierarsi, fondare partiti, guidare campagne elettorali. La sua forza è proprio nell'essere neutro, nel fatto che non favorirà né l'uno né l'altro. È un liberale, sia nel senso europeo sia nel senso americano del termine. È un einaudiano e un kennedyano allo stesso tempo. Ma non è padre Pio. Non è un dio. Cercherà di fare alcune cose, inclusa, spero, la legge elettorale e la patrimoniale, che personalmente ho suggerito due anni e mezzo fa».
È davvero necessaria la patrimoniale? E di quale tipo?
«Serve una patrimoniale light, sotto l'1%, su tutto. Ma non per ridurre il debito, né per sistemare i conti, né per tranquillizzare l'Europa. La patrimoniale è un segno verso l'assoluta necessità, per l'Italia come per tutto l'Occidente, di ridurre la forbice sempre più ampia della disuguaglianza sociale. In America ho visto i giovani di Occupy Wall Street. Non concluderanno nulla; ma vanno compresi. Perché non si può più tollerare che l'1% della popolazione controlli il 50% della ricchezza».
Oltre alla leva fiscale, Monti dovrà far ripartire la crescita. Ce la può fare?
«L'Italia può ripartire nel lungo e medio periodo, Ma ciò a cui andiamo incontro è una profonda recessione».
Qual è il suo giudizio su Tremonti?
«Tremonti è un uomo di cultura e di buone letture. La massima soddisfazione per Tremonti è andare controcorrente. Nel titolo del suo best-seller, La paura e la speranza, ci sono entrambe le correnti contrastanti in cui si dibatte. Ma di quanto stava accadendo nel mondo non ha capito molto. Chiedeva i dazi contro la Cina. Ora siamo qui a chiedere aiuto alla Cina».
Non salva nessuno del governo uscente?
«Maroni».
E lei cosa farà dei 564 milioni di euro che le ha versato Berlusconi?
«Premesso che dovrà ancora rispondere dei danni non patrimoniali così come stabilito dalle sentenze già emesse, il risarcimento del danno subito l'abbiamo investito in impieghi estremamente conservativi. Siamo rispettosi della magistratura. Attendiamo sereni l'ultimo grado di giudizio, visto che l'unico argomento della controparte è quello di aver corrotto un giudice solo — peraltro, il relatore — e non tutti e tre. Quei soldi vorrei investirli nel mio Paese. Siccome ora in Italia il problema è la mancanza di liquidità, credo che le opportunità di investimento non mancheranno».

Repubblica 17.11.11
Affari sporchi e bilanci taroccati
Ascesa e caduta del prete tycoon all’ombra di potenti e spioni
Da Craxi a Berlusconi, quarant´anni di progetti megalomani e accuse di tangenti. Fino alla rovina finale
Un miliardo e mezzo dilapidato negli anni in dubbie avventure finanziarie
Una patata bollente che ora brucia in tante mani: in primis quelle del presidente dello Ior
di Alberto Statera


In Craxi vide «Cristo», in Berlusconi scorse «un dono di Dio all´Italia», in Formigoni immaginò, doviziosa di miliardarie prestazioni sanitarie pubbliche, l´incarnazione dell´Arcangelo Raffaele in vetroresina e acciaio inox alto 8,3 metri da due milioni e mezzo di euro che svetta sulla cupola da 50 milioni con vista sul gineceo berlusconiano dell´Olgettina. Don Luigi Verzè, il luciferino prete-tycoon con jet personale che ha bruciato un miliardo e mezzo di euro in truffaldine avventure finanziarie col cappello dell´Ospedale San Raffaele, non poteva che cadere perseguito dalla giustizia ad opera del Maligno nello stesso giorno in cui si spera che l´Italia archivi per sempre la via meneghina al berlusconismo. Una via fatta di borghesia friabile, di craxismo di ritorno, di business ciellino, di affarismo mafiosizzato, di Servizi segreti all´ordine del cerchio magico del Capo, come dimostrano i contatti del prete d´affari con lo spione Pio Pompa, che se non esistesse davvero potrebbe essere il protagonista di un serial televisivo da ridere.
Fosse solo per via dell´Olgettina. Lì si affaccia il megalomane cupolone ospedaliero dell´antico pretonzolo prediletto del cardinale Schuster, e poco più in là sorgono i lindi quartierini delle giovanotte avide e pettorute del Bunga Bunga, amministrate da Nicole Minetti. «Io la Minetti non la conoscevo si è difeso il celeste Formigoni, inventore della via lombardo-ciellina alla sanità pubblica e allora ho chiesto informazioni a don Verzè». Bravo, magnifiche referenze. Ottime anche per le grandi famiglie meneghine che si sono date in questi anni senza risparmio al clown sempre sopra le righe e ai suoi famigli. I Moratti, ramo Gian Marco, gli Ermolli, dal capostipite detto il Gianni Letta meneghino, fino ai frontisti di via della Spiga, vicini di Mario Cal, l´amministratore del San Raffaele che colà parcheggiava la sua Ferrari prima di spararsi nel luglio scorso, quando emerse la bancarotta parasanitaria finanziata ogni anno con 400 e passa milioni pubblici del celeste Formigoni. Per non dire dei banchieri, da Roberto Mazzotta a Gaetano Miccicché, fino al solito Cesare Geronzi, che non gli hanno mai lesinato le attenzioni dovute al prete-tycoon nel cuore di Berlusconi.
Non dite, per favore, che è una fissazione ora che Berlusconi ha lasciato Palazzo Chigi a un milanese cattolico di pasta alquanto diversa, perché il ticket con Don Verzè, novantunenne catto-satrapo che il Vaticano ebbe in uggia già dai tempi di Paolo VI, è storia antica e documentata. Viene dai tempi del palazzinaro con pochi scrupoli, che ha ammesso di aver pagato per anni tangenti ai pubblici amministratori ai tempi della Milano da bere e anche prima. Correvano gli anni Settanta quando il giovane Berlusconi, con fondi di origine opaca e con l´avallo del Monte dei Paschi di Siena, banca allora controllata dalla P2, acquistò 700mila metri quadrati di terreni a Segrate e cominciò a costruire Milano 2. Per vendere bene le case occorreva spostare le rotte degli aerei su Linate, che facevano un po´ di rumore in testa. Così regalò una fettina di terreni a don Verzé per costruirci una clinica privata. Come si poteva far volare gli aerei in decollo e atterraggio su un´area ospedaliera? Così la Milano craxiana si mobilitò per spostare le rotte dell´Alitalia. Lui non ha mai dimenticato il benefico leader socialista, tanto che la nuova residenza per i clienti del suo ospedale si chiama "Rafael", non solo come San Raffaele, ma anche come l´Hotel dove a Roma soggiornava da anni Craxi e dove riceveva politici, imprenditori e anche qualche cardinale, che doveva fare lunghe attese nel salottino se il leader era impegnato con Ania Pieroni o con altre signore.
Corse allora qualche tangente recata dal don, reato che alla fine, come si conviene, andò prescritto. Come capitò varie altre volte, persino per un´accusa di ricettazione di due quadri del Cinquecento di scuola napoletana. Il povero Cal, il suo amministratore suicida, fu arrestato nel 1994 da Di Pietro per una delle solite tangenti, ma tre settimane dopo il pm lasciò la toga e tutto finì nel nulla. Giorgio Bocca aveva già visto giusto nel 1975 quando descrisse il prete-tycoon come «quello che allontana gli aerei e cura non solo i malanni fisici ma anche le anime preternaturali dei pazienti», magari con qualche tangente.
Il bello è per la serie della pervasività dell´affarismo del berlusconismo che nella rete di don Verzè, piena di camorristi, come quelli che si aggiudicavano i migliori appalti dell´azienda ospedaliera, sono finiti anche Nichi Vendola e un filosofo neghittoso come Massimo Cacciari. Del leader del Sel, don Verzè stilò una specie di ditirambo: «È un uomo di grandissimo valore, di grandissima cultura, in grado di trasmettere idee e calore: tutti segni del carisma che il Signore gli ha dato. Anche Berlusconi mi ha detto che lo stima molto. Io credo alla santità dell´uomo e sia Belusconi sia Vendola possiedono un fondo di santità». Che cosa voleva da Vendola il prete luciferino? L´Ospedale San Raffaele anche a Taranto. Fatto. Con finanziamenti pubblici.
E il filosofo Cacciari? È nel palazzo delle Stelline a Milano come ha ricostruito "Il Foglio" che nel maggio del 2000 don Verzè conobbe Cacciari. Racconterà poi di essere rimasto impressionato dalla sua raffinatezza di pensiero e di avergli offerto la cura della sua facoltà di Filosofia e Teologia: «Si vuole occupare lei gli disse del Logos fatto di carne?» Cacciari accetta e il sodalizio diventa talmente forte da indurre il prete a dire: «Ormai Cacciari è la mia voce». Non si sa con quale reazione del filosofo veneziano, caro agli alti prelati di rango. La Scuola ateniese, per la verità, non nacque mai in Brianza, dove vanno più di moda gli affari, ma la pervasività del berlusconismo dimostrò tutta la sua potenza, persino attraverso un vecchio prete affarista quasi spretato.
In fondo, l´unica che capì d´achitto con chi e con che cosa aveva a che fare fu la cattolica Rosy Bindi, nel 1998 ministro della Sanità. Il solito Geronzi, dominus per tutto il periodo del berlusconismo delle più oscure questioni di potere, avverte il prete che il ministro vuole "cacciarlo da Roma". «Geronzi è mio amico racconta poi don Verzè e mi dice: non è solo la Bindi a volerla distruggere, ma premono anche al di là del Tevere». Pure Giovanni Bazoli gli consiglia di vendere e lui lo fa agli Angelucci. Ma a un prezzo che giudica «irrisorio». Ne nasce un´annosa querelle che vede la Bindi vincitrice con una sentenza per diffamazione che la risarcisce di 60 mila euro.
Ora la patata rovente del prete tycoon megalomane, come il suo leader politico di riferimento, brucia in tante mani. Anche quelle di Ettore Gotti Tedeschi, lo sfortunato banchiere dello Ior, cui il Vaticano assegna le missioni impossibili.
a. staterarepubblica. it

Repubblica 17.11.11
Tecnici
Quando la politica in crisi si rivolge agli "esperti"
di Carlo Galli


La distinzione fra tecnica e politica si è affievolita in tutta l´età moderna, in un inesauribile scambio di ruolo e di funzioni
Se lo Stato si sforza di pianificare i settori della produzione economica, si penserà che sia giusto affidare il potere ai manager
La nascita del governo Monti mette in primo piano il complesso rapporto tra la democrazia e la necessità di ricorrere ad una élite di specialisti per il governo

Nasce un governo "tecnico", figlio della debolezza (ma anche della residua capacità di condizionamento) della politica di oggi, e della sciagurata insipienza della politica di ieri. È un governo di tecnici che saranno chiamati a realizzare nel modo più efficiente decisioni in parte già prese (anche e soprattutto fuori del nostro Paese) ma che dovranno nondimeno fare anche delle scelte; il che renderà evidente che sono chiamati non solo a supplire da tecnici la politica, ma anche a svolgere un ruolo propriamente politico.
Questo intrecciarsi di tecnica e politica va dipanato, nei limiti del possibile. Ma è una linea davvero sottile quella che separa la tecnica dalla politica. All´apparenza, la prima è un potere che dall´uomo va verso le cose, per produrle e modificarle, mentre l´altra è un potere che dall´uomo va verso gli uomini, perché esprimano un ordine a loro adatto. È questa la tesi di Platone, nella sua polemica contro i sofisti che riducevano la politica a una tecnica, a un´arte di persuasione e di comando, e non coglievano che l´ordine politico ha a che fare con la Giustizia (e questa con le Idee, col Bene, e con l´Essere); e anche Aristotele ha distinto fra poiesis, la produzione strumentale, che ha il proprio fine nelle cose prodotte, e praxis, l´agire che ha come fine la stessa bontà dell´azione.
Ma il progressivo venir meno del riferimento al Bene ha avvicinato le due nozioni ancora di più: un antropologo del XX secolo, Gehlen, ha sostenuto che la tecnica è l´azione dinamica che elabora l´ambiente e lo rende adatto all´uomo, mentre la politica è l´azione stabilizzatrice, che cerca di ordinare e integrare in un ordine i diversi saperi e le diverse azioni della tecnica.
In realtà, la distinzione fra tecnica e politica si è affievolita in tutta l´età moderna, in un inesorabile scambio di ruolo e di funzioni: benché pretenda di essere il custode di un sapere non specialistico ma universale, e di avere, rispetto alla tecnica, obiettivi più alti – non l´efficienza in questo o in quell´ambito ma la gloria, la nazione, l´Idea, la libertà, la democrazia –, lo Stato è intrinsecamente tecnico, poiché ha bisogno delle competenze di tecnici e scienziati, di statistici e di ingegneri, di amministratori e di militari, di giuristi e di professori; la tecnica conferisce allo Stato la potenza, che è ciò per cui lo Stato vive. E, specularmente, è ineluttabile che la tecnica manifesti la tendenza a produrre un proprio ordine, che esibisca una propria intrinseca capacità di generare forme; che sia, oltre che dinamica, anche stabilizzatrice; e che, oltre che servire, oltre che essere utile, pretenda anche di governare; che pretenda che l´intera società sia a disposizione di chi detiene i saperi neutri e oggettivi con i quali ogni problema sarà infallibilmente risolto.
Così, se lo Stato dipende dalla tecnica per la propria potenza (anche lo Stato sociale ha bisogno di efficienza tecnica), se si sforza di pianificare settori della produzione economica (nel XX secolo lo hanno fatto sia le democrazie sia i totalitarismi), allora si penserà che sia giusto e opportuno che il potere sia nelle mani dei competenti, dei tecnici, o di chi ha il know how dell´organizzazione: i manager, i tecnocrati. Come già sosteneva Weber, la tecnica fatalmente si presenterà allora come la "gabbia d´acciaio" che ha imprigionato la politica; oppure si potrà dire, con Heidegger, che la tecnica è l´essenza e il destino della civiltà occidentale, l´espressione adeguata (tanto più potente in quanto precisa, oggettiva, impersonale, neutrale) della volontà di potenza occidentale.
Contro queste prospettive di un mondo amministrato – in cui la tecnica, nata per servire l´uomo e liberarlo, lo comanda e lo piega alle proprie esigenze –, la politica a volte tenta di recuperare il comando nell´orientamento della vita sociale: questa è stata la rivoluzione culturale di Mao, che ha lanciato le Guardie Rosse contro le tecnostrutture della Cina; questo fanno i populismi, contestando le élites tecnocratiche. Ma più in generale, contro la politica asservita alla tecnica si gioca l´autonomia della politica; al prestigio distaccato dei tecnocrati si contrappone la passione e la partecipazione della politica democratica.
Ma, benché seducenti, tecnocrazia e autonomia della politica sono in realtà due ipotesi insoddisfacenti. La verità non sta né nell´identificazione della tecnica con la politica (la tecnocrazia) né nella loro contrapposizione frontale. Non separate né coincidenti, tecnica e politica si coappartengono: hanno entrambe a che fare con l´incompletezza e l´instabilità della vita associata degli uomini, e con il potere come sforzo di ordinare questo mondo. Ma, paradossalmente, è la politica a essere più aderente alla realtà, e quindi più potente: infatti, la tecnica non sa che il suo ordine impersonale e oggettivo, e i suoi fini universali e neutrali, sono anch´essi decisioni, sono il frutto di scelte già fatte, e mai messe in discussione. Mentre invece la politica sa che non c´è una sola soluzione (che appunto sarebbe ‘tecnica´) ai problemi reali di una società, ma sempre più di una (e di solito in conflitto). E nella scelta fra queste consiste appunto la politica. Se i tecnici vogliono fare politica, dovranno perciò rinunciare a credere nell´univocità e nell´assolutezza dei propri saperi, e addestrarsi al confronto dialettico.
Lo sforzo politico e culturale in cui vale la pena di impegnarsi è quindi quello di politicizzare la tecnica, cioè di fare emergere la contingenza dei suoi imperativi categorici; ma, al tempo stesso, di tecnicizzare la politica, ovvero di evitarne le derive illusionistiche e di renderla consapevole che la sua responsabilità è di decidere mezzi e scopi della potenza tecnica, senza sottrarsi alla durezza delle sue sfide. Alla politica spetta insomma il compito di entrare nell´universo della tecnica senza tributare un culto idolatrico alla sua potenza, nella consapevolezza che non è il Bene ma la percezione della complessità e della contraddittorietà della vita umana il vero discrimine fra tecnica e politica.

l’Unità 17.11.11
Lo scontro. Disertori all’attacco di una base dell’intelligence, lealisti contro le sedi diplomatiche
Isolamento. La Francia richiama il rappresentante a Damasco. Lega araba, nuovo ultimatum
La Siria affonda nel sangue Parigi ritira l’ambasciatore
La tensione è altissima. I lealisti hanno di nuovo preso d’assalto alcune ambasciate: Qatar, Emirati, Marocco. Dall’altra parte gruppi di militari siriani passati con l’opposizione hanno attaccato una base dell’Aeronautica.
di Umberto De Giovannangeli


I «lealisti» assaltano le Ambasciate nemiche. I disertori bersagliano un centro di comando del regime. In Siria è ormai guerra aperta. I «lealisti» tornano a scatenarsi in un giorno dalla forte valenza simbolica: il 41mo anniversario del golpe che nel 1970 portò al potere Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente Bashar. I sostenitori di Bashar prendono di mira nuovamente alcune ambasciate a Damasco. Si tratta delle rappresentanze del Qatar, degli Emirati Arabi Uniti e del Marocco. Lo riferisce l’emittente al Arabiya. Un gruppo di manifestanti ha attaccato con il lancio di pietre e di uova la sede dell’Ambasciata marocchina a Damasco, abbattendone la bandiera: a confermarlo è lo stesso Ambasciatore, Mohammed Khassasi, intervistato dalla France Presse. Secondo il rappresentante diplomatico «circa un centinaio di persone hanno manifestato davanti all’Ambasciata gettando sassi e uova contro la cancelleria, comportandosi in modo irresponsabile e attaccando anche la bandiera marocchina». Il ministro degli Esteri di Rabat, Taib Fassi Fihri, ha immediatamente condannato l’attacco contro la sede diplomatica marocchina e altre Ambasciate arabe a Damasco. Oltre alle bandiere siriane, i lealisti hanno sventolato bandiere del movimento sciita libanese Hezbollah, sostenuto dall’Iran.
ASSALTI E CHIUSURE
Intanto, la Francia ha deciso di richiamare il suo ambasciatore presso la Siria, Eric Chevalier, in seguito alle violenze che hanno «preso di mira interessi francesi» nel Paese. L’annuncio è stato dato dal ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, nel corso di un intervento parlamentare. «La morsa sul regime di Assad si sta chiudendo sempre di più», ha affermato il capo del Quai d’Orsay. «Sono convinto che il popolo siriano continuerà a combattere e la Francia farà tutto il possibile per aiutarli», ha aggiunto. Juppé ha inoltro reso nota la chiusura dei consolati di Aleppo e Latakia, nonché degli istituti culturali francesi.
Le notizie che arrivano dagli attivisti sono drammatiche: sul sito del Centro di documentazione delle violazioni in Siria, legato ai Comitati, compaiono le generalità, il luoghi e i dettagli dell’uccisione di sette persone nella regione nord-occidentale di Idlib (due a Kfarruma, altrettante a Kfarnabl, tre a Idlib città), di otto in quella centrale di Homs (cinque a Bayada, due a Homs città, una a Hula), di una a Zabadani a ovest di Damasco e un’altra ad Aqriba, nella regione meridionale di Daraa. Il bilancio totale dei morti accertati in otto mesi di repressione è, secondo i Comitati, di 4.291 uccisi. Di questi, 3.570 sono civili e i restanti appartengono all’esercito regolare, alla polizia e alle forze di sicurezza. Secondo l’ultimo bilancio aggiornato dell’Onu, diffuso dieci giorni fa, più di 3.500 siriani sono stati uccisi dal 15 marzo ad oggi.
Lo scontro è totale. Gruppi di militari siriani passati con l’opposizione il Libero Esercito siriano hanno attaccato l’altra notte una base dell’intelligence dell’Aeronautica militare alle porte di Damasco, hanno fatto sapere alcuni attivisti. Si tratta della prima azione contro un’importante installazione militare in otto mesi di rivolta contro il regime di Bashar al-Assad. Hanno assaltato con mitragliatrici e lanciamissili il complesso a nord della capitale, lungo l’autostrada per Aleppo. Ne è seguita una battaglia in cui sono intervenuti anche gli elicotteri del regime che hanno sorvolato l’area. Non si ha un bilancio delle vittime, anche perché la zona è stata subito isolata. Insieme all’intelligence militare, l’intelligence dell’Aeronautica ha il compito di di contrastare il dissenso tra le forze armate e ha avuto un ruolo importante nella repressione delle proteste.
Turchia e Lega Araba si dicono contrarie a «qualsiasi intervento straniero in Siria». Lo si legge in un comunicato congiunto al termine del Forum cooperazione turco-araba, svoltosi a Rabat. Nel testo si fa appello all’adozione di «misure urgenti» per proteggere i civili. E sempre la Lega araba, nel vertice straordinario di ieri, ha concesso altri tre giorni alla Siria per cessare le violenze contro l’opposizione, minacciando, in caso contrario, pesanti sanzioni economiche.

l’Unità 17.11.11
L’esercito dei ribelli
15mila uomini già pronti in Turchia
La mappa delle forze anti-regime: oltre al «Free Syrian Army» in tutto il Paese si organizzano numerose brigate militari
di U.D.G.


Fonti d’intelligence occidentali calcolano in 15 milia gli uomini in armi contro il tiranno. Avrebbero il sostegno militare, e logistico, della Turchia, i finanziamenti dai ricchi Emirati del Golfo. Il Libero esercito siriano (Free Syrian Army, Fsa), organizzazione militare che ha rivendicato l'attacco di ieri contro un centro dei servizi segreti, può contare su migliaia di soldati che hanno disertato dalle forze armate di Damasco per unirsi alla rivolta contro il regime di Bashar al-Assad. Comandata da un colonnello rifugiatosi in Turchia, Riyad Assaad, l'Fsa ha intensificato le operazioni contro l'esercito regolare rivendicando numerose azioni che avrebbero causato morti e feriti tra le forze governative, specie nelle regioni di Idleb, Homs e Deraa, quest'ultima culla delle proteste contro il regime.
Al «Libero esercito siriano» si è inoltre unita alla fine di agosto la «Brigata degli ufficiali liberi» creata dal tenente colonnello Hussein Harmush e che conterebbe su 17mila effettivi. Emanazione dell'Fsa è il Consiglio Militare Provvisorio ai cui membri è proibito di far parte di un qualsiasi partito politico o religioso. Il Consiglio ha come missione quella di seguire l’applicazione degli obbiettivi dell’Asl, ovvero «far cadere l'attuale regime, proteggere i beni pubblici e privati e impedire l'anarchia, oltre a qualsiasi atto di vendetta», così come di organizzare, armare e addestrare i membri dell'esercito. Il Consiglio guidato da Al-Assad e formato da nove ufficiali intende inoltre dar vita a un tribunale militare che giudichi i dirigenti del regime implicati negli omicidi e nelle aggressioni contro la popolazione e a una polizia militare.
Il Centro operativo è ad Antakya, in Turchia. Qui, l’Esercito libero ha creato una sua struttura di comando. C’è l’addetto ai media, un assistente del colonnello e qualche collaboratore. La Turchia, ufficialmente, non fornisce materiale bellico agli insorti e limita il suo sostegno agli aspetti umanitari. Ma molti osservatori ritengono che invece l’impegno del Mit il servizio segreto turco sia molto più esteso. Gli 007, insieme a funzionari del ministero degli Esteri, garantiscono protezione al colonnello Assaad e ai suoi uomini. I disertori si sono organizzati in brigate, di un numero imprecisato di membri, dai nomi storicamente evocativi: a Homs città è operativa la Brigata Ali ben Abi Taleb, dal nome del cugino del profeta Maometto; a Rastan, tra Homs e Hama, per dieci giorni all’inizio di ottobre ha combattuto la Brigata Khaled ben al-Walid, dal nome di un famoso condottiero delle conquiste islamiche nell’odierna Siria.
A Duma sarebbe invece operativa la Brigata Abu Ubayda ben al-Jarrah, dal nome di un venerato compagno del profeta, mentre nel nord-est di Idlib è presente la Brigata Colonnello Harmush, dal nome di uno dei primi ufficiali siriani ad annunciare la sua defezione. «Sono 25mila i soldati siriani che hanno abbandonato l'Esercito per passare con l'opposizione al regime del presidente Bashar al-Assad»: a rivelarlo è un ufficiale disertore dell'Esercito di Damasco, Ammar al-Wawi, in un'intervista al giornale algerino Ech-Chourouk. «Sono 25mila i soldati disertori e tra loro ci sono anche molti ufficiali ha spiegato il nostro compito è quello di proteggere gli oppositori e i rivoluzionari. Nei prossimi giorni annunceremo notizie sorprendenti perché ci sono molti altri soldati che vogliono passare dalla nostra parte».
L'ufficiale, che è a capo della brigata Ababil di Aleppo, si è rifiutato di fornire i nomi dei capi dell'Esercito siriano passati con l'opposizione perche' "non vogliamo ripetere l'errore del passato quando i familiari di alcuni dei nostri hanno subito ritorsioni. Lo faremo solo quando saremo sicuri che i loro familiari sono in salvo». Dall’Hatay turco, Riyad Assaad rilancia il suo appello in una recente intervista al New York Times. «Chiediamo alla comunità internazionale di darci armi in modo che noi, l’Esl, possiamo proteggere il popolo siriano». «Siamo un esercito. Siamo all’opposizione e siamo preparati per operazioni militari. Se la comunità internazionale ci dà le armi aggiunge il colonnello possiamo far cadere il regime in pochissimo tempo».

l’Unità 17.11.11
Palestina
Abu Mazen: «E ora la riconciliazione tra Fatah e Hamas»


Nell’anniversario della morte di Arafat (2004), il presidente dell'Anp Abu Mazen ha detto ai palestinesi che l'obiettivo da raggiungere adesso è quello della riconciliazione nazionale fra il suo movimento, al-Fatah, e quello rivale di Hamas, che dal 2007 controlla l'enclave di Gaza. «Il nostro popolo anela alla riconciliazione. Vi prometto che farò tutto il possibile per raggiungerla», ha aggiunto Abu Mazen che il 23 novembre incontrerà al Cairo il leader di Hamas, Khaled Meshaal, per discutere la realizzazione di una serie di intese di massima già annunciate nel maggio scorso, e nel frattempo rimaste sulla carta. Fra queste, la costituzione di un governo tecnico di unità nazionale che prepari sul terreno condizioni adeguate allo svolgimento nel maggio 2012 di elezioni politiche e presidenziali, nonchè per il rinnovo del Consiglio nazionale palestinese. L'Abu Mazen che oggi si è rivolto ai palestinesi è un leader politico pragmatico, obbligato però a fare i conti con una realtà in cambiamento dinamico. Afferma ancora di puntare ad un accordo con Israele: «Siamo seri nel volere la pace ha detto -, ma loro devono rendersi conto che non potranno avere sia la pace che gli insediamenti. La pace è più importante... noi siamo un popolo amante della pace, siamo determinati a resistere pacificamente».

l’Unità 17.11.11
Intervista a Mohamed Moulessehoul
«La dittatura? In Algeria è autismo»
Lo scrittore che firma con lo pseudonimo Yasmina Khadra i suoi romanzi vive in Francia dopo la salita al potere dei militari nel suo Paese d’origine
di Silvio Bernelli


Yasmina Khadra è lo pseudonimo scelto dallo scrittore algerino Mohamed Moulessehoul per firmare i suoi romanzi dedicati all’incontro/scontro tra Occidente e paesi arabi, al terrorismo fondamentalista, all’arroganza del materialismo moderno. Ex ufficiale dell’esercito algerino, Moulessehoul è stato costretto a lasciare il proprio paese dopo l’avvento delle dittatura militare. Oggi vive in Francia. Incontrerà il pubblico di Scrittorincittà a Cuneo, domenica 20 novembre, alle ore 17, al cinema Monviso.
Signor Moulessehoul, in Italia lei è diventato famoso nel 1998 con il romanzo «Morituri», firmato con lo pseudonimo Yasmina Khadra. Perché ha scelto proprio questo pseudonimo?
«Uno pseudonimo non è importante, importante è quello che ci sta dietro: il testo. I lettori si interessano a me grazie ai miei testi e non a causa del mio pseudonimo. Ne ho preso uno per continuare a scrivere solo dopo l’intervento della censura militare. Questo pseudonimo si compone dei due nomi di mia moglie, è un modo come un altro per ringraziarla di tutto quello che lei mi dà ogni giorno». Immagino esista un legame particolare tra una letteratura come la sua e la vita sotto una dittatura, come l’Algeria degli ultimi anni. Può spiegarcelo? «In Algeria, la dittatura non è un problema, è un modo per esprimere il malessere. C’è un regime che rimane ancorato al potere ma che non è una cappa di piombo. In Algeria, si può dire tutto quello che si vuole, ma nessuno ti ascolta. Basta leggere la stampa algerina. Una democrazia dovrebbe ascoltare le rivendicazioni del popolo e accettare di rispondergli. In Algeria un dialogo fra sordi focalizza il dibattito sui falsi problemi. Quello che voi chiamate dittatura, io la chiamo autismo».
L’ultimo suo romanzo, «Quel che il giorno deve alla notte», racconta l’Algeria a partire dagli anni Trenta , invece gli altri suoi libri raccontano l’attualità. Perché ha deciso di andare così indietro nel tempo?
«Perché ho scritto tutto quello che sapevo del mio paese nei precedenti romanzi. Se si fa la sintesi dei miei gialli e degli altri miei romanzi sull’integralismo, si ottiene una visione abbastanza reale dell’Algeria di oggi. Con Quel che il giorno deve alla notte ho tentato di interrogare il passato coloniale».
A proposito dei suoi gialli, lei sente qualche affinità con gli autori del cosiddetto «giallo mediterraneo», Vázquez Montalbán, Ledesma, Izzo, Camilleri? «Mi piacciono questi autori. Hanno avuto uno sguardo lucido e perspicace sulla loro società. Per quanto mi riguarda, ho la fortuna di passare dal romanzo giallo al romanzo tradizionale senza complessi, i miei personaggi decidono loro stessi di esprimersi nel genere che vogliono. Alcuni sono magici, altri normali».
Tra i suoi libri qual è quello che ama di più e perché?
«Amo l’insieme dei miei libri. Ognuno di loro ha preteso il meglio da me. Sono orgoglioso di L’attentatrice e di Quel che il giorno deve alla notte, che ha consentito ad altri algerini di superare i traumi storici. Orgoglioso anche del mio pubblico che mi aiuta a progredire. Senza i suoi lettori, lo scrittore è lettera morta».
L’Algeria è uno dei pochi paesi arabi non toccati dai recenti sommovimenti politici. Perché?
«I paesi arabi hanno aspettato 23 anni per seguire l’esempio dell’Algeria, che si era sollevata già nell’ottobre del 1988. Ma la sollevazione, quando non è inquadrata da personalità carismatiche e illuminate, finisce col perdere il proprio slancio per mancanza di un programma e di nuovi punti di riferimento. L’Algeria ha sofferto troppo e esce appena ora da 15 anni di terrorismo per potersi permettere di ripiombare nell’orrore e nel sangue».
Cosa pensa e cosa si aspetta da questa «primavera araba»?
«È un risveglio inatteso, carico di promesse. Ma le promesse non sono che semplici desideri se non sono seguite da azioni conformi e da una determinazione a tutta prova. Mi aspetto dalla primavera araba che si apra realmente sull’estate delle menti, della luce e della pace».
L’insieme delle rivoluzioni nei paesi arabi, tutte accadute in pochi mesi, non rischia di far percepire con ancora maggior omogeneità il mondo arabo, che in realtà è ben più complesso e sfaccettato di quanto l’opinione pubblica occidentale pensi?
«Ci sono dei rischi ovunque. Basta avere il coraggio delle proprie convinzioni. Per quanto riguarda il mondo arabo, gli rimane ancora da definirsi, poiché, al momento attuale, è solo uno slogan vuoto di contenuti». Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, molto popolare qui in Italia, si è dichiarato contrario all’immigrazione clandestina degli arabi in Europa. Sostiene che noi occidentali dovremmo imparare ad aiutare gli arabi nei loro paesi d’origine. Lei ha scritto un libro sui migranti, «Sogni di sabbia», uscito in Italia nel 2009. Che ne pensa dell’immigrazione clandestina?
«Tahar Ben Jelloun può pensare quello che vuole. Per quanto mi riguarda, noi arabi non abbiamo bisogno di voi europei. Tocca a noi costruire i nostri paesi e pensare a trattenere i nostri figli nella nostra madre patria. Abbiamo tutto per essere felici. Ci manca solo una consapevolezza. Il mio sogno è vedere gli Algerini ritornare a costruire la loro nazione. E per fare questo bisogna che i nostri attuali governanti cedano il loro posto».

Corriere della Sera 17.11.11
Si dà fuoco su piazza Tienanmen
di Marco Del Corona


PECHINO — Invisibile. Il 21 ottobre scorso, un uomo di 42 anni originario dell'Hebei e dal comunissimo cognome Wang, si è dato fuoco sulla piazza Tienanmen. Erano circa le 11 e un poliziotto ha rapidamente spento le fiamme con un estintore. Come se non fosse mai successo per i media cinesi, che non ne hanno dato notizia. Ma il dramma si è svolto a due-tre metri da un turista britannico, tale Alan Brown, un passato di militare nella Raf, in vacanza con la moglie. È stato lui a contattare il quotidiano Daily Telegraph che ne ha scritto.
Brown, in vacanza con la moglie, ha raccontato di una sequenza rapidissima. Una frase pronunciata, il gesto fulmineo dell'accendino, il corpo che si incendia: «Senza essere melodrammatico, ha guardato diritto davanti a me e si è dato fuoco». Il fatto che l'autoimmolazione sia avvenuta davanti a centinaia di persone nella piazza che resta il centro simbolico della Cina non ha impedito ai mezzi d'informazione della Repubblica Popolare di riuscire a tacerne. Solo ieri l'Ufficio della Sicurezza pubblica ha ammesso l'incidente, specificando che il fuoco è stato spento da agenti «in 10 secondi» e che l'uomo è stato portato in ospedale.
Benché un atto di protesta così estremo suggerisca collegamenti con gli incidenti sulla Tienanmen e la repressione del 1989, non sembra avere nulla a che fare con la politica. La Pubblica Sicurezza sostiene che l'uomo abbia voluto manifestare così la sua contrarietà per una causa civile persa. Casi simili accadono, non spesso, nel contesto di demolizioni brutali di abitazioni o tra i questuanti che si vedono respinte dalle autorità lamentele contro torti subiti. Nei paraggi della piazza il precedente più recente risale al 25 febbraio 2009, quando tre persone si diedero fuoco in un'auto all'incrocio fra il viale Chang'an e la via Wangfujing, mentre il 23 gennaio 2003 si erano incendiate cinque persone, tra cui una dodicenne, appartenenti al movimento spirituale fuorilegge del Falun Gong. Di matrice religiosa e politica, invece, le 12 autoimmolazioni compiute dal 2009 di monaci, monache ed ex religiosi tibetani in Sichuan. Lontano dalla Tienanmen, ma vicino — lo stesso — al cuore del potere.

Corriere della Sera 17.11.11
Zone d’ombra per la ricerca in Cina ma la deregulation attrae scienziati
di Marco Del Corona


Dette da uno scienziato cinese formato e attivo negli Stati Uniti, riportate dalla stampa di Hong Kong, sono parole che illuminano una scena che crisi economico-finanziaria e nodi geopolitici hanno messo in ombra. In Cina «ci sono più risorse umane e più fondi. Meno restrizioni rispetto agli Usa. Io, poi, sono cinese, e voglio riportare a casa le mie ricerche». Così si è espresso Ma Yupo, ematopatologo della State University di New York a Stony Brook, studi alla Harvard Medical School, che da anni approfondisce l'impiego di cellule staminali adulte nella cura del diabete, della leucemia, dei linfomi e dell'Aids.
Senza entrare nello specifico delle sue ricerche, centrate sulla proteina Sall4 «che favorisce la rigenerazione delle staminali», il suo caso è emblematico e non isolato. Rivela alcune articolazioni della Cina di oggi con le quali va presa confidenza: il potere di attrazione che la nuova potenza ha nei confronti dei suoi studiosi sparsi nel mondo; il relativo vantaggio che le «minori restrizioni» citate dal dottor Ma offrono a Pechino in campo scientifico. Certo, la leadership cinese resta consapevole che solo un pugno di istituti universitari della Repubblica Popolare sia d'eccellenza e che l'intero sistema pedagogico-educativo vada riformato. Tuttavia, l'assenza o la lacunosità o lo stato acerbo della legislazione, oltre a una certa disinvoltura etica, consentono più libertà di manovra che altrove.
Se sia un bene o un male lo suggeriscono a ciascuno le proprie convinzioni. Ma è un dato di fatto che, dove scienza e implicazioni etiche si intersecano, la Cina sta scoprendo di avere zone grigie e terre di nessuno che cominciano a inquietarla. È cronaca di questi giorni: il mercato semiclandestino di ovuli impazza, nella capitale studentesse di università d'élite (Tsinghua o Beida) vendono i loro per 3.500 euro (a meno, se i requisiti sono inferiori), esistono tariffari, servizi, società, cliniche, «banche» apposite. Libero mercato, tra le pieghe della legge. E Pechino si accorge che qualche regola in più anche alla scienza e alle sue applicazioni non nuocerebbe.
Marco Del Corona

Corriere della Sera 17.11.11
Rete neonazista, gli 88 politici nel mirino
La cellula terrorista responsabile dei «delitti del kebab» mirava più in alto
di Paolo Lepri


BERLINO — La più amareggiata è Gamze, ventidue anni, figlia di Mehmet Kubasik, ucciso con un colpo di pistola alla testa nel suo chiosco di Dortmund come altri sette piccoli commercianti di origine turca, un greco e una agente di polizia dal 2000 al 2006 in varie città della Germania. «I sospettati — ha detto la ragazza alla Bild — eravamo noi. Sono state compiute indagini su presunte attività illecite di mio padre e non è stata mai presa in seria considerazione la nostra ipotesi che fosse stato assassinato dai neonazisti». Non solo questa era la pista giusta, ma si è appena scoperto che la cellula «Clandestinità nazionalsocialista» responsabile degli «omicidi del kebab», teneva nel mirino 88 (numero caro ai nazisti perché richiama il nome di Hitler) esponenti politici tedeschi. Forse pensava di cambiare strategia, cercava un «salto di qualità». Tra gli schedati, il portavoce per gli affari interni del gruppo cristiano-sociale al Bundestag Hans-Peter Uhl, e il deputato verde Jerzy Montag, presidente dell'intergruppo parlamentare Germania-Israele.
«Dov'erano in questi anni le forze di sicurezza?», si chiedono da giorni tutti i giornali tedeschi. Solo lo strano «suicidio» di Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt, infatti, e le prove trovate sia nel camper, dove i due si sono sparati a vicenda, che in un appartamento di Eisenach (incendiato dalla loro complice, Beate Zchsäpe, costituitasi poi alla polizia) hanno fatto scoprire la loro lunga catena di crimini, alcuni dei quali sono stati raccontati in un modo che voleva essere comico, Pantera rosa compresa, in un dvd finito nelle mani della polizia. Un altro aspetto molto preoccupante di questa vicenda è che benché i due neonazisti fossero largamente noti agli investigatori, non si sia cercato mai di scoprire le ragioni del loro passaggio alla clandestinità, avvenuto nel 1998, e non sia stato mai fatto nessun collegamento con alcuni gravi attentati, in uno dei quali, a Colonia nel 2004, rimasero feriti ventidue immigrati turchi.
Nessuno si è mosso, insomma, nonostante la fitta rete di informatori presente nei gruppi di estrema destra e la possibilità di smascherare le complicità di cui la cellula poteva contare nel mondo dell'eversione nera. Da questa galassia ai confini della legalità provengono le due persone che sono state arrestate nelle ultime ore per aver aiutato Mundlos e Böhnhardt procurando documenti falsi, automobili, contratti d'affitto. Molti interrogativi anche sul ruolo di Beate Zchsäpe. La donna, che teneva i rapporti con l'esterno, ha spesso partecipato tranquillamente ad iniziative politiche della Npd, il partito neonazista presente nel parlamento di due Länder tedeschi, la Sassonia e il Meclemburgo-Pomerania anteriore. Proprio un possibile scioglimento della Npd, che fu bloccato nel 2003 dalla Corte Costituzionale, è uno dei temi al centro del dibattito. Angela Merkel, che ha definito quanto è accaduto «una vergogna», ci sta pensando, ma molti esperti e buona parte del mondo politico lo ritengono un provvedimento inutile se non addirittura controproducente. Dal ministro dell'Interno Hans-Peter Friedrich è venuta la proposta di un registro nazionale con i dati dei più pericolosi estremisti di destra. Perplessa, tanto per cambiare, la liberale Sabine Leuthesser-Schnarrenberger, ministro della Giustizia. Ma questo caso ormai non riguarda solo la sicurezza interna del Paese. Come ha ammesso il ministro degli Esteri Guido Westerwelle è in gioco anche «la reputazione della Germania nel mondo». Insieme all'ambasciatore di Ankara, Westerwelle ha visitato l'organizzazione della comunità turca, il cui presidente, Kennan Kolat, non aveva nascosto il suo disappunto per la mancanza di una forte reazione dell'opinione pubblica tedesca dopo la scoperta della verità sugli omicidi. Il governo sta pensando, intanto, ad una cerimonia pubblica di cordoglio. Un gesto significativo, che purtroppo non potrà rimediare agli errori compiuti.

Repubblica 17.11.11
Un libro di Lanni sul rapporto tra web e mobilitazione
Se Il populismo è tecnologico
C´è la versione digitale che punta su una consultazione permanente
di Miguel Gotor


Nei giorni in cui si assiste al tramonto di Silvio Berlusconi come uomo di governo è utile leggere il libro di Alessandro Lanni, Avanti popoli! Piazze, Tv, web: dove va l´Italia senza partiti (Marsilio, introduzione di Nadia Urbinati, pagg. 144, euro 12), perché mette a fuoco alcune questioni con le quali continueremo a confrontarci negli anni a venire.
Anzitutto, contiene una riflessione sui caratteri e sugli effetti del populismo berlusconiano nella vita politica italiana, un fenomeno che sarebbe illusorio credere di avere lasciato alle spalle con il passo indietro del Cavaliere, dal momento che ha costituito la ragione principale della sua lunga e pervasiva egemonia sul piano antropologico e culturale. In secondo luogo, offre un´analisi della capacità del populismo di condizionare anche i movimenti sociali dal basso, dal pionieristico "popolo dei fax" all´odierno "popolo viola", in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone intorno a delle rivendicazioni legate a uno scopo.
Secondo l´autore, infatti, non esisterebbe solamente un populismo di destra, ma anche uno di segno progressista, alimentato dalla richiesta di una nuova politica e dall´incontro con la tecnologia del web che festeggia proprio in questi giorni i suoi primi vent´anni di vita. Si tratta di un inedito "populismo 2.0", che, pur conservando specifiche caratteristiche, ad esempio quella di mobilitarsi in modo orizzontale mediante Internet e non usando la relazione verticale instaurata dalla televisione come nel caso del populismo berlusconiano, presenta alcune sorprendenti affinità con quest´ultimo: la centralità del capo carismatico, lo scardinamento dei meccanismi di rappresentanza e di mediazione, l´insofferenza verso i tempi e le regole del Parlamento e il rifiuto dei partiti organizzati.
La parola chiave che spiega l´interconnessione fra i due populismi è il concetto di "disintermediazione" applicato alla politica: oggi le nuove tecnologie web 2.0 permettono agli utenti di compiere alcune funzioni che prima richiedevano la mediazione (e il lavoro) di altri soggetti. Se prima di Internet per acquistare un biglietto di aereo era necessario rivolgersi a un´agenzia di viaggio, oggi si può usare direttamente il computer con risparmio di tempo e di energie. Allo stesso modo, se prima si aveva bisogno di un partito o di un´associazione per fare politica, oggi è possibile servirsi anche dei blog e dei social network, delle piazze virtuali e di quelle reali, per aggirare le modalità organizzative tradizionali.
Internet è un mezzo ancora pieno di potenzialità e perciò bisogna diffidare sia dei "cyber-entusiasti", sia dei nostalgici catastrofisti, poiché rinunciano entrambi ad avere un´attitudine critica. A ben guardare, infatti, il valore della rappresentanza non è annullato, ma trasferito al mondo virtuale con inediti fenomeni di verticismo e di leaderismo. Ciò emerge, ad esempio, dall´interessante analisi del movimento "5 stelle" promosso da Beppe Grillo. Il comico genovese veste i panni del guru telematico con una forma di predicazione dal tratto savonaroliano, urlata, manichea e dai toni apocalittici, che finisce per risultare il prodotto più raffinato di quel berlusconismo che vorrebbe invece contrastare.
Anche l´idea di una consultazione permanente dell´opinione pubblica trascura il fatto che la grande quantità di informazioni disponibili su Internet perdono di valore se non accompagnate dall´affinamento di una serie di strumenti di mediazione indispensabili per valutare, selezionare e distinguere i diversi dati ed evitare i rischi della demagogia.
Sarebbe opportuno servirsi delle nuove tecnologie non in modo autoreferenziale, ma per contribuire a rinnovare le forme di rappresentanza, a partire dalla constatazione che la vera anomalia dell´ultimo ventennio italiano, rispetto ai principali Paesi europei, è stata proprio la volontà di dare vita a una "democrazia senza partiti", un esperimento di cui oggi possiamo misurare tutto il fallimento. Bisogna impegnarsi a costruire ponti e non a scavare fossati tra politica e società civile, istituzioni e cittadini, senza farsi condizionare dalle vecchie polemiche extra-parlamentari che hanno caratterizzato, a destra come a sinistra, la storia di quel Novecento da cui, a parole, si vorrebbe fuggire, ma che resta attaccato a noi come un´ombra. Altrimenti "Avanti popoli!" rimarrà uno slogan efficace, incapace però di produrre alcuna "riscossa".

Repubblica 17.11.11
Cento milioni al giorno. Lo dice l´Oms E un documentario girato in 23 nazioni
I conti del sesso ogni minuto 65 mila rapporti
Gusti, abitudini e frequenze in un film per la tv "Ma questa non è pornografia"
di Pietro Del Re


Come lo fanno i giapponesi? Come noi, ovviamente, ossia come tutti. Salvo, però, provare un´avversione generalizzata per la sodomia, pratica che è invece molto in voga tra i brasiliani. Mentre in California, come del resto nei Paesi del nord Europa, chissà se per un calo delle performance maschili o per la ricerca di altro tipo di estasi, si ricorre sempre più spesso a vibratori ed altri sex toys, alcuni dei quali possono costare anche quattromila euro. C´è poi una nuova moda statunitense, il cosiddetto furries, che consiste nel mascherarsi da animali orsacchiotti, lupi o pecorelle con tanto di trucchi, pellicce e finti artigli, che diventano ammennicoli indispensabili al raggiungimento dell´eccitazione pre-coitale.
Fatto sta che nel pianeta, informa l´Organizzazione mondiale della sanità, si compiono circa cento milioni di rapporti sessuali al giorno, pari a 65mila al minuto, quasi 4 milioni all´ora. Mille al secondo. Pochi? Tanti? A queste ed altre domande risponde il documentario Sex mundi, l´avventura del sesso, che esplora l´eros tra gli umani in diverse culture ed aree geografiche. Questo mappamondo della sessualità umana ha l´ambizione, come spiega il regista dell´opera, Roberto Blatt, di essere una "enciclopedia erotica audiovisiva per adulti", un viaggio per capire la diversità delle pratiche sotto la guida esperta di filosofi, professori universitari, antropologi, biologi e sessuologi.
Queste quindici puntate sui piaceri della carne che, sempre Blatt, definisce «complete, piccanti ed esaurienti», dimostrano che dal Congo all´Argentina, dalla Spagna alla Gran Bretagna, o all´Italia, la Mongolia o il Burundi, si parla in realtà un solo linguaggio, senza frontiere né distinzioni, ma con impercettibili distinzioni. Un assunto cui sono giunti gli autori della serie indagando in ventitré Paesi su seduzione, fantasie, giochi erotici, pubertà, prostituzione, dimensioni, minorità, orgasmo, o meglio, orgasmi, monogamia e vari feticismi.
Quali sono i luoghi dove vige il più gran numero di tabù sessuali? Israele e Marocco, anche se i leader di queste nazioni stanno lavorando alacremente per eliminare i divieti più antiquati, o quanto meno i più obsoleti. Sex mundi racconta anche come in alcune regioni rurali della Cina sono i padri che trovano moglie ai loro figli, e per trovarle si recano in determinate strade o piazze, dove altri padri espongono le loro figlie come merce al mercato. Il documentario parla anche di una ricorrenza spagnola, las fiestas Goa, in cui abbonda il sesso facile, senza esigenze di sorta.
Dicevamo degli specialisti in sessualità che intervengono per fornire la loro esegesi sul fenomeno: sono filosofi, quali Michel Onfray o Gilles Lipovetsky, ma anche disegnatori erotici, come Milo Manara, o anche antropologi, come l´americana Helen Fisher. Non poteva mancare il prezioso contributo di un attore di cinema hard, lo spagnolo Nacho Vidal, anche se Roberto Blatt sottolinea che Sex mundi non fa concessioni alla pornografia.
Ma è lecito chiedersi come si accoppiano i mongoli, i danesi o i boliviani? E non è piuttosto sconveniente spiare nell´alcova di coppie da noi geograficamente o culturalmente lontanissime, magari alla ricerca di conferme sulle nostre "deviazioni" sessuali? Nel suo saggio Nazisme et Shoah, lo psicanalista lacaniano Jean-Gérard Bursztein afferma che indagare sul sesso degli altri fosse una curiosità tipica dei boia del Terzo Reich.

Corriere della Sera 17.11.11
Roth e l’analista, un balletto a due
di Livia Manera


Quando si tratta di psicanalisi, gli scrittori si dividono in tre categorie. Quelli che la fuggono come il demonio, perché scrivono per spiegarsi a se stessi. (Alan Bennett). Quelli che vi cercano dei benefici creativi (Nick Hornby). E quelli che ne fanno il proprio soggetto. Il re di queste ultime due categorie è Philip Roth.
Stiamo parlando del Roth anni 60 e 70, che dopo un matrimonio catastrofico era dovuto ricorrere a quattro sedute alla settimana per rimettere insieme i cocci: un'esperienza da cui aveva ricavato la trovata stilistica del Lamento di Portnoy, cioè l'idea di usare il modello della seduta psicanalitica per un'iperbolica sperimentazione letteraria che polverizzasse tutti i canoni della decenza, nel nome del fatto che sul lettino è vietata ogni forma di censura.
Questo nel 1969. Cinque anni dopo sarebbe arrivato il sequel La mia vita di uomo, che Einaudi ripubblica, regalandoci un Roth esilarante e spietato come non mai.
La mia vita di uomo è un romanzo in tre parti in cui la terza è l'irresistibile narrazione in prima persona di Peter Tarnopol, uno scrittore che cerca di capire perché ha sposato una donna che odiava e con la quale non andava nemmeno più a letto. E da chi si fa curare Peter Tarnopol? Dal dottor Otto Spielvogel, lo stesso psicanalista che nel libro precedente dopo duecento pagine di isterico sproloquio di Portnoy, ha l'onore dell'ultima, e nel suo caso anche unica, battuta: «Adesso possiamo cominciare».
Ecco l'avventura che da quel momento legherà per quattro anni scrittore e psicanalista: allo stesso tempo la più veritiera confessione di Roth e la più smaccata presa in giro di quello che gli americani chiamano honest autobiographical writing. In cui il ruolo del nemico spetta a una barista, pittrice, cameriera e attrice di nome Maureen, la quale fingendosi incinta costringe Tarnopol a sposarla, per dedicarsi poi alla sua furiosa distruzione. «Credi che potremmo chiedere a Martin Luther King di mettere una buona parola per me quando andrò in prigione per alimenti non pagati?», chiede Tarnopol al suo (meravigliosamente) cinico fratello Moe. «Come no», risponde Moe. «Anche a Sartre e a Simone de Beauvoir».
Poi, quando Maureen — come la prima moglie di Roth — muore all'improvviso in un incidente d'auto («Certe cose non accadono nella vita vera, salvo quando accadono», è l'ineffabile commento dell'autore), Roth ci regala un'eco di Portnoy nella madre di Tarnopol che al telefono chiede al figlio, lontano 300 chilometri dal disastro: «E tu stai bene?».
Ma il vero pusillanime è lo psicanalista, che dopo aver tradito il paziente raccontando il suo caso su una rivista, quando quello lo scopre e osa protestare, gli dà del narcisista e mette fine alla sua piagnucolosa invettiva con la frase che in seduta ha imparato a calibrare come un'arma di precisione: «Ha finito?».
(Per la cronaca: lo psicanalista di Roth, Hans Kleinschmidt, pubblicò davvero nel 1967 un articolo sul rapporto tra narcisismo e creatività nel caso di un suo famoso paziente, descritto come «drammaturgo italiano di successo». Quando Roth lo scoprì, litigarono e lo scrittore si vendicò scrivendo La mia vita di uomo. E tutto il balletto dello psicanalista e dello scrittore trasformato in drammaturgo e ritrasformato in romanziere è diventato nel 1985 oggetto di un saggio dello psicanalista Jeffrey Berman, che trasformò Roth in un poeta. Quando molti anni dopo un altro scrittore newyorkese, Adam Gopnik, si è sdraiato sul lettino del dottor Kleinschmidt e lo ha messo con le spalle al muro chiedendogli se era stato lui l'iniziatore di questa storia di sfruttamenti e appropriazioni, il dottor Kleinschmidt gli ha risposto seccamente: «Sì, ma ho ricevuto un assegno solo». Infine, nel 2000 un terzo e ultimo psicanalista, Glen Gabbard, ha scritto sulla vicenda per mettere in guardia i colleghi contro la tentazione narcisistica di cercare di condividere professione, prestigio e fama di un paziente scrittore, rubandogli la materia prima).

l’Unità 17.11.11
Karl Gustav Jung
Lo psicologo dell’Anima Mondo
Un convegno sul grande analista zurighese a cinquant’anni dalla sua morte. L’attualità della nozione di inconscio collettivo per curare
il disagio emotivo nell’epoca delle ingiustizie economiche globali
di Romano Màdera


A 50 anni dalla morte di Jung un Congresso internazionale organizzato da Aipa e Cipa ( le due associazioni più importanti degli analisti junghiani in italia) per confrontarsi, fuori dagli studi analitici, con esperti di altre discipline sulle questioni centrali per la vita della città planetaria: ecologia, transculturalità, forme della conoscenza, meticciato delle teorie, valori e disvalori, nuove patologie....
Chissà cosa ne direbbe il maestro svizzero? Si racconta che non avesse per niente cari i tentativi di costruire istituti che portassero il suo nome: pare che abbia accettato di fondare, nel 1948, lo Jung-Institut a Zurigo, solo perché pressato da allievi e seguaci. «Un patto con il diavolo», sarebbero state le sue parole. Cosa voleva dire? Forse che fondare scuole e formare altri analisti è un’impresa faustiana, il cui successo costa la perdita dell’anima? Il personaggio non era privo di rudezze e non amava compiacere gli interlocutori. Ma il mondo lo interessava e non si entra nel mondo da soli, senza accettare il gioco pericoloso dell’istituzionalizzazione. Il volume decimo, in due tomi, delle sue opere, è dedicato alla Civiltà in transizione, il secondo porta come sottotitolo: Dopo la catastrofe. Jung ha cercato di capire qualcosa del tremendo impasto psichico che sobbolle ed esplode quando la storia politico-sociale del nostro tempo ne dà occasione. E questo è un compito al quale la psicologia che da lui trae origine non può tralasciare. D’altra parte, nell’analisi individuale, l’approccio junghiano ricostruisce il passato familiare insieme al paziente, cercando di intravvedere, nei sogni e nelle fantasie, quello che sta nascendo come intenzione ancora inconscia, come possibilità di nuove prospettive sul disagio e come potenzialità creative messe in moto dall’immaginazione.
LA STORIA DEL TEMPO
Dai tempi della separazione da Freud, dalla fine del primo decennio del Novecento, Jung ha cercato di equilibrare l’attenzione portata alla storia infantile remota e alle origini familiari, con uno sguardo teso a scrutare le aperture al futuro, gli scenari intenzionali che si dischiudono se si ascoltano altre voci dell’inconscio. A Jung la storia del tempo appariva dilaniata tragicamente tanto all’esterno il confronto dei due blocchi attorno agli Usa e all’Urss, dopo le due Grandi Guerre Mondiali quanto all’interno, nella psiche apparentemente moderna e razionale, scossa inconsciamente dalla volontà cieca di sterminare il «male» proiettato paranoicamente sul «nemico» nazionale, razziale, ideologico che fosse. Il doppio movimento personale e storico di presa di coscienza delle scissioni e di costruzione di ponti fra disposizioni opposte, è probabilmente il centro dell’operare junghiano, ancora oggi fertile. Cambiati i fattori la cortina di ferro è caduta il risultato non cambia. La contrapposizione dei blocchi ha lasciato allo scoperto, senza più possibilità di prendersela con il nemico, il crudo spettacolo di un’umanità stratificata in una piramide che assegna posti decenti al 20% (per essere ottimisti), lasciando l’80% in condizioni precarie o addirittura infernali. E la gara per rimanere a galla tra quelli del venti per cento è anch’essa faticosissima, molto spesso insensata e deprimente. O nel corpo o nell’anima, o in entrambi, la sofferenza dilaga: il progresso innegabile dei secoli della modernità sembra circoscritto a pochi indicatori materiali, e non a tutti quelli essenziali. È chiaro che non sta alla psicologia il compito di salvare il mondo. Jung era dolorosamente consapevole della tragicità della condizione umana, non cercava sconti a buon mercato e scriveva: «Lo scopo principale della psicoterapia non è quello di portare il paziente a un impossibile stato di felicità, bensì di insegnargli a raggiungere stabilità e pazienza filosofica nel sopportare il dolore. Il compimento e la pienezza della vita richiedono equilibrio tra dolore e gioia; essendo il dolore sgradevole, è naturale tuttavia che si preferisca non misurare mai a quanti timori e affanni sia destinato l’uomo». Stabilità e pazienza filosofica sono virtù del tutto desuete, certo
neppure auspicabili se le si intendessero come virtù di sola accettazione passiva, ma andrebbe ricordato che Tommaso d’Aquino accomunava la pazienza al coraggio perché ne rappresenta la parte potenziale, la capacità di costruire e attendere senza deflettere dallo scopo. Nel nostro mondo, nel macro e nel microcosmo, divampa la febbre della soddisfazione immediata, dell’instabilità celebrata come virtù, dell’assenza di limite come ideale. La fragilità del contesto sociale e delle personalità disturbate, costruite a shock e spot a immagine e somiglianza del contesto che le plasma, unita all’epidemia del ripiegamento narcicistico, richiedono una compensazione fatta di maggior equilibrio e di più plastica capacità di reagire alle inevitabili frustrazioni. A questa impresa comune gli eredi di Jung portano il contributo di una psicologia aperta, antidogmatica, che da decenni si esercita nel tenere insieme gli opposti, nel trovare una forma vivibile ai conflitti e alle contraddizioni.

l’Unità 17.11.11
Arriva anche in Italia il suo studio su Nietzsche

Intanto in libreria arriva «Lo Zarathustra di Nietzsche» di C.V.Jung (pp. 484, euro 45, Bollati Boringhieri), per la prima volta tradotto in italiano, che raccoglie il materiale scaturito da un seminario sulle opere di Nietzsche, avviato nel 1934 e conclusosi nel ’39. È il suo uditorio a chiedergli di mettere a tema proprio quell’autore, spacciato come profeta del superuomo dal nazismo.



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Fatto Lettere
In una famosa canzone, Francesco De Gregori usava questo paradosso per indicare la distanza siderale tra esseri umani e diritti umani. Uno sgradevole colpo di coda del governo uscente, assestato dal sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, non fa che confermare il teorema. Da un lato ci sono esseri umani con malattie genetiche trasmissibili che vorrebbero avere ugualmente dei figli sani, grazie al progresso della scienza in materia di diagnosi pre-impianto e di fecondazione assistita. Dall’altro, la loro umana speranza viene impedita dalle norme disumane della Legge 40, che Roccella ratifica uscendo per ultima da palazzo Chigi e sbattendo la porta con la sua proverbiale pietas cattolica. “Siete malati e non avrete figli”: questo il messaggio finale. A meno che, potremmo aggiungere, non vi riduciate in stato vegetativo: in quel caso, come sottolineava un altro campione dei diritti umani riferendosi a Eluana Englaro, nulla vi vieterebbe di procreare. Che bravi questi cristianissimi “difensori della vita”, quando si tratta di non nati e di morti viventi: il peccato mortale, che il loro dio li perdoni, è soltanto quello di essere vivi.

   Paolo Izzo