venerdì 18 novembre 2011

TAMTAM DEMOCRATICO N.3
Sulla rivista on line di cultura politica del Pd giunta al suo terzo numero:
Focus: L’immigrazione e la sfida dell’interculturalità
ifra gli altri articoli segnaliamo:
La diversità come risorsa, di Mauro Ceruti
La via italiana alla convivenza, di Livia Turco
Più migranti, meno stranieri, di Massimo Livi Bacci
Salute mentale e migrazione: esperienze di cura e formazione a Bologna di Domenico Berardi e Ilaria Tarricone
Identità e identitarismo, di Francesco Remotti
Multiculturalismo e interculturalità, di Carmelo Vigna
Dalla multicultura all’intercultura: la polis come cittadella delle alterità, di  Jean-Léonard Touadi
Noi e l’Islam, una sfida inedita, di Paolo Branca
Libertà religiosa: urge una legge organica Roberto Zaccaria
La sinistra e l’immigrazione: intervista a Giuseppe Sciortino, di  Claudio Giunta
La rivista può essere letta on linew qui: http://www.tamtamdemocratico.it/
o scaricata come pdf


l’Unità 18.11.11
Il Pd vota la fiducia: garantiremo consenso, lealtà, collaborazione
Bersani ai parlamentari: «La svolta c’è, ora crescita e equità»
Finocchiaro: sì a Monti lo sosterremo
con le nostre proposte
Bersani: «Nelle parole di Monti c’è passione civile e la voglia di unire equità e crescita». Finocchiaro al premier: «Consideri il Parlamento il suo primo alleato». Il nodo del raccordo tra governo, gruppi e partiti.
di Simone Collini


«So di dire una cosa un po’ vetero», e sorride, «ma», pausa, «oggi siamo in una fase più avanzata, e da qui possiamo proseguire la nostra battaglia». Pier Luigi Bersani parla ai deputati del Pd riuniti a Montecitorio, pochi minuti prima che Mario Monti intervenga al Senato. Massimo D’Alema va al microfono poco dopo, nella sala del gruppo, e ironizza perché «effettivamente l’incipit era vetero» ma il ragionamento che fa il leader del Pd viene condiviso, perché se «dall’altra parte cominciano ad arrivare segnali preoccupanti», osserva D’Alema dopo che Berlusconi fa sapere di poter «staccare la spina» quando vuole, per Bersani il Pd, con le sue proposte, deve caratterizzarsi come la forza che con lealtà e maggiore affidabilità sostiene questo governo.
SVOLTA, ORA EQUITÀ E CRESCITA
«Ognuno deve assumersi le sue responsabilità», replica a distanza il leader del Pd a Berlusconi. Ma le parole dell’ex premier non lo interessano più di tanto. «Solo dieci giorni fa eravamo ai 308 voti, oggi siamo in un altro universo persino nei contenuti stilistici», dice Bersani dopo aver ascoltato insieme ad Enrico Letta e Dario Franceschini nello studio di Montecitorio l’intervento del nuovo presidente del Consiglio. «La svolta c’è stata e nelle parole di Monti c’è passione civile e la voglia di unire equità e crescita. Noi sosterremo lo sforzo del governo, con proposte in ogni campo per rendere ancora più evidente la svolta».
Un ragionamento che il segretario del Pd ribadirà oggi intervenendo in Aula, prima che anche la Camera voti la fiducia al nuovo governo, e però illustrando anche le proposte del Pd in materia economica e fiscale, elettorale ed istituzionale .
Il Pd vuole giocare questa prima fase del dopo-Berlusconi interpretando comunque un ruolo da protagonista, anche se quello che sostiene «non è il governo del Pd», come dice Bersani, che sa che la fase di emergenza imporrà di votare anche misure che il suo partito non condividerà «al 100%». L’impostazione del discorso di insediamento di Monti convince i Democratici, tanto che al Nazareno si fanno notare le assonanze col loro programma soprattutto in tema di lotta all’evasione fiscale e di misure sotto il segno dell’equità, ma fin d’ora vengono fissati nel terreno alcuni paletti.
Li mette in chiaro Anna Finocchiaro intervenendo prima del voto di fiducia al Senato. «Non ci potrà essere riforma fiscale senza ridistribuzione, politica senza coesione territoriale, o lavoro senza dignità», dice sottolineando che sì, il Pd garantirà «consenso, lealtà e collaborazione», ma anche che «ora entra in campo il Parlamento»: «Io credo che questo Parlamento debba chiederle un impegno dice la capogruppo del Pd a Palazzo Madama rivolgendosi direttamente a Monti di considerarlo il suo primo, potente alleato».
RACCORDO TRA GRUPPI E GOVERNO
Il ruolo delle Camere sarà centrale, ribadirà oggi a Monti anche Franceschini intervenendo in Aula, ma allo stato ancora non è chiaro con un governo composto di soli tecnici come garantire un raccordo tra esecutivo, gruppi parlamentari e partiti. La questione viene discussa anche alle riunioni dei senatori e dei deputati del Pd perché la «situazione totalmente nuova», come dice Finocchiaro, entusiasma ma anche preoccupa. Le ipotesi su cui ragionano i Democratici vanno da una cabina di regia della nuova maggioranza (che però Bersani vuole evitare per non far rientrare dalla finestra quel nessun tavolo a cui siedano insieme politici Pd e Pdl che con la «caratura tecnica» è stato lasciato fuori dalla porta) a una forma di coordinamento tra i capigruppo (compresi quelli delle commissioni) che esamini ciò che si può discutere e ciò che invece va messo da parte. La questione è stata rinviata a dopo la nomina dei sottosegretari (è certo che non sarà in lista nessun attuale parlamentare) ma in campo c’è anche l’ipotesi di organizzare a breve una giornata seminariale ad hoc.
Quel che è certo è che il Pd vuole approfittare di questa fase per rafforzare l’asse col Terzo polo, sapendo che il Pdl manterrà nei confronti del governo l’atteggiamento oscillante già ampiamente mostrato in queste prime ore e che nei prossimi mesi potrà essere «l’alleanza delle opposizioni grazie alle quali è nato il governo Monti», come sottolinea D’Alema, a rendere possibili quelle «ineludibili» riforme, come sostengono sia Fini che Bersani, per andare poi al voto con un bipolarismo finalmente dice Finocchiaro «maturo».

Repubblica 18.11.11
Bersani: "Nel discorso passione civile ora legge elettorale e tagli alla politica"
Ma il feeling del premier con Ichino agita i Democratici
Il segretario: in campo con nostre proposte. La lettera bipartisan sulla crescita
di Giovanna Casadio


ROMA Monti ha appena finito di parlare al Senato e Pietro Ichino, il giuslavorista senatore del Pd, è entusiasta: «Nel suo programma ha tolto gli aspetti ansiogeni sulla riforma del lavoro». Ecco, le riforme, le cose da fare per modernizzare l´Italia, sono al centro del dibattito e delle fibrillazioni delle opposizioni. Ieri è ancora il giorno della soddisfazione per essere riusciti a "dimissionare" Berlusconi. Bersani parla di svolta: «Siamo in un altro universo, è cambiato tutto, anche nei contenuti stilistici. Nelle parole di Monti abbiamo notato la passione civile e l´orgoglio italiano». E il segretario democratico fa pressing per le riforme: «In Parlamento bisogna cominciare a lavorare su un po´ di riforme, dalla riduzione del numero dei parlamentari alla legge elettorale... mentre si sostiene lo sforzo per l´emergenza, le forze politiche si dedichino a un processo di riforme».
Ma nessuno nasconde che il ruolo della politica nel quasi inedito di un governo interamente tecnico, è tutto da riscrivere. Non lo fa Casini, il leader dell´Udc, che avverte: «Da un lato c´è la supplenza della politica, ma dall´altro c´è un´occasione per la politica per riprendere fiato e intanto favorire l´armistizio tra le forze in campo». Se ne parla nelle due assemblee (a Montecitorio e a Palazzo Madama) del Pd. Franco Marini, l´ex presidente del Senato s´infervora: «Attenti a non perdere di vista la politica». Vincenzo Vita, sinistra pd, dice che la politica si è meritata questo schiaffo: vero è che Monti è il meglio, però attenti alle riforme che si fanno. Soddisfatti al contrario i veltroniani Tonini, Morando («Le gatte da pelare saranno ora per il massimalisti»), Ceccanti. Ichino discute con il neo ministro del Welfare, Elsa Fornero, e poi commenta: «Le nuove regole riguarderanno le nuove assunzioni e non già chi ha un posto di lavoro stabile». Preoccupati sono i laburisti pd come Fassina e Damiano, che di ricette di flexsecurity o di modifica dell´art.18 non vogliono sentire parlare. Quando era circolata la voce di un posto di ministro a Ichino, i dalemiani erano insorti. Una lettera bipartisan (da Baldassarri a Lanzillotta e Baretta) su 6 misure per la crescita viene consegnata ieri a Monti. Anna Finocchiaro, la capogruppo: «Ora il Parlamento rientri in campo, sarà il suo primo alleato». Discussione su un coordinamento o "cabina di regia".
Si parla di legalità e di rispetto delle regole. Lo fa Emma Bonino, la leader radicale: «La gravità della crisi avrebbe dovuto spingere i partiti ad assumere direttamente impegni di governo. Questo non è un segno di forza e di discontinuità ma di ulteriore debolezza e perciò rivolgo a voi un appello: non dovete accettare di essere considerati un governo tecnico ma rivendicare in pieno il ruolo di essere un governo politico. Noi saremo al vostro fianco, ma non sarà facile». Bersani poco prima, ha esortato i Democratici a individuare la giusta rotta e ha ribadito: «Nessun mandato a termine per Monti». Tra Pd e Terzo Polo nasce un asse di fatto. È il giorno dell´abbraccio tra Finocchiaro e Quagliariello (Pdl), per dire che il clima è cambiato nonostante le sparate di Berlusconi sull´opposizione «terrorista». Di Pietro: «Diamo fiducia ma taglino i rapporti con i poteri forti».

il Riformista 18.11.11
«Ragazzi, abbiam vinto» Ma mezzo partito trema
Cgil, Vendola e anche la Lega Nel Pd si teme l’emorragia
di Tommaso Labate


RETROSCENA. Con Vendola, Bossi e un pezzo di Cgil all’opposizione, i Bersani boys temono un’emorragia di consensi. Gli altri, da Veltroni a Letta, esultano per l’agenda del premier. Il segretario tiene duro: «La nostra battaglia continua».

Bastano due fotogrammi per descrivere l’aria che si respira nel Pd. Nel primo ci sono le facce dei parlamentari democratici che ieri mattina hanno assistito all’abbraccio plateale tra il vendoliano Franco Giordano e il leghista Giancarlo Giorgetti. Entrambi «felicissimi», dicono, «di stare all’opposizione».
Il secondo immortala l’istante esatto in cui Dario Franceschini, aprendo ieri mattina l’assemblea di gruppo e guardando le facce spaesate di alcuni dei suoi deputati, si lascia andare a un’esortazione da navigato motivatore: «Vedo delle facce un po’ così... Guardate che abbiamo vinto noi».
Il terzo e il quarto fotogramma, invece, sono foto che trasudano felicità. La felicità di Walter Veltroni, che in un corridoio laterale di Montecitorio sfoggia un sorriso a 36 denti come quello cantato dal suo amico Jovanotti della hit La bella vita: «Avete visto che discorso ha fatto Monti? Questa è una boccata d’aria fresca per tutti». E quella di Enrico Letta, uno dei tessitori dell’«operazione governissimo», che ha affidato a un’intervista al Messaggero la analisi sul Pd di nuovo in maggioranza: «Con questa scelta nasce veramente il Pd».
Eppure è come se ce ne fossero due, di Pd. Uno impaurito. L’altro che esulta. Il primo, di cui fanno parte Stefano Fassina e altri Bersani boys, teme che l’agenda fissata da Monti provochi uno smottamento verso chi da Sinistra e libertà alla Lega Nord, passando per un pezzo di Cgil si sta già posizionando contro il governo di SuperMario. Il secondo di cui fanno parte lettiani, veltroniani e anche franceschiniani esulta per il programma neo-liberale illustrato dal neopresidente del Consiglio a Palazzo Madama.
Il cortocircuito, alla lunga, potrebbe essere letale. Soprattutto perché le direzioni che può prendere il dibattito interno al Pd nei prossimi sono imprevedibili. Perché nonostante la generosità di Bersani, che ha messo da parte l’opzione della sicura vittoria alle elezioni anticipate, il partito non ha ancora fatto i conti con l’approdo a una maggioranza insieme al Pdl. Il deputato Antonello Giacomelli, una delle teste d’uovo del giro Franceschini, prova a spiegarlo con una battuta: «Forse è il caso che scriviamo ai nostri un foglietto da tenere sempre a portata di mano dentro l’Aula. Un foglietto con su scritto: “Ricordati che adesso devi premere il tasto sì”. Così non sbagliano a votare». E quando in assemblea il capogruppo ha annunciato una riflessione su come ridefinire la strategia parlamentare, Gianni Cuperlo, della sinistra del partito, ha chiesto immediatamente la parola: «Però è meglio non aspettare dei mesi. Dobbiamo farla già la prossima settimana, questa riflessione». E visto che solitamente basta un niente per scatenare un dibattito acceso, ecco che ci si è messo anche il deputato torinese Stefano Esposito: «Scusa, Dario, visto che stiamo parlando di come organizzare la nostra azione parlamentare rispetto all’esecutivo, è possibile sapere qualcosa delle nomine dei sottosegretari?». Il tutto servito, a mo’ di ciliegina sulla torta, dall’intervento con cui Massimo D’Alema (che potrebbe lasciare la presidenza del Copasir a Maroni) ha ribadito che la necessità di sfruttare lo scampolo finale della legislatura stringendo i bulloni di un’alleanza col Terzo Polo.
Tocca ancora a Pier Luigi Bersani trovare una sintesi. Provare a tenere insieme quell’ala del partito contraria alla flexsecurity di Ichino e il sostegno a un governo che ha proprio in quella ricetta uno dei suoi asset principali. «Monti ha posto bene le priorità dell’Italia. Ma sul lavoro bisogna approfondire», ha detto all’agenzia Tm-news Stefano Fassina. «Non bisogna eliminare l’articolo 18», ha aggiunto l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano.
Come fare? Nel suo discorso ai deputati il segretario ha citato una vecchia formula della sinistra: «La battaglia continua su un territorio più avanzato». E ancora: «Toccherà spiegarlo anche a chi la pensa come la Velina rossa», ha aggiunto evocando la nota politica il cui Pasquale Laurito bacchetta da giorni il governo Monti paragonandolo al «governo Badoglio». Ma dentro il Pd i conti non tornano. Non tornano perché il sacrificio di sostenere il governo d’emergenza ancora non ha prodotto i suoi frutti. Basti pensare al giudizio in agrodolce che l’editore di Repubblica Carlo De Benedetti ha consegnato ieri a un’intervista ad Aldo Cazzullo del Corriere della Sera («Bersani è più efficace comunicativamente nella versione Crozza che in quella originale. Ringraziamo però che ci sia perché, al di là delle amicizie personali, troppi a sinistra non sopportano più le liti trentennali D’AlemaVeltroni»). Molto simile a quello che diede Romano Prodi qualche giorno fa di fronte ai taccuini di Repubblica («Bersani è una persona eccellente, di grandi capacità, posso dirlo, è stato mio ministro, ma non riesce a “uscire”»).

Corriere della Sera 18.11.11
Fassina, il «signor no» del Pd diventa un caso Il responsabile economico freddo sul governo. E in tanti nel partito chiedono la sua testa
di Maria Teresa Meli


ROMA — Nel Pd scoppia il «caso Fassina»: è il primo effetto dell'avvento del governo Monti sul Partito democratico. Il responsabile economico, voluto dal segretario Bersani, è diventato da qualche tempo un personaggio scomodo. Al punto che il quotidiano Europa ieri riferiva che sono in molti a volerne le dimissioni.
Finché Berlusconi era a palazzo Chigi, il fatto che Stefano Fassina in politica economica avesse una linea diametralmente opposta non solo a quella di Veltroni e Franceschini, ma anche a quella di un esponente di spicco della maggioranza del partito, ossia il vicesegretario Enrico Letta, sembrava non destare troppo imbarazzo. Era motivo di confronti accesi, come quello sulla lettera della Bce. Con Fassina che sparava a zero contro le indicazioni della Banca centrale europea: «La sua ricetta non funziona». E Letta che insisteva sulla necessità di seguire le soluzioni prospettate dalla Bce. Interveniva Bersani, a dirimere i nodi, senza mai sconfessare del tutto il «suo» responsabile economico, ma cercando di frenarne gli ardori: «La nostra posizione sulla lettera della Bce è chiara: nessuna critica, ma sul pareggio del bilancio abbiamo le nostre ricette». Nessuna questione anche quando Fassina incrociava la spada con Pietro Ichino, che a suo avviso proponeva «fatue illusioni ai giovani impigliati nella precarietà».
Ma appena si è messo in moto il processo che ha portato alla nascita del governo Monti, la linea del responsabile economico è diventata fonte di innumerevoli problemi per il partito. E qualcuno, oltre a protestare con il segretario, ha cominciato a prendere le distanze pubblicamente da lui. Tanto più dopo che Fassina, al contrario della stragrande maggioranza del Pd, non ha mostrato eccessivo entusiasmo per questo esecutivo. Nella riunione del coordinamento che si è tenuta la settimana scorsa, il responsabile economico ha tenuto a sottolineare che a suo giudizio «il governo d'emergenza non è necessariamente una soluzione migliore delle elezioni anticipate». Qualche giorno dopo, al Quotidiano Nazionale, ha spiegato che non è affatto «necessario» che Monti arrivi fino a fine legislatura. E ha lanciato un ammonimento: se verranno toccati i lavoratori dipendenti e il ceto medio «le tensioni saranno inevitabili». Non propriamente una dichiarazione di pace nei confronti del governo.
Ieri, dopo che Monti ha parlato, Fassina, che non è tipo da mollare, ha condito il plauso per le parole del premier con una serie di «se» e di «ma». E ha annunciato che è «un punto d'approfondire il passaggio di Monti dedicato ai lavoratori "troppo garantiti"». Per non lasciare spazi all'ambiguità, com'è nel suo stile, il responsabile economico ha precisato: «Le posizioni del Pd sono chiare e non prevedono ulteriori facilitazioni ai licenziamenti».
Dunque Fassina non sembra avere voglia di fare troppi sconti a nessuno. E questo suo atteggiamento lo ha reso bersaglio di qualche invettiva. Giorgio Merlo, per esempio, ha chiesto polemicamente «a nome di chi parla Fassina?». Mentre l'altro giorno Marina Sereni, nel corso di una trasmissione, per ridimensionare alcune prese di posizione del responsabile economico, si è affrettata a precisare che Fassina non è nemmeno un parlamentare. L'ultima puntura di spillo l'esponente del Pd l'ha ricevuta dal giornale online Qualcosa di riformista, curato dai giovani dell'ala liberal del Pd, che hanno suggerito a Bersani di regalare a Fassina un bel viaggio in Corea del Nord. Ma chissà che in corso d'opera e di governo, Fassina non si prenda la sua rivincita. A sentire i timori di D'Alema non lo si può escludere: «Il quadro è cambiato — ha detto ieri il leader Pd ai deputati del suo partito — e noi dobbiamo tenere uno stretto rapporto con il Terzo polo, perché non vorrei che tutti i moderati si ricomponessero e poi ci salutassero con un "arrivederci alla prossima emergenza"».

Corriere della Sera 18.11.11
Finocchiaro torna a Togliatti

ROMA — All'inizio del suo intervento a nome del Pd, Anna Finocchiaro cita il governo Dini come unico precedente di governo di larghe intese nella storia repubblicana. La interrompe Cesarino Monti, della Lega, ricordando che ci fu, prima della Liberazione, anche il (secondo) governo Badoglio. E lei aggiunge: «Con un grande gesto di responsabilità dell'allora capo del Partito Comunista, Palmiro Togliatti».

il Riformista 18.11.11
«Lavoro e diritti. Non sono isolato nel Pd»
Ichino: «Diranno ancora che sono provocatore?».
di Ettore Maria Colombo


Palazzo Madama, interno giorno. Il Senato della Repubblica sta discutendo e votando la prima fiducia al governo Monti. In una saletta che si trova tra l’aula e il (piccolo) Transatlantico del Palazzo, il senatore del Pd Pietro Ichino siede a lungo su delle poltroncine damascate con il neoministro al Welfare e al Lavoro, Elsa Fornero. La conversazione, è evidente, tocca tutti i punti di scottante attualità. Quando finisce, una torma di giornalisti si avvicina a Ichino per strappargli brandelli di notizie. Il Professore è guardingo, scandisce le parole, si ferma, pensa, riprende: «Fa sempre così, ed è un timido», dice chi lo conosce bene. E se è vero che Ichino non è diventato ministro, un’altra cosa è certa: il suo ruolo e le sue idee peseranno sempre di più.
Senatore Ichino, cosa ne pensa del discorso programmatico di Monti?
È stato un esempio straordinario di buona politica. Un discorso sobrio, ma vibrante di passione civile. Ha tracciato un quadro organico ed equilibrato di misure efficaci e incisive, destinate a gravare progressivamente su chi più ne è capace. Inoltre, Monti ha individuato molto lucidamente i difetti del nostro Paese che è più urgente correggere.
Ha promesso equità e rigore. Arriveranno in pari misura?
Non ho motivo di dubitarne. Le migliori premesse perché ciò accada ci sono tutte: sia la qualità delle persone che compongono questo governo sia la qualità di chi lo guida. Conosco Mario Monti da molto tempo: il suo primo scrupolo sarà di fare esattamente quello che promette.
Lei ha lungamente parlato con il neo-ministro Fornero. Come la giudica?
È una grande conoscitrice del sistema del welfare e ha le idee chiarissime su quello che occorre fare. Attuerà le politiche che Monti ha enunciato nel suo discorso al Senato. Conosco bene anche lei: è una riformista di razza.
Una parte del Pd e la Cgil temono “imboscate”...
Ma quali imboscate?! Più alla luce del sole di così non si potrebbe operare. Monti ha detto chiaro e tondo che non verrà toccato l’articolo 18 per chi oggi ha un rapporto di lavoro stabile e regolare. Verrà invece ridisegnato un diritto del lavoro capace di voltar pagina rispetto al regime attuale, che è di apartheid tra lavoratori protetti e non protetti. Ma questo nuovo diritto si applicherà soltanto ai rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti. Quindi, nell’immediato, nessun licenziamento, né «ondate» di licenziamenti come dice chi ne parla senza conoscere, ma solo assunzioni a tempo indeterminato più facili. In futuro, dove si applicherà il nuovo regime, a chi perderà il posto di lavoro verrà offerta una protezione, sul mercato del lavoro, ai livelli dei Paesi più avanzati d’Europa.
Vincerebbe il “modello Ichino”, dunque?
Modello Ichino lo chiama lei. Io preferisco chiamarla flexsecurity alla danese.
E per quanto riguarda le pensioni? Saranno toccate? E come?
Andremo progressivamente alla piena applicazione del modello contributivo pro-rata temporis anche per i pensionati “di serie A” della riforma Dini del 1995, e cioè per coloro che hanno cominciato a lavorare prima del 1978. Lo si applicherà, finalmente, anche ai vitalizi dei parlamentari.
In un’intervista al Riformista, Matteo Orfini, esponente della segreteria del Pd, ha definito «una provocazione» la possibilità che lei potesse fare il ministro e «largamente minoritarie» le sue idee nel Pd. Come risponde?
A Orfini ricordo che il mio progetto di riforma del mercato del lavoro è stato presentato, qui in Senato, con la firma della maggior parte dei senatori del Pd, e in perfetta coerenza con il manifesto di Politica del Lavoro con cui il Pd nel 2008 ha preso il 33,3% dei voti alle elezioni politiche. Nel Pd non sono affatto isolato: la pensano come me non soltanto le due grandi minoranze che fanno capo a Walter Veltroni e a Ignazio Marino, ma anche diversi esponenti della maggioranza. A mia volta, però, chiedo a Orfini di studiarsi meglio il mio progetto di legge prima di rilasciare, su di esso, affermazioni avventate. Poi, vorrei fare io una domanda a lui.
La faccia.
Ora che i senatori democratici hanno votato la fiducia al Governo Monti su un programma che contiene idee molto vicine al mio progetto, che cosa intende fare? Li bollerà tutti come provocatori? O forse come social-traditori?

il Fatto 18.11.11
Ichino “Sono le mie idee”. Ma il Pd, adesso, ha un problema
Il senatore corteggiatissimo dai nuovi ministri
di Wanda Marra


Tra Pietro Ichino, noto giuslavorista e senatore del Pd dalle posizioni ultra-riformiste, pronto a dire che quello di Monti per lui “è stato un vero e proprio endorsement” e Vincenzo Vita, espressione della parte più radical del partito, che racconta che “in fondo è come al cinema: guardando Bunuel ognuno ci vede un po’ quello che si immagina”, c’è evidentemente un fossato. Nel quale il Pd dovrà cercare di non cadere. Mario Monti ha appena finito di presentare al Senato le sue linee programmatiche e Ichino si sente investito della linea. Il riferimento è a uno dei punti più delicati del discorso, quello in cui si parla di lavoro. “Con il consenso delle parti sociali” si dovrà riformare il mercato del lavoro “per allontanarci da un mercato duale dove alcuni sono fin troppo tutelati mentre altri sono totalmente privi di tutele”, ha detto Monti. Di più ha parlato di un “nuovo ordinamento” che andrà “applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere”. Per Ichino, senatore Pd sta parlando della “flex security” nell’accezione da lui elaborata: tutti contratti a tempo indeterminato e a tutti le protezioni essenziali ma nessuno inamovibile. E a chi perde il posto, garanzia di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione e di continuità del reddito.
UNA PROPOSTA peraltro presentata in Senato in forma di disegno di legge, appoggiato a larga maggioranza nel partito e anche dal Pdl. Un banco di prova perfetto evidentemente per il governo Pd-Pdl. Ma una proposta che larghe componenti dei Democratici vedono come fumo negli occhi. Martedì sul Fatto Matteo Orfini aveva avvertito: “Ichino è in una posizione largamente minoritaria nel partito”. Sarà, ma intanto Ichino ed Enrico Morando sono praticamente i primi a presentarsi ai giornalisti a Palazzo Madama, felici e soddisfatti. Ichino viene praticamente rapito da quello che tutti già definiscono il SuperMinistro, Corrado Passera, che praticamente lo interroga. E lui a spiegare e a rassicurare: “Si tratta di prevedere dei contratti, uguali per tutti, che rendono possibile rinunciare a un lavoratore in presenza di motivazioni economiche. Al lavoratore, l’impresa dovrà corrispondere per il primo anno il 90 per cento del reddito che percepiva”. Con un basso costo per l’impresa. Poi, “ci vuole un sostegno al reddito fino al terzo anno”. E a quel punto visto che costa non poco, “le imprese avrebbero ogni interesse a ricollocare con l’outplacement il lavoratore”. Il Senatore sottolinea poi che Monti ha superato con le sue parole “l’ansia sui licenziamenti facili”.
Ichino e Passera conversano alla pari. Ed è il senatore ad ammettere che sì, con il Professor Monti negli scorsi giorni si sono sentiti “sempre, continuamente”. Era stato il suo il primo nome uscito come ministro del Lavoro e probabilmente sarebbe stato anche quello definitivo se non ci fosse stata la scelta di soli tecnici nel-l’esecutivo. Quell’“impedimento”, lo definisce lo stesso Ichino. E Elsa Fornero, neo ministro del Lavoro racconta che la telefonata di Monti che le chiedeva di entrare nel suo esecutivo le è arrivata martedì sera. “Lui” le ha dato due ore per decidere, dice, guardando in alto. “Lui”, con la “l” maiuscola in questi giorni sia detto per inciso per tutti è sempre il Professore. Mentre parla arriva Morando. Lei lo chiama, lo saluta, dice senza imbarazzi che “ha bisogno di persone come lui”. Poi, dopo pranzo si apparta per un’oretta buona con Ichino. Niente di ufficiale, ma con Monti al governo sembra proprio non sia tempo di cinema, nè di suggestioni.
PER I DEMOCRATICI è l’ora dei “tecnici gongolanti”: sorride orgoglioso Stefano Ceccanti, accompagnato dal figlio, Davide, 17 anni, nato sotto Berlusconi che è venuto a vedere l’inizio di un’altra era. Sorride Giorgio Tonini, che negli scorsi giorni aveva redarguito Orfini reo di aver definito una “provocazione” la possibile nomina di Ichino. Sintetizza Morando: “Sono gatte che per una volta si peleranno i massimalisti”. Che ieri, non toccano palla. Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, si augura che le cose non stiano come sembrano. “Monti parla di lavoratori troppo tutelati, ma in Italia centinaia di migliaia di lavoratori hanno perso il posto”. Orfini definisce “generiche” le dichiarazioni di Monti. Lo stesso Bersani si affretta a ricordare che “l’equità è l’unica condizione per rendere credibile un cambiamento”. È il giorno della prima fiducia, nessuno ha voglia attaccare, ma la tensione è palpabile. E intanto, l’Idv presenta una mozione di fiducia piena di distinguo (e diversa da quella di Pd e Udc) sulla quale Monti sceglie di non porre il voto. Mentre Anna Finocchiaro, capogruppo Pd nel suo intervento in Aula, ricorda che anche il Pci sostenne il governo Badoglio e parla di “laicità riformista come cifra politica”. A Palazzo Madama gira la battuta ironicamente amara: “Berlusconi aveva promesso mari e monti. Ha mantenuto la promessa per metà”.

l’Unità 18.11.11
La tessera numero 1 e la strana critica


L’ingegnere Carlo De Benedetti, editore de la Repubblica, ha sostenuto in un’intervista al Corriere della Sera, che «lo show di Berlusconi è finito» lasciandoci «la tragedia di un Paese eticamente distrutto, economicamente sfiancato, finanziariamente sull’orlo del fallimento». De Benedetti è contento del nuovo governo: «Monti era l’unica scelta. Ho molta fiducia in lui». Un nota critica è riservata al Pd: «Non ha corrisposto alle aspettative mie e a quelle di tanti entusiasti della sua nascita». Come è noto De Benedetti prenotò per tempo la tessera numero uno del Pd. Ma la cosa più singolare è la motivazione della sua critica di oggi: «Bersani è un eccellente persona, è stato un ottimo ministro, si è dimostrato anche in questa circostanza un politico eccellente, fermo e intransigente sui suoi principi ma duttile come la circostanza richiedeva». Per l’Ingegnere la leadership di Bersani è anche utile a tenere a bada da un lato la competizione tra D’Alema e Veltroni, dall’altro le ambizioni di Renzi. E allora cosa non va? Ecco la risposta di De Benedetti: «In un’epoca in cui la comunicazione è così importante, lui è più efficace comunicativamente nella versione Crozza che in quella originale». La povertà dell’argomento lascia davvero stupefatti. Si può cedere a tal punto alla logica dello spettacolo da mettere sullo stesso piano le qualità prima descritte e il presunto difetto di comunicazione? Lo stesso De Benedetti, del resto, contesta di Berlusconi la concezione della politica da «set televisivo». Dobbiamo allora continuare a restare sul set oppure nella politica da ricostruire si può sperare che capacità, fermezza, intelligenza contino più della presenza in uno show? La vera impresa per i progressisti non sarà uscire dall’era di Berlusconi, ma dal berlusconismo.

Corriere della Sera 18.11.11
«De Benedetti fomentatore, segue suoi interessi opachi»
Bondi: esecutivo Monti d'alto profilo, sfida per tutti
di Paolo Conti


ROMA — Senatore Bondi, lei sostiene che Carlo De Benedetti, con l'intervista rilasciata al «Corriere della Sera», vuole condizionare il nuovo assetto politico italiano. A quale passaggio si riferisce, in particolare?
«Tutta l'impostazione della sua intervista tradisce il perdurante progetto di De Benedetti, e del suo gruppo editoriale, di condizionare l'intera vita politica italiana, dalla destra alla sinistra, secondo finalità che non sono chiare...».
In che senso queste finalità non sarebbero chiare?
«Hanno a che fare con interessi opachi... ovvero riconducibili ai propri interessi personali o a quelli di precisi gruppi economici: non mi sembrano gli interessi generali del Paese. In questo senso sono opachi».
De Benedetti parla, nell'intervista ad Aldo Cazzullo, di «fine di uno show», di sessismo, di machismo, di illusionismo. Viene in mente la stagione delle escort e di tutto il resto. Non è stato un grave danno per l'Italia, tutto questo?
«Il giudizio su Berlusconi, sulla sua attività di politico e di statista, quando la storia si incaricherà di scriverlo, sarà meno fazioso e più obiettivo di quello che la politica italiana gli ha riservato in questi anni. Viceversa, il giudizio sull'operato di De Benedetti non sarà altrettanto lusinghiero».
Cioè?
«Sarà ricordato soltanto per essere stato un imprenditore che non ha mai avuto visione d'insieme del Paese. Ha alimentato in Italia una contrapposizione che ha nuociuto agli interessi generali, attraverso un clima invisibile di caccia alle streghe. Non ha altri meriti né politici, né imprenditoriali, tantomeno storici. Solo un fomentatore di tensioni politiche e personali all'indirizzo di un presidente del Consiglio».
Per l'Ingegnere la vostra classe dirigente ha tratto vantaggi personali dall'aver partecipato al governo Berlusconi...
«Berlusconi mi ha permesso di mettere a disposizione sua e di Forza Italia, prima, e del Pdl, poi, la mia passione politica e il mio amore per il confronto culturale. Per il resto ho ricevuto un trattamento dall'opposizione di sinistra, e dall'élite culturale dominante, di disprezzo e di delegittimazione che è sfociato in una mozione di sfiducia personale per la caduta di un muro a Pompei».
Per De Benedetti parlare di governo a termine è ridicolo. Ma dalle parti del Pdl qualcuno non la pensa così. O no?
«Il presidente Berlusconi ha dimostrato un alto senso dello Stato dando il via libera a questo governo. Il Pdl sostiene questo governo tecnico e lo fa perché sono in ballo gli interessi degli italiani e sa che una grande forza democratica e popolare come la nostra fa coincidere i propri interessi con quelli nazionali».
Berlusconi parla di «democrazia sospesa» col governo Monti.
«È sospesa la normale alternanza dei partiti alla guida del governo. In realtà, la formazione di questo governo tecnico è una scelta eminentemente politica, che si deve soprattutto alla decisione di Berlusconi».
Ma a lei questo governo piace o no, Bondi? Lo sosterrete lealmente o con riserva? O con sospetto?
«È un governo di alto profilo tecnico. Ne fanno parte personalità di varie appartenenze, ma accomunate da una comune autorevolezza e competenza. È una sfida anche per la politica, per i partiti e per le alleanze che abbiamo fin qui conosciuto. Dopo questa esperienza nulla sarà come prima».
Vede ombre?
«Credo che sia un governo che ha una missione limitata nel tempo. Farà bene alla politica. Dopodiché, esaurita la propria funzione, la parola tornerà a una politica rinnovata».
Ma Monti arriverà al 2013?
«Penso che le forze politiche che hanno deciso di sostenerlo non devono avere retropensieri. Non credere alla possibilità che Monti possa lavorare fino al 2013 indebolirebbe di per sé questo governo. Il vero problema è superare questa crisi...».

l’Unità 18.11.11
Per la Camusso il banco di prova per il governo sarà la delega fiscale
«Si adotti la patrimoniale» Soddisfatte Cisl, Uil e Confindustria
La Cgil: piace il nuovo stile, non l’Ici sulla prima casa
«Apprezzamento» per il metodo, specifiche sul merito. Per la Cgil il vero banco di prova per Monti sarà la delega fiscale. «Grande apprezzamento» da Rete imprese e Confindustria. Soddisfatte Cisl e Uil.
di Massimo Franchi


Apprezzamento per «il forte senso delle istituzioni», per «l’inversione di tendenza rispetto al governo precedente» su «contrasto all’economia illegale» e «lotta all’evasione». Ma sugli intendimenti espressi da Mario Monti nel discorso al Senato riguardanti fisco e riforme del lavoro la Cgil ribadisce la sua posizione: sì alla patrimoniale e niente Ici sulla prima casa. La segreteria del sindacato guidato da Susanna Camusso continua a dare credito al governo dei professori. In una nota però sottolinea con forza come vada declinata «la discontinuità» richiesta rispetto al governo Berlusconi: «L’equità fiscale si deve realizzare a partire dall’introduzione di una tassa sul patrimonio e le grandi ricchezze», «l’alta pressione fiscale sul lavoro e le pensioni non può essere nuovamente aggravata dalla reintroduzione della tassa sulla prima casa». Il tutto per arrivare ad «un più solido ed esplicito criterio di equità su cui fondare un nuovo patto di cittadinanza». Il banco di prova per giudicare il governo Monti sarà comunque «la delega su fisco ed assistenza» che hanno lasciato in eredità Berlusconi, Tremonti e Sacconi. È su questa che la Cgil chiede un confronto che parta dalla «necessità di abbassare le tasse sul lavoro e sulle imprese, condizione indispensabile per la crescita».
L’ASSEMBLEA DEI DELEGATI
Proprio in questo quadro, la segreteria ha deciso di mantenere la mobilitazione prevista per il 3 dicembre. Non sarà più la manifestazione di popolo a piazza San Giovanni, ma un’assemblea straordinaria di oltre 15mila delegati sulla necessità «di fondare la crescita del Paese sul lavoro e sui giovani».
In mattinata, intervenendo all’assemblea nazionale dei Caaf Cgil, Susanna Camusso aveva usato parole di speranza sul governo dei professori, sebbene sottolineasse come il programma fosse ancora «ignoto a tutti». «Si sta per aprire una stagione diversa, con un carico di responsabilità per noi maggiore: per tre anni abbiamo detto “No”, ora dovremo dire qualche “Sì”».
Chi invece appoggia in toto le linee del programma delineato da Monti è la Rete Imprese, giudata da Confindustria.
«Apprezziamo si legge in una nota le parole di verità sullo stato di salute dell’economia italiana e l’ampiezza del disegno riformatore, centrato sulla crescita».«Riteniamo importanti prosegue la nota gli impegni assunti in materia di riequilibrio della pressione fiscale con la finalità di ridurne il peso su imprese e lavoratori». Sul fronte del mercarto del lavoro, Rete Imprese sposa l’idea «di spostare il baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro» e si impegna «a confrontarsi per superare le iniquità e le inefficienze per favorire l’inclusione sociale, in particolare dei giovani e delle donne».
Commenti positivi anche da parte di Cisl e Uil. Se per Raffaele Bonanni quello di Monti è stato «un discorso di alto profilo, completo, come raramente è accaduto negli ultimi anni in parlamento» base per «l’indispensabile patto sociale» che «espliciti in maniera chiara come saranno distribuiti i pesi dei sacrifici che tutto il paese dovrà compiere», per Luigi Angeletti si tratta di «un programma sostanzialmente condivisibile, in particolare, sulla riforma fiscale, per noi prioritaria nella prospettiva della crescita del Paese».


Repubblica 18.11.11
Lo storico Melloni parla di svolta: è bastato che Bagnasco togliesse il veto, ma non sono tutti figli di Todi
"Ruini sbagliava a trattare col governo i cattolici sono tornati protagonisti"
di Marco Ansaldo


Ci troviamo ora con un governo in cui sono le parti solide dell´Italia ad avere preso in mano il Paese dopo la crisi perché l´Italia non è un´azienda

CITTÀ DEL VATICANO «La riapparizione fulminea di una leva cattolica è la dimostrazione di quanto sia stato ingannevole il tentativo del cardinale Camillo Ruini di trattare in prima persona, tra la Cei e il governo. È bastato che i vescovi, con il presidente attuale, il cardinale Angelo Bagnasco, togliessero il veto, quella specie di "non expedit", e la classe cattolica si è presentata naturalmente sulla scena».
Lo storico Alberto Melloni, studioso della Chiesa, oltre che direttore della Fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, non è stupito della forte presenza dei cattolici nel governo Monti. Ma la giudica comunque una svolta. Sia perché al recente convegno di Todi sulla possibile formazione di un nuovo partito di centro, tutti i protagonisti, particolarmente quelli che tennero i discorsi di punta come Riccardi, Passera e Ornaghi che ora sono diventati ministri, misero le mani avanti parlando allora di un´iniziativa semplicemente pre-politica. Sia perché, in futuro, precisamente la loro azione politica sarà misurata dal segno più o meno forte e positivo della Chiesa a favore dell´Italia.
Professor Melloni, perché parla di svolta per la composizione del governo Monti e di bacchetta adoperata dal cardinale Ruini?
«Penso si debbano individuare piani diversi. Ma intanto cominciamo col dire che la svolta c´è già stata con la presa di posizione del cardinale Bagnasco e del segretario della Cei, monsignor Mariano Crociata, sul fatto che la politica non deve essere fatta bacchettando, come invece avveniva prima».
E la Chiesa si prende una responsabilità in questo?
«Sì, ed è una responsabilità che la impegna anche per il futuro, e questo è un tema molto rilevante. Perché se i vescovi si aspettano che la partecipazione dei cattolici sia fatta di ossequio a istanze anche giuste, ma strumentali, significa che prima o poi ci troveremo nei guai come società. Il ruolo di formazione delle coscienze da parte della Chiesa rimane quello decisivo: perché se formi persone per bene, alla fine ti ritrovi a che fare con persone per bene».
Le personalità cattoliche entrate nel nuovo governo lo sono? «Ci sono tante componenti e provenienze diverse: i cattolici liberali come Monti, quelli di base, quelli di parrocchia, un professore e il rettore della Cattolica, presidenti o fondatori di movimenti; uno specchio non solo dell´associazionismo ma di un mondo frastagliato che ha in questo la sua ricchezza».
Ma è normale che sia così: il mondo cattolico è di per sé ampio.
«Infatti non è una contraddizione. E direi che nonostante Todi, non sono tutti "todini", cioè prodotti da quel convegno. Ma gente che ha un mestiere, un profilo. Là si disse che la discussione doveva essere pre-politica: e in quattro settimane alcuni di loro siedono sui banchi del governo».
Ma sono persone "per bene".
«Certamente: ed è uno scarto che si nota, Ma c´è anche una questione di contenuto. Ci troviamo ora con un governo in cui sono le parti solide dell´Italia ad aver preso in mano il Paese dopo la crisi. Perché questo è un Paese vero, non una società o un´azienda, immagine che ci è anche costata».
E il loro impulso potrà durare a lungo, anche oltre la loro azione di governo?
«Questa è la scommessa, per dopodomani, quando anche questo governo nel 2012 o nel 2013 finirà. Cioè quella di riuscire a dare al Paese la percezione che la Chiesa si fida di quello che fa, e della formazione che dà. Perché la questione non è solo di riabilitare l´economia, ma di contribuire a ricomporre la democrazia come valore in sé e non solo come strumento per testare le docilità».

l’Unità 18.11.11
«Contro il governo delle banche»
La generazione della crisi: «L’opposizione siamo noi»
«A chi toccheranno i sacrifici» è l’argomento della protesta che cominciò con l’Onda. Ma non vuole «morire» con Berlusconi
di Mariagrazia Gerina


Non ci fidiamo», grida il ragazzo al megafono, mentre di là dai book blook, i libri colorati di gomma piuma diventati il simbolo di una generazione, parte un simbolico lancio di ortaggi all’indirizzo del nuovo governo. Palazzo Madama, dove Monti sta illustrando il programma con cui incasserà la fiducia, è a pochi metri. È da un anno, che il movimento studentesco non arrivava così vicino ai palazzi del potere. Da quel 14 dicembre del 2010. Quando il governo Berlusconi riuscì per un pugno di Scilipoti a evitare la caduta. E per le vie di Roma, scoppiò la rivolta. Volavano le pietre quel giorno. La tensione era altissima, specie tra i giovanissimi, che avevano creduto nella forza della protesta di fermare, non solo l’odiata legge Gelmini, ma persino la crisi che si stava per abbattere sul paese.
Ieri, il clima era tutt’altro. Quel corteo che, arrivato a pochi metri dal senato, si ricompone e torna indietro, assomiglia a una tregua armata. Al nuovo governo i giovanissimi non intendono fare sconti. Non si fidano dei tecnici. Sentono «Profumo di austerità», come hanno scritto sullo striscione che apriva il corteo, finalmente libero (tra una ordinanza alemanniana e l’altra) di sfilare per le vie di Roma. E non intendono affatto essere loro a pagare i «sacrifici» ulteriori annunciati al paese dal nuovo premier. Anche quello hanno scritto sullo striscione. Austeramente nero. La loro protesta, nel giorno in cui il governo Monti ottiene la fiducia da un arco vasto quasi quanto l’intero parlamento, è l’avvertimento di una generazione che si rappresenta come «unica opposizione nel paese», pronta da subito, senza sigle, a scendere in piazza, contro il nuovo esecutivo.
«Siamo il 99%», dicono, adattando alla situazione italiana lo slogan coniato dagli Occupy fuori da Wall Street: «Vogliamo un governo che si preoccupi di consultare noi e non quell’1% che si trova nei palazzi», rivendicano, invocando «decisioni dal basso» e «un’altra via d’uscita dalla crisi». Quella dettata dalla Bce li vede già sulle barricate. Ma non si fanno illusioni rispetto alla capacità del nuovo esecutivo di trovarne un’altra («questo è il governo della Bce»). Anche se sperano di essere smentiti.
Certo, per la generazione nata politicamente con l’Onda contro l’ultimo esecutivo Berlusconi (e anagraficamente più o meno quando Mr Mediaset decideva di scendere in campo) ritrovarsi in piazza, sapendo che il Cavaliere è stato disarcionato, è in qualche modo spaesante. I numeri, ieri, non erano quelli oceanici di un anno fa. E persino gli slogan rivelano il tentativo di dare una rappresentazione efficace del nuovo «antagonista». «sMontiamoli», provano a scandire. Con Berlusconi, indubbiamente, era più facile.
E però, a guardar bene, il vero leit motiv della loro protesta, dall’Onda in poi, è stata proprio la crisi. Sono stati loro i primi a dire che stava arrivando. A scandire quegli slogan dissonanti con l’ottimismo berlusconiano. È quella consapevolezza che strideva con la colpevole incoscienza del potere ad aver unito, più ancora dell’antiberlusconismo, una intera generazione. Per questo, ieri, in piazza, numeri a parte, non c’erano solo i più estremisti. Ma anche i giovani che votano Pd, come succede da tre anni: «Appoggiare il governo è stato un passo avanti dettato dal senso di responsabilità: ora al Pd chiediamo di non arretrare di un passo sui diritti della nostra generazione», spiega Federico Nastasi, della Run. Un attimo dopo accanto a lui un ragazzino si mette a bruciare la bandiera democratica. «Un brutto gesto isolato», dicono anche quelli che «non si sentono rappresentati da nessuno».
È la crisi ad averli uniti e giurano che non sarà la ricetta per uscirne a dividerli. Sarà vero? Lo spettro comune, ora, si chiama austerità. Visto che la crisi che non volevano pagare, l’hanno già pagata, almeno i sacrifici per uscirne gli studenti chiedono che ricadano altrove. Europa scandiscono è anche investimenti sul diritto allo studio, sulla scuola e sull’università. E almeno su questo chiedono discontinuità al nuovo esecutivo, che sulla riforma Gelmini ha già detto come la pensa. «Sappiamo chi è Monti», dicono gli studenti. «Quello che non sappiamo è come risponderà a questo movimento», concedono il beneficio del dubbio.

il Fatto 18.11.11
Sono affari di Passera
Il ministro non risponde sui conflitti di interesse legati a Banca Intesa. Eppure sono tanti
di Vittorio Malagutti


Conflitto d’interessi? Quale conflitto d’interessi? “Io faccio solo il ministro e non ho niente a che fare con altro”. Parola di Corrado Passera, la superstar del nuovo governo Monti che ieri ha liquidato così il suo ingombrante passato da banchiere. “Vedrete con i fatti”, ha promesso l’ex numero uno di Intesa. Discorso chiuso, quindi. Se ne riparla, forse, quando Passera avrà preso qualche provvedimento. L’indipendenza del nuovo ministro dello Sviluppo economico par di capire andrebbe valutata solo sui fatti concreti. Questa almeno è la posizione del diretto interessato.
QUESTIONE di opinioni, certo. Ma anche di comportamenti concreti. Prendiamo Mario Draghi, che pochi giorni fa ha traslocato dalla poltrona di governatore di Bankitalia a quella di presidente della Bce a Franco-forte. Nel gennaio del 2006, quando Draghi prese il posto di Antonio Fazio in via Nazionale, più di un commentatore fece notare il potenziale conflitto d’interessi del neogovernatore, che dopo aver speso dieci anni come direttore generale del Tesoro a partire dal 2001 si era accasato alla Goldman Sachs, vera superpotenza a stelle e strisce della finanza internazionale. Appena insediato nel nuovo incarico in Bankitalia, Draghi fece sapere con un comunicato di poche righe che “per il periodo di un anno” si sarebbe astenuto “da decisioni concernenti direttamente Goldman Sachs ovvero istituzioni per cui Goldman Sachs agisce o agirà da advisor”. Di più: trascorsi dodici mesi dalla nomina, Draghi promise di astenersi sui provvedimenti “in merito a operazioni in cui Goldman Sachs era stata coinvolta o direttamente o in qualità di advisor” quando il nuovo governatore lavorava per la banca d’affari. Insomma, cinque anni fa Draghi prese il problema di petto e preferì autoescludersi da ogni decisione che avesse anche lontanamente a che fare con il suo vecchio datore di lavoro. Va detto che se Passera decidesse di fare la stessa cosa potrebbe correre il rischio di diventare un ministro nullafacente. Non potrebbe occuparsi di aerei perchè Intesa ha di fatto creato la nuova Alitalia. Dovrebbe starsene zitto a proposito di treni perchè come banchiere ha finanziato i nuovi treni superveloci targati Ntv, cioè Montezemolo e Della Valle. Men che mai Passera potrebbe controfirmare atti riguardanti Telecom Italia di cui Intesa è azionista importante. L’elenco potrebbe continuare a lungo, tali e tante sono le società a cui è legata la banca guidata fino a due giorni fa dal ministro.
INSOMMA, Draghi per primo aveva individuato il problema di un potenziale conflitto d’interessi e lo aveva dribblato con l’astensione. Passera però non può permettersi di imitare l’ex governatore, altrimenti resterebbe disoccupato, e allora chiede di essere giudicato sui fatti concreti. A proposito di fatti concreti si potrebbe per esempio cominciare dai suoi precedenti incarichi. E allora si fanno scoperte interessanti, notizie piuttosto trascurate dalle ampie agiografie circolate in questi giorni. E’ noto per esempio che Passera nel 1998 è approdato alla guida delle Poste. Il manager bocconiano arrivava dall’esperienza di due anni alla guida del Banco Ambroveneto (destinato a trasformarsi in Intesa) e prima ancora dalla lunga militanza nel gruppo De Benedetti. Quest’ultima parentesi si era chiusa nel 1996 in modo piuttosto turbolento, con l’Olivetti che colava a picco in Borsa, e gli costò anche una condanna (patteggiata) a 51 milioni di lire (25 mila euro) per un episodio di falso in bilancio. Una pena poi revocata nel 2003 perchè dopo la riforma berlusconiana quel falso in bilancio non era più un reato. Alle Poste invece Passera trasformò il vecchio carozzone pubblico in un’azienda con bilanci in utile. Alcuni studiosi della materia non hanno però mancato di rilevare che il nuovo amministratore riuscì ad avvantaggiarsi di una riforma del servizio postale che allargava l’area delle attività riservate per legge all’azienda pubblica. In pratica il monopolio fu allargato fino al massimo consentito dalla normativa europea.
LA RIFORMA fu salutata con grande favore da Passera. Il quale, lasciate le Poste e approdato a Intesa, tornò a caldeggiare un monopolio cucito su misura per lui. Nel 2008 il banchiere si fece in quattro per far passare un altro provvedimento come la cosiddetta legge salva Alitalia. Una legge studiata apposta per consentire a Intesa e alla cordata degli imprenditori patrioti di portare a termine con successo il salvataggio della ex compagnia di bandiera. Tra le norme varate in Parlamento nell’estate 2008 dalla maggioranza di centrodestra c’era anche quella che di fatto sospendeva i poteri dell’Antitrust sulla nuova Alitalia.
In questo modo la compagnia finanziata da Intesa ha potuto assorbire AirOne di Carlo Toto conquistando il monopolio della rotta Milano Linate Roma Fiumicino senza subire conseguenze di sorta. Vale la pena ricordare che questa tratta è di gran lunga la più frequentata e redditizia di tutto il mercato nazionale. Una tratta ora gestita in regime di monopolio dalla nuova Alitalia. Grazie a Berlusconi. E a Passera. Il quale da ministro diventerà di sicuro un campione delle liberalizzazioni. Ma questo è un altro discorso, direbbe il banchiere. Pardon, ministro.

il Fatto 18.11.11
Velina di governo
Per certi giornali il silenzio è d’oro


La notizia dei potenziali conflitti d’interessi di Corrado Passera non è pervenuta ai grandi giornali. Che all’unisono lo incensano. “Da banchiere a superministro”, titola La Stampa, valorizzando le prime parole famose del nuovo titolare di Sviluppo economico e Infrastrutture: “Crescita sostenibile, creazione di posti di lavoro”, è l’attacco dell’articolo. La Repubblica, quotidiano del maestro di Passera, Carlo De Benedetti, rilancia lo slogan. Stesso attacco: “Crescita sostenibile, creazione di posti di lavoro”. Il Corriere della sera si differenzia. Attacco del pezzo: “Sviluppo sostenibile e posti di lavoro”. Poi in un altro articolo si accorge meritoriamente dei conflitti d’interesse di Passera, elencando tutti i clienti di Intesa Sanpaolo su cui dovrà prendere decisioni. Ma a un metro dal traguardo inciampa, e ci spiega che il problema l’ha risolto dimettendosi dalla banca. Ecco fatto.

Corriere della Sera 18.11.11
Lettera aperta al banchiere diventato membro del governo
di Massimo Mucchetti


Signor ministro,
il governo Monti ha una legittimità piena, ma indiretta. Riscuote la fiducia del Parlamento, ma i ministri, non essendo parlamentari, sono privi del viatico elettorale. Questa condizione, inevitabile nell'emergenza, accentua il dovere di essere trasparenti.
Un titolare dello Sviluppo e delle Infrastrutture, che prima faceva il banchiere, può dover prendere decisioni che coinvolgono le sue passate scelte professionali.
Lei non è azionista di rilievo di Intesa Sanpaolo. Ha ragione di negarsi al paragone con l'ex premier, azionista di riferimento di una grande impresa, Mediaset, regolata dalla legge. Non di meno l'opinione pubblica vuole essere tranquilla sul fatto che le decisioni del governo servano sempre l'interesse generale. Il suo non è dunque un conflitto d'interessi pesante, a radice patrimoniale, ma un conflitto più leggero, di tipo manageriale. E tuttavia chi si è scottato teme anche l'acqua tiepida. Lei e i suoi colleghi abbandonerete i consigli di amministrazione, è ovvio. Ma il Corriere guarderà anche ad altro. Senza pregiudizi né sconti.
Nell'agosto 2006, Giovanni Bazoli disse che Intesa Sanpaolo sarebbe stata la Banca del Paese, non certo una Goldman Sachs. Poi, con Generali e Mediobanca, entrò in Telecom Italia per evitare che Telefonica ne diventasse padrona. Mario Monti paventò un «governo occulto» delle banche, contigue alla politica. «Parole infelici», commentò lei. Ora Monti l'ha chiamata al governo, archiviando quel dissenso. E le deleghe che le ha assegnato fanno supporre che, dopo il salvataggio della finanza occidentale a spese dei contribuenti, si sia un po' ricreduto. Del resto, quando una banca riunisce attivi pari al 40% del Pil, si lega al progresso generale del Paese e deve avere il senso della misura. Resta che le singole scelte dell'ex banchiere andranno giudicate una per una, in special modo se rimontano alla vita precedente.
Alitalia, per esempio. Intesa ha lavorato per il governo Berlusconi che aveva azzerato la cessione ad Air France preparata dal governo Prodi. Tre anni dopo, la ristrutturazione aziendale è fatta. E tuttavia la società non è in grado di remunerare il capitale investito. L'operazione tripartita su Telecom, pur criticabile sul piano finanziario, ha evitato al Paese di perdere la presa su una grande impresa strategica, che può crescere. Alitalia ha conti diversi. Logica vorrebbe che Air France l'assorbisse, e amen. Il governo Monti considererà Alitalia un campione nazionale su cui intervenire?
Ntv-Nuovo trasporto viaggiatori. Alta velocità. Intesa è azionista e finanziatrice dello sfidante delle Fs-Ferrovie italiane dello Stato. In ritardo sulle tabelle di marcia, e dunque a rischio di sforare i covenant, ovvero le clausole contrattuali di garanzia, che tutelano la banca creditrice, Montezemolo e Della Valle accusano Moretti di infilare i bastoni del monopolio tra le ruote di Italo, il loro treno. Il signor Frecciarossa sostiene che i due, spalleggiati dal monopolio ferroviario francese, hanno commesso errori operativi. Aggiunge che mollerà l'infrastruttura quando anche Parigi lo farà e darà le stesse aperture dell'Italia. Ecco un bel tema per il ministro delle Infrastrutture e anche per il premier, che con l'interim dell'Economia è l'azionista unico di Fs.
Parentesi sindacale: Alitalia e Fs chiedono l'adozione di contratti di lavoro nazionali. Ammettono intese migliorative aziendali, ma non la giungla e il dumping sociale di oggi. Linee aeree low cost e Ntv si oppongono. Marchionneggiando. Da che parte starà il ministro del Welfare, Elsa Fornero, già vicepresidente di Intesa? Qui, e sul fronte Fiat di cui la banca è storica creditrice?
Per finire, il rapporto con Banca d'Italia. Negli anni berlusconiani, tra governo e Banca centrale c'è stata una profonda e pericolosa diffidenza. Con il doppio cambio della guardia si potrebbe ritrovare la fiducia e voltare pagina. Due emergenze impellenti lo richiedono. La prima è la revisione delle disposizioni dell'Eba (European Banking Authority) su come le banche devono contabilizzare i titoli di Stato. Ne vengono penalizzate sia le banche sia il Tesoro. La seconda emergenza sono gli aumenti di capitale delle banche, ormai inevitabili.
Da sempre le banche vorrebbero vendere alla Banca d'Italia le quote di capitale della medesima, che detengono senza guadagnare come del resto è giusto che sia. Governatore Mario Draghi, si era arrivati vicini a un accordo che avrebbe procurato al sistema bancario 8-10 miliardi creando, al tempo stesso, un mercato delle quote sotto la ferrea supervisione di via Nazionale. Enrico Salza, ai tempi banchiere in Intesa, aveva proposto un modo per girare anche alle altre banche parte del beneficio, concentrato al 42% su Intesa Sanpaolo e al 22% su Unicredit. Un'idea lungimirante e generosa. Che oggi, dati i tempi, potrebbe piacere meno a Ca' de Sass. L'ombra di Tremonti, che si temeva potesse approfittarne per ledere l'indipendenza della Banca centrale e, magari, sottrarle patrimonio, fermò tutto. Ma nell'autunno 2011?
Di questo passo, mentre si riparla di privatizzazioni, si corre il rischio di sacrificare senza un disegno gran parte delle fondazioni bancarie, alleate del governo nella Cassa depositi e prestiti, e poi, ove non bastasse, di dover nazionalizzare le banche. A parlare con la Banca d'Italia sono di solito il premier e il ministro dell'Economia, ma nel Comitato interministeriale per il credito e il risparmio siede anche il ministro dello Sviluppo. Che viene dall'unica banca non obbligata ad aumentare il capitale.

il Fatto 18.11.11
Severino-pensiero, il più amato da B.
Dalle intercettazioni ai collaboratori di giustizia: le lnee del guardasigilli
di Gianni Barbacetto


Le intercettazioni telefoniche? Invadono la vita privata dei cittadini e impigriscono i magistrati. I collaboratori di giustizia? Sono un “male” (anche se “un male necessario”). Le manette agli evasori? Sono un “uso distorto dello strumento penale”. Le condanne per gli infortuni sul lavoro? Eccessive quando l'incidente è dovuto “a scelte imprevedibili dell’infortunato”. I magistrati? Inclini alla “spettacolarizzazione del processo”. È questo il Severino-pensiero.
LE ESTERNAZIONI del neoministro della Giustizia Paola Severino, nei suoi interventi, nelle sue interviste e nei suoi editoriali sul Messaggero, negli ultimi anni riprendono e sviluppano tutti i luoghi comuni sulla giustizia del berlusconismo di destra e di sinistra. Le intercettazioni telefoniche (Il Messaggero, 6 giugno 2008) hanno “rilevantissimo costo, pari al 33 per cento delle spese di giustizia” (falso). Inducono inoltre nei magistrati una “perdita di capacità nell’utilizzo di tecniche investigative tradizionali”. Come dire ai medici: smettete di usare la tac e la risonanza magnetica, che vi fanno perdere la capacità di auscultare i pazienti con lo stetoscopio. E poi via con tutte le banalità sulle intercettazioni ripetute mille volte: invadono la vita privata, travolgono “qualunque forma di tutela della riservatezza”, vengono pubblicate “infrangendo il segreto investigativo”, fanno finire sui giornali “conversazioni del tutto prive di rilevanza penale”, nella “ricerca irrefrenabile di aspetti solo scandalistici in vicende giudiziarie”.
I collaboratori di giustizia per Paola Severino sono un “male”, benché “necessario”, e hanno effetti “simili a quelli della chemioterapia nel corpo di un ammalato di tumore, e cioè a volte peggiori delle manifestazioni della malattia” (Il Messaggero, 12 marzo 2000). Così la collaborazione di Giovanni Brusca ha avuto pessimi effetti: “l’imbarbarimento del sistema, lo svuotamento graduale della funzione investigativa” e, per i magistrati, “l’adagiamento nel comodo ruolo di collettore di confessioni mai disinteressate e a volte suggerite da scopi che nulla hanno a che vedere con la giustizia”. La collaborazione, del resto, “non può trasformarsi in un salvacondotto verso la libertà e tantomeno in una via di accesso a privilegi economici e personali assolutamente ingiustificati”. Urgono dunque riforme: “Non ci si può accontentare della semplice pluralità e concordanza” delle chiamate in correità. Sarebbe la fine delle collaborazioni di giustizia.
IL NEOMINISTRO, avvocato di Francesco Gaetano Caltagirone e di sua figlia Azzurra, è anche editorialista sul giornale di Caltagirone, Il Messaggero. Così è capitato che commentasse sulle colonne del quotidiano le sentenze del suo editore, ottenute in processi in cui lo aveva difeso in aula. Sull’evasione fiscale, Severino scavalca anche il duo Berlusconi-Tremonti. Quando il ministro uscente dell’Economia, nel settembre scorso, prova a varare una norma che per un’evasione superiore ai tre milioni di euro tolga la possibilità di ottenere la condizionale (e dunque in caso di condanna manda l’evasore in carcere, con esecuzione immediata), lei insorge e dice, lapidaria: “È un uso distorto dello strumento penale” (Il Messaggero, 6 settembre 2011). A proposito degli incidenti sul lavoro chiede “più sicurezza, ma senza eccessi” (Sole 24 ore, 25 aprile 2009). No alla giurisprudenza che rende automatica e oggettiva l’identificazione tra infortunio sul lavoro e responsabilità penale di chi deve garantire la sicurezza del lavoratore. Sì invece a “dare garanzie a chi fa rispettare le regole, se l’incidente è dovuto a scelte imprevedibili dell’infortunato”. Così parlò Paola Severino, avvocato e professore. Ora è ministro della Repubblica.

il Fatto Saturno 18.11.11
Beni culturali
L’unico ministro che non è un tecnico
di Tomaso Montanari


IL PROBLEMA non è certo la persona di Lorenzo Ornaghi. Il problema è che il patrimonio storico-artistico gode di una considerazione prossima allo zero presso la maggior parte della classe dirigente del Paese, ed evidentemente Mario Monti non fa eccezione. Se le cose non stessero così, non si spiegherebbe perché quello per i Beni e le attività culturali è il solo ministero su dodici che non verrà retto da un tecnico, ma da un rispettabilissimo signore che è competente di tutt’altro: uno scienziato della politica, rettore dell’Università Cattolica e vicepresidente del quotidiano dei vescovi «Avvenire». Come ai tempi della Prima Repubblica, i Beni Culturali tornano ad essere una cassa di espansione in cui far defluire le tensioni collegate alla formazione dei governi. Ornaghi – scrive il «Giornale» – era voluto al governo «personalmente dal cardinal Bagnasco», e quando lo si è dovuto spostare dalla Pubblica Istruzione cui era destinato, si è trovato naturale dargli i Beni Culturali. E questo sia perché si tratta di un ministero-cenerentola, sia perché è tremendamente radicata l’idea che non esista un tecnico della tutela: che non occorra, cioè, essere storici dell’arte per occuparsi delle opere d’arte. Tanto, come diceva amaramente Benedetto Croce, «l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia». Ed è anche per questo che il patrimonio storico e artistico della nazione cade a pezzi, nonostante la tutela costituzionale. Sia chiaro, Monti non ha inventato nulla, si è limitato ad aderire all’infausta interpretazione veltroniana di un ministero in cui le «attività culturali» contano quanto (o più) dei «beni culturali»: un vago “Ministero della cultura” votato ad intrattenere gli italiani organizzandone il tempo libero. Come tutti gli italiani hanno appreso dalle indiscrezioni sui nomi considerati da Monti, non mancava un tecnico perfetto: Salvatore Settis. Il suo altissimo profilo avrebbe, tra l’altro, permesso di fondere il ministero dell’Ambiente e quello per i Beni culturali: affidando così ad un’unica autorità la tutela e il risanamento di quell’unico organismo vivo che è il territorio, il paesaggio e il patrimonio storico-artistico italiano. Ma Angelino Alfano ha sentenziato che dovevano essere «esclusi coloro che avessero fatto del loro impegno una militanza antigovernativa» (Asca, 13 novembre): e il fatto che Settis avesse denunciato la sottrazione di un miliardo e trecento milioni di euro dal bilancio dei Beni culturali ad opera del duo Tremonti-Bondi deve essere stato considerato un imperdonabile atto di militanza. Ora non ci si può che augurare che Ornaghi impari presto e bene: che legga e ascolti i tecnici veri; che rinnovi a tamburo battente i ruoli chiave del ministero (capo di gabinetto, segretario generale, comitati tecnici), inquinati o asserviti da anni di berlusconismo; che incrementi il bilancio; che proceda ad assumere i tantissimi giovani storici dell’arte e archeologi già idonei; che rinforzi le soprintendenze; che non ceda alle pretese ecclesiastiche sui beni culturali religiosi appartenenti allo Stato; e che faccia molto altro ancora. E che Dio (e il Vaticano) ce la mandino buona.

Corriere della Sera 18.11.11
Ora trasparenza, pubblicate i redditi
di Sergio Rizzo


Il 24 novembre dello scorso anno David Cameron ha ricevuto una donazione di 3.250 sterline dal famoso personal trainer Matt Roberts, che non gli ha fatto pagare 25 sedute del costo di 130 sterline l'una. Il premier inglese ha però fatto una donazione di pari importo a un'associazione benefica indicatagli dallo stesso Roberts. Si tratta di notizie facilmente reperibili nel sito del Parlamento inglese. Insieme a tutto ciò che riguarda la situazione patrimoniale del premier britannico, i suoi investimenti, i suoi finanziatori, i benefit di cui gode, come l'iscrizione gratuita al Carlton club in quanto «leader del partito conservatore»: controvalore, 1.125 sterline l'anno.
Questo vale per Cameron come per tutti i parlamentari e i membri del governo inglese. Senza eccezione alcuna: tutto su internet, tutto accessibile e consultabile con un click. Nel Regno Unito, dove non esiste nemmeno una legge che regolamenta il conflitto d'interessi, tanto è radicata l'abitudine al rispetto di alcuni principi basilari a cui la politica si dovrebbe attenere ovunque, funziona così. Funziona così anche negli Stati Uniti, dove i parlamentari sono obbligati a rendere pubblici tutti i singoli rapporti che intrattengono con lobbisti, imprese e gruppi di interesse. E funziona più o meno così anche in Germania.
In Italia, invece, no. I redditi di deputati e senatori vengono resi pubblici una volta l'anno e per vedere le loro dichiarazioni dei redditi bisogna recarsi materialmente in un ufficio a Roma, senza poter nemmeno fare le fotocopie. Non parliamo poi dei contributi «privati» versati ai politici e ai partiti, che in base alla legge possono restare riservati fino a 50 mila euro. Da un po' di tempo qualche coraggioso parlamentare ha volontariamente pubblicato i propri redditi nella pagina personale del sito istituzionale. Ma Londra è ancora lontana anni luce. E tale è destinata a restare per un bel pezzo, a meno che un segnale non arrivi proprio dal governo di Mario Monti. Il primo regalo che il nuovo esecutivo dei professori o «dei banchieri», come qualcuno l'ha subito battezzato, potrebbe fare agli italiani è quello della trasparenza. Cominciando dai propri componenti. Molti dai quali assolutamente facoltosi. Trovandosi, per di più, al centro di reti estese di interessi rilevanti, come dimostrano alcuni casi lampanti.
Il ministro dello Sviluppo e delle Infrastrutture e Trasporti, Corrado Passera, ha guidato per anni una banca, Intesa Sanpaolo, divenuta in seguito a operazioni volute dal suo amministratore delegato azionista di aziende di trasporto quali Alitalia e Ntv. Concorrente, quest'ultima, delle Ferrovie dello Stato: azienda pubblica su cui lo stesso Passera ha ora poteri di vigilanza. Il ministro ha percepito nel 2010 dalla sua ex banca una retribuzione di 3,8 milioni di euro. E ora gli toccherà probabilmente una non trascurabile liquidazione (comprensiva di stock option?).
Il ministro del Turismo e dello Sport, Piero Gnudi, è uno dei professionisti più potenti del Paese. Per anni è stato presidente dell'Enel e consigliere di una moltitudine di aziende private. Ma nell'elenco sterminato dei suoi clienti c'è metà dell'Italia che conta.
La titolare della Giustizia, Paola Severino, penalista di calibro assoluto, dichiarava al Fisco già alla fine degli anni Novanta somme dell'ordine di grandezza dei tre miliardi di lire. Il suo studio legale ha assistito personalità come Romano Prodi, aziende private quali il gruppo Caltagirone, oltre a imprese pubbliche (Eni e Rai) controllate dal governo di cui ora fa parte.
E potremmo andare avanti, ricordando che la stessa Elsa Fornero, ministro del Lavoro, già vicepresidente del consiglio di sorveglianza della ex banca di Passera, è considerata una delle più brave (e ricercate) esperte di un settore che adesso è chiamata a governare.
Per sciogliere tutti i nodi che inevitabilmente potrebbero venire al pettine non c'è che un modo. I nostri ministri pubblichino tutto su internet: i loro redditi, i rapporti professionali recenti e quelli che sono stati interrotti dall'ingresso nel governo, le eventuali relazioni con imprese o gruppi di pressione, i patrimoni personali. Renderebbero per prima cosa un servizio importante a tutti noi. E aprirebbero per una volta tanto le finestre del Palazzo. Che ha un disperato bisogno di cambiare l'aria troppo viziata.

Corriere della Sera 18.11.11
E al grido «poteri forti» trionfa il complottismo
di Pierluigi Battista


La formazione del nuovo governo Monti è il paradiso dei complottisti. Il trionfo di chi pensa al mondo come a una grande trama occulta, alla Banca come il pilastro di un tenebroso «nuovo ordine mondiale». L'apoteosi di nomi e sigle suggestive e terrificanti. Goldman Sachs. Trilateral. Rockfeller. E poi gli gnomi. Di Zurigo, che non è un luogo esotico ma sa di finanza strapotente.
I siti «anti-mondialisti» e «altro-mondialisti» menano le danze. È festa per i blogger. Il complottismo scardina linee divisorie tra destra e sinistra. Perfino Le Monde, si legge sul Fatto quotidiano, intravvede nelle biografie di Mario Draghi, Mario Monti e Lucas Papademos la prova dei disegni nascosti maturati «nei piani più alti della banca d'affari Goldman Sachs» e cioè «per una volta il documentatissimo quotidiano francese vicino alla sinistra si trova d'accordo con i nostrani Giornale, Libero o il Manifesto». Anche se è proprio quell'accordo trasversale, quella nuova sintonia anti-banche e anti-finanza tra giornali di destra e giornali di sinistra, il capitolo più recente della fenomenologia cospirazionista. Una mescolanza in cui si tengono a braccetto il Bertolt Brecht che sosteneva essere molto peggio e più delittuosa la «fondazione» di una banca di una «rapina» in banca e l'Ezra Pound che lanciava invettive e versi in odio all'«usurocrazia» che stava infestando il mondo. Indignados di sinistra e populisti di destra uniti nell'ostilità per le banche, i banchieri, per quelli che Errico Buonanno, autore di una ricostruzione storica dettagliatissima della complottomania intitolata «Sarà vero» (Einaudi), traduce con la formula: «I padroni segreti del mondo che tirano le fila di tutte le cose».
Certo, non è che i complotti non esistano. E il film «Il complotto» dimostra che tra le tante stramberie fantasiose, ogni tanto qualche complotto vero va a segno. Poi le banche hanno meritato negli ultimi anni molta sincera ostilità, a cominciare dallo spettacolo delle strabilianti stock-option di cui hanno goduto i loro vertici. Inoltre è legittimo che si possano nutrire sospetti sul conflitto di interessi esibito dai banchieri che, come Corrado Passera, diventano ministri, e sarebbe stolto che questo giornale non lo riconoscesse con onestà intellettuale. Ma il complottismo non giudica i fatti: li colloca in un quadro gigantesco in cui tutto si tiene, tutto è manovrato, tutto è diverso da ciò che appare, tutto è occulto, inconfessabile. Se in Italia la palma del complottista più acceso sull'11 settembre è andata a Giulietto Chiesa, oggi il primato è saldamente nelle mani del blogger Claudio Messora, diventato famoso con la trasmissione di Michele Santoro e le cui tesi sono state oggetto di un violento diverbio nel corso di una puntata di «Matrix». È stato lui a svelare la occulta connessione che legherebbe Monti (e altri ex advisors della Goldman Sachs come Draghi e Papademos) a misteriosi centri dello strapotere mondiale come la Trilateral di Rockfeller e il gruppo Bilderberg, in una cui riunione segreta svoltasi a St. Moritz sarebbe stata messa a punto la grande ragnatela, la grande congiura, la definitiva conquista del potere della tecnocrazia bancocentrica, la dittatura finanziaria.
Per prendere decisioni contrarie alla volontà popolare «i poteri forti» avrebbero tramato (il condizionale è nostro, i complottisti non conoscono dubbi e condizionali) per «requisire» il diritto dei popoli ad una «rappresentanza democratica». Argomento formidabile, che ne spiega l'attrattiva nei confronti di mondi molto diversi tra loro, destra e sinistra, ma accomunati da una affine ostilità verso il capitalismo «finanziario». Ma non un argomento nuovo. Nel suo strepitoso «Un mondo di cospiratori» (Adelphi) Mordecai Richler raccontò il suo incontro con un campione del complottismo che spiegava così il silenzio tenuto dai media sulle sue mirabolanti teorie: «Vede, il fatto è che i Rockfeller, attraverso la Chase Manhattan Bank, controllano tutti e tre i network nazionali, e hanno il pacchetto di maggioranza della United». Se il complottista viene smentito dai fatti, è perché chi riesce a smentire la teoria fa parte anche lui del complotto: è il meccanismo micidiale descritto da Buonanno. Nessuno leverà dalla testa del complottista moderno che se non si dà credito al complotto, vuol dire che qualche padrone occulto o palese (le banche, il grande capitale, il gruppo Bilderberg) impedisce alla verità di emergere.
Sarebbe troppo ingeneroso e facile richiamare il solito paragone con le invettive mussoliniane contro le «plutocrazie» massoniche eccetera eccetera, ma è difficile non registrare la prontezza con cui i complottisti hanno colto l'occasione per mettere l'idra bancaria mondiale sul banco degli imputati. Gli eterni sospettati di disegni maligni e perversi. Che fanno e disfano governi, come al solito. E ora, in Grecia e in Italia, ne avrebbero fatti due, dopo aver disfatto quelli precedenti. Il grande complotto dei «padroni segreti del mondo». Altre puntate seguiranno.

il Fatto 18.11.11
Catalogo per la giustizia malata
di Gian Carlo Caselli


La giustizia italiana è un malato grave, e al suo capezzale si affollano da tempo medici prodighi di ricette. Certamente il neo Guardasigilli Paola Severino ne conosce di ottime. E la pretesa di indirizzarle qualche suggerimento può assomigliare (secondo un noto proverbio piemontese) a quella di insegnare ai gatti ad arrampicarsi. Ma non resistendo alla tentazione, proverò ad esporre alcune proposte. Un primo “catalogo” potrebbe essere questo:
La prescrizione non operi più una volta esercitata l’azione penale ( o quanto meno dalla sentenza di primo grado ovvero di appello).
Si dia pieno ed incondizionato valore alle notifiche al difensore di fiducia, senza possibilità di opzioni come oggi previsto dall’art. 157 comma 8 bis cpp.
Si preveda la possibilità di archiviazione per irrilevanza del fatto, affidando al Giudice delle indagini preliminari la decisione sulla richiesta del PM, così da evitare il rischio di archiviazioni arbitrarie e incontrollate. Sulla falsariga di quanto già previsto per il giudice di pace, l’archiviazione dovrebbe riguardare i casi in cui non emerga un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento ed il fatto risulti di particolare tenuità, in considerazione dell’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché della sua occasionalità, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta alle indagini. In questo modo sarebbero realizzati enormi risparmi e si razionalizzerebbe la situazione attuale, che vede il PM inevitabilmente costretto ad operare alcune scelte di priorità, a meno di affidare le decisioni sulla sorte del fascicolo alla mera casualità o all’indiscriminato decorso del tempo. Sono da depenalizzare tutte le contravvenzioni ed i delitti puniti con la sola multa ovvero con pena alternativa, ovviamente riqualificando in misura sensibile talune fattispecie di reato come ad es. gli art. 290, 291 cp ed in genere i reati in materia ambientale ed edilizia.
La nostra legislazione va adeguata senza ulteriori ritardi agli strumenti normativi elaborati da tempo in sede Ue e Consiglio d’Europa (cooperazione giudiziaria, squadre investigative comuni, confisca internazionale, corruzione, auto-riciclaggio, etc.) Le Sezioni di P. G. presso le Procure siano incrementate anche solo di qualche unità. Si intervenga sulla legge (quanto meno sui suoi tempi di applicazione) che impone entro la fine dell’anno – per tutti e di colpo – la rotazione nei gruppi di lavoro delle Procure dopo 10 anni di permanenza in uno di essi. La riforma determinerà una perdita secca di professionalità e di memoria storica di certi fenomeni criminali. Basti pensare che il gruppo di Torino facente capo a Raffaele Guariniello (noto su scala nazionale per gli eccellenti interventi a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro) subirà conseguenze nefaste per il trasferimento di ben 6 Pm su 9.
Per il personale amministrativo, è assolutamente indispensabile riaprire i concorsi fermi da anni (per la sola Procura di Torino la scopertura del personale di fatto supera il 13%) ; – in ogni caso occorre estendere e semplificare la possibilità della mobilità con altre amministrazioni dello Stato –: in via temporanea va allargata la possibilità di utilizzare, con modesta integrazione salariale, il personale in cassa integrazione.
Indifferibile, se si vogliono recuperare risorse, è la revisione delle Circoscrizioni giudiziarie, sopprimendo o accorpando i tribunali e le procure “inutili”.
La realizzazione di una “procura nazionale esperta dedicata per la salute e sicurezza” sarebbe assai utile per diffondere buone pratiche per far convergere in un punto dello stesso sistema giudiziario tutte le conoscenze utili a giudicare i comportamenti patologici.
Quanto ai Magistrati onorari, vanno ampliate con legge (codificando una circolare del CSM) le possibilità di impiego dei GOT nel processo penale, attualmente consentito nei soli casi di impedimento o di mancanza di giudici ordinari; – per i Vice procuratori onorari va prevista una riforma organica che consenta una stabilizzazione maggiore di quella attuale e la possibilità di recupero attraverso concorsi riservati di almeno una parte dei VPO già in servizio, per non disperdere un patrimonio di conoscenza e di esperienza che oggi consente alle Procure (e di conseguenza ai Tribunali) di svolgere le quotidiane udienze.
Come si vede, non si tratta di un libro dei sogni né di proposte demagogiche, ma semplicemente di riforme che potrebbero realizzarsi subito e quasi sempre a costo zero. Con notevoli benefici sulla funzionalità e l’efficienza del servizio giustizia e mettendo da parte – finalmente – la mortificazione della magistratura travestita da pseudo riforma della giustizia.

 

La Stampa 18.11.11
Un patto per la giustizia civile
di Vladimiro Zagrebelsky


Il clamore delle discussioni e dei contrasti attorno alla giustizia penale, e a un certo numero di processi in particolare, ha oscurato, ormai da molti anni, l’attenzione che merita l’altro ramo della giustizia ordinaria, quello della giustizia civile. Eppure è soprattutto questa che più soffre e che maggiormente espone l’Italia alle critiche e alle condanne provenienti dall’Europa e dagli organismi internazionali. Nell’amministrazione della giustizia penale sono certo in gioco interessi e diritti fondamentali: la libertà, il patrimonio, l'onore delle persone che vi sono implicate. Ma le controversie civili riguardano tutti i cittadini nella loro vita ordinaria, quella privata e quella familiare, il lavoro, le attività commerciali. Si tratta di campi in cui vengono in discussione diritti fondamentali delle persone: diritti che sono offesi o addirittura negati se non è assicurato un efficiente servizio giustizia.
Sono ormai trent’anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per non aver assicurato la conclusione di procedimenti in tempi ragionevoli. E la Corte ha dovuto constatare che non si tratta solo di numerose violazioni singole, ma di una pratica sistematica. È il sistema nel suo complesso che non è in grado di produrre sentenze in tempi ragionevoli. Si tratta di una carenza strutturale che incide sui diritti, che sono oggetto delle controversie civili. Ed è, per l’Italia, insieme alle condizioni delle carceri e al trattamento degli immigrati, il tema che più la espone sul fronte della protezione dei diritti fondamentali.
Le denunzie e le richieste di riforme capaci di risolvere questo problema, non hanno fino ad ora avuto risposte efficaci. Da qualche tempo però si sono levate altre voci critiche, mosse da considerazioni di natura economica. È possibile che in questo, come in altri campi, l’urgenza economica spinga ad affrontare problemi che questioni di principio non sono riuscite a smuovere? Cerchiamo di non perdere anche l’occasione che si presenta con il nuovo governo. Il presidente Monti ne ha fatto menzione nel discorso programmatico al Senato.
Il governatore della Banca d’Italia Draghi, nelle sue Considerazioni finali dello scorso 31 maggio, ha indicato in un punto percentuale del Pil annuo la possibile incidenza negativa della disfunzione della giustizia civile. Una quantificazione frutto di calcoli difficili e presuntivi, che indica comunque un ordine di grandezza allarmante e tale da rendere interessante, anche solo dal punto di vista economico, un incisivo impegno di riforma.
Pendono in Italia oltre cinque milioni e mezzo di processi civili. La loro distribuzione sul territorio, tra i diversi uffici giudiziari, è molto diseguale e apparentemente senza rapporto con il traffico economico e con l’entità e composizione sociale della popolazione. Così ad esempio nel territorio della Corte d’Appello di Torino pendono circa 175.000 procedimenti, mentre nel territorio di quella di Bari ne sono pendenti quasi 500.000. Nella Corte d’Appello di Milano pendono circa 330.000 procedimenti, mentre in quella di Napoli ve ne sono oltre un milione (il 20% del totale nazionale) e a Roma oltre 800.000. Numeri che non sembrano riflettere differenze oggettive dei vari territori. Solo differenze legate alla maggiore o minore litigiosità locale? Difficile crederlo. C’è da chiedersi, ad esempio se sempre e dappertutto le cause civili da cancellare dal ruolo scompaiano effettivamente dalle statistiche o invece continuino a mettere in mostra un carico di lavoro maggiore del reale (e quindi meritevole di maggiori organici di personale e maggiori risorse). Oppure se le cause seriali, che andrebbero riunite e rapidamente definite, sono invece separatamente introdotte dagli avvocati e tali mantenute dai magistrati. Domande cui occorre dare risposta per poter apprestare rimedi. Perché le differenze di produttività degli uffici sono davvero impressionanti, certo legate a problemi di organizzazione degli uffici giudiziari e di modo d'essere e di agire dell’avvocatura locale. La giacenza media delle cause civili risulta di 280 giorni al Tribunale di Torino, di 304 a Milano, di 365 a Roma, di 449 a Napoli e di 776 Bari.
Come ha recentemente ricordato il vicepresidente del Csm Vietti, riprendendo dati del Consiglio d’Europa in un suo agile e utile libro sull’amministrazione della giustizia, non v’è un problema generale di produttività dei magistrati italiani. Ma occorre assicurare che tutti gli uffici giudiziari lavorino allineandosi sui migliori standard di produttività già presenti in Italia (e lo strumento del processo telematico va generalizzato). Il ministro della Giustizia, responsabile per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi, ha la possibilità di avvalersi di esperti di scienza dell’organizzazione e di analisi economica, da mettere accanto a magistrati ed avvocati per identificare le pratiche virtuose e diffonderle (con opportuno uso di sollecitazione e autorità). Il Csm, pur in un ambito di competenza diverso, ha accumulato una notevole esperienza in proposito e potrebbe svolgere un’utile opera in coordinamento con quella del ministero. È però chiaro che è necessario intervenire in modo integrato su tutti i lati dell’universo giudiziario, non esclusi gli avvocati. Non si può infatti ignorare che vi è una componente patologica della domanda di giustizia civile, che pone l’Italia ai primissimi posti tra i Paesi del Consiglio d’Europa per numero di cause iniziate, e che l’avvocatura può esercitare una funzione di filtro delle cause ingiustificate oppure di moltiplicazione di esse. In proposito, ad esempio, Daniela Marchesi, esperta di analisi economica del diritto, ha sottolineato l’incidenza del metodo di calcolo delle tariffe professionali, come incentivo alla moltiplicazione delle cause civili. La lotta alla «componente patologica» deve accompagnarsi ad iniziative di riduzione di quella «fisiologica». Se in altri Paesi europei la quantità di cause introdotte presso i giudici è minore, è anche perché sono disponibili e funzionano mezzi alternativi di risoluzione delle controversie. La recente legge che ha previsto l’obbligo di esperire un tentativo di mediazione tra le parti, prima di investire il giudice, sta cominciando a dare i primi risultati positivi. I centri di mediazione delle Camere di commercio danno in genere buoni risultati. Ma anche qui vi sono grandi diversità sul territorio. Il ministero potrebbe forse operare per far sì che tutti gli Ordini degli avvocati aprano i centri per la mediazione. Al nuovo ministro si presenta un lavoro complesso e difficile. Le condizioni di urgenza nazionale potrebbero però darle la forza che è mancata ai ministri che l’hanno preceduta.

l’Unità 18.11.11
Fnsi e cdr a Monti: salvi il pluralismo


Allarme rosso per l’editoria e in particolare per quella non profit e di idee. Il pluralismo è in pericolo. Se ne faccia carico il governo Monti. Lo ha ribadito la conferenza nazionale dei comitati e fiduciari di redazione che si è riunita a Roma lo scorso 16 novembre 2011. Nel documento finale si esprime, infatti, «la più profonda preoccupazione per la situazione che, nell’ambito della più generale crisi del paese, caratterizza il settore dell’editoria dal punto di vista imprenditoriale e del lavoro professionale dei giornalisti». «Vicende come quella dell’incertezza sul finanziamento pubblico dell’editoria si sottolinea dimostrano a quali disastri porti l’assenza di una seria politica di governo del settore».
Al centro dei lavori, aperti dal segretario Fnsi Franco Siddi e dalle relazioni del giuslavorista Gianni Loy e del direttore della Fnsi, Giancarlo Tartaglia, vi è stata la denuncia per la stabilità dell’occupazione rappresentata dall’articolo 8 del la legge 148/2011, la «manovra bis» recentemente approvata dal Parlamento, con il quale attraverso la «contrattazione di prossimità» sono state introdotte deroghe alle tutele assicurate dai contratti nazionali e dalle stesse leggi. Su questo provvedimento i Cdr hanno espresso un giudizio «fortemente negativo» e hanno chiesto al nuovo governo Monti di elaborare, «con il contributo e la partecipazione del sindacato e della categoria tutta, una politica di sostegno e sviluppo dell’editoria anche attraverso provvedimenti di riforma reale, che ne affronti le distorsioni e ne avvii il risanamento, mettendo al centro i diritti del lavoro».
I comitati di redazione e i fiduciari hanno preso un doppio impegno: non daranno corso alla contrattazione di prossimita prevista dall’articolo 8 e promuoveranno «tutte le iniziative utili al superamento di questa normativa, fino a sostenere un referendum abrogativo». Un altro terreno di iniziativa sindacale sarà a tutela del lavoro autonomo e dei «collaboratori», che negli ultimi anni ha visto crescere fortemente la presenza nel giornalismo italiano» e subire i colpi pesanti delle crisi redazionali.


il Fatto 18.11.11
Diritto al velo (che non mi piace)
di Bruno Tinti


Un giudice di Torino, qualche giorno fa, ha chiesto a una interprete di arabo, convocata per un’udienza penale, di togliersi il velo. La signora, che portava il hijab, cioè un fazzolettone che copre i capelli ma lascia scoperto il volto, si è rifiutata di farlo e ha rinunciato all’incarico, abbandonando l’udienza. Il caso stimola riflessioni contrastanti. Processualmente e costituzionalmente, il giudice ha avuto torto. Dice l’art. 129 del codice di procedura civile: “Chi interviene o assiste all’udienza deve stare a capo scoperto”. Il codice di procedura penale non dice niente in proposito; c’è una norma di carattere generale, l’art. 471: “Non è consentita la presenza in udienza di persone che portino oggetti atti a molestare. Le persone che turbano il regolare svolgimento dell’udienza sono espulse“. L’art. 129 non poteva essere applicato: riguarda il processo civile e non quello penale. E nemmeno l’art. 471: non è ragionevolmente sostenibile che il velo sia un oggetto “atto a molestare”. Resta l’ipotesi che l’ordine di togliersi il velo sia stato impartito per esigenze legate all’identificazione della persona: ma si trattava solo di un fazzolettone, non di quelle cappe che coprono il volto (niqab e burka). La pretesa della donna aveva anche un fondamento costituzionale (329/1997): “In materia di religione si impone la protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni. Valutazioni e apprezzamenti legislativi differenziati inciderebbe(ro) sulla pari dignità della persona”. Infine c’è anche un problema di buon senso: che si fa con una suora che talvolta capita di dover sentire come testimone? Ce ne sono alcune con veli ancorati a strutture maestose (ricordo le mie maestre della scuola elementare, le suore di Santa Giovanna Antida) e altre con un piccolo velo (analogo al hijab) e una coroncina (le Brigidine che gestiscono un fantastico albergo in piazza Farnese a Roma). Anche loro, via il velo? Insomma, una decisione discutibile assai. Però. Da giudice avrei seppellito nel profondo della mente (e dello stomaco, che avrebbe cominciato a dolere parecchio) lo sdegno che il velo delle donne musulmane provoca (dovrebbe) in ogni spirito libero. Ma oggi posso (devo) dire che ogni distinzione tra le persone, non legata a etica e intelligenza, è odiosa e inaccettabile; e che il velo imposto alle donne musulmane è una barbarie, tanto più se accettato “liberamente” dopo secoli di oppressioni e violenze. Così leggetevi questa: “E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi e di essere caste e di non mostrare, nei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciare scendere il velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne”. (sura 24, 31). E pensate allo stretto legame che sempre c’è tra fanatismo, stupidità e violenza. E sì, sono d’accordo, non solo nell’Islam.

l’Unità 18.11.11
I dubbi di Vendola: «Ma non strappo la foto di Vasto»
La direzione di Sel guarda con attenzione al nuovo governo, apprezza lo stile nuovo, ma manifesta forti perplessità sulle scelte politiche. «Valuteremo provvedimento per provvedimento, ma l’inizio non è incoraggiante».
di Maria Zegarelli


Per chi ha fatto di una nuova narrazione la sua cifra distintiva essere passati dalle battutacce, i gestacci, le barzellette da una «stagione commerciale pornografica che si era fatta Stato» allo stile sobrio e raffinato delle parole scelte con cura, è senza ombra di dubbio «una rottura importantissima» con il passato. E come si fa quando di solito ci sono parecchie critiche da fare, Nichi Vendola, al termine della direzione di Sel, inizia da «elementi a favore», del nuovo presidente del Consiglio. La vera (e unica) svolta di Monti, secondo il governatore pugliese, è avvenuta «solo sul piano dello stile, non della politica». Si è tornati «al decoro istituzionale e all’austerità delle parole», ma «nel discorso programmatico del premier è rimasta un’ipoteca sulla domanda di cambiamento che viene dal Paese. In realtà la bussola che guida Monti è la lettera di Berlusconi alla Bce con correttivi che temiamo portino un’ulteriore stretta sulla spesa sociale».
Il discorso del premier al Senato i dirigenti di Sel lo hanno ascoltato durante la direzione al centro congressi Cavour. Proprio mentre Vendola sottolineava una «caduta» dei contenuti rispetto alle aspettative, Franco Giordano cadeva davvero, causa sedia lesionata, per fortuna senza danni. Tanti i dubbi che attraversano la discussione, il rapporto con il Pd, innanzitutto, l’atteggiamento verso questo governo, la costruzione dell’alleanza perché alla fine si dovrà andare alle elezioni e allora «già siamo arrivati allo sgretolamento del blocco berlusconiano senza avere pronto il progetto», come dice Fabio Mussi. La linea è quella di «avere grande attenzione e apertura, di valutare provvedimento per provvedimento come spiega Elettra Deianna ma l’inizio non è stato incoraggiante».
«Questo discorso offre con cautele semantiche l’apertura verso interventi nel mercato del lavoro», sottolinea Vendola vedendoci il rischio «che si smantelli la contrattazione collettiva». E poi quel passaggio che qui non è piaciuto a nessuno, come racconta Nicola Fratoianni, sui decreti attuativi della riforma Gelmini su cui Monti vuole accelerare. Certo, grande apprezzamento per la presenza di Andrea Riccardi al Ministero della Cooperazione internazionale e all’integrazione, «che è un segno di discontinuità», ma non c’è stata la «centralità di un aggettivo che circola molto, “sostenibile», sviluppo sostenibile. Idem con la «patrimoniale». Non «ha avuto coraggio e quella è una misura fondamentale».
«QUESTA È STATA UNA SCONFITTA»
Ma è durante la conferenza stampa che Vendola scioglie i dubbi sui rapporti nel centrosinistra, tra chi sta in Parlamento e chi no. A strappare la foto di Vasto, «non ci penso proprio», perché quello che «manca all’Italia è il centrosinistra. Questa è stata la sconfitta, non essere stati in grado di creare un’alternativa e Vasto è arrivata in ritardo». Quindi adesso l’obiettivo è quello di continuare a lavorare a quel progetto e «con Bersani e Di Pietro i contatti sono quotidiani. Noi di Sel ci siamo sentiti molto impegnati nei vincoli con i nostri alleati». Per questo c’è stato un atteggiamento «di attenzione e di apertura» verso Monti e tanto più forte era l’aspettativa «tanto più cocente è oggi la delusione», ma adesso «saremo attenti alle scelte concrete di questo governo e non esiteremo a esprimere le nostre opinioni». Quanto durerà il governo? «Tanto quanto vorrà Berlusconi. L’ha detto lui stesso spiega -. Gli faranno fare le scelte impopolari e poi, quando i sondaggi indicheranno il momento giusto, staccherà la spina. Berlusconi ormai parla diversi linguaggi e mostra diverse maschere. Quando incontra i suoi fa il barricadero, fuori è più mite e si dice disposto a sostenere il governo». Ma attenti, chiude Vendola, perché «non ha più la faccia verdastra, segno della sconfitta, di qualche giorno fa».

Repubblica 18.11.11
"Così si ridà fiato a Berlusconi"
Vendola boccia il professore "Una penitenza tecnocratica"
A rischio l´intesa di Vasto, anche se il governatore e l´Idv ora non pensano allo strappo
Consenso per la nomina di Riccardi "ma la scelta di Passera è problematica"
di Goffredo De Marchis


ROMA Non gli piace. Anzi lo considera pericoloso. «Bisogna stare attenti perchè le quaresime tecnocratiche predispongono alle resurrezioni populistiche e non vorrei che questa parentesi serva a rimettere in pista Berlusconi». La sentenza è di Nichi Vendola, opposizione fuori dal Parlamento ma accreditata neik sondaggi di una cifra tra il 7 e l´8 per cento. La posizione del governatore pugliese preoccupa non per i voti di cui l´esecutivo Monti ha bisogno per durare ma per la sua capacità di drenare consensi al Partito democratico, che sostiene il governo tecnico.
Vendola riunisce a Roma la direzione di Sinistra e libertà. Per un´oretta buona tutti zitti, la sala è collegata in diretta con l´aula del Senato per ascoltare il discorso del nuovo premier. Alla fine il commento del leader. Un inizio promettente per la scialuppa che sta prendendo il largo. «Festeggiamo oggi la fine di uno stile, quello stile commercial-pornografico che ha segnato la stagione berlusconiana». Poi le bordate: «Non festeggiamo la fine di una politica. Avevamo aperto credito nei confronti del governo Monti apprezzandone il livello e la scelta di alcuni ministri. Le sue dichiarazioni programmatiche ci hanno invece delusi».
Sinistra e libertà ha già individuato i temi di scontro sociale, sui baserà la sua azione nelle prossime settimane. «Vedo un profilo conservatore e anche un elemento di continuità con le politiche economiche e sociali del governo Berlusconi attacca Vendola -. Non danno un messaggio positivo nei confronti dei giovani visto che rilanciano la riforma Gelmini. Francamente ci aspettavamo di più per un´Italia che cade sotto i colpi del fango e della povertà». La pagella per la squadra di ministri si tiene in equilibrio: «Riccardi segna una importante discontinuità rispetto alle politiche xenofobe della destra e al rinculo localistico. Passera è una scelta simbolicamente problematica».
Le rassicurazioni offerte da Vendola agli alleati Pd e Idv sono destinate nel tempo a sbiadirsi. Per il momento Di Pietro ma anche il governatore, nonostante le critiche, sembrano non indicare uno strappo. Ma la foto di Vasto in un anno e mezzo di legislatura può diventare preistoria. «C´è un vincolo di lealtà con Bersani e Di Pietro dice Vendola -. Sarebbe un delitto archiviare Vasto. Oggi è il tempo della quaresima tecnocratica prima o poi dovrà risorgere la politica, noi vogliamo farla risorgere». Ma quale politica può nascere sull´altare di un governo tecnico che dura e che sistema i conti del Paese? «Dobbiamo mantenere dritta la barra su un´alleanza tra il Pd e il Terzo polo», avverte Franco Marini. Cioè un´archiviazione della foto di Vasto. E chi condivide questa posizione confida nella tenuta del governo Monti. Vendola invece evitando di condannare il Pd scommette sulla breve durata e quindi su una conferma degli accordi presi prima della crisi. «Attenti a Berlusconi avverte -. Ha cambiato faccia: dal verdastro del dimissionario alla faccia di colui che sa di poter staccare la spina».

l’Unità 18.11.11
«Occupata» Londra Arresti a New York Saviano: «Ci andrò»
Ci andrà anche Roberto Saviano. L’autore di “Gomorra” sarà con i manifestanti di New York il 19 novembre a Zuccotti Park: «Parlerò di mafia, crisi e potere». Intanto, la protesta resiste, dilaga, occupa.
di Felice Diotallevi


Gli Indignati non mollano, né a New York né a Londra, dove si sono accampati davanti alla Cattedrale di St Paul a Londra. Raggiunti dall’ordine di sgombero degli emissari della Corporation della City of London, si sono rivolti alla magistratura. Al pari del governo dello Square Mile, il miglio quadrato dove ha sede la London Stock Exchange, i manifestanti sono pronti a una estenuante battaglia legale che potrebbe durare mesi e costare decine di migliaia di sterline. «A questo punto si andrà oltre Capodanno», hanno indicato mentre scadeva l’ordine di sfratto fissato dalla City . Seguendo l’esempio degli indignati di Wall Street, Occupy London aveva piantato le tende davanti a St. Paul un mese fa.
I fratelli “maggiori” intanto sono decimati. La polizia di New York ha arrestato tra 50 e 60 manifestanti del gruppo Occupy Wall Street che si erano raccolti vicino alla sede della Borsa in occasione delle celebrazioni per i due mesi dalla fondazione del movimento. Sul numero degli arresti le cifre “ballano”, le informazioni sono approssimative, colpa anche degli infiltrati nel movimento, che fanno doppi giochi in tutte le direzioni. Comunque, i dimostranti si sono seduti per terra rifiutandosi di spostarsi e bloccando il traffico nel distretto finanziario della città. Questi i motivi dell’intervento della polizia, altrimenti ferma e schierata in numero massiccio a difesa del grande obiettivo, appunto, Wall Street, che i manifestanti volevano occupare davvero.
Ma non è un fenomeno limitato all’isola di Manhattan. Cortei, proteste, barricate: è il Day of Action, il giorno dell’azione. La protesta corre da un lato all’altro dell’America. Brucia Portland, e circa 500 persone hanno marciato ieri nel centro finanziario di Los Angeles, California. Stessa cosa ad Albany, nello Stato di New York, stanno arrivando in autobus persone da Buffalo, Rochester e altre città per occupare un parco. La polizia di Portland, nell’Oregon, ha chiuso un ponte in preparazione alle marce programmate nella città nei prossimi giorni.

l’Unità 18.11.11
Il partito neonazista? 
Era pieno di agenti segreti Germania sotto choc
Nuove rivelazioni emerse con il caso degli «assassinii del kebab»: nel 2003 fu impossibile sciogliere la Npd perché era in sommo grado infiltrata da agenti dei servizi interni. Che chiudevano un occhio su crimini e misfatti...
di Paolo Soldini


Nel 2003 il partito neonazista tedesco era tanto «imbottito» di uomini dei servizi segreti che fu impossibile scioglierlo. Non è uno scherzo: è una delle tante e amare verità che stanno venendo alla luce in Germania dopo gli sviluppi clamorosi delle indagini sul coinvolgimento dell’antiterrorismo in una serie di delitti xenofobi avvenuti tra il 2000 e il 2007. Ecco i fatti di otto anni fa: dopo una serie di attentati, aggressioni e manifestazioni di apologia del Terzo Reich l’allora governo rosso-verde guidato dal cancelliere Gerhard Schrö der aveva chiesto al Bundesverfassungssgericht (Bvg, l’equivalente della nostra Corte costituzionale) la messa al bando della Npd, il partito che si richiama esplicitamente alla dottrina del nazismo. La richiesta non ebbe seguito e ora si sa il perché: secondo quanto i dirigenti del Bundesverfassungsschutz (Bvs, il servizio segreto interno) fecero sapere ai giudici, moltissimi dirigenti nazionali e regionali del partito erano, in realtà, agenti infiltrati o quanto meno collaboratori dei servizi stessi. Pare che i «falsi nazisti» piazzati nei piani alti della Npd fossero almeno il 15 per cento. Nonostante questa infiltrazione, però, le attività eversive dell’estrema destra furono assai poco contrastate, tanto da sollevare il sospetto di una sorta di compiacenza, se non addirittura di connivenza, degli apparati dei servizi.
Il sospetto resta e si aggrava. Secondo le inchieste condotte da diversi media, il numero degli infiltrati nella Npd e nei vari gruppi della galassia neonazista sarebbe, oggi, ancora più alto che nel 2003. Eppure, come si è visto con gli eventi clamorosi dei giorni scorsi, il Bvs e le sue articolazioni regionali sono stati protagonisti di una serie di errori, debolezze e deliberate omissioni che hanno permesso agli estremisti di compiere ogni tipo di delitti, fino alla catena di omicidi che va sotto il nome, in Germania, di Döner-Morde, gli «assassinii del doner-kebab»: otto turchi e un greco uccisi sul loro posto di lavoro (due avevano un chiosco di kebab), più una poliziotta freddata durante una rapina.
Proprio le indagini sui Döner-Morde, riprese dopo il suicidio di due componenti del commando killer e l’arresto di una loro complice, hanno sollevato il coperchio sul marciume che si è esteso in ampi settori dei servizi. Si è saputo, ad esempio, che i tre assassini, che avevano fondato la cellula eversiva «Nationalsozialistischer Untergrund», erano ben conosciuti fin dalla fine degli anni 90 ai servizi della Turingia, che erano fuggiti senza che nessuno li fermasse dopo la scoperta di armi ed esplosivo in loro possesso e che in seguito erano ricomparsi in varie località senza che nessuno li disturbasse. Anzi, quel che è peggio, avevano avuto diversi contatti con agenti «coperti» dei servizi, i quali in almeno un’occasione avevano fornito loro documenti falsi.
Alcuni giornali riportano una vicenda agghiacciante. A uno degli omicidi, quello di Halit Y., proprietario di un internet-point di Kassel, avrebbe partecipato, almeno come testimone, Andreas T., V-Mann (agente del Vs) infiltrato nella banda fin dall’inizio. Ebbene, dopo l’omicidio l’uomo si guardò bene dal denunciare il fatto. Venne scoperto dalla polizia grazie a certe tracce lasciate sul computer della vittima e quando gli agenti perquisirono la sua casa trovarono armi e materiale di propaganda nazista. D’altronde, nella cittadina dove abitava, Andreas T. era soprannominato «il piccolo Adolf». Secondo la Bild, si prese una multa per il possesso di munizioni illegali, ma non venne neppure sospeso dal servizio.
Non è l’unico episodio sconcertante. Il metodo dell’infiltrazione è legittimo, è praticato da tutti i servizi segreti e porta spesso ottimi risultati. Ma l’impressione diffusa è che nel caso dell’attività verso l’estrema destra i servizi tedeschi, specie quelli di alcuni Länder, siano andati oltre i loro compiti. Estremamente attenti nei confronti di gruppi eversivi dell’estrema sinistra o di ambienti sospettati di simpatia per l’estremismo islamico, avrebbero chiuso l’occhio destro dando prova di straordinaria leggerezza. E forse di qualcosa che è più della leggerezza. Pare che uno dei terroristi suicidi negli anni della latitanza fosse solito vantarsi delle coperture che riceveva «dall’alto».

Corriere della Sera 18.11.11
Veleni, dissenso e corruzione
La Cina si scopre potenza fragile
di Marco Del Corona


PECHINO — In Guangdong sono arrivati a suggerire: fate sesso. L'hanno deciso a Canton, nella certezza che la Cina non è proprio di umore smagliante e che l'appagamento dei sensi svolge una funzione politica.
Perché essere entrata sul palcoscenico del mondo porta forse più controindicazioni che altro, e l'antica raccomandazione di Deng Xiaoping di mantenere un profilo basso e prudente risulta ormai impraticabile. E i leader chiusi nella cittadella di Zhongnanhai ad aspettare il congresso del Partito comunista che fra un anno li rimpiazzerà — chi subito, chi quasi — non ignorano che alla lista degli incontestabili successi si affianca un elenco di malesseri e insoddisfazioni potenzialmente pericolosi.
A seconda della prospettiva e della convenienza, l'Occidente, e gli Usa in particolare, guardano ora all'una, ora all'altra lista. La rivendicazione di Obama di un ruolo asiatico, però, dà corpo a una certa Schadenfreude, al piacere di vedere la Cina intaccata dai germi di un brusco ridimensionamento. Gli allarmi dei vertici a volte coincidono con le angosce della popolazione. L'esplosione dei prezzi delle case ha afflitto la stessa classe media che ora si dispera per i prezzi in troppo vertiginoso calo: comunque un'altalena destabilizzante. L'inflazione parzialmente domata (in ottobre è scesa al 5,5%) lascia il passo alle preoccupazioni su banche e credito.
L'Economic Information, giornale edito dalla Xinhua, sposa ad esempio la tesi che la priorità della Banca centrale non siano i prezzi ma stabilizzare il sistema bancario, le cui fragilità sono state indicate in settimana da un rapporto dell'Fmi.
Nonostante l'abbattimento della povertà nelle campagne, che ora affligge meno di 27 milioni di persone contro i 94,2 di dieci anni fa, nonostante i coraggiosi tentativi di introdurre forme di welfare, accompagnare la crescita con un senso di benessere e serenità diffusi risulta un'operazione improba. Gli scandali ambientali a ripetizione, gli avvelenamenti — dalle acque agli oli di cottura — minano la già esile fiducia della popolazione nei meccanismi di prevenzione e repressione. La corruzione si mangia tanto, anche legittime speranze.
Certi fermenti forniscono argomenti a chi desidererebbe forme di drastico rinnovamento in Cina. Il confine tra realtà e auspicio è labile. È vero, ci sono state alcune decine di candidati indipendenti alle elezioni locali, ma tutti scollegati, apolitici, comunque neutralizzati. Sì, la persecuzione per via fiscale dell'artista Ai Weiwei ha intercettato moti di simpatia, così come l'avvocato cieco ai domiciliari Chen Guangcheng, ma la stragrande maggioranza dei cinesi ignora tutto di loro. Piuttosto, torna utile giocare la carta dell'emotività nazionalista, ripetendo che tutte le isole del Mar della Cina Meridionale sono cinesi e sperando in una Taiwan sempre più vicina, anche se è lo stesso governo a impedire che i filoni più intransigenti prendano corpo. Conta di più, per la Cina, il prezzo del maiale, e sfogare online l'esasperazione per inefficienze criminali, come il disastro ferroviario di Wenzhou (luglio, 40 morti) e quello dello scuolabus in Gansu (mercoledì, 18 bimbi morti). Il politologo Wang Xiaodong ha capitalizzato, con i suoi libri, sul concetto della «Cina scontenta»: ne faceva la piattaforma per una riscossa. Se la Cina non fosse una potenza, Obama non avrebbe detto quello che ha detto. Anche la Schadenfreude potrebbe non essere la miglior prospettiva. Ma l'inverno è alle porte e la Cina forse si è rassegnata a pensare che potrebbe essere quello del suo scontento.

l’Unità 18.11.11
Test confermano: neutrini più veloci della luce
I risultati non sono ancora quelli definitivi ma per i fisici è un passo avanti significativo
Un’altra prova superata dopo quella di settembre grazie alle nuove misurazioni condotte in collaborazione tra Opera e Cern
di Pietro Greco


I neutrini continuano ad andare più veloci della luce. Un nuovo set di misure, condotte dal gruppo internazionale Opera su fasci delle minuscole particelle che partono dal Cern di Ginevra e sono rilevate a 730 chilometri di distanza nei Laboratori Nazionali che l’Infn (l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) ha allestito sotto il Gran Sasso, ha confermato quella che Antonio Ereditato ha definito, la settimana scorsa a Napoli, «l’anomalia del secolo». Registrata, come i lettori dell’Unità ricorderanno, lo scorso mese di settembre.
Due indizi non sono ancora una prova. Ma iniziano a corroborare la tesi che ci troviamo di fronte a un dato reale e non a un banale errore. Per effettuare le nuove misure, riferiscono le fonti ufficiali della collaborazione Opera, sono stati utilizzati dei fasci particolari di neutrini, dei pacchetti di particelle più «compatti» (formati da particelle che partono da Ginevra in un intervallo di tempo di 3 nanosecondi) inserite in un treno più distanziato (ogni pacchetto parte ogni 524 secondi). In pratica significa che il segnale è stato reso «più pulito» e la misura più affidabile. In questo modo si possono ragionevolmente escludere tutta una serie di possibili errori sistematici che, sostiene una nota dell’Infn, avrebbero potuto inficiare la misura precedente. In questa fase Opera ha analizzato 20 eventi indipendenti.
Insomma, la misura costituisce una conferma più robusta di quella dello scorso mese di settembre. I nuovi dati sono stati resi pubblici stanotte sul sito ArXiv. Nel medesimo tempo un articolo scientifico è stato sottoposto alla rivista scientifica on line con peer review (revisione critica da parte di colleghi anonimi) Journal of High Energy Physics (Jhep). Si tratta di una delle più importanti riviste di settore al mondo ed è pubblicata dalla Sissa di Trieste.
In realtà è l’intero esperimento che ha una forte connotazione italiana. Il responsabile della collaborazione internazionale Opera, Antonio Ereditato, è italiano. Al Cern di Ginevra la componente italiana è fortissima. Ed è italiano il Laboratorio Nazionale del Gran Sasso, diretto da Lucia Votano, dove i neutrini vengono rilevati. Nuove misure saranno condotte dalla collaborazione Opera nel corso dell’intero anno 2012. Altre, del tutto indipendenti, sono previste sia negli Stati Uniti che in Giappone. Se il dato verrà confermato, ovvero se davvero i neutrini viaggiano a una velocità superiore a quella della luce, occorrerà spiegare perché.
La prudenza è d’obbligo. Perché, come sostiene Fernando Ferroni, il nuovo presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: «Una misura così delicata che ha profonde implicazioni per la fisica, richiede un eccezionale livello di approfondimento. L’esperimento Opera, grazie al particolare adattamento dei fasci di neutrini del Cern, ha realizzato un test importante per la consistenza dei suoi risultati che ci rendono più fiduciosi sulle misure, anche se la parola decisiva può essere detta solo dalla realizzazione di esperimenti analoghi in qualche altra parte del mondo».
I FOTONI
Se venisse confermata, quella realizzata da Antonio Ereditato sarebbe una delle più importanti scoperte fisiche degli ultimi decenni. I fotoni che trasportano l’energia elettromagnetica, compresi i fotoni luminosi, hanno massa zero e la loro velocità nel vuoto – circa 300.000 chilometri al secondo – è stata considerata la massima possibile nell’universo. Ora i neutrini, attraversando la roccia, sembrano superano questa velocità. Perché?
Le risposte possibili sono tre. Potrebbe trattarsi di un errore di misura. Ma dopo i nuovi test abbiamo ragione di credere che non si tratta in ogni caso di un errore banale. E scoprirne la causa sarebbe già una bella sfida. Potrebbe darsi che i neutrini superano la luce in velocità solo in un mezzo particolare, come la roccia: e bisognerebbe spiegare perché. Potrebbe essere che i neutrini viaggiano sempre a velocità superiore a quella della luce. In questo caso la cascata di domande è imponente. Perché proprio i neutrini. Sarebbe la loro velocità il nuovo limite invalicabile o vi sono oggetti che superano anche i neutrini? Occorrerà trovare una nuova legge più generale della relatività di Einstein per avere una «spiegazione economica» di questi fatti anomali? In quest’ultimo caso, l’«anomalia del secolo» in cui si sono imbattuti Ereditato e gli altri 160 colleghi di Opera avrebbe davvero implicazioni profonde nella fisica. Ma non sarebbe una rivoluzione. Non bisognerebbe riscrivere le leggi della fisica. Perché, come diceva saggiamente Isaac Newton, gli scienziati moderni sono come nani che salgono sulle spalle robuste di giganti. Guardano più in là di chiunque altro, scoprono cose mai viste prima, ma solo perché possono poggiano i loro piedi sulle conquiste del passato.

il Fatto Saturno 18.11.11
La caduta del dio Sigmund
di Giovanni Pacchiano


VIENNA, MARZO 1938: le truppe tedesche marciano sull’Austria e instaurano un nuovo regime. Ora tocca agli ebrei. Ne fan subito le spese le sorelle di Sigmund Freud, ormai celebre in tutto il mondo. Sta di fatto che le vecchie Rosa, Marie, Adolfine e Pauline vengono prelevate dai nazisti, portate al parco, fatte correre, saltare, accucciare. Sono prese a calci nel ventre, è simulata una fucilazione: poi le lasciano andare sconvolte. È Adolfine, 74 anni, a correre, il giorno dopo, dal fratello. Troppo intento a leggere ciò che Thomas Mann ha appena scritto su di lui per darle retta. «Non durerà», è l’unico commento. Ne è tanto persuaso che, un mese dopo, lei lo trova impegnato, con tutta la famiglia, a preparare i bagagli: parte per Londra, ottenuto un visto per sé e per 16 persone al seguito. Porta anche il medico personale, e persino il cagnolino Jo Fi; ma per le sorelle non c’è posto. E del resto, si giustifica, non si tratta di una fuga: tornerà presto, visto che «è una situazione temporanea». Ma così temporanea che le quattro sorelle, nel 1942, vengono deportate nel campo di concentramento di Terezin, destinate in breve alla morte. Lui, Sigmund, è già scomparso: a Londra, nel settembre 1939, a 83 anni.
L’altra faccia di un grande studioso, insomma, è quanto esce dal terzo romanzo – strepitoso e coinvolgente, acquistato dagli editori di 30 paesi: un vero caso letterario – del macedone Goce Smilevski (36 anni, di Skopje), La sorella di Freud. Freud, un rivoluzionario delle indagini sulla psiche umana, ma troppo intento ad ammirarsi, secondo l’autore, troppo consapevole del proprio genio; indifferente, nel momento del pericolo, verso le sorelle. Con le quali riesce a essere sbrigativo e di pochissime parole. E si sa che i grandi non vanno seccati… Per restare nel campo della “finzione”, non è questo il Freud che trapela dal bellissimo film di Cronenberg, A Dangerous Method, lo scienziato che, per curare i pazienti, punta tutto sul linguaggio. E nemmeno il drammatico personaggio, solo contro l’ostilità dei tradizionalisti, del film di John Huston, Freud: the Secret Passions (1962). O, per tornare alla realtà, il turista infaticabile, curioso e pedante, e magari di nascosto anche trasgressivo: quanti dubbi, infatti, sull’innocenza dei viaggi estivi con la cognata Minna! Dei quali ci informa l’ottima raccolta epistolare Il nostro cuore volge al Sud. Lettere di viaggio. Soprattutto dall’Italia (Bompiani, 2003).
A buon conto, Smilevski, pur ammettendone la grandezza, riconduce qui Freud sulla terra. Come quando lo vediamo ubriaco e vestito da buffone, durante una festa di carnevale al Nido, una clinica per «matti», discettare con il direttore, il dottor Goethe. Che, a lui che si proclama autore della «terza grande rivoluzione» conoscitiva, dopo Copernico e Darwin, contrappone, con pacato sfottò, l’invenzione dello scarico per la toilette con la vaschetta (1863). Ma occorre non fraintendere: anche se la figura di Freud incombe su tutta la storia, costituendone, per certi versi, il perno, a partire dal titolo, la protagonista è pur sempre Adolfine. Che, dall’inferno del lager, ricorda, dolorosamente, l’intera sua vita e quella dei suoi cari. Mai amata dall’arcigna madre, relegata per sempre nel ruolo di figlia e sorella, paga il prezzo di una tormentosa vicenda d’amore con Rajner, un compagno di giochi d’infanzia ritrovato e, nel tempo, molte volte perso: destinata a concludersi con il suicido di lui e l’aborto di lei. C’è speranza di felicità e angoscia nella storia di Adolfine, ma anche continua rinuncia al diritto di esistere. Si reclude di sua volontà nel Nido, a 34 anni: ne esce sette anni dopo, tornando ad abitare con la mamma e sentendo comunque tutto il peso del vuoto. La paura del non-senso di una vita cui manchi l’oltrevita è il tema ossessivo del libro, l’ombra che preme sui giorni, l’attesa dell’istante supremo. Emulo del suo amato Hermann Broch, il Broch sperimentatore dei Sonnambuli (1931-32), Smilevski alterna coraggiosamente parti narrative a parti di riflessione, più vicine al saggio che al racconto, con pagine memorabili sulla fuga dell’Io dal mondo. Mescolate a parti liriche di bellezza assoluta: giacché è vero, oggi come sempre, il verso di De Musset: «i più disperati sono i canti più belli».
Goce Smilevski, La sorella di Freud, Guanda, traduzione di Davide Fanciullo, pagg. 334, • 18,00

il Fatto Saturno 18.11.11
Volpi: vent’anni con Heidegger
di Marco Filoni


FA UN CERTO effetto veder raccolti, tutti insieme, i testi che Franco Volpi ha scritto per le edizioni italiane delle opere di Martin Heidegger. Da un lato perché lo storico della filosofia vicentino è scomparso prematuramente, due anni fa, e la sua scomparsa ha lasciato una sensazione di vuoto, quasi una promessa non mantenuta: come se nell’esser vittima di un tragico incidente Volpi avesse tradito l’aspettativa di un libro, un’opera importante, di qualcosa insomma che restituisse quel talento filosofico e l’ampiezza dei suoi studi che, per esempio, potevi cogliere chiaramente ascoltandolo. Dall’altro lato fa strano leggere queste pagine perché scopri che quel libro importante è lì, sotto gli occhi del lettore. C’era già, ce l’avevamo nascosto fra altri libri senza accorgercene. Bizzarro destino. Cela tutta l’intelligenza, l’alchimia della traduzione e del lavoro editoriale . Volpi ha tradotto la prosa rarefatta del tedesco di Heidegger con cura artigianale, offrendo un lavoro filologico certosino, impeccabile per la resa culturale ancor prima che linguistica. Poi, come un abile miniatore che abbellisce la pagina di ornamenti e fregi, quasi nascondendoli fra le righe, così anche Volpi ha disegnato mappe per orientarsi nella complessa geografia di pensiero dell’incantatore di Meßkirch. Ogni testo apparso in margine ai volumi di Heidegger, da lui curati per vent’anni presso l’editore Adelphi, ne è una singola parte, e ora acquista intelligibilità diversa composto e letto insieme agli altri. Allora diventa chiaro il suo obiettivo: mettere a suo agio il lettore di Heidegger, orientarlo e aiutarlo a comprendere quei testi difficili, a volte oscuri. Artefice di questa pregevole operazione è Antonio Gnoli, curatore del libro e compagno di molte “avventure” filosofiche di Volpi, al quale dobbiamo una puntuale presentazione e il titolo, bellissimo: Selvaggia chiarezza . «Nel lungo e appassionato lavoro di traduttore di Heidegger, Franco Volpi ha raramente usato il pronome Io. In nessuna delle sue esemplari versioni si è mai posto come il filosofo che suggerisce o impone l’interpretazione», scrive Gnoli in apertura del suo intervento. E prosegue: «Volpi non ha mai ceduto al vezzo del gergo esoterico… Lezione di umiltà basata su poche ma efficaci regole: fedeltà, leggibilità, comprensibilità del testo tradotto». Eppure Volpi non si ferma qui: fa un passo avanti, sottolinea le tensioni dell’opera heideggeriana, tutte le contraddizioni che la attraversano, come anche l’imbarazzante compromissione col nazismo e tutte le tragedie della storia che hanno solcato il mondo contemporaneo che il filosofo si incaricò di pensare. In questo Volpi è stato il più fedele heideggeriano proprio in quanto non appartenente alla categoria degli heideggeriani: categoria secondo lui offuscata da un’«ammirazione supina e spesso priva di spirito critico». Quello spirito che a lui non è mai mancato: per esempio rispetto allo scritto heideggeriano, decisivo, Contributi alla filosofia. Dall’evento. Volpi lo legge (e questo volume riporta la versione integrale del suo testo) come una sorta di diario di bordo di un naufragio: «Per avventurarsi troppo nel mare dell’Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime».
Franco Volpi, La selvaggia chiarezza. Scritti su Heidegger, a cura di Antonio Gnoli, Adelphi, pagg. 336, • 16,00

La Stampa 18.11.11
Nietzsche, ultime lettere prima dell’abisso
Esce da Adelphi il volume conclusivo dell’epistolario
di Gianni Vattimo


FINE DELLA VITA COSCIENTE In un biglietto a Burckhardt, scritto da Torino il 6 gennaio 1889, si lamenta di essere Dio
SOFFERENZA CONTINUA A causa del tempo atmosferico ma anche del tempo storico nel quale si trovava a vivere

Una leggenda metropolitana transoceanica racconta che Arnold Schoenberg, incontrando (si dice in un supermercato) Thomas Mann, come lui riparato in America, a Santa Monica, durante la seconda guerra mondiale, gli gridasse furioso: «Ma io non sono sifilitico». Di questa malattia era vittima il protagonista del Doctor Faustus, il romanzo allora pubblicato in cui Mann raccontava la storia della nascita della musica dodecafonica e dunque di Schoenberg. Mann non pensava soltanto a Schoenberg, nel creare il suo romanzo, ma anche a Nietzsche. Che di sifilide era malato davvero, tanto che la pazzia in cui precipitò alla fine, nei giorni drammatici del gennaio 1889, a Torino, fu proprio l’esito fatale di questa infermità.
Ricordiamo queste cose perché l’ultimo volume dell’epistolario nietzschiano, che l’editore Adelphi manda in libreria in questi giorni, raccoglie e traduce per la prima volta integralmente in italiano le lettere del periodo finale della vita cosciente di Nietzsche, culminando con l’ultimo biglietto scritto a Jacob Burckhardt, suo antico collega di Basilea, che manifesta ormai la pazzia conclamata, e in seguito al quale l’altro amico di Basilea, Franz Overbeck, si precipita a Torino per riportarlo in Germania presso la madre. Il biglietto a Burckhardt, datato 6 gennaio 1889, è quello meritatamente famoso in cui egli scrive: «Caro signor professore, alla fin fine avrei preferito essere professore a Basilea piuttosto che essere Dio; ma non ho potuto anteporre il mio comodo privato al compito di creare un mondo».
Già chiaramente pazzo, soprattutto perché questa lettera viene dopo una serie di altre indirizzate ad amici e conoscenti, oltre che a personaggi che non ha mai conosciuto (Carducci, Ruggeri Bonghi), dignitari (il cardinale Mariani) e monarchi (Umberto I re d’Italia), alla casata del Baden, agli illustri polacchi. Firmate «Il Crocifisso», sempre Dio cioè ma stavolta nella sua incarnazione cristiana… Fermarsi a segnalare queste follie è indiscreto e crudele, come sarebbe indiscreto domandarsi lo hanno fatto vari biografi dove e quando Nietzsche si fosse preso la sua malattia, data la sua notoria propensione a una vita quasi monacale fin dai tempi degli studi universitari. Uno dei suoi più vecchi amici, Paul Deussen, che è anche tra i destinatari delle ultime lettere, racconta che negli anni della giovinezza Nietzsche non sembrò mai nutrire interesse sessuale per le donne, tanto che in un libro sul Segreto di Zarathustra, uno studioso ha avanzato anni fa l’ipotesi che il tormento intimo di Nietzsche fosse una mai riconosciuta omosessualità.
La curiosità circa questi aspetti privati della sua vita è legittima e inevitabile per il lettore di queste lettere più ancora che di altri suoi testi: vi si parla infatti di una sofferenza continua che non è solo strettamente fisica ma, noi diremmo, esistenziale. Sembrerebbe che Nietzsche soffra a causa del tempo: atmosferico, anzitutto, perché è sempre alla ricerca di un clima che si confaccia alla sua salute. Ma soffre anche del «tempo» storico in cui si trova a vivere, e in questo la sua vicenda merita davvero di essere raccontata come quella del Doctor Faustus di Mann: è la storia per tanti versi esemplare di un intellettuale che vive profondamente la propria epoca, nella quale (e pensiamo alla sua giovanile Seconda considerazione inattuale, un testo in cui Nietzsche si mostra già ben consapevole dei rischi a cui va incontro la società della incipiente massificazione) sembra trionfare una sorta di rassegnazione alla mediocrità, al sentimentalismo di un cristianesimo imbastardito.
Anche la continua polemica contro Wagner, che era stato un suo idolo giovanile e con cui aveva pensato di produrre una rinascita della cultura tragica, è ispirata alla diffidenza per un’arte, in questo caso l’opera wagneriana, pronta a fornire spettacolo e fantasmagoria (lo dirà più tardi Adorno) per la sensibilità ottusa di una borghesia che è sempre più classe «media» in ogni senso. Già, ma la rivoluzione di cui si sentiva portatore? Nelle lettere ora tradotte ci sono tanti spunti e riferimenti alle opere degli stessi anni, che inizialmente Nietzsche aveva pensato di raccogliere in un unico monumentale Hauptwerk a cui poi rinunciò, e che divennero in seguito Il crepuscolo degli idoli, L’Anticristo e tanti frammenti rimasti inediti dapprima pubblicati arbitrariamente (dagli eredi) come La volontà di potenza e oggi più giustamente raccolti nei volumi dei frammenti postumi curati da Colli e Montinari.
Le firme che ricorrono di più nelle ultime lettere sono quelle di Dioniso e del Crocifisso. La trasvalutazione di tutti i valori che Nietzsche progettava era forse il sogno di una riconciliazione tra la tradizione cristiana e quella preclassica greca. Un sogno da «professore di greco a Basilea». Ma la sua opera, bene o male, ha anche contribuito a «creare un mondo», che non cessa di suscitare sempre nuove interpretazioni.

Corriere della Sera 18.11.11
Atene, mito a due velocità
Democrazia realizzata in età classica, idealizzata dal 700 ad oggi
di Luciano Canfora


Sotto il velo della retorica
Pubblichiamo alcuni brani tratti dall'introduzione del libro di Luciano Canfora Il mondo di Atene (Laterza, pagine 518, 22), nel quale l'autore ripercorre le vicende della città ellenica nel periodo tra le riforme di Clistene (508 a. C.) e la morte di Socrate (399 a. C.), gettando anche uno sguardo sul secolo successivo. L'obiettivo del saggio è sfrondare l'immagine di Atene dai successivi miti retorici e idealizzanti per restituirci la realtà del suo sistema politico come emerge dalle fonti storiche dell'epoca.

Il «mito» di Atene è racchiuso in alcune frasi dell'epitafio di Pericle parafrasato, e almeno in parte ricreato, da Tucidide. Sono sentenze con pretesa di eternità e che legittimamente hanno sfidato il tempo; ma anche formule non capite fino in fondo dai moderni e forse perciò apparse e risultate ancor più efficaci, e volentieri brandite con trasognata sicumera. E ciò, mentre altre parti dell'epitafio vengono ignorate, forse perché disturbano il quadro che i moderni, ritagliando le parti prelibate dell'originale, rendono ancora più monumentale. Basti come esempio l'esaltazione della violenza imperiale esercitata dagli Ateniesi dovunque sulla terra. Memorabile e fortunata fra tutte, invece, la serie di valutazioni riguardante il rapporto di Atene, considerata nel suo insieme, col fenomeno della straordinaria fioritura culturale: «In sintesi affermo che la nostra città nel suo insieme costituisce la scuola della Grecia»; «da noi ogni singolo cittadino può sviluppare autonomamente la sua persona nei più diversi campi con garbo e spigliatezza»; «amiamo il bello ma non lo sfarzo; e la filosofia senza immoralità».
Se poi si passa a considerare il celebre capitolo che descrive il sistema politico ateniese, la contraddizione tra la realtà e le parole dell'oratore è evidente. Basti considerare che Tucidide, il quale senza melliflue o edulcoranti circonlocuzioni definisce il lungo governo di Pericle «democrazia solo a parole, ma di fatto una forma di principato», proprio in questo epitafio fa parlare Pericle in modo tale da suscitare l'impressione (ad una lettura superficiale) che lo statista, nella sua veste di oratore ufficiale, stia descrivendo un sistema politico democratico e ne stia tessendo l'elogio. Né gli basta: gli fa elogiare il lavoro dei tribunali ateniesi dove «nelle controversie private le leggi garantiscono a tutti uguale trattamento». Per non parlare della visione totalmente idealizzante del funzionamento dell'assemblea popolare come luogo dove parla chiunque abbia qualcosa di utile da dire per la città e si è apprezzati unicamente in base al valore, mentre la povertà non è un impedimento.
Che Tucidide sia ben consapevole di star imitando un discorso d'occasione — con tutte le falsità patriottiche inerenti a quel genere di oratoria — non dovrebbe essere mai dimenticato dagli interpreti. Che Tucidide abbia intenzionalmente posto a raffronto, a breve distanza, l'Atene immaginaria dell'oratoria periclea «d'apparato» con la vera Atene periclea è presupposto altrettanto necessario per leggere senza stordimento il celebre epitafio.
La forza di quel mito sta nella duplicità di piani su cui è possibile ed è giusto leggere l'epitafio pericleo. È evidente, infatti, che svincolata dalla situazione concreta (l'epitafio discorso falso per eccellenza) e dalla concreta vicenda dei protagonisti (Pericle princeps in primo luogo), quella immagine di Atene è, comunque, fondata, e perciò ha retto e alla fine ha vinto. Ma il paradosso è che quella grandezza che il Pericle tucidideo delinea — e che era vera già allora — era l'opera essenzialmente di quei ceti alti e dominanti che il «popolo di Atene» tiene sotto tiro e, quando possibile, abbatte e perseguita. E il Pericle «vero» questo lo sapeva benissimo e lo aveva vissuto e patito in prima persona. La grandezza di quel ceto consistette nel fatto di aver accettato la sfida della democrazia, cioè la convivenza conflittuale con il controllo ossessivo occhiuto e non di rado oscurantista del «potere popolare»: di averlo accettato pur detestandolo, com'è chiaro dalle parole dette da Alcibiade, da poco esule a Sparta, quando definisce la democrazia «una follia universalmente riconosciuta come tale».
La fuga di Anassagora incalzato dall'accusa di ateismo o il pianto in pubblico, umiliazione estrema, di Pericle davanti ad un giurì di migliaia di Ateniesi (nell'encomiabile sforzo di salvare Aspasia) non sono bastati a spostare questa straordinaria élite aperta dalla sua scelta di accettare la democrazia per governarla. Una élite «miscredente» che ha scelto di porsi alla testa di una massa popolare «bigotta» ma bene intenzionata a contare politicamente attraverso il meccanismo delicato e imprevedibile dell'«assemblea». I due soggetti posti di fronte si sono, nel concreto del conflitto, reciprocamente modificati. Lo stile di vita dell'«Ateniese medio» si ricava in modo veridico dalla commedia di Aristofane: la quale, per il fatto stesso di aver preso quella forma e aver ottenuto non effimero successo, dimostra di per sé che quel popolo bigotto era ormai anche capace di ridere di se stesso e della propria caricatura. Lo stile di vita dell'élite dominante è quello messo in scena da Platone nell'ambientazione dei suoi dialoghi, pullulanti tra l'altro anche di politici impegnatisi contro la democrazia (Clitofonte, Carmide, Crizia, Menone etc.): dialoghi non necessariamente e sempre movimentati come il Simposio, ma sempre animati da quella curiosità intellettuale scevra da condizionamenti, da quella passione per il dubbio, per il divertimento dell'intelligenza e la libertà dei costumi che si avverte quasi dovunque nei testi platonici.
Il «miracolo» che quella straordinaria élite ha saputo compiere, governando sotto la pressione non certo piacevole della «massa popolare», è stato di aver fatto funzionare e prosperare la comunità politica più rilevante del mondo delle città greche, e, ciò facendo, aver modificato almeno in parte, nel vivo del conflitto, se stessa e l'antagonista. Questo lo si capisce bene studiando l'oratoria attica, ove si può osservare come la parola dei «signori» si impregni di valori politici che sono di base nella mentalità combattiva e rivendicativa della «massa popolare»: innanzi tutto to ison, ciò che è uguale e, quindi, giusto. Lo si è visto ripercorrendo i motivi cardine dell'epitafio pericleo. Del quale si coglie solo in parte il senso se ci si limita a constatare quanto esso sia limitrofo della parola demagogica.
Il Pericle tucidideo descrive con straordinaria efficacia lo «stile di vita» ateniese (sia pure riverberando sul demo caratteri che sono invece propri dell'élite), ma è sommamente efficace nel descrivere – in antitesi – il fallimento del modello Sparta. Non sta semplicemente ridimensionando, o demolendo, l'immagine del nemico: nel fare a pezzi quel modello, il Pericle tucidideo liquida come impraticabile il modello che la parte dei ceti alti non è disposta ad accettare (come Pericle e i suoi antenati Alcmeonidi) la sfida della democrazia idoleggiava, e che con furore ideologico tentava di trapiantare e instaurare in Atene quando possibile. (Il che, profittando della benefica, per loro, sconfitta del 404, tentarono effettivamente, naufragando). Tucidide è, in questo, come Zeus che vede dall'alto e contemporaneamente entrambi gli schieramenti: egli è capace, contemporaneamente, di vedere e far risaltare (per chi abbia occhi per vedere) il carattere deformante e purtuttavia sostanzialmente vero dell'esaltazione di Atene profferita nell'epitafio. Ma il gioco — inerente al fine e alla struttura del genere epitafio — consiste appunto nel far dire, a chi parla, che quella grandezza di opere e di realizzazioni «è opera vostra». È lì il gioco sottile del vero e del falso che si incontrano e in certo senso coincidono. Perciò, analogamente, l'impero è, per Tucidide, al tempo stesso necessario, non negoziabile, ma intrinsecamente colpevole e sopraffattorio e dunque, si potrebbe dire, destinato a soccombere.
Da questa duplicità di piani discendono i due tempi della storia di Atene: da un lato il tempo storico e contingente, che è quello di una esperienza politica che, così com'era nella sua contingente storicità, si è autodistrutta, e dall'altro il tempo lunghissimo, che è quello della persistenza nei millenni delle realizzazioni di quell'età frenetica.

Repubblica 18.11.11
Grecia, se l'Europa espelle Platone
di Bernardo Valli


È chiaro che siamo lontani dagli antichi modelli di bellezza. Ma non è possibile negare che è all´origine di tutto
La reazione stizzita di Milan Kundera quando la moglie gli mostra la prima pagina del giornale

PARIGI. Nel caffé affacciato sulla bocca del métro Sèvres-Babylone, entrano i coniugi Kundera, Eva e Milan. Lei ha in mano una copia di Le Monde appena acquistato nella vicina edicola. Lo stende sul tavolino e gettata un´occhiata ai titoli di prima pagina non trattiene un´esclamazione di sdegno.Gira il giornale affinché il marito possa leggere il motivo della sua indignazione; e infatti lo scrittore ha la stessa reazione, seguita da un gesto desolato della mano. Non conosco la lingua ceca e quindi non riesco a capire le parole che si scambiano, ma incuriosito dalla breve, agitata mimica dei coniugi Kundera, corro a comperare il quotidiano, e mi salta subito agli occhi quel che ha provocato il loro lampo di collera. È un titolo, nel quale ci si chiede se la Grecia sia un paese europeo. «La Grèce est-elle un pays européen?» Anch´io vengo colto da un risentimento improvviso nei confronti di chi ha preparato il terreno a quella bestemmia di dimensione storica. Bestemmia che mette in dubbio con tracotanza, con smisurato, indecente orgoglio (l´aristotelica hybris) l´essenza dell´Europa. Vale a dire dell´Occidente, che non a caso è la traduzione greca di Europa; e il cui pensiero originale, non solo il nome, viene da quella terra della quale si mette in discussione il carattere europeo.
È facile scorgere in questa reazione un´eccessiva dose di retorica. Infatti c´è. È un po´ come scandire: siamo tutti greci europei. Perché no? Affidarsi ai tradizionali punti di orientamento offertici dalla storia per muoversi nel presente conduce in una sfera metafisica. La Grecia non produce più gli eterni modelli della bellezza. È chiaro. Cosi come Roma non è più la patria del diritto, né del medioevo ascetico e trascendente, né del Rinascimento che ha elevato il significato della vita terrena. È chiarissimo. Lo stesso vale per tanti altri centri della civiltà europea. Tutti quei passati non appartengono tuttavia al dominio delle nazioni o degli Stati di oggi, ma al (crociano) "regno della verità". Costituiscono nel loro insieme, con le loro differenze e contraddizioni, il comun denominatore culturale dell´Europa odierna, multilingue ma con idee affini che si sono influenzate a vicenda, formando attraverso i secoli una forte corrente di pensiero. Affidarsi unicamente al livello dei redditi, alle peripezie finanziarie e alle oscillazioni della moneta unica per determinare l´appartenenza all´Europa e di conseguenza alla sua civiltà, è semplicemente un delitto. È uno dei punti più alti toccati dalla nostra ignoranza di europei del XXI secolo. Pensare che la Grecia del presente non possa coabitare, per la sua struttura economica e sociale, alla zona dell´euro è un conto. Ma nessuno ha il diritto di pensare che essa non sia più europea. Il suo passato, quel che della sua civiltà è vivo nel nostro pensiero, nella nostra cultura, appartiene appunto al "regno della verità", di cui noi tutti europei facciamo parte. La Grecia più di qualsiasi altro paese poiché è stata l´origine di tutto. Si può amputare l´Europa?
Milan Kundera è un europeo che può capire più di altri cosa significa essere escluso dall´Europa. Come cecoslovacco ha vissuto il tradimento dell´Europa che nel 1938, con l´accordo di Monaco, abbandonò il suo paese alla Germania di Hitler. E dieci anni dopo ha vissuto la separazione della "cortina di ferro", tra l´Europa dell´Est e quella dell´Ovest. La tragedia cecoslovacca si è ripetuta nel ´68, quando i comunisti hanno cercato di dare "un volto umano" (ossia "europeo", cosi dicevano) al regime imposto da Mosca. La quale, puntuale, mandò i carri armati, senza che nessuno si muovesse in Occidente. Era dunque facile da interpretare la stizza di Milan Kundera nel caffè di Sèvres-Babylone, davanti al titolo provocatorio sulla Grecia. Gli veniva spontaneo identificarsi con quel paese. Non poteva non indignarsi e non spazzar via con un gesto della mano l´interrogativo che metteva in dubbio il carattere europeo della Grecia, madre culturale d´Europa. Nessun carro armato minaccia Atene. Le calamità che possono abbattersi, e che già si abbattono, sulla Grecia sono di un´altra natura. Quelle visibili, concrete, sono economiche. Ma c´è l´umiliazione che è altrettanto pesante.
E i greci sono orgogliosi. Dopo secoli di occupazione ottomana sono ritornati in Europa, pagando un altissimo prezzo di sangue. Byron e Chateaubriand si sono associati alla loro lotta. Delacroix gli ha dedicato quadri che all´epoca equivalevano a romanzi. E Mussolini la pagò cara, e con lui gli italiani, quando pensò di poter "rompere la schiena"alla Grecia. La resistenza al regime dei colonnelli, impossessatisi del potere nel 1967, fu aspra e coraggiosa. L´ho seguita per anni con passione e rispetto. Quando negli ultimi Settanta la fragile, disordinata democrazia greca chiese di entrare nella Comunità europea, Valéry Giscard d´Estaing, allora presidente della repubblica in Francia, replicò agli oppositori che non si poteva «chiudere la porta in faccia a Platone». La logica di quella decisione era essenzialmente politica, poiché la Grecia non aveva tutti i requisiti. Ma c´era l´aspetto simbolico. Ad Atene era nata la democrazia, la politica, il teatro, la poesia, la filosofia, la bellezza. Il paese rurale e depresso, dove gli armatori miliardari non pagavano le tasse, restava sinonimo di cultura. Non lo si poteva certo lasciare fuori dalla porta. I suoi abitanti rappresentano poco più di un millesimo della popolazione mondiale. I suoi monumenti e le sue opere letterarie e filosofiche costituiscono una porzione assai più grande come vestigia della civiltà occidentale. Di cui sono le fondamenta. Senza le quali il denominatore comune culturale alla base dell´Europa non esisterebbe.

Repubblica 18.11.11
Lo scrittore spagnolo domani riceverà il Premio internazionale del Salone del Libro
Il dovere degli storici? essere revisionisti
di Javier Cercas


Il presente ci obbliga a interpretare il passato in un modo nuovo: questo non significa manipolare i fatti, come qualcuno pensa, o ignorarli bensì rivederli alla luce dell´oggi

Nel suo monumentale Dopoguerra, lo storico Tony Judt raccontava una storiella dell´epoca sovietica. Un ascoltatore chiama Radio Armenia per chiedere se sia possibile predire il futuro. "Sì, non c´è nessun problema: sappiamo esattamente come sarà il futuro", gli rispondono. "Il nostro problema è il passato, che continua sempre a cambiare". La battuta descrive l´allegra disinvoltura con cui le successive amministrazioni comuniste manipolavano selvaggiamente la storia, estirpando quanto non interessava al perdurare della dittatura; in questo modo, gli avversari di Stalin furono non solo eliminati fisicamente, ma anche cancellati dalle fotografie. Il Potere forse non legge davvero i poeti, ma sa benissimo che, come dice un verso di T. S. Eliot, il tempo futuro è contenuto nel tempo passato, cosicché l´unico modo di dominare il futuro è dominare anche il passato; ne deriva il fatto che il Potere voglia sempre legiferare sulla storia, imporre una lettura della stessa e, nel più delirante e megalomane dei casi, abolirla.
La storiella di Judt contiene però anche una verità meno d´effetto, anche se non meno evidente. E´ vero che il passato è quasi l´unico tempo che possieda una consistenza reale, perché il presente esiste appena basta menzionarlo per farlo scomparire e perché il futuro è mera congettura e, quando smette di esserlo, si trasforma in un fugacissimo presente e poi per sempre in passato. Non è vero, tuttavia, che il passato sia qualcosa che rimane immobile, invulnerabile al trascorrere del tempo: il passato è sempre qui, integrato nel presente, che agisce su tutti, perché è la materia di cui siamo fatti e perché, in qualche modo, siamo, anche, ciò che siamo stati; ma, altresì, perché il presente altera il passato: perché quello ci obbliga a interpretare questo in un modo diverso. Nell´ambito dell´arte il fatto è chiarissimo. Fu proprio Eliot ad argomentare che le grandi opere non sono solo quelle che determinano il futuro, ma quelle che riordinano la tradizione, obbligandoci a leggerla sotto una nuova luce, e così Kafka altera la nostra percezione di Conrad o Melville, e Picasso esige che si veda in altro modo Velázquez, e allo stesso modo Bergman o Fellini furono registi diversi dopo alcuni film di Woody Allen o il Don Chisciotte non significa le stesse cose dopo Joyce o Borges. Si dirà che le opere di Fellini o Conrad o Velázquez o Cervantes non cambiano con il tempo; falso: non è solo che a volte le opere del passato cambiano materialmente, perché possiamo ricostruirle con maggiore esattezza; è che cambia sempre la percezione che ne abbiamo e, dato che, in più di un senso importante, le opere d´arte esistono solo nella misura in cui qualcuno le percepisce, sono esse stesse a cambiare.
Qualcosa di simile accade con la storia. Non sto dicendo che i fatti non sono quello che sono ma ciò che ricordiamo che sono; no: i fatti sono quello che sono, inappellabilmente, e per questo l´espressione "memoria storica" è assurda o comporta un ossimoro, poiché la memoria è personale e inevitabilmente soggettiva, mentre la storia è collettiva e deve aspirare ad essere oggettiva. Né sto parlando dell´evidenza del fatto che le ricerche degli storici esumano aspetti sconosciuti del passato, che lo completano e lo modificano. Quello che dico è che il presente ci obbliga a interpretare il passato in un modo nuovo: che, per esempio, la storia del secolo XX non è la stessa dopo gli attentati dell´11 settembre a New York o dopo la caduta del Muro di Berlino. Ciò detto, per noi che professiamo la passione della storia è sconcertante che la peggior qualifica che da anni si possa infliggere a uno storico sia quella di revisionista, in quanto il primo dovere di uno storico consiste precisamente nel revisionare la storia, nel mettere in questione le certezze comunemente accettate e, pertanto, nel proporre un´interpretazione del passato che concordi con le conoscenze e le esperienze del presente.
Altro è ciò che perpetrano per esempio in Spagna alcuni falsi storici che, da un po´ di tempo a questa parte, pubblicano con successo versioni attualizzate delle menzogne della propaganda franchista; o quelli che, per esempio, assicurano che Auschwitz fu in realtà un luogo di villeggiatura. Questo non dovrebbe essere noto come revisionismo; dovrebbe essere noto per quello che è: come una manipolazione o una menzogna o, se preferiamo essere generosi, come semplice ignoranza. Ma che per paura di essere confinati nelle latrine del cosiddetto revisionismo ci siano degli storici che eludano la realtà o si mordano la lingua o rinuncino al coraggioso rischio dell´interpretazione e si rassegnino alla docilità pusillanime dell´ortodossia accademica o ideologica sarebbe una catastrofe da cui nessuno uscirebbe vincitore, salvo quelli che mentono, manipolano e ignorano. In fin dei conti, il mestiere dello storico non consiste soltanto nel raccontare la storia, ma anche e in fondo è la stessa cosa nel rivedere o "revisionare" come la storia sia stata raccontata, e nel revisionare la revisione e la revisione della revisione e la revisione della revisione della revisione, e così all´infinito. Vedendo le cose in questa prospettiva, bisognerà concludere che la qualifica di revisionista, applicata agli storici, è quasi pleonastica. Se vediamo le cose in questa maniera, il revisionismo è unicamente ciò che praticano i veri storici.
(traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 18.11.11
Un saggio raccoglie una serie di interventi di Stefano Rodotà dedicati a questo tema
Per difendersi dal cinismo è bello fare la morale
La degenerazione dei comportamenti induce l´autore a rimpiangere il vecchio valore della ‘rispettabilità´
di Benedetta Tobagi


Non si arrende, Stefano Rodotà, e invita tutti a fare altrettanto: il volume Elogio del moralismo (Laterza), una selezione ragionata di articoli e contributi dal 1991 a oggi, è l´orgogliosa risposta di un "vecchio, incallito, mai pentito moralista" alla lunga stagione in cui una martellante campagna mediatica della destra ha ridotto questa parola a insulto e indicatore di invidia o impotenza politica. Nel solco ideale di Berlinguer, Rodotà ripulisce il termine dalle recenti incrostazioni, per restituirgli la scintillante durezza delle origini. Puro e pratico insieme, il moralista "attivo" non è un ingenuo né un´anima bella, ma neppure si arrende al machiavellismo di bassa lega, né alle versioni deteriori della "razionalità del reale" hegeliana. Continuamente teso verso la realtà, presente e responsabile, è attento ai fatti, tallona gli "immorali", denuncia gli scandali e propone alternative.
L´orizzonte di riferimento di Rodotà è una "moralità costituzionale", l´insieme di principi e "virtù repubblicane" iscritti nella Carta come deterrente in primo luogo dei "mostruosi connubi" tra affari e politica. La sezione più interessante è infatti quella che riunisce analisi e riflessioni sulla crisi di Tangentopoli, dalle origini (che poté seguire da vicino come deputato) fino alle riflessioni sulla nuova corruzione del 2011. Rodotà si sofferma sul meccanismo perverso, maturato nel corso della storia repubblicana, per cui il ceto politico (quand´era ancora forte dell´immunità) ha affidato ai giudici il compito di "decisori finali", sbarazzandosi del pesante onere di sanzionare i comportamenti che, seppure privi di rilevanza penale, devono essere stigmatizzati perché sono sbagliati e dannosi, e azzerando così i propri vincoli di moralità e responsabilità. La "giurisdizionalizzazione" e la parallela deresponsabilizzazione della politica hanno privato l´Italia dei normali meccanismi autocorrettivi del sistema che altrove (Francia, Germania, Regno Unito, Usa) supportano e affiancano l´azione della magistratura. Ma non tutto può passare per i tribunali: il moralismo deve tornare a svolgere la sua salutare funzione pubblica.
Il libro dichiara l´ambizione di rafforzare gli anticorpi democratici contro ritornelli micidiali come "non si può cedere al moralismo", "tanto lo fanno tutti" e "non è penalmente rilevante". Leggendo, ripercorriamo l´impegno di Rodotà come giurista, uomo politico, intellettuale, editorialista, contro "gli inaccettabili silenzi di una cultura alla quale non si chiede di essere militante, bensì di essere parte di una difficile discussione pubblica". Il "moralista" usa le armi della persuasione, argomentazioni chiare e rigorose ed esempi storici per portare avanti una pedagogia democratica. La "moralità delle regole" è la chiave di volta: senza di esse, l´interazione diventa quasi impossibile. Chi si siederebbe al tavolo con un baro o uno chef avvelenatore? Ritroviamo l´ex presidente dell´Autorità garante per la protezione dei dati personali spiegare passo passo perché la privacy dell´uomo politico, quando la sua condotta privata interferisce col ruolo pubblico che riveste, non può prevalere sul diritto dei cittadini di vigilare sull´esercizio concreto del potere e su chi li governa. Ritroviamo il giurista che aiuta i non addetti ai lavori a intendere la pericolosità oggettiva del processo di "decostituzionalizzazione" in atto da anni o interviene sul tema spinoso del testamento biologico.
La degenerazione progressiva dei comportamenti induce lui (e molti altri) a rimpiangere paradossalmente il vecchio valore della "rispettabilità": per quanto detestabile fosse l´ipocrisia che l´accompagnava, era comunque preferibile alla versione perversa della "trasparenza", intesa come esibizione (con avallo implicito o esplicito) dell´illegalità o della violazione di valori e principi della moralità costituzionale. Condotte che danno il cattivo esempio ed erodono la legittimazione sociale del ceto politico. Contro l´acquiescenza nei confronti del ricorso sistematico alla menzogna, memore degli scritti di Arendt, che mettevano bene a fuoco come essa sia in certa misura connaturata alla politica, ricorre a un argomento "realista": essa ha effetti distruttivi sullo spazio della politica, perché corrode la fiducia dei cittadini "in tempi in cui la produzione di fiducia è indispensabile" per garantire la coesione sociale così come per favorire la stabilità del sistema finanziario.
La sensibilità del laicissimo Rodotà converge con quella evangelica: lo scandalo, come da etimo, skandalon, è una pietra d´inciampo, che ostruisce il cammino e il funzionamento regolare del corpo politico e sociale. Sconcerta riscoprire l´attualità di alcuni vecchi scritti, ma questo dato, avverte il professore, non deve diventare il pretesto per accasciarsi nello sterile fatalismo di quanti considerano la corruzione un dato antropologico a cui arrendersi impotenti. Cresce nei cittadini la fame di "moralismo" per temprare gli eccessi di cinismo e uscire dalla "logica del supermercato". Rodotà esorta a collocarsi in una prospettiva temporale più lunga, raccogliendo la sfida di un lavoro lento e faticoso. Non vi è azione morale senza la consapevolezza e la tentazione del male. L´esistenza, ineliminabile, del negativo è il dato da cui parte l´azione degli uomini di buona volontà: cosciente di essere sempre insufficiente, ma, proprio per questo, sempre necessaria.

l'Unità Lettere a Luigi Cancrini 18.11.11
Il colpo di coda della Roccella

«Cercavi giustizia ma trovasti la legge». In una famosa canzone, Francesco De Gregori usava questo paradosso per indicare la distanza siderale tra esseri umani e diritti umani. Uno sgradevole colpo di coda del Governo uscente, assestato dal sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, non fa che confermare il teorema. Da un lato ci sono esseri umani con malattie genetiche trasmissibili che vorrebbero avere ugualmente dei figli sani, grazie al progresso della scienza in materia di diagnosi pre-impianto e di fecondazione assistita.
Dall’altro, la loro umana speranza viene impedita dalle norme disumanedellaLegge40,cheRoccellaratifica uscendo per ultima da palazzo Chigi e sbattendo la porta con la sua proverbiale pietas cattolica. «Siete malati e non avrete figli»: questo il messaggio finale. A meno che, potremmo aggiungere, non vi riduciate in stato vegetativo: in quel caso, come sottolineava un altro campione dei diritti umani riferendosi a Eluana Englaro, nulla vi vieterebbe di procreare. Che bravi questi cristianissimi «difensori della vita», quando si tratta di non nati e di morti viventi: il peccato mortale, che il loro dio li perdoni, è soltanto quello di essere vivi.
Paolo Izzo