domenica 20 novembre 2011

L’Unità 20.11.11
ANPI
Oggi 130 piazze per «rafforzare l’antifascismo»


Rafforzare l'antifascismo e il futuro della democrazia. Con questo slogan l'Associazione nazionale partigiani d'Italia lancia la campagna per il tesseramento, alla quale hanno già aderito diversi scrittori e artisti: da Marco Paolini a Moni Ovadia, da Dacia Maraini a Carlo Lucarelli.
Oggi l'Anpi sarà presente in 130 piazze italiane proprio per lanciare la campagna. Si tratta di una giornata, sottolinea l'associazione, «delle radici: antifascismo, Resistenza, Costituzione, per tornare ad incontrarsi intorno a quei capisaldi della democrazia che hanno permesso al paese di condurre un'esistenza civile per oltre 60 anni e che oggi si vorrebbero far passare per vecchi, quindi da stravolgere se non cancellare». Ma anche una giornata «per fare dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia un punto di riferimento, ancora più largo e forte, per tutti coloro che intendono assumere un impegno di responsabilità per il Paese» e per dire «no a chi sta togliendo dignità all'Italia e speranza in un futuro migliore ai cittadini». L'elenco delle città e delle piazze in cui saranno presenti i gazebo è pubblicato sul sito dell'Associazione all'indirizzo http://www. anpi.it/eventi/tesseramento/.

L’Unità 20.11.11
In vent’anni il numero dei residenti stranieri è aumentato di dodici volte
Secondo l’ultimo rapporto Eurostat solo uno su mille ci riesce
Cittadinanza italiana
Il percorso a ostacoli di Sumaya e Babak
L’odissea di una giovane scrittrice nata nel nostro Paese e di un attore iraniano che ci ha fatto conoscere il cinema di Kiarostami. Cavilli, beffe, ritardi immotivati. Così un diritto diventa mission impossible
di Igiaba Scego


Negli ultimi 20 anni, tra il 1991 e il 2011, il numero dei residenti stranieri è aumentato di 12 volte. Tuttavia gli immigrati che sono diventati cittadini sono ancora relativamente pochi». La frase è del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che il 15 Novembre scorso ha voluto ribadire, davanti ad un uditorio di giovani figli di migranti, l'importanza di essere cittadini e di far parte della weltanshaung di un Paese. La cittadinanza, sia per i migranti residenti stabilmente da più di 5 anni in Italia, sia per la seconda generazione di nati nella penisola, è ancora un’oasi lontana, per molti purtroppo una vera mission impossible. Secondo l'ultimo rapporto Eurostat (ufficio statistico dell'Unione Europea) l'Italia è tra i Paesi meno inclusivi d'Europa. Solo una persona, su mille abitanti residenti, riesce ad ottenere la cittadinanza.
Uno su mille, come nella famosa canzone di Gianni Morandi e verrebbe veramente da dire come fa il Gianni nazionale «ma quanto è dura la salita. In gioco c'è la vita».
Questo almeno devono aver pensato l'attore/montatore Babak Karimi e la giovane scrittrice Sumaya Abdel Qader. Oggi entrambi sono italiani, ma il percorso per arrivare all'agognata cittadinanza è stato non solo ad ostacoli, ma anche pieno di trappole e disillusioni.
Babak Karimi è di origine iraniana. Le sue attività sono il montaggio e la recitazione. Nelle sale italiane lo si può vedere nei panni di un giudice severo ma equo nel film (candidato agli Oscar) «La separazione». Però in lui c'è qualcosa che va oltre il semplice successo perso-
nale. È diventato nel tempo l'anello di congiunzione tra il cinema iraniano e l'Italia. Dirige i doppiaggi, segue le traduzioni dei dialoghi e permette al pubblico italiano di poter incontrare direttamente i protagonisti di questo cinema tanto amato. Se Kiarostami, Makhmalbaf, Panahi, Jalili sono apprezzati anche in Italia, molto si deve all'opera di questo grande piccolo uomo.
Purtroppo il paese invece di ringraziarlo, lo ha fatto penare per ottenere il suo diritto ad essere cittadino. La sua domanda è stata rifiutata ben tre volte. Alla quarta l'ha spuntata. Il primo rifiuto è arrivato perchè non è riuscito a dimostrare di percepire quel reddito necessario per la cittadinanza. Il secondo invece per una lettura «meticolosa» della legge. All'epoca in cui Babak aveva richiesto la cittadinanza servivano 15 milioni di vecchie lire di reddito effettivo. Risultò che gli mancavano 250.000 lire. In poche parole la possibilità di ottenere la cittadinanza era sfumata per pochi spiccioli.
Il terzo rifiuto una beffa. Babak questa volta si era preparato. Il reddito era più dei 15 milioni richiesti. Tutto era stato calcolato al dettaglio. Purtroppo le beffe non si fanno calcolare. E la risposta fu: «la cittadinanza le è stata rifiutata perché il suo non è un caso di interesse pubblico». Poche righe, secche. Babak si chiese per giorni cosa significasse interesse pubblico. «Ricordo che andai a chiedere spiegazioni. Venni ricevuto da uno di quei tipici burocrati che puoi trovare solo nelle pellicole di De Sica. Era magrolino e attorniato da mobili pesanti e polverosi. Fu lui a spiegarmi il senso di quelle due parole per me senza significato». Praticamente Babak scoprì che siccome la cittadinanza era anche una faccenda discrezionale si dava di solito o ad un capofamiglia indigente con 5 figli o alle persone famose come i calciatori o i cantanti. «Le vie di mezzo erano automaticamente fuori. Se eri del ceto medio e pagavi le tasse...non risultavi essere interesse pubblico».
Una beffa simile è capitata anche a Sumaya Abdel Qader. Nata a Perugia da genitori giordano-palestinesi. Come da protocollo tra il 18 ̊ eil19 ̊annodietàc'è,perinatinel territorio nazionale, la possibilità di richiedere la cittadinanza. Sumaya naturalmente all'epoca dei fatti ha presentato tutti i documenti necessari e l'iter è andato verso la logica conclusione: l'ok alla cittadinanza. La sua però è durata un giorno solo. L'intera procedura infatti è stata annullata dopo il giuramento perché una funzionaria si era resa conto che la residenza di Sumaya non era continuativa come richiedeva la legge. Risultavano infatti alcuni mesi di interruzione. Premessa necessaria per l'ottenimento della nazionalità italiana per i figli di migranti nati in Italia è infatti quella di avere una residenza continuativa Persino una innocua vacanza può essere fatale. Sumaya però cade dalle nuvole. Lei è sicura di non essersi mai mossa dall'Italia. Dove stava l'errore? Per scoprirlo Sumayacihamesso12anniegrazieaun avvocato: un cambio residenza (sempre in Italia) non registrato dal Comune. Un disguido della burocrazia quindi.
Nel 2009, 31 anni dopo la sua nascita in questo Paese, Sumaya è diventata quello che era da sempre, italiana cioè. Il suo secondo giuramento è stato quasi un matrimonio. Molte Tv hanno presenziato, pure una troupe di Al Jazeera. Per cambiare le cose è partita da tempo e durerà fino a febbraio la campagna «L’Italia sono anch’io» (www.litaliasonoanchio.it) a sostegno di due progetti di legge sul tema dei diritti di cittadinanza.
l’Unità 20.11.11
Caro ministro,  fermiamo la strage dei migranti
Dal primo gennaio 2011 ad oggi 2157 immigrati sono morti o dispersi in mare mentre cercavano di raggiungere le coste Colpa anche della politica dei respingimenti, da superare
di Luigi Manconi


Gentile Ministro Andrea Riccardi,
le scrivo a pochi giorni dal suo insediamento sia perché la stessa definizione del dicastero affidatole, Cooperazione e Integrazione che riunisce competenze finora attribuite al ministero dell’Interno e a quello degli Esteri costituisce di per sé una importante novità; sia perché la sua storia personale e quella del movimento da lei fondato, la comunità di Sant’Egidio, rappresentano un significativo capitale di fiducia; sia perché, infine, la terribile emergenza di cui intendo parlarle è causa di una teoria ininterrotta di morti.
Esattamente nel giorno della sua nomina a ministro, a bordo di un’imbarcazione che trasportava 28 migranti verso il porto di Cagliari è stato ritrovato il cadavere di un uomo, probabilmente di nazionalità algerina (l’incertezza sulla sua identità aggiunge un ulteriore elemento di tragedia alla tragedia). Questo consente di trarre un bilancio – davvero crudele – di quell’autentica strage che si consuma nel mar Mediterraneo, giorno dopo giorno. L’osservatorio di Italiarazzismo.it, curato da Valentina Brinis e Valentina Calderone, ha contato in 2157 i migranti morti o dispersi nel tratto di mare tra l’Africa e l’Europa, a partire dal 1 gennaio del 2011. Tale stima corrisponde, sostanzialmente, a quella fornita da Fortress Europe e da un coordinamento di associazioni, costituito da Acli, Centro Astalli, Caritas Italiana, Comunita' di Sant' Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes. Oltre duemilacento persone scomparse mentre tentavano una via di fuga da guerre civili e conflitti etnici, carestie e siccità, persecuzioni religiose e vessazioni politiche. E cercavano un’opportunità di vita e di futuro nel nostro continente. Circa duecento morti o dispersi al mese, quasi sette ogni giorno che Dio manda in terra. Sappiamo che, per interrompere questa strage o almeno ridurne la portata, è necessario operare sui tempi lunghi, elaborare politiche di ampio respiro, promuovere strategie che coinvolgano l’intera Europa. Ma qualcosa è possibile fare fin da ora. La politica dei respingimenti si è dimostrata, oltre che iniqua, totalmente fallimentare. È possibile elaborarne un’altra, intelligente e razionale. Se vorrà provarci, pazientemente e tenacemente, caro ministro, troverà il consenso e il sostegno di tanti.

La Stampa 20.11.11
«È ora di dare la cittadinanza a tutti i bambini nati in Italia»
domande a Vincenzo Spadafora presidente Unicef Italia
di Sar. Ric.


Presidente Spadafora, quale dato l’ha colpita di più dell’indagine?
«Quello relativo alla legislazione sulla cittadinanza: 7 adolescenti su 10 non ne erano a conoscenza, percentuale che non sale se la domanda viene posta al target adulto. La maggior parte degli adolescenti e degli adulti sarebbero però d’accordo nel concederla per diritto a chiunque nasca in Italia. Dimostra che il nostro è un Paese pronto e che non bisogna attendere oltre».
La ricerca rileva il razzismo «percepito». Stando ai dati oggettivi in vostro possesso, quanto questo percepito rispecchia la realtà?
«C’è una buona probabilità che tale percezione non si allontani troppo dalla realtà. I dati devono far riflettere sulla responsabilità che le istituzioni, le agenzie educative e i media hanno nel dare il “buon esempio”. Non si può non notare che più della metà del campione degli adolescenti di origine straniera ha assistito a fenomeni di razzismo (54.1%) e vi è un 22.2% che li ha subiti, principalmente a scuola (61.5%) ».
È appena nato un ministero tutto nuovo per la cooperazione e l’integrazione. Collaborerete?
«La Campagna “Io come Tu” va proprio in questa direzione, l’accesso alla cittadinanza dei bambini nati e/o cresciuti nel Paese in cui i genitori sono emigrati è cruciale per la loro integrazione. L’esperienza, l’autorevolezza e la capacità di Andrea Riccardi saranno fondamentali per il successo dell’azione di Governo».

La Stampa 20.11.11
Integrazione dei giovani stranieri in Italia
Piccoli razzismi crescono E l’Unicef lancia l’allarme
Il 54% dei ragazzi intervistati dichiara di aver subito delle discriminazioni
di Sara Ricotta Voza


L’IMPORTANZA DELLE PAROLE Il 44% dei ragazzini percepisce il fenomeno soprattutto come «emarginazione»
MILANO QUAL E’ LA PRIMA PAROLA CHE TI VIENE IN MENTE PENSANDO ALL’ITALIA?

In qualche centinaio di case italiane, nell’ottobre scorso, dev’essere andato in scena il seguente quadretto: genitori che arrancano «a mano» sulle pagine del censimento e figli che rispondono via web all’indagine Unicef «sulla percezione del razzismo tra gli adolescenti italiani e di origine straniera».
Diligenti entrambi, ci permettono di saperne di più sugli italiani che siamo e che abbiamo intenzione di essere, oltre che su quei «nuovi italiani» che il presidente Napolitano ha definito - facendo commuovere il campione Balotelli - «la linfa vitale di cui il Paese ha bisogno».
Oggi infatti è la «Giornata dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza» e l’Unicef ha pensato (già un anno fa), che fosse il caso di dedicarla a una grande campagna di sensibilizzazione (Titolo: «Io come Tu») contro il razzismo tra i giovani. Così ha incaricato un istituto di ricerche di mercato (Lorien) che ha deciso di interrogare i giovani - italiani e di origine straniera - esclusivamente via web.
I risultati, specie se raffrontati coi dati usciti da un’analoga indagine del 2010, sono per un verso rassicuranti e per l’altro sorprendenti. Rassicuranti perché certificano che adolescenti italiani e di origine straniera si frequentano (70%), lo fanno principalmente nel tempo libero (43,9) a scuola (42,2%) e a prescindere dal luogo, l’incontro avviene in una clima e per ragioni di amicizia (50%).
Ma sono anche sorprendenti (e un po’ inquietanti) perché se nel 2010 il giudizio su questo rapporto era positivo per il 60,3% degli adolescenti interrogati, oggi questi sono scesi al 55%; mentre chi valuta in maniera negativa la presenza di stranieri in Italia è salito dal 10,1 al 35,6%.
Non particolarmente rassicuranti sono pure i risultati che vengono dalle domande che citano apertamente la parola «razzismo». Quando ai ragazzi si chiede se hanno vissuto «esperienze di razzismo», la risposta di maggioranza è «sì». Con un 31,9 per cento che dice di averlo vissuto «indirettamente» e un bel 22,2% che lo ha «subito» in prima persona.
Ma che cosa intendono, i ragazzi, per «razzismo»? Per loro non è soltanto «manifestazione violenta» (15,3%), ma soprattutto «rifiuto o emarginazione» (44,4%).
Interessante, a questo proposito, confrontare queste risposte con quelle del campione di adulti inserito per completare il quadro, visto che è da loro che provengono gli esempi (positivi o no) più significativi per i ragazzi. Quanto agli adulti, dunque, viene fuori che si stanno facendo sempre più sensibili al problema, definendo come razzista «qualsiasi distinzione verso persone di altra etnia religione cultura ideologia (53,7%) ; gli stessi adulti, però, per la maggioranza (56,1%) non hanno mai assistito a episodi di razzismo o, se sì, ne sono venuti a conoscenza attraverso i media (29%).
Qualche sorpresa e qualche sorriso (con una punta di amarezza) vengono anche dalle risposte sulla percezione che dell’Italia hanno gli adolescenti di origine straniera. Domanda che più diretta non si può: «Qual è la prima parola che ti viene in mente pensando all’Italia? ». Risposte: «pizza! »; e poi (per fortuna) «salute», «casa», «crisi». Quando però si chiede loro, complessivamente, come vivono in Italia, la risposta è «Bene» per il 66,7%.
Altre «scoperte» che si fanno leggendo questi dati? Che i ragazzi percepiscono che a combattere il razzismo in Italia «sono» soprattutto le associazioni di volontariato (48%), mentre «dovrebbero» farlo le «istituzioni nazionali» (50%).
Tutta questa indagine, come detto all’inizio, riguarda «il percepito» sul razzismo in Italia. Quello che non è percepito ma è invece un dato tout court è la (non) conoscenza della legge italiana sulla cittadinanza, proprio quella che il Capo dello Stato ha invitato a rivedere una settimana fa. A oggi, infatti, se sei nato in Italia da genitori stranieri non puoi avere la cittadinanza fino a i 18 anni, e poi hai un solo anno di tempo per farne richiesta, altrimenti toccherà aspettarne altri tre. Domanda finale: «Lo sapevi? ». Risposta corale: «No». Sfiora il 70% tra adolescenti italiani, stranieri e adulti.

Corriere della Sera 20.11.11
Se la musica colta ha un debito con i Rom
di Magda Poli


Moni Ovadia in Senza confini. Ebrei e zingari parla di Rom, di Sinti e altri popoli riuniti sotto la definizione, non sempre benevolente, di «zingari». Ma soprattutto parla di quel male contagioso e pericoloso che sono i pregiudizi, figli dell'ignoranza e nipoti della stupidità.
Zingari ed ebrei nell'Europa dell'Est hanno avuto storie diverse ma non dissimili dividendo, prima della seconda guerra mondiale, un destino di migrazione, di pogrom, di esilio, di povertà e durante la guerra quello dei campi di sterminio, ne morirono circa 500 mila. Ma nel dopoguerra gli ebrei, dice Ovadia, «sono entrati nel salotto buono» mentre il popolo degli «uomini», questo significa rom, continua a subire il tormento del pregiudizio, dell'emarginazione e del razzismo; anche se in verità gli ebrei soprattutto se israeliani sono sempre un «amato» bersaglio. Senza confini è un concerto di canti, intervallati da brevi storie rom o ebraiche, e musiche trascinanti e melanconiche, struggenti e vitali, eseguite da magnifici interpreti dal «virtuosismo metafisico»: Ion Stefanescu, Marian Serban, Albert Florian Mihai, Marin Tanasache, Paolo Rocca e Massimo Mercer. Ovadia, sempre un po' sottotono anche nel cantare quasi a voler far vivere solo melodie e ritmi, porta la sua speculazione nel campo della musica e fa sentire come la musica colta, quella popolare russa, o i grandi compositori americani, abbiano un debito con gli «zingari» e con gli ebrei dell'est Europa.
A Ovadia va il merito di riuscire a far capire come le differenze delle culture e dei caratteri siano altrettanto profonde delle somiglianze e che tale ricca varietà non ci renda più poveri ma anzi la conoscenza, unica seppur fragile barriera contro l'ostilità disprezzante per «l'altro», spalanchi le porte dell'anima e della mente.

Corriere della Sera 20.11.11
Pd, Bersani nella tenaglia tra area riformista e sinistra
Veltroni: basta con coalizioni da Mastella a Caruso
di Maria Teresa Meli


ROMA — Ognuno lo dice con il suo stile. Walter Veltroni con cautela: «Il governo Monti ci offre l'opportunità di costruire una vera forza riformista e di archiviare lo schema delle coalizioni che andavano da Mastella a Caruso». Enrico Letta con maggiore nettezza: «Ora abbiamo l'occasione per costruire il Pd come lo avevamo immaginato in origine, attirando anche i consensi dell'area moderata». Beppe Fioroni senza peli sulla lingua: «Nessuna forza politica uscirà dall'esperienza governativa così come era entrata. Il Pd dovrà rimettersi in discussione e cambiare, perché se invece continua a inseguire Di Pietro e Vendola esploderà».
Tre leader molto diversi tra di loro, accomunati però da una certezza: il Pd non può perdere il treno che gli offre il governo Monti. Il che significa che Bersani dovrà decidersi a non assecondare i Fassina, gli Orfini, i Damiano, quando verrà il momento — e il momento verrà — in cui la linea politica economica dell'esecutivo creerà delle difficoltà alla sinistra e alla Cgil. Veltroni in questo è determinato: «Sulla riforma dell'articolo 18 dobbiamo affidare a Monti la ricerca di un punto d'equilibrio», ha spiegato ai colleghi in questi giorni. Insomma, niente più tabù. Del resto, come ha rivelato Europa, secondo i sondaggi, il Pd, più viene identificato come il partito del governo, più aumenta i propri consensi.
Il rischio che la forza politica guidata da Bersani si spacchi, quindi, è un'eventualità concreta, che gran parte dei veltroniani e dei lettiani quasi si augurano: «La sinistra vada con la sinistra, i riformisti con i riformisti». In poche parole: o nel Pd cambia la maggioranza e prevale l'asse Letta-Veltroni-Franceschini-Fioroni, oppure la prospettiva che nasca un altro contenitore politico diventa tutt'altro che improbabile. Sembra puntare su questo scenario anche Renzi, che non ha rinunciato all'aspirazione di buttarsi nella politica nazionale. Il sindaco di Firenze, che plaude a un governo che «ha rottamato la classe politica attuale», non ha intenzione di fermarsi: «Andiamo avanti più decisi di prima».
Bersani dunque dovrà decidere se assecondare quello che si sta muovendo dentro il suo partito o se contrastarlo, mettendo però nel calcolo una possibile spaccatura. La prova più evidente di questa nuova situazione la si è avuta giovedì scorso, nel corso dell'assemblea dei senatori socialisti. Pietro Ichino, la «bestia nera» della sinistra del Pd, nel suo intervento ha attaccato il responsabile economico Fassina e Orfini, ed è stato applaudito lungamente non solo dai veltroniani, come era ovvio, ma anche dai lettiani e da una fetta della maggioranza di Bersani.
Certo, in questo momento Monti non ha nessun interesse a spingere sull'acceleratore. Ma, prima o poi, i nodi del programma andranno sciolti. Si dovrà affrontare la questione pensioni, anche se Orfini sostiene che solo dopo che sono state fatte tutte le riforme possibili e immaginabili «si può pensare se introdurre una flessibilità dell'uscita». E il problema del mercato del lavoro andrà preso di petto. Ichino, come è noto, una sua ricetta ce l'ha, ed è molto molto simile a quella che potrebbe adottare il governo, con buona pace di Cesare Damiano, che invece sostiene: «Il mercato del lavoro non si tocca».
E ancora, basta mettere a confronto due interventi pubblicati ieri dall'Unità per capire le distanze incolmabili che dividono la sinistra e i riformisti del Pd. Se per il veltroniano Tonini «le riforme Monti fanno parte del codice genetico originario del Pd», per il bersaniano Fassina, invece, «l'identità programmatica del partito non può coincidere con il programma del governo sostenuto dal Pdl». Bersani è avvertito: conciliare queste posizioni non è possibile, dovrà scegliere.

il Fatto 20.11.11
La democrazia riattivata
di Furio Colombo


La sera del 12 novembre, prima che la città di Roma iniziasse, sotto il Quirinale e davanti a Palazzo Grazio-li, il suo festoso commiato dal presidente del Consiglio dimissionario, un deputato pdl, molto laborioso (sempre presente) ma poco noto, Roberto Antonione, ha chiesto la parola alla Camera, per fatto personale. Il regolamento impone che ciò avvenga a fine seduta, perciò Antonione ha cominciato a parlare mentre tutti stavano uscendo. Non tutti. Una buona parte di deputati della Casa della libertà sono restati in aula, raccolti in modo non proprio amichevole sotto il punto da cui Antonione parlava. Un urlo poderoso e compatto si è levato alla prima frase, anzi alla prima parola, che non si è sentita o capita. Antonione si è fermato, rendendosi conto del progetto dei suoi ex colleghi e amici di tanti anni (ho conosciuto Antonione nella legislatura del 1996, l'ho ritrovato in Senato nel 2006, e poi alla Camera nel 2008, sempre vicino a Berlusconi) era di fare in modo che non si sentissero le sue parole. Vi prego di fare attenzione a questa vicenda: il deputato Antonione, prima della seduta in cui Berlusconi ha finito la sua corsa (e Fabrizio Cicchitto, con un lapsus, ha addirittura annunciato le dimissioni del premier con il verbo al passato, molto prima che il suo capo salisse al Quirinale) aveva dichiarato subito che non avrebbe in nessun caso votato, quel giorno o mai più, a sostegno di Berlusconi.
ANTONIONE se ne è andato dal Pdl senza essere parte di un gruppo, senza aderire ad alcun gruppo, senza difendersi, come politico e come persona, in alcun modo. Per questo, durante tutti gli interventi precedenti dei suoi ex amici, era stato (da tutti) chiamato "traditore". Intendeva rispondere alla gravità dell'offesa, ma anche raccontare, spiegare. Questo i suoi colleghi non volevano che accadesse e per questo hanno organizzato una barriera compatta di urla, in modo che non restasse traccia della sua voce. Di solito tutti i non interessati vanno via in fretta alla fine di una seduta. Non in questo caso. Ci siamo fermati in molti, se non altro a difesa del deputato che non riusciva a parlare e per costringere il presidente di turno a difendere il diritto violato (ciò che non sempre avviene).
E ALLORA Roberto Antonio-ne ha potuto spiegare che i suoi anni con Berlusconi sono stati anni di umiliazione, di forzata ubbidienza, di ordini trasmessi dal caporalato lungo linee di comando che non hanno nulla di parlamentare, perché sono arbitrariamente costituite dentro la corte del sultano, non rispecchiano nulla delle competenze o dei ruoli effettivamente assegna-ti in Parlamento, ma solo decisioni, anche improvvisate o inventate sul momento, dal partito di plastica. Qualche volta sono istruzioni degli avvocati, qualche volta rappresentano iniziative dirette a piacere o compiacere, ma senza nessun senso politico. A volte sono eventi assurdi o umilianti come la vicenda di Karima El Mahroug (Ruby Rubacuori), la prostituta minorenne, già frequentatrice di Arcore che era stata fermata dalla Questura di Milano, e che Berlusconi ha fatto consegnare alla sua amica e consigliera regionale Minetti contro la decisione del giudice di sorveglianza. Ma l'incredibile evento non è bastato a Berlusconi. Ha preteso un voto di fiducia del Parlamento per confermare ciò che il presidente del Consiglio si era preso la responsabilità di affermare con la sua autorità istituzionale: che la ragazzina marocchina Ruby era in realtà la nipote egiziana del presidente Mubarak. Lo ripeto qui perché questo è stato l'argomento più importante e drammatico del discorso, continuamente disturbato da urla, del deputato Antonione, ex pdl. "Traditore io? Ma se ho persino votato che Ruby era la nipote di Mubarak! Ora non posso più umiliarmi a questo punto, non posso più accettare questo gioco di sottomissione assoluta". In quel giorno di fine regime che, a parere di chi scrive, non avrà ritorno, due eventi importanti sono dunque passati inosservati: il primo è la confessione pubblica di Antonione, che è una lunga lista di eventi umilianti e assurdi, non solo la storia di Ruby. Il secondo è il tentativo di molti membri del Parlamento di non lasciar parlare, o almeno di non lasciar sentire la voce del collega che vuole far sapere che cosa accade dietro le mura del più strano e anomalo partito del mondo, dove non esistono congressi, non ci sono elezioni e valgono solo nomine e ordini del padrone. Dire che "la democrazia è sospesa" dopo l'uscita di scena di Berlusconi, quando gli eventi sono quelli narrati dal deputato Antonione, che ha dovuto lottare e ha avuto bisogno di solidarietà e di aiuto per poter farsi ascoltare in Parlamento è un’iniziativa piuttosto stravagante.
DICIAMO invece che la democrazia – che è stata sospesa in tutti questi anni, se pensate alla vicenda Santoro e al ferreo controllo della Rai e del suo Tg1 – è tornata alla vita in Italia. Propongo, sia ai cortei dei giovani sia ai critici più che mai legittimi di ciò che fa o farà il governo Monti, di non accettare confronti, come se si trattasse di due diversi governi democratici. Uno, come ci ha raccontato Antonione, che Berlusconi lo ha visto da vicino, è stata una lunga assenza della Costituzione e del diritto. L'altra è un governo che ha avuto la fiducia di un Parlamento disperato e che da oggi giudicheremo in libertà.

il Fatto 20.11.11
Profumo di novità a scuola
di Marina Boscaino


Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Questa volta hanno fatto un effetto particolare le parole della cerimonia del giuramento del nuovo governo.
Attribuisco a chi ha pronunciato quella formula solenne e densa, a prescindere, altra intenzionalità, altra consapevolezza, altra motivazione, dopo lo scempio degli ultimi anni. Ho idea che la gravità del momento, le specifiche competenze professionali nel settore di destinazione e il non diretto coinvolgimento nella farsa politica degli ultimi 15 anni – con il senso di lontananza e di disgusto che hanno lasciato in molti cittadini – abbiano potuto implicare un’adesione più concreta, profonda, etica a quelle parole.
Non ho formule in tasca, certezze granitiche da esibire, pregiudizi da urlare in via preliminare. Dell’ingegner Francesco Profumo non so niente, se non ciò che si legge da giorni: una brillantissima carriera, riconosciuta sia in ambito scientifico che accademico, rettore del Politecnico di Torino, presidente del Cnr. Non ho motivi per credere che la sua azione sulle politiche scolastiche sarà di un certo tipo piuttosto che di un altro; né per pensare che un manager tratterà la scuola come un qualsiasi altro sistema: ho fiducia che ne possa comprendere specificità e complessità; non do per scontato che lui – che ha fatto parte del primo comitato di valutazione dell’università e della ricerca (Civr) – applicherà alla scuola la valutazione becera e punitiva proposta da Gelmini e Brunetta. Potrei pensare, casomai, il contrario: che forse sia finalmente ipotizzabile un approccio culturalmente significativo al rilevamento delle prestazioni. Ciò che il prof. Profumo sarà in grado di fare lo diranno i fatti; e solo allora i commenti avranno un riscontro. Posso però dire che ci sono due sue affermazioni che mi hanno colpita: “Io credo che la scuola sia la scuola, ma certamente quella pubblica in Italia è molto importante”. “Comincerò dalle cose che conosco meglio, ovvero l'università e la ricerca. Dovrò invece studiare ancora un po' sulla parte scuola perché sono meno esperto: a ogni modo ci proverò". La seconda dice un apprezzabile atteggiamento, ragionevole e cauto, consapevole della complessità, così lontano dalle arrembanti certezze dell’immeritevole ed eterodiretta Gelmini. La prima ci rimanda al dettato costituzionale.
Qual è l’interesse della Nazione cui fa riferimento il giuramento? È la scuola della Costituzione, lo strumento per rimuovere gli ostacoli che “limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3) ; è la scuola dell’inclusione; la scuola laica e pluralista; quella il cui accesso ai massimi gradi deve essere garantito ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi.
Ha detto Profumo, promettendo ai giovani quell’ascolto che negli ultimi 3 anni è stato solo un orpello retorico per coprire l’autoreferenzialità: “Serve un programma di medio termine, una strada su cui muoversi senza strappi, dando l’idea che il Paese ha un progetto”. Il progetto è scritto nella Carta e non transita attraverso velleitarie (perché impraticabili, non perché inauspicabili) abrogazioni di norme, ma attraverso un’opera di riqualificazione: recupero della legittimità delle procedure (sa il ministro Profumo che sentenze del Tar e del Consiglio di Stato sono state completamente disattese dal suo predecessore?) ; congruenza tra fini, mezzi, risorse, risultati: analisi del concreto e abbandono delle politiche degli annunci demagogici; recupero della trasparenza delle intenzioni in rapporto con le esigenze della comunità educante; ascolto – davvero – e cessazione del rapporto conflittuale preconcetto con i lavoratori della scuola; valutazione come strumento di miglioramento delle procedure e di ottimizzazione delle risorse: non è vero che la scuola è contraria alla valutazione, ma all’improvvisazione demagogica e arbitraria; intervento sui precari, come portatori di diritti, ancor più se autoprodotto del sistema; rapporto con l’Europa non come assolvimento di un obbligo di protocollo, ma come incentivo a un approfondimento scientifico: l’acquisizione di dati del nostro sistema scolastico comparativamente peggiori rispetto agli altri non ha mai fatto registrare – fino ad ora – inversioni di politiche e interventi di sostegno: i tagli sono stati soluzione unica; studio, elaborazione: basta con il dilettantismo. La parte nobile dell’autonomia va restituita alla scuola, quella che non è (quasi) mai esistita: di ricerca, sviluppo e sperimentazione.

Repubblica 20.11.11
Una fiducia da record per il premier
Otto su dieci promuovono Monti l'Udc vola al 10%, il Pd oltre il 29%
Pdl al 24%. Sì a larga maggioranza all'esclusione dei politici
d Ilvo Diamanti


È BASTATA una settimana perché il clima d'opinione svoltasse dalla depressione all'euforia. Lo dimostra, in modo eloquente, il sondaggio realizzato da Demos mentre le Camere votavano la fiducia al governo "tecnico", guidato da Mario Monti. Con una maggioranza senza precedenti nella storia repubblicana. Ma non molto più larga di quella espressa dalla popolazione. Quasi 8 italiani su 10 (nel campione intervistato di Demos) manifestano un giudizio positivo nei confronti del governo. Ma il consenso "personale" del nuovo presidente del Consiglio è ancora più ampio: 84%. Paragonabile solo al sostegno popolare di cui dispone il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
SEGUE ISPIRATOREe protagonista della formazione del governo Monti. Naturalmente, c'è una relazione stretta fra la "misura" della fiducia parlamentaree popolare. Una maggioranza politica tanto larga e trasversale ha, infatti, favorito il consenso dei cittadini verso il governo, in modo trasversale.
Si va, infatti, dal 90% circa fra gli elettori del PD a un po' meno del 60% tra quelli della Lega e del Movimento 5 Stelle. Tuttavia, un'ondata di fiducia politica di queste proporzioni non si spiega solo con il sostegno dei partiti. Anzi, semmai è vero il contrario: la nascita del governo ha, in parte, riconciliato i cittadini con la classe politica. Come dimostra la crescita generalizzata dei giudizi positivi nei confronti dei leader. Tutti, compresi Berlusconi (che risale di alcuni punti: dal 22% al 29%) e Bossi (dal 20% al 24%). Anche se in testa, ovviamente ben al di sotto di Monti, incontriamo Corrado Passera, fino a ieri AD di Intesa Sanpaolo, oggi ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. (Pur considerando che circa un quarto degli intervistati ancora non lo conosce.) Questa inversione del clima d'opinione ha, dunque, altre cause.
In primo luogo, l'angoscia generata dalla crisi globale dei mercati, che ha investito, con particolare violenza, il nostro Paese. Ritenuto politicamente "debole", incapace di garantire le misure richieste dalla UE e dalle altre autorità economiche e monetarie internazionali. Il governo guidato da Monti appare ai cittadini una scialuppa di salvataggio nel mare in tempesta.
Questa svolta del clima d'opinione, in secondo luogo, riflette la fine dell'epoca di Berlusconi. Ormai consumata da tempo. Il governo Monti ne ha sancito e sanzionato la fine. L'ha resa possibile e visibile. Solo il 22% degli elettori (poco più di metà rispetto a un anno fa) pensa, infatti, che l'esperienza politica di Berlusconi potrebbe durare ancora a lungo. È, peraltro, indubbio che il grande consenso per il governo Monti - composto da "tecnici" - sia prodotto, in parte, dal sentimento "antipolitico" alimentato dal declino di Berlusconi e dalle difficoltà dell'opposizione. La fiducia nei partiti, infatti, resta ancorata al 5%. E quasi 8 elettori su 10 ritengono giusta "l'esclusione dei politici dalla squadra di Monti". Il governo, d'altronde, secondo i due terzi degli intervistati (o quasi), non è né di destra né di sinistra. E neppure di centro. Non ha colore politico. Un aspetto evidentemente molto apprezzato dai cittadini.
Anche per questo i calcoli "elettorali" di parte passano in secondo piano. D'altronde, se la scadenza delle elezioni si allontana, le questioni di leadership e coalizione diventano meno urgenti. E la polarizzazione risulta meno lacerante. Nonè un caso che le stime di voto premino, in misura ridotta il PD (29,4%), ma soprattutto, l'UdC, che supera il 10% (3 punti di crescita in un mese). Nel momento in cui i partiti maggiori si coalizzano, a sostegno del governo, il "Terzo Polo" diviene, infatti, ancor più "centrale". E strategico. Ne risente, in particolare, il PdL (che scende dal 26% al 24%). Penalizzato dal declino del suo leader ma anche dall'attrazione dell'UdC. Anche la Lega (sotto l'8%) e SEL (scesa al 5,2%) sembrano penalizzate dalla posizione distinta o distante rispetto al governo. L'unica "opposizione" che sembra beneficiare di questo clima è il Movimento 5 Stelle (4,6%), vicino a Grillo. Proprio perché - a differenza della Lega e di SeL - appare estraneo al sistema partitico.
In poche settimane si è, dunque, verificata una svolta negli atteggiamenti e nelle opinioni degli italiani. Impressa dalla formazione del governo Monti. Accolto dagli elettori di centrosinistra come una liberazione, da quelli di centrodestra come una pausa di sospensione (di fronte alla crisi di Berlusconi). Percepita da tutti (o quasi) i cittadini come una risposta alla crisi economica globale e alla crisi politica nazionale.
Tuttavia, gran parte degli italiani (due su tre) considera questo governo tecnico una "eccezione democratica" necessaria per aiutare - se non proprio "salvare" - la democrazia, in una fase critica. Non prorogabile all'infinito, ma comunque a lungo.
L'80% degli intervistati, infatti, ritiene necessario che il governo Monti resti in carica fino alla fine della legislatura. E tre italiani su quattro pensano che i suoi compiti non possano limitarsi all'emergenza economica e dei mercati. Ma debbano estendersi anche alle riforme istituzionali e alla nuova legge elettorale. D'altronde, questo governo, tanto atteso, appare caricato di tante attese. L'85% degli italiani lo ritiene in grado di "portare l'Italia oltre la crisi". Di guidarci fino alla Terra Promessa (la Crescita, il Pareggio di Bilancio). Come Mosé al di là del Mar Rosso.
Da ciò derivano i rischi, per questo governo e per Monti. Accolti dal più elevato livello di fiducia misurato nell'era dei sondaggi. 1) Perché attese tanto elevate espongono alla delusione e alla frustrazione. Suscitano impazienza. Mentre problemi tanto seri - che hanno radici lontane e aggravati nel corso dei decenni - non si risolvono in tempi brevi. Né possono produrre effetti visibili immediati. 2) Perché problemi tanto seri richiederanno costi sociali elevati. Ed è difficile giustificare costi sociali elevati senza effetti sociali ed economici visibili, nel breve periodo. 3) Perché, quando si parte dall'80%, anche il 70% di fiducia rischia di apparire un "calo" di consensi. 4) Perché questo governo "tecnico" ha compiti profondamente "politici" e dipende dal consenso "politico" di un Parlamento dove operano partiti deboli (anche se in diversa misura). 5) Perché, infine, ci siamo lasciati alle spalle la Seconda Repubblica, ma (per citare Berselli) di fronte c'è una "Repubblica indistinta". Il governo tecnico, guidato da Monti, non può disegnarne il modello istituzionale. Non è suo compito. D'altronde, un'eccezione democratica non può diventare normale.
Può, tuttavia, proporre almeno un diverso stile di governo e di comportamento "personale". Traghettarci oltre la "politica pop". In una Terra dove la competenza e la decenza abbiano cittadinanza.

Repubblica 20.11.11
D'Alema attacca "Lumbard a caccia delle poltrone"
di G. C.


ROMA - «Ci aspetteranno sacrifici ma si cominci dal taglio dei costi della politica».
Pier Luigi Bersani pensa che i partiti debbano fare la loro parte e dare il famoso segnale tanto sbandierato. Domani il primo consiglio dei ministri del governo Monti dirà quali sono le misure prioritarie per il risanamento, e anche le forze politiche devono battere un colpo: è il ragionamento del segretario del Pd. Così come da colpire ci sono grandi patrimoni. Ricorda Francesco Boccia, coordinatore nelle commissioni economiche di Montecitorio per i Democratici - che «per i prelievi forzosi e immediati sui depositi in Svizzera, si deve fare lo stesso accordo concluso dalla Germania; si vendano poi i beni sequestrati ai mafiosi; si aboliscano i privilegi previdenziali dei politici presenti, passati e futuri».
Massimo D' Alema esorta: «Tutti aiutino Monti ad affrontare i problemi». Lancia un affondo contro i leghisti: «Sono le poltrone il primo obiettivo della Lega» a proposito delle presidenze delle commissioni. L'ex premier ha lasciato la guida del Copasir, dove il Carroccio pensa di mettere Maroni. E Di Pietro lancia un paio di avvertimenti. Per il leader di Idv Monti non avrà «alleato maggiore» dei dipietristi, a patto che faccia «le cose che ha detto di fare», mentre se dovesse mettere al primo posto «le intercettazioni telefoniche, il processo breve, le leggi ad personam non è che perché porta il loden verde, possiamo accettarlo». Più che dallo spirito patriottico - attacca Di Pietro - il voto di fiducia a Monti da parte di molti parlamentari «è stato dettato dalla paura di andare a casa». L'altra bordata dell'ex pm è sui poteri forti e il nuovo esecutivo. Monti nell'aula della Camera si è scrollato di dosso l'accusa, ricordando quanto da lui fatto come commissario Uee ricevendo un'ovazione da Pd e Udc. Di Pietro non si accontenta: «Non ho mai creduto alle dietrologie. È un governo forte, di professionalità, di competenze e di preparazione. Questa loro professione l'hanno messa finora a disposizione di una piccola parte della società, di esponenti specifici della finanza e dell'imprenditoria. Resta da vedere se la mettono a disposizione di tutti i cittadini, se si occuperanno dei deboli o solo dei forti come loro».
Su una cosa l'Idv dà l'alt subito: «Non tutti devono pagare l'Ici». Se il governo Monti intende introdurla sulla prima casa, allora preveda sgravi per le giovani coppie, i precari e chi possiede un solo appartamento.
Comunque, Di Pietro torna a chiedere che «una volta finita l'emergenza economica e finanziaria, si torni a votare». I referendari peraltro con Arturo Parisi in testa fanno pressing per la riforma della legge elettorale, sulla quale, a parole, tuttii partiti si mostrano disponibili.

il Fatto 20.11.11
Milioni di euro agli enti religiosi
La legge mancia finisce oltretevere
Nel 2010 distribuiti soldi a pioggia a 95 istituti
Solo il 7,59 per cento dei contributi pubblici al Vaticano finisce in carità ai paesi poveri; nel 2011 i vescovi intascheranno oltre 750 milioni di euro. Gli italiani si fidano sempre meno delle gerarchie d’Oltretevere, una casta come quella dei palazzi del potere, solo molto più ricca. Arriva in libreria “I senza Dio”, un’inchiesta sul Vaticano del giornalista de L’Espresso Stefano Livadiotti. Ne pubblichiamo uno stralcio.
di Stefano Livadiotti


I negoziatori della revisione concordataria del 1984, evidentemente consapevoli del papocchio che andavano allestendo, avevano previsto la possibilità di una revisione dell’aliquota: era stato stabilito che l’8 per mille potesse diventare, per esempio, il sette o il nove, a seconda dell’andamento del suo gettito e delle spese reali della Chiesa. Il compito di monitorare la situazione, e introdurre ogni tre anni gli aggiustamenti eventualmente necessari, era stato affidato, come nella migliore tradizione, a una commissione bilaterale. Fin da subito, se ne sono ovviamente perse le tracce…. Ma ci sono tanti modi di mungere lo Stato ed è sperabile – ma non è detto – che Monti riesca a introdurre qualche salutare taglio! Il primo comma dell’articolo 6 dei Patti Lateranensi del 1929 stabilisce che l’Italia deve assicurare al Vaticano “un’adeguata dotazione d’acqua di proprietà”. Come puntualmente avviene da allora con i 5 milioni di metri cubi consumati annualmente all’interno delle sacre mura. Nel frattempo, il Vaticano ha pure cominciato a smaltire le acque di scarico attraverso la rete dell’Acea, di cui ha però puntualmente ignorato gli avvisi di pagamento. Così, quando nel 1999 la società si è quotata in Borsa, per evitare grane con i piccoli azionisti lo Stato è intervenuto una prima volta ripianando un debito vaticano di 44 miliardi. Cosa che ha dovuto fare nuovamente nel 2005, mettendo ancora mano al portafogli, questa volta per 25 milioni di euro.
I PAPAVERI in sottana si ostinano, infatti, a non considerare la bolletta dell’Acea. Per loro è semplicemente straniera. Così, alla fine, la pagano gli italiani, che non possono dire altrettanto. Se qualche volta tratta e incassa in prima persona (ha conquistato uno sconto perfino sul canone Tv per gli apparecchi degli istituti religiosi), ancora più spesso il Vaticano manda avanti gli enti-satellite o le strutture locali. Che ricevono immancabilmente un’accoglienza festosa. Da parte dei politici di ogni sponda. Basta vedere quali strade hanno preso nel 2010 i circa 200 milioni del Fondo per la tutela dell’ambiente e la promozione dello sviluppo del territorio, istituito nel 2008 e meglio noto in Parlamento come “legge mancia”. Una tranche (51 milioni e 575 mila euro) l’ha distribuita il 30 luglio 2010, con il solo voto contrario dell’Idv di Di Pietro, la commissione Bilancio di Montecitorio, che ha individuato 494 soggetti meritevoli e bisognosi. Novantacinque dei quali, guarda un po’, nel mondo della Chiesa. Per esempio: l’Arcidiocesi di Bologna (30 mila euro per la manutenzione della curia), la Confraternita Maria S. S. Assunta nella cattedrale di Palermo (50 mila euro per la chiesa di Maria S. S. Addolorata del Cristo Morto), la Congregazione missionari della divina redenzione di Visciano (50 mila euro per il potenziamento del Villaggio del fanciullo di Torre Annunziata e altri 70 mi-la per il recupero del complesso S. Maria degli Angeli), la Congregazione missionari della Sacra Famiglia di Castione di Loria (50 mila euro per il recupero di un fondo agricolo con specie vegetali autoctone arcaiche) e la Congregazione suore gerardine di Sant’Antonio Abate (50 mila euro per la messa in sicurezza della casa di riposo per anziani e indigenti).
Poi: la Diocesi di Gubbio (20 mila euro per il restauro della chiesa di Cipolleto), la Fondazione Madonna dello scoglio di Santa Domenica di Placanica (200 mila euro per la sistemazione del sagrato), la Fondazione Spazio Reale della parrocchia di San Donnino di Campi Bisenzio (50 mila euro per il recupero dell’area Spazio Reale), l’Istituto Immacolata di Lourdes delle suore francescane di S. Chiara (20.000 euro per il restauro della croce dipinta), e la parrocchia Cuore immacolato di Maria di Formia (50 mila euro per la ristrutturazione dell’oratorio Villaggio Don Bosco) e via continuando. In un elenco che diventa davvero senza fine se si tiene conto anche dei provvedimenti nazionali ad hoc. Come i 50 milioni di euro assegnati in un biennio all’Università campus biomedico (made in Opus Dei) dalla finanziaria 2003. I due milioni e mezzo elargiti dalla Protezione civile (e che ci azzecca, direbbe Di Pietro) per il raduno di Loreto dell’Azione cattolica (14 maggio 2004). Fino al milione di euro regalato dalla finanziaria 2004 a Radio Maria (il cui progetto editoriale recita: “Diffondere il messaggio evangelico in comunione con la dottrina e le indicazioni pastorali della Chiesa cattolica e nella fedeltà al Santo Padre, usando tutte le potenzialità del mezzo radiofonico”) e Radio Padania. Spiccioli, comunque, rispetto ai 3 miliardi e 500 milioni di lire stanziati dallo Stato per il Giubileo del Duemila….
E ANCORA, la legge sul finanziamento agli oratori approvata dalla Regione Friuli Venezia-Giulia il 22 febbraio 2000 (e prontamente imitata, nell’ordine, da Lombardia, Piemonte, Molise, Puglia, Liguria, Campania, Calabria, Lazio e Abruzzo). Cogliendo fior da fiore, troviamo i 3 miliardi di lire stanziati il 9 febbraio 2001 dal Veneto per gli edifici di culto “che siano testimonianza di tradizioni popolari e religiose”; il mezzo miliardo, sempre di lire, della Basilicata “per la realizzazione di opere di culto e di ministero pastorale” (1° marzo 2001) ; i 2 miliardi della Calabria per la disciplina urbanistica dei servizi religiosi (2 maggio 2001) ; i 50 milioni di euro stornati ancora in Veneto dal Fondo speciale per il disinquinamento delle acque di Venezia a favore della curia patriarcale (15 febbraio 2004).

il Riformista Ragioni 20.11.11
Repubbliche
Muore la Seconda. Non era mai nata
di Paolo Franchi


R agioni, il domenicale del Riformista, comincia oggi la sua avventura. Nel suo piccolo, anzi, nel suo piccolissimo, ha l’ambizione grande di riuscire a diventare davvero un settimanale di cultura politica, o magari, come si diceva un tempo, di politica e cultura. E, come di tutte le ambizioni, anche di questa sarà giudice il tempo. Con le nostre forze in tutta evidenza modeste, noi possiamo solo cercare di metterla in pratica. Partendo da due constatazioni che, almeno ai nostri occhi, sono così evidenti da sembrare quasi ovvie. La prima è che di cultura politica, e cioè di idee, di memoria, di analisi, di progetto, c’è bisogno; in particolare, per quello che più direttamente ci riguarda, a sinistra. La seconda è che in materia, anche a sinistra, c’è, almeno sulla carta stampata, un deserto.
In una stagione calamitosa come questa in cui viviamo, l’impresa, già ardua del suo, risulta ancora più difficile, ma pure più appassionante: risposte convincenti, sempre che ce ne siano, bisogna cercarle. C’è stato un tempo (relativamente recente) in cui le grandi crisi scuotevano e magari sradicavano certezze politiche e culturali consolidate, identità collettive che, sin lì, erano parse eterne. Adesso non è più così. La crisi si abbatte su un mondo in cui queste certezze e queste identità forti non ci sono più oppure (non essendo riuscite a rinnovarsi trovando un filo che legasse passato e presente) si sono offuscate al punto di diventare invisibili o, peggio, si sono lasciate ridurre in formato bonsai, e trasformare nella caricatura di se medesime. Sembra quasi se ne sia smarrita la memoria.
Non è così soltanto in Italia (e noi proveremo a fare quel che possiamo prima di tutto per raccontarlo). Ma certo in Italia è così più che sotto ogni altro cielo. Vent’annifa,nonunsecolofa,morivala(cosiddetta) Prima Repubblica, che fu non soltanto, ma soprattutto, la Repubblica dei partiti. Si dice che in questi giorni stia morendo la Seconda. Se si parla del bipolarismo, che in Italia si è incardinato sin dall’inizio, piaccia o no, attorno a Berlusconi, probabilmente è vero. Ma la Seconda Repubblica in quanto tale non è mai nata, la sua è stata la storia di una interminabile transizione verso il nulla. La storia di un fantasma inutilmente e fastidiosamente fracassone, che ci ha tenuto svegli giorno e notte con i suoi strepiti, stancandoci al punto da farci dimenticare che un Paese senza passato rischia di diventare, se non lo è già diventato, un Paese senza futuro.
Adesso è finita, probabilmente nell’unico modo in cui poteva finire. Evviva. Gli eserciti (raccogliticci) fino a ieri ferocemente quanto oziosamente contrapposti sono attendati ai bordi di quello che fu il loro campo di battaglia. Non sanno nemmeno se domani o dopodomani saranno loro a contendersi la guida dell’Italia. Il governo è altrove. Si sentono in giro, anche a sinistra, proteste (non tantissime) perché la caduta tanto attesa di Berlusconi e di quel che restava del centrodestra la avremmo pagata al prezzo amaro di una politica svuotata e “sospesa”: come se non si fosse svuotata e sospesa da sé. C’è da chiedersi piuttosto se quella che la politica ha appena iniziato è una quaresima, in fondo alla quale c’è, come è noto, una resurrezione (in quali forme, con quali partiti, con quali istituzioni è largamente da stabilire) o se è entrata in un limbo nel quale, contando poco o nulla, potrà anche restare quanto vuole. Se non cominciamo a ragionarci da adesso, quando lo facciamo?

il Fatto 20.11.11
Inciuci. 200 economisti chiedevano un garante della concorrenza competente. Sono stati ignorati
Le poltrone di Schifini
Uno piazza il suo avvocato all’Antitrust, l’altro due uomini nell’Autorità dei lavori pubblici
di Stefano Feltri


Sarà una coincidenza, ma quando tre nomine arrivano in un solo giorno e a deciderle sono in due, il sospetto di una spartizione, o almeno di una compensazione si diffonde. Il giorno è il 18 novembre, il primo dell’era Monti, le nomine sono le seguenti: Giovanni Pitruzzella all’autorità della Concorrenza, l’Antitrust, al posto di Antonio Catricalà diventato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Sergio Gallo e Luciano Berarducci all’autorità che vigila sui “Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture”, nome in codice Avcp.
LE NOMINE per queste authority sono di competenza dei presidenti di Camera e Senato. E infatti i nominati sono uno, Pitruzzella, l’avvocato di fiducia del presidente del Senato Rena-to Schifani. Gli altri due, Gallo e Berarducci, riconducibili ad ambienti vicini al presidente della Camera Gianfranco Fini. Due contro uno? Evidentemente in queste trattative un presidente vale due commissari. Su Pitruzzella sono stati sollevati alcuni dubbi (praticamente ignorati dalla stampa e subito dimenticati dal centrosinistra in nome della nuova coesione nazionale). La prima perplessità è sulle competenze: “Non è detto che all’Antitrust serva per forza un economista. Ma se lei mi avesse chiesto due giorni fa la lista dei primi 20 giuristi italiani adatti per l’authority della concorrenza, il nome di Pitruzzella non l’avrei fatto”, dice Mi-chele Polo, prorettore della Bocconi ed economista specializzato proprio in antitrust. Pitruzzella, oltre che avvocato è un costituzionalista, non certo uno specialista di concorrenza: “Se uno ha bisogno di un cardiologo, non va dall’ortopedico”, sintetizza Polo che pochi mesi fa aveva firmato con duecento economisti un appello (inascoltato) al capo dello Stato, a Fini e a Schifani perché il nuovo controllore della concorrenza venisse scelto tra le personalità con “profonde competenze economiche, oltre che giuridiche, necessarie per decidere questioni complesse sul funzionamento dei mercati, ed essere nella posizione di agire in piena e totale indipendenza da qualunque interesse di parte, economico e politico”.
PITRUZZELLA, INVECE, firmava appelli in difesa della costituzionalità del lodo Alfano (poi dichiarato incostituzionale dalla Consulta) che salvava Silvio Berlusconi dai processi, e il giurista siciliano aderiva anche all’associazione “Viene prima l’articolo 15”, contro le intercettazioni telefoniche e difendeva la legge elettorale del Porcellum. Il tutto con l’interfaccia politica del senatore Pdl Gaetano Quagliariello, che presiede la Fondazione Magna Charta nel cui comitato scientifico siede Pitruzzella. Come pure altri due membri dell’attuale Antitrust, Salvatore Rebecchini e Antonio Pilati.
È chiaro che una nomina così connotata come quella di Pitruzzella, nel bilancino della politica può necessitare qualche contropartita. Fini e Schifani, in teoria, ormai stanno su sponde politiche opposte, Fli e Pdl, in tregua provvisoria. E quindi ecco le due nomine in quota del presidente della Camera (che si guarda bene dal dimettersi, pur essendo leader di partito, visti i poteri che riserva lo scranno più alto di Montecitorio). Sergio Gallo è un magistrato napoletano, stimato da molti. È stato capo di gabinetto del sindaco di Roma Gianni Alemanno per meno di due anni, poi i rapporti tra i due si sono logorati. E non stupisce quindi troppo ritrovarlo ora più affine all’altro polo della destra ex An, non più con Alemanno ma in quota Fini. In quel periodo nello staff di Gallo, che ha fama di magistrato anti camorra serio, c’era il sindaco di Pignataro Maggiore (Avellino), Giorgio Magliocca, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e arrestato nel marzo 2011. Pasqualino Lombardi, il geometra che creava relazioni nella rete della P3, dal carcere nel 2010 si vantava del fatto che “Sergio è una mia creatura”. Gallo ha subito smentito di averlo mai conosciuto e ha annunciato querela. Cercato dal Fatto, Gallo non ha risposto al telefono.
LUCIANO BERARDUCCI è un manager di lunghissimo corso nel settore delle grandi opere pubbliche. Ha guidato il consorzio Iricav 1 che dal 1991 ha avuto le grandi commesse dell’Alta velocità ferroviaria sulla linea Roma Napoli, consorzio di cui faceva parte Condotte d’Acqua, la società guidata proprio da Berarducci. Un’opera i cui costi sono lievitati ben oltre ogni pessimistica previsione, ma il meccanismo dei general contractor che operano senza appalti ha permesso alle imprese di accollare tutti i nuovi oneri allo Stato. Qualcuno potrebbe obiettare che non è il caso di mettere a vigilare sui contratti con i privati uno che viene dal mondo dei vigilati. Ma c’è una spiegazione plausibile: Berarducci siede da sempre nel consiglio dell’Istituto di ricerche sociali Eurispes, dove si incrociano molti ex-An. Dentro ci sono Gianni Alemanno, l’avvocato Donato Bruno, gli ex finiani Silvano Moffa e Renata Polverini. Nel 2002 Berarducci prese le difese del presidente Giovanni Maria Fara, coinvolto in un’inchiesta per peculato, causa corsi di formazione regionali gestiti dall’istituto in cui i formatori guadagnavano fino a un milione di lire all’ora (ed erano fondi pubblici). Ma questa è una storia vecchia. Oggi Berarducci è all’autorità che vigila sugli appalti pubblici, come Gallo. E Pitruzzella all’Antitrust, che dovrebbe vigilare sui conflitti di interesse, a cominciare da quelli di Berlusconi. Chissà che ne pensa il presidente del Consiglio Mario Monti.

La Stampa 20.11.11
“All’Antitrust bisognava nominare un economista”
Piga: inascoltato l’appello di 180 esperti del settore
di Raffaello Masci


IL GIURISTA PITRUZZELLA «Farà benissimo, ma nel suo curriculum manca la difesa di mercato e consumatori»
LIBERALIZZAZIONI «Sono essenziali per il Paese e riguardano materie di competenza del Garante»
METODO DI SELEZIONE «In Gran Bretagna si invia al Parlamento una domanda con le esperienze fatte»

ROMA Firmatario Gustavo Piga insegna economia politica presso la seconda Università di Roma e ha sottoscritto l’appello a non scegliere un giurista per la presidenza dell’Antitrust
Questa è la prima riforma dell’era Monti, che ci piaccia o no: ricordiamocelo bene». Esordisce così, senza nascondere una certa vena polemica, l’economista Gustavo Piga, commentando la recente nomina di Giovanni Pitruzzella ai vertici dell’Antitrust. Piga che insegna economia politica presso la seconda Università di Roma insieme ad altri 180 economisti italiani che insegnano in tutte le università del mondo, aveva inviato un mese fa un appello ai due presidenti di Camera e Senato (e al Quirinale, per conoscenza), affinché valutassero l’opportunità, nella congiuntura in cui versa l’Italia, di indicare per i vertici dell’Antitrust un economista, dopo tanti giuristi. Non per campanilismo professionale, ma perché questa competenza sarebbe stata più adeguata alle esigenze della globalizzazione dei mercati. Il loro appello è rimasto sostanzialmente inascoltato, anche perché quando è arrivato i due presidenti avevano, probabilmente, già fatto la loro scelta, caduta sul costituzionalista palermitano Giovanni Pitruzzella, luminare del diritto e grande amico personale del presidente Renato Schifani, di cui è pure l’avvocato di fiducia. Su questo nome, sui suoi rapporti con Schifani, così come sulle altre sponsorizzazioni politiche di cui gode, ieri c’è stata una polemica piuttosto vivace che ha visto tutte le autorità siciliane schierate a difesa del neo-nominato e molte riserve sollevate da mezza sinistra: Paolo Gentiloni del Pd, Antonio Di Pietro (Idv), Claudio Fava (Sel) e altri.
Perché cita Monti, professor Piga, che c’entra? Sulla nomina all’Antitrust il governo non interviene.
«Lo so, lo so. Non ho detto che è una riforma di Monti, ma dell’era Monti, nel senso che il nuovo presidente del Consiglio dovrà fare i conti con questa nomina, dal momento che in Italia tutta la materia inerente alle liberalizzazioni del mercato, sia dei beni che dei servizi, non fa capo a un ministero, ma a una Autorità garante. E le liberalizzazioni sono un punto centrale della nuova stagione di governo. Se Monti vorrà agire su questo fronte dovrà vedersela con Pitruzzella».
Che, magari, risulterà essere l’uomo giusto al posto giusto.
«Certamente. Anzi, me lo auguro di cuore, per il bene di tutti. Né, come economista, sono così chiuso nel mio orticello da non riconoscere che altri giuristi - da Amato e Tesauro - hanno ricoperto al meglio il loro incarico presso l’Autorità garante del mercato. Magari il professor Pitruzzella saprà fare altrettanto bene e perfino meglio».
C’è un però, vero?
«C’è una perplessità, inutile negarlo. Ho letto attentamente il curriculum del neopresidente dell’Antitrust: voci come concorrenza del mercato, tutela del consumatore, posizione dominante, conflitto di interessi cioè le materie principali di cui l’Antitrust si deve occupare - non compaiono tra le materie da lui studiate. Poi, invece, ha una altissima competenza in tutto ciò che riguarda lo sviluppo del Sud, ed è indubbio - per quel che posso capire io - che sia un luminare nel suo campo. Ma che c’entra con l’Antitrust? Questo mi chiedo».
Insomma, professore, che fine ha fatto l’appello?
«Abbiamo ricevuto una cortese e-mail dal presidente Fini, nella quale si assicurava che le nostre osservazioni sarebbero state tenute in considerazione. Saluti, ossequi, eccetera».
Avete avuto la sensazione che la politica spartitoria - uno a te e uno a me - abbia avuto la meglio?
«Guardi che io non ce l’ho con la politica. Anzi: credo che debba essere la politica a fare delle scelte rilevanti come quella di nominare i vertici di una Autorità di garanzia. Eccepisco, semmai, sui metodi di queste scelte».
Si spieghi.
«In Inghilterra per fare un esempio che conosco tutte le persone che credono di avere titolo per ricoprire una simile carica possono presentare un loro curriculum. C’è una commissione che valuta tutte queste proposte, fa una prima scrematura e poi presenta a chi deve nominare una rosa ristretta di nomi. Insomma: la competenza è il requisito fondamentale».
Piuttosto che le amicizie e le cordate, vuole dire?
«Non mi faccia dire di più. La saluto».

il Fatto 20.11.11
La spartizione è appena cominciata
Commissioni, Rai, Copasir, tutto si negozia
di Paola Zanca


La bomba è pronta. Scoppierà a marzo, quando scade il consiglio di amministrazione della Rai e la direzione generale; quando dovranno essere rieletti i commissari dell’Agcom e quelli del Garante per la privacy.
Una ventina di poltrone che ne terremoteranno molte di più. Dirigenti e direttori, consulenze e incarichi: e a decidere “chi va dove” sarà il Parlamento delle larghe intese. Inutile domandarsi quale sarà il criterio di spartizione: uno a me, uno a te, un altro al Terzo Polo. In mezzo c’è l’incomodo, che ha già cominciato a battere i piedi. È l’opposizione, nella persona della Lega Nord. Se infatti i 7 membri del Cda Rai e il successore di Lorenza Lei, gli 8 commissari dell’autorità garante per le comunicazioni e l’erede di Corrado Calabrò, i quattro garanti dei dati personali con l’aggiunta del sostituto di Francesco Pizzetti resteranno in carica fino a primavera, c’è una poltrona che dovrebbe liberarsi subito, quella del Copasir.
IL COMITATO parlamentare per la sicurezza della Repubblica è composto da dieci parlamentari e controlla i servizi segreti. Visto il compito delicato, la norma dice che deve essere presieduto da un esponente della minoranza parlamentare e che al suo interno deve essere garantita “la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni”. Ora a guidarlo c’è Massimo D’Alema (Pd). Ha rimesso il suo mandato ai presidenti di Camera e Senato perché possano valutare “l’anomalia” del momento. Ma alla Lega “le buffonate” non piacciono: quel posto è loro, D’Alema se ne vada. Dalle parti di via Bellerio sono nervosi. Non hanno preso bene le dichiarazioni del leader Pd che ieri ha detto: “Mi pare che il primo obiettivo della lotta della Lega siano le poltrone, non so quale sarà il secondo”. Loro sono furibondi e avvertono: “Se non ci danno quello che ci spetta ci mettiamo a fare i cattivi su tutto”. Cioè la commissione di Vigilanza Rai, le 14 commissioni permanenti di Camera e Senato, le giunte, le commissioni speciali e d’inchiesta. La Lega (in qualità di partito della ex-maggioranza) ne presiede 5: la commissione Bilancio, la Esteri e quelle sulle Attività produttive, i Lavori pubblici e le Politiche comunitarie. Considerando la mole di lavoro che le aspetta, non sarebbe così complicato rallentare i lavori del governo Monti.
PER QUESTO nel Pd devono fare i conti con due istinti contrapposti: da un lato evitare di concedere alla Lega di “crogiolarsi nel ruolo dell’opposizione”, perché quella che sostiene il nuovo esecutivo “non è una maggioranza politica”. Dall’altro sperare che D’Alema non sia “così sprovveduto da non considerare le conseguenze che comporterebbe tenersi quella poltrona”. Ancora una volta il mediatore potrebbe farlo il Terzo polo: se Fini, da presidente della Camera, sarà uno degli incaricati di valutare l’affare-Copasir, Casini potrebbe essere la persona giusta per favorire lo “scambio” tra la poltrona di D’Alema e quella della commissione Esteri, ora nelle mani del leghista Stefani. Pare che la trattativa sia a buon punto, anche se ovviamente i leghisti sbraitano appena gliela nomini. “Noi lasciare la commissione Esteri? E poi che altro vogliono? Ok, lo facciamo, ma solo dopo che Fini se ne va dalla presidenza della Camera”. Ricordano che loro si sono “dovuti sorbire” Giulia Bongiorno in commissione Giustizia (in verità, contro la deputata finiana, hanno tuonato giorno sì e giorno no).
Tra i leghisti non c’è accordo su come gestire la partita. Né tantomeno sui nomi. La parte vicina a Umberto Bossi fa il nome di Roberto Maroni: l’ex ministro dell’Interno è il più adatto a quel ruolo. Ma i parlamentari vicini a “Bobo” sanno che finire al Copasir significherebbe arginare la sua ascesa politica e tenersi Reguzzoni come capogruppo (in teoria “scade” a Natale). Candidare il braccio destro di Bossi al posto di D’Alema, invece, sarebbe un modo per farlo uscire di scena senza drammi e far cominciare il cammino da leader a Maroni. Ma sono ipotesi che non fanno i conti con una certezza, che pare assodata, sia tra i maroniani che nel cerchio magico: “D’Alema non se ne andrà mai, dovremo rivolgerci al Capo dello Stato”.

il Fatto 20.11.11
Berlusconi forever
Mediaset, Pier Silvio detta le condizioni al governo
di Ste. Fel.


Nessun pasto è gratis, dicono gli economisti. E la massima funziona anche in politica. Chi pensava che dietro il fair play istituzionale di Silvio Berlusconi nei giorni della transizione dal suo governo a quello di Mario Monti ci fosse soltanto senso dello Stato e percezione della crisi, deve ricredersi. Sul Corriere della Sera di ieri, in un’intervista al vicedirettore Daniele Manca (interlocutore di fiducia per Marina Berlusconi, di solito), manda messaggi chiari al nuovo premier. In sintesi: lasciate stare Mediaset e tutto andrà bene. Sottinteso: toccate Mediaset e all’improvviso la base parlamentare del governo potrebbe dimostrarsi parecchio fragile.
Visto che Monti è ancora poco abituato al linguaggio della politica attiva, almeno in Italia, gli può essere utile una traduzione.
SOLLIEVO. “Se devo essere sincero questo governo Monti per noi di Mediaset potrebbe rappresentare una boccata di ossigeno”.
Traduzione: Mediaset conta che il governo non approfitti della debolezza di Berlusconi per fare una legge sul conflitto di interessi. E spera che l’andamento in Borsa del titolo non sia più condizionato dalle performance politiche del Cavaliere.
TIMORI. “Quello che temo è che in una situazione di mercato così delicata, una classe politica ideologica possa utilizzare trovate regolamentari per danneggiare un'industria italiana che si fa onore anche all'estero”.
Traduzione: Caro Monti, non lasciare che quella piccola parte del Pd (con l’appoggio dell’Idv) che ancora si pone il problema del conflitto di interessi tenti qualche blitz in Parlamento.
SPOT. ”Ho letto dichiarazioni riferite a Mediaset in cui si sosteneva che non è normale avere il 30 per cento di ascolti e una quota più alta dei ricavi pubblicitari tv. A parte che i nostri ascolti sono intorno al 40 per cento nonostante tutta la nuova concorrenza, ma che ragionamento è? ”.
Traduzione: cari investitori pubblicitari, continuate a mantenere i vostri budget. Il fatto che Berlusconi non sia più a Palazzo Chigi non è una ragione sufficiente per tagliare le inserzioni.
BEAUTY CONTEST. A proposito delle frequenze digitali regalate dallo Stato, con la procedura del beauty contest ancora in corso, Pier Silvio dice: “Se ottenessimo quelle frequenze dovremmo cominciare a spendere mettendoci contenuti altrimenti sarebbe come non averle. E visto che siamo in giornata di paradossi ne segnalo un altro: se l'assegnazione delle frequenze dovesse avvenire con un'asta a rilanci, vorrei vedere quale operatore tv sarebbe disposto a partecipare davvero”.
Traduzione: meglio, caro Monti, che non Le salti in mente di rimettere in discussione il gran regalo del beauty contest. Se dovesse decidere di fare un’asta, per fare cassa, sappia che Mediaset ha più soldi degli altri. E quindi il risultato finale potrebbe essere che il Biscione si pappa tutta la torta. Vale la pena rafforzare così tanto la posizione delle tv berlusconiane per i prossimi decenni in cambio di qualche miliardo?
PREZZO. “Spero solo che da ora Mediaset sia valutata realmente per i suoi meriti e i suoi errori, e non con il pregiudizio che tutto sia merito o colpa non di chi ci lavora, ma di qualcun altro”.
Messaggio ai mercati. Sappiate, dice Pier Silvio, che oggi il titolo Mediaset è sottostimato perché sconta la fine del governo. Quindi correte a comprarlo finché è un buon affare.

il Fatto 20.11.11
Conflitto da 10 milioni
Passera possiede molti titoli Intesa. Le sue scelte da ministro potranno condizionarne il valore
di Vittorio Malagutti


Milano. C’è chi sostiene che dovrebbe vendere. Altri suggeriscono di affidare in gestione a una fiduciaria il suo patrimonio personale. Alla fine però non è neppure da escludere che Corrado Passera decida di tenersi tutto, anche a costo di nuove critiche e qualche imbarazzo. In effetti, la questione è parecchio delicata. Vale svariati milioni di euro e potrebbe rivelarsi decisiva per comprendere fino a che punto il ministro dello Sviluppo ha rotto una volta per tutte con il suo ingombrante passato da numero uno della banca più grande d'Italia.
Vediamo di che si tratta. I documenti ufficiali confermano che Passera possiede un cospicuo pacchetto di azioni Intesa. Fanno circa 8,6 milioni di titoli che in base alle quotazioni di venerdì scorso valgono 10,5 milioni euro. Di per sé, ovviamente, non sono numeri che pesano sugli assetti azionari dell'istituto di credito milanese. Anche dopo il crollo delle quotazioni degli ultimi mesi, Intesa vale pur sempre in Borsa oltre 18 miliardi.
VISTA dalla parte di Passera, però, quelle azioni rappresentano un legame importante con la banca da cui si è congedato solo pochi giorni fa. D'ora in avanti il manager-ministro sarà chiamato a prendere decisioni che riguardano gli affari dei clienti di Intesa, una banca coinvolta praticamente in tutte le operazioni rilevanti per il sistema Paese. Telecomunicazioni, trasporti, infrastrutture: la ragnatela degli affari targati Intesa copre tutta la Penisola e coinvolge i grandi gruppi pubblici e privati. Come azionista, Passera avrebbe quindi tutto l'interesse a veder crescere i profitti di Intesa. E non è solo una questione di bilanci e prezzi di Borsa. Se gli utili aumentano, anche i dividendi crescono. Nel 2007, nell'anno d'oro della bolla finanziaria, l'allora numero di Intesa incassò una cedola del valore di oltre 2,5 milioni, a cui andava sommato uno stipendio di circa 3 milioni.
I tempi cambiano, la bolla si sgonfia e pochi mesi fa Passera ha incassato dividendi per circa 500 mila euro. Niente male comunque, anche perché si accompagnano a un compenso per la carica di amministratore delegato pari (al lordo delle tasse) a circa 3,5 milioni. E se l'anno prossimo, nonostante la crisi, Intesa decidesse di remunerare gli azionisti allo stesso modo del 2011, il ministro finirebbe per ricevere quasi 700 mila euro dalla sua ex banca, una somma ben superiore al suo stipendio da membro del governo. Ecco perché quel pacchetto di 8 milioni e passa di azioni sembra destinato a creare imbarazzi e sospetti di potenziali conflitti d'interessi.
Per chiudere la questione, il nuovo ministro potrebbe vendere i titoli. Sarebbe una scelta radicale, che però gli costerebbe alcuni milioni di perdite. Le quotazioni di Intesa, come quelle di tutte le banche sono ai minimi storici. Nell'ultimo anno la banca ha perso il 44 per cento del suo valore borsistico. E dai massimi del 2007 il ribasso supera il 60 per cento. Non c’è scampo, quindi. Se Passera decidesse di liquidare il suo investimento dovrebbe rassegnarsi a una perdita cospicua.
Alternative? Sulla carta ci sarebbe l’opzione del cosiddetto blind trust, in passato proposta (inutilmente) anche per rendere meno appariscente il ben più rilevante conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi. In pratica azioni e altri cespiti patrimoniali politicamente sensibili vengono affidati a una fiduciaria con un gestore che provvede ad amministrarli autonomamente. A ben guardare, però anche il blind trust serve a poco. Nel caso di Berlusconi, il controllo di Mediaset sarebbe comunque rimasto a lui e alla sua famiglia anche se le azioni del gruppo televisivo fossero state trasferite in amministrazione a una fiduciaria. E quindi il Cavaliere avrebbe continuato ad avvantaggiarsi di eventuali provvedimenti di legge favorevoli alle sue tv. Fatte le debite proporzioni, lo stesso discorso vale anche nel caso di Passera. Le azioni Intesa parcheggiate nel blind trust resterebbero comunque di proprietà del banchiere diventato ministro. Il quale sarà chiamato a prendere decisioni nel-l’interesse pubblico che però potrebbero avere effetti anche sul suo rilevante patrimonio personale investito in azioni Intesa.
COME se ne esce? La situazione appare a dir poco complicata. Di certo per il manager sarà tutt’altro che facile tagliare i ponti con il passato. “Giudicatemi da quello che farò”, ha chiesto Passera nel tentativo di sgombrare il campo dal conflitto d’interessi. Mica facile. Soprattutto quando si tratta di rinunciare a un teso-retto da 10 milioni.

L’Unità 20.11.11
Il restroscena
De Benedetti-Passera, il grande freddo
di Rinaldo Gianola


Ma che cosa è successo tra Carlo De Benedetti e Corrado Passera? Quale incidente, quale incomprensione può aver provocato quel grande gelo sceso tra l’Ingegnere e il suo ex fedelissimo collaboratore oggi diventato il superministro dello Sviluppo nel governo dei tecnici? Gli interrogativi restano senza una spiegazione certa, eppure il caso esiste, è importante perché coinvolge un grande imprenditore con interessi diversificati e un ex banchiere che da tre giorni ha cambiato ruolo, non senza problemi compreso quello tipico della politica e dell’economia italiana del conflitto di interessi.
Nell’intervista di pochi giorni fa al Corriere della Sera, in cui si rallegra per la caduta di Silvio Berlusconi e per la creazione del governo Monti, De Benedetti non concede una sola parola per commentare la nomina di Passera, non una battuta, nemmeno un semplice augurio. Niente, zero. Forse il giornalista si è dimenticato di fare la domanda che tutti avrebbero fatto, o più semplicemente l’Ingegnere non voleva proprio dire nulla sul suo ex dipendente. Poi c’è stata la trasmissione di Santoro in cui Federico Rampini, firma del gruppo Espresso, di solito così distaccato e british, ha tirato delle legnate da far spavento contro Passera, tanto da apparire addirittura più cattivo di Marco Travaglio. Non è finita. Ieri è toccato a Tito Boeri, docente alla Bocconi e direttore della Fondazione De Benedetti, prendere di petto il neoministro.
Boeri sostiene su Repubblica che anche se Passera ha già affidato le sue azioni di Intesa SanPaolo a un blind trust «questo non basterà a fugare il sospetto che il ministro abbia intenzione di portare avanti progetti che favoriscono le lobby di cui ha fatto parte, distogliendolo dal perseguimento dell’interesse generale». L’economista non precisa se tra le lobby frequentate da Passera si debba considerare anche la Cir di De Benedetti dove il ministro ha lavorato per oltre dieci anni occupandosi della Buitoni, dell’Espresso, della Mondadori, dell’Olivetti.
L’ex banchiere viene trattato come se fosse il padrone di Intesa SanPaolo e non un manager che ha una piccola partecipazione e una stock option. Naturalmente le domande e le critiche dei giornali a Passera sono doverose anche se forse appare un po’ azzardato usare gli stessi toni impiegati contro Silvio Berlusconi che è il padrone di Mediaset e compagnia. Il neoministro deve risolvere i suoi potenziali conflitti se vuole fare politica e non sorprende che gli attacchi più furibondi gli vengano dal suo ex datore di lavoro. Ma l’ostilità di De Benedetti verso il ministro, che conosce a fondo le vicende imprenditoriali non sempre esaltanti dell’Ingegnere, può diventare un problema per il governo, vista la posizione rilevante di Passera. Il pericolo è stato avvertito dal presidente Monti.
Il distacco e la reciproca diffidenza pure Passera ricambia l’Ingegnere con la stessa moneta non sono scoppiati all’improvviso. Qualcuno ricorda una battuta di De Benedetti contro le banche, tre o quattro anni fa quando iniziò la crisi, come una critica a Passera. Ma è un piccolo indizio. Da anni Passera non si vede alle cene dell’Ingegnere in via Ciovassino dove invece sono assidui banchieri come Alberto Nagel di Mediobanca e Alessandro Profumo. Proprio Profumo è stato a lungo il preferito da De Benedetti e dai suoi giornali, sempre esaltato nelle sue iniziative anche se, purtroppo, non ha potuto valorizzare la sua stagione migliore. La realtà oggi è che Profumo è stato licenziato da Unicredit, che deve fare il secondo maxiaumento di capitale in tre anni, e la sua disponibilità a impegnarsi come tecnico in politica è stata frustrata da un’indagine della magistratura. Dunque De Benedetti si trova davanti a questa situazione: Passera al governo, Profumo azzoppato da un incidente giudiziario. E poi c’è il rischio più grave: chissà che in futuro Passera possa candidarsi alla guida del Paese. Questo è il timore più forte di De Benedetti.
Probabilmente la freddezza dell’Ingegnere verso l’ex direttore generale della Cir è la stessa maturata verso altri suoi strettissimi collaboratori del passato, forse è un questione di legami recisi, di delusioni, anche di interessi personali. Come tutti i leader De Benedetti non ama essere abbandonato e vorrebbe che chi se ne va non dimenticasse mai di tributargli eterna riconoscenza. Ma non sempre è così. Nel corso degli anni se ne sono andati i giovani leoni come Passera e Arnaldo Borghesi. Francesco Caio che a Ivrea stava costruendo Omnitel durò all’Olivetti poche settimane dopo aver parlato di bilanci falsi. Con Roberto Colaninno, che avviò la Sogefi e prese in mano l’Olivetti sull’orlo del fallimento, non sono mancate le incomprensioni. Marco De Benedetti, il figlio che si è costruito una carriera lontano dal padre e che partecipò alla scalata dell’Olivetti a Telecom Italia, andava “tenuto basso” dai giornali del gruppo Espresso pur essendo amministratore delegato di Tim. Così va il mondo. Il ministro Passera lo sa.

Repubblica 20.11.11
I Bocconiani dove nasce il Paese che conta
di Ettore Livini


MILANO Mario Monti? Non pervenuto. L'Università Bocconi è fatta così. Il 16 novembre il suo presidente sbarca a Palazzo Chigi. Corrado Passera, ex allievo e membro del cda - un who's who dell'Italia che conta - si accomoda al suo fianco come super-ministro dell'Economia. Applaudito da un presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, laureata pure lei in via Sarfatti. Nasce il "governo dei bocconiani", strepitano i detrattori. Ma il sito della Harvard dei Navigli ha altro di cui occuparsi. Supermario può attendere.
Niente foto, zero celebrazioni in home page.
L'eroe del giorno - parola di www.unibocconi.it - è Carlo Edoardo Filippo Maria «figlio di papà, accento milanese, snob, viziato, abiti firmati», protagonista di 18 e lode, la nuova sitcom a episodi di BStudentTv, la televisione online autogestita dagli studenti dell'ateneo. Monti, assicura chi lo conosce, non si è certo offeso. Lui, ovvio, è il fiore all'occhiello dell'università. Ma è il primo a sapere che i Monti del futuro iniziano a formarsi a vent'anni nelle aule milanesi di fronte agli alberi secolari del Parco Ravizza. Impastando Keynes e reality-fai-da-te, esami a raffica e feste sulle piste del Divina, gli ingredienti eterogenei di quella misteriosa ricetta che ha plasmato negli anni il mito della "lobby bocconiana", arrivata oggi, premier in primis, a occupare molte delle poltrone di vertice del nostro paese.
«Una lobby? Io so solo che studiare quiè un po' come fare il militare negli Alpini» scherza Mario, 22enne studente del terzo anno, impegnato a dribblare i due leoni di marmo nell'ingresso di via Sarfatti, portatori - vuole la vulgata che nessuno osa contraddire - di un'antica maledizione ("Chi passa tra i leoni non si laurea alla Bocconi"). «Fai test durissimi per entrare - assicura -. Sottoscrivi un codice d'onore vincolante. Impari a lavorare in gruppo, il rigore e l'eccellenza. Ma poi hai il tempo di fare il dj a Bocconi Radio o far tardi con i compagni ballando al Divina o al Limelight. Valori e storie che ti entrano sotto pelle senza che tu te ne accorga e che ti porti dietro tutta la vita, come fanno i reduci della Julia con il loro cappello con la penna».
La rete dei bocconiani nasce così. Arriva in alto (da qui sono usciti tra gli altri Marco Tronchetti Provera, Alessandro Profumo, Enrico Tommaso Cucchiani, Vittorio Grilli, Paolo Scaroni, Tommaso Padoa Schioppa ed Emma Bonino), ma parte dal basso. «È una cosa difficile da spiegare - dice Luca De Vecchi ex rappresentante degli studenti nel Consiglio accademicoe oggi avvocato-. Il senso di appartenenza a Mamma Bocconi inizia dalla quotidianità del primo anno di corso, come in un college Usa». Studi, dai esami, vai agli europei universitari di pallavolo a Istanbul, incontri aziende e poi, nel weekend, sfidi gli studenti della Columbiae di Warwick nelle regate di Santa Margherita. «E magari ti capita, è successo a me, che mentre sposti un tavolone di marmo per un incontro tra studenti arrivi Mario Monti, si rimbocchi le maniche, e si metta lì a darti una mano come una matricola qualsiasi» racconta De Vecchi. Chi non si adegua a questi ritmi a metà tra l'Ivy League e il villaggio Valtur si arrangia. Una volta perso il passo dei frenetici tempi bocconiani - è il lato oscuro di via Sarfatti- sei tagliato fuori. Recuperare il terreno perduto - anche se è stato solo un inciampo - è difficile. Vale l'impietosa legge della selezione darwiniana e se abbandoni l'università, dice la tradizione, sai già che da queste parti (qualcuno dice si debba proprio firmare un impegno scritto) non potrai più mettere piede.
Detto così pare un gioco per ricchi.
E gli stereotipi appiccicati indelebilmente ai bocconiani - dagli yuppie di Sergio Vastano nel Drive in degli anni '80 fino al Carlo Edoardo Filippo Maria di 18e lode - sono lì a confermare i cliché. Ma la realtà è un'altra cosa.
Certo la retta annua media (calcolando i 43.500 euro di costo dei master) è di 10.400 euro. «Ma qua c'è tanta gente che arriva da fuori, studia dalla mattina alla sera, torna a casa una volta ogni dodici mesie riescea mantenersi grazie alle borse di studio dell'università», racconta Alessandra Sanchi, studentessa al secondo anno ma già bocconiana dentro. L'ateneo ha garantito nel 2010 (per questioni di merito o di reddito) 23 milioni di euro come borse e 1.500 posti letto a prezzi agevolati nel mitico pensionato. Un altro dei toponimi dove tra pigiama party e lunghe serate sui libri nasce e si consolida il senso di appartenenza all'istituzione. «Io ero romano, sono arrivato qui e dopo un po', proprio al pensionato, ho conosciuto la donna che è diventata mia moglie», ha raccontato Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Banca d'Italia. La macchina della Bocconi, naturalmente, non lascia niente al caso. Il modello del college Usa (presto sarà pronto il nuovo campus da 100 milioni di via Castelbarco) è stato studiato a tavolino. L'università aiuta e sostiene una lunga serie di associazioni che fanno gruppo: c'è quella per le danze balcaniche, una per gli studenti salentini, quella legata alla Milton Friedman Society. Da poco è nata Best, organizzazione che promuove «il rispetto tra le molte identità dell'ateneo», decollata dopo la sospensione per un anno (la sanzione prevista dal Codice d'Onore) di uno studente reo di aver pronunciato frasi contro gli omosessuali. Tutto fa rete. E il meccanismo funziona.
Basta vedere cos'è successo giovedì scorso quando il corteo degli studenti "indignati" ha cercato di assediare l'università.
«Noi ex allievi ci siamo autoconvocati via web. L'idea era di fare un cordone attorno a via Sarfatti tenendo in mano un libro di microeconomia - racconta De Vecchi -. L'obiettivo? Spiegare ai ragazzi che l'ateneo non è il simbolo dei poteri occulti ma un posto dove si studia e si fa cultura». La chiamata alle armi, una cosa più da Templari che da ex-studenti di economia, non è stata necessaria. La polizia ha fermato il corteo prima che arrivasse in via Sarfatti. Ma sul web, a futura memoria, è rimasto il post scritto di getto sul suo blog( Diario di una Bibliomane) dalla studentessa Chiara Donadi «demoralizzata» per la manifestazione. Un Bignamino che aiuta a capire dal di dentro perché, dopo la laurea, si resta bocconiani tutta la vita: «La Bocconi non è il paradiso né l'inferno, ma è uno dei pochi luoghi in Italia che riesce a dare ai giovani l'orgoglio di un'identità - scrive nel blog -. Ogni università dovrebbe essere come la nostra. Cattiva ma fortificante come una maestra severa delle elementari. Deve farti piangere e sentire solo, ma anche felice come dopo una lunga giornata di lavoro. Dandoti il diritto di non aspettare raccomandazioni.
O l'amico politico di tuo cugino. O l'avvocato che ti prende in studio se ti fai scopare una volta a settimana». Il blog di Chiara è stato subissato di centinaia di commenti di compagni di corso. Tutti d'accordo con lei. L'era di Nicole Minetti e delle Olgettine è (speriamo) in archivio. Pensionata, forse non è un caso, da Mario Monti, l'archetipo della lobby dei bocconiani. Ma dietro di lui la nuova generazione della rete di via Sarfatti sta già affilando le armi.

Repubblica 20.11.11
Bocconi. Dove sta la forza
di Tito Boeri


Pedalando verso la Bocconi in questi giorni di primo freddo dovrei forse sentirmi come Jinni Herf, il protagonista di Manhattan Transfer, mentre scende a piedi lungo Broadway procedendo spedito verso Wall Street. In viaggio verso il "centro delle cose", nel cuore pulsante del governo dei poteri forti. Gli indignati americani diretti a Wall Street sono stati bloccati sul ponte di Brooklyn.
Gli studenti nostrani che protestavano contro le banche sono arrivati fino in Corso Italia, a poche centinaia di metri dalla Bocconi, la meta finale della loro manifestazione. Eppure nonostante le mie assidue e prolungate frequentazioni dell'ateneo (ieri sera ho rischiato di rimanervi chiuso dentro), vi assicuro che non mi è mai capitato di incontrare nei corridoi emissari di Goldman Sachs o di altre centrali finanziarie internazionali intenti a tessere la loro ragnatela. A tarda sera si vedono solo assistant professors e studenti di dottorato dall'aria stralunata perchè magari non riescono in una dimostrazione. Entrando nelle aule seminari, non ho mai avuto l'impressione di interrompere delle cospirazioni; semmai ho potuto assistere a un fuoco amico di critiche feroci a qualche ricercatore che non era riuscito a convincere i colleghi che aveva davanti. Le sale del nuovo edificio hanno molta luce. Eppure chi assimila Gordon Gekko alla Bocconi mi fa venire in mente un vecchio proverbio cinese: "È molto difficile vedere un gatto nero in una camera buia; soprattutto quando il gatto non c'è".
Il vero potere forte della Bocconi risiede nel fatto che uno spezzone importante della classe dirigente sente un debito intellettuale verso l'università. Purtroppo il fundraising fra questi ex alunni è in crescita, ma ancora molto al di sotto di quello degli altri atenei nel mondo. Tra i docenti della Bocconi si trovano anche gli editorialisti delle maggiori testate italiane, da Alesina (part time in Bocconi) a Giavazzi, da Perotti a Tabellini, un gruppo con opinioni spesso molto distanti tra di loro, di cui anch'io penso di far parte.
Non dovremmo essere molto influenti dato che nessuna delle proposte da noi formulate su queste testate, mi risulta che sia stata mai attuata.
La vera forza della Bocconi sono i suoi 13.000 studenti, sempre più internazionali perché nel 15 per cento dei casi provengono da paesi sparsi per il mondo e perchè durante il corso di studio vengono accettati per stage o programmi post laurea nelle migliori università del mondo. La reputazione internazionale dell'università è in gran parte legata alla performance di questi studenti nelle loro esperienze oltre confine durante e dopo il corso di studio (uno su 5 trova lavoro all'estero).
Sono proprio gli studenti, assieme al personale amministrativo, a tenere insieme la baracca. Tre quarti delle entrate della Bocconi è rappresentata dalle tasse di iscrizione. Sono alte, ma vengono applicate con maggiore progressività che le tasse sul reddito degli italiani, anche perché vengono concesse 2000 borse di studio, 1500 prestiti di studio e 1500 posti alloggi a studenti bisognosi di aiuto. I lavoratori autonomi vengono collocati automaticamente nella fascia più alta. Se vogliono pagare di meno perchè hanno redditi più bassi, spetta loro l'onere della prova.
Per molti anni la Bocconi ha avuto un corpo docente quasi interamente italiano. Ora si sta internazionalizzando: quattro nuovi incarichi su cinque sono stati affidati negli ultimi anni a docenti stranieri, strappati alle migliori università europee e a qualche università americana di medio livello. Il vertice dell'Ateneo - il Comitato esecutivo, oggi composto oltre che da Monti, dal rettore Tabellini, il vicepresidente Guatri, il consigliere delegato Pavesi e Antonio Borges (già rettore Insead) - ha il merito di avere molto sostenuto l'internazionalizzazione dell'università. Ma poi tutto cammina sulle gambe dei docenti e degli studenti che affollano l'Università anche in questi nebbiosi weekend milanesi. Sono questi ultimi i veri poteri forti: di talento e determinazione.

«La pornostar fu eletta alla Camera per volontà dei radicali»
Repubblica 20.11.11
Il caso Il 26 novembre la Staller compie 60 anni e matura il diritto a un assegno di 3000 euro al mese
I finti tagli ai privilegi dei parlamentari e anche per Cicciolina scatta la pensione
di Filippo Ceccarelli


IL 26 novembre, quando su deliberazione dell'Ufficio di Presidenza il Collegio degli onorevoli Questori di Montecitorio dovrebbe aver già iniziato a «predisporre» l'ennesima riforma attraverso la quale la Camera dei deputati, come rilanciato ieri con tono vibrante dal presidente Fini, «abolirà» - e a questo punto in platea sono scattati gli applausi il vitalizio per gli ex parlamentari a partire dalla prossima legislatura, bene, intanto sabato prossimo Cicciolina compie 60 anni.
E si becca la pensione. Tremila euri lordi, buttali via. Questo Fini non l'ha detto, non ce n'era una particolare ragione. Sono tanti del resto che la buscano già, e continueranno. Pare che in qualche modo ci sia addirittura un articolo della Costituzione a garantirli. Alcuni di loro, come Alfonso Pecoraro Scanio e Oliviero Diliberto, sono anche più giovani della ex pornostar, ma hanno alle spalle una maggiore permanenza nel Palazzo.
La imminente sessantenne ex deputata Ilona Staller, nata «durante una notte tempestosa - si legge nel sito ufficiale - in una povera clinica di Budapest», è ancora una bella donna. Possiede e manda avanti una sua agenzia «artistica internazionale» che ha battezzato «Saremo famosi» che appunto ricerca e ospita «nuovi talenti». Poi vende per corrispondenza dei prodotti da mettersi in relazione con la sua popolarità, ma più castigati di quanto si potrebbe immaginare: autobiografie, libri fotografici, t-shirt, poster e quattro cd con le sue canzoni, queste ultime non irresistibili per quanto costino 50 euri l'uno.
Anche Cicciolina, come Fini per le pensioni d'oro agli ex onorevoli, per l'ennesima volta ha annunciato che tornerà in politica. Vuole diventare sindaco di Monza, ci ha già provato nel 2002, e a quel punto trasformare la Villa Reale che ospitava i ministeri leghisti in un Casinò. L'ideaè suggestiva, e il fatto che Bossi e Calderoli una volta fuori dal governo non possano mettervi bocca appare perfino rassicurante. Si vedrà. Ma il vitalizio comunque le spetta. «So che risulta impopolare - ha spiegato con molta onestà al C orriere della Sera - ma allora gli italiani dovrebbero cambiare la legge, mica l'ho fatta io». E in un empito mediatico-filantropico ha aggiunto: «Sarei disposta a versare tutto in beneficenza, ma solo se lo faranno anche gli altri».
Su questo potrebbero in effetti concentrarsi gli onorevoli Questori, aggirando le difficoltà con una generosa redistribuzione contributiva all'insegna dell'anti-Casta e del risparmio sui costi della politica.
L'abolizione del vitalizio in effetti era già stata vantaggiosamente immessa nel circuito degli annunci qualche mese fa, in agosto. Forse, giostrando con risoluzioni e ordini del giorno, l'illusione di un'autorinuncia risale anche a prima. Ma in questi casi i dispositivi che dovrebbero trasformare propositi e decisioni in vita reale paiono inagibili e col trascorrere dei giorni si disperdono nella più fugace e spettrale indeterminatezza. Si tratta, è vero, di questioni assai complicate di cui poche decine di individui, per di più gelosissimi, possiedono il quadro completo. Esistono ovviamente anche degli interessi e quindi delle resistenze. Così come si può pensare che esista un indicibile corrispondenza fra un Parlamento politicamente debole e dei parlamentari personalmente ben pasciuti e ultra-garantiti. Ma se si estende l'usanza ai molti e vari privilegi del Palazzo indennità, sanità, cumulo di cariche, automobili, rimborsi, agevolazioni, garanzie e gastronomie - il fenomeno più interessante e anche quello meno spiegato non è tanto che gli onorevoli si tengono stretti i loro benefici, ma che per farlo con maggiore efficacia spesso e volentieri fanno finta di rinunciarvi. Il processo dei tagli retrattili e dei sacrifici a doppio fondo è ampiamente documentato nell'ideale seguito de La Casta che Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo hanno pubblicato due mesi fa: « Licenziare i padreterni» (Rizzoli). La vicenda dell'ardua e intricatissima soppressione dei vitalizi d'oro è messa dolorosamente a confronto con la facilità con cui un sacco di gente normale s'è già vista decurtare la pensione e il peggio arriva adesso.
Bene o male Cicciolina offre una soluzione caritatevole all'altezza o forse alla bassezza dei tempi. E non si è scelta proprio lei come testimonial per un effettaccio bacchettone, tanto più dopo quanto si è visto in termini di Forza gnocca, promozioni tele-cortigiane e investiture istituzionalputtanesche. E' che nulla più dell'elezione (1987), del corpo e del mestiere di Ilona Staller incarnavano meglio quella specie di profezia che di lì a poco avrebbe trasformato la vita pubblica italiana in quella specie di sogno selvaggio da cui uno vorrebbe tanto svegliarsi.

La Stampa 20.11.11
Saviano: Occupy Wall Street diventi un modello per l’Italia
Lo scrittore a Zuccotti Park: è un movimento senza ideologie, ci serve
intervista di Paolo Mastrolilli


Spero proprio che questa protesta arrivi anche in Italia. Non so ancora in quale forma, ma è necessaria». Tira un vento gelido e Roberto Saviano, jeans e giacca di pelle marrone sulle spalle, è appena sceso dal muretto di Zuccotti Park dove ha parlato in inglese ai manifestanti di Occupy Wall Street. Non moltissimi, perché dopo il raid della polizia di lunedì i ranghi sono ridotti, ma determinati ad accoglierlo da leader. Ha spiegato come la mafia si sta approfittando della crisi per fare ancora più profitti, e ha lanciato un avvertimento: «Il sogno americano che avevo da bambino sta svanendo. Nella vostra protesta, guardate all’Italia, perché quello che succede là vi riguarda. Se l’Italia collassa, l’Europa collassa. E se l’Europa collassa, gli Usa non sono più al sicuro. Per molto tempo il governo Berlusconi ha mentito alle istituzioni europee e agli elettori. E ora il Paese è in uno stallo senza precedenti, una crisi apparentemente senza soluzioni. Non avendo premiato il merito, non avendo investito nel talento, l’Italia ora sembra un Paese dove realizzarsi è impossibile. L’unica via è l’emigrazione. Quando guardate all’Italia, potreste vedere il vostro futuro. Ma in Italia, coloro che resistono stanno guardando anche a voi, e io spero che sapranno fare una scelta come quella che voi avete fatto qui». Gli applausi coprono la sua voce, le telecamere lo inseguono nella calca. Tra i curiosi anche l’economista Nouriel Roubini, che questa crisi aveva previsto in largo anticipo.
Tornando a casa a piedi, sempre circondato dalla scorta, Roberto parla di questa giornata da ricordare: «Una grande emozione e un grande onore».
Perché ha deciso di venire?
«Questo è un movimento che sta cambiando il mondo. Rappresenta il sentimento della maggioranza e difende la legalità, non la viola. È un punto di incontro dove si ritrovano tante scuole di pensiero, con lo scopo comune di cercare una soluzione. Non è privo di leader ma pieno di leader. Proprio per questo è più efficace, e ormai travalica la dimensione geografica del luogo dove è cominciato».
Come si esporta in Italia?
«Non so bene quale modello potremmo adottare noi, ma di certo so che ci serve il superamento dei meccanismi ideologici di cui qui sono capaci. Da noi, in Italia, se parli in tv o pubblichi un libro con una casa editrice invece di un’altra, diventi subito un traditore agli occhi di certa sinistra. L’unica preoccupazione, poi, è primeggiare. Qui tutti sono leader, con lo scopo comune di ragionare per trovare soluzioni alla crisi».
In Italia, per esempio, le hanno chiuso le porte della Rai.
«Hanno fatto paura tutti quegli ascolti, ottenuti attraverso il ragionamento. Divertendoci, anche, ma ragionando sulle cose».
Che pensa del governo Monti?
«È un passo importante, ma è presto per giudicarlo. Diamogli tempo e stiamo a vedere».
Quanto tempo?
«Poco».
Cosa si sente di suggerire al nuovo governo?
«Di non trattare la mafia come un fenomeno secondario, anche ai fini della soluzione della crisi economica. La mafia gestisce tonnellate di denaro contante, che una volta recuperate ci aiuterebbero anche a risolvere il problema dei conti».
È deluso da Obama?
«Non voglio esprimere giudizi geopolitici su due piedi, però direi di sì. Soprattutto sul problema del lavoro, mi sarei atteso interventi meno timidi».
Lo sostiene ancora?
«Visto il livello del dibattito tra i repubblicani, penso che possa essere rieletto. Però dovrebbe ascoltare la voce della protesta e cambiare passo, come del resto tutta la sinistra».
Occupy Wall Street è anche una reazione all’incapacità della sinistra di rappresentare queste esigenze?
«Mi pare che in tutto il mondo la sinistra sia in crisi. È bloccata dalle ideologie, non riesce a trovare sbocchi che interpretino i sentimenti della gente. Spero che anche da qui possa nascere la spinta per cambiarla».
Continuerà ad impegnarsi per Occupy Wall Street?
«Assolutamente sì. Oggi qui c’era Roubini, penso che potremo fare insieme delle cose interessanti».
Molti dicono che il suo futuro potrebbe essere in politica.
«Ora, in queste condizioni, non me la sento. Non penso di essere preparato. Prima bisogna cambiare la mentalità e la cultura».

Corriere della Sera 20.11.11
Saviano a Wall Street spiega la mafia agli indignati d'America
Ressa per l'autore di «Gomorra»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Roberto Saviano a Zuccotti Park: un'occasione unica per turisti e giornalisti italiani della Grande Mela, che, complice il sole di un tranquillo sabato mattina, si sono dati appuntamento nella leggendaria piazza sgomberata dalla polizia nel cuore di Wall Street, trasformandola in una caotica Little Italy di flash, urla e microfoni. Giubbotto arancione, barba incolta e jeans, l'autore di Gomorra invitato ufficialmente a New York dagli organizzatori di Occupy Wall Street ha iniziato il suo comizio verso mezzogiorno, terminandolo una quindicina di minuti più tardi. Ma tranne pochi fortunati in prima fila — tra questi l'economista Nouriel Roubini — quasi nessuno è riuscito ad afferrarlo. La famosa «magia del microfono umano» — ogni frase ripetuta di bocca in bocca dagli indignati perché a Zuccotti Park i megafoni sono proibiti — con i reporter italiani non ha funzionato. Leggendo da un testo scritto in inglese, Saviano ha spaziato dal tema della mafia («l'unica economia che non conosce crisi») al nuovo governo Monti («dobbiamo dargli tempo, ma non troppo»), da Berlusconi («ha mentito e ora l'Italia è in una situazione senza precedenti») a repubblicani e Tea Party («stanno spingendo l'America verso il disastro») e dalla presidenza Obama («ci ha deluso») a un movimento «che sta cambiando il mondo e andrà avanti».
Mentre parla, nel parco recintato da una doppia transenna di ferro e piantonato da agenti, è business as usual. Un operaio afro-americano istalla le ultime lucine natalizie sugli alberi spogli; un altro ripulisce gli angoli con un lavastrada portatile. Al centro della piazzetta Bennet Weiss, un gioielliere in pensione, distribuisce come al solito le sue patacche colorate col logo OWS, invitando a «lasciare un obolo per la causa, anche se sono gratis».
«No, non so chi sia Saviano», confessa Weiss, «certo, ha attratto una bella folla», aggiunge, «ma quando parla una star di Hollywood la piazza è ben più strapiena». In un Paese dove Gomorra — libro e film — sono noti solo all'intellighenzia, anche i media americani sono rimasti a casa. «Abbiamo visto Tg5, Sky Tg24, Rai e la tedesca Zdf1 ma neppure una tv Usa», si lamentano Giulia Baczynski e Luca de Vincenzi, due turisti emiliani in trasferta.
Anche se prima d'oggi non aveva mai sentito parlare di lui, l'architetto italo americano Joseph Ciolino giura che «correrò a comperare il suo libro». Tina Munson, una terapista per la prima volta a Zuccotti Park «per studiare il rapporto tra il parco e l'antica arte geomantica taoista della Cina Feng Shui» promette di fare lo stesso. «La vera notizia, per noi che lo conosciamo bene, è vederlo per la prima volta in pubblico senza scorta», esulta Giulia Cantore, una sua fan in vacanza da Roma.
Alle 12 e 18 minuti, mentre un'ovazione segnala la fine del suo intervento, un'elegante afroamericana di mezza età, Barbara Newsome, si unisce agli applausi. «Non ho capito cosa ha detto ma ho sentito le vibrazioni col cuore», spiega la donna, docente universitaria che ha scoperto Saviano grazie all'amica Roberta Mineo, ordinaria di Processi e Dinamiche di gruppo a Reggio Emilia, a Manhattan «per scrivere un libro con Jerome Bruner, il padre della psicologia cognitiva».
Mentre i poliziotti bloccano l'ingresso a un gruppo di giovani con sacco a pelo, tamburo e chitarra di Occupy Queens, Saviano lascia il parco scortato da una processione di cameraman e curiosi che per diversi isolati mandano in tilt il traffico di downtown. «Sembra Gesù seguito dagli apostoli», ironizza una freelance, frustrata perché è tutta la mattina che tenta invano di avvicinarlo.
A chi gli chiede se è dispiaciuto di non aver richiamato più indignati americani, Saviano risponde con un sorriso: «Più americana di così questa giornata non poteva essere», dice alzando gli occhi al cielo costellato dalle gru del cantiere di Ground Zero: «Mi hanno invitato loro, primo italiano a parlare ufficialmente a Zuccotti Park».

Repubblica 20.11.11
Lo scrittore ai giovani di Zuccotti Park "Senza violenza contro le mafie"
Saviano strega Occupy Wall Street "La vostra protesta contagerà l'Italia"
di Angelo Aquaro


NEW YORK - Gli urlano: «E allora Roberto che cosa occupiamo in Italia? ». Stretto nella scorta e travolto dalla folla, Roberto Saviano, "chiodo" di pelle marrone su felpa nera, abbozza timido: «Non saprei... ». Insistono: «Il Parlamento o Piazza Affari? ».
Qui cede con un sorriso: «Piazza affari». Del resto è venuto a gridarlo forte ai ragazzi di Occupy Wall Street com'è che s'è formata la "Gomorra Finanziaria". Gli indignati di Zuccotti Park, tantissimi italiani, si esaltano. Una signora di colore («Ma chi è? » «A famous Italian writer») sbotta «Wow» quando il passaparola dei microfoni umani - qui non si possono usare amplificazioni - rilancia la sua accusa della mafia a Wall Street, del suo cash che inonda il business approfittando della recessione. Lui legge in inglese, ci sono tv di mezzo mondo, gli chiedono se è pronto a gettarsi in politica («Ora non me la sento»), un reporter francese domanda se l'addio di Silvio Berlusconi reciderà finalmente i legami istituzionali con la mafia: «Spero proprio di sì».
Anche in Italia si cambia aria: che cosa spera dal nuovo governo? «Che abbia il tempo di lavorare. E poi che non si distragga, appunto, dalla lotta alle mafie. Non è una caso che qui in America Barack Obama abbia messo la camorra tra i nuovi nemici».
Veramente i ragazzi di Occupy Wall Street sono molto critici con Obama. «Sono delusi e li capisco: aveva promesso di rimettere ordine nella giungla della finanza. Sono deluso anch'io: quando vedi un film come "Inside Jobs" capisci come stanno ancora le cose».
Può farcela? «È ancora in tempo. Lui le regole ha provato a farle, anche i ragazzi di qui chiedono regole, invece Repubblicani e Tea Party vogliono l'abolizione di ogni vincolo: e guardando loro penso che possa farcela».
Però i ragazzi di Wall Street cosa propongono? Non c'è un obiettivo concreto, non c'è un leader. «Questa può essere un'opportunità, fare emergere le capacità di turno. E poi non è vero che non ci sono proposte. Per esempio questa idea del salario universale minimo. Ecco, ora diranno che faccio il black block».
Invece ad abbracciarla c'era un guru degli investitori: Nouriel Roubini.
«Stiamo pensando a un'uscita insieme. Ancora qui negli Usa.
E poi... ». Porterà Occupy Wall Street in Italia? «C'è già, anche se hanno tentato di macchiarlo con la violenza. Però sì, sarebbe bello poter organizzare qualcosa con questi ragazzi americani».
Ha detto: se crolla l'Italia crolla l'euro e se crolla l'euro rischia anche l'America. Come siamo arrivati fin qui? «Ai ragazzi ho spiegato: quello che accade da noi vi riguarda.
L'Italia è un paese ricco e un laboratorio straordinario. Ma la ricchezza non è andata di pari passo con lo sviluppo. Una contraddizione che Berlusconi ha coperto con le bugie».
E lei com'è finito a Zuccotti? «Mi hanno cercato. C'è tutto un movimento di scrittori e artisti che si sta mobilitando. Hanno detto: perché non vieni a parlare di mafia e finanza da noi? Maronna mia: che onore. Sono qui perché non potevo non esserci. E adesso mi sento meno solo». L'invito rischiava di saltare: non ha pensato che dopo lo sgombero di Zuccotti Park per il movimento era già finita? «No, al contrario, è proprio la sua molteplicità, l'essere orizzontale, a farne una novità contagiosa: è solo l'inizio».
Però in Italia finisce sempre con la violenza. Cosa direbbe al ragazzo della molotov di Roma? «Di ascoltare i ragazzi di qua, che sono quelli che hanno cominciato tutto, partendo proprio dal ripudio della violenza.
Da noi è sempre violenza, sempre ideologia».
Con Berlusconi da parte sarà più facile mettere finalmente da parte anche l'ideologia? Si ferma. Ci pensa. Firma l'ennesimo autografo su "Gomorra" che i ragazzi gli infilano sotto per la rabbia della scorta. E poi sbotta in un sorriso: «Sì».

L’Unità 20.11.11
Allarme neonazisti
L’anima nera che scuote Berlino
Per anni i servizi segreti hanno chiuso un occhio temendo più il terrorismo islamico e di sinistra. Ma la scoperta della cellula di pochi giorni fa interroga le complicità politiche
di Paolo Soldini


Poiché le storie da un certo momento debbono cominciare, si può prendere una data: il 26 gennaio del ‘98. Quel giorno una squadra di poliziotti di Jena, in Turingia, ha l’ordine di perquisire un garage su mandato della Procura. Gli investigatori sanno che Uwe Böhnhardt, Uwe Mundlos e Beate Zschäpe, tre sorvegliati speciali (ma mica tanto) della scena neonazista locale vi hanno nascosto una grossa quantità di esplosivo da utilizzare per un attentato. Che fanno gli agenti? Vanno da Böhnhardt e gli notificano l’ordine di perquisizione. Quello prima li manda in un altro garage, poi chiama i camerati e tutti e tre scompaiono. Tra il 2000 e il 2007, uccideranno dieci persone, otto turchi, un greco scambiato per turco e una poliziotta e compiranno parecchie decine di rapine. La loro cellula assassina, il «Nationalsozialistischer Untergrund», emergerà alla luce solo 14 anni dopo, qualche giorno fa. E solo perché i due uomini si sono suicidati in un camper dopo una rapina fallita e la donna si è fatta arrestare dopo aver cercato di far sparire le tracce dei delitti dando fuoco alla casa di Zwickau, in Sassonia, in cui i tre abitavano. Tra le rovine vengono ritrovate le armi usate per i delitti e anche un film agghiacciante, montato da professionisti come se fosse un seguito della serie della Pantera Rosa, in cui rivendicano e documentano le «esecuzioni» delle vittime.
Che cosa è successo il 26 gennaio del 1998? Una défaillance disastrosa della Procura e della polizia? O qualcosa d’altro, e di peggio? Man mano che vanno avanti le indagini si scopre che il trio aveva complici e contava su aiuti. I servizi di sicurezza interni, l’ufficio federale di protezione della Costituzione (Bvs), che dovrebbe avere la vocazione già scritta nel nome, non solo ha fallito ma, almeno nelle sue articolazioni regionali in Turingia, in Sassonia e forse anche altrove è stato poco meno che complice. Böhnhardt, Mundlos e Zschäpe erano conosciuti prima che cominciassero la loro carriera di killer e, mentre giravano per la Germania a caccia di immigrati turchi, più volte sono stati intercettati, riconosciuti, seguiti senza che nessuno li fermasse. A uno dei loro delitti, a Kassel, ha addirittura assistito un infiltrato dei servizi, che si è tenuto il segreto per sé. A Zwickau erano apertamente in contatto con le strutture locali della Ndp, il partito neonazista nient’affatto clandestino perché ha ben cinque deputati nel parlamento regionale della Sassonia ed è (o dovrebbe essere) tenuto strettamente d’occhio dal Bvs, ma nessuno se ne era accorto. O sì?
Ora in Germania dilagano le polemiche. I giornali fanno a gara nel tirar fuori storie di ambigue collusioni tra servizi ed estremisti di destra. Si ricostruisce la storia del «Nationalsozialistischer Untergrund» e si scoprono altri complici, altri contatti con la politica. Si scopre che il gruppo dirigente della Ndp è infiltrato di agenti dei servizi o composto da doppiogiochisti. Si rilegge una strana sentenza della Corte costituzionale che nel 2004 negò al governo di Gerhard Schröder la messa al bando della Ndp perché i suoi vertici erano talmente infiltrati da far pensare che in alcuni degli atti illegali imputati al partito avessero responsabilità anche agenti provocatori manovrati dai servizi. Il che non ha impedito, però, violenze, intimidazioni, violazioni ripetute e gravi delle severe (in teoria) leggi tedesche che impediscono l’odio etnico e la negazione dell’Olocausto. Il ministro federale dell’Interno Hans-Peter Friedrich annuncia inchieste. Qualche testa salterà presto. I Vs dei vari Länder verranno costretti a coordinarsi, sarà creata una banca-dati comune come si è fatto per l’estremismo di sinistra e le minacce di terrorismo islamico.
E però in questo improvviso risveglio di buone intenzioni c’è qualcosa che non quadra. La lotta all’eversione di destra è stata debole e inefficace non tanto perché i servizi abbiano dormito, ma perché erano coricati dalla parte sbagliata. Qualcuno, anche in Germania, ha cominciato a capirlo dopo la strage di Anders Breivik in Norvegia: per troppo tempo si è creduto che la sicurezza dovesse essere garantita solo contro il terrorismo islamico o di sinistra e si è colpevolmente allentata l’attenzione sulla destra. Troppo forte era, è ancora, la paura retrospettiva per la Rote Armee Fraktion per preoccuparsi della Braune Armee Fraktion. Non c’è solo una colpa dei servizi, c’è una colpa politica. Per anni si è pensato che il neonazismo, in Germania, fosse una scoria residuale o un fenomeno sociologico: una tossina che aggrediva solo i più giovani. Anzi, i più diseredati e sprovveduti tra i giovani, soprattutto nell’est. È vero che il neonazismo alligna più all’est che all’ovest e sono orientali i due Länder, la Sassonia e il Meclemburgo-Pomerania anteriore, dove gli elettori hanno portato la Ndp in parlamento. Ma non è certo un caso che per le sue «esecuzioni dimostrative» il trio maledetto avesse scelto quasi esclusivamente le grandi città dell’ovest. È lì che allignano le intolleranze verso gli immigrati e tutti gli stranieri, verso i turchi meridionali e musulmani, «troppi» e non integrati specie da quando Angela Merkel, assecondando la pancia della destra democristiana, ha decretato l’indesiderabilità della società multiculturale. Il neonazismo tedesco cammina ancora con le gambe dell’antisemitismo e delle mitologie «ariane», ma galoppa sulle praterie della xenofobia diffusa e non contrastata in ampi strati di opinione pubblica. Sul primo aspetto trova nella politica tabù e freni, sul secondo trova compiacenze e complicità. E questa non è una storia solo tedesca.

La Stampa 20.11.11
La crisi, Parigi in affanno
“Un mese e mezzo di tempo per salvare l’euro dal crac”
Jacques Attali: l’unica via di uscita è attivare il controllo europeo sui conti pubblici
intervista di Alberto Mattioli


Jacques Attali è l’economista francese più conosciuto e stimato nel mondo. Ha anche promosso una Commissione il cui scopo è quello di chiedere agli economisti di fornire alla politica ciò che le manca: le idee Il successore di Sarkozy Attali critica duramente tanto la sinistra quanto la destra francese: il loro programma economico? «Semplicemente non c’è»
Monti è davvero superMario? Jacques Attali ne è convinto. Ed è un’opinione che pesa. Attali non è solo la star degli economisti francesi, ma anche il presidente di quella Commissione per liberare la crescita, a tutti nota come Commissione Attali, nella quale arruolò anche il collega Monti. Il progetto, ambizioso e molto francese, era quello di chiedere a un gruppo di cervelli di dare alla politica quel che alla politica più manca: le idee.
Professor Attali, perché proprio Monti?
«Non lo conoscevo di persona. Ma sapevo che sapeva in tre campi fondamentali: le istituzioni europee, le regole della concorrenza e la governance pubblica. Bene: Monti mi ha conquistato. Intanto perché si è impegnato moltissimo nei lavori. E poi perché anche sui soggetti in cui non eravamo d’accordo, i suoi argomenti erano sempre forti. E talvolta mi hanno fatto cambiare idea».
Per esempio?
«Per esempio, mi ha convinto a mettere l’accento sulla necessità dell’indipendenza dell’Alta autorità sulla concorrenza rispetto al potere politico. Per me, Monti è nella top ten delle grandi personalità internazionali per statura intellettuale, distacco dagli interessi personali e senso del compromesso. Cui aggiungerei anche quello dello humour».
Non è che Monti sia celebre come battutista.
«Si vede che non lo conosce. Ha un senso dell’ironia formidabile, molto inglese».
Torniamo in Francia. E’ difficile capire in cosa consista la differenza fra il programma economico della destra e quello della sinistra.
«Per forza, non ci sono! La destra non ha ancora ufficialmente il candidato, la sinistra sì, però è appena stato scelto. Ma poi come si possono fare programmi quando la crisi sembra fuori controllo? In primavera, il futuro Presidente potrebbe trovarsi davanti a uno scenario con le banche francesi fallite e l’euro imploso. E magari la scelta se cercare di stare attaccati a un nuovo euro forte con la Germania o a un euro debole con l’Italia e gli altri».
Ha fatto scalpore una sua recente intervista dove lei sosteneva che Parigi sbaglia ad accanirsi a difendere una tripla A che in pratica ha già perso...
«Perché non prendere atto della realtà? Il problema, per la Francia, non è quello di difendere la tripla A, ma di riconquistarla. Ma è tutta l’Europa che adesso deve fare delle scelte coraggiose. Compresa la Germania, che è molto più malata di quel che crede».
Non è più la prima della classe?
«Ha un debito enorme, ben più pesante di quello spagnolo. E con l’aggravante di una demografia difficile, per cui si saranno sempre meno tedeschi per onorarlo».
Cosa deve fare l’Europa per evitare il tracollo?
«Tre cose. Prima: puntare sulla Bce. La Banca deve continuare a fare quel che sta facendo, cioè sostenere i titoli di Stato dei Paesi membri. I mercati speculano perché scommettono che la Bce non interverrà: ma se la Bce dichiarerà che continuerà a intervenire finché ce ne sarà bisogno, la speculazione verrà fermata. E poi ricordo che nei trattati europei è scritto che la Bce non deve solo lottare contro un’ipotetica inflazione, ma anche per la crescita e l’occupazione».
Ed eccoci al secondo punto.
«Gli eurobonds sono lo strumento giusto per finanziare la crescita. L’Unione europea, a differenza dei Paesi che la compongono, non ha debiti. Se emettesse delle obbligazioni europee, i mercati le apprezzerebbero. Certo, il corollario è il punto tre».
Cioè?
«Il federalismo budgetario. E’ chiaro che la sorveglianza sui bilancio nazionale dev’essere fatta a livello europeo. Con un obiettivo molto semplice: ognuno rispetti le regole di Maastricht. Aggiungo che tutto questo va fatto presto».
Quanto presto?
«Diciamo entro la fine dell’anno. Poi l’euro esploderà e sarà il caos. Per tutti».
Il suo piano presuppone una volontà politica che non c’è.
«Peggio. Mi sembra di rivivere uno di quegli anni terribili del Novecento, come il 1914, il ‘29 o il ‘38, in cui la politica europea ha fatto le scelte peggiori».
Insomma, lei è pessimista.
«Io sono realista. E poi l’ottimismo o il pessimismo sono atteggiamenti da spettatore, anzi da tifoso. Il giocatore, e noi europei siamo tutti giocatori, non è né ottimista né pessimista: cerca solo di vincere la partita».
Non lo scrive mai nessuno, ma lei fa anche il direttore d’orchestra. Se la crisi fosse un brano musicale, quale sarebbe?
«L’ouverture della Forza del destino di Verdi. Ha la stessa forza e lo stesso ritmo incalzante. Apparentemente inarrestabile».

Repubblica 20.11.11
I manifestanti: "Annullate le schede con le fette di prosciutto"
Elezioni in Spagna con il rebus indignados "Meglio non votare"
di Omero Ciai


MADRID - I ribelli indignati che alla vigilia delle amministrative dello scorso maggio seminarono il panico nei palazzi della politica sono tornati alla Puerta del Sol, la grande piazza ovale nel centro della capitale spagnola. Ma ieri, alla vigilia di un altro appuntamento elettorale, le elezioni politiche, erano veramente pochi.
Cinquecento al massimo. Il movimento degli "indignados" (la maggior parte giovani sotto i trent'anni disoccupati o con lavori molto precari e mal retribuiti) non è scomparso, piuttosto s'è diluito in realtà minori: scuole, università, quartieri, dove nei giorni scorsi si sono svolte manifestazioni contro i tagli all'istruzione.
L'assemblearismo di maggio, per ora, si è trasformato in proteste più puntuali e meno visibili. La parola d'ordine oggi è l'astensione o il voto ai partiti minori contro l'odiato bipolarismo rappresentato da Psoe e Pp, i due partiti-balena di centrodestra e centrosinistra, che dagli anni Ottanta si alternano al potere. «Annulliamo le schede con le fette di prosciutto» è l'idea provocatoria di alcuni per rappresentare l'accusa che i giovani "indignados" spagnoli rivolgono ai due maggiori partiti: essere delle macchine di corruzione e prebende e non buoni amministratori del bene pubblico.
L'onda di terremoto che stasera cambierà la Spagna sembra però essere un'altra. Molto simile a quella delle elezioni amministrative del 22 maggio scorso quando regioni e comuni a guida socialista passarono ai candidati del centrodestra. La crisi economica e la sua incerta ed erratica gestione da parte del governo socialista di Zapatero ha causato, insieme alla rivolta degli indignados, un malessere così diffuso che staserai socialisti rischiano di perdere - secondo i sondaggi - oltre tre milioni di voti ed ottenere uno dei peggiori risultati della loro storia politica dalla fine del regime di Francisco Franco, il dittatore morto proprio un 20 novembre di 36 anni fa. Una data storica per la nuova Spagna che coincide con il ritorno della monarchia e l'avvio della transizione verso la democrazia. E che sembrava scelta dal governo socialista, costretto ad anticipare le politiche dopo il disastro delle amministrative, con la speranza di serrare le fila degli elettori progressisti. Effetto mancato se, come sembra ormai inevitabile, il candidato dei Popolari, Mariano Rajoy, otterrà una vittoria senza appello e la maggioranza assoluta dei seggi (176) in Parlamento. La settimana sì è chiusa con i mercati in fibrillazione per la crisi del debito che sembra destinata a durare ben oltre il passaggio delle consegne e che costringerà Rajoy a presentare un'ampia e dura manovra di tagli alle spese.

Repubblica 20.11.11
L'intervista
Assad avverte il mondo "Un attacco alla Siria sarebbe un terremoto"
Il presidente: "Le sanzioni non ci piegheranno"
di Hala Jaber


HA TUTTA l'aria del giovane manager. Difficile, infatti, figurarsi che il personaggio sorridente in abito scuro, ora preso a salutare lo staff, borsa in mano, mentre entra nel Palazzo Tishreen, non lo sia. Eppure ecco Bashar al-Assad, il presidente siriano nel cui nome sarebbero state uccise più di 3500 persone in otto mesi di violenze culminati la scorsa settimana in scontri armati paragonati dal ministro degli Esteri russo a una guerra civile. Assad, 46 anni, è fatto segno a critiche internazionali. Gli ex alleati della Lega araba gli hanno dato tempo fino a ieri per porre fine alla «sanguinosa repressione», minacciando sanzioni economiche.
Gli chiedo cosa provi - da padre di due figli maschi di 6 e 9 anni, e di una bimba di 8 - vedendo le immagini di piccoli innocenti uccisi negli scontri? «Soffro, come qualunque altro siriano. Ogni goccia di sangue versato mi tocca personalmente.
Ma nel mio ruolo di presidente devo pensare ai passi da compiere per evitare ulteriori spargimenti di sangue: ai fatti, non alle parole o al dispiacere».
LE BANDE ARMATE La soluzione, insiste, non è nel ritiro delle sue forze, ma nell'eliminazione dei militanti, a suo avviso i principali responsabili degli scontri a fuoco. «L'unica via è cercare e inseguire le bande armate, bloccare l'afflusso di armi dai Paesi vicini, prevenire il sabotaggio e imporre la legge e l'ordine».
LA LEGA ARABA Per Assad, la mossa della Lega Araba ha lo scopo «di dare a vedere che esistono problemi tra gli arabi, fornendo così un pretesto ai Paesi occidentali per un intervento militare contro la Siria. Ma avverte che la conseguenza sarebbe «un terremoto che scuoterebbe tutto il Medio Oriente».
LA REPRESSIONE Assad riconosce che sono stati commessi errori da parte delle forze di sicurezza, ma li attribuisce a singoli individui. «La politica dello Stato non è di crudeltà verso i cittadini: «L'importante è scoprire chi ha sbagliato e chiamarlo a rispondere dei suoi errori. E questo in molti casi è stato fatto».
Nelle città dove sono avvenute le peggiori atrocità, soldati che hanno colpito contestatori inermi, e ufficiali che hanno dato ordine di sparare, sono stati arrestati; ma molti sono rimasti impuniti.
LE VITTIME Assad respinge il numero dei morti, a suo avviso esagerato dall'opposizione che avrebbe contato fra le vittime persone poi risultate vive. Secondo il regime il totale non è 3500, come sostengono gli attivisti, ma 619 divisi fra dimostranti colpiti dal «fuoco incrociato» tra forze di sicurezza e bande armate, vittime di assassinii di natura settaria, e sostenitori del regime. Resta il fatto che molti civili innocenti sono stati uccisi. «Nessun essere umano può far tornare indietro il tempo, ma può dar prova di saggezza. Il mio ruolo - anzi, la mia ossessione quotidiana - è di fermare il sangue versato da terroristi armati che colpiscono in alcune aree». Secondo Assad, sono morti anche 800 uomini delle forze di sicurezza, alcuni uccisi da islamisti, altri da disertori.
IL DESTINO DEI DITTATORI In altri Paesi, le richieste di riforme hanno avuto esiti nefasti per i rispettivi leader: Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto e Muammar Gheddafi in Libia. Ma per Assad il caso della Siria è diverso: altrimenti, dice, vi sarebbero già stati altri sviluppi. Le manifestazioni in suo favore dimostrano che gode ancora di un notevole sostegno, benché impossibile da quantificare. Vi sono poi altri due fattori che accentuano l'importanza degli sviluppi in Siria: la delicata posizione del Paese, al confine con Iran, Iraq e Israele. E la composizione religiosa.
L'élite alawita rappresenta il 12% della popolazione, a fronte del 74% dei sunniti, la cui ascesa al potere potrebbe avere conseguenze imprevedibili sui fragili rapporti tra la Siria e i suoi vicini, soprattutto se acquistassero peso i militanti fondamentalisti.
LE PRESSIONI INTERNAZIONALI Nel 1982 Hafez al-Assad, il padre, soffocò una rivolta islamista a Hama: la stima fu di 20 mila morti. Il figlio sembra altrettanto determinato a schiacciare ogni espansione del fondamentalismo, nell'interesse della stabilità: un fattore che a suo parere contribuisce a garantirgli il sostegno da parte di Russia, Cina e Iran. Anche Londra e Washington paventano una destabilizzazione della Siria, che farebbe tremare l'intera regione. «Il conflitto continuerà, come le pressioni per soggiogare la Siria. Però il mio Paese non si piegherà».
LE ELEZIONI Milioni di siriani sono scesi in piazza per rivendicare libere elezioni, il rilascio dei prigionieri politici e la fine delle brutalità e torture della polizia. Assad sostiene di aver avviato un processo di riforme sei giorni dopo l'inizio delle proteste: ma parte degli oppositori avrebbe risposto con le armi.
«Adesso, dopo 8 mesi, il quadro ci è chiaro... Non è questione di proteste pacifiche, ma di un'operazione armata». Tuttavia Assad intende indire elezioni in febbraio o marzo. «Avremo un nuovo parlamento, poi un nuovo governo. Una nuova Costituzione stabilirà le modalità dell'elezione del presidente. E assicura che in caso di sconfitta elettorale rinuncerà alla carica. «Sono qui per servire il Paese, non spetta al Paese servire me».
COMBATTERÒ FINO ALLA FINE Assad definisce «irrilevante» la decisione della Lega araba, e benchè lui concordi che le sanzioni economiche danneggerebbero il Paese, occorre trovare il modo per ridurne l'impatto. Quel che lo preoccupa, però, è che i leader arabi vicini all'Occidente preparino il terreno per un intervento internazionale sul modello libico. Si dice che la Turchia consideri proposte per una zona cuscinetto sul versante siriano del confine, per proteggere la popolazione civile. Si approfondisce il sospetto di una qualche forma di azione militare contro la Siria. Se così fosse, lui sarebbe pronto a combattere e a morire? «Sì, assolutamente: è fuori discussione». Si batterà per conservare la presidenza? «No di certo, perché vorrebbe dire lottare per me stesso e non per la Siria.
Se dovrò combattere, lo farò la Siria e il popolo siriano». (© The Sunday Times traduzione Elisabetta Horvat)

Repubblica 20.11.11
Obama vince ai punti con Pechino asse più forte con i Paesi del Pacifico
Vertice con Wen che assicura: lo yuan si rafforzerà
di Giampaolo Visetti


PECHINO - Per nove giorni Cina e Usa si sono rincorse a distanza nel Pacifico. Il bilancio del primo scontro diplomatico tra le due superpotenze economiche, nella nuova area strategica del mondo, si è chiuso ieri con una vittoria ai punti del presidente americano.
Tra le Hawai e Bali, Barack Obama ha incontrato tutti i leader dell'Oriente in crescita, rilanciando la presenza politica, militare e commerciale di Washington nelle zone dell'Asia che Pechino ritiene debbano entrare nella sua orbita. La Cina è apparsa sulla difensiva, preoccupata, più isolata del previsto e in ritardo sui rapporti con i Paesi vicini.
Solo in extremis il premier Wen Jiabao, dopo l'incontro iniziale del presidente Hu Jintao, è riuscito ieri ad agganciare il padrone della Casa Bianca per un faccia a faccia finale. Un colloquio a sorpresa, chiesto dalla Cina all'ultimo istante, preparato in mezz'ora e durato circa un'ora, necessario a Pechino per salvare l'apparenza di una partnership privilegiata con gli Usa. La Cina ritiene che il Pacifico sudorientale sia un bacino di sua competenza e temeva che la forza egemone dell'area atlantica lasciasse la zona senza fare rapporto ai padroni di casa. Il mini-vertice Wen-Obama, giunto al termine di giorni ad alta tensione diplomatica e di scambi d'accuse mai così espliciti, non si è risolto così nello scambio di cortesie a cui hanno alluso le dichiarazioni ufficiali. Il premier cinese, forte del ruolo di primo banchiere dei debiti Usa, ha manifestato a Obama tutta la sua contrarietà all'offensiva americana nel Pacifico: no alla base dei marines in Austrialia, no all'ingerenza di Washington nelle dispute territoriali e marittime tra la Cina e i suoi vicini dell'Asia, no a un'area di libero scambio transpacifica senza Pechino e no a ogni tentativo Usa di contenere la crescita e l'espansione della se conda potenza del pianeta. Barack Obama ha lasciato Bali senza rilasciare dichiarazioni, il portavoce Tom Donilon si è limitato ad assicurare che l'America «non ha alcuna aspirazione egemonica e non si schiera da nessuna parte», ripetendo il benvenuto «ad una Cina prospera e pacifica». Il presidente Usa però ha in realtà risposto al premier cinese che gli Stati Uniti si sentono liberi di muoversi in Asia, di stringere alleanze con chiunque e di riorientare verso Oriente la loro «nuova politica di sicurezza».
Non una dichiarazione di guerra, ma la reciproca notifica di interessi conflittuali su cui nessuno intente mediare e che ufficializzano l'apertura dello scontro Cina-Usa nel Pacifico. Presa in contropiede, Pechino per ora ha preso atto che le dispute di confine con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei, ma pure quelle più ampie con Giappone, Corea del Sud e India, non potranno essere gestite come «affari cinesi» e che questi Paesi guardano anzi sempre più agli Usa quali alleati nel ridimensionamento della Cina. Wen Jiabao ha anche annunciato che la flessibilità dello yuan aumenterà, accogliendo così la richiesta Usa di un apprezzamento della valuta.

Repubblica 20.11.11
Cari ragazzi, non vi fidate della psicologia dinamica
di Jorge Luis Borges


Un testo inedito dello scrittore argentino che, in una conversazione con Osvaldo Ferrari, critica i corsi universitari alla moda

Sono stato nell'illustre Università di Cordoba, frequentata anche dal dottor Francia, tra gli altri; e non mi ha fatto, diciamo, una buona impressione. Ho dovuto assistere, o meglio, mi hanno invitato ad assistere a una lezione; e già il nome mi ha spaventato: il nome era Psicologia dinamica. Mio padre era professore di Psicologia delle lingue vive, e la psicologia mi ha sempre interessato; credevo che fosse dedicata allo studio della coscienza umana, che fosse quello che avevano studiato, ad esempio, gli scolastici, William James, Spiller; credevo si trattasse di studiare la coscienza, le abitudini o i meccanismi della coscienza, e poi cose strane come i sogni, il sonno, la memoria, la sua perdita, la volontà. Credevo che fosse questo il campo della psicologia. Mi sono ricordato anche di Bergson, naturalmente. Poi ho assistito a quella lezione, e forse il nome mi aveva già allarmato: Psicologia dinamica. Il professore, di cui non voglio ricordare il nome, e di fatto l'ho dimenticato, iniziò a scrivere sulla lavagna con il gesso la parola "Prologo lezione", una parola composta, non troppo felice, ma che gli studenti hanno dovuto trascrivere, e gli studenti erano, non so, un centinaio.
La lezione è durata mezz'ora: Psicologia dinamica. E ho scoperto che non aveva niente a che vedere né con la psicologia né con la dinamica, dal momento che consisteva in una serie di, diciamo, di confusioni basate sull'etimologia delle parole. A me interessa molto l'etimologia soprattutto perché così si può vedere come concetti molto diversi hanno la stessa radice. Ad esempio ho scoperto da poco che "cleptomane" e "clessidra" hanno la stessa origine. Non si assomigliano per niente, ma nel primo caso, cleptomane, si tratta di un ladro, giusto?, ossia ruba, toglie denaro o qualsiasi altra cosa. E anche dalla clessidra si toglie acqua. O altre volte abbiamo osservato che, per quanto strano, l'orrenda parola "nausea", che nessuno scrittore osa utilizzare, ha la propria meravigliosa origine in "nave". Da "nave", forse pronunciata "naius", provengono "navale", "nautico" e "nausea"; perché uno avverte la nausea quando è a bordo. Mi ha sempre divertito vedere come parole molto diverse hanno la stessa radice. Ma l'argomento della psicologia dinamica era esattamente il contrario: si trattava di dimostrare che due parole erano sinonime perché avevano la stessa radice. Quindi sono state prese le parole "creare" e "credere" - non so se hanno la stessa radice - ma in ogni caso mi sembra assurdo giungere alla conclusione che sono sinonimi.
L'argomentazione era che se si crede, si crea, insomma, si crede in ciò che si è creato. Sarebbe una specie di inversione, di calambour, di " greguerías ". Il professore ha fatto sei o sette esempi, non meno piacevoli, ma più felicemente dimenticabili di quello che vi ho riportato, e gli studenti hanno dovuto appuntare tutti gli esempi. E si suppone che questa sia una materia. Si studia e si fanno esami - anche se ora credo che gli esami non esistono quasi più visto che è possibile accedere all'università senza un esame d'ingresso; ci sono esami collettivi in cui uno studente risponde per gli altri. Inoltre, poiché i professori sono un poco spaventati dagli alunni, è una cosa terribile che le università, invece che insegnare, si dedichino a fomentare le arbitrarietà, o scienze illusorie come la Psicologia dinamica. Spero che altrove vada meglio.
Mi è parso molto strano: ho avuto anche l'impressione che si facesse tutto così, che ci si occupasse solo... insomma, forse i professori p o s s o n o mostrare certe vanità, no?, o comunque possono sorprendere gli alunni; ma è un peccato che non si approfitti dell'università per lo studio, ma piuttosto la si sfrutti per una mera trovata economica. Credo che anche qui lo studio della letteratura, per esempio, sembri prescindere del tutto dal piacere dell'aspetto estetico.
Qui a Buenos Aires e forse anche in gran parte del mondo si prescinde da questo e si cercano piuttosto semplici giochi. Ho temuto che la psicologia fosse stata rimpiazzata dalla psicanalisi; ma non certo da una serie di giochi di parole con le etimologie.
Gli alunni sono talmente docili... e anche questo è difficile, intendo l'apprendere simili trivialità senza il minimo sforzo. Si memorizzano e con un po' di fortuna si riesce anche a dimenticarle a un certo punto; se si ha la fortuna di dimenticare tutto quello che si è memorizzato per sostenere l'esame.
Dopo aver superato l'esame, ci si può dimenticare tutto. Non si perderebbe niente, vero? Ma è molto triste perché questo paese è in declino - lo sappiamo tutti - ed è un peccato che il declino non sia solo etico ed economico, ma anche intellettuale. Una situazione che viene fomentata, forse per ragioni politiche; si rimescola il criterio di comunità. A Cordoba mi hanno detto il numero di studenti che frequenta i corsi, una cifra esorbitante.
Non ricordo, ma mi pare decine di migliaia.
Non so se i professori siano sufficienti per una simile quantità. Sarà indispensabile anche ridurre il numero degli alunni che studieranno davvero. Ma al giorno d'oggi le statistiche sembrano essere molto importanti, la statistica piace. Una volta ho definito la democrazia un abuso della statistica, e se le università seguiranno la stessa strada, ossia che non è più importante che gli alunni apprendano, ma piuttosto che ce ne siano molti... Poi c'è la tendenza generalizzata in questo paese agli eufemismi, che possono ingigantire le cose. Ad esempio conosco cittadine universitarie, tra cui alcune negli Stati Uniti, che sono davvero cittadine universitarie - non ci sono solo le aule, ma anche le residenze di studenti e professori -. Al contrario credo che qui abbiano riunito, in non so quale quartiere, due facoltà, e li abbiamo chiamati città universitaria; ma non si tratta di una vera città, perché lì non ci vive nessuno. Sembra che bastino le parole.
Ad esempio il fatto che abbiamo patito ottantadue generali... mentre sarebbe stato importante averne anche solo uno. Forse è troppo esigerne uno; al contrario, ottantadue possono essere ottantadue incapaci, o ottantadue dilettanti, o ottantadue maschere: ottantadue persone in uniforme.
In questo paese, un militare può essere un civile con un'uniforme. E molti civili erano essenzialmente militari senza uniforme. Non è un'attitudine strategica, quanto piuttosto un'attitudine all'amore per l'arbitrarietà, per la violenza; sarebbe a dire che non saprebbero vincere una battaglia, ma arrestare un cittadino, quello sì.
Sono stato professore di letteratura inglese per vent'anni presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Non ho mai insegnato Letteratura inglese - che ignoro -, ma ho insegnato l'amore, non dico per tutta la letteratura, perché sarebbe assurdo, ma senz'altro per alcuni scrittori e alcuni libri. Non credo di aver mancato al mio compito.
Ecco perché mi fa male ciò che accade laggiù.
È vero che sono un professore emerito e che offro consulenze, ma non mi hanno mai consultato su niente, e non so cosa significhi. Ho chiesto a Jorge Luis Romero - hanno nominato entrambi professori emeriti e consulenti -, che cosa vuol dire? E lui mi ha risposta che non ne ha la minima idea, ma suppongo che l'intenzione fosse delle migliori. Perché se non è un semplice regalo fonetico, cos'è? O si viene aggiunto ai docenti o gli vengono regalati quei due titoli.
Non approverei nessuna delle sciocchezze che infliggono, e che regalano anche, o si offrono agli studenti oziosi. (...) Sono rimasto così scioccato da quella cosiddetta materia, di cui regalo il nome: Psicologia dinamica; che non ha nulla a che vedere con la psicologia o con la dinamica.
(...) Non so da dove l'abbiano preso, non credo sia un'invenzione di Cordoba, come la riforma universitaria, credo di no. Devono senz'altro insegnarla da qualche altra parte del mondo, il nostro è innanzitutto un paese che imita.
© 1999 editorial Sudamericana S. A. Humberto I 531 Buenos Aires © 1999 Osvaldo Ferrari © 2011 Bompiani/RcS Libri S. p.A.
(Traduzione di Beatrice Gatti)

Corriere della Sera 20.11.11
Dura polemica tra le figlie sulle ultime volontà di Lacan
di Stefano Montefiori


PARIGI — Decenni di studi, di ripiegamento su di sé e di riflessione sull'opera del grande pensatore non sono serviti a produrre né serenità, né equilibrio, né distacco. Forse è questo il curioso insegnamento della furibonda lite che vede contrapporsi, a Parigi, da un lato una figlia di Jacques Lacan, Judith Miller, con suo marito Jacques-Alain Miller, e dall'altra Sybille Lacan (sorellastra di Judith), alleata alla studiosa Elisabeth Roudinesco, grande sacerdotessa della psicanalisi freudiana.
Il trentennale della morte di Lacan (9 settembre 1981) si sta svolgendo in un clima di livore tra quanti si contendono l'eredità spirituale del maestro; una battaglia culminata nell'udienza di tribunale di mercoledì scorso, nella quale Judith Miller accusava Elisabeth Roudinesco di diffamazione. Nel libro Lacan, envers et contre tout pubblicato in occasione dell'anniversario, la Roudinesco ha scritto questa frase: «Sebbene avesse espresso il desiderio di finire i suoi giorni in Italia, a Roma o a Venezia, e avesse auspicato dei funerali cattolici, Lacan fu sepolto senza cerimonia e nell'intimità al cimitero di Guitrancourt». La Miller si è scagliata contro la Roudinesco al grido di «la libertà di espressione non autorizza a dire qualsiasi sciocchezza», non sopportando l'accusa implicita di avere tradito le volontà dell'illustre padre. Ma durante il dibattimento ha preso la parola anche Sybille Lacan, l'altra figlia dello psicanalista, confermando la tesi della Roudinesco: «Mio padre è stato sepolto senza che mio fratello Thibault e io fossimo consultati. Abito a Montparnasse, conosco molti psicanalisti, tra i quali vecchi collaboratori di mio padre che avrebbero tanto voluto assistere alle esequie».
Le due fazioni in guerra si combattono anche e soprattutto nel mondo dell'edizione: il marito di Judith, Jacques-Alain Miller, ha sbattuto la porta della casa editrice Seuil (del compagno della Roudinesco, Olivier Bétourné) perché si è sentito escluso dalle celebrazioni del trentennale. Una decisione clamorosa nel litigioso mondo della psicanalisi parigina, visto che Seuil è la maison storica di Lacan e che Miller è ancora in possesso di una decina di seminari del grande maestro in attesa di pubblicazione.
La Roudinesco fu protagonista tempo fa di una violenta polemica contro il filosofo Michel Onfray, reo di avere sottolineato lo scarso valore scientifico dell'opera di Freud. Stavolta è lei sul banco degli accusati; sarà la sentenza del tribunale, prevista per l'11 gennaio, a conferire l'ambito titolo di «lacaniano autentico»

«Lite per il posto auto riservato Uccide il marito della disabile
Parcheggia in divieto, poi investe con il Suv l'uomo che protesta»
Corriere della Sera 20.11.11
Quel male estremo che è entrato nelle nostre vite
di Paolo Di Stefano


È vero che negli ultimi dieci-vent'anni abbiamo metabolizzato tutto il possibile pulp, lo splatter e l'horror quotidiano sia in forma di fiction per via letteraria, televisiva e cinematografica, sia attraverso la cronaca non solo nera, al punto da sospettare ogni tanto che niente possa essere ormai capace di smuovere le nostre sensibilità iper corrazzate dalla consuetudine e dal cinismo. Invece. Invece spesso e (mal)volentieri ci ritroviamo a constatare come il confine tra l'impensabile e la realtà divenga sempre più permeabile, cosicché quel che un attimo prima sarebbe rientrato nel novero delle immagini da relegare esclusivamente nello spazio fantastico, un attimo dopo va aggiunto legittimamente al catalogo degli orrori quotidiani di cui non resta che prendere atto con una certa rassegnazione.
È vero che la cronaca ci ha già regalato, negli ultimi anni, storiacce di crimini realizzati senza ragione o di delitti con moventi apparentemente minimi (il che sembra una delle caratteristiche del nostro tempo: uccidere in assenza, o quasi, di movente). Il bambino che piangendo troppo trasforma sua mamma in omicida, il rimprovero di un genitore che provoca l'ira funesta del figlio, il chiasso eccessivo del vicinato che fa maturare un odio fatale fino alla violenza più atroce, eccetera. A lasciare senza parole è quasi sempre, ormai, la gigantesca sproporzione tra i dati di partenza e le reazioni che scatenano. Come se una forma di allucinazione portasse a deformare e amplificare elementi del reale, gesti, comportamenti, parole, dettagli in sé pressoché insignificanti.
Nel caso del delitto di Cremona, poi, appare tutto come elevato alla seconda. All'insensatezza di un omicidio maturato per motivi futili come un parcheggio, si sommano due o tre ulteriori assurdità da vertigine. Primo, il fatto che non c'era nessun dubbio tra il torto e la ragione: lo sai bene che un disabile ha tutto il diritto di parcheggiare negli spazi per invalidi; mentre la tua vettura senza contrassegno deve solo lasciar spazio e sloggiare. Basterebbe il semplice litigio su una tale banalità a proiettare l'evento al di fuori del buon senso e dei normali confini della convivenza civile. Secondo, se è assurdo che tu ti metta a litigare per una causa visibilmente sbagliata, è una vigliaccata attaccar briga (quando per di più sei nel torto) con un uomo che si trova in palese difficoltà pratica, dovendo accompagnare a casa sua moglie disabile. Terzo: non solo ti permetti di alzare la voce ben sapendo di essere dalla parte dell'ingiustizia; non solo da persona sana di mente e di fisico arrivi ad alterarti sorvolando sulle condizioni nettamente svantaggiate del tuo interlocutore-avversario, ma in una progressione di pochi minuti diventi accecato al punto da travolgerlo con l'auto. Quarto: non sei abbastanza accecato, però, da rimanere allibito e immobile di fronte al tuo gesto fuori misura, dunque scappi.
«La paura aggiunge ali ai piedi», ha scritto Virgilio. Avrebbe ragione pure nel caso dell'automobilista di Cremona, ma si tratta di un'alterazione talmente mostruosa in tutti i suoi passaggi, talmente sproporzionata rispetto a ogni riscontro con la realtà, da non concedere nessuno spazio alle ragioni ella «ragione». Non è escluso, a pensarci bene, che anche l'assassino di Cremona avesse diritto a un posto auto per disabile.

L’Unità 20.11.11
Come ti spiego la matematica con l’arte
Una mostra a Parigi dedicata alla rappresentazione dei «numeri» Si sono cimentati artisti (da David Lynch a Patti Smith) e scienziati insieme. Una chiamata a raccolta di grandi intelligenze ma il risultato...
di Michele Emmer


Immobili e silenziosi, solenni, indecifrabili e misteriosi, queste sei figure... sono indicate come testimoni, pensatori, filosofi, forse sciamani, oppure matematici. Per certi versi è la stessa cosa, perché la filosofia dei numeri può coincidere con quella delle forme. Se un grande matematico greco ha infatti detto che tutto è numero, un grande filosofo, anch’egli greco, ha più tardi precisato che nel mondo visivile tutto è forma. Parole del critico d’arte Enzo Di Martino nell’introduzione della mostra di serigrafia della serie Mathematica di Mimmo Paladino al Peggy Guggenheim Collection di Venezia durante la Biennale d’Arte del 2002.
Un famoso matematico francese Jean Diudonné confessava alcuni anni fa in un libro intitolato Pour l’honneur de l’esprit humain (tradotto con poca fantasia in italiano L’arte dei numeri) in cui voleva dare un’idea del lavoro dei matematici contemporanei ai non addetti ai lavori che gli riusciva molto difficile perché da un lato per comprendere alcune idee e teorie più fertili della matematica di oggi bisognerebbe che chi legge abbia frequentato almeno un biennio universitario di matematica. Inoltre la maggior parte dei concetti matematici moderni sono del tutto astratti, è impossibile visualizzarli, anche se si cerca di rendere il più semplice possibile.
Pur con queste premesse da molti anni si organizzano mostre di matematica, su alcuni aspetti applicativi o didattici della matematica, basandosi su modelli tridimensionali, su elaborazioni al computer, su forme geometriche per cercare di rendere visibili quello che è così difficile visualizzare. Anche perché la forza della matematica e la sua peculiare differenza dalle altre discipline consiste proprio nella sua astrattezza ed universalità.
In alcuni casi si è fatto ricorso all’arte per cercare di far comprendere alcune idee matematiche.
Dal 20 gennaio al 17 febbraio 1963 fu organizzata una mostra d’arte a Parigi molto insolita. Insolita prima di tutto per il luogo dove si svolgeva, uno dei templi della diffusione della cultura scientifica, il Palais de la Decouverte. Titolo della mostra Formes. Mathématiques peintres sculpteurs contemporains. Vi erano esposte opere di artisti di grande rilevanza: tra i pittori Max Bill, Robert e Sonia Delaunay, Juan Gris, Le Corbusier, Piet Mondrian, Gino Severini, George Seurat, Victor Vasarely. Tra gli scultori Max Bill, Raymond Dichamp-Villon, Georges Vantogerloo. Alle opere degli artisti erano alternate superfici matematiche realizzate in metallo o in gesso. Superfici che erano in parte state realizzate alla fine dell’Ottocento da artigiani tedeschi su richiesta di alcuni grandi matematici dell’epoca, Riemann e Klein, per rendere visibili agli studenti e agli studiosi le nuove superfici scoperte in quegli anni.
MENTI E MODELLI
A quelle superfici si è ispirato l’artista giapponese Hiroshi Sugimoto, che ha iniziato a fotografare i modelli, poi ha creato a sua volta altre superfici. Una di queste è in mostra in una grande sala nel sottosuolo della mostra Mathèmatiqeus. Un dépaysement soudain aperta sino al mese di marzo presso la Fondation Cartier pour l’art contemporaines a Parigi. Un grande sforzo organizzativo che ha coinvolto alcuni dei migliori matematici francesi o che in Francia lavorano a cominciare dal Jean-Pierre Bourgignon che della mostra è stato l’ideatore. Tra i matematici molti vincitori di medaglia Fields da Cedric Villani, a Alain Connes a Misha Gromov a Sir Michael Atiyah; tra gli artisti, oltre Sigimoto, David Lynch, Jean-Michel Alberola, Patti Smith, Takeshi Kitano.
È venuto il momento di dire che cosa vi vede alla mostra. Quale è il risultato di un grande sforzo, di questa chiamata a raccolta di alcune delle migliori intelligenze? Una mostra che non è una mostra, un insieme di cose slegate tra loro, molte di scarso interesse, con la
grande ambizione di far cogliere che cosa sia la matematica. La matematica è proprio la grande assente. Bisogna mostrare la matematica e quindi come diceva Dieudonné bisogna mostrare qualcosa d’altro data la difficoltà di visualizzare la matematica. Ecco allora gli artisti. Idea come detto certo non nuova. Lynch ha realizzato la scenografia della grande sala, che richiama la forma dello zero e che rimanda ai templi greci. Dentro la grande sala un fuoco stilizzato disegnato in animazione in cui compaiono i numeri interi. Sul grande schermo in fondo scorrono delle pagine di libri famosi di matematica. Entrando si fa la fila per vedere dei piccoli robot che apprendono tramite il meccanismo della curiosità un linguaggio. Certo, si dirà, dietro a qualsiasi tecnologia moderna ci sono strumenti ed idee matematiche. Quindi tutto è oggi matematica, e si può mostrare qualsiasi cosa. Il gioco è fatto. Sulla parete accanto delle piccole mattonelle magnetiche che sono basate sul ricoprimento non periodico che Roger Penrose scoprì negli anni settanta. Senza parole per far capire, troppo banale. Su un grande schermo concavo immagini della pelle di un leopardo con le equazioni differenziali che ne regolano la morfologia e parole dette con voce suadente come solo i francesi sanno fare. Sullo sfondo immagini dal CERN di Ginevra. Tutto è matematica.
PIENO DI STAR
Al piano di sotto nella grande sala vuota la piccola scultura di Sugimoto, persa nello spazio. Un grande diagramma che ai matematici risulterà chiaro, agli altri per niente. Infine nell’ultima grande sala la cosa più interessante, un film di Raymond Depardon e Claudine Nougaret. Interviste ai matematici che hanno partecipato a vario titolo alla esposizione. Le loro facce, i loro discorsi, necessariamente brevi e coinvolgenti sono la cosa migliore della mostra. Un’idea non nuova. Lo stesso tipo di film c’era alla mostra de la Villette anni fa con altri matematici. Simon Singh nel bellissimo film L’ultimo teorema di Fermat ha fatto parlare le facce dei matematici non potendo spiegare la dimostrazione del teorema. Grande catalogo con molte immagini, tutti i tipi di gadget, accluso disco con le musiche di Patti Smith, incontri, seminari. Un grande sforzo pubblicitario, insomma un grande Evento. Mancava solo una cosa: l’oggetto, un’idea di quello che bisognava visualizzare. Ma si sa la matematica non è visualizzabile.

La Stampa 20.11.11
Questa scena non s’ha da girare
Anteprima dal nuovo romanzo: uno sceneggiatore geniale e tirannico, un’attrice che si ribella alla parte, una clamorosa rottura sul set
di Abraham B. Yehoshua


Il buio è assoluto ma le lancette dell’orologio non ingannano. Sono le sette e mezzo e non le cinque del mattino. Il sonno ha avuto il sopravvento sulla ragione, che a sua volta ha avuto il sopravvento sull’ansia. E anche se uno strano sogno ha fatto capolino durante la notte, non ha importunato Moses che ora scende in silenzio dal letto sforzandosi di non disturbare e, affidandosi alla memoria, avanza a tentoni verso il bagno mentre la sua compagna, addormentata ma non del tutto incosciente, occupa d’istinto una parte della zona sgomberata.
In bagno vi è una finestrella dalla quale si possono vedere persone che camminano lungo il muro della cattedrale. La prima giornata della retrospettiva è iniziata ed è meglio riposarsi ancora un po’ prima che cominci il parapiglia. Schegge di luce insinuatesi fino al grande letto illuminano i piedi dell’attrice, rimasti scoperti dopo che il piumino è scivolato giù. Moses li ricopre e osserva attentamente la riproduzione appesa alla parete. L’occhiata fugace della notte è stata superficiale e fuorviante. Forse il quadro rappresenta un oscuro evento mitologico. Non la passione di un vecchio per una giovane donna ma il tormento di un uomo affamato e disperato.
Il vecchio muscoloso è di certo un prigioniero. Ha le mani legate dietro la schiena e i piedi scalzi e sudici probabilmente sono stati appena liberati dai ceppi lì accanto. I suoi aguzzini gli hanno fatto patire la fame a tal punto che è attratto dai seni caritatevoli di una giovane donna, una balia, che guida con cautela il suo cranio calvo e scuro verso il petto candido.
Moses cerca il nome dell’artista ma trova solo due parole scritte con grafia svolazzante: Caritas romana. E come un fulmine lontano lo folgora la domanda se Trigano conoscesse questo quadro, insolito e audace, appeso casualmente nella camera di un albergo nella regione della Galizia, in Spagna. È possibile che nelle prime luci di un’alba iberica, così, per puro caso, lui abbia scoperto qui, a Santiago de Compostela, l’origine nascosta, la scintilla che aveva acceso la fantasia del suo giovane e talentuoso sceneggiatore? Un semigenio, ma anche un incorreggibile testardo che aveva rotto i ponti non solo con lui ma anche con la sua amica e compagna a causa della cancellazione di una scena? Da allora è lui, Moses, a sobbarcarsi la responsabilità di questa donna, se non per un senso del dovere almeno per correttezza. Era stata questa immagine mitologica ad aver ispirato a Trigano la folle scena destinata a suscitare scandalo alla fine dell’ultimo film che avevano girato insieme?
Il posto scelto per le riprese era una via squallida, poco lontano dal porto dei pescatori a Jaffa. Il clima grigio della giornata si intonava con l’atmosfera lugubre del film. L’operatore, il fonico, la truccatrice e il tecnico delle luci avevano terminato i preparativi e nonostante il luogo fosse isolato si era radunata un bel po’ di gente. Agli inizi degli anni Settanta le riprese esterne di un film erano ancora un evento raro in Israele e i passanti ne erano attratti come da fili magici. Moses non ha dimenticato quella mattina malgrado i tanti anni passati, perché quel giorno aveva segnato la fine del sodalizio fra lui e il suo sceneggiatore. All’angolo della strada, su uno sgabello, sedeva un vecchio mendicante vestito di stracci, un famoso attore di teatro. Per il regista era particolarmente importante che al termine del film, nell’ultima scena, non comparisse una figura anonima ma un attore noto e ammirato che avrebbe sorpreso gli spettatori nei panni di un misero mendicante e sarebbe rimasto impresso nei loro cuori. L’attore, però, aveva preteso che il suo personaggio esibisse anche un lato intellettuale mediante un cilindro, anziché un semplice berretto in attesa dell’elemosina, o una pipa fumante fra le labbra. Già quando aveva dato le ultime istruzioni Moses aveva percepito la sua compiaciuta attesa per il contatto sensuale con i seni di una giovane donna. Tanto più che chiaramente l’episodio sarebbe stato girato più volte, così da poter scegliere in fase di montaggio il ciak più credibile e di maggiore impatto. Nonostante la sua originalità la scena non era complicata da un punto di vista tecnico. Una giovane donna, dimessa da una clinica privata dove ha lasciato in adozione il figlio appena nato, vaga affranta per le strade e nel notare il vecchio mendicante apre il cappotto, tira fuori un seno e lo allatta. A causa del feroce alterco scoppiato quella mattina Moses ancora ricorda alcuni dettagli marginali: il vecchio e lungo cappotto di Ruth, il suo viso truccato in modo da apparire sofferente e tormentato, la porta di ferro arrugginita di una casa scelta per rappresentare l’entrata della clinica. Ma soprattutto ricorda il disagio della giovane attrice. Toledano l’aveva ripresa ripetutamente mentre usciva dalla clinica nella speranza di accentuare la credibilità della sua interpretazione, ma Moses sentiva che qualcosa la spaventava. I suoi movimenti si erano fatti via via più incerti, impacciati, come se l’intero suo essere si ribellasse alla scena che il fidanzato aveva scritto per lei. Sulle prime Moses aveva ritenuto che la presenza del pubblico curioso la imbarazzasse e aveva proposto di girare lo spezzone in cui allattava dietro un paravento. Ma a quanto sembrava non erano gli sguardi degli estranei a sgomentare Ruth. In fondo le era già capitato di scoprire parti del suo corpo davanti alla cinepresa e talvolta Moses aveva l’impressione che fosse ansiosa di farlo. Nemmeno il contatto del suo seno con le labbra dell’anziano attore la spaventava. Quello che la infastidiva era l’assurdità insita nell’impulso di una giovane donna angosciata, che aveva appena dato il figlio in adozione, di allattare un vecchio estraneo. Per via del carattere tirannico di Trigano, però, Ruth aveva preferito evitare discussioni e deciso di mettere il fidanzato davanti al fatto compiuto. Mentre si avvicinava all’angolo della via seguita dalla macchina da presa si era rifugiata all’improvviso dentro il camion della produzione, aveva chiuso la portiera con la sicura, aveva alzato i finestrini e si era isolata.
Con una folgorazione subitanea Moses aveva intuito le sue riserve e, nonostante la complicazione inattesa e il notevole sforzo investito nella preparazione del set, aveva intimato allo stizzito Toledano, particolarmente ansioso di filmare, di posare la macchina da presa, di spegnere le luci e di smontare le rotaie del dolly. E dato che all’epoca lui non era solo regista ma anche produttore, aveva annunciato immediatamente all’attore di teatro che la scena era stata cancellata consegnandogli subito, e in contanti, la somma pattuita, come se l’episodio fosse stato girato. Ancora ricorda il volto infiammato d’offesa dell’attore, apparso in passato in ruoli classici di teatro ma che, non avendo avuto nessun ingaggio negli ultimi anni, aveva molto bisogno di una parte, anche marginale, per ribadire il proprio valore almeno agli occhi di se stesso. Sulle prime l’uomo aveva cercato di scoprire se la giovane collega fosse disgustata dal contatto fisico con una persona anziana. Ma dopo che Moses lo aveva rassicurato, dichiarando che i dubbi di Ruth non avevano a che fare con lui ma con la credibilità e la necessità della scena stessa, l’anziano attore si era lasciato sfuggire un’imprecazione, aveva gettato la pipa accesa nel cilindro e preteso che gli si chiamasse un taxi. Un anno o due più tardi, leggendo l’annuncio della sua morte, Moses si era chiesto se l’improvvisa delusione di quella grigia mattina non avesse accelerato il suo decesso.


il Fatto 20.11.11
Nella tana di Cipputi
Altan, l’uomo che ha inventato l’ombrello
di Malcom Pagani


Dietro un anonimo cancello sulla statale che collega Aquileia a Grado, al primo piano di un casale ocra felicemente aggredito dall’edera c’è la tana di Cipputi, della Pimpa e di tutti i cavalieri inesistenti muniti di ombrelli o di banane con cui Altan, da sempre, ci consola. Parlare di sé è una violenza, ma riscoprendo infanzia e primi sogni anche il pudore si illumina: “A 7 anni vidi una nave sulla Treccani. Da allora e non so per quanto tempo, mi immaginai progettista. L’ingegner Altan. Avrebbe avuto una sua musicalità”. Riflette: “Non avevamo la tv” e nella sospensione, rincorre le ginocchia rosse, i prati, le biciclette e un’allegria di povertà sacrificata in fretta all’equivoco del processo evolutivo.
ALTAN HA disegnato l’Italia. “Con la sagacia di un altro mondo” (Del Buono), il paradosso in agguato e il nostro stupore riflesso nel ritrovarci dipinti in frasi, tratti e ferite (più vizi che pregi) che non si cicatrizzano. Con acume e impietosa tenerezza, questo ritirato signore di cui molti ignorano il volto, ma conoscono il graffio ha conservato il lusso di volare sull’umana debolezza. Su “Tunnel”, la sua nuova raccolta sul ventennio berlusconiano per l’editore Gallucci, come su quasi tutto il resto, Francesco Tullio Altan ragiona per sottrazione. “Non è la prima volta che assemblo le vignette di una vita” minimizza. E svicola, evade, supera l’ostacolo mentre intorno al tavolo di noce, la luce di un autunno già invernale attraversa giardini, mezzogiorni friulani e finestre per riverberarsi sugli occhiali spessi, da professore di frontiera. “In questi 17 anni abbiamo pensato poco, obbligati a condurre inevitabili battaglie di terza categoria. Se il Berlusconi di governo ha fatto meno del minimo, quello di lotta, impegnato a mutare alla radice la società, è stato un soldato di primo livello che tutto pensava gli fosse concesso. Adesso ripartire è difficile e intuire l’orizzonte, un’illusione”. Tace per qualche secondo, sedotto dai piccoli sigari nella scatola di metallo ai quali, infine, non cede. Gli anni sono 69: “Le forze non sono più le stesse”. L’amata bicicletta è impolverata e i tendini hanno detto basta agli 80 km quotidiani con cui battezzava ogni mattina: “Gli italiani sono come me. Atleti rimasti fermi troppo a lungo, con i muscoli atrofizzati e la pigrizia padrona del presente”. Quindi “non esageriamo” neanche con Mario Monti il taumaturgo, come suggerisce l’animata estensione di Altan dalla prima pagina di Repubblica perché spiega l’autore: “Nel deificare e abbattere un istante dopo, siamo maestri indiscussi”. Col tempo, circondato dalla barba bianca e dal silenzio, il grande sovrintendente all’anagrafe delle avventure, come lo definì Paolo Conte, ha affinato la somiglianza con Sabelli Fioretti ed Eugenio Scalfari: “Non l’ho mai incontrato, però nel-l’unica telefonata dell’ultimo trentennio, nell’82, mi informò che avevano inventato il fax” e scelto un quieto eremitaggio senza compromessi con l’ironia. Il gesto di Altan, nipote di un senatore del Regno e figlio di un antropologo, è lento. Di antica, sapiente tradizione. Detesta rileggere le sue interviste e confessa “imbarazzo” davanti all’elogio: “Mi sembra sempre un di più”. Però scrive. E imprime un segno.
“CONTA QUELLO, la vignetta è una cornice, ma il senso del mio mestiere è dare un antidoto alla disperazione, un angolo in cui ritrovarsi per non deprimersi. Se ti intristisci è finita”. Il misurato Altan rifiuta la patente di malinconico (naturale contrappasso degli umoristi) e sostiene che battute come “Mi piacerebbe sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio” o “Galleggio. Libero stronzo in libero mare” nascano in un lampo: “Meno sono costruite, più immediate risultano”. Altan l’apolide è sempre altrove. Nato per caso a Treviso al tramonto di settembre del ’42 e poi migrato a Bologna, Rio de Janeiro, Roma e Milano. Ha scelto di abitare tra i mosaici di Aquileia, senza negarsi al viaggio. In Brasile, Altan andò a vivere a metà degli anni ’60, ma torna spesso a Bahia, quando l’inverno chiude le prospettive e lui carica colori e pennarelli nel piroscafo, salpando per l’altra metà di sé. La prima volta, nel ’67, si aggrappò al documentario di un amico abbandonando l’Università di Venezia all’immobilità della laguna. “Facevo Architettura. Partii prima ancora di aver detto sì”. In Sudamerica incontrò la moglie Mara, mise al mondo Francesca e visse con ogni genere di mestiere: “Non avevamo un soldo. Ci inventavamo ogni giorno ed eravamo felici. Uno dei nostri coinquilini frequentava l’ippodromo. Puntava due monete sui cavalli, nella speranza di poter comprare il latte. La fame però era altra cosa e Rio rimane una città terribile e meravigliosa che al suo interno, ne contiene molte altre”. Ricordi. Rimpianti. “Odore di tropici, umidità e benzina che ti attraversa e non va più via.
PENSAVAMO di restare per sempre, ora ci accontentiamo di avere due patrie”. Prima di Linus, dell’Espresso e di tutti i quadri disegnati con il sospetto della fortuna: “Ero incredulo che mi pagassero tanto e all’inizio, per meritarmelo riempivo le tavole fino all’ultimo spazio bianco”, Altan provò a orientarsi. “Il ’68 era confuso e sventolare bandiere non è nel mio carattere, ma la fase terzomondista, piena di errori, mi aiutò a osservare le cose da un’altra angolazione. A differenza di altri, non rinnego proprio niente. Se a 20 anni fossi rimasto in Italia sarei stato diverso. L’assioma per cui gli imbecilli non cambiano idea, le dico la verità, non mi ha mai convinto”. Così tra una sceneggiatura: “Adoravo l’idea di un lavoro di gruppo, l’opposto di quello che faccio oggi” e una città d’elezione: “La Bologna dei ’60, con l’imprenditore vestito di cammello che orchestrava discussioni notturne con l’anarchico ammantato dal tabarro, era straordinaria”, Altan ha fatto letteratura mascherata. Chiudendo cerchi e spalancando dubbi. Fotografandoci: “Ci vorrebbe un vaccino contro la stupidità”. Pausa che vale un’esistenza: “E gli effetti collaterali? ”.

La Stampa 20.11.11
Famiglia Cristiana il marketing della fede porta a porta
Dai metodi innovativi di vendita agli scontri con le gerarchie Il popolare settimanale dei paolini compie ottant’anni
di Andrea Tornielli


Antonio Sciortino L’attuale direttore della testata ne ha fatto un organo di battaglia sui temi più scottanti dell’attualità. Nei suoi editoriali di volta in volta ha attaccato Prodi per i Dico e Berlusconi per i festini di Arcore Giacomo Alberione Il vulcanico inventore di Famiglia Cristiana (morto nel 1971 a 87 anni) è stato fondatore delle Edizioni Paoline. È stato proclamato beato da Giovanni Paolo II il 27 aprile 2003
All’inizio fu poco più di un foglio, in bianco e nero, con un’immagine di Gesù Bambino su sfondo scuro che svettava in prima pagina, benedicente. Dodici paginette senza pretese, con articoli semplici e adatti ad ogni fascia d’età. Nacque così ad Alba, a Natale del 1931, ottant’anni fa, il settimanale Famiglia Cristiana. Nacque grazie all’iniziativa di un prete vulcanico, vero genio della comunicazione, don Giacomo Alberione, il fondatore della Società San Paolo, che voleva un giornale formativo e apostolico perché «la gente non sta più tanto tempo in chiesa e allora bisogna portare nelle case il messaggio della salvezza». I suoi primi direttori furono don Matteo Bernardo Borgogno e suor Evelina Capra.
A colpire nel segno non sono tanto veste grafica, modesta, o i contenuti tradizionali, comuni a tutti i periodici cattolici del tempo, quanto l’invenzione del marketing porta a porta. Famiglia Cristiana, stampata inizialmente il 18 mila copie, nell’Italia contadina del periodo tra le due guerre arriva a casa recapitata a mano, viene fatta conoscere da un piccolo esercito di suore e di fratelli paolini. Il sistema di pagamento, secondo gli usi della società rurale, ricorre persino al baratto: un paio d’uova per una copia. Un’epopea rivive nei racconti dei sopravvissuti, con episodi rimasti celebri, come quello di suor Concetta Marongiu che nel 1937 era con una consorella in giro per la Sardegna: smarritesi in un bosco nei pressi di Oniferi si erano trovate davanti due uomini armati di fucile. Alla domanda: «E se qualcuno volesse farvi del male, che direste? », rispondono: «Diremmo piuttosto di aiutarci a portare i pacchi fino alla strada buona». Così accade. Le due religiose avrebbero poi riconosciuto in una foto due famosi briganti sui quali pendeva una forte taglia.
Nonostante la guerra, la rivista vive il grande lancio proprio negli Anni Quaranta, toccando le centomila copie nel 1944. Anche se la vera svolta avviene dieci anni dopo, con l’arrivo alla direzione di don Giuseppe Zilli, che, ammodernando la veste tipografica e i contenuti, rende Famiglia Cristiana la vera rivista per la famiglia. Non solo notizie e approfondimenti sulla vita della Chiesa, ma anche rubriche di economia domestica, dal taglio e cucito alla cucina. E poi calendari, curiosità, rubriche seguitissime come quella che pubblica le foto dei coniugi che festeggiano le nozze d’oro o di diamante. Un settimanale «di casa», dove non mancavano le informazioni sui programmi della nascente televisione e rubriche di servizio capaci di catturare l’interesse delle persone di diverse età. Don Zilli introduce anche le lettere al direttore, destinate a diventare un tratto distintivo della rivista. Nel 1961, a trent’anni dalla nascita e alla vigilia del Concilio Vaticano II che avrebbe confermato le intuizioni di don Alberione sull’uso dei mezzi di comunicazione, Famiglia Cristiana raggiunge il milione di copie, quindi arriva fino a 1.400.000. La diffusione capillare avviene grazie agli abbonamenti e alla rete delle parrocchie, che stabiliscono il numero di copie da vendere sul banco della «buona stampa».
Dopo la morte di don Zilli, nel 1980, il timone passa nelle mani di don Leonardo Zega. Il settimanale continua a essere all’avanguardia e sbarca nelle edicole: è il primo magazine con fascicoli e dischi allegati, offre letture dei classici e libri di qualità. Don Zega, nella rubrica delle lettere «Colloqui col padre», affronta spesso temi legati all’etica sessuale e non sempre le sue parole piacciono all’autorità ecclesiastica. È anche a motivo delle posizioni di Famiglia Cristiana che negli Anni Novanta Giovanni Paolo II e il cardinale Camillo Ruini decidono di «commissariare» temporaneamente i vertici della Società San Paolo. Nel frattempo, l’Italia è cambiata, le giovani mamme che compulsavano le rubriche di economia domestica sono diventate nonne. Il settimanale per tutta la famiglia non intercetta più come un tempo l’interesse delle giovani generazioni. Le copie calano sensibilmente, come accade per molte altre testate, attestandosi oggi a mezzo milione.
L’attuale direttore, don Antonio Sciortino, nel 2001 presenta un restyling e una campagna pubblicitaria nella quale campeggia il di dietro di una bella ragazza in jeans, con la copia della rivista che esce dalla tasca posteriore, e lo slogan: «Nuova Famiglia Cristiana. Non è mica casa e Chiesa». Iniziativa provocatoria, che il direttore difende: «Vogliamo rafforzare il ruolo di settimanale d’informazione, di giornalismo vero, che si occupa di tutto e parla anche ai non credenti, sfatare il pregiudizio del foglio da parrocchia: chi già ci legge lo sa, gli altri magari no. La sfida è arrivare anche a un pubblico più giovane e lontano».
Negli anni più recenti, oltre a continuare a proporre inchieste e reportage di livello, focalizzando spesso l’attenzione su storie e realtà che solitamente non trovano spazio sui media, la rivista dei paolini prende posizioni forti nei confronti della politica: critica il governo Prodi per il disegno di legge sui Dico, attacca il governo di centrodestra e soprattutto si scaglia contro il premier Berlusconi per i festini di Arcore. Editoriali prontamente rilanciati dalle agenzie di stampa, come quello in cui, poco più di un anno fa, si accusava il Cavaliere di aver diviso il mondo cattolico come mai nessuno prima. Non mancano le reazioni, tra cui quella del cardinale Angelo Scola, che dal Meeting di Rimini commenta: «Bisogna abbassare i toni. Non fare le notizie, ma dare le notizie».

Corriere della Sera 20.11.11
L’amore autentico è per sempre
Il cardinale parla ai giovani e indica come modello la dedizione assoluta di Gesù
di Angelo Scola, cardinale


Una di voi, poco fa, ha detto una cosa molto bella e cioè che nella vita gli affetti, cioè l'amore, rappresentano una cosa importantissima, da quando si nasce fino a quando si ritorna al Padre con la morte. Poi ha aggiunto un'altra osservazione che sicuramente i vostri papà, le vostre mamme, i nonni e le nonne vi stanno insegnando più con la vita che con le parole. E cioè che gli affetti vanno coltivati. Ma per coltivarli bisogna prendersi del tempo, bisogna dare loro tempo. Riflettete su questo fatto: alla fine della giornata tutti — il papà, la mamma, i figli, il nonno, la nonna — tornano nelle loro case e spendono il tempo del riposo insieme proprio per rigenerare gli affetti. Perché negli affetti, nel bene che emerge quando si mangia insieme, quando ci si racconta come è andata la giornata, uno si riposa e trova l'energia per riprendere il giorno dopo, dopo il sonno, il compito bello, ma molte volte faticoso, della vita. C'è però un campo particolare in cui è necessario educarsi agli affetti. Voi sapete che il campo più delicato in cui bisogna imparare cosa vuol dire amare, cosa vuol dire affezionarsi l'uno all'altro, è il rapporto tra l'uomo e la donna, in vista del matrimonio o in vista comunque della propria vocazione.
La sua domanda, poi, conteneva un altro aspetto molto importante. Chi è Gesù? È il Figlio di Dio che è venuto e si è abbassato a diventare uno come noi per essere la via, la verità e la vita, cioè per insegnarci ad amare e a lavorare, perché noi, da soli, ci confondiamo spesso. Per esempio, riguardo all'amore voi, guardando noi adulti, vi rendete conto di come spesso siamo confusi o contraddittori. Ci teniamo ad essere fedeli, poi non siamo capaci di essere fedeli.
Oppure, non siamo capaci di mantenere un giusto equilibrio tra il desiderio di voler bene e la modalità con cui ci comportiamo verso il ragazzo o la ragazza per cui proviamo una simpatia. In questo nostro tempo si è molto superficiali, per esempio, con uno degli aspetti più importanti della nostra vita per capire che cos'è l'amore: la sessualità. Per questo abbiamo bisogno di qualcuno per il quale l'amore è stato tutto. Gesù è uno per il quale l'amore ha rappresentato tutto. Perché? Perché ha amato per primo, senza pretendere nulla in cambio. E ha amato con una fedeltà assoluta, per sempre.
Mettetevi bene in testa questa parola: dove non c'è il per sempre non ci può essere l'amore. È questa la ragione per cui non dovete giocare con l'amore, alla vostra età. Là dove non c'è il per sempre, non c'è l'amore, ma soltanto una maschera dell'amore, cioè un amore deturpato, che diventa uno sgorbio. (...)
Le domande che mi fate denotano che voi avete a cuore la vostra felicità. Cos'è, infatti, la felicità? È un'umanità realizzata. Voi desiderate che tutto quello che avete nel cuore possa realizzarsi. E avete centrato l'obiettivo. Che cosa ha fatto Gesù prima di salire sulla croce e di risorgere per noi? Ha riunito i suoi amici in una cena. Gesù dunque ha riunito i suoi amici per celebrare la sua Pasqua e ha fatto una cosa dell'altro mondo che, dopo duemila anni, noi viviamo ancora ogni domenica: ha istituito l'Eucaristia, cioè ha trasformato il pane e il vino nel suo corpo donato e nel suo sangue versato per noi.
Quella sera, intorno al tavolo della cena, Gesù ha detto ai suoi amici: io sto per andare in croce a dare la mia vita per voi, ad offrire il mio corpo e a dare il mio sangue, cioè la mia vita. Ebbene, da questa sera, per tutte le volte che voi vi riunirete e farete questo in memoria di me, questo pane e questo vino diventano il modo con cui io — la mia Pasqua, cioè la mia croce e la mia risurrezione, vale a dire io stesso — sarò vivo in mezzo a voi. Così vi costituisco come un gruppo stabile di amici. Ecco dunque la risposta alla tua domanda: per vincere la solitudine, per vincere l'insicurezza, per vincere i vuoti, per costruire una comunità unita, il fattore più importante è ripetere il gesto che Gesù ha compiuto per noi. Ma, attenzione, questo gesto è costituito da due momenti.
Il primo momento si chiama, appunto, Eucaristia. Noi tutti lasciamo le nostre case, ci troviamo nel tempio per ricevere il corpo di Gesù perché così Gesù ci rende parte di lui. Ma se tutto si fermasse lì, se l'Eucaristia fosse soltanto una celebrazione chiusa nella chiesa, sarebbe troppo poco. Che cosa nasce dall'Eucaristia? Nasce la comunità. Ecco il senso della vostra amicizia. E che cos'è la comunità? È un'amicizia vissuta a partire da Gesù che a noi si dona. Ma un'amicizia quando è tale? Quando un'amicizia è una vera amicizia? Quando uno può condividere tutti gli aspetti della vita con gli amici. Quelli belli e quelli meno belli, quelli abituali — lo studio, il divertimento, gli affetti, il riposo — e quelli straordinari… tutti gli aspetti della vita vissuti insieme a partire da Gesù, a partire dall'Eucaristia.
Io sono convinto che la cosa più grande e più bella è che in tutte le parrocchie nascano delle comunità vive di ragazzi e ragazze della vostra età generate e continuamente rigenerate dall'Eucaristia, certo; ma capaci di dilatarsi e di invadere tutta la vita. Gesù c'entra con la scuola, c'entra con il calcio, c'entra con gli affetti che incominciano, c'entra con tutto. Perciò voi dovete continuare così, ad essere seri con la vostra vita, pieni di domande — come avete fatto questa sera — da rivolgere ai vostri sacerdoti, ai vostri amici più grandi responsabili del catechismo, soprattutto ai vostri papà e alle vostre mamme, ai nonni e alle nonne. La solitudine si vince solo con il coraggio (e uso la parola giusta, anche se è un po' difficile) della comunione, come ne hanno avuto gli amici di Gesù, che si sono messi intorno a lui e hanno condiviso tutti gli aspetti della vita con lui.