lunedì 21 novembre 2011

l’Unità 21.11.11
Tesseramento Anpi Ieri le iniziative per la nuova campagna rivolta soprattutto ai giovani
Milano, c’è il sindaco Pisapia A Palermo su uno striscione la frase, contestata, del pm Ingroia
Cento piazze in tutta Italia «Partigiani della Costituzione»
La storia dei partigiani che venivano dal Sud nelle iniziative di Palermo e Catanzaro, dove Resistenza significa anche lotta alle mafie. Il «no» di Amoretti, eroe delle 4 giornate, al raduno di Casa Pound a Napoli.
di Jolanda Bufalini


Cento piazze, a Palermo c’è lo striscione «Partigiani della Costituzione», la frase di Antonio Ingroia che ha provocato una surreale tempesta (e l’apertura di un procedimento al Csm) sul capo magistrato palermitano. A Pescara un’intera giornata di iniziative, a Milano la visita del sindaco Pisapia. Ieri si è svolta la giornata del tesseramento all’Anpi, l’associazione dei partigiani che da alcuni anni ha aperto le iscrizioni ai giovani. Un nuovo corso che ha avuto particolare impulso al sud, dove il richiamo ai valori della Costituzione si intreccia con quelli per la legalità e la lotta alle mafie.
Palermo. Ottavio Terranova, 75 anni, era operaio ai cantieri navali, saldatore elettrico, quando ai Cantieri di Palermo lavorano 7000 persone. Ieri, a piazza Massimo, vicino al gazebo partigiano c’erano le tende degli indignados e, racconta Ottavio, «questi ragazzi diffidano della politica ma hanno un vero entusiasmo per il nostro lavoro». Un lavoro con le scuole per far scoprire il contributo del Sud alla Liberazione, tanto più importante quando nelle amministrazioni esponenti di destra mostrano indifferenza per la «Resistenza che ha unificato l’Italia». Racconta Terranova: «Il 20 per cento dei partigiani era siciliano, il 40 proveniva dal Sud, in un percorso inverso a quello dei Mille quando i lombardi vennero a liberarci». In Sicilia si intrecciano due Resistenze perché c’è «quella combattuta contro la mafia e il latifondo in cui persero la vita tanti sindacalisti». Simboleggiata, nel 2010, dalla manifestazione fatta insieme da Anpi e Cgil a Portella delle Ginestre. A Primavera l’Anpi farà un convegno storico sulle lotte di Liberazione «guardando al bacino del Mediterraneo e all’impegno di Pio La Torre per la pace». A partire dai Fasci siciliani fondati da Nicola Barbato, sindacalista socialista, di cui Pompeo Colajanni prese il nome in clandestinità.
L’idea è quella di una toponomastica della Resistenza, perché, spiega Mario Vallone (Anpi di Catanzaro) «i ragazzi passano per via Ugo Barbaro, Saverio Papandrea ma non sanno chi sono». «Non sanno nulla di Costantino Mortati, deputato alla Costituente». L’Anpi ha organizzato un sit in perché un ristoratore ha coperto con le sue strutture la lapide che ricorda Saverio Papandrea, un tenente dell’esercito italiano ucciso dai fascisti. I calabresi, allora come ora, emigravano al Nord e, con il contributo delle ricerche negli istituti della Resistenza in Piemonte e Toscana, si sono trovati 1100 nomi di combattenti per la libertà.
LOTTA PER LA LEGALITÀ
Catanzaro non è una terra facile per la memoria, tanto più che il centro-destra adesso al governo della città viene dal vecchio Msi. «Il nostro spiega Vallone -non è un lavoro politico ma di risveglio delle coscienze, che si intreccia con la battaglia per la legalità, contro il voto di scambio che qui è molto diffuso».
Antonio Amoretti partecipò alle Quattro giornate di Napoli, è uno di coloro che ispirarono il film di Nanni Loy sulla resistenza napoletana. Continua a testimoniare nelle scuole e anche ad arrabbiarsi. Per la manifestazione nazionale di Casa Pound a Napoli, il 26 novembre: «Una provocazione e il comitato per la sicurezza ha sbagliato a concedere la piazza per il raduno. Lì vicino c’è la sede storica fascista di via Foria da cui partì la bottiglia incendiaria che uccise la studentessa Jolanda Palladinio nel 1975».
La speranza di Antonio Amoretti è avere una sede per sistemare il museo delle «Quattro giornate». La vecchia amministrazione aveva assegnato all’Anpi una sede prestigiosa, nel complesso monumentale di San Severo al Pendino. «La nuova ha cancellato la decisione ma si è impegnata su una sede di fronte al museo archeologico. Speriamo di concludere questa storia infinita». Ad Aielli in Abruzzo l’Anpi prepara, il 3 dicembre, un convegno su fascismo e leggi razziali. È la risposta all’incredibile decisione del sindaco Benedetto Di Censo di rispolverare il busto di Guido Letta, zio di Gianni, e di dedicargli una piazza. Guido Letta era un prefetto fascista, tanto ligio da meritarsi un’onoreficienza nazista per l’applicazione delle leggi razziali, da aderire alla Rsi. La piaggeria del sindaco e della amministrazione provinciale è arrivata al punto da utilizzare, per la celebrazione del prefetto fascista, 20.000 euro dei fondi per il terremoto. Le proteste dell’Anpi hanno strappato l’impegno che quei soldi saranno restituiti.

l’Unità 21.11.11
Con il proporzionale disuguaglianze ridotte
Il centrosinistra perde col maggioritario perché il centro viene attratto dalla destra
Un filone di ricerca americano sul legame tra modelli elettorali e modelli economici
Società più competitiva con le leggi maggioritarie, più coesa con i sistemi proporzionali
di Massimo D’Antoni


Tra i compiti assegnati a questo scorcio di legislatura, quello di modificare la legge elettorale riveste un ruolo non secondario. La legge elettorale è solo uno degli aspetti che caratterizzano il sistema politico, ma è un ingrediente essenziale per definire la direzione di uscita da questa fallimentare Seconda Repubblica.
A questo proposito, l’auspicio è che la discussione si liberi da un’ipoteca giuridico-politologica che ha spesso confinato il dibattito alla pura meccanica della competizione politica e della governabilità in senso astratto, e si allarghi a coinvolgere un'analisi più approfondita del nesso tra sistema politico e sistema economico e sociale. Insomma, la domanda sulle regole della rappresentanza politica dovrebbe essere iscritta nel tema più ampio della scelta del futuro del Paese dal punto di vista sociale ed economico, potremmo dire del «modello» di capitalismo.
In questo senso sorprende quanto poco spazio abbia avuto finora nel dibattito italiano la riflessione, sviluppata in ambito internazionale tra gli studiosi di political economy, sul rapporto tra forme di rappresentanza e varietà di capitalismo (mi riferisco ad esempio alle analisi di Torben Iversen, dell'università di Harvard).
Molto in sintesi, questo filone di studi evidenzia come i sistemi capitalistici, lungi dal convergere verso un unico modello, si siano polarizzati in due «specie» di successo, quella delle economie liberali e quella delle economie coordinate di mercato. Esempio delle prime sono i Paesi anglosassoni, mentre alle seconde corrispondono le economie del centro e nord Europa. Ciascuno dei sistemi presenta un insieme di caratteristiche complementari nella struttura produttiva, nelle modalità di organizzazione degli interessi, nel rapporto tra finanza e industria, nelle relazioni sindacali, nel sistema di istruzione e, non ultimo, nel sistema di rappresentanza politica.
L'idea di fondo è che i diversi capitalismi si distinguano per il tipo di competenze prevalenti nell'attività produttiva e per le istituzioni sviluppate a protezione delle stesse. Sintetizzando, i sistemi liberali di mercato tendono a sviluppare e ad impiegare competenze molto «liquide», puntando sulla flessibilità nell'impiego e adottando tecnologie che non necessitano di elevata specializzazione ai livelli bassi della scala delle competenze, potendo contare invece sul vantaggio dato dal primato nell'attività di ricerca di alto livello. Sono economie che non richiedono forme forti di protezione degli investimenti in capitale umano, per cui sono caratterizzati da un più debole sistema di welfare, oltre che maggiore diseguaglianza nelle retribuzioni. Possono ben funzionare anche in assenza di un forte sistema di regolazione sociale, come quello proprio dei sistemi di democrazia competitiva. I sistemi a capitalismo coordinato, normalmente economie a larga base manifatturiera, sono invece caratterizzati da investimenti in capitale umano altamente «specifici», che possono svilupparsi solo in presenza di adeguate protezioni. Si pensi alla circostanza che in assenza di una prospettiva di impiego di lungo periodo, né l'impresa né il lavoratore avranno interesse a investire nella relazione. In questi sistemi, gli investimenti in capitale umano sia dell'impresa che del lavoratore trovano adeguato sostengo in una maggiore regolazione del mercato del lavoro, nell'ampio ricorso alla concertazione e nello sviluppo di generosi programmi di assicurazione pubblica. L'esito è una distribuzione molto egualitaria delle retribuzioni, cui si aggiungono un solido sistema di protezione sociale e un' elevata redistribuzione.
Il dato importante, a questo punto, è che i sistemi elettorali maggioritari sono prevalenti nelle economie liberali, mentre in quelle a capitalismo coordinato è preva-
lente l'adozione del sistema proporzionale. Il sistema proporzionale è infatti più adeguato a promuovere la rappresentanza degli interessi e spinge alla ricerca di soluzioni consensuali, laddove i sistemi maggioritari incoraggiano la competizione al centro e producono esiti meno redistributivi.
A questo proposito, guardando ai dati di 17 economie avanzate nel periodo dal 1945 al 1998, colpisce che i sistemi proporzionali hanno storicamente (e nettamente) favorito il successo elettorale delle coalizioni di centrosinistra, mentre nei sistemi maggioritari si sono più frequentemente affermati partiti di centrodestra.
I sistemi proporzionali, oltre ad essere più compatibili con politiche di concertazione, sembrano incoraggiare infatti l'emergere di coalizioni tra partiti di centro e di sinistra, più propensi a investire risorse in sistemi di assicurazione sociale; nei sistemi maggioritari l'elettore di centro tende invece a favorire con il suo voto le forze conservatrici.
Tornando al nostro Paese e all' attualità, sarebbe auspicabile che le istituzioni della Terza Repubblica fossero pensate avendo chiaro a quale capitalismo vogliamo ispirarci. Dopo un ventennio in cui ha prevalso l'idea che ci fosse un unico modello vincente, quello anglosassone, e in cui si è ritenuto di puntare su flessibilità nel lavoro da una parte e perseguimento del modello di democrazia competitiva maggioritaria dall'altra, la nostra attenzione si volge nuovamente ai modelli centro e nordeuropei, più vicini a noi per vocazione produttiva e più attraenti quanto a coesione sociale.
Sarebbe un esito insperato quanto augurabile se la fine di questa legislatura, con un governo che nasce nel segno della concertazione politica e sociale, potesse muovere i primi passi in questa direzione.

l’Unità 21.11.11
Istruzione di qualità, la scommessa sul futuro
di Francesca Puglisi


Parlare di educazione dell'infanzia significa tracciare la strada verso il futuro. Nella giornata mondiale dei diritti dell’infanzia, ieri a Torino, abbiamo celebrato la prima conferenza nazionale per le politiche educative 0-6 anni. Hanno partecipato ai nostri lavori 250 esperti, amministratori locali, rappresentanti di associazioni e sindacati, educatori, insegnanti, pedagogisti. Questo Paese per tornare a crescere ha un estremo bisogno dei giovani e delle donne, proprio coloro che più sono stati umiliati dal ventennio berlusconiano. La scuola 0-6 anni, lo dimostrano tutte le ricerche, è fondamentale per combattere i divari sociali, economici e territoriali che affliggono il nostro Paese e per recuperare gli svantaggi in modo duraturo. Sono essenziali servizi educativi di qualità che sappiano mettere al centro della propria missione i diritti dei bambini e delle bambine, coinvolgendo educatori, genitori e la comunità tutta nell’appassionante sfida dell’educazione. Investire in istruzione di qualità sin dalla tenera età è una scommessa sul futuro e per la coesione sociale del nostro Paese. Abbiamo voluto costruire questa conferenza come momento di scambio, di confronto di esperienze, perché la buona scuola c'è già, nel lavoro quotidiano e nelle buone pratiche. L'auspicio è che da oggi rinasca, insieme ai nostri amministratori locali, una nuova primavera dell’educazione e dell’istruzione, che sappia coinvolgere tutti, pedagogisti, educatori, insegnanti, ricercatori, famiglie, privato sociale. Non possiamo assolverci perché c’è la crisi. Dobbiamo assumerci la responsabilità del dover essere migliori, di continuare ad andare oltre i nostri limiti ed innovare offrendo risposte di qualità per assolvere al compito che ci è affidato. La mia generazione e chi ha responsabilità di governo in questo momento negli enti locali, sa che dovrà modernizzare questo Paese, dovrà offrire risposte ai nuovi bisogni, avendo a disposizione meno risorse. Dovrà saper fare di più con meno. Per questo serve una nuova alleanza ed un patto di corresponsabilità tra tutti gli attori della comunità locale. Per questo rigettando la politica del voucher cara famiglia, ti do' un bell'assegno, poi tu vai a comprarti in un sistema di mercato a diversi prezzi, l'istruzione che vuoi per i tuoi figli ed io pubblico, me ne lavo le mani noi proponiamo piuttosto un modello di governo pubblico del sistema integrato dei servizi educativi 0-6 anni. In cui sia il pubblico a stabilire standard qualitativi, controllo degli stessi, qualifica e formazione in servizio del personale docente e non docente, un comune coordinamento pedagogico e tutti, pubblico e privato, contribuiscono alla costruzione del sistema integrato. Consapevoli di una questione cruciale: che senza l'impegno delle istituzioni per leggere, interpretare anticipandoli, i nuovi bisogni dei bambini e delle loro famiglie, non si può promuovere quel processo costante di innovazione, fatto di buone pratiche e di piccoli passi concreti di miglioramento. Questo deve essere il nostro riformismo nei servizi e nella scuola. Non riforme epocali, che finiscono per invecchiare ancora prima di realizzarsi, non l'esecuzione di direttive e decreti, calati dall'alto e imposti dalle norme agli operatori della scuola, ai bambini e alle famiglie. Le riforme non si fanno senza confronto e collaborazione; richiedono uno sforzo comune di condivisione il più possibile ampio e convinto, coinvolgendo tutti i soggetti che partecipano ai processi di formazione, è la strada giusta per riconoscere e valorizzare le risorse umane e professionali delle nostre scuole.

Corriere della Sera 21.11.11
Per il governo ampio consenso
Fiducia anche dal 42% dei leghisti
di Renato Mannheimer


Il successo e l'efficacia del governo Monti dipenderanno soprattutto dalla capacità di mantenere l'ampio supporto ottenuto in Parlamento con il voto di fiducia, anche a fronte dei provvedimenti, qualcuno necessariamente impopolare, che dovrà prendere. Al tempo stesso, come ha subito sottolineato Polito sul Corriere, il futuro dell'esecutivo è strettamente legato alla misura in cui gli italiani lo sentiranno proprio. Malgrado si tratti di un governo composto da tecnici che sono, per definizione, slegati da logiche di supporto elettorale, l'appoggio della popolazione appare di cruciale importanza per la vita e la durata dell'esecutivo. Il consenso dell'opinione pubblica è la vera forza che consente oggi al governo di agire. Senza di esso, probabilmente, i partiti perderebbero molto dell'interesse attuale ad appoggiarlo.
Da questo punto di vista, l'avvio per Monti non poteva essere migliore. Quasi il 70% della popolazione dichiara di ritenere che il suo governo opererà «bene» o «molto bene». Ciò accade nonostante il permanere nell'opinione pubblica di un forte e diffuso pessimismo riguardo alla situazione attuale e alle prospettive future della nostra economia. Che si riflette anche in quel 22% di scettici, presenti soprattutto nell'elettorato del Pdl e tra chi dichiara di non sapere cosa votare o di essere intenzionato ad astenersi, che sostengono che, comunque, l'esecutivo «non produrrà nulla di speciale».
Nell'insieme, dunque, il governo parte disponendo già di un ampio consenso popolare. Quest'ultimo non è dovuto solo alle figure del presidente del Consiglio e dei singoli ministri, fino a pochi giorni fa perlopiù sconosciuti alla gran parte della popolazione. Ha contato molto anche lo stimolo e l'avallo del presidente della Repubblica che, come si sa, gode di una popolarità elevatissima, superiore all'80%. Come hanno sottolineato, tra gli altri, nei giorni scorsi Diamanti e Pagnoncelli, Napolitano ha in qualche modo «trasferito» al governo, che ha con tenacia contribuito a creare, la fiducia che gli italiani ripongono in lui.
L'entità del supporto odierno nei confronti del governo è notevolmente superiore a quello riscosso dagli esecutivi precedenti al momento del loro insediamento: Prodi si attestò al 51% e Berlusconi al 52 per cento. La differenza rispetto al passato sta ovviamente nel fatto che il consenso attuale per Monti proviene dalla maggioranza degli elettori di quasi tutti i partiti, mentre i governi passati erano espressione di una parte o dell'altra. Anche oggi, però, si rilevano significative differenze nelle valutazioni positive per il governo: esse sono massime (89%) tra i votanti per il Pd, mentre superano di poco il 50% tra quelli del Pdl, ma si collocano, al tempo stesso, al 42% nella base della Lega che pure si schiera all'opposizione, ciò che conferma le ampie contraddizioni interne che il movimento di Bossi sta subendo in questi giorni. Vedremo nelle prossime settimane se la diversità dei livelli di appoggio dei vari elettorati influirà sul comportamento in Parlamento dei partiti corrispondenti.
La «luna di miele» con l'opinione pubblica potrebbe infatti entrare, almeno in parte, in crisi nel momento in cui dovranno essere presi dei provvedimenti che colpiranno in qualche misura questa o quella categoria sociale. Per ora, però, la disponibilità ai sacrifici viene espressa, sia pure con titubanza, dalla maggior parte degli italiani. Il 12% dichiara di essere pronto ad accettarli «di buon grado». Molti (52%, specie tra i giovani fino a 35 anni) affermano di essere disponibili «purché non sia solo la gente come me a rimetterci», sottolineando così la necessità di provvedimenti equi. Ma più di un terzo (36%) manifesta sin d'ora la propria indisponibilità. Quest'ultima posizione, però, è assai meno diffusa oggi, con l'avvio dell'attività del governo Monti, rispetto al passato. Ancora a settembre, infatti, essa era condivisa da una percentuale assai maggiore (48%), mentre era di converso minore l'apertura ad affrontare sacrifici.
Insomma, il clima dell'opinione pubblica è significativamente cambiato. Ma, come si è detto, questi atteggiamenti sono per ora «teorici» e si dovranno confrontare tra breve con le scelte concrete che il governo assumerà. Solo allora potremo sapere se l'ampio consenso oggi espresso per l'esecutivo si manterrà tale.

Repubblica 21.11.11
La Costituzione, unica bussola
di Stefano Rodotà


Avevano un suono diverso le parole pronunciate dal presidente del Consiglio e dai ministri del nuovo governo nel momento in cui giuravano di osservare "lealmente" Costituzione e leggi e di esercitare le loro funzioni nell´interesse "esclusivo" della Nazione. La formula apparentemente burocratica del giuramento rivelava un´assenza: la mancanza negli ultimi anni d´ogni lealtà governativa verso una Costituzione continuamente dileggiata e aggredita, l´abbandono dall´interesse esclusivo della Nazione a vantaggio di una folla di interessi privati e persino inconfessabili. Quelle parole scomparse e tradite sono ritornate nel momento in cui davanti al nuovo governo non è soltanto il compito assai difficile di affrontare i temi dell´economia riprendendo pure il cammino dell´equità e dell´eguaglianza, senza le quali la coesione sociale è perduta. L´insistita sottolineatura del nuovo stile di Mario Monti all´insegna di "sobrietà" e "serietà" non riguarda, infatti, segni esteriori. Ricorda un altro compito, forse persino più difficile e certamente bisognoso di molto impegno e di molto tempo, quello di far uscire il nostro Paese dalla regressione culturale e civile nella quale è sprofondato.
È questione che non si affida tanto a provvedimenti formali. Accontentiamoci, per il momento, d´una prima, non indifferente certezza. Il sapere che non vi saranno ministri della Repubblica che, di fronte alla domanda di un giornalista o di un cittadino, leveranno in alto il dito medio o risponderanno con una pernacchia (non il nobile e difficile "pernacchio" di Eduardo). Rispetto e lealtà non sono dovuti soltanto a Costituzione e leggi, ma a tutti coloro che nel mondo reale incarnano valori e principi che lì sono iscritti. In questi anni abbiamo assistito proprio al rifiuto dell´"altro", l´avversario politico o l´immigrato, lo zingaro o la persona omosessuale. L´indegna gazzarra scatenata alla Camera dai deputati della Lega contro la civilissima richiesta di avviare il riconoscimento degli immigrati come cittadini, e non come merce usa e getta, è stata la conferma evidente della difficoltà di invertire una tendenza che, mai contrastata efficacemente per convenienza politica e debolezza culturale, ha terribilmente inquinato l´ambiente civile.
Sarà la minuta sequenza degli atti concreti a dare sostanza all´abbandono di un perverso costume. Al governo spettano nomine importanti, sottosegretari e Rai per cominciare. Il rispetto della Costituzione, inoltre, muove dal rispetto degli istituti che la innervano, a cominciare dal referendum che ha ridato ai cittadini la possibilità di far sentire la loro voce, spenta da una legge elettorale indegna e venata da incostituzionalità. Proprio dal voto sui referendum di giugno vengono tre indicazioni che il governo non può in alcun modo eludere: il no al nucleare (lo ricordi qualche ministro che non deve avere bene appreso la lezione di sobrietà e umiltà invocata dal presidente del Consiglio); il rifiuto di ogni legislazione attributiva di privilegi; il nuovo ruolo attribuito ai beni comuni, all´acqua direttamente (non si segua il cattivo esempio delle furbizie nelle quali il governo precedente si stava esercitando). Se il governo vuole conservare la fiducia manifestata da una larga parte dell´opinione pubblica, e cercar di recuperare critici e scettici, deve essere consapevole che proprio questi sono i casi in cui massima dev´essere la sua lealtà verso la Costituzione. È bene aggiungere che, considerando i vari movimenti e indignati che occupano le piazze del mondo, in Italia il risveglio civile non solo si era manifestato prima che in altri Paesi, ma aveva trovato un fiducioso incontro con le istituzioni tramite i referendum. Sarebbe un grave errore politico mettere questa vicenda tra parentesi, poiché proprio da lì è cominciato quel rinnovamento che ha trovato nel governo Monti un suo approdo, sia pure controverso.
Come tutto questo incrocerà i sentieri parlamentari è questione tra le più aperte. A proposito della quale, tuttavia, è bene insistere su una banale verità, del tutto travisata da chi, gridando alla fine della democrazia, ha lamentato un ruolo marginale del Parlamento in una crisi tutta gestita tra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio incaricato. Ma abbiamo già dimenticato o cancellato il fatto istituzionale più clamoroso di questi ultimi anni, appunto la scomparsa del Parlamento, dileggiato da Silvio Berlusconi come luogo di inutili e incomprensibili lungaggini, espropriato d´ogni potere dai voti di fiducia e dai maxiemendamenti blindati, ridotto a mercato quando v´erano da reclutare truppe mercenarie, rattrappito nei suoi lavori in un paio di giorni a settimana, addirittura chiuso per mancanza di questioni rilevanti da mettere all´ordine del giorno? Uno degli esiti, o paradossi, di questa crisi sta proprio nell´aver rimesso al centro dell´attenzione pubblica e della politica proprio il Parlamento, ricordando così, come molte volte aveva già fatto il presidente della Repubblica, che la nostra rimane una Repubblica parlamentare ed è lì che i governi ricevono investitura e legittimità.
Sul rapporto tra governo e Parlamento si è insistito molto in questi giorni, discutendo soprattutto della possibilità che qualcuno voglia prima o poi "staccare la spina", di possibili maggioranze variabili nell´approvare singoli provvedimenti. Ma vi è un altro aspetto del problema, particolarmente rilevante nella prospettiva ricordata all´inizio della "bonifica" politica e civile del nostro sistema istituzionale e della nostra società. Qualcuno, nel dibattito parlamentare, ha avuto l´impudenza di invocare la ripresa del cammino parlamentare del disegno di legge sulle intercettazioni. Qualcun altro ha adombrato i temi della difesa della vita, con un trasparente richiamo al disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico) attualmente in discussione al Senato, e dopo che s´era verificato il grave episodio di un governo che, in articulo mortis, aveva diffuso le nuove linee guida in materia di procreazione assistita. L´insistenza su questi temi rivela un intento strumentale, volto anche a creare frizioni parlamentari che possono insidiare la tenuta del governo. Ma, se appare davvero improbabile un rinnovato assalto a favore di una legge bavaglio, più serie preoccupazioni destano i temi legati alla bioetica e al biodiritto.
Per proteggere il governo, non si tratta di invocare una "tregua etica" o rivendicare l´autonomia del Parlamento in materie non comprese nel programma governativo, magari facendosi forti di qualche improvvida dichiarazione che ha associato la costituzione di questo governo con il "ritorno" dei cattolici in politica. Se alla lealtà verso la Costituzione dobbiamo continuare a rifarci, è appunto il percorso costituzionale che deve essere rigorosamente seguito tanto dal governo che dal Parlamento. E questo significa mettere da parte il testo sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, grondante di incostituzionalità, sgrammaticature e difficoltà applicative in ogni suo articolo. Significa riprendere il cammino verso una seria disciplina delle unioni di fatto, comprese quelle tra persone omosessuali, alle quali la Corte costituzionale ha riconosciuto un "diritto fondamentale" al riconoscimento giuridico della loro condizione, indicazione finora del tutto disattesa dal Parlamento. Significa riportare a ragione e Costituzione la materia della procreazione assistita.
Per non rimanere prigionieri dell´emergenza che ha segnato la nascita di questo governo, e per sfuggire alle perversioni che questa può produrre, bisogna imboccare senza esitazioni la via di una politica che sia tutta politica "costituzionale".

Repubblica 21.11.11
Cancellato Stalin si torna a Proudhon
di Mario Pirani


Nell´angoscioso succedersi delle notizie sul disastro finanziario internazionale non si è pienamente avvertito l´emergere di un risvolto ideologico di sottofondo, pericoloso ancorché confuso. Torna al proscenio la mala pianta di un´idea generale che spieghi il passato, il presente e il futuro dell´umanità, fornendo altresì la ricetta salvifica per il prossimo avvenire, che ad essa si contrapponga. Si tratta di un vecchio copione che sembrava riposto ma che evidentemente è destinato a rinascere dalle sue stesse ceneri, ogni qualvolta gli eventi volgano al peggio e le parti più sprovvedute o tendenti all´illusione e all´utopia dell´opinione pubblica, ritrovano il lenitivo di un nemico da battere, di un complotto da svelare, di un sogno drogato da coltivare. Così, invece di perseguire una analisi concreta dei fenomeni in corso, ci si appresta a restar preda del «populismo degli utopisti che predicono la Città del Sole», come ha denunciato su queste pagine Eugenio Scalfari, con parole che paiono attagliarsi criticamente – un esempio fra tanti– all´empito palingenetico del sociologo tedesco Ulrich Beck (in un articolo riportato anche dal nostro giornale) in cui l´autore si chiede se il movimento di «Occupy Wall Street» sia in grado «sul modello della primavera araba di distruggere il credo dell´Occidente, la visione economica dell´"american way"».
E la risposta è sì poiché la protesta "contro il sistema" coinvolgerebbe davvero, numericamente e non iperbolicamente, il 99% degli sfruttati contro l´1% dei profittatori. Con buone speranze di un rovesciamento epocale, poiché «ciò che fino a ieri veniva chiamato "libera economia di mercato" e che ora ricomincia ad essere chiamato "capitalismo" viene portato sul banco degli accusati e sottoposto a una critica radicale». Inutile, quindi, scavare per individuare gli errori che hanno aperto voragini devastanti dal 2008 ad oggi, prima nella finanza e nell´economia americana, quindi in quella europea; una perdita di tempo attardarsi sulla mondializzazione come un contesto che abbisognava, venuta meno la potestà degli stati nazionali, di forti organismi multinazionali e di nuove regole capaci di controllare e imbrigliare l´innovazione, altrimenti destabilizzante, della libera circolazione dei capitali.
Interrogativi inutili se ci si confronta con un "male" assoluto, il "Capitalismo", cui va contrapposto un sistema alternativo dove «i beni comuni siano di tutti, messi a disposizione dei loro naturali fruitori, cioè delle persone che vivono in quei luoghi e che decideranno sul posto le regole del valore d´uso nelle piazze di quel luogo» – irride sempre Scalfari, che prosegue: «L´acqua è un bene d´uso comune, l´aria, le foreste, le reti di comunicazione, le case, le fabbriche, i trasporti, gli ospedali. E le banche? Non servono le banche…». È singolare questo revival del socialismo utopistico del primo Ottocento, quando Proudhon predicava la rigorosa equazione del valore delle cose al lavoro e, quindi, l´eliminazione di ogni forma di prezzo del denaro. Affabulazioni innocue ma non tanto se le rapportiamo allo striscione che apriva la prima manifestazione studentesca contro Monti: "Via il governo dei sacrifici!", mentre quelle delle settimane precedenti univano destra e sinistra sotto lo slogan: "Non pagheremo il debito", una rivendicazione del diritto sociale al default. Ma il segno più clamoroso dello smarrimento della realtà, che caratterizza tutti questi movimenti di protesta, pur fruitori di tante simpatie, è la loro rivendicazione di una alternativa di sistema come se da essa non fossimo usciti poco più di venti anni orsono. È stato il più grande esperimento sociale e politico che l´uomo abbia tentato in tutta la sua storia. Si chiamava comunismo o socialismo reale, dominava da Cuba a Vladivostock, durò più di 70 anni, fallì ovunque con eguali caratteristiche: dittatura poliziesca e depressione economica. È inutile che i contestatori lo rimuovano. La sua memoria è incancellabile.

Corriere della Sera Economia 21.11.11
Bonanni sogna il Patto, Camusso resta in piazza
La Cisl tenta di tessere la tela per un nuovo accordo sociale

Ma le confederazioni sono già divise...

Raffaele Bonanni rilancia i suoi cavalli di battaglia: il Patto sociale e la concertazione. Il segretario della Cisl li offre al governo Monti come strumento per rafforzare il consenso attorno a un esecutivo tecnico che, al di là dell'amplissima maggioranza parlamentare ottenuta al suo esordio, potrebbe presto finire ostaggio dell'uno come dell'altro schieramento, ancora fortemente contrapposti. Per questo Bonanni vuole convincere il presidente del Consiglio che se riuscirà a fare un Patto sociale, questo costituirà la migliore assicurazione sulla durata del governo. Quale forza politica, osserva Bonanni, si assumerebbe infatti la responsabilità di far cadere il governo su provvedimenti condivisi dalle forze sociali? Il ragionamento ha una sua logica, ma si scontra con le forti divisioni che attraversano i sindacati e le stesse imprese. La Cgil di Susanna Camusso non ha alcuna voglia di legarsi le mani con un Patto sociale che dovesse prevedere una stretta sulle pensioni di anzianità e/o sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e ha già detto di no all'ipotesi di reintrodurre l'Ici sulla prima casa. Bonanni, Camusso e il leader della Uil, Luigi Angeletti, si sono incontrati riservatamente la scorsa settimana, ma è servito a poco. Le tre confederazioni seguono linee strategiche differenti. La Cgil non vuole mollare la guida della protesta sociale. La Cisl è impegnata al massimo nella riuscita del governo Monti, inseguendo un progetto che mira al depotenziamento del bipolarismo per far riemergere un grande centro cattolico. La Uil, laicamente, è più distaccata. Passando al fronte imprenditoriale, la Confcommercio di Carlo Sangalli si è distinta dalle altre organizzazioni, bocciando fin da ora ogni eventuale nuovo aumento dell'Iva. Insomma, posizioni distanti su molti argomenti, mentre il governo deve agire rapidamente.

Repubblica 21.11.11
Lo stop della Camusso sull’Ici "Al suo posto la patrimoniale"
Il Pd diviso. Oggi il primo consiglio dei ministri
di Silvia Buzzanca


Le misure. Tassa sulla casa e governo fino al 2013, Berlusconi apre. Sel e Idv con il sindacato

ROMA - La patrimoniale sì, l´Ici e le pensioni no. Susanna Camusso sintetizza così le posizioni della Cgil rispetto alle manovre che sta preparando Mario Monti. Il segretario generale dice infatti al governo che «l´Ici non può essere il punto di partenza. Si può fare un riordino della tassazione sulla casa, solo in conseguenza dell´aver cambiato la distribuzione della tassazione, quindi partendo da un´imposta sulle grandi ricchezze». Un messaggio a Mario Monti e il suo governo che oggi si riunirà per la prima volta a Palazzo Chigi. All´ordine del giorno il provvedimento per Roma capitale e sicuramente un primo giro di opinioni sulle prossime mosse dell´esecutivo.
A partire dalle parole della leader della Cgil, convinta che serve una manovra che non tassi solo il mattone, «perché ci sono tante ricchezze patrimoniali e finanziarie che hanno la precedenza». E per «individuare le grandi ricchezze bisogna comprendere tutti i cespiti». Posizione che condivide Nichi Vendola. «Se c´è il "no" alla patrimoniale, non c´è nemmeno il cambiamento», dice il leader di Sel - «abbiamo bisogno di iniziare la musica di questo governo nuovo dallo spartito della patrimoniale».
Ragionamenti che sembrano una risposta a Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, infatti, in un´intervista al Corriere della sera - dopo avere aperto alla permanenza di Monti a Palazzo Chigi fino al 2013 - ha ribadito il suo no alla patrimoniale e l´apertura al ritorno di qualcosa di simile all´Ici nell´ambito del federalismo fiscale. Un progetto che non piace a Francesco Storace e all´ex ministro Renato Brunetta.
Nel centrosinistra una replica alla Camusso arriva da Walter Veltroni, intervistato da Lucia Annunziata. L´ex segretario del Pd dice «che la Cgil non è mai stata un gruppo di estremisti. Camusso - ricorda - fa parte della tradizione dei Lama, Trentin, Cofferati ed Epifani». Gente che ha saputo assumere scelte difficili in contesti difficili, ricorda Veltroni. Quello che serve adesso, conclude l´ex segretario democratico, soprattutto per i giovani precari, «è creare le condizioni per un patto sociale e la Cgil non si sottrarrà».
Ma il Pd non ha una linea omogenea sulle misure da prendere e le differenze potrebbero venire a galla tutte nelle prossime riunioni degli organismi dirigenti. Così da un lato c´è Stefano Fassina, responsabile economico che dice: «Quella che indica la Camusso è una rotta che abbiamo già tracciato noi ad agosto. Bisogna partire con la patrimoniale, perché c´è un buco da 20 miliardi da coprire, altrimenti scattano le detrazioni (previste dalla delega fiscale) che colpiscono i redditi medio bassi».
Dall´altro lato c´è Pietro Ichino. Il senatore democratico replica alla Camusso che «il concetto di patrimoniale è ampio e´imposta sugli immobili vi rientra. Si tratta di modularla in modo che gravi sui patrimoni più grandi e quindi si tratta di vedere quali altre misure adottare. L´Ici è tre quarti del discorso sulla patrimoniale». Contro il ritorno dell´Ici sic e simpliciter si schiera anche l´Idv. Prima di parlarne, dice il capogruppo al Senato Felice Belisario bisogna fare due cose: una patrimoniale esentando i redditi medio basi e imporre un contributo di solidarietà ai capitali scudati»,.

La Stampa 21.11.11
Emergenza carceri. Una fabbrica di suicidi
di Francesco Moscatelli


59 detenuti si sono tolti la vita nel 2011
Secondo le statistiche nelle carceri italiane avviene un suicidio ogni cinque giorni, uno ogni mille detenuti. I tentati suicidi, invece, (i dati fanno riferimento al 2010) sono stati quasi il triplo: 167
La situazione è drammatica Ci sono 67.510 carcerati ma i posti-letto sono 45.572
Il ministro Severino ha detto che i problemi delle prigioni sono una delle sue priorità

L’ ultima vittima, P.C. A., un cittadino colombiano di 48 anni, si è impiccato venerdì 18 novembre nel carcere bolognese della Dozza. Ha rifiutato di uscire dalla sua cella durante l’ora d’aria, ha lasciato sopra il materasso alcune lettere per i suoi familiari e si è impiccato con il lenzuolo, «legandosi le mani con un calzino per evitare ripensamenti». Una settimana prima, sabato 12 novembre, due tragedie identiche si sono consumate nel Reparto di osservazione di Poggioreale, a Napoli, e nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia. E questi sono solamente gli ultimi tre dei cinquantanove suicidi avvenuti quest’anno nei penitenziari italiani. Uno ogni cinque giorni, uno ogni mille detenuti dicono le statistiche. E i tentati suicidi (i dati fanno riferimento al 2010) sono stati quasi il triplo: 167.
Il numero impressionante di «auto soppressioni», come vengono definiti i suicidi nelle relazioni delle guardie penitenziarie che ci devono convivere tutti i giorni, è l’aspetto più evidente di un sistema carcerario che si avvicina sempre di più a un inferno. Il primo male, però, da cui discendono tutti gli altri, è il sovraffollamento. Ad oggi nelle 206 prigioni italiane ci sono 67.510 detenuti (43.253 italiani e 24.257 stranieri) per 45.572 postiletto. Fra questi ci sono 37.395 persone condannate in modo definitivo (il 55,4%) e 28.457 imputati (14.445 - il 21,4% - in attesa del giudizio di primo grado, 7.698 l’11,4% - in attesa del giudizio d’appello e 4696 -il 7% - in attesa della sentenza definitiva della Cassazione). Il totale dei detenuti era di circa 40.000 unità nel 2006, subito dopo l’indulto, ma in questi cinque anni è tornato a crescere ben oltre la soglia di guardia. Per comprendere il livello di emergenza basta confrontare l’indice di sovraffollamento (quanti sono i carcerati ogni cento posti disponibili) dei principali Paesi europei: in Italia è 148,2 (peggio di noi c’è solo la Spagna con 153) mentre la media europea è 104 e nei paesi virtuosi (Svizzera, Danimarca, Norvegia, Germania e Portogallo) l’indice si aggira intorno al 90.
«Nove regioni (Calabria, Emilia Romagna, Friuli, Liguria, Lombardia, Marche, Puglia, Valle d’Aosta e Veneto) - scrive Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (l’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria) - hanno superato persino le capienze massime consentite, con 6.000 poliziotti penitenziari in meno su un organico di 45.109, 2.236 unità dei profili tecnici e amministrativi in meno su un organico di 8.737 e circa 150 milioni di debiti su forniture e utenze per il 2011. E per il 2012 c’è l’urgente necessità di reperirne altri 250».
Il 13 gennaio del 2010 l’ex ministro della Giustizia Angelino Alfano ha cercato d’intervenire varando il cosiddetto «Piano carceri». Il progetto di Alfano si fondava su tre pilastri: la costruzione di 11 nuovi penitenziari, la realizzazione di 20 padiglioni extra all’interno di strutture già esistenti e l’assunzione di 2.000 nuovi agenti penitenziari. Dieci mesi dopo, però, come ha ricordato pochi giorni fa Marco Pannella dai microfoni di Radio Radicale - «Il 28 luglio il Presidente della Repubblica ci disse, direi, ci ordinò, di affrontare la prepotente urgenza rappresentata dalla situazione delle carceri e della giustizia. Dov’è finita questa emergenza? », siamo ancora al punto di partenza. Anche ammesso che il «Piano carceri» venga completato in tempi ragionevoli, infatti, all’appello mancherebbero comunque 12.788 posti. Le situazioni più allarmanti sono in Lombardia (mancano 4.114 posti, ma a piano ultimato ne mancherebbero comunque 3.314), Campania (mancano 2.182 posti e a piano ultimato ne mancherebbero 1.332) e Lazio (mancano 1.754 posti e a piano ultimato ne mancherebbero 1.354).
Il nuovo governo è consapevole che bisogna intervenire il prima possibile. Tant’è vero che le uniche parole pronunciate dal Guardasigilli Paola Severino, intercettata dai cronisti mentre usciva dal Quirinale dopo il giuramento sono state: «Diamoci tutti una mano. Il carcere è un problema grave». Sul piatto, oltre agli interventi sulle strutture e sugli organici della polizia penitenziaria, potrebbe esserci anche altro: dalla revisione delle norme sulla custodia cautelare all’introduzione di misure alternative alla detenzione per i reati meno gravi. In tempi di tagli alle spese dello Stato, infatti, a preoccupare sono anche i numeri dei bilanci. Secondo i dati del dipartimento di Polizia penitenziaria ogni giorno spendiamo 7.615.803 euro. In pratica 113 euro per ogni detenuto. Di questi 98,95 euro vengono spesi per il personale, 4,03 per il funzionamento delle strutture, 3,35 per le spese d’investimento (edilizia penitenziaria, acquisto di mezzi di trasporto) e 6,48 per il mantenimento dei detenuti. «Ma di questi spiega Riccardo Polidoro, presidente della onlus “Il carcere possibile” -3,95 euro vengono spesi per il cibo e solamente 11 centesimi per il trattamento di riabilitazione».

La Stampa 21.11.11
Viaggio nell’orrore degli ergastoli bianchi
Centinaia di detenuti come bestie negli ospedali giudiziari
di Flavia Amabile


ROMA. Il buco nero Sono trascorsi più di trent’anni dalla legge Basaglia che ha chiuso i manicomi ma in Italia ci sono ancora almeno 1.404 internati distribuiti in sei ospedali psichiatrici giudiziari

È l’11 giugno del 2010 quando i senatori della Commissione d’Inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale entrano nell’Ospedale Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Nessuno aspetta la loro visita ma soprattutto forse nemmeno loro sanno a che cosa stanno andando davvero incontro. Un uomo è disteso su un letto. È da solo nella stanza per le contenzioni, dove vengono tenuti legati i detenuti considerati pericolosi o violenti. È nudo, braccia e gambe tenuti fermi con garze fissate alla rete, e ha un ematoma sulla fronte. Al centro del letto, all’altezza del bacino, un buco per i suoi escrementi collegato ad un altro buco nel pavimento arrugginito dall’uso prolungato negli anni. È la stanza di contenzione inaugurata dal ministro Rocco nel 1925, e più o meno gli stessi anni ha la norma che prevede che quell’uomo debba restare in un posto del genere a vita in quello che è stato definito un ergastolo bianco anche se si è semplicemente rubato un panino o bevuto un po’ troppo e si è finiti coinvolti in una rissa. Donatella Poretti, volata da Roma insieme agli altri commissari per scoprire questo scandalo italiano, guarda il registro delle contenzioni per cercare di capire che cosa avesse combinato quest’uomo. Non c’è scritto nulla.
È l’inizio di un viaggio nell’inferno, un buco nero scoperchiato dai altri senatori della commissione che ha dato vita a una relazione da leggere solo se si ha lo stomaco forte e che Ignazio Marino, presidente della commissione, presenterà questa settimana al terzo ministro della Giustizia in un anno portando un video di oltre mezz’ora di scene girate in giro per l’Italia. Perché sono trascorsi più di trent’anni dalla legge Basaglia che ha chiuso i manicomi ma nonostante questo in Italia ci sono ancora almeno 1.404 internati distribuiti in sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani. La legge prevede che debbano restare lì soltanto se sono socialmente pericolosi. Dall’indagine della commissione in 368 sono stati considerati in grado di poter uscire ma soltanto 101 hanno effettivamente lasciato le strutture: non ci sono né Asl né comunità disposti ad assisterli. A questo punto il Senato ha votato sì alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari con una risoluzione, che ha visto maggioranza e opposizione votare in modo compatto, il primo passo verso la chiusura definitiva.
Difficile infatti tollerare luoghi come l’ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto dove le pareti hanno intonaci sporchi e cadenti, porte e finestre hanno i vetri incrinati, ovunque vi sono macchie di muffa e umidità, sporcizia, vernice scrostata e ruggine, un lezzo nauseabondo di urine. Sui letti le lenzuola e le coperte sono strappate, sporche ed insufficienti e le celle garantiscono 3 metri di spazio per persona con un bagno comune aperto, tutti vedono tutti. Non esistono frigoriferi: chi vuole bere dell’acqua fresca infila la bottiglia nel buco del bagno turco dove la temperatura è un po’ più bassa di quella delle celle.
Non è così ovunque ma quasi. E le persone che finiscono lì perdono ogni dignità. A volte anche senza motivo. E così i senatori della commissione incontrano nell’ospedale di Reggio Emilia un uomo dal fisico robusto e muscoloso. Da cinque giorni è legato anche lui al letto di contenzione. Chiedono informazioni, scoprono che l’uomo è stato arrestato 22 anni prima per una rissa a Firenze. Viene giudicato incapace di intendere e di volere e chiuso nel primo ospedale giudiziario. Da allora si scatena in lui una tale violenza da rendere impossibile occuparsene senza legarlo. Quasi come per un accordo non scritto gli ospedali lo ospitano per un po’ poi lo trasferiscono. È questa da 22 anni al vita di un uomo condannato per rissa.
Nell’ospedale di Secondigliano, vicino Napoli, i senatori incontrano un uomo con bende sporche intorno alle gambe e ai piedi. Ha evidenti segni di cancrena e da settimane nessuno gli cambia le medicazioni. L’unico tipo di assistenza sono 30 minuti ciascuno di terapia psichiatrica al mese per loro che sono malati psichiatrici. Come si potrebbe pensare di curare il diabete?

l’Unità 21.11.11
La Chiesa ha aiutato il ricambio ora distingua libertà e nichilismo
Un’ analisi dopo il convegno su “Scienza e vita” aperto da una relazione del cardinale Bagnasco Anche sui temi eticamente sensibili si può finalmente costruire una condivisione più ampia
di Stefano Semplici


Il dialogo necessario. La Cei non raggiungerà i suoi obiettivi finché insisterà sulla tesi che la crisi morale dipende in ultima istanza da un difetto di conoscenza
N ella lezione magistrale del cardinale Angelo Bagnasco al convegno su “Scienza e cura della vita: educazione alla democrazia” si trovano tutte le potenzialità e le difficoltà che caratterizzano il tentativo della Chiesa di rilanciare ragioni, stile e contenuti di una «buona politica». La Chiesa riconosce la necessità di una nuova «etica sociale» a tutto campo e indica un metodo di umiltà e ascolto. Per affrontare «i grandi problemi dell’economia e della finanza, del lavoro e della solidarietà, della pace e dell’uso sostenibile della natura», è indispensabile evitare di rannicchiarsi intorno a narcisismi identitari o accontentarsi del piccolo cabotaggio di interessi particolari, per ripartire invece da ciò che appartiene «al senso comune, all’esperienza universale».
Questa è fin dall’inizio la linea del magistero di Benedetto XVI, che nella Caritas in veritate afferma che è solo dalla «interazione etica delle coscienze e delle intelligenze» che potrà emergere uno sviluppo veramente umano. Eppure questo impegno per ciò che è comune e unisce è stato tante volte recepito e contestato come autoritarismo, come paternalismo della verità che divide. Ci sono a mio avviso due grappoli di motivi che aiutano a spiegare questo esito e, forse, a superarlo.
La Chiesa non raggiungerà l’obiettivo di un’interlocuzione feconda con le dinamiche più vitali della cultura contemporanea fino a quando insisterà sulla tesi che la crisi «morale» del nostro tempo dipende in ultima analisi da un difetto di conoscenza. Il presidente della Cei ribadisce che non si tratta «di voler imporre la fede e i valori che ne scaturiscono direttamente, ma solo di difendere i valori costitutivi dell’umano e che per tutti sono intelligibili come verità dell’esistenza». Il cortocircuito di questo argomento è evidente: il pensare diversamente, una volta posta questa premessa, non può che essere considerato come un pensare male, come il rifiuto sostanzialmente irrazionale di piegarsi all’evidenza di una realtà che precede la libertà e non ammette distorsioni.
Il pensiero degli ultimi secoli ha tentato in modi diversi di ritrovare la filigrana dell’universale nell’esperienza forte della libertà in prima persona. Non è il nichilismo la conclusione necessaria della rinuncia a una concezione della natura fissata una volta per tutte in un elenco di principi non negoziabili. La questione, come si vede, non è astrattamente filosofica. Senza la fatica di questa mediazione rischia di restare, di fronte all’esperienza del conflitto, la dura conclusione sempre della Caritas in veritate, cioè l’aut aut decisivo per il quale l’adesione ai valori del cristianesimo viene considerata elemento indispensabile per la costruzione di una buona società. Le moderne società liberali e pluraliste avranno sempre difficoltà ad accettare che sia la religione (una religione) a tracciare il limite della politica.
La seconda difficoltà nasce con l’agenda delle priorità. Insistendo troppo sull’idea che il rispetto assoluto della vita dal concepimento fino alla morte naturale è il primo dei valori che costituiscono «il ceppo vivo e solido» dal quale germogliano tutti gli altri, insistendo insomma troppo sull’idea che tutto sta o cade con le grandi questioni della bioetica, si approfondisce in realtà una doppia faglia. Da una parte si continua a sottolineare la specificità del contributo dei cattolici nelle loro posizioni su questi temi, investendo in questa direzione e non in quella delle grandi sfide economiche e sociali il massimo delle energie ideali e progettuali. Dall’altra, proprio perché ne va del presupposto irrinunciabile di ogni bene possibile, si rinuncia alla ricerca del consenso e si accetta di essere parte, pagando prezzi anche alti in termini di compromessi e strumentalizzazioni pur di essere maggioranza sulle provette della fecondazione assistita o sui tubi della nutrizione artificiale.
Il quadro politico, oggi, è cambiato. La Chiesa ha aiutato questo cambiamento e a tratti lo ha decisamente sollecitato. L’invito del presidente della Conferenza episcopale italiana ai cattolici a contribuire in prima linea «al grande compito di servire il bene comune della civitas italiana in un momento di grave crisi» va letto in questa prospettiva. E allora anche la bioetica potrebbe diventare finalmente il laboratorio di una condivisione più ampia.

l’Unità 21.11.11
Al Cairo Quattro morti e centinaia di feriti dopo l’irruzione dell’esercito
Tensioni Si dimette il ministro della cultura. Governo, vertice d’emergenza
I soldati all’assalto di Piazza Tahrir L’Egitto brucia ancora
Scontri durissimi nella piazza-simbolo della primavera araba, per il secondo giorno. A rischio le elezioni. In un video su YouTube si vede la polizia che getta il corpo di un manifestante nell’immondizia.
di Umberto De Giovannangeli


Il suono lancinante delle ambulanze. L’aria resa irrespirabile dal gas dei lacrimogeni. I blindati che fanno irruzione nella piazza, i proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo. Le barricate, i corpi senza vita di tre giovani manifestanti distesi al suolo. È piazza Tahrir. È l’Egitto che riscopre la violenza e la paura. Quattro morti e 285 feriti: è questo il bilancio degli scontri di ieri in piazza Tahrir, stando a fonti i mediche indipendenti del Cairo. Nella piazza erano convenute almeno 5.000 persone, all’indomani di violenze che avevano causato 1 morto, e centinaia di feriti, alcuni in modo grave. La piazza, che si è svegliata presidiata da tende in cui hanno dormito numerosi manifestanti, ha inneggiato con forza contro il maresciallo Hussein Tantawi, il capo della Giunta militare. In mattinata vi erano stati scontri intorno al ministero dell'Interno, molto vicino a piazza Tahrir: il bilancio è stato di almeno 15 feriti, tra manifestanti e poliziotti.
PIETRE E LACRIMOGENI
Gli scontri, secondo le forze di sicurezza, sono scoppiati quando centinaia di manifestanti hanno attaccato con una sassaiola gli agenti: i poliziotti hanno reagito lanciando pietre e gas lacrimogeni ai giovani. Ieri nella piazza hanno fatto irruzione i blindati della polizia e agenti antisommossa, che hanno usato gas lacrimogeni e manganelli. Per quanto riguarda le vittime, si tratterebbe di Shehab Eddin el Dakhruri (26 anni), di un altro giovane e di una ragazza. Shehab è rimasto ucciso mentre la polizia smantellava uno dei due ospedali allestiti in piazza Tahrir all' interno di una moschea. Lo racconta, in un'intervista ad Al Jazira, un medico che prestava servizio proprio in quella struttura. È durante l'operazione di smantellamento dell' ospedale, nella quale sono stati sparati numerosi lacrimogeni ha detto il medico che Shehab Eddin El Dakhruri è stato ucciso. Non è stato possibile soccorrerlo proprio perchè la struttura medica era stata distrutta.
Poco dopo, i sacerdoti della chiesa adiacente alla moschea, sempre dietro l'enorme edificio del Mugamma che ospita gli uffici dell'emigrazione, hanno aperto le porte del tempio ed hanno ospitato una nuova postazione medica, nella quale sono affluiti vari feriti. Durante gli scontri di sabato, sempre in piazza Tahrir è morto un altro ragazzo, mentre un altro è rimasto ucciso nei disordini di Alessandria. La violenza esplosa a piazza Tahrir è evidente da un video destinato ad alimentare le accuse nei confronti della polizia, che secondo il governo egiziano non ha sparato sui manifestanti. Il cadavere di un manifestante morto, apparentemente per i pestaggi subiti dalla polizia, viene trascinato da un poliziotto infastidito insieme a striscioni, coperte e rifiuti verso un cumulo di immondizie e abbandonato lì, sotto gli occhi indifferenti di numerosi altri agenti. La scena appare in un video inserito nel blog di Al Jazira (blogs.aljazeera.net/liveblog/Egypt).
Secondo Waleed Rashed, fondatore del movimento 6 Aprile, «Bothaina Kamel (candidata alle presidenziali ndr) è stata arrestata durante l'incursione». In piazza sono stati presi in ostaggio quattro agenti. Una riunione del Consiglio dei ministri viene convocata d’urgenza per esaminare la situazione, mentre il ministro dello sviluppo locale, Mohamed Atteya, ha annunciato che la prima fase delle elezioni legislative, prevista a partire dal 28 novembre non sarà rinviata.Varie formazioni dei giovani rivoluzionari (Unione dei Giovani della Rivoluzione, movimento del 6 Aprile, la Coalizione dei Giovani) rigettano tutte le responsabilità sul governo guidato da Essam Shaafe e sul ministro dell’interno, dei quali chiedono le dimissioni, sollecitando la nomina di un governo di salute nazionale per l'immediato trasferimento a civili dei poteri detenuti dal Consiglio militare dall’uscita di scena dell'ex presidente Mubarak. La risposta è di chiusura totale. Il governo non si è dimesso e si è impegnato a far svolgere le elezioni legislative alla data fissata (il 28 novembre prossimo). È quanto si afferma in un comunicato letto alla tv di Stato dopo la riunione d'emergenza svoltasi nella sede del Consiglio Supremo dell'esercito con l'intero governo. Nel comunicato si afferma che «quanto sta succedendo ora ha per obiettivo quello di far annullare le elezioni e di impedire la creazione delle istituzioni dello Stato democratico». «Il governo esprime pieno appoggio al ministro dell'Interno prosegue il testo e ringrazia gli ufficiali per aver mantenuto saggezza durante gli incidenti».
Il governo «conferma anche il diritto dei cittadini alle manifestazioni pacifiche e rifiuta lo sfruttamento di quelle manifestazione per seminare la discordia», e «continua gli sforzi per raggiungere un’intesa generale per la designazione dei componenti della commissione che dovrà elaborare la nuova Costituzione». Piazza Tahrir non si accontenta. L’Egitto trema.

l’Unità 21.11.11
Intervista a Wael Ghonim
«Sono ore cruciali: la nostra rivoluzione è sotto assedio»
L’attivista egiziano «Non c’è scorciatoia militare alla democrazia. Quello che accade è inaccettabile Qualcuno sta lavorando per tornare al passato»
di U.D.G.


C’è chi sta lavorando per un “mubarakismo” senza Mubarak. Il potere è ancora nelle mani dei militari. E questo non è giustificabile. Le carceri sono ancora piene di oppositori, la richiesta di fare piena luce sui crimini commessi nei giorni della rivoluzione è rimasta del tutto inevasa. Non abbiamo combattuto il regime di Hosni Mubarak per veder nascere una pseudo democrazia in uniforme». La rivista Time lo ha inserito al primo posto tra le 100 persone più influenti del 2011. È stata l’anima della «cyber rivoluzione» egiziana, il simbolo della rivolta di Piazza Tahrir. Il suo nome è conosciuto in tutto il mondo: Wael Ghonim. Ha gestito la pagina «Siamo tutti Khaled Said», in memoria del ragazzo di Alessandria ammazzato di botte dalla polizia nel giugno del 2010. È un attivista del web, è uno di quella generazione Facebook che, spiega, lungi dall’essere una generazione virtuale è scesa in strada, e ha fatto la rivoluzione. Oggi, il trentenne «eroe di Google» è di nuovo nella “sua” piazza. C’era l’altro ieri, tra i 50mila che hanno riempito Piazza Tahrir: c’era per «festeggiare» il trentesimo compleanno del blogger Alaa Abdel Fattah, in carcere da tre settimane con l’accusa, «vergognosa quanto infondata», di aver istigato alla violenza durante i sanguinosi scontri di ottobre fra copti e l’esercito. «Le lancette del tempo sembrano essere tornate indietro – dice Ghonim a l’Unità – hanno voluto trasformare Piazza Tahrir in un campo di battaglia. Usano la forza per mascherare un fallimento politico». Centinaia di feriti, almeno tre morti nelle ultime ore, e tutto ciò a pochi giorni dalle prime elezioni del dopo-Mubarak. È un tragico ritorno al passato? «C’è chi sta lavorando per questo. La rivoluzione, con le sue istanze di libertà, non si cancella: non abbiamo combattuto il regime di Mubarak per veder nascere una pseudo democrazia in uniforme. Il sangue è tornato a scorrere in Piazza Tahrir: è terribile, inaccettabile. Sono momenti cruciali quelli che stiamo vivendo: il rischio è un ritorno al passato, è una contrapposizione violenta che finisce solo per fare il gioco di quanti vogliono condannare l’Egitto ad una emergenza senza fine, che in nome della sicurezza minacciata cancella diritti e libertà».
C’è chi sostiene che la piazza è fomentata dai Fratelli musulmani. «Quando il potere si sente sotto accusa, prova a ritirare fuori lo spauracchio integralista. Piazza Tahrir non è stata mai la loro piazza, una piazza “salafita”, anche se hanno provato a occuparla. Non cadremo in questa trappola. I protagonisti della “rivoluzione del 25 gennaio” hanno dimostrato al mondo che esiste un’alternativa al regime in uniforme e a quello della “sharia”, e questa alternativa vive in Egitto, come in Tunisia, nello Yemen come in Siria. Non esiste una scorciatoia militare alla democrazia. Deve essere chiaro che la richiesta che unifica quanti continuano a riempire Piazza Tahrir, non ha niente a che vedere con le mire di questa o quella forza politica né coincide con le ambizioni dei singoli personaggi che hanno come obiettivo la successione a Mubarak. La nostra richiesta è la fine del potere dei militari».
Ma non servono a questo le elezioni del 29 novembre?
«Anche sotto Mubarak si andava a votare. Ma erano elezioni truccate. Il punto è che una vera democrazia non può svilupparsi sotto il tallone di un contropotere che ne svuota i contenuti: i militari si sono fatti garanti della transizione, ora sono andati ben oltre. Hanno invaso un campo che non gli compete, e da “garanti” si stanno trasformando in una minaccia per la democrazia. Non possono ergersi a “garanti” della transizione personaggi che hanno condiviso il potere con Mubarak. Le dimissioni sono un atto dovuto, non più dilazionabile».
Si può parlare di una «rivoluzione tradita»?
«Direi di una rivoluzione minacciata, sotto assedio. E da più parti. Non chiamateci provocatori, non dite che siamo impazienti. Non è così. Abbiamo chiesto verità e giustizia, trasparenza e diritti. La risposta è tragica». Ha paura per la sua incolumità? «Chiunque abbia conosciuto le carceri del regime, non può non averla. Ma non possono incarcerarci tutti. La libertà è ormai in rete. E questa è la nostra garanzia».

Corriere della Sera 21.11.11
«I generali peggio del raìs» Arrestata Bothaina la ribelle
di Viviana Mazza


Bothaina Kamel è l'unica candidata donna alle elezioni presidenziali in Egitto, che potrebbero non tenersi prima del 2013. Risponde al telefono ieri, poco dopo mezzogiorno, mentre si prepara ad unirsi ai manifestanti in piazza Tahrir. Lì ha trascorso diverse ore anche nella notte di sabato, portando medicinali ai manifestanti e tornando a casa alle 6 del mattino. «Indosso due paia di pantaloni, per proteggermi dai proiettili di gomma». Ride. «Ormai abbiamo anche un codice di abbigliamento».
I manifestanti sono stati definiti «nemici dell'Egitto» dai generali che guidano il Paese. «Macché, sono loro i criminali e i fuorilegge — dice Kamel, 49 anni, musulmana, madre, giornalista e attivista —. Il Consiglio supremo delle forze armate è come Mubarak, se non peggio di Mubarak». Poche ore dopo, verrà arrestata in piazza dalla polizia insieme ad alcuni giovani: l'allarme si diffonde subito su Twitter e Facebook. In breve tempo, viene rilasciata.
La data delle presidenziali non è stata fissata, ma si terranno solo dopo le elezioni parlamentari (che iniziano il 28 novembre e dureranno mesi) e dopo che verrà scritta la nuova Costituzione. E non è chiaro quando la Giunta militare cederà il controllo del Paese. Per questo, Kamel ha deciso che è tornato il momento di scendere di nuovo in piazza. «Crediamo che il Consiglio supremo delle forze armate non lascerà il potere se la rivoluzione non continua».
Ex presentatrice radiofonica e televisiva ma anche attivista dell'opposizione con impeccabili credenziali, Kamel prese una «pausa» dalla Tv di Stato nel 2005 perché non sopportava di appoggiare la propaganda di regime durante le elezioni. Alcuni anni prima, il suo popolare programma radio «Confessioni notturne», nel quale gli ascoltatori chiedevano consigli e si sfogavano su questioni come abusi sessuali e rapporti prematrimoniali, era stato cancellato dal «comitato governativo per la religione» perché «danneggiava la reputazione» dell'Egitto. Ora Kamel ride nel parlare dell'attacco hacker di ieri al sito ufficiale della Tv, accusata di «servire il regime militare» oggi proprio come prima «lavorava» per Mubarak. «Tutti i media — spiega la candidata — sono ormai dominati dalle forze armate. Non possiamo parlare, se non su giornali e tv stranieri o attraverso i social media, YouTube, Internet. E' peggio che sotto Mubarak! Eppure migliaia di persone sono accorse in piazza».
Sabato Kamel era a casa: da tre giorni aveva iniziato uno sciopero della fame in solidarietà con i genitori del blogger Alaa Abdel Fattah, arrestato il 30 ottobre (accusato di aver istigato la folla alla violenza durante le proteste del 9 ottobre, che finirono con la morte di 27 manifestanti, ha rifiutato di rispondere alle domande considerando il tribunale militare illegittimo). «Ma dopo aver visto i lacrimogeni in piazza — spiega Kamel —, ho interrotto lo sciopero della fame perché è questo il momento di agire. Non possiamo perdere adesso. L'esercito è al potere da 60 anni e se la rivoluzione viene sconfitta, il regime durerà altri 60 anni. Le nostre richieste sono tre: vogliamo la transizione del potere dall'esercito ai civili. E inoltre, chiediamo la fine dei processi militari e la liberazione dei rivoluzionari arrestati».
Kamel si augura che le manifestazioni continuino nei prossimi giorni. «C'è anche un hashtag, #TahrirNeeds, che serve per chiedere su Twitter cosa serve». «Tahrir ha bisogno di siringhe, anestetico, pillole di Voltaren, Betadine, Brufen, Cataflam da 50 mg, cotone, bende, guanti», recitava un tweet ieri pomeriggio. Ma Tahrir e l'Egitto non hanno anche bisogno di pace, per andare avanti, per condurre le prime elezioni dopo la caduta di Mubarak? «Siamo consapevoli che ci vuole tempo per la democrazia e per costruire il nuovo Egitto, anche perché la nostra società è stata distrutta sotto Mubarak — replica Kamel — e sappiamo che il nostro cammino è lungo, ma dobbiamo difendere la nostra dignità». Un cagnetto furioso abbaia di sottofondo, come trascinato dalla rabbia della padrona. Lei continua con voce più alta. «La folla è stata aggredita dalla polizia, tentano di spezzare la nostra dignità, ma questo ci dà maggiore forza, ci convince che è necessario liberare l'Egitto. Sabato la polizia mirava agli occhi dei manifestanti, soprattutto dei giovani. Uno di quei ragazzi ha scritto: "L'esercito vuole che la gioventù sia cieca"». Lei dice di aver visto, a terra, proiettili che portavano la scritta «made in Italy», e di esserne rimasta scioccata.
Kamel, che correrà come «indipendente», non è l'unica candidata alle presidenziali scesa in piazza. Ieri c'era anche l'islamista Hazem Salah Abou-Ismail, che si era rifugiato durante gli scontri nella moschea Omar Makram con i seguaci. «Ci sono forze politiche diverse, oggi come il 25 gennaio — dice lei —. Ma quel che conta è il messaggio: la rivoluzione è ancora viva». Dice pure che appoggerebbe la proposta di Mohammed ElBaradei, altro candidato presidenziale, di formare un consiglio civile di transizione pur di sottrarre il potere ai generali. E poi si scusa, ma spiega: «Devo andare. Devo tornare in piazza Tahrir».

Corriere della Sera 21.11.11
Siria sull'orlo della guerra civile: razzi contro la sede del partito di Assad
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Gli americani avvertono che la Siria sta scivolando verso la guerra civile mentre il regime lo nega. Ma le notizie fanno pensare che il Paese abbia ormai raggiunto il punto di non ritorno. L'opposizione ha aumentato le incursioni nelle città. Con agguati alle forze dell'ordine e attacchi contro luoghi simbolo. Dopo aver colpito la sede dei servizi segreti dell'aviazione, è toccato agli uffici del Partito Baath (al potere) in uno dei quartieri più protetti di Damasco. Un commando, forse arrivato in moto, ha lanciato una granata assordante e tirato dei razzi anticarro. Pochi i danni ma grande l'effetto propagandistico. Tanto è vero che il ministro degli Esteri siriano Walid Muallem ha dapprima smentito l'attentato ma poi lo ha confermato indirettamente. Lo stesso esponente governativo, sottolineando la gravità del momento, ha affermato: «Se ci vogliono costringere a combattere, combatteremo». Discorsi bellicosi comparsi anche in un'intervista del presidente Bashar Assad. Dopo aver versato lacrime di coccodrillo — «Sono addolorato per lo spargimento di sangue» —, ha ribadito la sua intenzione di «resistere».
La parole del regime si rispecchiano nei comportamenti sul terreno. Damasco ha finto di accettare il piano per l'invio di osservatori, poi ha opposto una serie di emendamenti respinti dalla Lega araba. E sabato è scaduto l'ultimatum lanciato dalla stessa Lega sulla fine della repressione. Il governo oppone il suo muro anche se sostiene che vi sarebbero ancora margini di trattativa. Alla pressione diplomatica segue quella degli insorti che agiscono su più fronti. A Nord ci sono gli elementi dell'Esercito libero siriano — composto da disertori — che beneficiano dell'appoggio turco. A Sudovest operano altri nuclei che hanno le loro basi nelle zone di confine libanesi. Sono ancora realtà minori che tuttavia guadagnano punti con il trascorrere dei giorni. In queste condizioni i pericoli di una lotta tutti contro tutti sono concreti. Quanto avviene ad Homs ne è la dimostrazione. Uno scontro militari-ribelli accompagnato da molte faide, anche etniche.
Non si contano più le sparizioni, i rapimenti, gli omicidi compiuti da diverse fazioni. Nelle strade sono comparsi diversi cadaveri decapitati. Il timore di molti osservatori è che Damasco non abbia più la capacità di imporre il suo ordine ma che neppure i ribelli (da soli) possano sperare di prevalere. Uno scenario che inquieta molti perché significa instabilità perenne e soddisfa, invece, chi spera che la Siria resti imbrigliata nei suoi problemi e non sia più in grado di fare da sponda all'Iran.

Repubblica 21.11.11
Da Brunelleschi a Leonardo così abbiamo cambiato prospettiva
di Piergiorgio Odifreddi


Anticipiamo un brano dell´ultimo saggio di Odifreddi "Una via di fuga". Ecco come è stato superato Euclide
Le proporzioni non sono semplici: lo capì, a sue spese, Michelangelo con la Cappella Sistina

Agli inizi del Quattrocento, probabilmente nel 1416, Filippo Brunelleschi stupì dapprima Firenze, e poi il mondo. Si recò infatti alla cattedrale di Santa Maria del Fiore, si posizionò al centro della porta maggiore, e disegnò secondo le regole della prospettiva il Battistero che vi stava di fronte.
Si recò poi in piazza della Signoria, si posizionò all´angolo di via de´ Calzaiuoli, e disegnò secondo le stesse regole il Palazzo Vecchio. Le due tavole del Brunelleschi sono andate perdute, e sappiamo della loro esistenza solo grazie alla testimonianza di Leon Battista Alberti. Oggi possiamo ricostruirle con facilità, semplicemente fotografando i due siti dalle stesse posizioni in cui si era posto l´architetto. Ma disegnarle all´epoca non era per niente banale, perché le regole della prospettiva non erano ancora state scoperte. Fu proprio Brunelleschi a capire che si potevano lasciare orizzontali le linee orizzontali, e verticali le linee verticali, ma bisognava far convergere in punti immaginari le linee di profondità.
Il Battistero non era stato scelto a caso: essendo un edificio ottagonale, offriva alla vista una faccia perpendicolare, e due facce a 45 gradi. E Brunelleschi giocò in maniera astuta: lo disegnò su una tavoletta di legno in maniera speculare, ci fece un buco sul retro e gli collocò di fronte uno specchio. Chi guardava lo specchio attraverso il buco, aveva così l´illusione di vedere miracolosamente apparire il Battistero stesso, come se fosse vero. Questi trucchi oggi ci lasciano indifferenti, perché la prospettiva è diventata una nostra seconda natura. Ma che all´epoca dovessero essere sorprendenti e spettacolari, lo dimostrano le leggende che sono fiorite sulle due tavole del Brunelleschi (...).
La scoperta di Brunelleschi era un uovo di Colombo, perché l´immagine retinica è rigorosamente prospettica: lo dimostrano appunto le fotografie. Ma il cervello non tiene conto delle prospettive a breve distanza, e ci fa dunque apparire paradossalmente distorte le fotografie scattate da vicino. La compensazione dell´effetto prospettico avviene però soltanto per la visione orizzontale e a breve distanza, non per quella verticale: forse perché siamo poco abituati a guardare in alto o in basso. Anche prima della scoperta della teoria scientifica da parte di Brunelleschi, la pratica artistica aveva spesso introdotto correzioni prospettiche. Nella Storia naturale Plinio il Vecchio narra lo stupore del pubblico quando una statua di Atena, scolpita da Fidia con membra e viso deformi, apparve perfetta dopo la sistemazione sulla colonna alla quale era destinata.
Ai tempi di Platone questi accorgimenti erano ormai talmente comuni che nel Sofista il filosofo si scagliò contro coloro che li usavano, perché non rappresentavano le cose come sono in realtà. E gli esempi classici di correzioni prospettiche non si contano: l´inclinazione verso l´interno degli assi delle colonne del Partenone, l´ampliamento verso l´alto del campanile di Giotto a Firenze, l´allargamento verso il fondo di piazza San Marco a Venezia…
Con l´aumentare della distanza dell´oggetto da noi, la percezione della sua grandezza invece diminuisce: un fatto registrato per la prima volta su una tavoletta assira del regno di Assurbanipal. Altri fenomeni percettivi legati all´allontanamento di un oggetto sono la perdita di definizione dei suoi contorni e lo sbiadimento del suo colore. Lo studio delle leggi della visione fu affrontato fin dall´antichità: ne esisteva ormai una teoria completa, codificata da Euclide nell´Ottica. Le più importanti di queste leggi stabiliscono che gli oggetti determinano un «cono» di raggi rettilinei convergenti nell´occhio, avente come base il contorno dell´oggetto.
La percezione della grandezza di un oggetto è determinata dall´angolo sotteso dal suo cono rispetto al nostro occhio. In particolare, man mano che si allontana, l´oggetto appare sempre più piccolo, fino a scomparire in un punto di fuga: un nome introdotto nel 1715 da Brook Taylor, nel suo trattato sulla Prospettiva lineare. Nella percezione due rette parallele appaiono dunque convergenti, e due rette convergenti vengono interpretate come parallele. Se l´ottica determina il cono della visione formato da un oggetto rispetto a un occhio, la prospettiva studia invece l´intersezione di questo cono con un piano, pensato come una tela su cui rappresentare l´immagine vista dall´occhio.
Si tratta, cioè, di considerare la tela come una finestra attraverso la quale si vede, guardando con un unico occhio, il mondo esterno. E così fecero effettivamente i pittori rinascimentali, usando vari artifici descritti nel 1525 da Dürer, nel Trattato sulla misura con riga e compasso. Benché ottica e prospettiva siano dunque due studi complementari, i Greci non intrapresero mai il secondo. Ci sono esempi inconsci di prospettiva del secolo VI nelle grotte di Ajanta, in India, e in dipinti cinesi tra i secoli X e XIII, ma le prime realizzazioni consce sembrano essere le due tavole di Brunelleschi dalle quali siamo partiti.
La sua scoperta si diffuse a macchia d´olio, dapprima in Italia e poi all´estero. E quasi immediatamente apparvero le più antiche opere prospettiche rimaste: il San Giorgio libera la principessa di Donatello nel 1417, il Cristo in pietà di Masolino da Panicale nel 1424, la Trinità di Masaccio nel 1426 circa, e L´adorazione dell´agnello dei fratelli Jan e Hubert Van Eyck nel 1432.
Poco dopo, nel 1435, fu compilato il primo manuale della nuova tecnica, il Della pittura di Leon Battista Alberti. A cui seguirono La prospettiva per la pittura di Piero della Francesca verso il 1480, e La prospettiva artificiale di Jean Pélerin nel 1505. Quasi a suggerire un ideale proseguimento della storia che stiamo raccontando, la prima descrizione di una costruzione prospettica che ci è pervenuta riguarda la rappresentazione di una pavimentazione regolare, a piastrelle quadrate. Il soggetto divenne uno dei pezzi da esibizione dell´epoca, anche in opere nelle quali in realtà c´entrava poco: ad esempio, Il sangue del Redentore di Giovanni Bellini, del 1460 circa (...).
E fu (sempre) Leonardo il primo a scoprire un complemento paradossale della prospettiva: la cosiddetta anamorfosi (da ana, «di nuovo», e morphé, «forma»), che permette di deformare le figure in maniera tale da farle apparire corrette soltanto da un punto di vista particolare. Il più antico esempio conosciuto risale al 1514-15, e si trova appunto nel Codice Atlantico di Leonardo. Il più noto è di pochi anni dopo, del 1533, ed è un particolare del quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein. Il più spettacolare è il San Francesco di Paola in preghiera dipinto da Emmanuel Maignan nel 1642, nel chiostro di Trinità dei Monti. L´anamorfosi non è poi un´impresa così futile, come potrebbe sembrare dalle curiose immagini concepite per essere riflesse in specchi cilindrici o conici, introdotte dai cinesi sotto la dinastia Ming e divenute di moda in Europa nel Seicento. È anche la tecnica necessaria per realizzare affreschi destinati a essere visti di scorcio, o dipinti su superfici curve. Se ne rese conto a sue spese Michelangelo, uno dei cui motti era che «l´artista deve avere il compasso negli occhi».
Quando furono tolte le impalcature alla prima metà del soffitto della Cappella Sistina, egli si accorse infatti che il suo compasso oculare aveva fatto cilecca, e le figure risultavano troppo piccole. Nella seconda metà fu dunque costretto a ingrandirle gradualmente, fino a raggiungere le proporzioni corrette. Ma imparò la lezione: quando, una ventina d´anni dopo, dovette dipingere il Giudizio Universale, pianificò le figure in alto in modo che fossero molto più grandi di quelle in basso.
Matematicamente, l´errore di Michelangelo era legato al fatto che ad archi uguali corrispondono tangenti angolari non uguali, ma crescenti. Dürer era invece perfettamente conscio della cosa, e nel 1525 dedicò alcune illustrazioni del suo Trattato sulla misura con riga e compasso all´argomento. Il maestro indiscusso di queste tecniche fu però Andrea Pozzo, alla fine del Seicento. Il suo libro Prospettiva de´ pittori e architetti è meravigliosamente illustrato, e i suoi affreschi in Sant´Ignazio a Roma sono spettacolari. In particolare, una falsa cupola e la Gloria di sant´Ignazio si vedono correttamente soltanto da particolari punti, e la volta dà l´illusione di essere una naturale continuazione della struttura della chiesa.
© Arnoldo Mondadori Editore S.p.a

Repubblica 21.11.11
Il filosofo Cavalletti analizza i meccanismi e il fascino del dominio
Il segreto del potere è solo suggestione
di Leopoldo Fabiani


"Il mio testo utilizza la novella di Mann, ‘Mario e il Mago´, per mostrare come funziona una dinamica, dall´ipnosi all´attrazione per il capo fino ai media di oggi"

Suggestione. E se fosse questa la parola chiave per capire come funziona la politica, ma anche i rapporti di potere in genere, la società tutta? L´immagine di un medico che ipnotizza la paziente o quella dell´illusionista che piega la volontà del suo pubblico, insomma dell´uomo che tiene in pugno le menti altrui è quella che meglio illustra qualunque relazione di dominio? È questa l´idea al centro del nuovo libro di Andrea Cavalletti, intitolato appunto Suggestione. Potenza e limiti del fascino politico (Bollati Boringhieri). Cavalletti, filosofo che insegna allo Iuav di Venezia, ha ripercorso le grandi controversie che dalla fine del Settecento agli inizi del Novecento hanno attraversato la società e la cultura europea attorno a fenomeni come il magnetismo animale, l´ipnosi, il sonnambulismo. Spettacolari esperimenti pubblici, come quelli celebri di Franz Anton Mesmer, che suscitavano isteria collettiva e l´attenzione allarmata delle polizie europee. Dibattiti teorici che impegnavano i migliori studiosi e scienziati. Un´epoca che ha cercato di penetrare il segreto dell´influenza di una psiche su un´altra e della fascinazione delle folle per il capo, con il neurologo Hippolyte Bernheim che sosteneva «Tutto è suggestione, tutto avviene nella suggestione».
Ma il libro ruota attorno alla celebre novella di Thomas Mann Mario e il Mago, dove la famiglia del narratore in vacanza in Versilia, assiste allo spettacolo di un´illusionista, il "cavalier Cipolla". Un "mago" che riesce a far ciò che vuole del proprio uditorio, fino a quando Mario, il giovane cameriere umiliato durante la rappresentazione, lo uccide sulla scena. All´epoca, anche per ammissione dello stesso Mann, la storia fu letta come allegoria del potere di incantamento che Mussolini esercitava sul popolo italiano. E, anni dopo, come profezia della fine violenta che può toccare ai tiranni.
Professore, sono solo i dittatori ad avere in pugno le menti dei cittadini o qualcosa di analogo è avvenuto anche nelle democrazie?
«Nei sistemi autoritari questo avviene con un grado di massima intensità, ma il meccanismo suggestivo del potere si ritrova in tutta la vicenda dello stato moderno, dal Settecento in poi, e opera in particolare come sistema "biopolitico", vale a dire come necessità di governare le vite, non solo i corpi ma anche le anime, dei cittadini».
Perché il sistema biopolitico deve ricorrere alla suggestione?
«Il biopotere nasce come sistema securitario. E il bisogno di sicurezza è sempre qualcosa che viene suggerito dall´alto, tra l´altro con l´obbligo di un "rilancio" continuo, di spostare continuamente la "soglia" della sicurezza, perché è un problema di cui è impossibile venire a capo. A tutto ciò si aggiunge un´altra necessità. La creazione di un´atmosfera sociale "magnetica" o "elettrica" dove ognuno può essere per l´altro un polo di attrazione o repulsione. L´ambiente ideale per esercitare i poteri suggestivi e ipnotici».
Ma se si tratta dell´ambiente ideale, perché gli esperimenti sul "magnetismo" di Mesmer vengono censurati e perseguiti dalle autorità?
«Il motivo è che attirano l´attenzione pubblica sul vero centro del potere in atto. E poi l´autorità si deve assicurare il monopolio delle forze suggestive».
Ma questo monopolio esiste tuttora? Oggi è ancora possibile "creare" l´atmosfera e come?
«La suggestione ha molto a che vedere con lo spettacolo. Il celebre ipnotizzatore Donato si esibiva sul palcoscenico, ma anche il salotto di Mesmer e l´aula di Charcot erano teatri. E non c´è dubbio che attualmente il dispositivo politico-spettacolare agisca all´ennesima potenza. In questo meccanismo un ruolo da protagonista spetta senz´altro ai media, che mettono in scena il potere e generano negli spettatori l´illusione di partecipare alla politica. Non a caso Ochorowiz, che nel 1885 tentò alcuni esperimenti di ipnosi a distanza, sognò la radio e la televisione. Ecco, il sistema mediatico agisce come un enorme apparato di ipnosi di massa a distanza».
Siamo condannati a vivere nell´atmosfera suggestiva?
«Nel racconto di Thomas Mann, l´ipnotizzato uccide l´incantatore. Un finale che ha due letture diverse. Una, proposta da Lukàcs e Hans Mayer, vede nella ribellione un atto autonomo della volontà del soggetto. Ma io preferisco l´altra. Che interpreta la reazione violenta di Mario interamente dentro la relazione instaurata con il Mago. Vale a dire che nell´esercitare il rapporto di dominio suggestivo, si scatenano energie che possono diventare incontrollabili».
Solo con la violenza è possibile sottrarsi alle forze della suggestione?
«Innanzitutto ci aiuta la coscienza critica del dispositivo di potere, la conoscenza del suo funzionamento. Ma c´è un passaggio di Walter Benjamin, in una lettera a Scholem, che apre una prospettiva ulteriore. Si riferisce all´educazione, altro contesto dove la suggestione è fondamentale. Benjamin sostiene che imparare e insegnare sono una cosa sola. Ecco, se si uscisse dalla concezione "verticale" della relazione suggestiva di dominio, e si accedesse a una dimensione dove passività e attività si confondono, come può accadere in un rapporto amoroso, allora non dovremmo temere un mondo dove "tutto è suggestione"».

Repubblica 21.11.11
Il libro di Carlo Magnani "Filosofia del tennis"
Se per capire Lendl serve conoscere Hegel
di Gianni Clerici


Nel temere che un libro meritevole non venga tradotto nel latino dei nostri tempi, l´inglese, mi consolo pensando a Manzoni, e ai suoi presunti 13 lettori. Simile è forse il caso del Prof. Carlo Magnani, e della sua Filosofia del Tennis (Mimesis), un´impresa alla quale nemmeno un maniaco come me aveva osato pensare. Secondo Magnani tennis e filosofia sono complementari, anzi la filosofia è il parametro indispensabile per capire e inquadrare il Gioco dei Re. Offro un piccolo esempio tra i cento che mi hanno affascinato: Lendl. Chi ha visto Lendl giocare ha avuto la dimostrazione del metodo dialettico applicato alla racchetta. Per Hegel era espressione della "fatica del concetto" come per Lendl il tennis. E come per H. la via dell´affermazione di L. tardò a manifestarsi. Mancò le prime 3 finali dello Slam. Dopo essersi contraddetto vincendo il match quasi perduto a Roland Garros dell´84 contro McEnroe, inizia un ininterrotto dominio, di oltre il 90% di partite vinte nel quinquennio. L. sapeva ormai bene, con H. che "la quantità si converte in qualità". Ma perché un simile fenomeno non ha mai vinto Wimbledon? Per scendere a rete, infatti l´Illuminismo non basta. Emerge la sua critica. Così Becker e Cash hanno presentato, al più razionale dei tennisti, lo stesso conto che Adorno e Horkheimer hanno sventolato in faccia al positivismo ingenuo e all´hegelo-marxismo dogmatico con La dialettica dell´Illuminismo. E non gli hanno lasciato un set nelle finali di Wimb dell´86 e dell´87. Per me, non avevo capito, limitandomi a interpretazioni superficiali, tattiche e biomeccaniche. Ma d´ora in avanti avrò, grazie a Magnani, un altro strumento di lettura. Vedrete, aficionados.

Corriere della Sera La Lettura 20.11.11
Il capitalismo è immortale (e gli indignati sono degli illusi)
Nostalgici marxisti e giovani arrabbiati sbagliano: l'unico futuro è in un'economia di mercato. Più libertaria
di Michel Onfray


Quella che si è convenuto chiamare «crisi europea» non è una crisi ma una metamorfosi del capitalismo, una muta, come avviene nei serpenti. Qualche rivoluzionario in età critica, vecchi maoisti formattati all'École Normale Supérieure di Parigi o qualche brigatista italiano incartapecorito credono sia giunto il giorno della rivoluzione di tipo bolscevico! Lettori di Marx come se non ci fossero mai stati né Lenin né Stalin, comunisti da biblioteca come se il Gulag non fosse mai esistito, rivoluzionari di carta come se in nome della dialettica il sangue non fosse mai colato nei Paesi dell'Est, scrutano i giornali, seguendo l'invito di Hegel a leggerli come preghiera mattutina, e annunciano, allegri, che la rivoluzione ci sarà domani, finalmente!
Questo genere di rivoluzionario rallegra il capitale e i capitalisti, i grandi borghesi, l'aristocrazia, i banchieri, la finanza, gli imprenditori. Infatti, essi sanno bene che questa «crisi» non porta alla rivoluzione, ma allo sviluppo dell'animale capitalista, la cui attuale metamorfosi annuncia un'altra forma al vecchio mondo capitalista.
Per capire un po' la situazione, ho riaperto un libro di Félix Guattari che s'intitola Les années d'hiver, in cui l'autore esamina l'articolazione fra Stato, produzione e mercato, mostrando poi con brio come la priorità data a una di queste istanze sulle altre due, o i diversi modi di combinare fra loro queste istanze, permettano di definire un capitalismo da guerra di tipo nazista, un proto-capitalismo commerciale, un capitalismo statale di tipo sovietico, un capitalismo liberale, una economia-mondo, una economia monopolistica coloniale, un capitalismo mondiale integrato: il nostro. Guattari parla di capitalismo nella Cina del II e III secolo a.C., e così mi son trovato un amico, io che penso, da libertario, che lo schema marxista di un capitalismo con una data di nascita proclamata, quindi con una data di decesso possibile, sia una visione dello spirito idealistica e neo-hegeliana.
Infatti, il capitalismo è la forma naturale assunta dallo scambio nella logica della scarsità che, essa stessa, si appoggia sul carattere prezioso del feticcio chiamato a diventare moneta di scambio. Di modo che ci fu un capitalismo preistorico — in certe società senza Stato — probabilmente costruito in un primo tempo sul baratto, poi su valori fiduciari (che presuppongono dunque la fiducia, il contratto), con molluschi insoliti, piumaggi rari, pietre preziose; ci fu un capitalismo delle società prive di scrittura, delle società nomadi, delle società scomparse prima che nascesse il monoteismo; un capitalismo dell'antichità greca e della sua versione romana; un capitalismo dell'alto Medioevo, e così via. La data di nascita del capitalismo non è stabilita da Marx o da Braudel, ma dall'uomo che scambia. La fine del capitalismo è una finzione costruita specchiandola con quella della sua data di nascita. Domani bisognerà fare i conti con il capitalismo. Ma con quale?
Perché non quello di Pierre-Joseph Proudhon, che nella sua opera e nella sua vita fece la proposta di un capitalismo libertario? La sua Teoria della proprietà (1865) è solitamente presentata come una rinuncia a Che cos'è la proprietà? (1840). Il libro scritto sul finire della vita fa l'elogio della proprietà e dello Stato, mentre quello della giovinezza ne invocava la scomparsa. Ebbene, non c'è contraddizione: in Che cos'è la proprietà? Proudhon invoca la fine dello Stato e della proprietà in un regime di albinaggio, cioè in un regime in cui la forza di lavoro non è pagata dal capitale che l'utilizza e la sfrutta; in Teoria della proprietà lo stesso Proudhon difende lo Stato che garantisce il federalismo libertario e fa l'elogio della proprietà, che a questo punto chiama possesso, quando è proprietà sotto un regime libertario. Paradossalmente, la società di Proudhon si costruisce su un'economia socialista che si caratterizza come un capitalismo libertario: l'usufrutto della terra da parte del contadino, quello della bottega da parte dell'artigiano, la creazione di una banca popolare da parte del popolo che la gestisce, l'autogestione operaia, costituiscono altrettante formule che, più della fine del capitalismo, della sua improbabile abolizione, permettono la sua formula libertaria.
Naturalmente, l'attuale mutazione del capitalismo non condurrà a questa formula, è evidente. Per ora, assistiamo ai soprassalti della bestia che tenta di disfarsi delle sue pelli morte. E si dimena per apparire più grossa, più forte, più potente, più pericolosa.
Nel frattempo, milioni di «indignati» scendono nelle piazze delle capitali europee per dire il proprio malcontento. E nient'altro... Questa forza inutile perché inutilizzata è puramente protestataria. È una forza anticapitalista — è il suo credo — che non ha nulla di positivo da proporre: non vuole il potere, non vuole aderire a un partito già esistente, non vuole creare una formula originale e inedita di macchina per la presa del potere, non vuole leader — ha torto... Infatti, il serpente del capitalismo postmoderno continua la propria metamorfosi senza aver di fronte niente e nessuno per impedire questa trasfigurazione che rafforzerà la potenza della bestia e, se nulla sarà fatto, la doterà di una terribile ferocia.
La configurazione di tale mutazione, la pericolosità del capitalismo liberale europeo per i popoli, il fallimento dei modelli marxisti, il nichilismo assoluto che pretende d'essere solo protestatario, la minaccia di un nuovo capitalismo ancora più darwiniano obbligano a pensare diversamente gli eventi: la formula anarchica di Proudhon è da reinventare per i nostri tempi. Essa presuppone una rivoluzione senza ghigliottine, senza sangue, senza fili spinati. E se si provasse?
(traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere della Sera La Lettura 20.11.11
Ecco perché il libero arbitrio non è libero
di Edoardo Boncinelli


Una serie di esperimenti sul cervello umano ha portato i neuroscienziati a mettere in discussione una delle grandi verità su cui è fondata la nostra vita quotidiana: la facoltà autonoma di volere e di decidere. Come individui e come collettivo di ALBERTO MELLONI
Sta per essere lanciato negli Stati Uniti un grande progetto interdisciplinare quadriennale, con uno stanziamento di più di quattro milioni di dollari, per far luce sulle questioni fondamentali a proposito del cosiddetto libero arbitrio. Dal punto di vista delle neuroscienze. Il tema è l'esistenza stessa della nostra libertà di volere e di decidere, come individui e come collettivo; un problema vecchio di secoli, ma rilanciato da alcuni sorprendenti esperimenti della nuova scienza del cervello e della mente.
Io sono libero se nessuno decide per me. Questo qualcuno può essere un estraneo, come nella problematica classica, dibattuta più e più volte nella storia, ma può essere anche una parte di me, una parte, ovviamente, nella quale io non mi riconosco interamente. Il problema è tutto qui. Ma come ci può essere venuta in mente un'idea così peregrina e inquietante?
Tutto inizia con la constatazione dell'esistenza di un numero sempre maggiore di «inquilini» che abitano la nostra testa, ovvero della grande varietà di istanze relativamente indipendenti che operano quotidianamente dentro di noi. Marvin Minsky parlò a suo tempo di «società della mente» per indicare questa pluralità di attori presenti nella nostra mente, ciascuno capace di badare a se stesso e di promuovere un certa quantità di attività autonome. In questa maniera la nostra impressione soggettiva di essere un individuo unico e indivisibile si è progressivamente sgretolata.
A questo si deve poi aggiungere l'altra constatazione — vecchia di più di un secolo ma metabolizzata solo molto di recente — che «la nostra mente è sempre l'ultima a sapere», per dirla con Michael Gazzaniga. Che cosa vuole dire? Vuole dire che fra un certo evento nervoso, anche interno, e la sua presa di coscienza da parte nostra passa... un'eternità: più di un terzo di secondo. Sempre e comunque. Meno male che la presa di coscienza non è sempre necessaria, ad esempio per guidare nel traffico o per giocare a tennis o a pallavolo! Se noi dovessimo aspettare di essere coscienti di tutto quello che ci accade, falceremmo molti passanti e falliremmo molte schiacciate; fortunatamente le gambe e le braccia «agiscono» e reagiscono velocemente per conto loro, almeno in prima istanza. Solo dopo, con calma, prendiamo coscienza di alcuni di questi eventi.
E veniamo a noi, cioè al secolare problema del libero arbitrio, che tutti pensiamo, con maggiore o minore sicurezza, di possedere e di esercitare. Il fatto è che trent'anni di neuroscienze ne hanno messo seriamente in discussione l'esistenza. Tutto è cominciato con gli esperimenti di Benjamin Libet, che all'inizio degli anni Ottanta osservò con attenzione l'elettroencefalogramma di una persona che doveva decidere se premere o non premere un pulsante. Ci si rese allora conto del fatto che una parte del cervello del soggetto in questione mostrava un segnale di tipo «motorio» più di mezzo secondo prima che quello premesse effettivamente il pulsante e un terzo di secondo prima di quando lui stesso si dichiarava convinto di aver preso tale decisione. Si trattò di una serie di esperimenti molto discussa, anche perché furono realizzati quando le tecniche impiegate per mettere in risalto gli eventi cerebrali erano ancora ai primordi. Il dubbio, però, era stato insinuato e la problematica riaperta, nel quadro di una generale constatazione che le neuroscienze di oggi — e più in generale gli avanzamenti delle conoscenze scientifiche — ci costringono a rivisitare sistematicamente le idee più comuni della nostra vita, proponendoci di ridefinirne ambiti e significati.
Dopo aver proposto di riconfigurare concetti «scontati» come memoria, desiderio, percezione e coscienza, questi avanzamenti stanno ora mettendo in dubbio l'esistenza stessa della libertà e del cosiddetto libero arbitrio. Cioè la possibilità di prendere una decisione cosciente sull'università a cui iscriversi, o sull'ordinare al bar un caffè nero piuttosto che macchiato. Conoscere più a fondo i meccanismi neurali che stanno alla base delle nostre azioni ha avuto l'effetto di mettere in dubbio la nostra libertà di decidere in piena autonomia, così come l'approfondimento del meccanismo d'azione dei geni ha gettato un'ombra sull'assunto che in condizioni di perfetta salute siamo tutti capaci di intendere e di volere allo stesso grado. Credo personalmente che entrambe le preoccupazioni siano infondate, ma è proficuo e istruttivo rifletterci sopra.
Gli esperimenti di Libet sono stati ripetuti e confermati più volte, nonostante un certo scetticismo di molti operatori del campo, fino a che nel 2008 John-Dylan Haynes e il suo gruppo hanno ripreso il problema, utilizzando metodiche diverse e molto più raffinate, e chiedendo al soggetto di fare anche la scelta fra due diversi pulsanti da premere. Scrutinando l'intero cervello del soggetto in questione con la risonanza magnetica funzionale, i ricercatori hanno osservato che uno specifico evento cerebrale si presentava con qualche secondo di anticipo sul compimento dell'azione e certamente con largo anticipo rispetto a quando il soggetto affermava di aver preso la decisione.
Anche questa serie di esperimenti è stata però oggetto di varie critiche, sul versante tecnico e su quello teorico. La neurofilosofa Adina Roskies ha commentato che nella migliore delle ipotesi tutto questo non dimostra nient'altro che l'esistenza di fattori fisici in grado di influire sulle nostre scelte, «il che è tutto fuorché sorprendente». Ma Haynes non si è rassegnato e ha compiuto altri esperimenti, nei quali ha raffinato ulteriormente la metodologia di indagine e ha chiesto al soggetto di prendere un diverso tipo di decisione: sommare oppure sottrarre un numero da una lista visualizzata sullo schermo di un computer. Anche per questo caso più complesso di decisione, l'esito può essere comunque previsto con un anticipo di quattro secondi.
Dobbiamo rinunciare allora al concetto di libero arbitrio e all'idea di essere padroni delle nostre azioni? Come si vede, l'interpretazione dei risultati è ancora piuttosto controversa, e d'altra parte, se questi dati escludono veramente l'esistenza del libero arbitrio oppure no, dipende anche molto da una sua definizione, cioè dall'avere preliminarmente chiarito che cosa vuol dire: «A decidere sono stato io».
Se il mio io si estende a tutto il mio corpo, allora non c'è dubbio che a decidere sono sempre io, ovviamente in assenza di coercizioni esterne. Se invece il mio io è visto come un'istanza immateriale di natura autoreferenziale e distinta dal corpo stesso, allora l'esistenza del libero arbitrio è seriamente messa in dubbio da questa serie di indagini sperimentali.

Corriere della Sera La Lettura 20.11.11
Nel nome della madre
Amore o conflitti: un rapporto fecondo narrato (soprattutto) dalle figlie
di Cristina Taglietti


La figura della madre oggi è al centro di molti dibattiti culturali. La filosofa Elizabeth Badinter ha ripercorso nel suo ultimo libro mezzo secolo di emancipazione femminile per individuare, nella società contemporanea, una retorica della maternità che intrappola le donne; il film Quando la notte di Cristina Comencini, è stato vietato ai minori di 14 anni perché il rifiuto e la violenza di una madre sul figlio, al centro del racconto, è considerato un fatto troppo innaturale e perturbante. Eppure basterebbe la letteratura a ricordarci che la madre perfetta non esiste. Quel gorgo di desiderio, amore incondizionato, mancanza, frustrazione che trascina con sé molti rapporti madre-figlio (soprattutto madre-figlia) ha nutrito e continua a nutrire la poetica dei narratori, a cominciare da Simone de Beauvoir che scriveva: «Non ci sono madri snaturate perché l'amore materno non ha nulla di naturale».
In quello che può essere considerato un vero e proprio filone si trovano toni e prospettive diverse a seconda del soggetto che si prende in carico la narrazione. A volte sono le madri a raccontare le figlie e allora sembra prevalere un tono percorso dal senso di colpa o di inadeguatezza, dalla paura di una vera o presunta propria inettitudine. È così nel nuovo libro di Joan Didion Blue Nights, appena uscito in America, ideale seguito (e finale) de L'anno del pensiero magico che ha un precedente diretto in Paula, il romanzo che Isabel Allende ha dedicato alla figlia morta per una malattia rara. Il romanzo della Didion è su Quintana, la figlia adottata con il marito John Gregory Dunne, scomparsa nel 2005 a 39 anni, venti mesi dopo il padre, ed è un momento di ricordo ma anche di dubbio e interrogazione su se stessa. La Didion, ha scritto la critica Michiko Kakutani sul «New York Times», gira continuamente intorno ai temi che la turbano: la paura di non aver capito i timori di abbandono che Quintana, in quanto figlia adottiva, aveva; la preoccupazione di averle imposto le sue aspettative quando era piccola e anche il timore che Quintana la vedesse come una donna fragile e bisognosa di attenzione, di cui prendersi cura piuttosto che come una madre in grado di dare cura.
Senso di colpa, paura della propria inettitudine, la maternità come vera e propria conquista, sono anche gli elementi de L'amore imperfetto di Irene Di Caccamo con cui Benedetta Centovalli ha segnato il suo esordio come editor della casa editrice Nutrimenti. È la storia di una donna che perde il suo uomo in un incidente stradale e pochi giorni dopo scopre di aspettare un figlio. Potrebbe essere un nuovo inizio, all'insegna della speranza, ma per la protagonista, che non si sente pronta a quella maternità arrivata per caso, è la presa di coscienza della sua incapacità a occuparsene. Per una madre che si nega alla maternità (o meglio al figlio) ce n'è un'altra, una ragazza dell'Est, separata dal suo bambino, che la accoglie e se ne fa carico, in una sorta di relazione surrogata.
Altre volte (ma più raramente) sono i figli maschi a raccontare le madri, come ha fatto Tahar Ben Jelloun nel 2007 (Mia madre, la mia bambina sulla madre malata di Alzheimer) o come ha appena fatto Emanuele Tonon (La luce prima) che ha intessuto un lamento di dolore e di amore intorno alla madre scomparsa improvvisamente in uno dei libri italiani più intensi degli ultimi tempi. Un romanzo senza grazia, espressivo, un'autofiction dove il centro di tutto è questa «madre piccola», che non viene quasi mai evocata direttamente. La sua storia di giovane donna del Sud che rimane incinta e tuttavia decide di tenere il figlio, viene raccontata attraverso frammenti. Il libro ha ispirato ad Antonio Moresco una lettera-recensione (pubblicata da «Affari italiani») dove chiama in causa il suo di rapporto con la madre: «Tu porti sulle tue spalle il fardello e il trauma di un'accettazione totale — scrive Moresco —. Io porto sulle mie spalle il fardello e il trauma di un abbandono. Tu hai cercato di fuggire da questo terribile vincolo, da questo buco nero e da questo destino. Io non ne ho avuto bisogno perché sono stato scacciato e abbandonato nel bosco. Tu sei stato amato. Io no. Avrei preferito il contrario? Che cosa è meglio? Qual è la madre migliore? Quella infinitamente buona o quella folle e feroce? Forse, tra noi due, sono stato io ad avere il dono più grande».
La domanda di Moresco investe non solo l'ambito letterario, dove, peraltro, è evidente che è sopratutto il secondo modello — la madre folle, insufficiente, anaffettiva — quello più fecondo e più praticato. Sono perlopiù storie raccontate dalle figlie come quella di Donatella Di Pietrantonio che lo scorso anno ha esordito nella narrativa con il racconto (Mia madre è un fiume) di un rapporto madre-figlia aspro come il paesaggio d'Abruzzo in cui è ambientato. La madre insufficiente e tuttavia «luce prima», per citare l'espressione di Tonon, che attrae le figlie nel continuo sforzo di venirne illuminate è il centro di tutta l'opera di autrici di epoca e provenienza diversa come Irène Némirovsky e Joyce Carol Oates. La loro narrativa si nutre, in maniera continuata e non occasionale, di una relazione basata su una supremazia materna che si fa tanto più invadente quanto più la figura è mancante. Così Iréne, amata dal padre e detestata dalla madre, un'ebrea russa emancipata figlia di un ricco commerciante di Odessa, donna colta, inquieta e un po' isterica, portata a un certo decadentismo cosmopolita, che vedeva nella figlia la fine della sua giovinezza (temeva che i suoi baci le rovinassero il trucco), riversa nei suoi romanzi (Jezabel e Il vino della solitudine soprattutto, ma anche Come le mosche d'autunno, La nemica, Il ballo), tutto l'irrisolto di quel rapporto in cui si sentiva come una barriera tra i piaceri della vita e i doveri della maternità.
Per lei, come per la Oates con le sue madri nevrotiche (i padri non esistono quasi nei suoi libri), i romanzi sono una sorta di camera di compensazione, un'infinita e mai quieta seduta di psicoanalisi come se quel centro infuocato, quel grumo di odio e risentimento che riveste ogni brandello di un rapporto tirannico non potesse che trovare uno scioglimento nel racconto e nella condivisione.

Corriere della Sera La Lettura 20.11.11
Il debito di Kant con la Bibbia
di Luca Valzesi


Il filosofo tedesco è considerato il punto più alto dell'Illuminismo. Ma la sua produzione è ricca di riferimenti ai testi sacri. A cominciare da San Paolo
F ede e ragione hanno conosciuto nell'Illuminismo le più vive fasi del loro scontro immortale. O si pensa o si crede, e chi crede senza pensare rischia di rimanere intrappolato in un oscuro stato di minorità. Così professavano molti audaci esponenti del pensiero illuminato, figli di una modernità che aveva conosciuto il piano inclinato di Galileo e la mela newtoniana. Il nuovo modo di pensare, il nuovo metodo, doveva così ergersi a garante della scienza e abbattere col metodo matematico i castelli metafisici che tanto avevano fruttato al tentacolare soglio pontificio.
Immanuel Kant (1724-1804) è considerato il punto più alto dell'Illuminismo, chiave di volta nell'arco evolutivo del pensiero occidentale. Eppure la visualizzazione qui riportata mostra dei dati inaspettati. Il grafico vuole essere la rappresentazione di un lavoro di ricerca storiografica sulle fonti, che ha fatto emergere quanto sia profondo e significativo il debito kantiano con il Testo Sacro. La Bibbia, la fonte di sapere dogmatica per eccellenza, mostra qui il suo imponente contributo nel libero pensiero di Kant (di cui è appena uscita una biografia per Il Mulino a cura di Manfred Kuehn).
Il grafico è stato costruito nella figura di tre cerchi concentrici, il primo dei quali indica le opere prese in esame, collegandole al secondo dove vengono indicati i termini che in queste tradiscono un confronto con i testi sacri; il cerchio più esterno indica poi le specifiche sezioni bibliche citate da Kant indicandone i versetti. Ogni cerchio è costruito con un diametro direttamente proporzionale al numero di ricorrenze, rendendo infine evidente la maestosa presenza dell'epistolario paolino nel corpus kantiano. Numeri e ricorrenze, dati raccolti e catalogati ci mostrano così la vivacità dello scontro tra fede e ragione. Un conflitto, questo, che non vuole un vincitore, ma che cerca nella sua stessa potenza il principio del progresso e del sapere. Una realtà come questa ci dimostra che un pensiero, per quanto libero e forte, non rinnega la fede ma la interroga e la indaga, come una vicenda umana figlia della speranza e fonte di conoscenza.

Corriere della Sera La Lettura 20.11.11
Einstein non twitta
La scienza si farà sempre in laboratorio
di Sandro Modeo


Il 7 agosto 2007 una giovane insegnante olandese, Hanny van Arkel, sta navigando sul Galaxy Zoo, un progetto online in cui 200 mila volontari devono «censire» le foto di 150 milioni di galassie, classificandone la geometria ellittica o a spirale. A un certo punto, osservando la IC 2497, van Arkel vede un'immensa, inspiegabile macchia. Ricevuta la segnalazione dell'«oggetto», gli astrofisici cominciano a studiarlo: ma nonostante le tante ipotesi (un quasar o un nucleo galattico attivo) quella macchia è ancora oggi un «fantasma cosmico».
L' «oggetto di Hanny» è senz'altro un caso avvincente, e il Galaxy Zoo una dimostrazione delle potenzialità organizzative del lavoro online. Ma il fisico di Los Alamos Michael Nielsen li ha eletti a casi esemplari per puntellare la sua tesi, in un libro appena uscito negli Stati Uniti e già molto discusso (Reinventing discovery, «Reinventare la scoperta»): l'idea, cioè, che una nuova «scienza aperta» online — modellata, per intenderci, sul sapere metamorfico e incessantemente aggiornato di Wikipedia — possa aprire prospettive inedite all'«intelligenza collettiva» e incrementare la trasparenza e la diffusione della scienza stessa, unificando scienziati, «amatori» e lettori in una ricerca comune.
Come tanti sociologi, Nielsen — va detto subito — sembra sopravvalutare il diaframma che separa il mondo online dall'offline. Molti presunti break di questa nuova era diventano così un esercizio tautologico, con cui vengono spostati sulla «nuvola» della Rete tanti caratteri costitutivi dell'operare scientifico: lo stesso procedere aperto, la cooperazione tra scienziati, la prassi condivisa di metodi e linguaggi, l'occasionale irruzione di un «genio della domenica» (come l'informatico Don Swanson, che ha scoperto l'incidenza del deficit di magnesio nelle emicranie). Certo, con la Rete, la scienza può fruire più di altri versanti di un'accelerazione-estensione del confronto: vedi il Polymath Project, in cui alcuni matematici di punta hanno risolto dei problemi in tempi molto inferiori alla norma. Ma questo, da un lato, non vale per discipline come la fisica o la biologia, in cui la verifica sperimentale non può prescindere dal laboratorio; dall'altro, le modalità operative di un'intelligenza collettiva scientifica online (come una divisione del lavoro «dinamica», più simile all'alveare che alla catena di montaggio) possono portare a scoperte più descrittivo-osservative (come l'«oggetto di Hanny») che a svolte esplicative o cognitive.
Al momento, la prospettiva di Nielsen può fornire giganteschi e spettacolari regesti (come il Galaxy Zoo), repertori statistici di servizio (i dati Google sui picchi influenzali) o esempi efficaci di problem-solving (il lavoro di gruppo per migliorare Linux). In definitiva, si tratta di conquiste legate più alla tecnologia e alla comunicazione che alla scienza. E del resto è Nielsen stesso, elencando nel finale del libro gli ostacoli alla sua proposta (la violazione della sicurezza degli Stati, l'hackeraggio delle banche dati, l'evanescenza dei blog, la psicologia e gli interessi economici degli scienziati) a suggerirne il rischio intrinseco: un mix di utopica «mistica della trasparenza» alla Assange e cyber-populismo.
Ma il punto più ambiguo è che l'insistenza di Nielsen più sulla necessità di «democratizzare la scienza» (di espugnarne la presunta supponenza autistica) che sulla necessità opposta (quella di estenderne l'incidenza socio-politica e cognitiva), può offrire carburante alla diffusa ostilità scientifica, specie nel nostro Paese. Può essere allora utile accostare a un libro di tendenza come quello di Nielsen un libro di sostanza come quello di Gilberto Corbellini; un libro che fin dal titolo (Scienza, quindi democrazia) rovescia la prospettiva, dimostrando come sia stata proprio la scienza, almeno in Occidente, a fare da catalizzatore non solo per la democrazia, ma anche per il diritto e il libero mercato.
Basterebbero, a provare la tesi di fondo, le due sequenze più eclatanti depositate nell'immaginario collettivo dell'esemplarità democratica: la Grecia del V secolo a.C., in cui la razionalità istituzionale è tutt'uno con la rivoluzione cognitiva introdotta dal pensiero astratto-naturalistico; e l'America della Dichiarazione d'Indipendenza, in cui i Padri Fondatori (da Jefferson a Franklyn) si ispirano esplicitamente a Newton ed Euclide.
Ma risalendo al «tempo profondo» della biologia evoluzionistica, Corbellini va molto oltre. Lo snodo decisivo è il passaggio dalle esigue comunità tribali (egualitarie ma gerarchiche) alle società complesse successive alla rivoluzione agricola del Neolitico e all'urbanizzazione. Da quel momento, gli schemi adattativi «rudimentali» (intuitivi e legati al senso comune) dovranno essere integrati da altri, «innaturali» e controintuitivi: quegli schemi che permettendo di comprendere, per esempio, la rotazione della Terra intorno al Sole, porteranno alla scrematura della forma mentis della scienza moderna. In quest'ottica, sarebbero proprio i connotati del metodo e dell'istituzione scientifica (competenza, trasparenza del conflitto, capacità di auto-correggersi) ad aver strutturato quelli, non meno artificiali, della democrazia.
Dopo di che, come in un feedback, sta alle democrazie favorire la diffusione della scienza (e non solo della cultura umanistica) come antidoto alla propria degenerazione. Richiamando una preoccupazione degli stessi Padri Fondatori americani, Corbellini dimostra infatti come solo una società (scientificamente) alfabetizzata possa dare senso pieno al suffragio universale e impedire che una democrazia si riduca da sostanziale a meramente elettorale. E proprio perché un'alfabetizzazione scientifica deve confrontarsi con la controintuitività e la complessità concettuale, la Wiki-scienza di Nielsen non può bastare. Tutto dipende da un'adeguata istruzione scolastica, che vede il nostro Paese più in ritardo di altri. Se lo «scontro di civiltà» in corso passerà anche da un confronto di classi dirigenti, la nostra arretratezza presente rischia di diventare il miglior investimento sulla decadenza futura.

La Stampa 21.11.11
2012, vacanze in Iraq sulle tracce di Abramo
Dopo l’esposizione virtuale di Baghdad un team italiano riapre il sito archeologico di Ur e il museo di Nassiriya
di Francesco Rigatelli


La ziqqurat di Ur (2112-2095 a.C.), dedicata al culto del dio della luna Nanna. Intorno si trovavano un tempio, un palazzo e la «casa della sacerdotessa»
Dalla Preistoria all’Islam, i millenni online
IL SITO DEL MUSEO VIRTUALE DELL’IRAQ ( WWW.VIRTUALMUSEUMIRAQ.CNR.IT ) È GIÀ OPERATIVO. DOPO L’ EXPO DI SHANGHAI 2010 SARÀ PRESENTATO IN OCCASIONE DEGLI EUROPEAN DEVELOPMENT DAYS CHE SI TERRANNO A VARSAVIA IL 15 E IL 16 DICEMBRE

C’è tutta l’umanità della nostra gente in questa storia di antichità, ricchezza, religione e cultura.
Ci sono i diplomatici che nel 2003 pensano a come intensificare i rapporti culturali con l’Iraq, per cui nel frattempo partono i soldati. Ci sono gli interessi economici per un territorio ricco di petrolio. Ci sono gli studiosi che stringono i contatti coi corrispondenti locali. E poi ci sono le opportunità che anche un territorio di guerra può offrire. Prima e dopo.
Perché, per esempio, nel 2012 l’irachena Najaf diventa capitale culturale del mondo islamico. Il che significa l’aumento di quel flusso turistico che già ora incredibilmente arriva soprattutto dal mondo sciita. Tanto che gli archeologi italiani ci hanno visto un’opportunità. Dopo il successo del museo virtuale dell’Iraq, forti di rapporti come solo loro hanno saputo costruire, ora intensificano le attività nell’area di Ur, la città di Abramo. Fortuna vuole che il primo patriarca del Cristianesimo come dell’ Ebraismo sia considerato un profeta pure dai musulmani. Insomma, nel 2012 potrebbe diventare una meta turistica per tutti. Inoltre ad Ur voleva venire a pregare Giovanni Paolo II e Benedetto XVI pare interessato a realizzare quel desiderio papale. Così l’antica Mesopotamia ha tutte le potenzialità di diventare luogo di pellegrinaggio interreligioso e multiculturale. Archeologi, sacerdoti d’ogni culto, diplomatici e imprenditori si preparano.
A Najaf, solo per raccontare del caso più eclatante, il ruolo di capitale culturale ha già fruttato la costruzione dell’aeroporto, di alberghi e ristoranti. Non si tratta solo del turismo, infatti, ma delle ricadute sull’occupazione, sull’idea di futuro e sulla stessa identità del paese. Nuovi restauratori, guide turistiche, addetti museali stanno per essere formati dal progetto «Le colline di Abramo» promosso dal coordinatore della Task Force Iraq Massimo Bellelli, dal responsabile scientifico del Museo virtuale di Baghdad Massimo Cultraro, dall’ambasciatore iracheno Saywan Barzani e di cui racconta l’archeologa Stefania Berlioz nell’intervista qui a fianco. L’intenzione degli italiani è di salvaguardare le strutture archeologiche, rendere attrattivo il territorio, ampliare gli itinerari turistici, valorizzare il museo di Nassiriya e promuovere il patrimonio dell’area del Dhi Qar. «Ci è possibile grazie alla fiducia e ai rapporti costruiti negli anni», spiega Berlioz. L’Italia e l’Iraq - è il vanto di chi lavora tra il Tigri e l’Eufrate - detengono gran parte dei beni archeologici mondiali. «Naturale una cooperazione», sottolinea Berlioz accompagnata dall’antropologa Anna Maria Cossiga, autrice di un libro sull’argomento (vedi box sotto): «Vogliamo far ripartire la macchina del turismo. Sono interventi richiesti dagli iracheni stessi. Cooperazione significa infatti lavorare insieme. C’è un dare e avere, certo, interessi economici compresi, ma non è negativo. Significa che si fanno dei patti e che ci sono dei buoni motivi per portarli avanti nella reciproca soddisfazione».