martedì 22 novembre 2011

l’Unità 22.11.11
Il leader Pd insiste sulla lotta all’evasione e la tassazione dei grandi patrimoni immobiliari
Apertura sulle pensioni con meccanismi di incentivi-disincentivi. No a forzature sull’art. 18
Bersani: mandiamo giù qualche rospo ma niente veti Pdl
Il segretario Pd apre alla riforma della previdenza, con misure di flessibilità in uscita, ma torna a chiedere la tassazione sui grandi patrimoni immobiliari. «Pronti a mandare giù qualche rospo» ma no ai diktat.
di Maria Zegarelli


«Pronti a mandare giù qualche rospo» ma dal momento che il Pd non mette «condizioni» non accetta «che altri ne mettano». Altri, cioè Silvio Berlusconi. Pier Luigi Bersani, parlando dai microfoni di Baobab» a Radiouno, stoppa il tentativo dell’ex presidente del Consiglio di dettare le regole del gioco e ricorda che «qui non c’è una coalizione, questo è un governo di impegno nazionale rispetto al quale ognuno si deve prendere la propria responsabilità» e se Berlusconi dice no al principio secondo cui chi ha di più deve dare di più, allora i democratici diranno la loro. Perché è evidente che nel «pacchetto» di provvedimenti a cui sta lavorando il presidente del Consiglio ci saranno misure non sempre condivisibili, «i rospi» da mandare giù appunto come il capitolo «previdenza» ma il boccone per il Nazareno sarà meno amaro soltanto se sarà accompagnato da altre pietanze come una vera lotta all’evasione e una tassazione sui grandi patrimoni immobiliari.
Se si parte da qui allora sarà più digeribile per tutti, cittadini in primo luogo anche, «laddove si parla di federalismo fiscale», una imposta «locale sui servizi e sulla prima casa, in alternativa alle soluzioni proposte, come ad esempio, i tagli lineari alle agevolazioni».
È in questo contesto che si apre alla discussione sulla riforma previdenziale che, però, non ammette molte deviazioni dalla strada tracciata dal Pd (pur se con «sfumature»): «Un’area di flessibilità di uscita tra 62 e i 68-70 anni, con un meccanismo di incentivi e disincentivi» il cui ricavato «deve essere destinato alla previdenza per i giovani». Bersani sa che la partita sarà dura, «non pretendiamo che questo governo faccia il 100% di quello che vorremmo noi, ma sicuramente le nostre idee saranno al confronto nella sede parlamentare».
Altro tema caldo è la riforma del mercato del lavoro. Meglio «non drammatizzare», avverte il segretario, sul tema dell’articolo 18 perché non riguarda il 90% delle imprese, molto più utile disincentivare il lavoro precario decidendo che «un’ora di lavoro stabile costi meno, risulti più conveniente». Bersani dice anche di aver apprezzato quel passaggio del discorso di Monti «che ha inteso riaprire un confronto con le parti sociali sull’accordo del 28 giugno dopo anni in cui si è puntato sulle divisioni», ma quelle questioni, aggiunge, vanno affrontate «nel dialogo sociale».
BRACCIO DI FERRO
E se è vero che la linea politica del Nazareno fin qui si è dimostrata vincente, in termini di consenso, (il Pd sfiora il 30% e il segretario è il leader politico di cui si fidano di più gli italiani, secondo l’ultimo sondaggio Ipsos) è pur vero che la prova del nove arriverà soltanto con le misure concrete che il governo presenterà. È su quelle che si consumerà il braccio di ferro tra Pd e Pdl -Ici, patrimoniale, pensioni perché questa è una fase di transizione, ma le elezioni saranno «la grande partita che si giocherà».
E probabilmente un altro braccio di ferro si consumerà altrove, in Europa, dove Monti ha annunciato di volersi sedere restituendo all’Italia il posto che le spetta. Ne è convinto Bersani, perché, dice, «oggi siamo in un’altra situazione, siamo a fianco dei grandi paesi europei, mi auguro cercando di correggere la linea di politica economica europea che fin qui si è dimostrata largamente insufficiente». Dunque, superare le politiche della destra di Merkel e Sarkozy, perché «un’Europa azzoppata non riesce a fare una politica seria e comune sul debito e sugli spread» e il non aver garantito la Grecia «a causa dell’egoismo nazionale» ha fatto dilagare il virus che «ha contagiato tutti». Insomma, basta «letterine», l’Italia farà i suoi «compiti», ma se non si fa «fronte comune sul serio» non si salverà nessuno.

Il Riformista 22.11.11
La crisi e la prospettiva
Ricostruire il socialismo europeo
di Emanuele Macaluso


“Il voto spagnolo è chiaro e netto: ha vinto, acquisendo la maggioranza assoluta, il partito conservatore di Mariano Rajoy e ha perso, malamente, il partito socialista di Zapatero e Alfredo Perez Rubalcaba. “Gioia e preghiera alle radio dei vescovi”, il Corriere titola un articolo di Aldo Cazzullo. «È finita la guerra contro la Chiesa e ora dice il direttore di quella radio una parte del nostro mondo vive la vittoria del PP come una riconquista cattolica».
E lo stesso direttore, però, chiarisce che il partito di Rajoy «non è quello di Sturzo e di Martinazzoli», è una formazione «laica». Non è nemmeno assimilabile al coacervo personale di Berlusconi. Si tratta di un partito conservatore in cui ha un gran peso l’influenza della Chiesa.
Questo articolo non serve a esaminare le ragioni della sconfitta di Zapatero su cui già si discute in tanti giornali e su cui rifletteremo anche noi. Oggi mi preme osservare che in Europa, dove imperversa una pesante crisi economica e sociale, l’Ue, e tutti i governi che contano, sono guidati da forze democratiche conservatrici. Le quali, ora, cercano di mettere insieme una politica comune. Monti ha chiesto e ottenuto una riunione a “tre” con la Merkel e Sarkozy (non più a “due”); ma anche con la elezione di Rajoy in Spagna le cose cambiano.
La Grecia si è adeguata a questa nuova situazione. Vedremo cosa diranno i “tre”. L’Italia ha una posizione particolare perché il governo Monti non è assimilabile ai conservatori europei, e perchè una delle gambe che lo reggono è quella del Pd.
Tuttavia, ecco il punto su cui ragionare, l’impianto fondamentale della politica europea per fronteggiare la crisi non si discosterà da quello, per esempio, indicato dalla Bce per l’Italia. Sull’altra sponda, quella dei partiti socialisti, sul piano europeo non si intravede una linea politica comune: né alternativa a quella dei conservatori, né di sostanziale correzione su questioni centrali come la riforma del welfare e il ruolo dell’intervento pubblico. L’iniziativa dei partiti della sinistra si svolge solo sul piano nazionale, mentre la politica dei conservatori ha il crisma dell’Ue e dell’europeismo. Anche i sindacati operano “sparpagliati”, come l’opposizione radicale in Grecia e con sconfitte certe, o con piattaforme nazionali di contenimento delle politiche conservatrici.
Sia chiaro, io non penso che ci sia una politica di radicale alternativa, di sistema, a quella indicata dalle strutture europee, ma manca una dialettica, una lotta sociale e politica a livello europeo per soluzioni in cui, come ha detto lo stesso Monti, il risanamento e lo sviluppo siano coniugati con l’equità sociale. Le sinistre radicali propongono di uscire dall’Ue, di tornare alla moneta nazionale e a pratiche protezionistiche. In assenza di una proposta europea, le sinistre nazionali si troveranno nelle condizioni di aderire o opporsi radicalmente, con il risultato già visibile, non solo in Italia, di dividersi. La posizione del Pd, oggi, somiglia a quella dei socialisti italiani nella prima guerra mondiale: né aderire, né sabotare. Lo stesso sarà per il sindacato. Ma, la sinistra riformista è tale se è europeista e si batte per l’integrazione politica, se chiama i lavoratori e i popoli a partecipare e democratizzare l’Ue.
Questo scritto serve, se serve, per dire ancora una volta che il Pd, il quale non è nel partito socialista europeo, ma con esso ha un rapporto positivo e sta con i socialisti a Strasburgo nel gruppo parlamentare, dovrebbe promuovere un incontro e tentare di costruire una posizione comune.
Lo stesso dico ai sindacati. La sconfitta dei socialisti spagnoli è, ancora una volta, la sconfitta del “socialismo nazionale”. Dobbiamo ricostruire il socialismo europeo. Non c’è un’altra strada.

Repubblica 22.11.11
Quanto sono politici i tecnici
di Nadia Urbinati


Si continua a definirlo "tecnico" eppure questo guidato dal senatore Mario Monti è un governo a tutto tondo politico; molto più del governo Berlusconi che lo ha preceduto.
Politico nel senso più pregnante del termine: perché ha riportato le questioni che interessano il nostro destino – nostro come società e come Paese – al primo posto, come dovrebbe essere (ed è sperabile che ciò restituisca all´Italia una forza di negoziazione con i partner europei che aveva perso e di cui ha bisogno). Per anni ci eravamo dimenticati che il governo deve occuparsi delle cose che riguardano la nostra vita, non la vita di chi governa. Per anni abbiamo assistito impotenti a uno spettacolo preconfezionato a Palazzo Grazioli su come Palazzo Chigi doveva operare e per chi: per tre anni le questioni di sesso e di corruttela hanno inondato le nostre giornate, quelle degli interessi del premier tenuto l´agenda politica del Parlamento. E lo si chiamava governo politico. Di politico aveva due cose: era stato l´espressione diretta della maggioranza dei consensi usciti dalle urne e l´esito di un accordo tra alcuni partiti politici. Ma questo non è sufficiente a fare di un governo un governo politico. Questo è il preambolo, la condizione determinante ma non sufficiente.
Il governo Berlusconi, nato politico, si è astenuto dal governare per noi e quando lo ha fatto ha generato problemi invece di risolverli. Per esempio, le norme sulla criminalizzazione dell´emigrazione hanno gettato petrolio sulle fobie razziste senza risolvere i problemi legati al controllo degli ingressi e all´integrazione degli immigrati; per esempio, gli interventi sulla scuola pubblica sono stati proditoriamente fatti per umiliarla e depauperarla avvantaggiando con i soldi dei contribuenti le scuole private. Questi sono i pochi esempi di agire politico del precedente governo, e sono entrambi esempi di cattiva politica, funzionale alle esigenze propagandistiche della coalizione, ovvero nel primo caso per imbonire i fedeli leghisti e nel secondo per tenere l´appoggio delle gerarchie vaticane. Queste scelte "politiche" sono state fatte all´interno di un´agenda di governo che non aveva alcun interesse a fare i nostri interessi. Il governo Berlusconi ha negato l´esistenza della crisi economica e finanziaria per anni, proprio dai primi mesi del suo insediamento, quando ironizzava sullo stato dell´economica degli altri partner europei per mandare agli italiani il messaggio voluto: il suo era il migliore dei governi possibili. Un´agenda politica senza politica.
Il governo del Presidente, com´è stato chiamato questo esecutivo guidato dal professor Monti, non è fatto di politici eletti, e quindi non è politico-partitico. Ma è fatto di cittadini italiani con competenze professionali specifiche. Non è inutile ricordare che chi è cittadino di un Paese democratico è naturalmente politico, perché non può che interessarsi delle questioni che riguardano la vita della società. Non solo chi milita in un partito è politico; e inoltre gli stessi partiti si organizzano grazie a cittadini che sono non politici di professione. La democrazia non ha politici di professione, anche se ha bisogno di stipendiare chi nella divisione del lavoro sociale si occupa degli affari pubblici. Nessuno ha la patente di "politicità" in democrazia, e nessuno può accaparrare per sé la politica e dire che è lui a sapere che cosa sia e come la si faccia (questo è proprio di una mentalità patrimonialistica). Il governo Monti è politicissimo, dunque. E lo è in primo luogo perché ha ricevuto il sostegno del Parlamento che lo ha reso a tutti gli effetti politico. Ma lo è per una ragione ancora più sostanziale, e davvero forte: perché i temi all´ordine del giorno nella sua agenda sono squisitamente politici, solo politici. L´interesse personale è uscito da Palazzo Chigi, che ha ospitato il governo meno politico che l´Italia repubblicana abbia conosciuto, anche se forte dell´alleanza di ferro e famelica tra partiti. Che sia stato incapace di affrontare i problemi politici del Paese è un´ulteriore dimostrazione del fatto che era incapace di essere politico. Dei governi come quello guidato dal professor Monti c´è bisogno perché quelli politico-partitici falliscono.
Il governo Monti è un governo politico, e va giudicato per le scelte politiche che farà. Giudicato per come vuole risolvere i problemi che riguardano la nostra economia, dalle pensioni, alla disoccupazione, al lavoro senza diritti e precario, alla lotta all´evasione fiscale (che è il problema più grave del nostro Paese). Questi obiettivi, che sono per opinione quasi unanime, urgenti e necessari, saranno giudicati per il modo e le strategie con cui il governo proporrà di realizzarli. E i ministri saranno chiamati non solo a rendere conto del loro operato. Nato come non-politico-partitico, questo governo non potrà che essere politico. Per un´altra ragione ancora. Poiché la politica che lo ispira non è per nulla neutrale o tecnica, ma pronunciata moderata, non indifferentista ma con un´evidente simpatia cattolica. Si tratta di qualità o caratteristiche politiche che andranno giudicate dal punto di vista degli interessi generali di tutti gli italiani, non di una parte soltanto, anche se maggioritaria.
In un´intervista di qualche mese fa la ministra, professoressa Elsa Fornero diceva due cose importanti. La prima: se lei fosse nata negli Stati Uniti non avrebbe avuto la possibilità di accedere a un´eccellente formazione universitaria. Leggo questa osservazione importante così: senza una buona scuola pubblica, la selezione dei competenti sarebbe in effetti una selezione di classe. È importante che nel governo ci siano ministri che riconoscono il valore della scuola pubblica. Una prospettiva che il governo che ha appena chiuso i battenti non ha mai avuto. Ridare vigore alla scuola è un obiettivo politico primario per la nostra società, lo è per ragioni economiche e politiche, poiché una democrazia di ignoranti è pericolosa. La seconda osservazione che faceva la ministra Fornero era che lei cestinava gli inviti ai convegni nei quali gli speaker erano solo uomini. L´osservazione è coerente a quella precedente. E riguarda l´eguale dignità: è umiliante dover sempre ricordare a chi tiene i fili delle carriere (che sono in maggioranza maschi) che ci sono donne competenti. I criteri delle eguali opportunità di formazione e del giusto riconoscimento dovrebbero essere la stella polare a guidare le scelte di ogni governo politico. Ed è su queste scelte e in base a questi criteri che l´operato di questo governo dovrebbe essere giudicato da chi in Parlamento decide e controlla, a nome di tutti noi.

Repubblica 22.11.11
Il regista George A. Romero, inventore nel 1968 delle terrribili creature horror, ha ricevuto a Trieste il premio alla carriera. Ci parla dell´attuale cinema di paura, dei suoi progetti per lo schermo e i fumetti
"I morti viventi oggi sono a Wall Street"
di Roberto Nepoti


Il regista prepara un progetto intitolato "Before I wake" sul genere paranormale
I miei esseri erano goffi perché amo la lentezza, oggi i videogame li hanno fatti diventare velocissimi

TRIESTE. Che George A. Romero sia il "padre di tutti gli zombi" non glielo ha mai contestato nessuno. Da quel lontano 1968 in cui, con La notte dei morti viventi, portò sullo schermo quei non-morti, ghiotti di carne umana, diventati poi protagonisti del cinema di paura. E oggi lo sono più che mai, con una quantità di film e soprattutto con una serie televisiva di successo planetario come The Walking Dead (la seconda stagione è in onda su Fox). L´orrida specie ha subìto molte trasformazioni rispetto ai primi zombi di Romero, transitati indenni per una serie di pellicole dello stesso regista fino al recente Survival of the Dead-L´isola dei sopravvissuti del 2009. Al festival "Science+Fiction" di Trieste per ricevere il premio alla carriera dalle mani del suo vecchio complice Dario Argento, Romero sogghigna sotto i baffi bianchi di ironico settantunenne.
«Vuol sapere le differenze tra i miei morti viventi e quelli odierni? Beh, i miei sono zombi senza cervello, goffi e lenti perché a me piace la lentezza. I loro discendenti di oggi, invece, sono diventati ipercinetici, velocissimi. E´ la conseguenza dei videogame, che hanno contribuito a renderli così popolari presso i ragazzi. I videogiochi esigono la velocità, ed ecco il motivo per cui il merchandising li ha velocizzati anche al cinema. Il fatto è che dei morti non possono andare così rapidi: così, più che morti, i nuovi zombi sono esseri infettati da qualche tipo di virus».
Come giudica la serie tv The Walking Dead?
«Non ho voluto collaborare alla serie né dirigerne episodi perché quegli zombi non sono il mio marchio, non mi ci identifico. Però riconosco che è molto ben fatta e non mi meraviglia che sia popolare. Certo che un po´ di anni fa, ai tempi della Notte dei morti viventi e anche dopo, quando ho collaborato con Dario Argento per Zombi, una serie così sarebbe stata impensabile in televisione».
I suoi film sono sempre stati, in senso lato, politici. Negli zombi non è difficile vedere significati metaforici, o addirittura "di classe". La presenza di tanti morti viventi sul piccolo e grande schermo di oggi indica che il mondo dei vivi è di nuovo in tumulto?
«Gli zombi rappresentano la catastrofe e gli umani si mostrano sempre incapaci di fronteggiare la catastrofe. Oggi? Tra i militanti del movimento Occupy Wall Street ne ho visto uno, mascherato da zombi, che mangiava dollari. Attualmente gli zombi sono i padroni di Wall Street. È questo che si dovrebbe mostrare. I film che ho fatto sono sempre stati basati sull´opposizione tra poveri e ricchi. Però i miei zombi sono troppo scemi, non sanno la matematica e non s´intendono di economia: non vedo proprio come potrei collocarli all´interno della crisi economica».
Non dirà che intende rinunciare ai morti viventi?
«Proprio no. Sto lavorando a due nuovi progetti che li riguardano. Uno è ambientato ai confini del Texas, con zombi messicani come immigrati clandestini. L´altro è basato sul romanzo "The Zombi Autopsies" di Steven Schalzman, che è un medico, e ha a che fare con una nuova specie di zombi evoluti. E scrivo anche delle storie per i fumetti Marvel, con supereroi contro morti viventi. Ma quel che preferisco resta sempre il cinema».
In che rapporti è con gli effetti speciali? Oggi sono indispensabili ma lei, ai tempi della Notte dei morti viventi, li usava ben poco.
«Sì, nei miei set era tutto molto artigianale, perché gli effetti fisici danno un maggiore senso di realtà rispetto a quelli digitali. Nel primo addirittura, che era in bianco e nero, usai sciroppo di cioccolato al posto del sangue. Negli ultimi film però li ho usati di più: non per scelta, ma perché con i trucchi digitali si fa più in fretta e i tempi di lavorazione di un film si sono ristretti».
Cosa pensa delle commedie nere e demenziali con gli zombi, come i recenti L´alba dei morti dementi e Benvenuti a Zombieland, che in America hanno avuto tanto successo?
«Per la verità non lo avrei mai sospettato. In effetti negli ultimi film ho messo qualche gag. Quando ero un ragazzino appassionato di cinema adoravo gli horror comici, le parodie di Dracula o del mostro di Frankenstein. E a pensarci bene anche gli zombi sono comici, un po´ alla Chaplin. E´ divertente far loro del male e nessuno si sente troppo colpevole. In passato ho avuto parecchie proposte per trasformare La notte dei morti viventi in un musical da rappresentare a Broadway, ma i copioni non mi convincevano e non se ne è fatto nulla. Però, ormai, i diritti di quel film sono scaduti e proposte del genere non mi riguardano più. Gli zombi sono di dominio pubblico».
Quale futuro prevede per il genere?
«Previsione difficile. Non si capisce troppo bene dove l´industria cinematografica stia andando e dove possa arrivare. Secondo me è possibile che tornino in auge le storie di spettri. Io stesso ci sto pensando, con un film che si dovrebbe intitolare "Before I wake". Per ora si è aperta un varco la serie Paranormal Activity, che però mi piace poco».

l’Unità 22.11.11
Il Consiglio di Stato contro il decreto di governo che istituiva lo «stato di emergenza»
«Intenti di discriminazione etnica e razziale». Nella capitale tanti soldi spesi e nessun risultato
Nuova batosta per Alemanno
Il Piano Nomadi è carta straccia
Il Consiglio di Stato ha bocciato definitivamente il Piano Nomadi varato dal governo Berlusconi e le sue declinazioni cittadine attuate dai «sindaci sceriffo» in particolare nella capitale e a Milano.
di Luciana Cimino


Dopo la bocciatura dell’Onu (che aveva parlato di «sistematica violazione dei diritti umani») anche il Consiglio di stato si pronuncia, e stavolta definitivamente, sul Piano Nomadi del Governo Berlusconi e sulle sue declinazioni cittadine attuate dai «sindaci sceriffo» in particolare a Roma e a Milano. Va azzerato. Bocciata la linea della Lega e soprattutto il piano del sindaco Alemanno, un buco nero di sperpero di denaro pubblico.
Il 16 novembre scorso, con sentenza n. 6050, il Consiglio di Stato ha statuito «l’illegittimità del decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 21 maggio 2008» con il quale si istituiva lo «stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi» e si emettevano alcune ordinanze attuative per nominare i prefetti di Roma, Napoli, Milano, Torino e Venezia, e i «commissari delegati per la realizzazione di tutti gli interventi necessari al superamento dello stato di emergenza» in quelle regioni. Per quanto riguarda la città di Roma, il prefetto-commissario Giuseppe Pecoraro, il 31 luglio 2009, in veste di «commissario straordinario per l’emergenza nomadi» ha presentato, insieme al Comune di Roma che lo sponsorizzò tantissimo visto che ci aveva costruito sopra gran pare della campagna elettorale, il Piano Nomadi.
La sentenza di Palazzo Spada nasce proprio da qui: il Consiglio di Stato non solo ha rigettato il ricorso in appello della presidenza del Consiglio dei ministri, del ministero dell’Interno, del dipartimento della protezione civile e delle prefetture di Roma, Milano e Napoli contro la sentenza dell’1 luglio 2009 del Tar di Roma che aveva emesso un primo verdetto favorevole per l’Errcf (European Roma rights centre foundation) ma ha anche accolto il contro ricorso dell’associazione sugli «intenti di discriminazione etnica e/o razziale nei confronti della comunità rom».
Per il Consiglio di Stato «le motivazioni sono insufficienti per decretare lo stato di emergenza per un pericolo più paventato che realmente esistente». Decadono, quindi, anche le ordinanze presidenziali di nomina dei commissari delegati per l’emergenza e tutti gli atti successivi. In sostanza nulla di quanto fatto è più valido. «È una sentenza da marziani» ha tuonato il leghista Matteo Salvini che ha annunciato l’intenzione di avviare a Milano una raccolta firme a favore.
CHE SUCCEDE
«Ho appreso di questa sentenza ma non siamo ancora in grado di interpretarla esattamente per sapere quali sono le conseguenze» commenta a caldo Alemanno. Ma le conseguenze, almeno su Roma, invece ci saranno e sono importanti. Tanto che festeggiano le associazioni per i diritti umani e i partiti di sinistra dal Pd a Sel. In base alla sentenza si smonta il piano nomadi capitolino perché non sono legittime le procedure di identificazione che le autorità romane stanno svolgendo tra i rom (il famoso censimento da più parti giudicato xenofobo perchè condotto su base razziale); illegittima la norma che impone i vigilantes nei 7 «villaggi attrezzati» della città; è illegittimo l’obbligo per i rom di sottoscrivere una dichiarazione di impegno al rispetto delle norme interne di disciplina per risiedere nei campi; è illegittimo il «Dast», la tessera che consente di accedere nei «villaggi attrezzati».
E poi c’è la questione del campo «La Barbuta», per il quale finora sono stati spesi 10 milioni di euro. Dopo infinite traversie il campo doveva essere consegnato il prossimo 15 dicembre, pronto per ospitare circa 650 rom. Ma poggia su una falda acquifera, è situato vicino all’areoporto di Ciampino, su una necropoli romana. Un area non adatta a un insediamento umano. Ora il suo tanto contestato completamento, in base alla sentenza del Consiglio di Stato, è colpito da inefficacia in quanto risultato di un atto «in carenza di potere».
«Perciò la costruzione del campo La Barbuta non può essere considerata legittima e va immediatamente sospesa tuona Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 Luglio da tempo denunciamo le azioni del Campidoglio segnate da misure discriminatorie e lesive dei diritti delle comunità rom e sinte; vigileremo attentamente sulle azioni dell’amministrazione locale volte al pieno rispetto delle disposizioni della sentenza».
Per l’Arci vorrebbe evitare che questa sentenza diventasse «un alibi per Alemanno perché invece è una sconfessione. Ha speso 6 volte tanto di quanto spendevano le giunte di sinistra per peggiorare le situazione. La sentenza dice mai più campi».

La Stampa 22.11.11
Centrosinistra primi guai
Vendola barricadero imbarazza il Pd “Un Bossi di sinistra?”
Il leader accusa le “ombre lobbistiche” nel governo Timori tra i riformisti. Perplessi anche gli elettori di Sel
di federico Geremicca


Qualcuno già pensa di rispolverare per lui l’appellativo che marchiò per mesi Gianfranco Fini al tempo delle sue prime polemiche con Berlusconi e soprattutto con Giulio Tremonti: “Signor no”. Qualcun altro, invece, ci va giù in maniera più netta e aspra: «E’ il Bossi di sinistra”. Tanto nel primo quanto nel secondo caso il riferimento è a lui, Nichi Vendola: che non ha fatto mistero - né prima né dopo - di apprezzare assai poco la scesa in campo del professor Mario Monti e della sua pattuglia di ministri tecnici.
Domenica sera, incalzato da Fabio Fazio, ha spiegato: certo, finalmente «un governo senza tacchi a spillo»; è vero, «si recupera il decoro»; è poi, sì, è un successo esser «passati dalle veline ai professori». Però... E i però sono tanti, e assai affilati: «Se la politica economica di Monti sarà in continuità con quella vecchia, avremo nuovi indignati per le strade»; oppure: «Lo stile di Berlusconi era la commistione tra pubblico e privato: e da questo punto di vista, mi spiace, ma anche nel nuovo governo c’è qualche ombra che danza»; e infine: «Nel centrosinistra vedo molte democristianerie in azione». E se questo è il giudizio a pochi giorni dall’insediamento dell’esecutivo, qualcuno si chiede cosa ci sia da attendersi quando Monti varerà le sue prime misure: che difficilmente potranno entusiasmare Sel e il suo leader...
Non si parla ancora apertamente di un “caso-Vendola”, naturalmente, ma è chiaro che in casa Pd la preoccupazione cresce. Si tratta di un doppio timore, in verità: il primo riguarda certamente la navigazione del governo Monti, che i democratici sostengono senza riserve e contro il quale probabilmente non sarebbe (non sarà) difficile cavalcare la piazza; il secondo - e più serio - investe invece il futuro: e cioè la prospettiva di un’alleanza politico-elettorale(con Di Pietro e Vendola, appunto) che i mesi del governo del professore - pochi o tanti che saranno - rischiano di mandare letteralmente in frantumi.
Sono preoccupazioni fondate? O sono più fondati - al contrario - i timori che attraversano i partiti nient’affatto entusiasti dell’avvento di un governo tecnico? Bobo Maroni, a nome dell’unica forza politica dichiaratamente all’opposizione di Monti, per esempio dice: «Dietro l’obbligo di mettere i conti in sicurezza c’è anche l’obiettivo di mettere da parte Berlusconi e smantellare il sistema bipolare... Quindi si tratta di eliminare le anomalie della politica, marginalizzandole: la Lega in primis, ma anche Vendola e Di Pietro... ». Uno scenario da fantapolitica? Forse sì. E in ogni caso, gli ultimi a lamentarsene dovrebbero essere i protagonisti di quella evidente incapacità di governo che ha portato il Paese a un passo dal baratro e dunque alla nascita del poi contestato governo Monti.
Diverso, ovviamente, è il discorso che riguarda Nichi Vendola e il suo partito, da sempre opposizione a Berlusconi. In questo caso, infatti, più che guardare ai “disegni segreti” che avrebbero portato all’avvento dei tecnici, sarebbe forse utile interrogarsi su cosa questo esecutivo possa effettivamente fare per il Paese e dunque sugli scenari futuri. Non può infatti sfuggire a Vendola che l’annunciata alleanza elettorale tra Pd-Idv e Sel difficilmente guadagnerà credibilità se i soggetti in causa avranno, in questi mesi, comportamenti troppo diversi rispetto al neonato governo Monti. E’ vero, naturalmente, che un problema del tutto analogo a quello di Bersani ce l’ha Silvio Berlusconi nel rapporto con la Lega, ma è altrettanto vero che nell’altra metà del campo questioni simili vengono risolte (o aggirate) con assai più semplicità: quasi come se una certa volubilità di comportamenti avesse scarso o nessun peso...
Nel fronte riformista le cose vanno diversamente, invece. E molti, per esempio, avevano addirittura sperato (e sperano ancora) che proprio intorno al difficile lavoro che attende Monti le forze dell’alternativa potessero guadagnare sul campo quella credibilità che fino a ieri è parsa latitare. La scelta (in divenire) di Nichi Vendola pare andare in un’altra direzione. Ma stavolta c’è una novità sulla quale il leader diSel non potrà non interrogarsi: gli ultimissimi sondaggi (quello del TgLA7 di ieri, per esempio) danno il suo partito e quello di Di Pietro per la prima volta in deciso calo. I loro voti passano al Pd... Possibile, dunque, che gli stessi elettori di Sel non condividano l’eccessiva freddezza nei confronti del governo Monti? Possibile, certo. A Vendola, dunque, capirne le ragioni...

il Fatto 22.11.11
Cattolici, ma un po’ più laici
In Spagna come in Italia, la dottrina dei valori non negoziabili si rivela una gabbia non più praticabile
È compito degli uomini di governo trovare soluzioni che siano meno anacronistiche
di Marco Politi


Dalla Spagna a Palazzo Chigi spira un vento di riscossa cattolica. A Madrid i democristiani spagnoli del Partito popolare riconquistano il potere. In Italia una nutrita pattuglia cattolica è approdata nei giorni scorsi al governo con grande visibilità.

A prima vista sembra un effetto del revival della religione, manifestatosi già sul finire del Novecento durante il lungo pontificato wojtyliano, e non manca Oltretevere chi assapori l’illusione di un maggiore spazio di manovra neotemporalista.
Certamente Cei e Vaticano sono decisi a dettare a Monti la linea di maggiori finanziamenti alle scuole cattoliche e dell’adeguamento della legislazione in tema di testamento biologico, fecondazione e pillole contraccettive e abortive alla dottrina dei valori non negoziabili. Così come è avvenuto durante l’era Berlusconi. Pretese e sogni si mescolano. Il sentimento popolare va in realtà da un’altra parte. Già negli anni scorsi, analizzando i flussi elettorali in Italia, si è appurato concretamente che il cittadino compie la sua scelta nelle urne principalmente in base ai temi, che toccano più da vicino la sua esistenza quotidiana: il lavoro, la crisi economica, il welfare. I cosiddetti temi eticamente sensibili – sistematicamente agitati dalle gerarchie ecclesiasti e dalle cerchie politiche più opportuniste – sono in fondo alla scala delle urgenze. Perché i fedeli cattolici qui e altrove sono convinti che certi problemi vadano affrontati e risolti nell’intimo della propria coscienza.
INSPAGNA, dunque, ilPartito popolare ha in cima all’agenda il deficit pubblico, lo spread a 470 e una disoccupazione giovanile al 20 per cento. Al di là di questo va, tuttavia, notato che già negli anni passati il partito di Mariano Rajoy ha mostrato spesso disagio per le furibonde campagne anti-governative scatenate dalla parte più conservatrice della gerarchia ecclesiastica in nome della “vita” e della tradizione cattolica. Meno che mai Rajoy, che negli anni scorsi si era già meritato i rimbrotti di Giuliano Ferrara per non essere abbastanza ratzingeriano, ha voluto portare in campagna elettorale temi come l’aborto e l’omosessualità.
È probabile che il nuovo governo interverrà contro alcune forzature di Zapatero come la concessione dell’aborto alle minori senza informare i genitori o l’indicazione di parlare di coniuge A e coniuge B invece che usare i termini “marito” e “moglie”. Molti ritengono certo anche un cambiamento della legge sui matrimoni omosessuali. Ma nel complesso l’impianto laico della legislazione è destinato a rimanere perché questo vuole la società spagnola nel suo complesso.
Il governo democristiano non toccherà il diritto all’aborto e le coppie omosessuali potranno naturalmente usufruire di una normativa sulle unioni civili. La Madrid “bianca” sarà quindi più avanzata di Roma.
Anche in Italia la situazione è molto più fluida di quanto possa apparire a prima vista. Quasi nessuno ha notato che, intervenendo giorni fa al convegno del movimento “Scienza e Vita” su bioetica e politica, il segretario del Pd Bersani – nonostante la presenza del cardinale Bagnasco, che aveva ripresentato le tavole dei principi non negoziabili – ha indicato una linea diversa: basata sul dovere delle democrazie di negoziare le “soluzioni” dei problemi, lasciando ad ognuno di credere nei principi generali cui sente di ispirarsi. Bersani ha anche respinto fermamente l’idea che essere non credente o diversamente credente significhi mancare di etica. “Ci sono persone che sono morte per un’etica (non trascendente), non dimentichiamolo”, ha sottolineato con orgoglio. Sul piano politico immediato il segretario del Pd ha chiesto di cambiare l’attuale legge sulle “Dichiarazioni anticipate di trattamento” e praticamente di fare una legge diversa sul testamento biologico.
LA COSA interessante è che, parlando subito dopo di lui e dopo il segretario Pdl Alfano (steso sulla linea del Vaticano), il leader dell’Udc Casini – pur dando per scontato l’approvazione della legge sul fine vita – ha bollato di “miopia totale” quanti usano la bioetica “per dividere”. Rispetto alla linea degli atei devoti o rinati alla fede, trionfante nel regime berlusconiano e guardata con compiacimento dalla gerarchia ecclesiastica, Casini ha lanciato un allarme: “Stiamo molto attenti al legislatore che forzando si espone al cambiamento in ogni legislatura”.
Casini guarda lontano. Il “partito nazionale” ispirato al popolarismo europeo, che ha in mente, non può ridursi a essere mera cinghia di trasmissione dell’ideologia dei valori non negoziabili. Non c’è alcun dubbio, infatti, sulla constatazione (confermata da ricerche svolte a più riprese) che in caso di referendum sul testamento biologico i cittadini messi dinanzi al quesito secco – “volete la norma che esautora il paziente e affida ogni potere al medico o volete che siano rispettate le decisioni del paziente e dei suoi familiari per evitare l’accanimento di trattamenti medici non voluti”? – sceglierebbero la seconda. In altre parole la dottrina dei valori non negoziabili, imposta in politica, si rivela una gabbia non praticabile per le società contemporanee. Tocca ai cattolici a Palazzo Chigi praticare autonomia per soluzioni adatte alla realtà sociale italiana. Utile sarebbe stato chenellaformazionedelgoverno si fosse tenuto conto anche di un’area di pensiero laica rappresentata, esemplificando, da personalità come Rodotà e Zagrebelsky. È un peccato non averlo fatto.

Repubblica 22.11.11
Cattolici, in campo anche gli anti-Todi


ROMA - Davvero i cattolici sono tornati in campo. Oltre Todi, alla Domus Pacis di Roma per due giorni si sono date appuntamento le associazioni del cattolicesimo democratico: gli anti-Todi sono stati soprannominati. Nessun invito al cardinale Bagnasco - che è stato la guest star di Todi - e invece molta partecipazione di base e la ferma convinzione che il bipolarismo politico non si tocca. Quindi a promuovere l´appuntamento le associazioni (Agire politicamente, guidata da Alberto Monticone; Argomenti 2000 di Ernesto Preziosi; Città dell´uomo; la Rosa Bianca; "Persona, comunità, democrazia", la fondazione di Pier Luigi Castagnetti) e tanti politici pd, da Castagnetti a Franco Monaco, Giovanni Bachelet, Stefano Ceccanti. Nei molti interventi critiche a Todi e all´impronta «clerico-moderata» di quell´appuntamento che, secondo gli anti-Todi, punta alla ricostituzione di un partito cattolico. E la sua importanza è stata tale che l´esecutivo Monti ha due ministri (Ornaghi e Riccardi) che avevano contribuito a realizzare quell´incontro e un altro ministro (Corrado Passera) ne era stato relatore. Né i "todiani" si arrendono. In preparazione c´è il manifesto. Oggi poi incontro con i politici che non erano a Todi. A Palazzo Marini dalle 9,30 ci sono esponenti delle associazioni (Mimmo Delle Foglie, presidente del Copercom; Natale Forlani, portavoce del Forum delle associazioni del lavoro; Annamaria Furlan della Cisl, e altri) e ci saranno i leader del Terzo Polo Casini e Rutelli, oltre a Paola Binetti (che coordina), Emanuela Baio, Donato Mosella.

Corriere della Sera 22.11.11
Sostituito il cardinale Law travolto dal caso pedofilia
di G. G. V.


CITTÀ DEL VATICANO — La sua nomina a Roma era motivo ricorrente di polemiche, specie negli Usa, da 7 anni. Da quando cioè il cardinale Bernard Law, costretto a dimettersi da arcivescovo di Boston per la sua gestione imbarazzante dello scandalo pedofilia, venne chiamato dal Vaticano e nominato, il 27 maggio 2004, arciprete di Santa Maria Maggiore, una delle quattro basiliche patriarcali della città. Posizione di grande prestigio che Law ha infine dovuto lasciare ieri: Benedetto XVI, al suo posto, ha nominato l'arcivescovo, e vicecamerlengo, Santos Abril y Castelló. L'occasione dell'avvicendamento è stata l'ottantesimo compleanno di Law, il 4 novembre. A quell'età i cardinali non sono più «elettori», cioè non farebbero più parte di un eventuale conclave. È «normale», dicono Oltretevere, che a 80 anni un porporato presenti al pontefice la rinuncia agli incarichi che ancora ricopre. La prassi, peraltro, non significa un termine tassativo: altri cardinali sono rimasti al loro posto anche dopo. Nel suo caso Benedetto XVI ha deciso altrimenti. Arcivescovo di Boston dall'11 gennaio 1984, il cardinale Law aveva dovuto lasciare la guida della diocesi nel 2002 per non aver denunciato i sacerdoti coinvolti nel drammatico scandalo pedofilia che l'aveva travolta. Specie negli Usa, divenne il simbolo di quella parte della Chiesa che aveva coperto gli abusi. Decise di lasciare durante un colloquio con Giovanni Paolo II. Lo accusavano di essere stato «debole», di aver spostato i pedofili da una parrocchia all'altra, preoccupato di loro più che dei bambini. Lui ammise gli «errori» e annunciò il «ritiro» in monastero: «Chiedo perdono a tutti coloro che hanno sofferto per le mie insufficienze». Finché, tra le polemiche, fu chiamato a Roma. Nel 2005, come arciprete di Santa Maria Maggiore, celebrò una delle solenni messe funebri per Wojtyla. Del resto in questi anni ha mantenuto un profilo basso. Alcune associazioni delle vittime anche di recente avevano chiesto fosse destituito da ogni incarico.

l’Unità 22.11.11
Piazza Tahrir in rivolta contro i militari: in tre giorni oltre quaranta morti e 1.800 feriti
Il premier Essam Sharaf rimette il mandato ma il Consiglio supremo prende tempo
Un bagno di sangue La giunta dei generali presenta le dimissioni
La Piazza resiste. Nonostante la repressione e i morti che sono oltre 40. Piazza Tahrir rilancia la sfida per oggi. Dimissioni annunciate in serata del premier. La protesta si allarga, l’Egitto è nel caos.
di Umberto De Giovannangeli


La Piazza sfida i militari. Il governo di Essam Sharaf annuncia le sue dimissioni che però il Consiglio supremo militare «congela» invitando le forze politiche egiziane a un« dialogo urgente». Però la tragica conta dei morti cresce. È il caos. Un caos che rischia di trasformarsi in una tragedia nazionale. Al centro c’è una Piazza trasformata in un campo di battaglia. Il cuore di una rivoluzione minacciata, tradita, ma che non si dà per vinta.
BILANCIO DI MORTE
Piazza Tahrir ha ripreso l’aspetto dei giorni seguiti al 25 gennaio, quando sbocciò la «rivoluzione del giovani» che portò alla caduta del regime Mubarak. Centinaia di migliaia di persone, se non un milione, sono assiepate in modo inverosimile da ieri sera, dopo che nel pomeriggio si era temuto il peggio per l’approssimarsi dei carri armati destinati è stato poi chiarito solo a proteggere il ministero dell’Interno. Si erano subito alzate barricate metalliche nelle strade interessate ed erano stati incendiati copertoni, in falò spenti poco dopo. «È la seconda rivoluzione», dice una parola d’ordine raccolta sui blog in Internet, «dopo il tentativo di militari e governo di far fallire la prima». Di questo fallimento verso la democratizzazione del Paese ed il rispetto dei diritti umani i militari sono stati accusati anche in un rapporto diffuso ieri da Amnesty International.
E la denuncia non sembra infondata, specie dopo la proposta nei giorni scorsi del vice primo ministro, Ali Selmi, per una modifica alla costituzione che aveva irritato tutte le forze politiche, specie i Fratelli Musulmani, candidati a raccogliere ampi consensi nelle elezioni legislative in calendario dal 28 novembre. La proposta, che prevede di dare una speciale immunità ai militari e di sottrarre i loro bilanci ai controlli del Parlamento, aveva provocato il grande raduno di venerdì scorso, il venerdì «per la protezione della democrazia», come al solito nell’arcinota piazza Tahrir.
La tensione è alle stelle. Man mano che le ore passavano si sono susseguite le notizie di bilanci di vittime di sabato e domenica progressivamente più alti. Dalla morgue lo stillicidio di informazioni ha portato prima il numero di oltre 40 vittime e poi la richiesta di auto e di bare perché non ce n’erano abbastanza. Più tardi i medici degli ospedali da campo intorno a piazza Tahrir hanno chiesto ai loro colleghi di arrivare in forza, dato l’alto numero di feriti e hanno invitato a donare sangue ed a portare generi di conforto a chi si prepara a passare la notte in piazza. Canti e balli si sono alternati a momenti di preghiera collettiva, mentre dagli ambienti del potere e da quelli dei manifestanti sono arrivati messaggi opposti. Un generale arrivato in piazza dichiara che è diritto dei manifestanti quello di fare sit-in, purchè non sia danneggiata la proprietà pubblica, e rassicura che i generali non intendono rimanere al potere, vogliono cederlo a civili appena possibile. Ma nessuno gli crede. «Chiedono di rimanere intoccabili proprio a noi che abbiamo mandato a casa il vecchio regime del militare Mubarak?» chiede insistentemente un gruppo di giovani manifestanti vicino alla sede della Lega Araba, sottolineando che comunque i militari hanno le loro responsabilità nelle morti dei «martiri di piazza Tahrir». Anche per questo per oggi i giovani hanno sollecitato un nuovo maxi raduno, ancora nella «piazza della rivoluzione». Un portavoce dei Fratelli musulmani annuncia: «I membri di 35 partiti e movimenti saranno scudi umani».
In serata, il primo contraccolpo politico: il premier egiziano, Essam Sharaf, e il suo governo presentano le dimissioni, rimettendo il proprio mandato a disposizione del Consiglio Supremo delle Forze Armate. Sharaf aveva già presentato le dimissioni del suo governo ai militari il 10 settembre scorso, dopo l’assalto all’ambasciata israeliana del Cairo, invasa e demolita da manifestanti che il servizio d’ordine intorno al palazzo non era riuscito a bloccare. Anche in quel caso il suo addio non fu accettato dal Consiglio supremo presieduto dal generale Tantawi.

l’Unità 22.11.11
El Baradei: «Basta con l’esercito. Ora un governo civile»
Il capo del Movimento 6 Aprile: «Le forze armate sono incapaci di gestire la transizione». L’ex direttore Aiea a l’Unità: «Ignorano le richieste della rivoluzione. Usano le stesse parole di Mubarak»
di U.D.G.


Voci da una Piazza inr ivolta. Voci che denunciano una repressione brutale, voci che reclamano giustizia e verità. E che rifiutano di subire un «mubarakismo senza Mubarak». Cronaca di una battaglia senza fine. «Il numero dei morti negli scontri a piazza Tahrir supera le 40 vittime, mentre i feriti sono più di mille», dice a l’Unità Mahmoud Afifi, portavoce del Movimento egiziano del 6 Aprile. «Il Consiglio militare (al governo in Egitto dalle dimissioni Mubarak a febbraio, ndr) sta trattando i giovani della rivoluzione con estrema violenza», afferma Afifi, precisando che gli attivisti del Movimento «sono presenti in piazza in gran numero». La crisi degli ultimi giorni, sottolinea, è il risultato del «fallimento del Consiglio supremo delle Forze armate nel gestire la fase di transizione».
Quanto alle istanze degli attivisti, questi ultimi chiedono di «fissare un’agenda per la consegna del potere a un presidente, un civile, al massimo entro il prossimo aprile, le dimissioni del governo di Essam Sharaf e la nomina di un governo di salvezza nazionale che goda del consenso delle forze politiche e che abbia piena competenza nel gestire quel che resta della fase di transizione, oltre – ricorda Afifi – alla formazione di una commissione d’inchiesta sugli ultimi incidenti per perseguirne i responsabili». Duro contro i vertici militari e la polizia è anche il candidato alla Presidenza dell’Egitto Mohamed El Baradei. «Non vi può essere alcun dubbio su chi è responsabile di una situazione che rischia di precipitare da un momento all’altro dice a l’Unità il Premio Nobel per la Pace: il responsabile di questa situazione è il Consiglio supremo delle Forze Armate, che sta dimostrando, oltre ad averlo ammesso, che non può governare il Paese», rileva l’ex Direttore dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea). «Il Consiglio supremo delle Forze Armate continua a ignorare alcune delle richieste principali della Rivoluzione, come la fine dei processi militari per i civili e la cancellazione della Legge d’emergenza, ma anche la domanda di un welfare sociale e di sicurezza pubblica incalza El Baradei. Non molto aggiunge è cambiato dalla Rivoluzione del 25 gennaio e in molti casi il Consiglio supremo delle Forze Armate ha semplicemente assunto il ruolo del deposto presidente Hosni Mubarak, usando anche lo stesso linguaggio. Parlare di manifestanti eterodiretti da potenze straniere e di criminali comuni, per esempio, è esattamente quello che Mubarak usava dire per screditare alcuni movimenti. Alcune dichiarazioni del Consiglio supremo delle Forze Armate sono identici a quelli dell’era Mubarak», denuncia ancora El Baradei.
Una denuncia rilanciata da Amnesty International: «Chi sfida o critica il Consiglio militare, come i manifestanti, i giornalisti, i blogger o i lavoratori in sciopero, viene represso senza pietà, nel tentativo di sopprimerne la voce», denuncia Philip Luther, direttore ad interim di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.
Il bilancio dello Scaf (il Consiglio supremo delle forze armate che governa l’Egitto dalla caduta del presidente Hosni Mubarak a febbraio, ndr) in materia di diritti umani e civili dopo nove mesi mostra che gli scopi e le aspirazioni della rivoluzione del 25 gennaio sono stati fatti a pezzi». «Le forze armate egiziane conclude Philip Luther non possono continuare a usare la sicurezza come una scusa per mantenere in vigore le stesse vecchie pratiche viste sotto la presidenza di Mubarak».

il Riformista 22.11.11
«Nelle strade sta tornando la vecchia paura»
Sarah Al Sirgany. Così la direttrice del “Daily News Egypt”. «L’escalation è un pessimo segnale, alle urne potrebbe succedere di tutto. L’esercito deve lasciare».
DI Azurra Meringolo


«I militari lo negano, ma ci sono video e fotografie che non hanno bisogno di essere commentate. Quasi mille persone hanno ferite che non sono state procurate da proiettili di gomma, ma da armi da fuoco» dice Sarah al Sirgany, ventottenne vice direttrice del Daily News Egypt, l’unico giornale indipendente stampato in lingua inglese al Cairo.
«I militari hanno usato molte delle armi che hanno a disposizione nel loro arsenale» aggiunge Sarah, che è anche co-autrice di Diari della Rivoluzione, libro nel quale ha raccontato come la rivolta di strada nella doppia veste di reporter e oppositrice del vecchio regime.
Nove mesi dopo la caduta di Mubarak, quali sono le motivazioni che hanno spinto decine di migliaia di egiziani a rioccupare piazza Tahrir?
Il malcontento è diffuso nel Paese e quanti hanno tentato di accamparsi l’hanno fatto per più ragioni. Le ultime proteste sono iniziate venerdì scorso, quando decine di migliaia di manifestanti hanno chiesto ai militari di accelerare la transizione. In aggiunta la gente ha chiesto la fine dei tribunali militari.
Quando sono cominciati i problemi?
Quando i militari hanno risposto violentemente alle proteste, iniziando a sparare sui manifestanti. Non appena queste immagini hanno iniziato a circolare sui social network, molte altre persone hanno deciso di scendere in strada per difendere i diritti conquistati durante i diciotto giorni della rivoluzione dello scorso inverno. Per molti la violenza dei militari è stata inaccettabile.
I militari dicono che quanti sono in piazza non hanno nulla a che fare con i rivoluzionari, ma sono solo disturbatori. Chi frequenta i social network capisce che i dissidenti di questi giorni sono gli stessi che erano a Tahrir il 25 gennaio. Chi sono i veri protagonisti di questi manifestazioni?
Il popolo in piazza è eterogeneo. A Tahrir si è ricreato lo stesso microcosmo dello scorso gennaio. Ci sono gli islamisti moderati, i salafiti, i copti e i rappresentanti di istanze secolari. La maggioranza dei manifestanti è ancora una volta costituita da giovani. Come lo scorso gennaio non ci sono leader. Ma come allora ci sono slogan che uniscono tutti. Prima la gente chiedeva la caduta del regime, ora vuole quella del mushir, il capo del Consiglio supremo della Difesa, il generale Tantawi.
Stessa gente e slogan simili, ma i numeri sono diversi.
Sì. In strada ci sono molte meno persone e la volontà di scendere in piazza sta in parte scemando. Ci sono anche problemi economici, la frustrazione è forte e la stanchezza continua ad aumentare. Alcuni poi non vedono alternative ai militari e hanno paura del disordine. La riduzione del numero dei manifestanti è un dato preoccupante. Con la rivoluzione abbiamo abbattuto la barriera della paura, ora il senso di timore sta ricomparendo.
Come si può risolvere il braccio di ferro tra esercito e piazza?
La situazione è molto complessa e i militari devono rispondere in fretta alle richieste della piazza. È dalla scorsa estate che domandiamo le dimissioni del primo ministro senza essere ascoltati. Alcuni vogliono andare a elezioni presidenziali in fretta (sono previste per la fine del 2012 o l’inizio del 2013, ndr), altri propongono la creazione di una giunta civile che guidi il Paese nella transizione. Nonostante le differenze tutti chiedono una scaletta chiara dalla quale si capisca quando l’esercito lascerà il potere.
Alcuni candidati alle imminenti elezioni hanno deciso di fermare la loro campagna elettorale. Perché?
Non riescono a portare avanti la loro propaganda a causa del clima di violenza che si respira nelle strade del Cairo. Non chiedono di posticipare le elezioni, ma vogliono assicurarsi che si tengano in un clima sereno. L’escalation di violenze di questi giorni non è un bel segnale in vista del voto. Ai seggi potrebbe accadere di tutto.
Mancano sei giorni al primo appuntamento con le urne: è preoccupata?
Non troppo, cerco di rimanere ottimista. Da quando sono nata ho vissuto sotto il regime di un unico presidente e credo che la violenza sarà comunque minore rispetto a quella che abbiamo vissuto durante le tre decadi in cui Mubarak era al potere. La maggioranza delle persone è emozionata all’idea di partecipare a questo appuntamento con la storia e spera che tutto si compia in un clima sereno.

il Fatto 22.11.11
Gli schieramenti al Cairo
L’alleanza Salafiti-militari
di Roberta Zunini


Paul Annis prima di essere il superiore della delegazione comboniana al Cairo, è un antropologo: “Sono di origine egiziana ma ho vissuto a lungo all’estero, anche in Italia e quindi, pur conoscendo i miei connazionali, penso di essere in grado di guardare freddamente a ciò che sta accadendo”. Il frate comboniano dà una lettura precisa dei fatti: “La gente, al contrario dei giorni della rivoluzione, non nutre più alcuna fiducia nei confronti dei militari al potere, perché dopo la caduta di Mubarak questi non solo non hanno fatto nulla per migliorare la condizione economica dei meno abbienti (la maggioranza) ma hanno continuato a utilizzare gli stessi sistemi intimidatori di Mubarak nei confronti di coloro che rivendicano maggiori opportunità sociali”.
Secondo padre Annis dietro il massacro di piazza Tahrir si nasconde l’unica coalizione anonima, e proprio per questo estremamente potente, creatasi per l’appuntamento elettorale del 28. Anzi contro le elezioni. “Si tratta dell’alleanza tra i militari e i salafiti, nata innanzitutto per impedire le elezioni e mantenere lo status quo”. Come la vedetta interrogata dal profeta Isaia, il comboniano cerca di farci capire “a che punto è la notte”, quanto manca all’arrivo del primo giorno di demcorazia. “Purtroppo il giorno è lontano. E a farne le spese sono come sempre i più deboli, quelli che l’altro ieri sono andati a protestare genuinamente, per annunciare ai militari che sono disposti a farsi ammazzare pur di avere elezioni giuste, senza brogli. Ma i militari e i salafiti che non vogliono farli votare hanno infiltrato la manifestazione con i loro sgherri in abiti civili e pistole in tasca. Sono stati loro, a mio avviso, a sparare pallottole vere e a dare la stura alle violenze”. Ma se è chiaro perché i militari al potere vogliono boicottare il voto, non è evidente per quale motivo i fratelli musulmani non le vogliano più. “In questo mese sta ottenendo sempre più consensi la tasmia (coalizione) tra musulmani moderati, cristiani copti, i giovani rivoluzionari laici del 6 aprile e del movimento Kifaya (basta). Nè i salafiti, cioè i musulmani integralisti nè i militari, molti dei quali peraltro legati ai salafiti, vogliono che questa coalizione vinca. Perciò è meglio che le elezioni non si facciano. Le violenze sono loro doppiamente utili, perché mostrano la necessità di un governo autoritario”.

La Stampa 22.11.11
Il ritorno dei “rivoluzionari”
I blogger e attivisti della protesta contro Mubarak ora sfidano il potere dei generali
di Paola Caridi


IL CAIRO. Ne mancavano due all’appello, a piazza Tahrir. E la loro assenza si è fatta sentire. Mina Daniel era uno dei ragazzi che la rivoluzione del 25 gennaio se l’era vissuta tutta. Con un sorriso di cui i suoi amici si sono ricordati quando è stato ucciso durante il massacro di Maspero, la cosiddetta «strage dei copti», il 9 ottobre. Se lo ricordava, quel sorriso, anche Alaa Abdel Fattah, assente da Tahrir perché, invece, è da tre settimane rinchiuso in una cella del carcere di Tora. Andò a cercare Mina nell’obitorio dell’ospedale copto. Alaa, anzi @alaa, come tutti lo conoscono su twitter, decise che bisognava fare l’autopsia al corpo di Mina e a tutte le altre vittime, per capire chi li aveva uccisi. L’Egitto deve essere uno Stato di diritto, e le violazioni vanno punite. Questo il messaggio di Alaa Abdel Fattah e degli altri. Lo aveva scritto anche in un durissimo articolo. Appena pochi giorni dopo, un tribunale militare lo avrebbe convocato mentre si trovava a Silicon Valley, invitato dai grandi del web. Invitato lui, e non Wael Ghonim, il manager di Google che pure era sembrato in Occidente l’icona della rivoluzione. E invece, per gli attivisti il più lucido, il più incisivo tra i rivoluzionari è proprio lui, Alaa Abdel Fattah, informatico e figlio dell’intellighentsija, laicissimo e coraggioso. @alaa è tornato in Egitto a fine ottobre, si è presentato di fronte ai giudici militari e si è fatto arrestare perché rifiutava la loro giurisdizione.
Per i «ragazzi di Tahrir», quello è stato il punto di non ritorno. Arrestare Alaa Abdel Fattah non è stato solo un atto politico. Ma anche il segno che poi sarebbe toccato a tutti loro, che hanno chiesto ogni giorno la chiusura dei tribunali militari, la liberazione di 12 mila civili in galera, la fine dello stato d’emergenza. Cioè il definitivo e chiaro passaggio dei poteri dal Consiglio Militare Supremo a un’autorità civile. A guidare la battaglia contro quelli che loro considerano i gattopardi con le stellette a guardia del vecchio regime è stata la sorella di @alaa, Mona Seif, 25 anni, la voce che ha raccontato la rivoluzione tra gennaio e febbraio al pubblico di Al Jazeera International.
Non è solo una questione di diritti. E’, proprio per questo, pura politica. Linea condivisa da tutte le culture della piazza. Da una donna di matrice islamista come Nawara Negm, che ha dibattuto di politica via twitter ogni mattina, senza sgarrare mai. Lei, figlia (velata), del più grande, rispettato e amato poeta di strada egiziano, Ahmed Fouad Negm. I ragazzi di Tahrir hanno continuato a tessere la trama di una rete di idee – non solo virtuale – che ha dimostrato, in questi ultimi tre giorni, di mettere in scacco polizia, militari, partiti e vecchia politica. Perché la politica loro la stanno facendo, ma in altro modo. Informale, di strada, di generazione, e senza leader. Sono nomi noti come Hossam el Hamalawy, e cioè arabawy, post-marxista, il legame tra gli attivisti e i lavoratori della grande industria. Oppure MaLeK, uno dei blogger della prima ora, attivista almeno dal 2005, che due giorni fa ha perso un occhio negli scontri, dopo averne già perso uno a gennaio. Wael Abbas, che denunciò la tortura della polizia sei anni fa, a suon di video: protagonista del 25 gennaio, come di questo novembre infuocato. E Sandmonkey, al secolo Mahmoud Salem. Lui, al contrario di altri, ha scelto di scendere in campo, e candidarsi in uno dei seggi più interessanti del Cairo, quello di Heliopolis. Quando sono cominciati gli scontri, Mahmoud Salem è ridiventato Sandmonkey, ha disdetto tutti gli impegni via twitter sino a data da destinarsi. Ed è andato a Tahrir. Con gli altri. Come a gennaio. A completare una rivoluzione incompiuta.

La Stampa 22.11.11
Robert Springborg
“Le forze armate devono cedere o saranno travolte”
di Maurizio Molinari


La gente è scesa in piazza in Egitto perché i generali vogliono ipotecare la transizione democratica»: a sostenerlo è l’arabista Robert Springborg, ex direttore dell’American Research Center del Cairo oggi docente alla scuola internazionale della Us Navy a Monterey in California.
Quale è la genesi dei gravi scontri in corso a Piazza Tahrir?
«La violenza nasce dal fatto che gente sta protestando contro i militari perché i generali che lo governano dalla caduta di Mubarak tentano di porre dei precisi limiti alla transizione verso un sistema democratico basato sulla volontà popolare».
Di quali limiti si tratta?
«I generali sono al potere in Egitto dal 1952 e sanno che al termine della transizione in corso dovranno cederlo per la prima volta ai civili. Per questo tentano adesso di imporre condizioni ovvero di ottenere la garanzia che il controllo dell’esercito, del bilancio militare e delle scelte sulle questioni inerenti alla sicurezza nazionale resteranno nelle saldamente loro mani».
Quali sono state le conseguenze di tale richiesta?
«Ha fatto saltare l’intesa di facciata fra militari e islamisti frutto della caduta di Hosni Mubarak. I Fratelli musulmani non vogliono dare tali assicurazioni ai militari e sono stati i primi a iniziare le proteste, a cui adesso si stanno unendo anche le componenti più laiche della società egiziana».
Quanto è forte l’intesa fra le due anime della protesta?
«Gli errori commessi dai generali sono riusciti a unificare islamici e laici perché le diverse forze politiche hanno in comune la volontà di andare alle urne al più presto, votare ed eleggere chi governerà il Paese nei prossimi anni».
Come finirà il braccio di ferro a Piazza Tahrir?
«I generali dovranno fare un passo indietro perché sanno bene che se la transizione democratica dovesse fallire sarebbero loro i primi a essere travolti dalle manifestazioni popolari. L’unica garanzia di sopravvivenza che i militari hanno è legata al successo della transizione che inizierà la prossima settimana con la prima fase delle elezioni per il nuovo Parlamento nazionale. Se dunque dovessero decidere di andare allo scontro con la piazza potrebbero avere una vittoria di breve durata perché in poche settimane diventerebbero l’obiettivo delle stesso tipo di manifestazioni che travolsero il regime di Hosni Mubarak».
Ciò significa che i militari devono rinunciare a conservare il controllo dell’esercito?
«È un esito inevitabile. I generali hanno solo due scenari davanti: essere parte integrante della transizione verso una democrazia compiuta, subendo il conseguente ridimensionamento della loro influenza politica, oppure venirne letteralmente spazzati via, aprendo il campo a un Egitto dominato dai Fratelli musulmani, dagli islamici».

La Sttampa 22.11.11
Emma Bonino
“Ma i giovani hanno commesso troppi sbagli”
di Flavia Amabile


ROMA. Emma Bonino è vicepresidente del Senato ma ha vissuto al Cairo dove ha imparato l’arabo, e segue con attenzione le vicende egiziane. Dal suo punto di vista hanno commesso tutti molti errori in questa primavera in riva al Nilo finita da tempo in un violento autunno di sangue.
In piazza non ci sono più soltanto i giovani ma anche salafiti e Fratelli Musulmani. È una protesta molto estesa: come controllarla?
«Non sono in grado di dire molto su queste nuove presenze in piazza, bisognerebbe esserci per parlarne con certezza. Tutto però è molto confuso e complicato. In base alle informazioni che ricevo in piazza ci sono molte persone che hanno subito vittime nelle precedenti manifestazioni e che ritengono di essere stati ignorati. Ci sono i giovani che si sentono rimossi da parte della giunta militare. E ci sono tanti gruppi, tutti divisi fra loro. È una piazza piena di persone ma nessuno riconosce gli altri».
E dall’altra parte c’è l’esercito.
«Un esercito che sa usare soltanto la violenza. Non si spara sulla gente né a New York né al Cairo. Un esercito che spara sulla folla è inaccettabile».
Ma è la realtà. Come si è arrivati ad una situazione in cui si sono avute oltre 40 vittime in tre giorni?
«Attraverso una serie di errori. Hanno sbagliato i giovani. In tanti fra i dissidenti li avevano avvertiti: dopo la protesta e la vittoria sul vecchio regime ci si doveva comportare in modo diverso, cercando di entrare nel processo politico. Hanno scelto invece di essere dei ribelli permanenti, probabilmente per ingenuità».
Altri errori?
«Ne ha commessi tantissimi anche il governo provvisorio. Hanno rifiutato il primo prestito del Fondo Monetario Internazionale. Non hanno avuto quindi le risorse necessarie per rimettere in piedi l’economia. Ma hanno commesso molti errori anche in materia di giustizia. Questo non ha fatto che aumentare la rabbia di chi era già sceso in piazza».
Fra i candidati alle prossime elezioni c’è una donna, Bothaina Kamel. È anche lei in piazza, l’hanno arrestata. È una figura marginale o può aver e un ruolo nel prossimo futuro?
«La sua è una piattaforma nazionalista. Parla sempre soltanto di Egitto, non ho mai sentito altro da lei. Di sicuro, però, è importante che ci sia».
Questa primavera egiziana ha suscitato soprattutto molta delusione. Anche lei è delusa?
«Non ho mai pensato che sarebbe stato possibile un miracolo. Ero consapevole che sarebbe stato molto difficile. A questo punto non posso che augurarmi che si tengano le elezioni del 28. Soltanto se si terranno le elezioni si potrà raggiungere un primo passo istituzionale».
Altrimenti?
«Si darebbe la possibilità di prendere il potere a forze che non hanno nulla a che vedere con la democrazia».

La Stampa 22.11.11
Piazza Tahrir e il bivio dei militari
di Vittorio Emanuele Parsi


Mentre gli scontri tra dimostranti e forze di sicurezza in piazza Tahrir non accennano a placarsi, appare ormai irreversibile il ribaltamento del ruolo dell’esercito agli occhi di una parte crescente dell’opinione pubblica egiziana. I militari, che fino a poco tempo fa erano salutati come i garanti della fuoriuscita dal regime di Mubarak, sono oggi considerati il principale ostacolo alla transizione verso la democrazia. E la cattiva notizia è che la percezione dei manifestanti è corretta. Oggi l'Egitto è un regime militare in cui il capo del Consiglio supremo delle forze armate, Hussein Tantawi, riunisce nelle sue mani i medesimi poteri di Hosni Mubarak, pur se in una fase ben più caotica di quella in cui il suo predecessore si era trovato ordinariamente. Per molti aspetti è stato stupefacente come l'esercito fosse fin qui riuscito a mantenere l'incredibile posizionamento di paladino del cambiamento, nonostante l’acritico sostegno garantito a Nasser, Sadat e Mubarak in quasi sessant’anni di associazione al potere. Perché un fatto è evidente: cambiano i leader, cambia l'allineamento internazionale del Paese, ma quello che resta costante è il ruolo delle forze armate, vere detentrici, più che semplice sostegno, del potere effettivo.
Costringendo alle dimissioni il rais, lo scorso 11 febbraio, dopo aver tenuto una posizione defilata rispetto ai tentativi di schiacciare la rivolta, l'esercito era riuscito a far dimenticare tutto ciò, a metterlo sullo sfondo, complice la consapevolezza di tutti - dai soggetti politici ai semplici cittadini - che far chiarezza sulle sue reali intenzioni avrebbe potuto essere troppo rischioso, forse fatale, per gli stessi esiti della rivoluzione. Nei nove mesi trascorsi è iniziata una partita a scacchi in cui i militari hanno via via palesato le proprie intenzioni, riassumibili nella volontà di mantenere potere privilegi acquisiti in mezzo secolo. Allo stesso tempo però, l'insofferenza dell’opinione pubblica è cresciuta a mano a mano che l'avvicinarsi della scadenza elettorale consumava il tempo a disposizione per eventuali compromessi e rischiava di svuotare la rilevanza del primo libero pronunciamento elettorale nella storia egiziana. È stato questo a rendere lo scontro pressoché inevitabile. Ora è molto difficile che, dopo la strage di copti di un paio di mesi fa e il massacro dei giorni scorsi, un qualche accettabile compromesso possa essere ristabilito. I militari o finiranno per essere spazzati via o dovranno gettare la maschera e proporsi non come gli interpreti della rivoluzione e della sovranità popolare, ma come i liquidatori dell’una e dell’altra.
Un brutto affare per tutti. Per gli egiziani innanzitutto e per tutto il mondo arabo che all’Egitto guarda anche in questa occasione. Ma un disastro anche per gli Usa, che si erano convinti a mollare Mubarak, tardivamente e dopo furibondi contrasti interni all'amministrazione Obama, proprio perché pensavano di poter contare sull’inedita carta di militari riformisti pronti a farsi garanti verso Washington di una transizione ordinata alla cui conclusione sarebbe nato un Egitto nuovo e diverso in tutto tranne che nel suo allineamento internazionale. Ora, al massimo, avremo uno dei due esiti ma molto difficilmente tutti e due: un Egitto come sempre governato dai militari e alleato degli Usa oppure un Paese in cui il ruolo politico dell’esercito è drasticamente ridotto ma non più alleato degli Stati Uniti. Il sogno di coniugare in una sola stagione politica il riformismo marziale di Mustafa Kemal Atatürk e l’islamismo moderato e democratico di Erdogan è morto prima ancora di nascere. E l'Egitto non appare destinato a diventare una “nuova Turchia”.
Nel frattempo, dal Libano di Hezbollah, ormai alleato pressoché solitario della Siria nel mondo arabo, giunge la notizia dello smantellamento della rete spionistica con cui l'Agenzia era riuscita a infiltrare il movimento sciita, oltretutto, pare, scoperta anche grazie all’impiego delle sofisticate apparecchiature fornite da Langley al Mukabarat durante il precedente governo filo-occidentale. Si tratta di un colpo che rende ancora più evidente l'affanno americano nel Medio Oriente, nel Levante in particolare, dove la crisi siriana rischia di andare fuori controllo proprio mentre i tamburi di guerra tornano a risuonare tra Israele e l'Iran. Un segnale che Hezbollah manda anche all'opposizione siriana, nei cui confronti le frontiere libanesi torneranno a sigillassi, nella logica di quello scontro finale cui il regime di Assad sembra persino aspirare più che limitarsi a non temere.

Corriere della Sera 22.11.11
Col nome scritto sul braccio «Non ho paura di morire»
di Viviana Mazza


È uscita di casa alle otto e trenta del mattino, dopo aver scritto sul proprio braccio sinistro, a penna blu, il nome, Mansoura Ez Eldin, e il numero della carta d'identità. Lo hanno fatto molti dei manifestanti che andavano in piazza Tahrir ieri. «Così, se si rimane uccisi dai proiettili, gli altri potranno identificarti e dare notizia della morte alla tua famiglia», spiega Mansoura, scrittrice e madre 35enne, che portava scritto sul braccio anche un numero di telefono e la frase: «Mia figlia è a scuola, potreste per favore chiamare suo zio perché la porti a casa?». Dopo aver accompagnato a scuola Nadine, che ha 9 anni, Mansoura ha raggiunto piazza Tahrir a piedi. E allora si è resa conto «che non c'era bisogno di indossare quel maglione a collo alto», che portava nell'illusione che potesse proteggerla da eventuali spari.
«La piazza era pacifica e la gente piena di speranza. C'erano un migliaio di persone all'inizio, poi sono aumentate sempre più a partire dall'una. Persone d'ogni età, ho incontrato diversi scrittori. Tanti i giovani, soprattutto nella vicina via Mohammed Mahmoud. Là, invece, gli scontri erano brutali, e i lacrimogeni offuscavano la vista — questi lacrimogeni che stavolta sono diversi, più forti...». Molti dei ricoverati negli «ospedali da campo», uno davanti al fast food Kentucky Fried Chicken, l'altro in moschea, «erano feriti agli occhi».
Mansoura Ez Eldin ha partecipato alla rivolta a gennaio. Quando è riesplosa la rivoluzione, sabato, si trovava in Europa per il tour del suo romanzo Oltre il Paradiso. È tornata al Cairo e, subito, in piazza Tahrir. Più che una seconda rivoluzione, spiega, si tratta «del completamento della prima». L'immagine degli scontri e della violenza trasmettono l'idea che la Primavera araba si sia trasformata in un incubo, mettendo a rischio le elezioni. Ma la scrittrice replica che il vero incubo, per gli egiziani, sono stati gli ultimi mesi. «Una protagonista del mio romanzo, Salma, si lamenta che nulla cambia nel Paese e nella sua vita, che ogni giorno è uguale. Era l'immobilità dell'era Mubarak, in cui sono vissuta dall'età di 4 anni. Ma con la rivoluzione, l'Egitto è tornato alla vita. E non è pronto ad accettare che la Giunta militare lo riporti all'incubo della dittatura. Per questo la mia generazione è pronta a sacrificare la vita».
E le elezioni? «La protesta in sé non è contro il voto — spiega —, è contro il Consiglio supremo delle forze armate, che ci ha ingannati fingendo d'essere al fianco della rivoluzione. È contro le torture, l'uccisione di innocenti e i processi militari cui sono stati sottoposti da febbraio 12 mila civili. La protesta è diventata più forte proprio a causa dell'assurda violenza usata per reprimerla. E ora la gente non sa nemmeno se può fidarsi che le elezioni siano oneste». I manifestanti cercano di evitare che i politici sfruttino la mobilitazione, racconta. «Stamattina hanno cacciato via Amr Hamzawy e Ayman Nour (laici, ndr), arrivati con le tv. Hanno urlato: "Dove eravate nei primi due giorni, quando la gente è stata ammazzata?". E se ora gli islamici hanno partecipato a titolo individuale, credo che anche la Fratellanza musulmana si unirà ufficialmente alla piazza se la protesta avrà successo». Non c'erano finora i milioni di persone di gennaio. «Molti egiziani sono stati ingannati dai media che dicono che i manifestanti sono criminali, altri sono stanchi. Ma tanti stanno riconsiderando l'immagine del Consiglio supremo delle forze armate, e confido che si uniranno a noi».
Nel romanzo di Mansoura, ognuno ha una sua visione del Paradiso. «Il Paradiso è un punto di vista», spiega lei. E per i manifestanti di Tahrir? «È una vita normale, senza il regime».

l’Unità 22.11.11
Lotta di classe in Cina
Nel sud-est ondate di proteste e scioperi
A Wukan migliaia di persone in piazza contro la corruzione «Abbasso la dittatura»
Pochi giorni fa a Dongguan operai in rivolta, con scontri e feriti
Uno squarcio nel monolite cinese
di Gabriel Bertinetto


Il tabù è rotto. A Wukan, nel sudest della Cina, migliaia di persone hanno protestato in piazza contro le requisizioni di terre forzate e la corruzione, indicando nel sistema politico della Repubblica popolare la radice ultima del fenomeno. Le immagini comparse su Weibo, piattaforma Internet per i microblog cinesi (surrogato locale di Twitter) mostrano cartelli con la scritta: «Abbasso la dittatura». Era già accaduto nel recente passato che i dimostranti se la prendessero con i dirigenti comunisti cittadini o distrettuali. Evitando però di chiamare in causa il governo centrale. Il che anzi aveva spesso consentito a Pechino di sostenere, almeno a parole, le ragioni dei promotori di singole contestazioni, visto che la lotta alla corruzione è un obiettivo spesso enunciato dai massimi leader, presidente Hu Jintao incluso.
Il messaggio che arriva da Wukan è inequivocabile: quello che avviene in questo angolo del Paese non è ascrivibile a semplici malfattori periferici, ma la manifestazione del marciume generale. A Wukan è arrivato il contagio della febbre speculativa che da alcuni anni infuria da Pechino a Shanghai a Canton. Case e terreni di singoli cittadini vengono espropriati per fare posto a progetti immobiliari promossi dalle autorità della cittadina: condomini, alberghi, centri commerciali. Nel nome dell’interesse collettivo. Solo che il più delle volte i beni requisiti vengono rivenduti a imprenditori amici dei dirigenti dell’amministrazione pubblica. Un gioco in famiglia all’interno della nomenklatura del posto.
Wukan si trova nel Guangdong, una delle province meridionali che guidano la straordinaria crescita economica nazionale di questi anni. Insieme all’effervescenza produttiva e consumistica il capitalismo comunista ha innescato tensioni sociali esplosive. Solo pochi giorni fa a Dongguan, nella stessa provincia, migliaia di operai sono scesi in sciopero contro licenziamenti e riduzioni di salario. Scontri con la polizia, dieci feriti.
I protagonisti dell’agitazione sono dipendenti della Yu Cheng, un’azienda che riunisce in sé due elementi caratteristici del nuovo corso cinese: i migliorati rapporti con quella che ufficialmente viene ancora talvolta definita «provincia ribelle», cioè Taiwan, e i sempre più stretti legami con l’Occidente. La Yu Cheng ha infatti padroni taiwanesi, e per acquirenti alcuni colossi euro-americani dell’industria calzaturiera: da Nike a Adidas a Balance. A Dongguan la Yu Cheng ha trovato l’Eldorado: inesauribili riserve di manodopera, salari bassi, e inesistenti norme per la tutela dei lavoratori. Ma c’è sempre un Paradiso più dorato di quello in cui si gode. E i proprietari taiwanesi ne hanno scovato uno in una provincia limitrofa, lo Jiangxi, con paghe ancora più striminzite. Da qui la decisione di ridimensionare le attività a Dongguan e trasferirsi altrove.
Dongguan, paradigma delle contraddizioni in cui si dibatte il boom economico cinese. Basta visitare la perla cittadina, il South China Mall. Un complesso commerciale in cui spicca la ricostruzione di un’artificiale Venezia, con tanto di Canal Grande e Basilica di S. Marco in miniatura. Il giro in simil-gondola attrae folle di bambini in gita scolastica. Ma è l’unica spesa che la maggior parte dei visitatori si può permettere, a giudicare dallo squallore desertico che domina nel resto della struttura. Negozi vuoti, alcuni senza merci, altri senza clienti. Ascensori fermi al piano. Pavimenti coperti da immondizia che nessuno raccoglie.
Il miracolo economico della Cina segna il passo. Si profila lo spettro dello stesso fenomeno che ha devastato le economie di alcuni paesi occidentali. La bolla edilizia è prossima a scoppiare. Dall’inizio del 2011 mille agenzie immobiliari hanno chiuso i battenti a Pechino (177 nel solo mese di ottobre). Per fronteggiare la minaccia il governo ha alzato i tassi ipotecari, ma la mossa rischia di rivelarsi tardiva.

Repubblica 22.11.11
Foxconn ne produrrà un milione in due anni "Non hanno rivendicazioni, si possono spegnere"
Fuori gli operai la fabbrica in mano ai robot
Negli impianti del gigante hi-tech 18 suicidi per le condizioni di lavoro insostenibili
Le macchine fermeranno la corsa delle imprese ai salari più bassi
di Giampaolo Visetti


PECHINO. Fuga dal Guangdong. Il volto nascosto della Cina che cresce, è la regione più industrializzata del mondo che scoppia. Centinaia le imprese che abbandonano l´epicentro del boom delle esportazioni anni Ottanta, migliaia le chiusure e i fallimenti. L´onda della crisi di Europa e Usa inizia a travolgere anche l´Oriente e il "punto di svolta di Lewis", attimo in cui evaporano i benefìci del surplus di manodopera, conosce un´impressionante accelerazione nell´ex "fabbrica del mondo". Così la Cina tenta la carta della migrazione interna, strappando altra manodopera alle campagne. E soprattutto della tecnologia: robot al posto degli uomini, per fare i lavori più pesanti ed evitare un´escalation di rivendicazioni. Come farà la Foxconn, gigante hi-tech colpita da una raffica di suicidi di operai sconvolti da ritmi di lavoro insostenibili.
L´incubo delle autorità di Pechino è l´esodo di massa degli stabilimenti costieri verso le sottosviluppate regioni dell´Ovest. Una concorrenza interna insostenibile: sgravi fiscali, sconti sui terreni e salari al limite della soglia di povertà garantiscono alle imprese risparmi fino al 20%. In dieci anni nel Guangdong i salari sono saliti del 94%, più 28% dall´anno scorso: impossibile reggere la rimonta dei nuovi distretti del Sudest asiatico, Bangladesh, Vietnam, Cambogia e Indonesia in testa. Per non finire come Taiwan e Giappone, a cui proprio il Guangdong decimò il sistema industriale con la legge della delocalizzazione votata ai massimi ribassi, per riempire i capannoni si punta alla migrazione interna.
Una guerra tra poveri, innescata dallo stesso governo cinese per «raccogliere i frutti dai rami più bassi» nelle aree depresse della nazione: 2164 euro all´anno la paga di un operaio nel Guangdong, 1640 nello Hunan, addirittura 1530 nello Henan, meno di 130 euro al mese. Margini di guadagno sempre più bassi: l´Occidente non assorbe più merce, l´inflazione cinese cresce, l´ambiente distrutto presenta il conto, i consumi interni non sostituiscono il calo dell´export e le banche iniziano a chiudere i crediti. La seconda potenza economica del pianeta redistribuisce così le sue forze, la produzione emigra cinquecento chilometri verso ovest e il tentativo di ammorbidire il raffreddamento economico (Pil a più 9,2 nel 2012, rispetto al più 9,4 di quest´anno) solleva un´ondata di sommosse senza precedenti. I produttori abbandonano il Guangdong e gli operai si ribellano.
Sommosse incontenibili da settimane, culminate ieri a Lufeng con la rivolta di migliaia di persone, scese per le strade scandendo slogan contro la «dittatura» e contro la «corruzione» dei funzionari. Le rivolte, con feriti e centinaia di arresti, sconvolgono però anche le multinazionali straniere, impegnate a dismettere gli investimenti nei distretti orientali per riaprire dove i risparmi superano il 40%. Niente sindacati, milioni di ex contadini disoccupati disposti a tutto, aree a volontà. I colossi però sono già oltre e puntano sull´addio definitivo agli operai.
Il caso-simbolo è la Foxconn, l´impresa più grande del mondo, oltre un milione di dipendenti solo in Cina. A Shenzhen assembla la maggior parte dei prodotti hi-tech che stanno cambiando l´umanità, per conto di marchi come Apple, Nokia e Cisco. Sconvolta da un´ondata di suicidi, 18 in pochi mesi nel 2010, ha annunciato ieri che entro il 2012 produrrà 300 mila robot, destinati a diventare un milione entro il 2014. La grande fuga delle industrie dal Guangdong rischia così di chiudere per sempre l´era della manodopera, per aprire quella del lavoro totalmente meccanizzato. Gou Tai-ming, presidente del colosso con base a Taiwan, ha assicurato che per ora i robot non ruberanno il lavoro agli operai, limitandosi a svolgere mansioni pericolose, operazioni di precisione e operazioni che espongono agli effetti di sostanza tossiche. «È chiaro però - ha dichiarato - che l´aumento del costo del lavoro mette sotto pressione l´industria cinese, costretta a trovare presto soluzioni». Questione di tempo.
Foxconn, da alcuni mesi, sperimenta già 10 mila robot alla catena di montaggio e da agosto ha delocalizzato i prodotti di punta nelle nuove fabbriche di Zhengzhou, nello Henan, e a Chengdu. «I robot non si suicidano - ha commentato Lin Xinqi, direttore del dipartimento risorse umane della Renmin University of China - non rivendicano diritti e se gli ordini calano basta spegnerli». È l´ultima frontiera del miracolo cinese: addio Guangdong e addio operai, scocca l´ora dei robot di Chongqing.

Repubblica 22.11.11
L’ex presidente sovietico: "Bisognerebbe ricostruire da zero. E alle prossime elezioni non escludo frodi"
Gorbaciov: "C´è un deficit di democrazia ma l´autorità del governo resta solida"
Non spero in un voto regolare. Si arriva a dire ai bambini di suggerire ai genitori il partito da designare. Mi vergogno
di Andrea Tarquini


BERLINO - «Putin mi sembra più forte di quanto non indichino sondaggi o contestazioni. Ma il deficit di democrazia è il problema in Russia, anche se non solo da noi, e di certi eventi mi vergogno». Così parla Mikhail Gorbaciov, l´ex presidente sovietico che con le sue riforme chiuse la guerra fredda e smantellò l´impero. Lo abbiamo incontrato a Berlino, dove ha annunciato che dall´anno prossimo sarà la capitale tedesca a ospitare il Mga, il premio internazionale a lui intitolato, conferito «a chi con pensiero creativo cerca di migliorare il mondo». Cerimonia qui il 20 marzo, tema: i problemi delle megalopoli.
Putin crolla nei sondaggi e viene fischiato in pubblico. È la fine d´un´era, o no?
«Sondaggi e manifestazioni vanno presi con molta prudenza. Putin ha sempre goduto di molta autorità in Russia. Adesso ha anche buone possibilità di far approvare con maggior forza la sua autorità dal popolo. Ci sono sufficienti entrate da petrolio e gas, sono possibili spese a favore di militari, forze di sicurezza, pensionati, altri gruppi sociali, per invogliarli a confermare questa autorità. Credo che la sua forza reale sia e resti solida».
Perché, spostando il Premio a Berlino, ha denunciato il deficit di democrazia in Russia e criticato la classe dirigente?
«Berlino è il simbolo di come ci lasciammo alle spalle la guerra fredda. E di come la Germania ha saputo unirsi in pace e costruire una società democratica moderna e matura. In Russia, e ovunque, democrazia e classi dirigenti devono cambiare a fondo».
Che risultato elettorale prevede?
«Niente prognosi! Nel giugno 1989 Kohl e io dichiarammo che la riunificazione tedesca non sarebbe venuta prima del 21mo secolo, invece in Russia come altrove la campagna elettorale si combatte con tutti i mezzi. Non ho grandi speranze di elezioni regolari. Ci sono trucchi, frodi non sono escluse, si arriva a dire ai bambini di suggerire ai genitori il partito da votare. L´amministrazione è mobilitata per un´alta partecipazione elettorale, puntando al massimo numero di voti per un partito. Non il Pc come in passato, ma Russia unita. Non solo da noi, ma il problema è il deficit di democrazia, la democrazia è il bisogno prioritario. Si giunge ad ammonire gli uomini d´affari che se non s´impegnano abbastanza in una certa direzione subiranno conseguenze nel loro successo economico. Mi vergogno. In certe situazioni bisogna pensare a ricominciare da zero a costruire la democrazia, e ruolo e appoggio dei media sono vitali. Le classi al potere sono sempre più dure, ovunque. Stalin disse "non contano i voti ma la conta dei voti"».
Lei avviò la svolta, si rimprovera o rimpiange qualcosa?
«Facemmo molti errori, era inevitabile. Il più grave fu di prendere molte decisioni chiave troppo tardi, la situazione uscì dal controllo. Ma con la perestrojka arrivammo almeno oltre il punto di non ritorno. Il passato non tornerà».
Cosa può fare l´Occidente per aiutare la democrazia in Russia?
«Trattarla con rispetto da pari a pari, evitare consigli altezzosi, evitare ogni arroganza o senso di superiorità».

Repubblica 22.11.11
Perché gli ideali non sono assoluti ma figli di un’epoca
Esce il nuovo saggio di Roberta De Monticelli dedicato all´impegno civile
Il tema è la giustizia, massima virtù sociale Lo scopo è risvegliarla e il discorso va da Platone a Bobbio
di Gustavo Zagrebelsky


Si può dissentire radicalmente sulle premesse e consentire pienamente sulle conclusioni? È la domanda che ci si pone al termine della lettura dell´ultimo, profondo, appassionato, angosciato ma non rassegnato libro di Roberta De Monticelli, La questione civile – Sul buon uso dell´indignazione (Raffaello Cortina Editore).
Il tema è la giustizia, massima virtù sociale; lo scopo è il risveglio alla giustizia attraverso "esercizi di disgusto". L´impianto è filosofico. Il discorso si svolge da Platone e Aristotele, indugia su quello che sembra il preferito, Immanuel Kant, per arrivare a Simone Weil e a Bobbio. Ma, la riflessione spazia: antropologia, psicologia, teologia, giurisprudenza, letteratura. Tutto può essere messo a frutto e fatto reagire, al di sopra delle divisioni disciplinari. Trattandosi di filosofia pratica, cioè orientata all´azione sul suo oggetto – la giustizia –, inevitabile è incontrare di continuo le brutture, le oscenità, le meschinità, gli arrivismi, l´ipocrisia, l´illegalità, la corruzione, le prepotenze, le viltà e il servilismo, cioè la catastrofe etica della nostra società.
Il libro, con una certa sorpresa del lettore, non inizia dalla giustizia. Vi arriva attraverso la bellezza. Bellezza e giustizia: che rapporto c´è? Dicendo bellezza, non si deve pensare a estetismo, snobismo, collezionismo d´arte e cose di questo genere. Se bellezza è armonia e proporzione dei rapporti – di elementi figurativi, architettonici, poetici e musicali, e anche sociali – allora possiamo dire che la bellezza è forma visibile della giustizia. Il rapporto è stretto, inscindibile. Vale l´eterna massima della filosofia scolastica: iustum, bonum, verum et pulchrum convertuntur. Queste qualità dell´esistenza vivono l´una nell´altra. Non occorre intuizione metafisica per capirne i nessi. Risultano ancora più chiari rovesciando il positivo in negativo: l´ingiustizia è cattiva; il cattivo è falso; il falso è brutto. Si può arrivare alla giustizia a partire dalla bellezza, ma si sarebbe potuto anche dal bonum o dal verum. A partire da uno, si arriva agli altri.
Fin qui, tutto bene. Il passo successivo è da discutere. Giustizia, bontà, verità e bellezza sono "valori", "cose che valgono", non in termini economici, (non c´è un mercato dei valori secondo la legge della domanda e dell´offerta), ma in termini morali. Sono il lato positivo, prezioso, della vita. A meno di pervertimento in bruta animalità, dove vige il fatto compiuto, cioè la "giustizia del più forte", non ne possiamo fare a meno. Potremmo perfino dire che li chiamiamo valori, ma sono necessità, secondo il motto di Kant: se non c´è posto per la giustizia sulla terra, non ha senso la vita degli uomini. De Monticelli dà grande importanza alla questione del fondamento. È convinta che i valori siano "dati", non perché li si possa constatare e ammirare in sé e per sé. Nel teatro greco, per esempio, "La Pace" si presentava come una fanciulla, avvolta in un peplo trasparente, e tutti esclamavano: "come è bella!". Di lei si poteva dire: "Come è bella!" perché la bellezza le era incorporata e gli spettatori ne facevano esperienza. Dunque, "i fatti stessi si qualificano come beni e come mali" (belli o brutti, giusti o ingiusti, ecc.) e a noi non resta che prendere atto del loro valore, come constatazione. Ne è convinta De Monticelli e chi, come Platone, crede che esista "la bellezza" che si riflette in "le cose belle". Se fosse così, sarebbe possibile fondare la morale in termini oggettivi: le cose belle sono belle perché portano in sé la bellezza, non perché l´attribuiamo loro, secondo la nostra concezione. Insomma: è bello ciò che è bello, non ciò che piace: piace perché è bello, non viceversa (lo stesso, per gli altri valori).
Come possiamo non insorgere – leggiamo nel libro – di fronte alle casette a schiera che deturpano le colline senesi dipinte da Simone Martini? Non è questo, oggettivamente, un insulto al bello, e dirlo non è forse una constatazione di fatto? "Nerone era crudele", non è la stessa cosa? Andiamo oltre: Adolf Hitler era un essere degenerato. Chi non sarebbe d´accordo? Dunque il brutto è incorporato nelle casette a schiera del Senese; la crudeltà, in Nerone; la degenerazione, in Hitler. Ripeto: chi non sarebbe d´accordo? Ma perché siamo d´accordo? Sono "le cose" (le villette, Nerone, Hitler) che parlano a noi, o siamo noi che parliamo a e di loro?
Siamo al problema del fondamento. Al "monismo" essenzialista – fatti e valori sono tutt´uno – si oppone la separazione "dualista": ciò che è non è detto che debba o non debba essere. Un muro separa i fatti dai valori: gli uni non "convertuntur" affatto negli altri. Riconsideriamo l´esempio estremo di Hitler. Ora (e, purtroppo, nemmeno da tutti) si ritiene sia stato uno dei massimi flagelli dell´umanità, ma non allora. C´era chi lo riteneva un nuovo messia, perfino tra gli uomini di chiesa. Per milioni di persone, in Germania e altrove, era il salvatore della civiltà europea contro la barbarie asiatica, impersonata dal comunismo sovietico. In nome del "valore" superiore della civiltà occidentale, si è stati perfino disposti a chiudere gli occhi davanti alla shoah: evidentemente, la difesa della vita degli ebrei si riteneva un non-valore, o un valore minore, di fronte ad altri valori, come il capitalismo o la religione cristiana. C´era un valore assoluto, obiettivo, e, se sì, qual era? No, non c´era. C´era invece una lotta mortale tra valori soggettivi e relativi, con le rispettive armate schierate su fronti opposti. Noi sappiamo, ora, come sarebbe stato giusto, buono, vero, e bello schierarsi. Ma, come osservatori, dobbiamo ammettere che entrambe le parti, allora, ritenevano di combattere la buona battaglia e che ciascuna delle due vedeva incorporate nelle armi dell´altra il male, e nelle proprie il bene.
Dunque, è più probabile che la condizione esistenziale degli esseri umani non sia quella assunta da De Monticelli. Per lei, il valore delle cose, positivo o negativo, si manifesta nella loro esistenza. Dunque la precede. Per chi non pensa metafisicamente, invece, è l´esistenza che precede i valori. Il che è come dire ch´essi non sono dati ma sono i viventi a doverli dare; vengono dalla nostra libertà e responsabilità e non li troveremo fuori, ma in noi.
Sappiamo che entrambe le posizioni, monismo e dualismo, sono aperte a grandi rischi. Non sono quindi i rischi, gli argomenti per propendere per l´uno o per l´altro. La metafisica dei valori espone al dogmatismo, quando la loro gestione finisca, come è possibile, nelle mani di autorità etiche: stato, partito-chiesa, chiesa. L´anti-metafisica espone all´indifferenza o al soggettivismo estremo e distruttivo, quando prevale l´idea che le questioni di valore non abbiano senso o siano affari da gestire ciascuno per sé. Piuttosto, riprendendo l´interrogativo iniziale, che è quello davvero importante per il vivere comune, possiamo dire che, quali che siano le opinioni circa il fondamento, sui contenuti si può perfettamente convenire. Gli uni riterranno di andar scoprendo valori; gli altri, di andar creandoli. Da punti di partenza diversi si può giungere alla medesima meta e, cosa consolante, si può, anzi si deve, operare insieme. A condizione di isolare le ali estreme: i dogmatici e i nichilisti. Per riprendere il titolo del libro di De Monticelli: a queste condizioni, far buon uso della comune indignazione è possibile.

Repubblica 22.11.11
Eco e Putnam, quelle lezioni americane
di Giovanni Desantis


Porteremo la peste in questo paese, si narra abbia detto Freud a Jung entrando nel porto di New York nel 1909. Portare il "nuovo realismo" in America sembra una impresa diversa, in un certo senso è come vendere frigoriferi agli Eschimesi, viste le tante declinazioni del tema già discusse negli Stati Uniti. Eppure, l´incontro del 7 novembre dal titolo On the Ashes of Post-Modernism: A New Realism – voluto dal direttore dell´Istituto italiano di cultura, Riccardo Viale, con la partecipazione di alcuni tra i maggiori filosofi contemporanei e visibile sul sito – è stato seguito e discusso, mostrando come ci si può dividere e confrontare grazie alla filosofia.
La giornata, dopo una serie di divertenti domande a Umberto Eco sulla situazione politica italiana, si è aperta con un dialogo tra De Caro e Putnam, via Skype. Un dialogo che non ha avuto nulla di "virtuale", malgrado il medium, e in cui il decano della filosofia americana ha illustrato la sua idea di realismo. Ma sono state le reazioni del pubblico la cosa più interessante.
Perché mentre i filosofi chiamati ad intervenire propendono per l´approccio realistico (a cominciare da Ferraris che ha iniziato questo dibattito), ci sono nel pubblico molti teorici della letteratura, architetti, artisti, e anche scienziati sociali maggiormente disposti a sostenere le ragioni del postmoderno. Ragioni storiche, che, come sappiamo, nascevano dall´esigenza di mettere in discussione una visione dogmatica del reale, il mito che ci siano dei dati immutabili a cui dobbiamo inchinarci. Da qui era nato il postmoderno. Che in America aveva avuto grandi pionieri come gli architetti Robert Venturi e Denise Scott Brown. Così tra gli aspetti più interessanti dell´incontro c´è stata proprio la discussione con il pubblico: i nuovi realisti che raccontavano le loro ragioni – spiegando le loro idee come reazione all´avallo della manipolazione populistica della realtà – e le persone che incalzavano e chiedevano spiegazioni.
Insomma, quel che si è capito è il bisogno di confronto. Anche su temi filosofici. Anche se poi ognuno ha confermato le sue posizioni. Come osservava Paul Boghossian, in uno degli interventi, è più facile riempire il Grand Canyon che non abolire il denaro. Dunque, è giusto combattere un attaccamento feticistico ai fatti. Ma forse è anche vero che si inibisce il confronto sulle cose concrete quando si decreta che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Che è poi – osservava Eco nel suo intervento, in cui ha difeso un "realismo minimale" – il solo punto su cui tutti i postmoderni sembravano andare d´accordo.
Lo spirito della giornata si è condensato in questo passaggio di Putnam in dialogo con Eco: «Non credo che costruiamo il mondo, per il semplice motivo che non siamo abbastanza intelligenti. Una delle ragioni della fallibilità della fisica, per esempio il fatto che la teoria delle stringhe non abbia ancora portato a una sola previsione, è che nonostante la teoria sia geniale il mondo continua a essere più intelligente dei fisici». È ancora questo mondo che lancia delle sfide, non solo scientifiche, ma anche filosofiche e politiche. Così faceva impressione vedere alla fine dell´incontro, gruppi di persone che discutevano dei nessi tra natura e morale, sui marciapiedi di Park Avenue.

Il Riformista 22.11.11
lo psicoanalista Bolognini
Il lettino dell’analista affollato di paure
di Cinzia Leone


Stefano Bolognini, psicoanalista, presidente della Spi, la Società psicoanalitica italiana e “president elect” della Ipa, l’organizzazione mondiale degli psicoanalisti, ci aiuta a decodificare il vissuto psicologico della crisi: tra le Twin Towers e il “lettone della finanza”.
Dopo l’attacco alle Torri Gemelle le patologie da angoscia sono aumentate. Con la crisi il lettino dell’analista è più affollato? Il numero delle richieste di terapia non è aumentato e, sorprendentemente, non è diminuito. Ma il vissuto della crisi ha invaso i lettini con un doloroso esame di realtà, una sensazione di destabilizzazione e di amara disillusione. Le certezze e la protezione che ci davano gli equivalenti dei genitori, le istituzioni o le banche, crollano: è come se vedessimo il padre barcollare e la mamma smarrirsi. La parte infantile è destabilizzata. Anche l’attacco alle Torri Gemelle è stata la metafora del crollo di un’area sicura: i due eventi dal punto di vista delle fantasie hanno delle analogie.
Anche un premier è una figura genitoriale?
A torto o a ragione, la figura di Berlusconi ha stimolato rappresentazioni genitoriali turbolente e complesse per carattere e abitudini del personaggio. Una parte della popolazione si è sentita soddisfatta e liberata che un equivalente genitoriale con queste caratteristiche non fosse più a capo della “famiglia nazionale”-
Come ci si difende dalla paura?
La paura rende il gruppo più coeso se non altro per difesa, nel panico si sparpaglia e si disfa. L’importante è non farsi prendere dal panico, anche dal punto di vista nazionale: mantenere un’attitudine pragmatica e operativa e rimboccarsi le maniche.
La pace sociale c’entra con la psicoanalisi?
Nei promessi sposi Renzo Tramaglino porta ad Azzeccagarbugli tre capponi legati per i piedi: avviati a una sorte nefasta, continuano a beccarsi tra di loro. Bisogna mantenere funzionante il dispositivo di comunità e aiutare i tre capponi a non beccarsi.
La finanza sganciata dall’economia fonte di angoscia?
I giochi della finanza, si svolgono in un “altrove” che esclude le persone qualunque, producendo nell’inconscio un sentimento di impotenza simile a quella dei bambini esclusi dal lettone dei genitori: dove si fanno e si disfano le cose, magari altri bambini e avvengono accoppiamenti escludenti. La dissociazione che si crea tra l’evidenza del lavoro e l’evidenza del guadagno della finanza: la sensazione di una manipolazione, di un gioco delle tre carte.
Il “lettone della Finanza” ha escluso gli italiani. E il “lettone della politica”?
Mediaticamente la politica è molto più visibile di un tempo. Ma la visibilità non coincide con la trasparenza. Conta ciò che viene nascosto dagli attori della scena, ma anche ciò di fronte a cui chiudono gli occhi gli spettatori della scena. Nei giornali vengono nascoste o enfatizzate notizie diverse, il lettore vede e coglie ciò che si desidera. Eliminare il gap è impossibile: l’obiettivo è ridurlo.
Il lavoro è un valore reale ma anche simbolico.
Anche il valore simbolico del lavoro è sotto attacco. Per Freud un persona che sta bene, o che ha fatto una buona analisi, deve: “Saper amare, lavorare, e aggiungeva godere e soffrire”. ma chi non sa soffrire o a godere è anestetizzato. Bisogna togliere l’anestesia.
Siamo stati anestetizzati?
Si è diffusa l’idea che la condizione normale sia divertirsi. Tristezza equivale a depressione e dopo il lutto molti medici di base, neurologi e psichiatri prescrivono psicofarmaci. Negli ultimi trent’anni siamo anestetizzati dalla pretesa di essere in un’eterna beatitudine L’epoca di Drive in ha inaugurato una sorta di religione laica del consumo.
Gli oggetti-totem e le file ai supermercati di elettronica...
L’illusione di potenziare il “senso di sé” attraverso oggetti illusori quanto all’estetica o alla prestazione. Quello che viene sentito come insufficiente è il se stesso reale. Questione di potenza fallica: “ho più megabyte” o più “connessione”. Il bisogno di sostituire il “povero sé” reale con un “sé” ideale ed estetizzante.
Il governo Berlusconi ha rimosso la crisi?
Per motivi di ovvia convenienza politica, ha minimizzato evidenze economiche e non ci ha detto come stavano le cose: probabile che abbia rimosso anche la crisi personale.
Finanza e psicoanalisi condividono una parola: investimento. Quando si sbaglia “investimento”?
In analisi quando una figlia si lega troppo al padre, o il figlio alla madre, come nel famoso Edipo, e si finisce per non avere capitali da investire in una relazione più praticabile. Una nazione quando investe un settore che non non ha prospettive.
La sua ricetta per la crisi
Tornando ai tre capponi di Renzo, bisognerebbe che le parti sociali mantenessero la capacità di dialogare. Più sarà ingiusta la redistribuzione dei costi della crisi tanto più ci sarà il rischio di reazioni violente.
Cosa se ne va con Berlusconi e cosa arriva con Monti?
Con Berlusconi spero se ne vada una modalità troppo basata sulle capacità suggestivo-promozionali. Spero che con Monti si entri in una dimensione più disillusa e più tecnica. Ma il
criterio di equi-distribuzione non è necessariamente garantito dai tecnici: devono collaborare con i politici.

Repubblica Salute 22.11.11
Se c'è bisogno dello psicologo di famiglia
di Johanna Rossi Mason


Quasi la metà dei pazienti del medico di base in realtà avrebbe bisogno di supporto psicologico. Ma poco si fa su questo fronte La fotografia dei 78mila "operatori della mente" in Italia

Siamo più sani, più longevi che mai, ma più infelici: il progetto Esemed dell´Istituto Superiore di Sanità ha rivelato che ogni anno 3 milioni e mezzo di italiani mostrano i segni di un disagio mentale e circa il 35-50% dei pazienti che si rivolgono al medico di base in realtà avrebbero bisogno di un supporto psicologico. Parole come crisi, deflazione, default agiscono come stimoli negativi. Una ricerca della Facoltà di psicologia della Sapienza di Roma ha scoperto che 1 adulto su 2 che si rivolge al medico di base presenta un disagio non verbalizzato. Solo il 5% degli italiani però chiede aiuto. L´Italia spende il 50% del resto d´Europa per prevenire il disagio psicologico, nonostante vi siano circa 78mila psicologi iscritti all´Ordine con una crescita del 7% l´anno.
L´identificazione di un bisogno di assistenza ha portato alla stesura di proposte di legge per l´istituzione dello "psicologo di base" (come il medico di famiglia, ma con il ticket). «Uno studio sperimentale durato 10 anni ha mostrato come la presenza di uno psicologo dal medico di base due volte a settimana permette un risparmio di circa 75mila euro per ciascun medico tra minore prescrizione di farmaci e di indagini diagnostiche», spiega il Presidente del Consiglio Nazionale dell´Ordine degli Psicologi, Giuseppe Palma, «Attualmente invece gli psicologi presenti nei servizi pubblici territoriali sono circa 6mila. Allo stesso tempo fioriscono figure nuove, che non prevedono alcun percorso formativo codificato come "counselor" e "coach"»
L´Italia è anche l´unico tra i grandi d´Europa a non avere lo psicologo nelle scuole: in compenso negli ultimi anni sono stati presentati ben 13 progetti di legge. Solo alcune Regioni (Puglia e Abruzzo) hanno in via sperimentale lo psicologo scolastico, in Lombardia e in altre regioni viene chiamato su iniziativa dei singoli istituti. Eppure i disturbi alimentari sono la prima causa di morte delle ragazze tra i 12 e i 25 anni, il 15,8% degli 11enni dichiara di consumare abitualmente alcol e i teenager sono al quarto posto in Europa per il consumo di cocaina.
Ma chi sono e come vivono i 78mila psicologi? Li ha fotografati il professor Claudio Bosio nel libro Il lavoro psicologico appena edito da Raffaello Cortina. L´80% è donna e il 72,4% dei laureati è occupato a tre anni dalla laurea. Il 55% sceglie la libera professione. Le nuove leve della professione lavorano in posizioni atipiche, flessibili, reddito basso: nella fascia di età tra 35 e 44 anni la media è di 16.600 euro l´anno. A rilento il mercato privato della psicoterapia. Fa attività clinica il 38% mentre gli altri sono suddivisi tra chi opera nel campo della salute pubblica (29%), servizi socio-educativi (16%), consulenza nelle organizzazioni (12%); insegna il restante 19%. «Ma esistono aree ancora sottostimate», sottolinea Bosio, «penso ai luoghi di lavoro, alle organizzazioni complesse ma anche al tutoring delle persone che sono in ospedale, che hanno malattie croniche e degli anziani. Ambiti in cui migliorare il "clima" porta ad un beneficio anche economico».

Repubblica Salute 22.11.11
In 12 studi già possibile la co-visita. E funziona
di Brunella Gasperini


Andare dal proprio medico e trovare in ambulatorio insieme a lui uno psicologo? È possibile. È quello che si sta verificando a Roma, Orvieto e Rieti in alcuni studi di medici di base, da più di dieci anni. Un´esperienza nuova e unica condotta dal professor Luigi Solano, docente di Psicosomatica alla Sapienza di Roma con la Scuola di specializzazione in Psicologia della salute. I risultati? Sorprendenti: il carico di lavoro del medico si alleggerisce, l´assistenza migliora, si fa prevenzione e si riduce la spesa sanitaria.
La copresenza medico-psicologo nell´ambulatorio è per due volte a settimana per un ciclo di tre anni. Finora sono stati coinvolti 14 psicologi e 12 studi medici. Lo psicologo incontra i pazienti insieme al medico e interviene nel contesto della visita. Quando ritenuto opportuno sono proposti al paziente colloqui di approfondimento a parte. Ma la novità è che lo psicologo si occupa di tutti, non solo di chi ha un disagio psichico esplicito e ha la possibilità di intervenire in una prima fase della malattia attuando prevenzione. Non è il vecchio modello dell´invio allo psicologo sulla base di necessità identificate dal medico: è un lavoro congiunto di ascolto e analisi di tutti i casi. «La psicologia non può "curare" la malattia organica» dice Solano «ma può intervenire sulle situazioni emotive e relazionali che predispongono e sostengono la malattia stessa, evitando peggioramenti e cronicizzazioni del sintomo. Gli interventi dello psicologo hanno restituito benessere, evitando farmaci, esami e addirittura ricoveri. Aiutare le persone a capire che spesso la malattia è strettamente collegata alla particolare situazione che si sta vivendo, può avere un effetto molto potente». «La situazione è quella di un medico sovraccarico di domande e di uno psicologo consultato poco e tardi», sostiene Solano che racconta questa iniziativa nel libro Dal sintomo alla persona (F. Angeli Editore).

Spazio in farmacia per le consulenze
Si sono moltiplicate le iniziative che vedono la consulenza psicologica gratuita: da Milano a Perugia, da Varese a Trieste
A Roma e Viterbo il gruppo dell'iniziativa www.psicologoinfarmacia.com offre 3 incontri individuali
di circa 45 minuti, in locali che garantiscano la privacy, per supporto e informazione: "Se esiste la necessità di intraprendere una terapia", spiega la dottoressa Roberta Fuga, coordinatrice del progetto "indirizziamo la persona alle strutture del territorio".

Va in rete l'ascolto gratis
Sono riuniti nel sito www.psicommunity.it gli psicologi italiani, oltre 3600 impegnati nell'organizzazione di eventi e manifestazioni che diffondano il concetto di "benessere psicologico"
È loro la paternità del Festival della Cultura Psicologica che a maggio vede fiorire decine di conferenze a Milano e l'apertura del Temporary Practice, spazio di 180mq a via della Stampa dove sono allestiti info-point e ambulatori di ascolto gratuito

Schizofrenia e cure, caregiver è donna
Schizofrenia, malattia che oggi in Italia colpisce circa l'1% della popolazione, leggera prevalenza degli uomini. Ma sono le donne, secondo un sondaggio di Onda (osservatorio salute donne) con il supporto di Janssen, ad occuparsi dei malati, spesso aggressivi. Madri, sorelle, mogli "segregate" almeno 9 ore al giorno, ogni giorno, con gravi ripercussioni sulla propria qualità della vita, costrette a scegliere un lavoro part-time (26%), a limitare gli spazi da dedicare a se stesse e al proprio tempo libero (43%), al partner (38%) e figli (33%), a ridurre le relazioni sociali (24%). In cambio di nulla: scarsi, se non assenti, i sussidi sociali o l'aiuto delle badanti. Così le terapie farmacologiche restano l'unica arma di salvezza; molto apprezzata (70 per cento) la loro capacità di ridurre l'aggressività e l'allungamento dei periodi di stabilità (pur con non trascurabili effetti collaterali: eccessiva sedazione e aumento di peso)

Corriere della Sera 22.11.11
La cultura come motore di sviluppo. Pochi investimenti per ripartire
di Andrea Carandini


Caro direttore, se il nuovo governo fondasse, in mezzo alla crisi, una politica della cultura? Poco si ricava dal passato: alle ideologie scadute è succeduta la gestione dell'emergenza tappando i buchi e quella degli eventi gratificando i politici. Né è possibile tornare alla spesa di un tempo: vi è stato un calo continuo dei finanziamenti (salvo il Lotto escogitato da Veltroni), fino ai tagli finali.
Dobbiamo tornare alla Costituzione, stiracchiata in questi anni da letture distorte, che invece va rispettata secondo le interpretazioni della Corte Costituzionale e le formulazioni del Codice dei beni culturali. Per esse la tutela è riservata allo Stato, ma questa supremazia è mal digerita, tanto che nessun piano paesaggistico è stato ancora approvato dallo Stato e dalle Regioni, come il Codice esige. Si è preferito sparpagliare cemento con «piani casa», piuttosto che riprogettare e ricostruire brutture e degradi. E si è anche approfittato dei «piani casa» per sforzare il Codice, come si è tentato nel Lazio; per non dire dei tentativi ripetuti, per fortuna respinti, di diminuire in materia i poteri dei soprintendenti.
Il nostro ministero è stato tra i due più colpiti dai tagli di Tremonti: mai si era vista tanta avversione alla cultura. L'organico del ministero è ridotto ai minimi termini: troppi interim, funzionari costretti a esaminare pratiche delicate in cinque minuti, saperi tradizionali che si perdono, nuove saperi che non si affacciano... Non è quindi sopportabile il taglio del 20 per cento all'organico che si prospetta: perderemmo oltre 30 funzionari e avremmo un esubero di oltre 3000 dipendenti su 21000. Saremo costretti, per salvare le soprintendenze, a mandare in trincea direttori regionali, direttori generali? Ben vengano dunque le 168 nuove assunzioni, ormai certe.
Per gli investimenti abbiamo un poco più un terzo di quanto il ministero, pur tanto ridotto, riesce a spendere. Tutelare presuppone non soltanto dire «no» ma mantenere il patrimonio, e ciò implica investimenti. Siamo molto al di sotto di quel che potremmo definire il limite minimo di funzionalità che la Costituzione impone. Se la condizione dovesse perdurare, i beni verrebbero danneggiati in modo irreparabile. I fondi di investimento devono pertanto risalire — si sono aggiunti recentemente un'ottantina di milioni di euro e 105 per Pompei — fino ad arrivare ad almeno ai 500 milioni annui (ne abbiamo circa 180).
Per avviare un progetto della cultura organico, servirebbe un ministero con competenze allargate alla produzione culturale, sia artistica sia imprenditoriale, e al turismo culturale. Cultura viene da colere: coltivare, abitare, quindi non soltanto l'alta cultura. Per dare al ministero la importanza che gli spetta, bisogna ricordare che il nostro patrimonio e la nostra creatività sono le fonti della nostra identità e della stessa capacità di essere cittadini pensanti e sono anche le fonti necessarie per consentire agli asiatici di capire radici e ragioni della civiltà occidentale. Ma siamo preparati al Global Tour? Bisogna poi avere fiducia nell'amministrazione. È vero che andrebbe ringiovanita e dotata di nuove competenze gestionali, informatiche e comunicative, ma essa rappresenta comunque il meglio di cui disponiamo per la tutela. Altro discorso è l'aiuto sistematico che le università potrebbero dare alla conoscenza del patrimonio, ancora da inventare.
Sono stati sperimentati di recente manager e commissari, con risultato indiscutibile soltanto per l'archeologia di Roma, perché il Commissario era Roberto Cecchi, il funzionario più competente di rischio sismico e di manutenzione programmata. L'esperienza fa concludere che serve una managerialità intrisa di conoscenza specifica, perché se nel campo delle merci è facile saltare da un campo all'altro, entrare da fuori nella cultura è arduo. Bisogna insomma motivare la squadra amministrativa, rendendola ad un tempo coesa e aperta verso le competenze esterne. Per ottenere ciò servono riunioni periodiche tra un ministro assiduo e regista e i vertici del ministero, finora mai avvenute.
In tempi di vacche magre non vi sono risorse per la cultura, pensano i più; come se la cultura servisse ancora soltanto ai piani alti della società, come avveniva nel mondo industriale, quando primeggiavano i borghesi. Ma nel mondo post-industriale e del terziario, il sapere è collegato strettamente al fare, per cui la cultura serve anche ai piani intermedi della società, all'intero ceto medio. È oggi immaginabile uno sviluppo che non sia anche crescita della ricerca e della cultura? Ecco il rivolgimento che è chiamato a compiere questo governo di meritevoli: integrare beni e produzioni culturali nella strategia principale del Paese. Invece di vantare l'assurdo 75 per cento dei beni culturali mondiali e di discettare della cultura come «volano» dell'economia, delineiamo un grande progetto di sviluppo che includa la cultura e attuiamo qualche impresa, esemplare e concreta. Occorre spiegare agli italiani come il ministero, più che un ostacolo, sia un mezzo per progettare uno sviluppo compatibile della patria, che non dissipi i beni pubblici e li trasmetta ai figli. Se la valorizzazione del patrimonio deve essere innanzitutto storica e artistica, non servono cifre enormi: per didascalie che raccontino i contesti delle opere mobili e che facciano apprezzare quelle immobili; per portali informatici che raccontino città, campagne, la patria tutta, che ancora mancano. Mostrare singoli feticci o cumuli di capolavori, senza ricerca e racconto alcuno, significa intrattenere diseducando. In tempi di penuria tutto deve essere finalizzato a un progetto, unendo i mezzi dello Stato, degli enti locali e dei privati, condividendo progettazioni, iniziative e gestioni. Bisogna imparare a valutare il piccolo ma utile, come aggiustare una gronda a Ercolano, che notizia non fa ed evita un disastro. Alcuni problemi da affrontare? L'Aquila: dove bisogna tornare a una gestione normale; Pompei: troppe api intorno al miele europeo e tra queste la costosa Invitalia, per cui barra dritta seguendo il progetto varato dal ministero; la grande Brera, che è senza un euro e ne servono 150 milioni, per non dire della ristrutturazione e dei debiti degli archivi, del museo di Reggio da finir di pagare...
Signor ministro Ornaghi, le auguro buona fortuna. Il Consiglio superiore è un grande deposito di esperienze e pareri e da esso può attingere prima di prendere decisioni. Generalmente è stato negletto.
Presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali